NOVENA AI SS. SIMONE E GIUDA (Inizia il 19 ottobre, festa il 28 ottobre)

NOVENA AI SS. GIUDA E SIMONE

(inizia il 19 ottobre, festa 28 ottobre).

[G. Riva: il Manuale di Filotea, XXX Ed. – Milano, 1888]

I. Glorioso S. Simone, che, chiamato da Gesù Cristo medesimo all’apostolato, vi distingueste per modo col vostro impegno nel sostenere la sua causa e nel predicare la sua legge da essere soprannominato lo zelante, titolo che sempre più vi meritaste allorquando percorreste evangelizzando, non solo l’ampia terra d’Egitto, ma anche le vaste provincie dell’Africa, ottenete a noi tutti la grazia di zelare sempre nella nostra vita la pura gloria di Dio coll’adoperarci nel miglior modo per la salute dei nostri prossimi. Gloria.

II. Glorioso S. Giuda, che, dopo avere in compagnia di Gesù Cristo indefessamente travagliato a predicare nella Palestina il regno santo di Dio, portaste la luce del suo Vangelo in tutta quanta la Mesopotamia, e la diffondeste in tutti i popoli, e la tramandaste a tutti i secoli colla lettera da voi indirizzata a tutti quanti i fedeli per premunirli contro la seduzione dei falsi sapienti del secolo, ottenete a noi tutti la grazia di praticare sempre con esattezza tutti i doveri del nostro stato, e di tenerci sempre immobili nella fede di Gesù Cristo, malgrado tutti gli scandali del mondo sempre corrotto e corrompitore. Gloria.

III. Gloriosissimi Apostoli Simone e Giuda, che, dopo avere in diverse provincie travagliato per ben trent’anni alla diffusione dell’Evangelo vi trovaste per divina disposizione simultaneamente nella Persia, onde consumarvi il vostro sacrificio, l’uno tagliato in mezzo dai denti di una sega, l’altro decapitato con un colpo di scure, dopo avere ammutoliti gli oracoli colla vostra presenza, illuminati i fedeli colla vostra predicazione, e convertito un intero esercito colle vostre profezie, ottenete a noi tutti la grazia di essere sempre disposti a confessare anche col sangue la nostra fede, dopo di averla costantemente glorificata colla santità delle nostre opere. Gloria.  

LA GRAZIA E LA GLORIA (37)

LA GRAZIA E LA GLORIA (37)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. – IL MERITO COME PRIMO MEZZO DI CRESCITA

CAPITOLO V

Alcuni chiarimenti sulla necessità della grazia per il merito.

1. La dottrina cattolica ci insegna che non c’è merito se non attraverso la grazia. Questo è ciò che abbiamo sufficientemente dimostrato quando abbiamo ricordato le condizioni universalmente richieste in tutte le scuole e da tutti i Dottori (Suppl. T. VII). Ma questo crea anche una difficoltà. Infatti, quale potrebbe essere l’influenza della grazia divina su un’azione comune e semplice come un atto di cortesia, una moderata ricreazione, in un figlio di Dio? È necessario che lo Spirito Santo sia presente per illuminare la sua mente e muovere il suo cuore, e non è sufficiente la volontà naturale diretta dalla retta ragione? E qui, sembrerebbe ci sia un’azione meritoria secondo noi, fatta senza la grazia. – A queste domande più di un illustre teologo ha risposto che in realtà alcuna influenza attuale della grazia sia assolutamente richiesta perché gli atti di questo genere rientrino tra i meriti di un uomo giustificato (Domin. Soto qui Conc. Trid. interfuit. De natura et gratia, L. III, c. 4). Ma pur mantenendo la loro dottrina, respingono ben lungi l’accusa di pelagianesimo che viene loro rivolta. E certamente, tra le idee di Pelagio e il loro sentire ci sono degli abissi. Cosa sosteneva Pelagio? Che le forze della natura siano pienamente sufficienti a dare ai nostri atti il premio di cui la gloria è la ricompensa. E questi teologi, invece, cosa dicono? Le nostre azioni moralmente buone acquistano questa incomparabile dignità solo a due condizioni: la prima è che chi le compie sia figlio di Dio per partecipazione della sua natura, e di conseguenza porti in sé la Trinità, come in un santuario vivente; la seconda, che l’azione presupponga la grazia santificante, attraverso la quale la carità divina siede come padrona al vertice delle facoltà umane. È questa, chiedo, l’eresia di Pelagio, o non è forse la solenne affermazione della necessità della grazia più eccellente per ogni azione meritoria davanti a Dio? – Inoltre, quando negano la necessità di un soccorso esterno che debba prevenire ogni singolo atto perché sia meritorio, questi teologi non sostengono affatto che la sola grazia santificante sia sufficiente al giusto. Ciò significherebbe andare troppo direttamente contro gli insegnamenti più evidenti della nostra fede. Affinché il peccatore, una volta giustificato, possa resistere ai pressanti attacchi del nemico, per l’adempimento di tutti i comandamenti divini, in una parola, perché egli perseveri e si conservi nell’amicizia divina. ha bisogno, oltre che della cooperazione generalmente richiesta per tutti gli atti della creatura, di un’assistenza speciale da parte di Dio. Tali sono, dopo la caduta originaria, le tenebre diffuse sulla nostra intelligenza, la debolezza e l’incostanza della nostra volontà; tale anche gli assalti frequentissimamente rinnovati della concupiscenza, del mondo o del demonio, che se lo Spirito di Dio non venisse a illuminare la nostra ignoranza, a rafforzare la nostra infermità, a scuoterci dal nostro torpore, la vita soprannaturale si indebolirebbe presto e si spegnerebbe in noi (cfr. L. III, c. 5). « Per questo motivo – dice San Tommaso, trattando questo argomento – è opportuno non solo per i peccatori, ma anche per coloro che la grazia ha reso figli di Dio, ripetere la preghiera del Signore: « Non lasciateci soccombere alla tentazione, etc. … sia fatta la vostra volontà sulla terra come in cielo » (S. Thom., 1. 2, q. 109, a. 9 e 10; Sum. c. Gent, L. III, c, 156).  Ma si guarda bene dal rivendicare queste luci ed ispirazioni dall’alto per ogni singola nostra operazione meritoria, senza escludere le più facili e semplici. L’aiuto particolare che egli chiede oltre alla grazia santificante con le virtù, i suoi annessi, e il moto generale senza il quale nessuna causa creata può compiere il suo atto, non è tanto una grazia elevante quanto una grazia medicinale. Non è, infatti, uguale il caso dell’uomo giustificato a quello del peccatore. e l’errore di molti teologi è quello di applicare al primo ciò che si dice solo dell’ultimo. Leggo nei Concili che, « senza l’ispirazione preveniente e l’assistenza dello Spirito Santo, l’uomo non può credere, sperare, amare, pentirsi »; … far nulla, in una parola, che lo disponga alla salvezza (Concilio Tridentino, sess. VI, can. 3; capp. 5 e 6). Ma, come si vede, tutti i testi in cui si richiedono queste eccitazioni e questi tocchi dello Spirito Santo per ciascuno degli atti in particolare, parlano del peccatore che si prepara alla giustificazione, cioè di colui che non porta ancora in sé né l’essere né i principi soprannaturali. – Non ignoro neppure il canone del Concilio di Trento, che anatematizza chiunque dica che un uomo giustificato possa, senza uno speciale aiuto di Dio, perseverare nella giustizia che ha ricevuto, o che non lo possa con Lui (Conc, Trid., sess. VI, can. 22; col, cap. 13). Ma l’aiuto speciale è qui richiesto solo per la perseveranza. È come se il Concilio avesse detto: Né la grazia né le virtù infuse che costituiscono lo stato di giustizia sono sufficienti all’uomo per evitare ogni caduta e per rimanere saldo nell’osservanza dei precetti divini e nella carità. Cosa si intende per aiuto speciale di cui si parla nel canone conciliare?  Per chi conosce la terminologia teologica in uso all’epoca, non ci sono dubbi: si tratta di un’illuminazione della mente, di un’eccitazione della volontà, di un’ispirazione dello Spirito Santo che ci risveglia e ci aiuta a superare una tentazione o a compiere un dovere più difficile; perché la perseveranza si ottiene a questo prezzo. Ma notiamo ancora una volta, il santo Concilio non dice affatto che l’assistenza indispensabile per la perseveranza, lo sia anche per ogni atto meritorio singolarmente considerato. Domenico Soto (De nat. et gratia, L. III, c. 4) sottolinea felicemente la stretta analogia che lega due opinioni apparentemente molto diverse. « Gregorio da Rimini – egli dice – e Capreolo, hanno immaginato che, secondo San Tommaso, un uomo che non abbia la grazia (santificante) non possa, senza un aiuto speciale da parte di Dio, fare alcuna azione moralmente buona; da qui la conclusione logica che, secondo lo stesso santo Dottore, sia necessaria anche un’assistenza speciale per ogni opera meritoria, anche quando si è in grazia. Ma noi, che teniamo (e molto giustamente) il sentimento contrario, per quanto riguarda gli atti moralmente buoni, lo riteniamo anche (de peritorum censura) per quanto riguarda gli atti meritori, cioè che non sia richiesta, oltre alla grazia, un aiuto speciale per ciascuno di essi, e questa è l’opinione che sembra di gran lunga preferibile a Cajetano, nel suo commento a S. Tommaso – 1. 2, q. 109, a. 10″).

2. – Certamente la soluzione, così come l’ho appena presentata, ha un valore. Ma diventa molto più chiara se ci riferiamo a ciò che abbiamo stabilito quando abbiamo parlato delle virtù morali. Dio Nostro Signore non potrebbe essere meno liberale nei confronti della vita soprannaturale di quanto lo sia nei confronti della vita razionale. Se, dunque, non c’è alcun tipo di atto moralmente buono a cui non corrisponda una qualsiasi delle virtù acquisite, non ce ne devono essere altri che non rientrino nelle virtù infuse soprannaturalmente. Se negate questo, rimpicciolite il cuore di Dio: perché non è forse un rimpicciolimento fargli rifiutare nell’ordine della grazia ciò che concede così largamente alla natura? (cfr. L. III, c. 3) Pertanto, le parole del Dottore Angelico con cui abbiamo concluso il capitolo precedente: « … le virtù abbracciano tutto ciò che può essere il bene dell’uomo », valgono per le virtù infuse ancor più che per quelle naturali. – Da qui questa bella dottrina che trovo altrove nelle opere di San Tommaso. Egli doveva dimostrare l’esistenza delle virtù infuse e poneva l’obiezione che « l’atto di virtù acquisita può essere meritorio della vita eterna per il fatto stesso che è informato dalla grazia ». Ascoltiamo la risposta: « Poiché non ci può essere merito senza la carità, l’atto di una virtù acquisita (per esempio il pagamento di un debito di giustizia) non può essere meritorio senza la stessa carità. Ora, con la carità tutte le altre virtù sono infuse; quindi, l’atto di virtù acquisita è meritorio solo per mezzo della virtù infusa. Infatti, affinché una virtù ordinata per sua natura a un fine inferiore possa produrre un atto ordinato a un fine superiore, ha bisogno di una virtù superiore che la nobiliti e la elevi » (De virtut. in comm:, q. un., a. 10, ad 4). La grazia non distrugge la natura e la virtù divinamente infusa non sopprime quella naturalmente acquisita. Se si aggiunge la grazia alla natura, si ottiene un essere soprannaturale e divino: unite in uno stesso principio prossimo, la volontà, la virtù naturale e la virtù infusa, e potete avere l’atto soprannaturale e meritorio, senza bisogno di un ricorso perpetuo alle grazie prevenienti e speciali. – Ciò che, temo, fa esitare di fronte ad una dottrina così chiara è che, stabilita l’esistenza delle virtù infuse, si dimentichi che esse siano una grazia superiore agli aiuti transitori, e soprattutto che costituiscano dei principi superiori di azione. Tutto ciò che le Sacre Scritture, i Padri e i Concili hanno insegnato sulla necessità della grazia per le opere sante, è inteso come grazia attuale; come se, nell’uomo giusto, le abitudini infuse non integrassero in modo sovrabbondante gli aiuti transitori concessi al peccatore in vista delle azioni salutari. Leggiamo che le virtù sono date all’uomo per agire in modo connaturale nell’ordine divino; e questa espressione, di per sé molto corretta, sembra aver perso la sua vera interpretazione. Con la virtù io agisco in modo connaturale, perché porto immanentemente e permanentemente dentro di me il principio integrale del mio atto; con la grazia puramente attuale non agisco più in modo connaturale, perché il principio che rende salutare la mia azione, mi giunge da un’influenza esterna e transitoria. – Per riassumere in poche parole: le opere dei giusti, non solo quelle che vanno più dritte a Dio, ma anche le più umili, che dipendono dalla grazia e sono in tutta verità « dona Dei, doni di Dio », sono tali, dico, perché partono da un’anima divinizzata dalla grazia e dalla dimora in permanenza dello Spirito Santo; da una volontà in cui la carità risiede come regina e che le opera con delle forze soprannaturali: le virtù divinamente infuse. Cos’altro servirebbe per verificare tutti i requisiti della dottrina cattolica? Confesso che non lo so, e molti altri non lo sapevano prima di me (vedi l’Appendice 10).

LA GRAZIA E LA GLORIA (38)