LA GRAZIA E LA GLORIA (36)

LA GRAZIA E LA GLORIA (36)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. – IL MERITO COME PRIMO MEZZO DI CRESCITA

CAPITOLO IV

Il ruolo della carità nel merito e la sua compatibilità con la dottrina esposta in precedenza.

1. Se c’è una cosa che stupisce è vedere teologi che, come il Dottore Angelico, estendono così ampiamente la portata del merito, con poche eccezioni, da reclamare per gli atti meritori una condizione che altri non considerano necessaria per il merito ristretto che essi insegnano. Chiedete a questi ultimi quali siano le condizioni sufficienti per un’opera meritoria. Vi rimanderanno a quelle che abbiamo elencato nel secondo capitolo di questo libro, e non ne vogliono altri. Interrogate ora S. Tommaso e la maggior parte di coloro che lo hanno seguito; li sentirete affermare la necessità della carità per qualsiasi atto di merito. La carità è la forma che conferisce alle virtù il loro carattere meritorio e la loro perfezione: se essa non è là ad ordinare le nostre azioni più sante verso lo scopo finale della nostra vita, queste azioni possono anche essere buone, ma non hanno alcun valore per il cielo. A volte sembra che essi non attribuiscano che alla sola carità il potere e il diritto di acquisire la sostanziale ricompensa che ci è stata promessa: tanto essi esagerano il suo ruolo, e sembrano sminuire nei suoi confronti il ruolo delle altre virtù. – Io non propongo nulla che non possa essere facilmente provato da cento testimonianze; e queste testimonianze sono supportate da ragioni che sono convincenti per questi stessi autori. « Il primo principio del merito è la grazia santificante, ma la carità è il principio prossimo. Ecco perché le opere dei giusti sono meritorie di un merito di condignità (ex condigno) solo nella misura in cui la carità le rapporti a Dio. » È in questi termini che Gregorio di Valencia, spiegando il proprio pensiero, riassume anche la teoria dell’Angelo della Scuola (Gr. a Valentia, l. jam cit.). – E di certo non si sbagliava nell’apprezzare questo insegnamento magistrale. Una prova inattaccabile è la risposta del grande Dottore ad una domanda capitale in questa materia. È vero che la grazia sia un principio di merito per la carità, molto molto più (principalius) che per le altre virtù? – Sì – dice San Tommaso – il primato del merito deve essere attribuito alla carità. La grande ragione che egli adduce è che la vita eterna consiste nel godimento di Dio; ora, il movimento e come il volo dell’anima umana verso il godimento del Bene sovrano è l’atto proprio della carità. Ad essa sola appartiene il tendere direttamente verso l’ultimo fine, perché essa sola lo raggiunge per riposare in esso. Se gli atti delle altre virtù sono orientati dai loro fini particolari verso questo fine supremo, è sotto il suo impero e grazie alla sua direzione (per andare a Dio e condurci a Lui, i nostri atti devono essere fatti per Dio “propter Deum“: ora, essi hanno questo non per loro natura, ma per la carità. S. Thom, de Carit, q. un., a. 5). In ogni ordine in cui diverse operazioni concorrono in qualche modo allo stesso fine, spetta alla potenza che mira direttamente all’ultimo fine coordinare tutto in vista di questo fine. Così, in ogni essere ragionevole l’appetito inferiore deve sottomettersi al governo della ragione, pena l’insorgere di gravi disturbi nella vita morale; così, in un esercito che va in battaglia, ci deve essere un Comando Superiore che riunisca tutte le energie individuali e tutti gli elementi che lo compongono, verso la meta suprema che è la vittoria. Qualunque sia la bravura dei soldati, la devozione e l’abilità dei capi subalterni, dove questa direzione manca, ci possono essere battaglie parziali più o meno vittoriose, ma nessun trionfo finale. – L’uomo, soprannaturalizzato dalla grazia, è fatto per marciare alla conquista di Dio. Il suo esercito è composto dalle facoltà e dalle virtù di cui la munificenza divina lo ha ampiamente dotato. Se non volete che questo esercito lavori invano, essendo ciascuna delle sue forze vitali confinata, per così dire, al perseguimento del suo oggetto particolare, dategli come sovrano la carità: perché, ancora una volta, è la carità che persegue immediatamente il fine supremo verso il quale tutta la nostra vita deve convergere (S. Thom, 1. 2, q. 114, a. 4; Col. 2, 2, q. 23, a. 7; de Carit, q. un., a. 5, ecc.). – È in questo senso che l’Apostolo, nel suo mirabile panegirico fatto della carità, l’ha raffigurata con la scorta di tutte le virtù: così incorporata, per così dire, con ciascuna di esse, che i loro atti diventano come le sue opere (I Cor. XIII, 4-8). Tutti i nemici di essa, non sono gli avversari di ciascuna delle altre virtù; ma queste non hanno nulla che non sia suo, diventando loro. E, per dirla di sfuggita, questo è il motivo per cui ogni colpa grave, qualunque sia la virtù particolare che attacca, colpisce la carità nel cuore. In quanto regina, prende come proprie sia le opere che le offese di coloro che la seguono (S. Thom, De Carit., q. un., a. 5, ad 7 e 8); ed è questo che fa sì che le prime portino a un aumento della vita spirituale, e le seconde ad un fallimento o alla morte. La dottrina che ho appena riassunto, secondo i nostri grandi teologi scolastici, questi l’avevano appresa dalle Scritture e dai Padri. A sostegno di ciò, l’Angelo della Scuola cita queste parole del Maestro: « Se uno mi ama, sarà amato dal Padre mio e Io lo amerò e mi manifesterò Io stesso a lui » (Gv. XIV, 21): per questa manifestazione, la ricompensa della carità è la vita eterna. Così eccellente è la carità tra tutte le virtù, che essa è la prima, se non l’unica, a trionfare (1 Cor., XIII, 8-10, 43). La fede, questa virtù eccelsa, merita, senza dubbio, ma a condizione che operi attraverso la carità (Galati, V, 6). Perciò, se non avete in voi la carità, tutti i vostri atti più virtuosi, dal punto di vista del merito, non sono nulla (1 Cor., XIII, 1-4.). « Quale verzura – si chiede San Gregorio – potrà avere il ramo di un’opera buona se non ha come radice la carità? » (San Gregorio M., hom. 7, in Evang.). «Tutte le virtù senza la carità sono nulle; e per quanto perfetta possa essere una virtù morale, essa è infeconda se il suo frutto non ha per madre la carità », dice il grande San Leone. (S. Leo. M., serm. 47, de quadrag. 10, c. 3.). Invocherei l’autorità di S. Agostino, se tutti non conoscessero il ruolo preponderante che egli attribuisce alla carità nell’ordine del merito, al punto da aver fatto credere ad alcuni teologi, a torto è vero, che la sola carità sia per lui tutto il nostro merito.

2. – Dopo quanto abbiamo appena detto, possiamo comprendere perché i teologi e gli autori ascetici abbiano chiamato virtù quelle che non siano unite nell’anima alla carità, virtù informi; o, il che equivale alla stessa cosa, come la carità divina sia la forma delle virtù. Queste parole hanno un significato perfettamente determinato. La virtù formata è la virtù nella sua perfezione finale, mentre la virtù è informe quando manca della stessa perfezione: perché la forma è ciò che dà ad ogni cosa il complemento che le è appropriato. Da qui le espressioni teoria informe, blocco informe e mille altre dello stesso tipo. Ora, quando si tratta di atti considerati dal punto di vista morale, è dall’ordinarsi verso il fine che dipende in gran parte la loro perfezione. Fate l’elemosina per aiutare un fratello e per l’amore di Dio, Padre comune dei bisognosi e dei ricchi: nulla di più lodevole. Ma la stessa elemosina sarebbe cattiva se fosse data con l’intenzione perversa di spingere un disgraziato al crimine. Da qui il principio: « Nelle cose morali, ordinare un atto verso il fine significa dargli la sua forma. In moralibus id quod dat actui ordinem in finem dat ei formam » (S. Thom., 2. 2, q. 25, 2. 8). Pertanto, poiché appartiene alla carità l’ordinare non solo i propri atti, ma anche quelli di tutte le virtù, al fine generale e finale di ogni uomo e di tutto il genere umano, cioè a Dio, bontà suprema, è manifesto che essa sia la forma delle virtù. Infatti, le virtù sono formate in sé stesse da ciò che le rende capaci di produrre degli atti formati (Id., ibid.). Ma non fraintendiamo il significato della nostra formula, immaginando la carità come un elemento intrinseco e costitutivo delle virtù che informa. No, la distinzione rimane intera. Ognuna di esse conserva la propria natura specifica e il proprio fine. Ciò che deriva dalla carità è, come detto, un orientamento più alto e più perfetto, e l’efficacia che rende l’atto delle virtù inferiori un merito nel senso proprio. Pertanto, per virtù formate intendiamo quelle virtù che sono strumento di merito, e per virtù non formate quelle che, data l’assenza della grazia e della carità, sono radicalmente impotenti a produrre atti meritori davanti a Dio (Possono esistere vere virtù senza carità? Sì e no. Sì, se è sufficiente che una virtù sia vera per tendere a un oggetto che sia un vero bene, come sarebbe un atto di giustizia; no, se intendiamo per vera virtù quella che non si ferma al bene particolare, ma si spinge fino al Bene supremo dell’uomo. Quindi la scienza perfetta è tale solo quando si basi sulla conoscenza sicura dei principi primi – S. Thom., 2. 2, q. 23, a. 7).  Così, in ciascuna delle virtù meritorie c’è una doppia forma: una forma particolare che le costituisce nel loro essere specifico; una forma più generale, ma esterna, che le completa e le perfeziona: quella venendo loro dal proprio oggetto e fine speciale, e questa dall’ultimo fine attraverso la carità. – Per questo, dice l’Angelo della Scuola, « la carità entra nella definizione di ogni virtù, non in quanto tale, ma in quanto meritoria » (S. Thom, de Carit., q. un., a. 3, ad 1, 3, ecc.). Ma se la carità non è una forma informante, cos’è dunque? Essa è per analogia la forma esemplare e la forma efficiente delle altre virtù: efficiente, in quanto le rende meritorie e perfette; esemplare, perché, impadronendosi delle loro operazioni per ordinarle al fine che esse perseguono in proprio, dà loro con questa non so quale somiglianza e quale aria familiare (1d., ibid., ad 15; 2, 2, q. 23, a.8, ad 1.). – Pertanto, questo non impedisce che la carità sia formata a sua volta dalla grazia. Consultiamo nuovamente il nostro Dottore su questo punto. Egli ci dirà « che la grazia e la carità sono la forma delle virtù, ma in modo diverso. La carità è la forma delle virtù dal punto di vista operativo, perché le convoca, per così dire, con tutti i loro atti, al perseguimento del suo fine. E la grazia è la loro forma dal punto di vista dell’origine: perché è dalla grazia che emanano con la carità come dal loro principio comune. Ora, ciò che scaturisce da un principio riceve la sua forma e la sua natura da esso, e conserva la sua vitalità nativa solo nella misura in cui aderisce a questo stesso principio » (S. Thom, II D. 26, q. 1, a. 4, ad 5; col. di Virtut. in communi, q. 2, a. 3, ad 2.). Queste considerazioni ci portano a comprendere anche come la grazia e la carità siano, ciascuna in modo diverso, madre e radice delle virtù. La grazia è madre, poiché è essa che, sotto l’influsso dello Spirito Santo, concepisce le virtù e ne conserva l’essere; radice, poiché queste stesse virtù devono continuamente attingere da essa. La carità, da parte sua, è anche madre e radice: infatti, sebbene gli atti delle altre virtù non provengano fisicamente da essa, è tuttavia attraverso di essa che la grazia stimola queste virtù a produrle e conferisce loro questa direzione verso il fine ultimo, che è il carattere indispensabile di ogni merito propriamente detto. Si ricordi che Rachele diede figli a Giacobbe da Balam, sua serva (Gen. XXX, 1-7). – Cfr. S. F. de Sales, Trattato dell’amor di Dio L. XI c. 11), e si potrà concepire, se non mi sbaglio, un’idea più esatta di questa maternità generale: della carità che fa i propri atti che non escono da essa.

3. – Cerchiamo ora di conciliare questa dottrina con quanto detto nel capitolo precedente sul merito universale delle opere moralmente buone, quando però l’agente che le compie è un figlio adottivo di Dio per grazia. Sarà necessario che ogni azione compiuta dal giusto sia accompagnata da un atto di carità che la comandi e la coordini con il fine ultimo; sarà necessario, almeno, che gli atti d’amore di Dio siano ripetuti abbastanza frequentemente perché rimanga in essi un “non so che” di cui l’anima, al momento dell’azione, sperimenta l’influenza reale e positiva influenza? Diciamolo forte e chiaro: tali richieste, anche se si trovano in alcuni autori generalmente inclini al rigorismo, non sono fondate. Inoltre, l’Angelo della Scuola ed i molti illustri teologi che lo hanno seguito, pur mantenendo il privilegio della carità, sono lontani da tali esagerazioni. Cosa chiedono essi in effetti? Un orientamento di tutte le nostre opere moralmente buone che, secondo loro, si trova ovunque regni la grazia santificante. La grazia che ci rende figli di Dio ci orienta verso di Lui nel nostro essere; spetta alla carità operare la stessa conversione nella nostra attività vitale. In che modo lo farà? Impariamo questo da un bellissimo commento di San Tommaso d’Aquino su queste parole dell’Apostolo: « Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio » (1 Cor. X, 31). Agire per la gloria di Dio, riferire a Lui le sue opere, è la funzione propria della virtù della carità. « Ora, non è più possibile in questa vita rapportare tutto attualmente a Dio, più di quanto sia in nostro potere il pensare sempre a Dio: questa è la perfezione della patria. Ma riferire virtualmente tutto a Dio è la perfezione della carità, che è strettamente obbligatoria per tutti. – « Per comprendere questa dottrina, dobbiamo considerare che se la virtù della causa prima rimane nelle cause subordinate, l’intenzione del fine principale rimane virtualmente anche in tutti i fini secondari; ed è per questo che chi persegue un fine secondario, per il fatto stesso di dirigere virtualmente la sua intenzione verso il fine principale…  Quando, dunque, l’uomo si è ordinato egli stesso a Dio, per quanto riguarda il suo ultimo fine, l’intenzione di questo fine, che è Dio, bontà sovrana, rimane virtualmente in tutto ciò che egli fa per se stesso; e, quindi, può meritare in tutte le cose, se ha la carità. Ed è in questo senso che l’Apostolo ci impone di rapportare tutto alla gloria di Dio » (S. Thom, De Carit, q. un., a. 1, ad. 2). – Citiamo un altro passo dello stesso Dottore. Perché un atto sia meritorio in chi possiede la carità non è necessario che lo si riporti attualmente a Dio, ma è sufficiente che si riporti attualmente ad un fine adeguato e che questo fine sia legato a Dio in modo abituale (habitu). – (Come si può notare da questo passaggio, i termini ordinazione, relazione virtuale, non hanno in San Tommaso il significato attribuito loro dai teologi più moderni. Per questi ultimi, l’atto praticamente rapportato alla gloria di Dio, fine della carità, deve dipendere, almeno mediatamente, da un atto anteriore di carità, talmente che non lo potrebbe, se l’influenza di questo atto anteriore fosse totalmente assente. Per San Tommaso, è sufficiente per la relazione virtuale che il fine particolare, oggetto dell’atto, si armonizzi con il fine ultimo, e che l’agente rimanga abitualmente ordinato verso questo fine della carità). « Per esempio, consideriamo un Cristiano che voglia fare un pellegrinaggio in onore di Dio.  Se, a questo scopo, compra un cavallo, senza pensare a Dio, ma preoccupandosi solo del viaggio che ha preordinato in anticipo per la gloria di Dio, l’acquisto è meritorio. Ora, chi ha la carità nel cuore, ha ordinato la sua persona e tutto ciò che dipende da lui verso Dio (omnia sua); infatti si è legato a Dio come fine ultimo. Pertanto, qualsiasi cosa faccia per sé o per gli altri, nel proprio interesse o a beneficio di coloro che ama, la fa con merito, anche se non ha Dio in vista in quel momento, a meno che non ci sia un disordine nel suo atto che gli impedisca di essere riferito a Dio. E poiché questo disordine non può stare senza un peccato almeno veniale, ne consegue che ogni atto, una volta che si abbia la carità, è o merito o peccato » (S. Thom., de Malo, q. 2, 5, obi. 1l cum. Sol.). Non mi dite che si tratti di testi isolati, che non rappresentino l’intero pensiero dell’Angelo della Scuola. Oltre al fatto che egli non ha l’abitudine di parlare con leggerezza e di contraddirsi, insiste in mille punti sulle stesse idee, tanto sono chiare e certe per lui (Vid. ad es.: II. D. 40, q. 4, a. 5, ad 7; coll. 2. 2; q 24, a 8; 1, 2, q. 88, a. 2, ad 2). – Quindi, per riassumere tutto in due parole, se volete che tutte le vostre opere libere, tutte, dico, senza eccezione, siano meritorie davanti a Dio, diventate o restate figlio di Dio per grazia; e per la carità, ordinatevi con tutto ciò che siete, con tutto ciò che avete e con tutto ciò che fate, alla gloria di Dio, il vostro fine ultimo; poi, non ammettete nessun atto che sia ribelle a questo ordinamento universale di voi stessi, cioè nessun fine particolare che non possa essere coordinato con la vostra intenzione generale: questo basta a far rientrare tutta la vostra vita morale nel dominio della carità e a renderla meritoria davanti a Dio.

4. – È giunto il momento di chiarire alcuni dubbi che presenterò sotto forma di domande. Come può questa relazione virtuale dei nostri atti essere in grado di renderli meritori, dal momento che è fondamentalmente una relazione puramente abituale, e dal momento che, inoltre, quest’ultima è agli occhi del nostro santo Dottore assolutamente insufficiente per il merito? Per avere una soluzione chiara e definita, dobbiamo innanzitutto dare ai termini il loro significato preciso: perché essi abbiano in San Tommaso il significato attribuito loro dalla maggior parte degli autori più moderni. Per lui, c’è un’intenzione abituale dell’ultimo fine per il fatto stesso che si porta la grazia nell’anima e la carità nel cuore. Ecco, ad esempio, un uomo giusto che dorme, o che è colpevole di una colpa lieve; questo uomo giusto è di solito ordinato verso Dio (S. Thom., de Carit., q. un., to. 11, ad 3). Cosa deve fare perché questa conversione diventi virtuale ed un principio di merito? Un atto di carità? No: è sufficiente che agisca e che la sua operazione sia buona, cioè in grado di relazionarsi con il fine abituale dell’agente, in altre parole, col fine ultimo, alla gloria di Dio. « Capita spesso che un uomo non riesca a mettere in relazione l’atto che compie con Dio al momento attuale, anche se questo atto non contiene alcun disordine che possa impedire questa relazione; e non è detto che l’atto non sia buono. In questo caso, poiché l’anima è abitualmente ordinata verso Dio, come verso il suo ultimo fine, questo atto non solo non è colpevole, ma è anche meritorio » (S. Thom… de Malo, – q. 9 a. 2). Accade che la relazione che rimane puramente abituale, finché l’anima sia inattiva, diventa virtuale, per il fatto stesso che la volontà si determini all’operazione se, tuttavia, nell’agire, essa non vada contro l’ordine divino. Ora, poiché lo stato di grazia non si trova mai senza questa conversione abituale dell’anima verso Dio, che si consuma nella carità, da questo ne consegue che il santo Dottore a volte richieda solo la presenza della grazia per rendere meritorie le nostre opere. – È necessario ripetere spesso questa generale offerta di sé all’onore di Dio? Ecco la risposta, unita nella stessa sequenza con la soluzione del dubbio precedente. « Non è sufficiente per il merito avere un ordinamento abituale di tutto il nostro essere verso Dio: perché ciò che è puramente abituale non può essere meritorio ». (Il santo Dottore vuol dire che non è sufficiente avere in sé la grazia e la carità per il merito, benché siamo abitualmente orientati a Dio: perché in questo stato si può o non agire, o anche peccare venialmente, come notato in altra parte; cosa che ovviamente non è un merito).  D’altra parte, non è necessario che un’intenzione attuale, che rapporti al fine ultimo, debba sempre accompagnare i nostri atti di tendenza verso un fine prossimo. Che cosa è necessario fare dunque? Che tutti i fini secondari siano a volte rapportati attualmente al fine ultimo della nostra vita, come accade quando noi ci consacriamo all’Amore divino. Infatti, una volta supposta questa consacrazione di sé, tutto ciò che l’uomo ordina al proprio bene viene ordinato verso Dio. Ora, se mi chiedete quando sia necessario mettere in relazione le proprie opere con l’ultimo fine, è come se cercaste di capire quando l’abitudine alla carità debba passare all’atto; poiché questo stesso è ordinare tutto l’uomo al suo ultimo fine, e di conseguenza rapportare alla gloria di Dio tutto ciò che l’uomo ordina a se stesso come suo proprio bene » (S. Thom, in II, D. 40, q: 1, a.5, ad 6). – Concludiamo anche da questo che non tutte le azioni del peccatore siano peccati, anche se non ha nel cuore la carità che lo ordini a Dio, suo fine ultimo. Il peccato per lui sarà non adempiere, nel tempo voluto da Dio, al precetto positivo della carità perfetta (Id., 1-2, q. 100,8. 10.). – Ultimo dubbio e ultimo chiarimento.  Abbiamo detto che l’oblazione generale di tutti noi, contenuta nell’atto di carità, è dovuta al merito delle nostre opere buone, a condizione che questa offerta non venga ritratta da una delle colpe che uccidono la carità nel cuore, cioè da un peccato mortale. Ma cosa accadrebbe se il peccatore che torna a Dio portasse al sacramento della penitenza solo un pentimento imperfetto, cioè un’attrizione? Sarebbe stato giustificato, perché questo pentimento è una disposizione alla grazia, quando è unita alla virtù del sacramento. Ma nell’attrizione non c’è la carità perfetta, e di conseguenza non c’è l’oblazione generale di tutto l’uomo alla gloria di Dio, poiché questa offerta è la natura propria della carità. Dobbiamo ammettere per questo uomo giusto degli atti di virtù che non abbiano valore meritorio, almeno finché non ha infangato il comandamento positivo della carità? Né il Dottore Angelico, né i molti teologi che fanno causa comune con lui, si sono occupati esplicitamente di questo caso singolare. Forse perché lo considerano puramente accidentale. Infatti, l’ordine naturale della giustificazione prevede, al vertice degli atti che la preparano, un atto di perfetto amore (Concil. Trid. sess. VI, cap. 6; col. S. Thom. 1- 2, q. 113, a, 3-6); anche se la virtù del sacramento può supplire alla sua mancanza, e giustificare l’uomo, il peccatore non ha che l’attrizione che ha solo il logorio. Quindi nulla è più facile del passaggio dall’attrizione, che è sufficiente con il sacramento della Penitenza, alla contrizione perfetta, che può giustificare con la semplice volontà di ricevere lo stesso sacramento. E questo non è uno degli errori minori, propagato da teologi più o meno contaminati dal giansenismo, quella di aver reso questa contrizione perfetta un tesoro quasi inaccessibile alla massa dei Cristiani. Posso capire che un uomo il cui cuore è attaccato ad affetti disordinati, un uomo che né le minacce di Dio né le sue promesse siano riuscite a convincere a rompere con i suoi vizi, non ami sovranamente questa bontà onnipotente che egli offende, perché vedo gli ostacoli che gli sbarrano la strada e gli impediscono di gettarsi nelle braccia del suo Dio. Ma perché un peccatore che, attraverso un serio pentimento, quale è l’attrizione, rinunci al peccato per vivere una vita cristiana, dovrebbe esitare ad amare Dio sopra ogni cosa? I suoi rimpianti per il passato, il suo proposito per il futuro, hanno abbattuto tutte le barriere che lo separavano dall’amore. Lo stesso timore del tormento eterno e la speranza dei beni celesti, cioè i due motivi più forti della sua conversione, lo spingono verso l’Amore divino, nulla essendo efficace come questo Amore per evitare l’uno e meritare l’altro. Questo non è l’amore che distacca tutte le anime penitenti dal peccato; ma, a mio avviso, una volta effettuato questo necessario distacco, l’amore in atto si fa strada nei cuori. – Inoltre, in ogni virtù, come in ogni facoltà dell’anima umana, c’è la tendenza ad affermarsi con gli atti. Come possiamo credere che la carità, penetrando in un cuore con la grazia santificante, sia molto lenta a rivelarsi lì con qualche operazione? La immaginate come una regina distratta e pigra, che si impossessa del trono dell’anima e non si degni di fare un solo atto di sovranità per riprenderselo? – Ma l’ipotesi, per quanto strana possa sembrare, non è chimerica. Supponiamolo, allora, e chiediamoci cosa accadrebbe alle opere moralmente buone. Sarebbero meritorie, o dovremmo vedere in esse, come accade nello stato di peccato, azioni che sono lodevoli, senza dubbio, ma prive di vero merito? Accettare quest’ultima ipotesi significherebbe, nella fattispecie, andare oltre coloro che ritengono che la tesi dell’Angelo della Scuola apra un campo troppo ampio al merito delle nostre opere: questi, infatti, almeno non negano il valore meritorio di un atto di fede, di speranza o di qualsiasi altra virtù soprannaturale, compiuto in tali circostanze. Cosa fare allora per risolvere questa difficoltà? – Diremo ciò che i teologi dicono dell’atto di attrizione unito alla ricezione del sacramento: sebbene non contenga il movimento perfetto dell’amore, ha la virtù di introdurre la grazia e la carità nell’anima del peccatore. Inoltre, contiene, se c’è una prossima disposizione al loro ingresso, l’intenzione assoluta di adempiere a tutti i comandamenti e, di conseguenza, al più grande e primo di tutti, quello dell’amore di Dio. Di conseguenza, l’oblazione di se stessi, fatta a causa di questo atto, è un equivalente di quella che sarebbe contenuta in un atto esplicito di carità. Di conseguenza, ogni azione contraria alle virtù morali sarà, allo stesso tempo e nella stessa misura, in contrasto con la carità, così come è nell’anima. Pertanto, in virtù dello stesso principio, le opere emanate da queste virtù saranno in necessaria armonia con esso. Cosa occorre ancora perché la carità riconosca queste opere buone come proprie e le porti al suo fine, alla gloria di Dio? Perché voler essere più esigenti da una parte che dall’altra, e chiedere per il bene ciò che non è richiesto per il male? – Non so se sto spiegando il mio pensiero in modo sufficientemente chiaro. Un esempio, preso in prestito nella sostanza da San Francesco di Sales, lo renderà più chiaro. Supponiamo che una banda armata invada una provincia; gli abitanti si alzano prima di ricevere qualsiasi ordine, sicuri di fare cosa gradita al loro principe, e inseguendo l’aggressore lo ricacciano oltre la frontiera. Direte che questi sudditi fedeli non hanno seguito le intenzioni del loro re? Lo stesso vale per le virtù morali. Le loro azioni partono da un cuore in cui regna la carità, anche se la carità non le ha mai espressamente ordinate; appartengono ad essa e compiono la sua opera, e di conseguenza non le sono estranee.  « Se infine – dice a questo proposito il nostro Santo amabile – alcune virtù compiono le loro operazioni senza il suo comando, purché servano alla sua intenzione, che è l’onore di Dio, Egli (il sacro amore) non manca di riconoscerle come sue » (San Francesco di Sales, Trattato sull’amore di Dio, L, XI, c. 4). Ed è per questo che tra tutti gli autori, asceti o teologi, di cui ho invocato la testimonianza dopo quella del Dottore Angelico, non ce n’è uno solo che neghi il valore meritorio di tutte le azioni moralmente buone di un figlio di Dio; tutti, dico, senza alcuna eccezione. Infatti, San Tommaso stesso ci mostra a sufficienza che la nostra soluzione sarebbe anche la sua, quando scrive: « Non è il solo atto di carità ad essere meritorio, ma anche l’atto delle altre virtù, nella misura in cui esse siano informate dalla grazia, sebbene questi atti, per essere meritori, debbano riferirsi al fine della carità. Tuttavia, non è affatto necessario che siano sempre esplicitamente collegate a questo fine; per il merito è sufficiente che siano effettivamente riferite ai fini particolari delle altre virtù. Per esempio, chi desidera essere casto, anche se non ha alcun pensiero di carità, è degno, purché sia in stato di grazia. – Ora, ogni atto che tende ad un oggetto moralmente buono, a meno che la tendenza non sia essa stessa disordinata, ha per fine il bene di qualche virtù, perché le virtù abbracciano assolutamente tutto ciò che può essere il bene dell’uomo » (Thom, II, D. 40, q. 1, a. 5, ad. 3 Altrove il Santo, riferendosi al testo di San Paolo, omne quod non est ex fide, peccatum est, obietta che tutta la vita degli infedeli dovrebbe essere peccaminosa, come tutta la vita dei fedeli è meritoria: « Sed dicendum est quod aliter se habet fidelis ab bonuun, et infidelis ad malum. Nam in homine qui habet fidem formatam nihil est damnationis, ut dictum est, sed in homine infideli cum infidelitate est bonum naturæ. Et ideo cum aliquis infidelis ex dictamine rationis aliquod bonum facit, non referendo ad malum finem; non peccat.  Non tamen opus ejus est meritorium, quia non est gratia informatum ». – S. Thom, in Romani, c. XIV, lett. 3, dove vediamo che secondo lui lo stato di grazia non va senza il merito delle opere, perché l’influsso della carità che esso richiede è assolutamente inseparabile da esso). – Il linguaggio cristiano usa un’espressione molto significativa per caratterizzare il cambiamento che avviene in un’anima quando passa dallo stato di peccato a quello di grazia; lo chiama conversione, perché quest’anima si volge verso Dio, come verso il suo ultimo fine e il suo bene supremo. Così parlano i fedeli, e la teologia ci insegna che la conversione dell’uomo a Dio (conversio hominis ad Deum) che segue l’avversione, ha il suo complemento nella virtù della carità. Così la carità abituale è sufficiente con la grazia per il merito, poiché l’una rivolge il nostro essere verso Dio e l’altra il nostro principio di attività, cioè la nostra volontà. Pertanto, possiamo applicare qui la parola di San Paolo: « Tutte le cose concorrono al bene di coloro che amano Dio. Diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum ». In altre parole: amate Dio, abbiate la carità in voi, e tutto sarà profitto e merito.