IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (3)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (1)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.

NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO TERZO

ARGOMENTO 

L’eccellenza del Paganesimo grecoromano nelle arti dello Stato e della immaginativa non riguarda l’uomo, in quanto tale. Che sia questo pei Cristiani. Ignoranza del Paganesimo intorno a ciò. Ragioni di quella eccellenza. La schiavitudine. Riscontro nella età moderna quanto alla filosofia, ai progressi materiali, al Comunismo. La scienza di Dio ha riempiuto il mondo cristiano.

I. L’avervi ieri, miei riveriti uditori, colla scorta di san Girolamo, adombrato l’antico Paganesimo nel figliuol prodigo, il quale, partitosi dalla casa paterna, ne sperperò malamente il retaggio, e fu travolto nel fondo di ogni miseria, quel paragone, dico, avrà fatto inarcare le ciglia a più d’un lettore assiduo di Cornelio Nipote o di Plutarco, ed ammiratore passionato dei costoro eroi. Come! avran questi certo pensato e detto: come! Non è l’uomo grecoromano il tipo ideale d’ogni grandezza civile? E non fu sommo l’antico mondo romano nelle arti della guerra e della pace, esso che da un pugno raccogliticcio di malviventi e di banditi, seppe costituire il più grande Impero, che fiorisse mai sotto le stelle? E quei senatori, quei giureconsulti, quei consoli, quei tribuni, quei duci, quegli oratori, che furono e sono tuttavia l’ammirazione d’ogni gente colta, ci si vorrà dipingere come un’accolta di malcreati e di mezzo barbari, non degni di altro, che della nostra compassione? Che se la Grecia fu meno audace nelle imprese guerresche, perché turbata troppo da intestine discordie, ed in Alessandro il Macedone mostrò appena quello, che avrebbe potuto con maggiore unità e con ordinamenti più fermi, chi vorrà negarle il primato in ogni arte bella ed in ogni nobile disciplina? Primato non contrastatole da nessun popolo, anche dopo nata la coltura cristiana, la quale, se giunse ad emulare nobilmente quell’antica, pare che sia sfidata al tutto del superarla. E cui mai imiterebbero con maggior laude i nostri pittori e statuari, se non i Greci? E quando un’nostro storico, un oratore, un poeta, un satirico, udisse dirsi di avere raggiunta la venustà greca, il greco tepore o i Sali attici, non si crederebbe di aver proprio tocco il cielo col dito? O non è la polizia e la letteratura del mondo grecoromano…. Ma deh! che serve, signori miei, andare più oltre? voi mi state dicendo quello che tutti sappiamo, quello che è stato dello e ridetto anche troppo, quello che nessuno ed io meno di qualunque altro, non ha mai negato o recato in forse; nel Paganesimo colto cioè, qual fu certo il grecoromano, essersi in maniera squisita possedute le arti del bello, e se volete eziandio essersi non men conosciuta l’arte di soggiogare i popoli, per ingrandire il proprio Impero, e l’arte ancor più difficile di mantenerlo. Ma che vorreste voi conchiudere da tutto questo? Che forse gli uomini, anche più cospicui e più ammirati di quel tempo, non fossero ciechi in quello che loro più caleva di vedere? che non fossero stolidi, bestiali, snaturati, maledetti e reprobi? che insomma non fossero il vivo ritratto del figliuol prodigo, il quale dissipavit substantiam, e morivasi della fame, e disputava agl’immondi animali le ghiande, onde essi, di lui meglio forniti, pur si sfamavano? Oh! perdonatemi se vel dico chiaro: voi discorrereste molto male, quando così pensaste. Poniamo pure che i Pagani avessero potuto, per effetto della loro condizione, conoscere il vero naturale e praticare qualche naturale virtù  il fatto è, che ciò si avverò in casi estremamente rari, non fu mai cosa del popolo, e quel medesimo barlume si ecclissò nell’apice appunto della forbitezza e della potenza; cioè negli ultimi tempi del romano Impero. E se il ciel mi assista, io vi mostrerò che la cecità dei Pagani, nello ignorare ciò che più loro rilevava di sapere, si mostrò tanto più lacrimevole e più sfoggiata, quanto che trovavasi in un mondo così forbito e che sapeva fare e dire con sovrana eccellenza tante altre cose. Da quella malaugurata radice, dell’essersi il genere umano separato da Dio, il primo infelice frutto che germinasse, fu l’avere l’uomo ignorato al tutto sé medesimo. Né sarà questa una sterile speculazione intorno ad una società defunta e della cui vita abbiamo soli testimoni i libri e gli avvanzi ancor maestosi della sua grandezza: no! vi sarà pratica utilità ancora per noi. Che se la società moderna, col separarsi sempre più da Dio, fa rivivere il Paganesimo, voi vedrete altresì, a vostro profitto, che da quella radice è cominciato nel nostro tempo a germogliare pur troppo lo stesso frutto di avere sconosciuto l’uomo in ciò che intrinsecamente lo costituisce. Un soggetto cotanto grave si raccomanda abbastanza di per sé stesso alla vostra attenzione; ed io, senza più, mi vi accosto e comincio.

I . Noi non siamo propriamente uomini, perchè fabbrichiamo, perchè cantiamo, perché scolpiamo, ricamiamo, dipingiamo e facciamo di cento altre cotal belle cose, nel giro della immaginativa e del senso. Tutte quelle belle cose la natura animale, e dico ancora la natura insensata, le fa come noi e meglio di noi, senza che per questo si sia mai sognato nessuno diassociarle alla grandezza e dignità umana. Le api ed i castori fabbricano le loro dimore con tale disciplina e simmetria di arte, che i più valenti architetti vi potrebbero imparare qualche cosa; e per giunta, senza rischio che alle api ed ai castori ruinino in capo le volte, per falliti precetti di statica, come non rade volte interviene a noi. Un canarino, dal corpicciuolo più esile di questo pollice, senza aver mai imparato di crome o di semicrome, e senza alcuno esercizio di solfeggio, vi sfodera trilli e gorgheggi da sbalordirne i più valorosi professori di flauto; e va sì franco, che neppure apprende il rischio di mettere in fallo un diesis od un bémolle. La semplice attrazione moleculare, esplicata nella materia dal principio attivo che la informa, v’impasta, vi simmetrizza ed affaccetta e forbisce un cristallo ancor minutissimo con tanta maestria, che nėssun gioielliere, per isperto ed esercitato che fosse, ne vorrebbe sostenere il paragone; e chi sa quanti di voi, nel levarsi questa mattina, avran trovato l’interno delle loro finestre arabescate tanto leggiadramente dal ghiaccio, che non vi è ago industre di valentissima ricamatrice capace a farne, con tanta perfezione ed in sì piccolo tempo, una millesima parte. Che più? ora che madre natura, vinta alle nostre industrie, non disdegna di copiare sé medesima, e che la luce in persona si piglia spasso di rubare il mestiere ai paesisti ed ai ritrattisti, voi state vedendo solenne maestra che questa si mostra all’opera! Vedute e paesaggi intrigatissimi, ritratti oltre ogni credere malagevoli, e che farebbero l’ambizione e la fama di un pittore, la luce ve li stampa con quant’è volgere il guar do agli originali; e può, multiplicarli a centinaia ed a migliaia, tanto solo che le forniate i semplicissimi appárati fotografici richiesti all’uopo. Sicchè vedete che tutte quelle belle cose ricordate di sopra, benchè riechieggano le facoltà dell’uomo per essere fatte dall’uomo, nondimeno per sè medesime non hanno nulla che fare colla dignità, colla elevatezza, col decoro proprio dell’uomo in quanto tale, potendosi quelle belle cose compiere da esseri che si digradano di smisurato intervallo dall’altezza e nobiltà della nostra natura. E forse che questo medesimo concetto non è suggerito a voi dal senso comune? forse che non lo dite voi nei consueti parlari, senza che per avventura vi abbiate posto ancor mente? Voi del tale o del tale altro dite che è un eccellente poeta, è un eccellente oratore, è un eccellente pittore; ma non per questo solo li qualifichereste altresì per eccellenti uomini: in quanto intendete benissimo, che tutte quelle eccellenze, e qualche altra ancora più splendida e più lucrosa, possonsi trovare in uomini, non pure cattivi, ma pessimi. Per converso, voi intendete ugualmente benissimo, che ad essere eccellente uomo si richiede qualche altra cosa che non è l’essere poeta, oratore o pittore; anzi vi pare evidente che quello possa trovarsi bene senza di questo, essendovi pure degli uomini davvero eccellenti, i quali nondimeno non sanno neppure ove stia di casa la poesia, la retorica o la pittura. Non dite, per vita vostra, miei amatissimi, che io ho dimenticato il mio assunto! Io vi sto anzi, navigando a vele gonfie, e per poco non sono in porto. E non vi accorgete? Quel po’ di discorso dal senso comune basta a gettare per terra tutto il superstizioso pregiudizio che, a favore dell’antico Paganesimo, è prevalso, al vedere l’eccellenza, onde esso primeggiò nelle arti dello Stato, della guerra, della immaginativa e del senso. Laddove Iddio permise, ovvero ordinò forse quella eccellenza, appunto perché apparisse più cospicuo, più solenne, più ignominioso l’avvilimento, in che giacque in essa la dignità umana, proprio in quello, che intrinsecamente la costituisce. Grandi capitani, grandi politici, grandi artisti ed oratori e storici e poeti: sia pure! Ma grandi uomini? oh! cotesto poi no! il Paganesimo non poté formarne né grandi né piccoli, per questa semplicissima ragione, che cioè esso ignorò radicalmente quello che fosse l’uomo: appunto come non è possibile che uno scultore vi foggi un cavallo, né grande né piccolo, se non conosca quello che sia cavallo. – Ed intendetelo bene! Conoscere l’uomo significa sapere che sia questo accoppiamento portentoso ed unico d’inerte materia e di spirito intelligente, che l’informa, dandole l’essere, la vita ed il senso; significa sapere da chi ed a quale scopo quella intelligenza fu imprigionata in questo ingombro materiale; significa sapere a che fare, con quali leggi, con quali temperamenti sia stato quel composto messo a pellegrinare sulla terra, in mezzo a tante seduzioni che l’allusingano, ed a tanti dolori che lo martellano; significa sapere come e perché, essendo pure sulla terra l’uomo l’essere più nobile di tutti, sia poi di tutti il più misero, tormentato sempre da tanti dolori, abbeverato da tante amarezze; e da questa, che più d’ogni altra è cocente, che assetati, come siamo, di giustizia ci scorgiamo condannati a vedere, il più spesso, misera la virtù, il vizio fortunato, la giustizia umana poco altro che uno scherno per chi la implora, ed un mantello d’ipocrisia per chi la promette. Conoscere l’uomo significa sapere se, separatisi per la morte questi due principii, anima e corpo, e gettato questo nel sepolcro ad imputridire della più schifosa tra le putredini, la parte intelligente e volitiva resti o no, superstite al sepolcro; e se sì, quali destini l’attendano in quella regione oscura, misteriosa, inesplorata, la quale tutti guardiamo con raccapriccio, e che tutti dovremo, presto o tardi, visitare. Questo importa, se nol sapete, conoscere l’uomo; e senza questo, si potrà bene saltare come un cavriolo, cantare come un usignuolo, pugnare, come un leone, giocare di astuzia come una volpe; ma non mai pensare e vivere e sentire ed operare, come alla dignità dell’uomo si addice. Ora di tutto questo il Paganesimo antico non ebbe, non che scienza, neppure sospetto; non si brigò neppure di cercarne, forse perché presentiva affatto impossibile la piena soluzione di quei problemi. Ebbero i sapienti di Grecia un bello imporre e raccomandare ai loro discepoli il famoso γνῶθι σέαυτον [=gnoti seauton], nosce teipsum! tutto essi studiarono, tutto seppero, meno questo solo, che pure per essi saria stato il tutto. Ed era una cosifatta ignoranza così universalmente accettata e riconosciuta nel mondo pagano, che il grande apologista Arnobio sfidava pubblicamente i Gentili del suo tempo a dare a quei quesiti una risposta, la quale non fosse nulla od assurda. E così gl’incalzava, prendendo le mosse nientemeno, che da Socrate: Potest quispiam explicare mortalium id quod Socrates ille explicare nequit in Phoedone? homo quid sit? unde sit? …. in quos usus prolatus sit? cuius sit excogitatus ingenio? quid in mundo faciat? cur malorum tanta experiatur examina (ARNOB . II, 7)? A queste domande tutta la sapienza pagana non avea una, quanto che piccolissima, risposta a dare: si restava mutola come il deserto: e se pure avesse voluto tentare una soluzione, questa non era altro, che o il sogghigno beffardo del cinico, o il dubbio straziante dello scettico, o la stupida impassibilità del fatalista e dello stoico, ch’eran tutt’uno. La sola verità che sapessero intorno a quel grande soggetto, come notò Lattanzio, era il non saperne nulla, quando pure avessero avuto il coraggio di confessarlo a sé stessi e ad altrui. Numquam illi tam veridici fuerunt, quam cum sententiam de sua ignoratione dederunt (Lactan. Div . Inst . II, 2). Presto vedremo a qual termini fosse condotto il Paganesimo da questa profonda ed assoluta ignoranza riguardo all’ uomo. Per ora bastici osservare che, tra le folte caligini di quelle tenebre, le intere generazioni, succedentisi sulla faccia della terra, furono costrette a scegliere tra questi estremi: o una bestialità di lascivia, da vergognarne le stesse bestie, se ne fossero capaci; od una ferocia di orgoglio, che si pasceva di calpestare e straziare quanti più si potesse esseri umani; o la desolata tristezza di una vita senza dignità, senza guiderdone, senza scopo. Mestizia sconsolata e inconsolabile, che quasi velo funereo coperse quella bugiarda grandezza, e sembra tuttavia protendersi sulle sue ruine: mestizia sconsolata ed inconsolabile, che dovett’essere la porzione delle anime di miglior tempera, e che il nostro antico poeta meravigliosamente ci dipinse in Virgilio; il quale, là nei regni bui, alla menzione del Salvatore ignorato da lui, come dagli altri sapienti del Gentilesimo, « Chinò la fronte, e più non disse e rimase turbato. »

III. La quale assoluta ignoranza, in che versò il Paganesimo riguardo all’uomo, tanto è lungi che possa trovare scusa o compenso in quell’ammirata eccellenza, nelle arti della politica, della guerra, della immaginazione e del senso, che anzi, a riscontro di questa, apparisce più notevole e più stupenda quella ignoranza; la quale, oltre a ciò, fu forse cagione, almeno parziale, di quella medesima eccellenza: perciocché se quella stupida ignoranza si fosse trovata in uomini incolti e selvaggi, che non si curano di quel che sono, del perché sono, di quel che saranno, tanto, la cosa si capirebbe e si spiegherebbe. Ma che quella stupida ignoranza si trovasse in un mondo di tanto sopraffino e forbito incivilimento; che non sapessero di avere o no un’anima in corpo, né fossero meglio informati del se la loro morte si dovesse differenziare dalla morte del cane, del cavallo e del gatto, chi? quei magni viri dell’antichità, che stringeano in pugno i destini dei popoli; che aveano toccato il non plus ultra della eleganza nella pa rola sciolta o legata da numeri; che col pennello e collo scalpello aveano creati miracoli di arte, che restano tuttavia modelli stupendi ed inarrivabili dalle seguenti generazioni; cotesto, signori miei, appena si crederebbe, se non ne avessimo sotto degli occhi la evidenza dei fatti. Cotesto ci deve far pensare che Iddio permettesse ed ordinasse appunto quella incredibile e mostruosa cecità, in cose di tanta rilevanza, in uomini per altri rispetti cotanto colti, affine appunto di fare intendere al nostro mondo, quanto poco ci sia a fare assegnamento sopra questa cultura, chi voglia sapere qualche cosa di ciò, che più importa all’uomo di sapere. – Dall’altra parte quella eccellenza, raggiunta dal Paganesimo nella estetica naturale, nei maneggi politici e nell’arte militare, si spiega abbastanza appunto da quella cecità ed ignoranza lacrimevole, iņ che esso versava intorno alla parte più intima e razionale dell’uomo. Né vi sembri strana questa osservazione, perché forse vi giunge nuova. La nostra naturale limitatezza fa sì che, sparpagliando le forze dello spirito in molti oggetti, ne resta debilitata la considerazione che rechiamo in ciascuno di essi: è ciò, in altri termini, il detto vulgatissimo: Pluribus intentus minor est ad singula sensus. L’azione esterna poi ed i frutti, che se ne derivano, dovendo di necessità essere misurati dalla maggiore o minore considerazione portatavi dallo spirito; è indubitato che quei frutti od effetti saranno tanto più insigni, quanto la considerazione stessa sarà più ristretta e raccolta in una sola ragione di obbietti. Ora supposto che nel mondo pagano tutto l’ordine degli spiriti e la economiă ultramondiale fosse affatto ignorata; supposto che tante dispute di sapienti, intorno a quel subbietto, efficaci solo a scalzare per vicenda gli uni i pronunziati degli altri, non avessero fruttato altro di certo, che la certezza di non potersene saper nulla, come ai Gentili rimproverò Arnobio: Qui cum alter alterius labe factant decreta, cuncta incerta fecerunt, nec posse aliquid sciri ex ipsa dissensione monstrarunt (Arnob. I, 10); supposto, dico, che le cose fossero a questi estremi, fu naturale che quelle generazioni infelici restringessero ogni loro considerazione al mondo presente; concentrassero ogni loro amore nella vita sensata; condensassero in certa guisa ogni loro conato nel bello materiale, quale è altresì il fantastico o l’immaginativo, perché nel senso si fonda e di esso si avviva. E con questo incentramento di considerazioni, di amori, di conati in una sola qualità di obbietti, e per giunta dei meno nobili, qual meraviglia che intorno a questi quel mondo antico ottenesse una eccellenza, né prima né poi non potutasi mai più raggiungere, appunto perché quelle speciali condizioni non si sono potute mai più riprodurre? Tra le quali condizioni non è ultima l’essersi quelle generazioni trovate vergini, diciamo così, dalla mistura di elementi derivati da straniere culture, e l’avere esse operato, siccome meno lontane dalle origini, col vigore di una natura fresca, ardente, e che spiegava lussureggiante tutto il rigoglio di forze novelle ed intatte. – Di che voi vedete che se queste considerazioni ci spiegano l’ordine provvidenziale e la genesi naturale di quella eccellenza, nelle arti del reggimento e della immaginativa, tanto ammirate nell’antico Paganesimo; male assai si conchiuderebbe, che quella eccellenza stessa gli conferisse pure l’ombra di quella bontà morale, di quella dignità, di quella contentezza che è solamente propria dell’uomo ragionevole . Nulla meno! anzi vi è il contrario; e tra i tanti ne ricordo un fatto solo. Quella eccellenza, effetto in parte della sconosciuta condizione dell’uomo, ed ordinata a farne vieppiù cospicuo, dal contrapposto, lo scadimento, per colpa di questo non potea comperarsi, che al prezzo nefando di calpestata, tradita, assassinata natura in milioni di creature umane; ed a questo prezzo fu comperata. Ogni qualvolta voi, dallo avere sconosciuta la destinazione ultramondiale dell’uomo, stabilite per principio, per lui non vi essere altra beatitudine, che godere i beni di questa vita; e voi v’imbattete in uno scoglio, innanzi a cui tutta la umana sapienza non può altro, che rompere e naufragare. E lo scoglio è, che avendo pure tutti uguale tendenza e, pella ipotesi fatta, anche uguale diritto a quel godimento; tuttavolta non vi sono nel mondo beni sufficienti a farne godere tutti gli uomini, quanto potrebbero e quanto vorrebbero in questa vita. Signori sì! non è a dubitarne! Nel convito apparecchiato dalla natura, i posti o, come voi francescamente solete chiamarli, le coperte sono più poche assai dei convitati. Al che se aggiungete che tra questi ci ha parecchi, i quali, non che mangiare a doppia ganascia vogliono altresì impinzarsi le tasche pel domani e pel posdomani, voi capite bene che, oltre agli esclusi dal convito, molti di quei medesimi, che vi sono ammessi debbono, avervi molto magra la loro pietanza. Come i moderni nostri paganeggianti potranno cavarsi da cotesto imbroglio, sel veggano essi, che l’hanno rimesso al mondo, quando Cristo colla sua dottrina ne lo avea, quasi al tutto, fatto sparire. E fatevi certi: l’imbroglio è grosso, più grosso di quel che si crede, e forse acchiude esso solo la grande e terribile quistione, che agita il mondo moderno, la quale, più che civile o politica, è sociale. Di questa il cardine è che i famelici sono smisuratamente più che i satollo; e quando si venisse alle mani, i pochi sarebbero, senza fallo, accoppati dai moltissimi. Il vecchio Paganesimo non pare che s’impensierisse gran fatto di questo scoglio; e, senza più, diede al problema la soluzione unicamente possibile alla sola natura; tanto che il Filosofo (ARIST.: lib. II. Oecon.) insegnò essere necessaria e naturale la schiavitudine; e qualche popolo, separatosi dall’unità cattolica, pur troppo col fatto proprio gli sta dando ragione. Esso Paganesimo dichiarò, che uomini erano solamente quel pugno di prepotenti e di astuti, i quali aveano saputo soggiogare tutto il resto; e tutto il resto, che vuol dire i nove decimi e forse più, furono dichiarati mancipii, quasi bestie, non persone; ma cose, e delle meno pregevoli, condannati così a formare, colla propria sventura ed abbiettezza, come la base della piramide, come l’opera morta ed il substrato al meraviglioso edifizio della eleganza e della grandezza pagana. Così le nazioni gentilesche innanzi a Cristo, e segnatamente il mondo grecoromano, che idoleggia in sé stesso la forbitezza delle arti pel primo e la potenza dell’Impero pel secondo, ignorò radicalmente quel che più gli rilevava sapere, cioè l’uomo; possedette una eccellenza che parte fu effetto di quella ignoranza, e parte servì a renderla più sfoggiata e lacrimevole; da ultimo quella ignoranza stessa lo condusse e sospinse alla più snaturata delle istituzioni, per la quale, ogni bene della vita confiscato a profitto di pochi scaltri o violenti, il più dell’uman genere era dechinato alla condizione del bruto, e più sotto.

IV. L’avervi così dichiarate le qualità e le cagioni della grandezza pagana, e l’averla posta a rincontro coll’assoluta cecità, in che versava quell’antico mondo, in tutto ciò che si attiene all’uomo, può servire al disinganno di molti illusi, e può farvi accorti di quel Paganesimo redivivo, il quale pur troppo, nel nostro tempo e nei nostri paesi, mostra che pigli il sopravvento. Io non vo cercare se e quanto lo studio dei classici greci e latini, che dai nostri giovanetti si usa nelle scuole, abbia potuto contribuire a quell’ammirazione sperticata del Paganesimo, la quale nel mondo moderno è venuta in moda. Dico così di passata, che quello studio, accoppiato col catechismo e col santo timore di Dio, è stato universale a secoli di molta fede, fu celebrato da uomini, non che Cristiani, ma santi, senza che se ne avesse a lamentare alcuno sconcio per questo riguardo. E così se quel medesimo studio conducesse la nostra gioventù a paganeggiare, un tale effetto si dovrebbe attribuire piuttosto al modo, onde si usa, che non alla sustanza. Ma siane questa od altra la cagione, il fatto è innegabile: le ammirazioni della grandezza pagana sono comuni, sono sfoggiate, non si restringono alla teorica, ma scendono al pratico; e per poco non ci farebbero vergognare di quella vocazione alla Fede, la quale pure, com’è il principio di ogni nostro bene, così dovrebb’essere il nostro amore, la nostra contentezza, il santo nostro orgoglio. Ed eccovi come, col passare d’uno in altro sofisma, la ragionano quei valent’uomini. Tanta vigoria, tanta stabilità, tanto splendore di bellezza e di eleganza nella forma, quanto all’ordinamento sociale e quanto alle opere di arte, suppone un ricco tesoro di verità nel fondo. Di qui fu piccolo il varco a conchiudere, che dunque l’antichità era il più splendido modello di verità filosofica e di perfezione civile. Dal che non vi restava, che un solo passo per inferire, che dunque la Religione cristiana, facendoci pensare più al cielo, che alla terra, avea fatto di noi dei mezzo barbari ed ispidi ed incivili, nemici della vera libertà e della bella natura. Ora questo discorso, o piuttosto, come dalle cose dette voi medesimi potete raccogliere, questo miserabile tessuto di paralogismi, che saltano d’uno in altro ordine, trapassando dalla forza politica e dal bello estetico alla bontà morale, non è certo di molti, soprattutto chi lo volesse udire espresso così esplicito e così reciso come testè l’ho io esposto. Ma la pratica? oh! la pratica, miei amatissimi, è pur troppo prevaluta tra noi, e più certo, che voi a prima vista non vi pensate. Né potea altro essere, chi mira attento. Posta la medesima radice, che altro potevamo noi attenderne, che i medesimi malaugurati germogli? Ora voi già lo vedeste: radice dell’antico Paganesimo fu la separazione da Dio, separazione nella età nostra già iniziata e molto innanzi proceduta. Fu dunque naturale che noi altresì il primo infelice frutto ne cogliessimo nell’ignorar l’uomo, nel rinnegarne, o certo nel dimenticare nella pratica quello che il Cristianesimo ce ne insegna, per volerne essere addottrinati dalla filosofia solitaria ed indipendente. Eccoci pertanto ridivenuti giuoco miserabile di altrettanti sistemi, quanti sono i cervelli; tra i quali quelli si credono di essere più autorevoli, i quali ardirono sputarle più esorbitanti. A quali termini sia condotta la filosofia, separatasi dal Cristianesimo, prima per ire eterodosse, poscia per metodi scientifici, e da ultimo per superbiole puerili e per inconsulto andazzo di moda, non è chi non sappia. Ma un’accolta d’intelligenze malate, delle quali ciascuna si crede avere, non pure il diritto, ma l’obbligo di fabbricare da capo la scienza, tutto traendo dal proprio fondo, come il ragno trae la tela dalle proprie viscere, sembra più fatta a divertire gli oziosi, che ad istruire gl’ignoranti. Se in altri tempi si dubitava qual parte avesse l’uomo in questo mondo; oggi si cerca se ci sia proprio questo mondo fuori del proprio lo; se siavi davvero oggetto oltre il soggetto: e già sapete spreco terribile che da questi filosofi suol farsi di oggettivo e di soggettivo. Se in altri tempi non si sapeva dove trovare la verità, oggi si reca in forse se una verità ci sia di fatto, o non sia piuttosto una illusione della nostra mente il supporla anche solo possibile. Se in altri tempi si cercava se fosse o no immortale la nostra anima, oggi non si vede ragione, perché si abbia a pensare di avere un’anima ragionevole in corpo, parendo che, ancor senza quella, si mangerebbe, si digerirebbe e si dormirebbe dall’uomo alla stessa maniera, e si farebbe qualche altra cosa. Talmente che se io a questi nostri filosofi scredenti movessi le medesime interrogazioni intorno all’uomo, le quali già movea Arnobio ai Gentili, questi filosofi, dopo sedici secoli di progresso, si mostrerebbero alla stessa maniera ignoranti; e solo si divarierebbero dai Gentili nel non volere riconoscere e confessare la propria ignoranza: cosa che pure quegli antichi facevano alcuna volta. E bene a ragione con più crassa ignoranza è punito un orgoglio più smisurato; ché dove quegli antichi ignorarono per manco di una verità che non li avea ancora visitati, i moderni in un mondo, già arricchito di quella verità per Cristo, la ignorano, per averla superbamente ripudiata. Né il nostro paganeggiare è minore nell’interno ordinarci al fine supremo coi soli dettami del Giure naturale e della Morale. Separate queste dal concetto cristiano, esse tornano alle vecchie abberrazioni, alle eterne storie di voler contentare le aspirazioni sconfinate di un’anima ragionevole ed immortale a furia di pitture, di musiche, di danze, di buoni pranzi e di migliori vini; di agi in somma materiali e di delizie, che sono finalmente quasi l’unico pensiero, l’unica ambizione di progresso della età moderna. E vi si progredisce, vi si trotta, vi si galoppa, lo veggo anch’io: né può essere altrimenti, quando da un mezzo secolo tanti ingegni eletti non istudiano che la materia o le affezioni della materia; tanto che oggimai non vi è via più spedita da acquistare rinomo e ricchezze, che il trovare qualche nuovo mezzo da deliziarne i beati sonni dei godenti del mondo! Ma se san Tommaso e l’Alighieri si fossero messi a studiare e manipolare l’elaterio del vapore compresso, l’azione chimica della luce e l’elettrodinamica, credete voi che avrebbero lasciato al nostro secolo la possibilità d’inventare le strade ferrate, la fotografia ed i telegrafi elettrici? Ma quei sovràni intelletti spaziarono in campi, dei quali noi abbiamo perduta perfino la memoria, quando abbiamo voluto ogni nostro pensiero circoscrivere nella materia. Se poi questi siano progressi da inorgoglirne un secolo o da vergognarne, quando siano soli, lo lascio pensare agli uomini che sentono tuttavia di aver in sé qualche cosa, che levasi sulla sfera dei sensi ignobili. Dall’avere noi, sotto il ducato di una filosofja naturalistica, sconosciuto l’uomo; dallo avergli assegnato per unico fine il godimento di questa vita, ne dovea seguire di necessità altresì per noi, quell’ altra piaga nelle turbe, che vogliono godere anch’esse il convito della natura, quando la natura non ha apparecchiato posti sufficienti per tutti; e n’è seguita. Il Cristianesimo, abolì la schiavitudine, non come si pretende abolirla oggi al di là dell’Atlantico con guerre sterminatrici. Esso la distrusse soavemente, radicalmente, spegnendone il principio, in quanto riuscì esso solo a torre di mezzo la radice prima di quel dissidio tra i gaudenti ed i sofferenti. E lo fece rivelando e impromettendo ai diseredati dalla fortuna una felicità avvenire , la cui speranza lenisse, compensasse e guiderdonasse i dolori e le privazioni della vita presente; e così le facesse non pure accettabili, ma degne di essere desiderate. Esso poi mostrava viva ed operante nel mondo quella speranza, nella perfezione evangelica, professata peculiarmente dai Claustrali. Questa dottrina sublimissima e capace essa sola a far vivere il mondo come famiglia di fratelli, fu ripudiata, quando la società volle separarsi da Dio. Allora il convito della natura fu assediato un’altra volta dai milioni di famelici, i quali, persuasi, ad essi non competere altra felicità, che il fruire di questo mondo, vogliono a tutti i patti assidersi a quel convito; ed il men male che possano volere, è rimuoverne i ricchi e gli agiati, che vi stanno assisi da tanto tempo, ed i quali troppo spesso furono i primi ad irritare, colle loro superbie provocanti, le passioni invidiose dei sofferenti, ed a debilitarne, coi loro scandali, quella pietà cristiana, che era il solo balsamo, onde quelli potessero lenire le proprie sofferenze. Questo è il moderno Comunismo o Socialismo, composto informe della idea tutta cristiana della fratellanza universale, e del concetto tutto pagano, non vi essere altra felicità, che di questo mondo. Sistema mostruoso, il quale, se pei nostri peccati prevalesse, mostrerebbe in pratica un’altra volta, con memorando ed atroce fatto, quel gran vero che io vi vengo dichiarando in teorica: per la umana famiglia non avervi oggimai che questi due estremi: o il Cristianesimo colla libertà dei figliuoli di Dio e colla dolce partecipazione dei suoi dolori e delle sue speranze; o il Paganesimo coi ceppi della schiavitudine e con tutti gli orrori dei suoi delitti e delle sue vergogne. Riposiamo.

V. Avea vaticinato Isaia che colla preziosa venuta del Salvatore la scienza delle cose divine, necessario prerequisito a bene intendere le umane, avrebbe riempita la terra: Repleta est terra scientia Domini (Isa. X, 9). Ora questo vaticinio, non che osservarsi comunque, si tocca con mano avverato nel Cristianesimo, mercé la grazia del Salvatore; e siate contenti che io ne faccia un cenno, perché questo dono della scienza, messo a paragone colla cecità del Gentilesimo, vi faccia, miei cari, tenere sempre in maggior pregio la divina chiamata, per cui fummo tramutati dalle tenebre a questa luce beatissima di verità, che nella Chiesa c’illustra. Bene, dunque! quelle interrogazioni intorno all’uomo, al suo essere, al suo Autore, al suo scopo nel mon do ed ai suoi destini al di là di questo, che furono mosse già da Arnobio ai Gentili, ed innanzi alle quali i filosofi antichi restavano mutoli, ed i moderni gareggiano a chi più sproposita, perché non hanno la discrezione di starsi zitti; quelle interrogazioni, dico io, movetele al più rozzo, al più zotico dei nostri Cristiani, tanto solo che abbia apparato il Catechismo. Signori si! rivolgete quelle interrogazioni al fanciullo ottenne che scalzo e cencioso si striscia nel fango dei nostri trivii, al pastorello incolto e solitario di aspre montagne, alla fantesca lurida ed arruffata, alla vecchierella analfabeta, a qualsivoglia insomma dei più zotici ed ignoranti della nostra plebe. Essi non esiteranno un istante a rispondervi con chiarezza, con precisione tanta, con tanta sicurezza della verità, che con più non potrebbe un matematico dei suoi teoremi. Né sanno quello solo; ma e di Dio, e degli spiriti buoni e dei rei, e della vita futura e dell’eterna sua durata, e dei Santi e della benedetta Vergine che per loro pregano e li attendono colassù, sanno così per filo e per segno, che meglio non ne parlerebbero se si trattasse di cose avute per esperienza. – Paragonate ora quest’ampiezza di cognizioni, questa sicurezza direi quasi d’intuito, feconda di tanta pace all’anima, di tanto decoro alla vita, di tanta tranquillità e contentezza; paragonatela, dico, alla ignoranza presuntuosa ed allo scetticismo desolante dei superbi sapienti del secolo, i quali sfatano la superstizione del volgo, ed essi si rodono della sete insoddisfatta del vero; deridono la credulità della plebe, ed essi non hanno altro in capo che le tenebre dell’ignoranza, non altro in cuore che le agitazioni del dubbio e la solitudine della negazione e del nulla; fate, ripeto, questo paragone, e poi sappiatemi dire, se non è grande, se non è inestimabile la dignità e la grazia a noi conferita dalla Fede, per virtù della quale la nostra terra cristiana è ripiena di quella scienza, di cui neppure un raggio rischiarò le menti dei più rinomati savii del Gentilesimo. Repleta est terra scientia Domini. E quando debbono gli uni e gli altri sloggiare dal mondo, chi non preferirebbe la condizione del cencioso, dello scalzo, dell’arruffato, ma Cristiano, alle torture supreme dell’ateo, dell’indifferentista e dello scettico (e fosse pure grande Statista, grande Ministro e grande Scienziato), il quale si sentirà trascinato suo malgrado ad una immortalità che non credette, che non vorrebbe, ma che pure gli sarà data eternamente per tutto!

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (4)