L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (12)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (12)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) – P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov. Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA ABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO IV

Diritto all’eredità celeste, conseguenza della nostra adozione. — Qual è questa eredità?

I.

La grazia, che ci rende figli di Dio, ci costituisce anche suoi eredi: Si filii et hæredes. Questo è il ragionamento dell’Apostolo, questa è la conseguenza necessaria della nostra adozione. Non esiste una vera adozione senza il diritto del figlio adottivo ad ereditare il patrimonio dell’adottante. Di solito, è vero, che è solo in assenza di un figlio legittimo e solo alla morte del testatore, che un estraneo è chiamato a ricevere la sua successione come figlio adottivo. Ma Dio non muore, e possiede già un Figlio unigenito che è il suo legatario universale (Hebr. I, 2), un Figlio al quale ha dato tutto (Matth. XI, 27), al quale tutto appartiene in cielo e sulla terra (Giov. XVI, 15). Ma, osserva sant’Agostino,  « la carità di questo erede è così grande che ha voluto avere dei coeredi. Quale uomo avido vorrebbe avere dei coeredi? Se per caso ce ne fosse uno, egli dovrebbe condividere l’eredità e si troverebbe meno ricco che se la tenesse interamente per sé. Nulla di simile in rapporto all’eredità di cui siamo coeredi di Cristo; essa non diminuisce con la moltitudine dei coeredi, non diminuisce in proporzione al numero degli eredi; ma è considerevole tanto per molti, come per un piccolo numero, per ognuno in particolare come per tutti insieme. » (S. Aug., in Ps. XLIX, n. 2). Per i beni spirituali non è come per i beni materiali. Questi ultimi, non potendo appartenere interamente a più persone contemporaneamente, il loro possessore non può, senza spogliarsene, chiamare qualcuno a condividere con lui la sua eredità. I beni spirituali, invece, possono essere posseduti contemporaneamente da più persone. Il medico si spoglia delle conoscenze acquisite, quando le comunica alla folla di discepoli che si affollano intorno alla sua cattedra? Cristo può dunque, senza timore di impoverirsi e senza alcun danno per il Padre celeste, sempre vivente, chiamarci a raccogliere con Lui l’eredità del nostro Padre comune. (S. Th., III, q. XXIII, a. 1, ad 3.). – Qual è questa eredità? Secondo la saggia osservazione del Dottore Angelico, l’eredità è ciò che costituisce la propria fortuna o la ricchezza propria: Hoc autem dicitur hæreditas alicujus, ex quo ipse est dives. (S. Th., III, q. XXIII, a. 1). Non basta, quindi, per meritare giustamente il nome di erede, ricevere un’eredità, un dono anche importante, ma è soprattutto, la maggior parte, se non tutto il patrimonio del testatore, cioè ciò che sostanzialmente costituisce la sua ricchezza, che si è chiamati a raccogliere. (S. Th., in Rom., VIII, 17, lect. 3.). Ma la ricchezza di Dio non consiste, come quella dell’uomo, in beni esteriori: oro, argento, prodotti della terra, campi, edifici. Tutto questo gli appartiene chiaramente, perché non c’è nulla nell’universo creato che sfugga alla sua sovranità: la terra, in tutta la sua estensione, è sua: Domini est terra e plenitudo ejus (Ps. XXIII, 1); il mare e tutto ciò che contiene è sua proprietà, perché è colui che ha fatto tutto: Ipsius est mare et ipse fecit illud (Ps XCIV, 5). Ma tutti questi beni materiali, così ardentemente ambiti dalla creatura, perché trova in essi i mezzi per provvedere ai suoi bisogni, per soddisfare i suoi piaceri, per soddisfare la sua indigenza, non possono essere considerati come fortuna del Creatore. Egli li concede quindi indistintamente ai buoni e ai cattivi, spesso anzi i peccatori sembrano essere favoriti in questo senso. Per quanto riguarda i suoi beni, propriamente detti, questi sono prerogativa esclusiva dei figli adottivi, e si può applicare qui la parola della Scrittura: « Scaccia la schiava ed il figlio suo; poiché il figlio della serva non sarà erede con quello della donna libera: Ejice ancillam e filium ejus: non enim hæresit erit filius ancillæ cum filio liberæ » (Gal. IV, 30). I beni di Dio, la sua ricchezza, è Lui stesso, è la sua stessa perfezione; essendo l’infinito Bene, principio ed esemplare di ogni bene, Egli è pienamente sufficiente a se stesso e trova nel possesso e nel godimento di se stesso la sua perfetta felicità: In se et ex se beatissimus (Ex Conc. Vatic, Const. Dei Filius (cap. I.). Ma, nella sua infinita bontà, Egli non ha voluto essere solo a godere della sua felicità; e, senza nessun altro interesse, se non quello di fare dei felici, si è degnato di chiamare le creature ragionevoli a condividere questi beni divini che superano assolutamente tutto ciò che l’intelligenza umana e persino l’angelica, sia capace di concepire; poiché « l’occhio dell’uomo non ha visto, né l’orecchio mai udito, e il suo cuore non ha neppure potuto sentire ciò che Dio riserva a coloro che lo amano » (I Cor. II, 9). Chiamandoci all’ordine soprannaturale, Egli ci offre e ci conferisce i mezzi per raggiungere questa beatitudine; e adottandoci per mezzo della grazia, ci dà un vero diritto ad essa. – Così, la visione della bellezza infinita, l’amore e il godimento del sovrano Bene, la partecipazione della felicità stessa di Dio, costituiscono il patrimonio preziosissimo, il patrimonio incomparabile che è destinato ai suoi figli adottivi (S. Th. III, q. XXIII, a. 1). Come non cantare, col Salmista « L’eredità che mi è toccata è veramente magnifica; la mia parte è splendida ed inebriante è la parte che mi è arrivata:  Funes ceciderunt mihi in præclaris, etenim hæreditas mea præclara est mihi.  Il Signore stesso deve essere la mia parte: Dominus pars hæreditatis meæ, e calicis mei. anche il mio cuore è nella gioia, e la mia lingua trema; la mia stessa carne riposerà in pace, perché non mi lascerete nel sepolcro, e non lascerete il vostro santo la preda perpetua della corruzione. Mi hai fatto conoscere i modi di vita, mi riempirai di gioia mostrandomi il tuo volto e le mie delizie non avranno fine” (Ps. XV, 5-11), « … imperocché qual cosa havvi mai per me nel cielo, e che volli io da te sopra la terra? La carne mia e il mio cuore vien meno, o Dio del mio cuore, e mia porzione, o Dio, nell’eternità » (Ps. LXXII, 25-26).

II.

L’Apostolo  san Paolo aveva dunque ragione a parlarci « delle ricchezze di gloria che costituiscono l’eredità dei santi! Divitiæ gloriæ hæreditatis ejus in sanctis » (Ephes. I, 18). Le ricchezze della nostra eredità! Chi potrebbe concepirne l’estensione, poiché sono proprio i beni di Dio che ci sono riservati? Credo videre bona Domini in terra viventium (Ps. XXVI, 13). Mosè, al quale il Signore una volta parlava come amico, una volta formulò la seguente preghiera in uno slancio di fiducia: « Mio Dio, se ho trovato grazia alla vostra presenza, mostratemi il vostro volto, perché io vi conosca: Si ego inveni gratiam in conspectu tuo, ostende mihi faciem tuam, ut sciam te.…. Mostratemi la vostra gloria: Ostende mihi mihi gloriam tuam » E il Signore, rispondendo in parte alla sua richiesta, gli rispose: « Ti mostrerò ogni bene: Ego ostendam omne bonum tibi. Tuttavia, non sarai in grado di contemplare il mio volto, perché nessuno può vedermi in questa vita mortale. Tuttavia tu starai sulla roccia, e quando la mia gloria passerà, ti coprirò con la mia mano fino a quando non sia passato. Allora toglierò la mia mano e tu mi vedrai da dietro, ma quanto alla mia faccia, tu non potrai vederla » (Es. XXXIII, 12-23). – Ebbene, quel Dio che Mosè desiderava ardentemente poter contemplare, quel Dio naturalmente invisibile, « che abita in una luce inaccessibile, che nessuno ha mai visto, che nessuno può vedere senza la luce della gloria » (I Tim. VI, 16), deve un giorno mostrarsi allo scoperto; perché è in questa conoscenza, in questa visione, che consiste la vita eterna promessa ai nostri meriti: Hæc est vita æterna: ut cognoscant te solum Deum verum et quem misisti Jesum Christum (Giov. XVII, 3). Un giorno gli eletti vedranno l’Eterno Re dei secoli in tutta lo splendore della sua gloria e della sua maestà: Regem in decora il suo videbunt (Is. XXXIII, 17); lo vedranno, non più solo per riflessione, nello specchio delle creature, per speculum; non più attraverso un velo e nell’oscurità della fede, in ænigmate; non più da dietro come Mosè, ma faccia a faccia, facie ad faciem, direttamente, immediatamente, così com’è, sicut est, come vede e conosce se stesso, cognoscam sicut et cognitus sum (I Cor. XIII, 12); essi contempleranno eternamente e con sguardo sempre più avido, pur sempre soddisfatti di questa infinita bellezza, fonte fertile, ideale supremo perfetto di ogni bellezza, di ogni bontà, di ogni perfezione. E poiché Dio è un bene infinito, il Bene universale, bonum universale (S. Th., Ia IIæ, q. II, a. 8), secondo l’espressione di san Tommaso, il Bene di tutti i beni, bonum omnis boni (S. Aug., de Trin., 1. VIII, cap. 3), l’oceano, la pienezza del bene, facendosi vedere ai beati, Egli mostrerà loro veramente ogni bene: Ego ostendam omne bonum tibi (Es. XXXIII, 19). Se gli Apostoli, ammessi sul Tabor per vedere la gloria dell’anima santa di Nostro Signore che risplendeva attraverso il suo corpo mortale, esultarono, in un santo trasporto misto a paura e gioia, e senza sapere quello che stavano dicendo, con l’esclamare: « Signore, è bene per noi stare qui: Domine, bonum est nos hic esse » (S. Marc. IX, 5); che cosa sarà quando, fortificati dalla luce della gloria, il nostro spirito potrà contemplare a piacimento non solo l’Umanità trasfigurata del Verbo fatto carne, ma la stessa Divinità in tutto il suo splendore; quando, abbracciando con un solo sguardo tutte e ciascuna le divine perfezioni, che ora siamo obbligati a studiare separatamente per conoscerle meglio, le vedrà fondersi in una semplice ed unica perfezione infinita: uno spettacolo inebriante e davvero ineffabile, di cui nulla quaggiù può darci un’idea? Che cosa sarà quando il suo sguardo, che è diventato più fermo e più acuto di quello dell’aquila, potrà penetrare i misteri della vita intima di Dio, scandagliare le profondità della sua saggezza e giustizia, considerare le incomprensibili ricchezze del suo amore, gli eccessi della sua misericordia, la profondità dei suoi decreti, le meravigliose operazioni della sua grazia, i modi segreti e ammirevoli in cui conduce ciascuno di noi al termine del suo destino? Lì, la nostra intelligenza, così desiderosa di sapere, così affamata di verità, troverà nella chiara visione del Verbo, la sua piena soddisfazione: Satiabor cum apparuerit gloria tua (Ps. XVI, 15); perché il Verbo è la verità, non la verità dimezzata, parziale, frammentaria, ma la verità piena, totale, sostanziale. E, come sottolinea San Gregorio: « Cosa possiamo ignorare quando conosciamo Colui che sa tutto, che ha fatto tutto, attraverso il quale tutto esiste? Quid est quod ibi nesciant, ubi scientem omnia sciunt ? » (S. Greg. M., Dial., 1. IV, n. 24). Lì la nostra volontà, che nulla qui sulla terra può soddisfare pur se realizzasse l’irraggiungibile conquista del mondo intero, troverà nel possesso del sovrano Bene, la soddisfazione più piena di tutti i suoi desideri: Qui replet in bonis desiderium tuum (Ps. CII, 5). Là, il nostro cuore, sempre inquieto durante questa vita, perché facendoci da Se stesso e creandoci capaci di possederlo, Dio ha scavato degli abissi che solo Egli può riempire, troverà il suo perfetto riposo.

III.

Cercheremo di far conoscere più a fondo l’eredità dei figli di Dio. Ma per farlo, dovremmo dire che cos’è il cielo. Ora, non ci sarebbe forse l’avventatezza da parte nostra di voler descrivere ciò che l’Apostolo san Paolo stesso, pur essendo stato elevato al terzo cielo (II Cor. XII, 2) si dichiara incapace di esprimere? Certo, questa sarebbe una intollerabile presunzione se, per parlare di qualcosa di così forte al di sopra delle nostre concezioni, fossimo ridotti alle nostre stesse luci. Ma « lo Spirito Santo, che scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio » (I Cor. II, 10), si è degnato di fornirci preziosi dati su questo punto, che è importante non lasciare nell’ombra. – Per aiutarci a concepire un po’ delle ineffabili delizie del cielo, Egli ce le ha rappresentate con molteplici nomi e sotto figure diverse: a volte come regno, a volte come casa del Padre celeste e la vera patria delle anime. Qui, c’è un banchetto, un banchetto di nozze; là, un torrente di delizie; poi, … c’è il riposo, la pace, la vita senza termine e senza limite, la vita eterna. Ripercorriamo brevemente queste varie denominazioni, per cercare di penetrarne un po’ più nel profondo il significato. E prima di tutto, il cielo ci è rappresentato sotto il nome e la figura di un regno, il Regno di Dio promesso a coloro che lo amano: « Hæredes regni quod repromisit diligentibus se. » – Jac, u, 5.). – « Venite, dirà un giorno Nostro Signore agli eletti, venite, benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno che è stato preparato per voi fin dall’inizio del mondo: « Venite benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi. » (S. Matth. XXV, 34). Quando si dice regno, si intende ricchezza, onori, gloria, abbondanza di ogni bene. Ora, tale è precisamente il cielo, questa dimora opulenta, dimora opulentam (Isa. XXX, 20), come dice il Profeta, dove si trovano raccolti tutti i beni desiderabili del corpo e dello spirito. « Che beatitudine – esclama sant’Agostino – quando, cessando tutto il male, uscendo tutto il bene dalle tenebre, ci si dedicherà solo alle lodi di Dio, che sarà tutto in tutti! … Qui risiederà la vera gloria, che non sarà data dall’errore, né dalle lusinghe. Lì, il vero onore, che non sarà negato a coloro che lo meritano, né deferito a coloro che ne sono indegni; là, dove nessuno potrà essere, se ne è indegno. Là infine, c’è la vera pace, dove non si subirà nulla di contrario né da se stessi né dagli altri. L’Autore stesso della virtù ne sarà la ricompensa, e questa ricompensa che ha promesso – la più grande e la migliore di tutte – è Egli stesso. E quale altro significato potrebbe avere questa parola del Profeta: Io sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo, se non che Io sarò ciò di cui potranno saziarsi; Io sarò tutto ciò che gli uomini possono legittimamente sperare: vita, salute, nutrimento, abbondanza e gloria, onore e pace, tutti i beni, in una sola parola! E questo è il vero significato di questa parola dell’Apostolo: Affinché Dio sia tutto in tutti. » (S. Aug., De Civit. Dei, 1. XXII, cap. XXX, n. 1). Se già in questa valle di lacrime e per l’uso comune dei buoni e dei malvagi, Dio non solo fa risplendere il suo sole, ma produce opere veramente ammirevoli, seminando fiori e frutti con ogni specie di profusione, dando alle valli la loro freschezza, alle pianure la loro fertilità, la loro maestà ai monti, ai cieli la loro armonia, quali meraviglie tiene in serbo per il paradiso, poiché – secondo il Profeta – è solo lì che Egli è veramente magnifico? Solummodo ibi magnificus est Dominus (Isa. XXXIII, 21). Se, nell’ordine puramente naturale, Egli si mostra così largo e liberale, aprendo la sua mano per riempire dei suoi benefici  ogni essere vivente (Ps. CXLIV, 16), cosa non farà, nel grande giorno delle sue ricompense, a favore di coloro che lo hanno fedelmente servito e perseverantemente amato quaggiù, di quei cari figli che, dopo essere stati umiliati, disprezzati e perseguitati per il suo Nome, appariranno finalmente davanti a Lui, con le mani piene di buone opere, per ricevere la loro ricompensa? Con quale tenerezza li accoglierà, riempiendoli di carezze e testimonianze d’amore! Con quale gioia li introdurrà nel suo regno, e li farà sedere accanto a Lui su troni dove regneranno per sempre! Et regnabunt in sæcula sæculorum (Apoc. XXII, 5). Che cos’è di nuovo il cielo? È la patria, la casa di famiglia, il luogo d’incontro di tutti i figli di Dio! La patria! Qual dolce nome! Che dolce nome. Qual più dolce cosa! Come il suo ricordo fa battere il cuore! Come siamo felici di tornarvi dopo un’assenza più o meno lunga! Qui troviamo tutto ciò che abbiamo amato, tutto ciò che ancora amiamo: i genitori, gli amici, i conoscenti, il tetto paterno, le ceneri dei nostri antenati. Lì l’aria è più pura, il sole più gioioso, la campagna più piacevole, i fiori più belli, i frutti più deliziosi. Lì, invece di essere soli, sconosciuti, dimenticati, ci vediamo circondati, ci sentiamo amati, si è felici. Eppure, quella che oggi chiamiamo la nostra patria, è in realtà solo un luogo di passaggio; è un albergo dove si chiede ospitalità per la notte, ed il giorno dopo si abbandona, è la tenda del nomade, che si issa la sera per essere ripiegata al mattino. La vera patria è quella che gli antichi Patriarchi consideravano e salutavano da lontano e facevano  professione di cercare, chiamandosi volentieri esuli e viaggiatori (Hebr. XI, 13-14); quella che, per dopo, dobbiamo sospirare noi stessi, perché non abbiamo una dimora permanente quaggiù: Non habemus hic manentem civitatem, sed futuram inquirimus (Hebr. XIII, 14); « è la città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste, l’innumerevole società degli Angeli, l’assemblea dei primogeniti il cui nome è scritto nel libro della vita » (Hebr. XII, 22-23). Quale incomparabile famiglia! Che deliziosa società!  Là noi troveremo il Primogenito della nostra razza, Colui che si è degnato di adottarci per fratelli suoi e ci chiama a condividere con Lui la sua eredità, Nostro Signore Gesù Cristo, di cui gli Angeli non si stancano mai di contemplare la bellezza: In quem desiderant Angeli prospicere (I Piet. I, 12). Anche noi pure potremo  considerare a nostro piacimento questo volto adorabile, atteggiato a così dolce maestà, appoggiare la testa su questo Cuore che ci ha tanto amato, attaccare le labbra smosse a queste tre volte sante piaghe che i nostri peccati hanno scavato nelle mani e nei piedi del Salvatore. Come gli Apostoli sul Tabor, sentiremo il divino Maestro raccontarci ancora una volta gli eccessi a cui si è librato per noi (Luc. IX, 31): eccessi di umiliazioni e di sofferenze, sopportate per la nostra salvezza durante la sua santa Passione, o meglio durante tutta la sua vita; eccesso di misericordia, onde perdonare colpe rinascenti incessantemente; eccesso di carità, che nulla ha potuto trascurare: né dimenticanze, né ingratitudini, né tradimenti. E la nostra anima si scioglierà con gratitudine ed amore quando sentiremo questo dolce Salvatore raccontarci la storia delle meraviglie fatte a nostro favore, raccontarci le sante industrie della sua tenerezza per riportarci a Lui e tenerci in uno stato di grazia. Là noi vedremo, ameremo, benediremo la dolcissima, purissima, santissima Madre di Dio, la Beata Vergine Maria, questa graziosa Sovrana la cui bellezza verginale delizierà i Santi, questa madre amorevolissima e sì degna di essere amata, la cui tenerezza si tradurrà in testimonianze capaci di inebriare il cuore dei suoi figli. Là, noi godremo la società degli Angeli, contemplando con un occhio rapito queste gerarchie celestiali che formano un mondo infinitamente superiore per numero e bellezza al mondo materiale e sensibile. Là infine, tutte le grandi anime che si sono avute sulla terra, le anime sante, le anime vergini, le anime eroiche, faranno parte della nostra società. I Patriarchi, i Profeti, gli Apostoli, i martiri, i confessori, i vergini, formeranno una sola grande famiglia, i cui membri si ameranno, si congratuleranno tra loro per la loro felicità, godranno tutti insieme. E non ci sarà nessuna voce discordante, nessun processo doloroso o indelicato, nessuno spettacolo triste; una gioia sempre giovane, una gioia che nulla turba, cantici senza fine. I peccatori, gli indegni, sono banditi da questo regno, dove si vedono solo santi, che lodano con una voce unanime il loro Creatore e Redentore. O bel cielo, patria eterna, quando potremo vederti? Ci vien raccontato di te di cose così gloriose e belle (Gloriosa dicta sunt de te, civitas Dei (Ps LXXXVI, 3).

IV.

Ma cos’è ancora il cielo? È un banchetto, una festa, data dal Pater familias alla moltitudine immensa dei suoi figli riuniti intorno a Lui. « Avete mai pensato all’importanza che gli uomini hanno sempre attribuito ai pasti consumati in comune? Non c’è nessun trattato, nessun accordo, nessuna celebrazione, nessuna cerimonia di qualsiasi tipo senza pasti….. Gli uomini non potevano trovare alcun segno di unione e di gioia più espressivo che riunirsi per prendere, così ravvicinati, un cibo comune » (De MAISTRE, Serate di San-Pietroburgo, 10° intrattenimento). Inoltre, quando, in certe circostanze solenni, tutti i membri della stessa famiglia, convocati nella casa paterna, possono sedersi ed intrattenersi allo stesso tavolo per qualche istante insieme, questi incontri di un giorno sono considerati come uno dei più dolci piaceri della vita. – E cosa ci si dice l’un l’altro, cosa ci si comunica l’un l’altro in questo tipo di incontri? Le proprie speranze e le proprie paure, le gioie ed i dolori, soprattutto i propri dolori, perché questa è una pianta che abbonda nella nostra terra d’esilio. Ma è raro che non ci sia un membro della famiglia la cui cattiva condotta o una disgrazia renda gli altri desolati. E poi, tanti posti vuoti, tante persone assenti che non appariranno più! Infine, dopo troppo brevi ore di felicità ben lungi dall’essere tutti uniti, bisogna separarsi di nuovo. Lassù, ci sarà la grande riunione dei figli di Dio. Nessuno degli invitati mancherà all’appello, nessuno sarà fonte o occasione di tristezza per gli altri, e la prospettiva di una futura separazione non turberà la festa. – Ma di tutte le feste, la più splendida, la più solenne, e allo stesso tempo la più gioiosa, è la festa di nozze. Ora la beatitudine celeste è la festa delle nozze dell’Agnello. « Beati – è detto nell’Apocalisse – quelli che sono stati invitati alle nozze dell’Agnello: « Beati qui ad cænam nuptiarum Agni vocati sunt » (Apoc. XIX, 9). – Già su questa terra, Nostro Signore ha allestito per i suoi fedeli una sontuosa tavola, la tavola eucaristica, dove serve un Pane vivo e tonificante, disceso dal cielo ed estremamente delizioso (Giov. VI, 41); ma se Egli si degna di darsi a noi in questo momento, è solo in modo imperfetto; se Egli nutre le nostre anime, non le soddisfa pienamente: Hic pascis, sed non in saturitate (S. Bern., in Cant., serm, XXXIII, n. 7). « Io possiedo il Verbo – dice san Bernardo – ma nella carne; la verità mi è servita, ma nel Sacramento. Mentre l’Angelo si nutre del fiore di grano, io devo contentarmi della corteccia del Sacramento, del suono della carne, della paglia della lettera, del velo della fede » (S. Bern. ibid. n. 3). Ecco perché, prima di salire in cielo, il Salvatore annunciava ai suoi Apostoli che avrebbe preparato loro un altro banchetto nel suo regno, dove li avrebbe invitati alla sua tavola (Luc. XXII, 29-30). Inutile dire che il divin Maestro non ha punto parlato di piatti grossolani destinati al mantenimento della vita corporea, perché in cielo il nostro corpo non avrà più bisogno di cibo. Quando diciamo che gli eletti mangiano e bevono alla tavola di Dio, significa che essi godono della felicità di Dio stesso, vedendolo come Lui vede se stesso (S. Th., Contra Gent., 1. III; cap. LI). Questo è il grande banchetto di Dio, al quale sono invitati tutti gli eletti. Venite, et congregamini et congregamini ad cænam magnam Dei (Apoc. XIX, 17). Lì non sarà più la carne e il sangue di Cristo che ci sarà dato come cibo, ma la stessa Divinità si farà nostro cibo. Che festa il vedere Dio, lo stare con Dio, il vivere di Dio! « Præmium nostrum est videre Deum, esse cum Deo, vivere de Deo. » (S. Bern.). È allora che sarà consumata la santissima unione, iniziata qui sulla terra dalla grazia, tra Dio e le anime, perché possedendolo perfettamente come Verità piena e Bene sovrano, esse si uniranno a Lui in modo ineffabile e godranno per sempre dei suoi castissimi abbracci.  « Beati, qui ad cænam nuptiarum Agni vocati sunt ». (Apoc. XIX, 9). A tutti, lo Sposo celeste dirà: « Mangiate, amici miei, e bevete: bevete il vino della santa carità, e ubriacatevi, miei cari: Comedite, amici, et bibite, et inebriamini,  charissimi (Cant. V, 1). « La beatitudine non è come un liquore prezioso contenuto in un vaso e rapidamente esaurito; è un fiume inesauribile e senza fine, un torrente di delizie, di gloria e di pace, da cui gli eletti berranno in eterno fino a quando non saranno pienamente soddisfatti, fino a quando non si ubriacheranno.  Inebriabuntur ab ubertate domus tuæ, et torrente voluptatis tuæ potabis eos (Ps. XXXV, 9). E non ci si offenda di questa espressione dettata dallo Spirito Santo stesso. Se c’è una ubriacatura vergognosa e indegna di un essere ragionevole, ce n’è un’altra legittima e santa: c’è l’inebriamento di gioia, l’inebriamento d’amore. Non era inebriata dall’amore divino, questa buona Santa, Maria Maddalena di Pazzi, quando andava lanciando con tutte l’eco del suo monastero questo grido appassionato: « L’amore non si conosce, l’amore non si ama »? Non era anch’egli inebriato di delizie, San Francesco Saverio, quando, in mezzo alle sue fatiche apostoliche, schiacciato, per così dire, sotto il peso delle consolazioni celesti che inondavano la sua anima, gridava: « Basta, Signore, basta; risparmiate il mio povero cuore, io non ne posso più sopportare » ? Se, nel seno stesso dell’esilio, l’uomo è in grado di assaporare tali gioie, come sarà nella patria?

V.

Ci sono ancora altre denominazioni ricche di promesse, piene di mistero, che finiranno di edificarci sulla grandezza della felicità futura, a partire dal patrimonio riservato ai santi. Il cielo è riposo, è pace, è vita: riposo dopo il lavoro, pace dopo la guerra, vita senza fine. Chi non desidera il riposo, chi non desidera la pace, chi non desidera la vita? Ma il riposo si acquista regolarmente solo attraverso il lavoro; la guerra è spesso necessaria per raggiungere la pace; e l’Apostolo san Paolo ci invita « a portare costantemente la mortificazione di Gesù nel nostro corpo, se vogliamo che la vita divina si manifesti nella nostra carne mortale » (II Cor. IV, 10).  La vita presente è il tempo del lavoro, del lavoro fecondo, della semina spirituale (II Cor. IV, 10). Come l’aratore deve sopportare il peso del giorno e del caldo, soffrire le intemperie delle stagioni, stancare le sue forti braccia per arare il seno della terra prima di affidargli il seme, sperare per il raccolto futuro, così anche il Cristiano deve compiere instancabilmente le opere che costituiscono il suo compito quotidiano; deve dedicarsi alla preghiera, all’obbedienza, a curvare le spalle sotto il giogo della croce, a sopportare, senza lamentarsi, le difficoltà, la tristezza, le tribolazioni che sono il pane quotidiano dell’esilio. A questo si aggiungono le privazioni, le sofferenze, la povertà, le contraddizioni, le vessazioni dolorose, le ingratitudini, tante ferite segrete del cuore, tanti dolori intimi tanto più amari e dolorosi da sopportare, perché spesso senza testimoni e consolatori. In breve, secondo le parole dei nostri Libri sacri, il Cristiano deve seminare in lacrime: Euntes, ibant et flebant, mittentes semina sua (Ps. CXXV, 6).  E come se tutto questo non bastasse per la sua debolezza, lo attendono ancora altre prove: lo attende la malattia, la morte che falcia senza pietà intorno a lui, delle vite spesso molto care; c’è poi lo spettacolo dell’ingiustizia trionfante, la persecuzione organizzata contro chiunque voglia essere fedele al suo dovere; ci sono le tentazioni che lo assediano, gli attacchi incessanti dei nemici della sua salvezza; c’è la lotta sempre crescente contro gli istinti malvagi della natura, la lotta quotidiana contro le sue passioni; una lotta così feroce, a volte così terribile, che lo stesso grande Apostolo gridava: « Chi mi libererà da questo corpo di morte? Quis me liberabit de corpore mortis hujus » (Rom. VII, 24). Ma qual gioia, qual felicità, qual trasporto di allegria, quando, liberata dalla prigione del corpo, liberata per sempre dagli attacchi dei suoi nemici e pienamente purificata, la sua anima sarà introdotta in cielo e vedrà Nostro Signore correre incontro a lei con volto sorridente e aprirle le braccia; quando sentirà queste parole di conforto uscire dalle sue labbra: « Alzati, mio caro, vieni senza indugio e riposa dalla tua fatica ». Surge, propera, amica mea….. È trascorso già l’inverno, questa stagione di tristezza e sofferenza è passata: Jam enim hiems transiit; non è più il tempo delle lacrime, fuggito per sempre: imber abiit et recessit. I fiori, quei fiori del cielo che non sbiadiscono mai, si sono mostrati nella nostra terra: flores apparuerunt in terra nostra. – Più dolce di quella della tortorella, la voce di Maria, che si unisce a quella degli Angeli e dei beati, risuona ora nel tuo orecchio: vox turturis audita est in terra nostra….. (Cant. II, 10-12) Vieni a ricevere la corona che è destinata a te: veni, coronaberis. » (Cant. IV, 8). Poi, secondo la parola dei nostri Libri sacri, « Dio stesso cancellerà ogni lacrima dal volto degli eletti, e non ci sarà più né morte, né lutto, pianto o dolore, perché tutto questo appartiene ad un passato che è scomparso per sempre. Absterget Deus omnem lacrymam ab oculis eorum; et mors ultra non erit, neque luctus, neque clamor, neque dolor erit ultra, quia prima abierunt » (Apoc. XXI, 4). L’autore sacro non dice semplicemente che tutte le lacrime si asciugheranno o che gli eletti si tergeranno da sé il viso; no, è Dio, Dio in persona, che si riserva questo ufficio: Absterget Deus omnem lacrymam. « Sono Io – dice altrove attraverso il suo profeta – che vi consolerò: Ego, ego ipse consolabor vos » (Isa. LI, 12). Come una madre che accudisce il suo bambino, Io vi conforterò e voi sarete confortati: « Quomodo si cui mater blandiatur, ita ego consolabor vos, et in Jerusalem consolabimini » (Isa. XLVI, 13). Se è dolce per un malato sentire una mano amica, la mano di una madre o di una moglie asciugare il sudore o le lacrime che gli inondano il viso, come sarà sentire la mano sulla fronte di un Dio, una mano mille volte più morbida e carezzevole di quella di una madre? Questo è ciò che sostiene i giusti in mezzo alle loro prove e li conforta nelle loro afflizioni. Sanno – senza averne dubbio – che i loro dolori avranno solo un tempo, mentre la ricompensa sarà eterna; e, sentendo l’Apostolo dire loro  che non c’è proporzione alcuna tra le sofferenze della vita presente e la gloria futura che un giorno dovrà essere loro rivelata » (Rom. VIII, 18), perché « delle tribolazioni leggere e momentanee, procureranno loro un immenso ed eterno carico di gloria » (II. Cor. IV, 17), sono confortati da questa speranza; e, lungi dal lasciarsi travolgere dalle miserie di questa vita, gioiscono piuttosto, convinti che, se soffrono qui sulla terra con Gesù Cristo, un giorno saranno associati al suo trionfo (Rom. VIII, 17), e che dopo essere stati con Lui nel dolore, saranno ammessi a condividerne il suo riposo.  Ma quale sarà questo riposo? L’inazione? La tranquillità? Il fermare della vita? Un sonno eterno? No, certamente no. Il riposo promessoci è un riposo animato, fruttuoso, opulento, secondo la parola del profeta: Sedebit populus meus…. in requie opulenta (Isa. XXXII, 18). È un riposo pieno di meravigliose operazioni, non accompagnato da alcuna fatica, che non viene ad interrompere alcuna necessità, e che procura piaceri ineffabili. È l’attività generosa, incessante, continua; l’attività, portata alla sua massima potenza, di un’anima che è giunta al termine e riposa in Dio come Dio riposa in se stesso (Hebr. IV, 9-10). Cessando di creare, Dio non cessa di agire (« Pater meus usque modo operatur, et ego operor. » – Joan,V, 17); ma è soprattutto all’interno che si svolge la sua attività: Egli contempla se stesso, ama se stesso, gioisce di se stesso, è felice, è la beatitudine sussistente. Ora, in cielo, noi saremo simile a Lui, vedendolo e amandolo come vede ed ama Se stesso, condivideremo la sua felicità, vivremo la sua vita. E nulla disturberà o interromperà la nostra contemplazione: né le occupazioni materiali, che assorbono una parte così grande della nostra esistenza terrena, né le opere di misericordia che non dovranno più essere esercitate là dove manca ogni miseria, né il bisogno imperativo del sonno. Niente più combattimenti all’interno, niente più combattimenti all’esterno contro i nemici della nostra salvezza; tutti i nostri confini saranno ora al sicuro dalle loro incursioni. La pace, una pace gloriosa, una pace immutabile, sarà ora la nostra condivisione. Tutto il popolo degli eletti, non avendo più nulla da temere, riposerà, secondo le parole del Profeta, nella bellezza della pace. Sedebit populus meus in pulchritudine pacis….. e in requie opulenta. (Isa. XXXII, 18). Oh! dolce riposo! Oh! felici vacanze, dedicate interamente allo spettacolo più bello che si possa offrire ad una creatura ragionevole, poiché esso costituisce la felicità stessa di Dio. Ibi vacabimus et videbimus. – L’intelligenza, la più nobile delle nostre facoltà, sarà quindi della festa; ma anche il cuore avrà la sua grande parte, perché la visione genererà l’amore. Videbimus et amabimus. È proprio allora, e solo allora, che il precetto della santa carità sarà pienamente adempiuto, perché ameremo Dio con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima, con tutte le nostre forze, con tutta la nostra mente (Luc. X, 27); noi lo ameremo senza  sosta, senza interruzione, senza stancarci,  senza queste alternative di ardore e di freddezza così umilianti per le anime sante e desolate; lo ameremo e l’amore che, traboccante dal nostro cuore, e salito fino alle nostre labbra, scoppierà, rendendo grazie e lode: Amabimus et laudabimus (S. Aug., De Civit. Dei. 1. XXII. cap. XXX, n. 5), invece di tradursi come è quaggiù in desideri (Ps. XLI, 3), gemiti (Rom. VIII, 23), languori (Cant. V, 8), si diffonderà sotto forma di canti di gioia e canti di allegria (Isa. LI, 3). « Beati coloro che abitano nella tua casa, o Signore, essi vi loderanno per sempre: Beati qui habitant in domo tua, Domine: in sæcula sæculorum laudabunt te » (Ps. LXXXIII, 5). Ma non è da temere che il riposo provochi noia e che la lode perpetua si trasformi in disgusto? « Se smettete di amare – dice sant’Agostino – smetterete di lodare. Ma il vostro amore non cesserà, perché Colui che voi contemplerete è di una bellezza così grande, che non è affatto capace di produrre sazietà e disgusto » (S. Aug. in Ps. LXXXV, N. 24). – Se un semplice raggio di bellezza divina che cade sulla fronte di una creatura la rende così amabile da trascinare e affascinare i cuori; se più la contempliamo, più ne siamo rapiti, quale attrazione invincibile non eserciterà sugli eletti la visione chiara, la contemplazione prolungata della Bellezza infinita? Se è così dolce amare o essere amato da una semplice creatura, povera e fragile come noi, quale gioia, qual gaudio, qual felicità, qual ebbrezza, non proverà un’anima che si sentirà incessantemente amata da tutta la potenza della Santissima Trinità? Che altro potrebbe desiderare, se non il prolungamento di tale felicità? E sapendo che essa è eterna, come potrebbe non essere pienamente soddisfatta? Dio sarà dunque il fine dei nostri desideri, Colui che vedremo all’infinito, che ameremo senza stancarci » (S. Aug., De Civit. Dei, 1. XXII, c. XXX, n. 1). Ecco, da tutto ciò che siamo riusciti a balbettare, in cosa consiste l’eredità dei figli di Dio: ecco ciò che sarà la beatitudine promessa da Nostro Signore, sotto il nome di vita eterna, a coloro che Egli chiama sue pecore (Giov. X, 28): la contemplazione diretta e immediata della bellezza infinita, un’estasi perpetua d’amore, una lode incessante. “Ecco ciò che sarà alla fine infinito: Ecce quod erit in fine sine fine ». Se, a giudizio del Salmista o meglio dello Spirito Santo che lo ha ispirato, « un solo giorno trascorso qui sotto nella casa di Dio, vale mille tra i piaceri del mondo » (Ps. LXXXIII, 11), cosa possiamo pensare, cosa possiamo dire della vita che ci attende in cielo, una vita così piena, così santa, così debordante di gioia, una vita che non è più soggetta all’alternanza del giorno e della notte, né alle vicissitudini della tristezza e della gioia, soprattutto quando si rifletta che non finirà mai? Ma non basta proclamarla senza fine; come l’eternità divina, di cui è partecipazione, non conosce cambiamenti, né successione, né passato, né futuro, e consiste in un presente indivisibile ed immutabile, nel pieno, perfetto ed immutabile possesso del Bene sovrano (S. Th., Summa Theol., 1, q. X, a. 3).  Come, pensando a tale felicità, l’anima santa, ancora esiliata sulla terra, non potrebbe non gridare con la sposa del Cantico dei Cantici:  « O mio amato, insegnatemi dove mi conduce il vostro gregge, dove riposate a mezzogiorno: Indica mihi, quem diligit anima mea, ubi pascas, ubi cubes in meridie » (Cant. I, 6) – « Mezzodì è la vista, è la contemplazione del Vostro volto. Vultus tuus meridies es. » (S. Bern., in Cant. Serm. XXXIII, n. 7). Quaggiù, ahimè! né la luce è chiara, né il riposo completo, né c’è alcuna sicurezza da nessuna parte; per questo vi chiedo di dirmi dove riposate a mezzogiorno….. O vero Mezzogiorno, oh pienezza di ardore e di luce, dove tutto è stabile, dove il sole non declina mai, dove le ombre sono sconosciute, l’acqua fangosa della terra disseccata, e le esalazioni fetide del mondo si sono completamente dissipate! O luce del mezzogiorno, dolcezza della primavera, bellezza dell’estate, fertilità dell’autunno, e, per nulla omettere,  riposo d’inverno! a meno che non si preferisca dire che non ci sarà l’inverno. Indicatemi, o mio amato, questo luogo di chiarezza, di pace, di pienezza, perché anch’io meriti di contemplarvi nella vostra luce e bellezza (S. Bern. loc. cit. n. 6-7).

https://www.exsurgatdeus.org/2020/03/10/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-13/

SALMI BIBLICI: “PARATUM COR MEUM, DEUS” (CVII)

SALMO 107: “PARATUM COR MEUM, DEUS”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 107

Canticum Psalmi, ipsi David.

[1] Paratum cor meum, Deus, paratum cor meum; cantabo, et psallam in gloria mea.

[2] Exsurge, gloria mea; exsurge, psalterium et cithara; exsurgam diluculo.

[3] Confitebor tibi in populis, Domine, et psallam tibi in nationibus;

[4] quia magna est super caelos misericordia tua, et usque ad nubes veritas tua.

[5] Exaltare super cælos, Deus, et super omnem terram gloria tua;

[6] ut liberentur dilecti tui, salvum fac dextera tua, et exaudi me.

[7] Deus locutus est in sancto suo: exsultabo, et dividam Sichimam; et convallem tabernaculorum dimetiar.

[8] Meus est Galaad, et meus est Manasses; et Ephraim susceptio capitis mei. Juda rex meus,

[9] Moab lebes spei meæ; in Idumaeam extendam calceamentum meum; mihi alienigenæ amici facti sunt.

[10] Quis deducet me in civitatem munitam? quis deducet me usque in Idumæam?

[11] Nonne tu, Deus, qui repulisti nos? et non exibis, Deus, in virtutibus nostris?

[12] Da nobis auxilium de tribulatione, quia vana salus hominis.

[13] In Deo faciemus virtutem; et ipse ad nihilum deducet inimicos nostros.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CVII.

Preghiera a Dio in occasione delia guerra contro i Moabiti, Filistei ed Idumei. Il Salmo é composto delle ultime parti dei due Salmi 56 e 59. Nulla vi è di nuovo. Se ne fece un Salmo, forse per compire il numero dei 150, o per ragione che non si conosce.

Cantico, ovver salmo dello stesso David.

1. Il mio cuore, o Dio, egli è preparato: egli è preparato il cuor mio: canterò e salmeggerò nella mia gloria.

2. Sorgi, mia gloria, sorgi salterio e tu cetra: io sorgerò coll’aurora.

3. A te io darò laude tra’ popoli, o Signore, inni a te canterò tra le genti.

4. Perché più grande dei cieli è la tua misericordia, e la tua verità fino alle nubi.

5. Sii tu esaltato fin sopra de’ cieli, e la tua gloria per tutta quanta la terra, affinché liberati sieno i tuoi eletti.

6. Salvami con la tua destra, ed esaudiscimi: Dio ha parlato nel suo santuario;

7. Che io sarò nell’allegrezza, e sarò padrone di Sichem, e dividerò la valle de’ tabernacoli.

8. Mio è Galaad e mio è Manasse, ed Ephraim fortezza della mia testa.

9. Giuda mio re: Moab vaso di mia speranza. Col mio piede calcherò l’Idumea; gl’istranieri saranno soggetti a me.

10. Chi mi condurrà nella città munita? Chi mi condurrà fino nell’Idumea?

11. Chi se non tu, o Dio, che ci hai rigettati? E non verrai tu, o Dio, co’ nostri eserciti?

12. Dà aiuto a noi nella tribolazione, perché invano si aspetta salute dall’uomo.

13. Con Dio farem cose grandi; ed egli annichilerà coloro che ci affliggono.

Sommario analitico

Questo salmo che, secondo il titolo, sarebbe di Davide, si compone di due parti, di cui una (2-6) si trova alla fine del salmo LVI, e fu composta durante la persecuzione di Saul; l’altra (7-14) termina il salmo LIX, composto anch’esso da Davide in occasione della guerra contro gli Idumei. Per spiegare l’unione di questi frammenti, si congettura che il salmo CVII non sia che il salmo LIX che Davide voleva si cantasse in qualche occasione solenne. Egli allora tagliò i versetti 3-6 che ricordavano dei giorni infausti, e li rimpiazzò con i versetti del salmo 8-12 del salmo LIX, che formavano un inizio magnifico e trionfale. (Le Hir.). Perché, si domanda Bellarmino, questo salmo è stato aggiunto agli altri quando non conteneva nulla di nuovo? Senza dubbio – egli risponde – si sarà voluto completare il numero di centocinquanta salmi, a meno che non esista qualche altra ragione occulta che egli dichiara di ignorare completamente. Noi osiamo dire che la ragione che il redattore dei salmi, abbia voluto completare il numero di centocinquanta salmi, prendendo le due parti dei salmi LVII e LIX, manca assolutamente di verosimiglianza: perché scegliere infatti i salmi LVI e LIX, piuttosto che altri? Nella prima parte, Davide, personificando il Salvatore, eccita la propria anima a risvegliare la propria lira per benedire il Signore (1-4). Nella seconda, egli indica il triplice oggetto delle sue lodi:

1° La perfezione di Dio, la sua misericordia, la sua verità, la sua gloria (5-6);

2° la sua gloria; egli estende le sue conquiste su tutto l’universo per la predicazione del Vangelo (7-11);

3° La speranza che egli ha del soccorso di Dio, nelle vittorie, nelle tribolazioni (12-14).

Spiegazioni e Considerazioni (1)

(1) Vedi i salmi LVI e LIX

I. — 1-3.

ff. 1, 2. – La ripetizione dei due salmi LVI e LIX, riuniti in gran parte di questo salmo CVII, contiene una lezione molto utile ai progressi della nostra perfezione spirituale. Non crediamo che Davide si sia ripetuto per mancanza di nuovi sentimenti verso Dio, e come se il suo cuore, caduto nella aridità, non gli fornisse alcuna nuova affezione nella preghiera, di modo che, per rianimare il suo fervore, fosse stato obbligato a ricorrere a ciò che già aveva espresso in due altri salmi. Questa spiegazione non può convenire alle parole di un Profeta così pieno di Spirito di Dio; diciamo dunque piuttosto che egli ci dà qui l’esempio di ciò che noi dobbiamo fare quando ci troviamo in una specie di languore che sembra smorzare tutti i sentimenti della nostra anima. È il momento di ricordarci le verità che ci hanno toccato in altre occasioni, ciò che è più efficace, ed estraiamo allora dai libri santi o dei libri di pietà ciò che ci colpisce nei tempi di fervore, ripetiamo le nostre antiche preghiere o quelle dei santi che ci hanno preceduto. È l’esempio che ci si dà nella preghiera del giardino degli uliveti, il nostro divin Salvatore, quando si dice: « Egli tornò e pregò per la terza volta, dicendo le stesse parole. » (Matt. XXIV, 43). È così l’esempio che la Chiesa ci dà nella sua liturgia e nei suoi divini offici dove si lasciano presentare all’Altissimo gli stessi atti di adorazione, di riconoscenza, di amore, di compunzione, ripetendo così spesso: « Signore vieni presto in mio aiuto; Signore abbiate pietà di noi; gloria al Padre, al Figlio, e allo Spirito Santo, etc. » (Berthier). – « Il mio cuore è pronto, Signore, il mio cuore è pronto. » Questa ripetizione è l’indice: – 1° di una volontà determinata; – 2° di una forza interiore che nulla teme ed è disposta a superare ogni ostacolo; – 3° di un santo fervore; di un amore ardente che sembra andare oltre i sacrifici che Dio può esigere. È così che il nostro cuore deve essere pronto: – 1° per acquisire e praticare tutti i comandamenti di Dio e tutte le virtù cristiane: « Io sono pronto e senza essere per nulla turbato, ad osservare i vostri comandamenti, » (Ps. CXVIII, 60); « il suo cuore è pronto a sperare nel Signore, » (Ps. CXI, 7); – 2° per attenere l’arrivo del sovrano Giudice: « Siate dunque anche sempre pronti, perché non sapete in quale ora il Figlio dell’uomo verrà » (Matt., XXIV, 44); – 3° per supportare e soffrire attendendo tutte le prove, tutte le tribolazioni che entrano nei disegni di Dio in vista della nostra santificazione. – Tale è la disposizione del cuore in cui deve essere il vero Cristiano, e soprattutto un prete che, chiamato dalla sua vocazione ad essere l’uomo di Dio ed il servitore dei suoi fratelli, deve mostrarsi sempre pronto a fare la volontà, ad eseguire gli ordini del suo Maestro, a qualunque costo. « Il mio cuore è pronto, Signore, il mio cuore è pronto. » Io non so cosa vogliate fare di me, ma, comunque, il mio cuore è pronto! Volete che io sia un olocausto consumato ed annientato davanti a vostro Padre con il martirio del santo amore? Volete che io sia o una vittima per il peccato, con le sante austerità della penitenza, o una vittima pacifica ed eucaristica il cui cuore toccato dai vostri benefici, si esali in azioni di grazie e di distilli in amore ai vostri occhi? « Il mio cuore è pronto! » Volete che immolato alla carità, io distribuisca tutti i miei beni per il nutrimento dei poveri o che « fratello sincero e benefico, » io doni la mia vita per i Cristiani, consumandomi in un pio travaglio nell’istruzione degli ignoranti e nell’assistenza dei malati? « Il mio cuore è pronto, Signore, il mio cuore è pronto! » (Bossuet, Elev. XVIII, s 2, El.) – Cosa volete ancora da me, Signore, per cui c’è bisogno che vi immoli le affezioni più intime del mio cuore? Volete accettare il sacrificio dei miei progetti in avvenire, die miei progetti di studi, di predicazione, di conversione delle anime, in cui si mescola forse a mia insaputa più orgoglio, ambizione, piuttosto che zelo per la verità? Il mio cuore è pronto, Signore, il mio cuore è pronto! » Orbene, volete che dopo aver formato delle generazioni di fedeli, l’atto cruento del martirio assicuri e confermi la fede nell’anima dei discepoli: « il mio cuore è pronto, Signore, il mio cuore è pronto! »; io sono pronto a camminare, ad offrirmi, a dedicarmi, a sacrificarmi, a seguirvi fino alla morte, gioioso anche di soffrire con Voi, poiché con Voi io posso tutto. « Il mio cuore è pronto, il mio cuore è pronto! » – L’Apostolo era nel tormento, nelle catene, in prigione; era coperto di piaghe; soffriva la fame, la sete, il freddo e la nudità; era divorato da ogni genere di dolori e di sofferenze, e diceva: « … Noi ci glorifichiamo nelle tribolazioni. » (II Cor. XI, 27). – Perché parlava così, se non perché il suo cuore era preparato? Egli cantava dunque questo salmo: « Il mio cuore è pronto, Signore, il mio cuore è pronto! » – « Levatevi, mia gloria, risvegliatevi mia lira ed arpa, io mi alzerà all’aurora. » – È sovranamente importante risvegliare la nostra anima dal sopore in cui si trova piombata, esercitare la sua debolezza e il suo languore per rendere i propri doveri a Dio, e non meno importante di levarci a questi effetti a mattino, allorquando il nostro spirito è più calmo e più tranquillo, e non è ancora né invaso, né turbato dalle preoccupazioni e dalle sollecitudini degli interessi terreni. – « Il giusto si applicherà a volgere fin dall’aurora il suo cuore verso il Signore che lo ha creato, e pregherà in presenza dell’Altissimo. » (Eccli., XXXIX, 6). – È allora che bisogna cantare e glorificare Dio sull’arpa. Se avete abbondanza di qualche bene terrestre, rendete grazie a Colui che vi ha dato questo bene; se vi manca qualcosa o vi è tolto a vostro danno, glorificatelo in tutta sicurezza sull’arpa; perché Colui che vi ha dato questi beni non vi è tolto, benché i beni che vi ha dato, vi siano stati tolti. Così dunque, in questa situazione, lo ripeto, glorificatelo in tutta sicurezza sull’arpa; sicuri del vostro Dio, toccate le corde del vostro cuore e dite, come se estraeste suoni dalla parte armonica dell’arpa: « Il Signore me l’aveva dato, il Signore me l’ha tolto; è stato come è piaciuto al Signore; sia benedetto il Nome del Signore. » (Giob. I, 21; S. Agost., sur le Ps XXXII). 

ff. 3, 4. – Noi vediamo qui, i felici effetti della conformità della nostra volontà con la volontà di Dio: – 1° il perfetto accordo della nostra anima e della nostra bocca per lodare Dio; – 2° una santa prontezza, un ardore tutto particolare, una pia attività per eseguire le buone ispirazioni che Dio ci dà: « Mi leverò dall’aurora »;  – 3° la disposizione in cui siamo di rendere grazie a Dio in ogni luogo ed in faccia a tutti: « io vi loderò in mezzo ai popoli, etc. »; – 4° Il desiderio della gloria di Dio: « Elevatevi Signore, al di sopra dei cieli. » – È un dovere per ogni Cristiano rendere in particolare continue azioni di grazie al Signore per i benefici generali e pubblici che Dio accorda alle nazioni ed ai popoli. Questa mancanza di riconoscenza, sia privata che pubblica, è una delle omissioni più comune tra i Cristiani, ed una di quelle con gli effetti più funesti, sia per gli individui, sia per le società.  

II — 5 – 14.

ff. 5, 6. – « La legge è stata data per Mosè, la grazia e la verità ci è stata data per mezzo di Gesù-Cristo. » (Giov. I, 17).  La grazia è sicuramente la stessa cosa che la misericordia: così, secondo queste parole dell’evangelista, è Gesù- Cristo che ha dato agli uomini la misericordia, e che ha mostrato loro la verità. Tuttavia i profeti e Davide più di tutti gli altri, hanno sovente parlato della misericordia e della verità di Dio; essi hanno conosciuto questi due attributi; essi ne hanno fatto la base della loro fiducia. Occorre dunque, per conciliarli con il Vangelo, che essi abbiano contato su Gesù-Cristo, che essi lo abbiano visto in spirito, che abbiano penetrato il mistero della sua missione, il cui oggetto era far donare la misericordia e far conoscere la verità. Così tutte le volte che questi profeti esaltano la misericordia e la verità di Dio, essi devono avere avuto di vista Gesù-Cristo, e questa dottrina diffonde una grande luce su una quantità di testi dell’Antico Testamento e dei salmi in particolare. Sarà dunque vero, secondo il senso di questi ultimi due versetti, che « la misericordia di Dio è al di sopra dei cieli, e la sua verità sopra le nubi », cioè nel più alto grado di eccellenza, perché Gesù-Cristo è il capolavoro della sapienza di Dio; senza di Lui, non avremmo avuto parte né alla misericordia, né alla verità di Dio, e attraverso di Lui, questi due grandi attributi non solo ci sono conosciuti, ma pure comunicati per gli effetti che operano su di noi. (Berthier). – Gesù-Cristo è la misericordia e la verità: la misericordia, perché secondo San Giovanni « … Egli è propiziazione per i nostri peccati » la verità, poiché è incapace di ingannarsi e di ingannare alcuno; è anche il nome che dà a se stesso. Ma la misericordia e la verità, è Dio: Gesù-Cristo è dunque Dio, ed è Lui appunto che il profeta invita in questo versetto, a manifestare la sua gloria nel cielo e sulla terra. Questo grande mistero è compiuto: Egli è stato manifestato nella carne, autorizzato dallo Spirito, visto dagli Angeli, predicato ai gentili, creduto nel mondo, ed elevato nella sua gloria. » (I Tim., III, 16) … Parole sublimi dell’Apostolo, esse comprendono tutta l’economia della salvezza, tutte le vie di misericordia e di verità che Dio ha aperto al genere umano nell’incarnazione del Verbo eterno (Idem). – Noi possiamo e dobbiamo desiderare che Dio ci faccia di tempo in tempo conoscere, con qualche tratto splendente della sua potenza, che Egli è Dio, e che, benché elevato sopra i cieli, non trascura ciò che accade sulla terra, e farvi risplendere la sua gloria. Questi tratti sono talvolta necessari, alfine di mettere al coperto coloro che Egli ama affinché siano liberati dalle oppressioni alle quali sono troppo spesso esposti. (Dug.). – « Affinché i vostri diletti siano liberati. » La santa teologia ci insegna che Dio ha compreso dalle origini, in uno stesso decreto, il suo Figlio incarnato e tutti gli eletti, ed ha così ben legato costoro alla persona di Lui, che qui in basso hanno in comune la stessa vita, e lassù la medesima gloria, e che per Dio divengono un solo oggetto dei suoi pensieri e delle sue affezioni, secondo queste parole del Salvatore: « Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità ed il mondo sappia che Tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me.» (Giov. XVII, 23).; (Mgr PIE, Discours, etc, T., VIII, 223.). – « Tutto per gli eletti. » (II Tim., II, 10). È una cosa prodigiosa, vedere l’esecuzione dei disegni di Dio, attuare in men che nulla le imprese più elevate; tutti gli elementi cambiano di natura per servirlo; infine, fa apparire in tutte le sue azioni che Egli è il solo Dio ed il Creatore del cielo e della terra. Ora si tratta qui del compiersi del più grande disegno di Dio, che è la consumazione di tutte le sue opere, cioè della sovrana beatitudine che Egli riserva ai suoi eletti (BOSSUET, Serm. pour la Toussaint.). – « Affinché i vostri diletti siano liberati. » Chi può dubitare che questo disegno non sia straordinario, poiché Dio vi agisce con passione? Egli si è contentato di dire una parola per creare il cielo e la terra. Noi non vediamo colà una veemente emozione. Ma, per ciò che riguarda la gloria dei suoi eletti, voi direste che vi si applichi con tutta le sue forze; quanto meno vi ha applicato il più grande di tutti i miracoli: l’incarnazione di suo Figlio … mai Dio ha voluto nulla con tanta passione; ora, volere per Dio, significa fare. Dunque ciò che farà per i suoi eletti sarà sì grande, che tutto l’universo apparirà un nulla nei confronti di quest’opera. La sua passione è così grande che passa a tutti i suoi amici, e fa rimescolare ai suoi nemici tutti i loro artifici per opporsi all’esecuzione di questo grande disegno. (Idem).- Se le leggi di uno Stato si oppongono alla salvezza eterna dei suoi eletti, Dio distruggerà tutto quello Stato per liberarli dalle sue leggi; Egli prende le anime a questo prezzo, agita il cielo e la terra per generare i suoi eletti, e così nulla gli è caro tanto quanto questi figli della sua eterna delizia, questi membri inseparabili del suo Figlio diletto, e nulla risparmia purché li salvi (BOSSUET, Or. fun. de la duch. d’Orl.). – « Salvatemi con la vostra destra ed esauditemi. » Siccome vi domando ciò che Voi volete darmi, che io non gridi durante il giorno con la voce dei miei peccati, in modo da non essere esaudito (Ps. XXI, 2), né durante la notte perché non mi ascoltereste, ma è la vita eterna che io vi domando, o mio Dio: esauditemi dunque, perché chiedo di essere ammesso alla vostra destra. Ogni fedele, conservando nel suo cuore la parola di Dio, avrebbe un vivo timore del giudizio avvenire, vivrebbe una santa vita, in modo tale che la sua condotta non porti alcuno a bestemmiare il Nome del suo Dio, chiederebbe frequentemente nelle sue preghiere i beni di questo mondo, ed anche senza essere esaudito; ma se egli prega per ottenere la vita eterna, è sempre esaudito. Chi in effetti, quando è malato, non chiede la salute? E tuttavia gli è più utile essere malato. Può accadere che non siate esaudito in questa vostra preghiera; ma allora non sarete esaudito secondo la vostra volontà, per esserlo però per la vostra utilità. Se al contrario voi chiedete a Dio che vi doni la vita eterna, che vi doni il regno dei cieli, che vi ammetta alla destra di suo Figlio, quando verrà a giudicare la terra, siatene certi, un giorno lo otterrete, anche se non lo avrete immediatamente; perché non è ancora giunto il tempo di ottenerlo. Voi siete esaudito e non lo sapete; ciò che chiedete sarà fatto, benché non sappiate come sarà fatto. La pianta sta radicando, non ancora ha prodotto i suoi frutti. « … Che la vostra destra mi salvi ed esauditemi. » (S. Agost.). 

ff. 7-9. – « Dio ha parlato con la voce del suo santo. » Perché temete che la parola di Dio non si compia? Se avete un amico saggio e serio, come parlereste di lui? Egli ha detto tale cosa, necessariamente questa cosa si farà; è un uomo serio, non agisce con leggerezza, non si lascia facilmente distogliere dalle sue decisioni; ciò che ha promesso è certo. Ma pur tuttavia questo amico non è che un uomo, e l’uomo vuol talvolta compiere ciò che ha promesso, ma non può farlo. Da parte di Dio non avrete nulla da temere; Egli è veridico, è cosa certa; Egli è onnipotente, cosa ugualmente certa; Egli allora non può ingannarci ed ha il potere di compiere ciò che ha promesso. Perché dunque temere di essere deluso? Ma non siete voi l’artefice della vostra delusione, bisogna che perseveriate fino alla fine; perché da parte sua, Dio vi donerà certamente ciò che ha promesso. « Dio ha parlato con la voce del suo santo. » Qual è il suo santo? « Dio, dice l’Apostolo, era nel Cristo, riconciliando il mondo con Lui. » (II Cor. V, 19). Egli era dunque in questo Santo, di cui il salmista ha detto in un altro passo: « Mio Dio. La vostra voce è nel vostro Santo. » (Ps. LXXII, 14), « Dio ha parlato con la voce del suo Santo. » Il Profeta non dice quali parole Dio abbia pronunciato; ma come Dio ha parlato con la voce del suo Santo, e che niente si può fare che non lo abbia detto Dio, ciò che segue si compirà in conseguenza della parola di Dio … (S. Agost.). Io mi rallegrerò e dividerò Sichem, e non misurerò la valle delle tende. » Non ci arrestiamo a queste vittorie di Davide, che egli predice come se fossero già arrivate, il cui frutto era l’ingrandirsi del regno di Giuda; ma consideriamo in queste vittorie e nelle loro conseguenze i simboli di ciò che doveva compiersi nella Chiesa di Dio, di cui il regno di Giuda era la figura, vale a dire le vittorie che gli eletti avrebbero riportato sui nemici della loro salvezza. – Essi divideranno tra loro queste vaste campagne del cielo, queste ricche vallate, o piuttosto ciascuno le possiederà tutte intere, senza alcuna divisione, senza nulla togliere alla parte degli altri. In questo regno dove, secondo l’espressione di Sant’Agostino, non c’è timore di avere pari, ove non ci sono gelosie tra concorrenti, (S. Agost., de Civit. Dei, lib. V. c. XXIV), tutto apparirà congiuntamente agli eletti, senza alcuna gelosia, e Dio sarà la loro principale, o piuttosto la loro unica forza. Aspettando essi si nutrono, come di una carne deliziosa, con la speranza di questi beni futuri; essi camminano a grandi passi nelle vie del cielo, essi si estendono da virtù in virtù. « Gli stranieri sono loro sottomessi, o piuttosto nessuno è loro estraneo; e purché si voglia amare Dio, si diventa subito loro amici. » (Dug.). 

ff. 10, 11. – « Chi mi condurrà fino alla città fortificata? » Per Davide, questa città fortificata, era la capitale dell’Idumea, figura del mondo che dobbiamo combattere e di cui bisogna impadronirsi; è là un compito al di sopra delle nostre forze. Noi non siamo capaci di fare il seppur minimo bene, di prendere la città più debole, ancor meno se fortificata. «Non siete voi, Signore, che ci avete rigettato, e non camminate alla testa delle nostre armate? Chi mi introdurrà nella citta fortificata? » Chi se non Dio? « Chi mi farà penetrare fin nell’Idumea? » vale a dire chi mi farà regnare sugli uomini della terra, perché questi pur rispettandomi, non sono miei e non vogliono progredire appartenendomi? « Chi mi introdurrà nell’Idumea? » vale a dire chi mi farà regnare fin sugli uomini della terra. Non siete Voi, mio Dio, che ci avete respinto? Tuttavia non uscirete alla testa delle nostre armate. Ma perché ci avete respinto? Perché ci avete distrutto? Perché « … Voi siete irritato contro di noi,  e non avete pietà di noi », voi ci condurrete dopo averci respinto; e benché non uscirete alla testa delle nostre armate, Voi ci condurrete. Che significa: « Voi non uscirete alla testa delle nostre armate? » Il mondo verrà contro di noi, il mondo sta per calpestarci sotto i piedi; sta per avvenire, con l’effusione del sangue dei martiri, un mucchio di testimonianze, ed i pagani, i carnefici, diranno: dov’è « il loro Dio? » (Ps. LXXVIII, 1). Allora « … Voi non uscirete o mio Dio, alla testa delle nostre armate; » perché non apparirete come loro nemico; non mostrerete la vostra potenza ma agirete dal di dentro. Che vuol dire: « Voi non uscirete? » Voi non apparirete. Sicuramente, quando i martiri erano incatenati e condotti al supplizio, quando erano condotti in prigione, quando venivano mostrati pubblicamente alla popolazione per servire loro da trastullo, quando venivano esposti alle bestie, quando venivano colpiti con il ferro, consumati con il fuoco, li si disprezzava come gente da Voi abbandonata, come gente proba di ogni soccorso! E come Dio agiva in loro? Come li consolava interiormente? Come rendeva loro la speranza della vita eterna? Come non abbandonava i loro cuori in cui l’uomo abitava in silenzio, felice, se era buono; miserabile, se era malvagio? Colui che non usciva alla testa delle loro armate li abbandonava dunque per questo? Non ha, al contrario introdotto la Chiesa fin nell’Idumea e nella città fortificata, in maggior sicurezza che se fosse stato alla testa delle loro armate? In effetti, se la Chiesa avesse voluto far guerra e combattere con la spada, poteva sembrare che combattesse per la vita presente; ma poiché essa ha disprezzato la vita presente, si è fatta un grande cumulo di testimonianze per la vita futura (S. Agost.). 

ff. 12,13. – « Dateci il vostro soccorso nell’angoscia, perché il soccorso che viene dall’uomo è vano. » Coloro che non hanno in sé il sale della saggezza, vadano ora, abbiano a desiderare per essi la salvezza temporale … che non è che la vanità del vecchio uomo. « Dateci il vostro soccorso; » datecelo anche se sembrate abbandonarci, e soccorreteci per questa via, « con Dio, noi non trionferemo né con la nostra spada, né con i nostri cavalli, né con le nostre corazze, né con i nostri scudi, né con la forza delle nostre armate, né all’esterno. In quale posto dunque? Dentro di noi, là dove siamo nascosti! Ma come trionferemo all’interno? « Con Dio noi trionferemo. » noi saremo come sviliti e come calpestati, saremo considerati come uomini senza nessun valore; ma Dio ridurrà i nemici a nulla. Ecco cosa è capitato ai nostri nemici: i martiri sono stati calpestati, con la loro pazienza, con il loro coraggio a sopportare i tormenti, con la loro perseveranza fino alla fine, essi hanno trionfato con l’aiuto di Dio (S. Agost.). – Cosa ne è di tutti i Santi nel corso di tutti i secoli. Il mondo li guarda nella tribolazione, negli esercizi di penitenza, nella solitudine, come la feccia della terra, come maledetti senza appoggio e senza risorsa, come degli imbecilli che non hanno talenti per fare fortuna, né di rendersi utili alla società, questi uomini nascosti ed oppressi sono nondimeno eroi agli occhi degli Angeli e di Dio stesso; essi escono da questo mondo, carichi delle spoglie di tutti i nemici della salvezza. La storia del mondo non parlerà di queste imprese, ma i fasti dell’eternità ne conserveranno la memoria. Tutta la grandezza umana perirà e quella dei santi sarà come quella di Dio, immutabile ed immortale. (Berthier).

PREDICHE QUARESIMALI (I-2020)

Nel MERCOLEDI’ dopo la prima Domenica

VII.

[P. Segneri S. J.: Quaresimale; Ivrea, 1844, Dalla Stamperia degli Eredi Franco, Tipogr. Vescov.]

“Curri spìritus immundus exierit ab nomine, ambulat per loca arida, quærens requiem, et non invenit.”

S. Matth XII, 43

I. Fu già tempo in cui gli uomini riputavano di aver fatta una gran prodezza, qualor essi giungessero ad ottenere che tante fiere, le quali albergano o tra gli orrori de’ boschi, o tra le verdure de’ prati, non recassero loro alcun nocumento; né si stendea la loro industria più oltre, che a procurare di non venire o strangolati dagli orsi, o sbranati da’ cignali, o morsicati dalle vipere, o punti dagli scorpioni. Ora noi ci ridiamo del poco cuore che avevano quegli antichi, e assai più innanzi abbiamo stesa l’audacia de’ nostri voti, ed aguzzato valore de’ nostri ingegni. Vogliamo or noi che queste fiere medesime, dianzi dette, non solamente non ci sieno d’offesa, ma che ancor ci ridondino a giovamento. Però abbiamo animosamente imparato e ad armarci delle loro pelli, e a nutrirci delle lor carni, e a valerci delle loro ossa, ed infino a sanarci co’ lor veleni, da noi cambiati mirabilmente in antidoti; a segno tale, che se ben si considera, molto più son oggi quegli uomini a cui dalle fiere vien conservata la vita, che non son coloro a’ quali vien tolta. Or così appunto converria che facessimo col demonio, fiera senza dubbio la pessima ch’abbia il mondo: Fera pessima (Gen. 37. 33). Non ci dee bastare oggimai il guardarci da esso, di resistergli, di ribatterlo, di fugarlo; dobbiam da esso cavare anche utilità. Ma qual utilità, mi direte, può da lui trarsi? Grandissima, se vogliamo, e questa sia, che impariam da esso a prezzar l’anima nostra. Egli, per testimonianza di Cristo, n’è sì geloso, che quando tolta e sé veggala dalle mani, non si dà pace, ma tutto ansioso, ma tutto ansante faticasi a riacquistarla : Cum spiritus immundus exierit ab homine, ambulat per loca arida, quærens requiem, et non invenit.  Ed a noi non dà niuna pena, che la riacquisto? Mirate un poco quanto studio egli adoperi a farci suoi. Egli ci aggira con fallacie, com’Eva; egli ci assalta con traversie, come Giobbe; egli ci affascina con trufferie, come Giuda; egli, come usò a Cristo, ci tenta con rie lusinghe, ci segue, ci asseconda, ci applaude, ci offerisce magnifiche donazioni; e noi per contrario non vogliamo aver di noi stessi veruna cura? Ah dilettissimi, e com’è giammai possibile tanto inganno? Non prezzar l’anima propria! Non prezzar l’anima propria! Parliamo chiaro: non aver più sollecitudine alcuna in ciò che si spetta, se non altro, a fuggir dalla dannazione! Deh lasciate ch’io questa volta mi sfoghi un poco in deplorare una sì stravagante trascuratezza; e voi compatitemi, perché, se starete attenti, ancor a voi sembrar dovrà luttuosa.

II. E certamente che tra’ Cristiani si dia questa poca sollecitudine di salvarsi, pur ora detta (non accade, o signori miei, che ci lusinghiamo), è manifestissimo, si dà, si dà. Un contrassegno assai spedito a discernere se ci prema alcuna faccenda, si è primieramente, a mio credere, ragionarne, discorrerne, dimandarne, ricercare in essa chi vaglia ad indirizzarci. Giacobbe, il quale, ito a cercar di Labano in terra straniera, ha vera sollecitudine di conoscerlo, minutamente ne interroga que’ pastori da cui crede averne contezza (Gen. XXIX. 5 et 6). Giuseppe, il quale, ito a cercar de’ fratelli per vie solinghe, ha vera sollecitudine di trovarli, ansiosamente ne chiede a quei viandanti da cui spera adirne novelle (Gen. 37. 16). E Saule, il quale non altro al fino esce a ricercar che alcun’asine smarrite al vecchio suo padre, contuttociò, perché ancor egli n’è veramente sollecito, che non fa? che non tollera? che non tenta? Credereste? non solo egli però gira monti, attraversa piani, ed indefesso ne scorre per varj borghi; ma non dubita inoltre d’andare a chiedere qualche favorevole oracolo intorno ad esse, e ad interrogarne un profeta; né solamente un profeta degli ordinarj, ma il segnalato, ma il sommo, ma un Samuele: Eamus ad videntem (1 Reg. IX. 9). Che dite dunque, uditori? Potete voi dar a credere che vi prema di salvar l’anima vostra, mentre non è che mai ricerchiate un consiglio su tanto affare, che ne consultiate con una persona di spirito, che ne conferiate con un uom di dottrina? Riferisce san Luca, che quegli uditori, i quali, intimoriti alle prediche di Giovanni, erano già cominciati alquanto ad entrare in qualche sollecitudine di se stessi, lo andavano a ritrovare sin tra le grotte, e gli domandavano: Quid ergo faciemus? (S. Luc.. III, 14). Vi andavano popolari, e dicevano: Quid faciemus? Vi andavano pubblicani, e dicevano: Quid faciemus? Vi andavano sino gli uomini dati all’arme, e tutti ansiosi ancor essi lo interrogavano: Quid faciemus et nos? Voi (dite il vero) avete mai finor di proposito chiesto a niuno: Quid boni faciam, ut habeam vitam ætérnam? ( S. Matth. XIX. 16). Comparite ben voi talora (chi può negarlo?) in un chiostro di solitari; ma per qual fine? Per diportarvi tra le amenità de’ lor orti, o per discorrere con qualcuno di essi delle vittorie del Tartaro, delle rotte del Transilvano, delle novelle che vengano a noi d’Irlanda: ma per rintracciar seriamente qual sia la strada che per voi trovisi più opportuna a salvarsi, non so se mai scomodato abbiate di camera un Religioso. – Ma qual maraviglia che ne trattiate sì poco, o sì poco ne discorriate, mentre neppur voi tra voi stessi avete in costume dì talor fissarvi la mente? chi ha gran sollecitudine di un negozio, non può da esso, benché voglia, distogliersi col pensiero. Pare appunto un cervo ferito, che dovunque va, porta seco affannosamente la sua saetta. Vi pensa il giorno, vi ripensa la notte, l’ha fin presente nell’anima allor ch’ei giace sepolto in un alto sonno. Così di Temistocle, gran capitano de’ Greci, racconta Tullio, che, ancor dormendo, amaramente invidiava al suo competitor Milziade i trofei. Così di Marcello, gran capitano de’ Romani, narra Plutarco, che, ancor dormendo, terribilmente sfidava il suo nemico Annibale all’armi; e così altri, che da qualche affetto veemente fur posseduti, soleano in esso di leggieri prorompere ancor dormendo, siccome appunto nelle sacre Carte si legge di Salomone (3 Reg. 3, 5). il quale, quantunque in sogno, interrogato da Dio che grazia volesse: Postula quod vis, ut dem tibi, unicamente addomandò la sapienza: Da mihi sapientiam (Sap. IX. 4), perché di questa unicamente avea brama, mentr’ei vegliava: Optavi, et datus est mihi sènsus (Ibid. VII. 7). Come dunque ha verun di voi gran premura di assicurare l’eterna sua salvazione, mentre passeranno i dì interi, non che le notti, senza che di ciò mai vi ricorra alla mente un leggier fantasma; e laddove anche addormentati starete fra voi pensando alle vanità (conforme disse Michea), alle caccie, a’ giuochi, a’ festini, a’ balli, agli amori, alle commedie, alle giostre; Et cogitatis inutile in cubilibus vestris (Mich. II. 1); neppure desti vi sentirete una sola volta rapire violentemente i pensieri al Cielo?

III. Benché fermate, ché il non pensare mai punto all’anima propria ne denota veramente una poca sollecitudine; ma più ne denota, s’io non erro, il pensarvi, e non farne caso. E non vegg’io chiaramente che il suo servizio è quello che vieti posposto ad ogni altro affare, e quasi ch’egli sia fra tutti o il men grave o il men gradito, si rigetta a far sempre in ultimo luogo? Sì, sì, che il veggo, ed oh così avess’io occhi da piangerlo, come gli ho da considerarlo! Sa talun di voi molto bene di aver la coscienza carica di peccati, lo conosce, lo intende; e però un dì ripensando seco a’ gran rischj che a lui sovrastano, si sente al cuore una ispirazion pungentissima che gli dice: Va, miserabile, va a ritrovare il tal Sacerdote, e confessati: vade, ostende te Sacerdoti (S. Luc.. V. 14). Che risponde egli? Orsù, di certo io risolvo di confessarmi. Ma quando? Il dì d’oggi? Oggi io mi ritrovo invitato ad un tale ameno diporto: il farò dimani. È convenevole questa mattina udir messa. L’udirò; ma se avanzi tempo dappoiché avrò ragionato a quell’avvocato per le mie liti. È salutevole questa mattina ire alla predica. Vi andrò; ma se avanzi tempo dappoiché avrò riscosse da quel mercatante le mie ragioni. E così andate pur discorrendo nel resto, sempre ciò che spetta all’anima si vuol fare, se avanzi tempo: In crastinum seria. E cotesta voi riputate che sia premura? Era Eliezer, famoso servo di Abramo (Gen. XXIV), dopo un disastroso viaggio, arrivato a Naéor, città di Mesopotamia, per ivi riportar dalla casa di Batuele qualche onorevole sposa al giovine Isacco. E già conosciuto e raccolto, com’è costume, nell’amorevolissimo albergo, gli vengono tutti intorno per fargli onore; e chi vuol trargli gli arnesi, e chi vuole introdurlo alle stanze, e chi, considerandolo macero dal cammino, corre prontamente ad arrecargli alcun rinfresco, finché si appresti da cena: Et appositus est panis in conspectu ejus( Gen. XXIV. 33). Che credete voich’egli faccia a tali apparecchi? Piano (grida) piano, signori, non vi affannate, perch’io vi giuro che non gusterò qui boccone, s’io non vi avrò prima esposte le mieambasciate: Non comedam, donec loquar sermone meos (Ibid.). E così in piedi, prima di deporre ancor gli abiti di campagna,prende a fare una lunghissima diceria, nella quale tutta minutamente racconta la serie de’ suoi trattati, i desiderj di Abramo, le qualità di Sara, le preminenze d’Isacco, le ricchezze abbondevoli di lor casa, gli abboccamenti da sé pur dianzi casualmente tenuti d’intorno al pozzo con la cortese giovanetti Rebecca, l’acqua che da lei ricevette, i regali che a lei donò. Che più? In quel primo congresso volle così, com’è gli avea cominciato, non sol disporre, ma interamente conchiudere il parentado, e fermarle nozze; né prima restò di dire, che non udisse: En Rebecca coram te est, tolle eam, et sit uxor domini tui(Ibid. XXIV. 51). Ma ch’hai paura, per tua fè, nobil servo? che il tempo fugga? che l’opportunità ti abbandoni? o pur che stiasi già da’ parenti in trattato di dar Rebecca ad altrui? So che di ciò tu non temi. Aspetta dunque, ristorati prima un poco, gradisci i complimenti. soddisfa alle accoglienze, e dipoi tu di ciò che ti sei posto in cuore, quando, già riposato e già fresco, potrai però negoziare con maggior agio. Che il servo aspetti: Ah non permette a lui ciò la sollecitudine che ha di compire le commessioni a lui date dal suo signore. Quel che preme più, dee premettersi in primo luogo; e però ch’egli si ricrei? ch’egli si cibi? falso, falso: Non comedam, donec loquar sermones meos. In hoc ostendit(così commenta avvedutamente il Lirano), in hoc ostendit habere se negotium sibi impositum Cordi. (in Gen. c. 24). Or, se ciò è vero, giudicate voi se dirsi sollecitudine quella che usate voi per l’anima vostra, mentre non solamente la posponete ad un necessario ristoro del vostro corpo, ma a’ passatempi inutili, a’ giuochi vani, a’ trattenimenti da scherzo. Echi è di voi che giammai dica tra sé: io questa mane son caduto in peccato; orsù dunque non comedam, finché io prima non abbia vomitato dal cuore sì rio veleno, e non mi sia confessato: io ho frodata a quel poverino la sua mercede; non comedam, finch’io prima non l’abbia tratto di angustie col soddisfarlo: io ho macchiata a quell’emolo la sua fama; non comedam finché io prima non gli abbia risarcita l’ingiuria con ritrattarmi: io ho violate quelle ragioni ecclesiastiche, ed ho usato al mio Prelato un tal atto d’irriverenza, di fasto, di contumacia; non comedam adunque, non comedam finch’io non sia prima andato ad umiliarmigli, a protestare l’errore, a propor l’emenda: chi è mai, dico, o miei signori, tra voi, che così proceda, e che non anzi riserbi ad aggiustar le partite della coscienza in ultimo luogo, e quando avrà già soddisfatto alle obbligazioni del mondo, a’ capricci dell’appetito?

IV. Ma, stolto me, che dich’io? Non è forse vero che molti una tal cura rigettano alla vecchiaia, ed allora dicono di voler provvedere all’anima loro, quando già languidi la terran su le labbra, e saran vicini a spirar l’estremo fiato? Qual dubbio adunque che leggerissima n’è la sollecitudine, per non dire ch’ella è minima, ch’ella è nulla? Non già così procedete negli altri affari. Si dee collocare una figliuola in matrimonio onorevole? si collochi quanto prima. Si deve procacciare alla famiglia una preminenza fastosa? procaccisi quanto prima. Si devon dilatare i poderi? dilatinsi quanto prima. Si devon terminare le liti? si terminino quanto prima. Si deve stabilire la eredità? stabiliscasi quanto prima. E perché tanto di fretta? Non potreste anche alla vostra morte rimettere tali cure? Potreste, qual dubbio c’è? ma voi non volete, perché  per queste, dite voi, si richiede una mente libera, tempo lungo, trattati attenti, diligenze speciali; laddove per salvar l’anima è talor a molti bastato un momento solo. Ah Cristiani! ed è possibile lasciarsi uscir di bocca sì gran follie! Oh detti detestabili! oh sensi enormi! oh risposte insoffribili in uom fedele! Ma su, concedasi che sia così come dite, perché io non voglio deviar dal proposito principale ch’ho per le mani. Non potete però negarmi che il riserbare la salvezza dell’anima al passo estremo non sia per lo manco un cimento molto arrischiato, e il qual non a tutti riesce a un modo, ma se sortisce in uno, fallisce in cento. Impossibile non est in extremis habere veram pœnitentiam: ciò si dia per verissimo,dice Scoto, dottor sì illustre (in 4 sent. dist.10): hoc tamen difficillimum est, et ex parte hominis, et ex parte Dei. Ex parte hominis,perché è più indurato nel male  ex parte Dei, perché è più irritato allo sdegno. Qual contrassegno però di sollecitudine vi par questo, voler piuttosto avventurare il buon esito della vostra eterna salute, ed esporlo a rischio, che avventurare o il matrimonio della figliuola, o le preminenze della famiglia, o i poderi, o le liti, o l’eredità, quasi che non sia principio indubitatissimo quello di santo Eucherio, che summas sibi sollicitudinis partes salus, quas summa est, vindicare debet(ep. 1). Non già fu tale l’insegnamento che die il prudente Giacobbe (Gen. XXXII.). Uditelo, ch’è divino.Tornava egli con tutta la sua famiglia a ripatriare nel paese di Cana, dond’era stato spontaneamente già esule da venti anni, afin di sottrarsi al grave sdegno implacabile di Esaù, suo fratel maggiore. Quando ecco videsi non lungi ornai dalla patria venire incontro questo suo fratello medesimo tutto armato, con dietro un seguito di quattrocento suoi bravi. Che però il misero ebbe sospetto che quegli, ricordevole ancor delle antiche offese, venisse a prenderne tarde sì le vendette, ma tanto ancora più dolorose e più dure, quanto che non sarebbero or più cadute sopra del solo offensore, ma sopra ancora e delle sue femmine amate,e de’ suoi pargoletti innocenti. Che fece adunque Giacobbe a così gran rischio? Bipartì subito la famiglia in più file ad imitazione di un piccolo squadroncino. Mise alla testa le due schiave Baia e Zelfa, co’ quattro figliuoletti che gli erano d’esse nati; appresso con li suoi sette parti collocò Lia; e Rachele la bella egli pose in ultimo, col vezzosetto Giuseppe, ch’era il solo germoglio da lei fiorito. Ora addimando: che pretese egli mai con tale ordinanza? di venire alle mani? di dare all’armi? o di sostenere almen l’impeto di Esaù con virtù maggiore? Ma che poteva un volgo imbelle di femmine e di fanciulli contra un nervo di sgherri, che sol veduti bastavano a por terrore? Ben conobbe adunque Giacobbe, che a lui non era possibile di resistere. Però,se fosse convenuto perire, volle almeno procedere con riserbo, e non esporre tutte egualmente a pericolo le persone, che non erano tutte egualmente care. Meno care gli erano le schiave; però si doveva convenir ad esse incontrare le prime furie: più delle schiave da lui stimata era Lia; e però più studiarsi di assicurarla: e più di Lia gradita gli era Rachele; e però più si adoperò di difenderla. Posuit ancillas in principio, udite l’Oleastro egregio commentatore (in cap. Xxxiii. Gen. ann. ad 1. 1), ut scilicet iram fratrisminus diìectæ acciperent prius: quo docuitminus dilecta prò conservatione eorum, quæmagis diliguntur, esse periculis objectanda.Or, s’è così, che poss’io dunque mai dire, o Cristiani miei, quando io considero come l’anima vostra è quella appunto che da voi viene avventurata la prima in qualunque rischio, ed a cui tocca di stare alle prime frontiere, alle prime file? Ella, ella tien presso voi le parti di ancella; alla qual però si appartiene di andare a perdersi, perché si salvi l’onore, perché si salvi la roba, perché si salvino i trattenimenti profani, perché i figliuoli, perché i parenti, perché gli amici, perché le femmine impure, perché tutti anch’essi si pongano prima in salvo i corsier da maneggio e i cani da caccia. Oh sciocchezza! oh insania! o portento! oh bestialità! Furore Domini plenus sum, compatitemi se io mi sfogo, furore Domini plenus sum: non ne posso più. Lavoravi sustinens; e però come un Geremia (VI. 11) sono ancor io necessitato di romperei freni allo zelo, quasi che già noi siam giunti al sommo di quello ch’io vi doveva dimostrare per deplorabile.

V. Eppur v’è di più. Perché finalmente espose, è vero, le proprie schiave Giacobbe le prime ai pericoli; ma nondimeno non le prezzò così poco, che l’esponesse a’ pericoli volontarj, ma solo agl’inaspettati, agl’inevitabili; perché non fu esso che uscisse contra Esaù, ma fu Esaù, il quale uscì contro d’esso; e però non gli era possibile di schivarlo. Ma voi molto peggio di schiave tali trattate l’anima vostra; mentre non solo la esponete la prima a que’ pericoli che non volendo incontrate, ma la mandate ad incontrare i pericoli; e, quasi abbiate vaghezza d’ogni suo danno, là v’inoltrate, dove il parlare è più osceno, dove il guardare è più lubrico, dove il conversare è più reo, dove i demonj, diciam così, dove i demonj, non già nascosti in agguato, ma a guerra aperta, ma ad armi ignude combattono contro l’anime, per condursele in perdizione. E ciò sarà punto averne, non dirò più sollecitudine alcuna, ma almen riguardo?

VI. Povera madre del pellegrinetto Tobì! Lo aveva ella consegnato in mano ad un Angelo, benché nel vero non giudicato da lei se non per un uomo di segnalata bontà e di rara saviezza: contuttociò, troppo del figliuolo gelosa, si pentì subito. Né interamente fidandosi, ch’ei non fosse per incontrar nella via qualche gran disastro: Flebat irremediabilibus lacrymis; sospirava, singhiozzava e gemeva, così dicendo: Heu, heu me fili mi, ut quid te misimus peregrinavi, lumen oculorum nostrorum, baculum senectutis nostræ, solatium vitæ nostræ, spem posteritatis nostræ? Omnia simul in te uno habentes(belle parole!) omnia simul in te uno habentes, non te debuimus dimittere a nobis (Tob. X, 4, 5). No, no, che mai non dovevam porti a rischio, mandandoti da noi lungi, mentre in te sta riposto ogni nostro bene; no, no, che mai non doveam porti a rischio. Noi fidarti all’altrui custodia? noimetterti in altrui mano? Ah bene, abbiamo dimostrato, o figliuolo, di non conoscerti. e di non sapere che niente abbiamo nel mondo fuori di te, e che in te solo abbiam tutto; Omnia simul in te uno habentes, non te debuimus dimittere a nobis. Cosi ululava la misera a ciascun’ora. Né valeva che il vecchio marito la rincuorasse con accertarla, che fedelissimo era il custode assegnato al figliuol diletto, e che però potevano in lui quietarsi, in lui riposare. Tace, et noli turbati; satis fidelis est vir ille, cum quo misimus eum (Tob. X. 6). Ciò, dico non valea punto; perch’ella però non paga, nessun sollievo ammetteva, nessun conforto; nullo modo consolari poterat (Ibid. X. 7). Anzi ogni dì se ne usciva quasi fanatica fuor di casa, girava tutte le strade, visitava tutte le porte, che a lei potevano rendere il suo figliuolo; e talor anche su qualche colle più rilevato fermatasi alla campagna, quivi d’ogni intorno guardava per ansietà di potere un giorno dir: eccolo: ut procul videret eum, si fieri posset, venientem (Ibid.). Né ancor vedendolo, rinnovava i lamenti, accresceva le grida; e così a casa sconsolatamente ridottasi in su la sera: Ah di sicuro (tornava a dir) che il mio figlio è pericolato ! Chi sa se ‘l misero ora di me sua madre non chiami, caduto da qualche balza! Chi sa che ‘l misero ora di me sua micidiale non dolgasi, sbranato da qualche, fiera? Amatissimi miei signori, è tanta la gelosia, la qual dovrebbe aver sempre ciascun di noi dell’anima propria, che neppur fidare ad un Angelo la dovremmo, se noi conoscessimo apertamente per tale, e se non ne avessimo ben ravvisate le spoglie, quantunque splendide, per veder se sotto ascondessero qualche frode, nolite omni spiritui credere (quest’era appunto il consiglio di S. Giovanni in negozio di tanto peso), Nolite omni spiritui credere; ma chiaritevi prima s’egli è da Dio: sed proba te spiritus si ex Deo sunt (1 Jo. IV. 1). Che dovrò dunque io dire qualor contemplo che tanti e tanti la vanno a mettere in mano al demonio stesso, e che il demonio le assegnano per sua guida nel pellegrinaggio mortale, lasciandosi come ciechi da lui condurre tra orribili precipizj a feste di amore, a visite d’amore, a veglie d’amore, a ridotti palesi d’impurità, e, per dirla in una parola, in tutte le occasioni più prossime di dannarsi? Dovrò dir io che questi abbiano alcun affetto all’anima propria? che la curino? che la stimino? che tengano in lei riposto ogni loro bene? Ah, se ciò fosse, non la metterebbono mai, così disperatamente in mano al demonio. Anzi nemmen tra gli uomini, no, nemmeno tra gli uomini l’affiderebbero certamente ad ognuno così alla cieca: Non omni spiritui crederent. Ma che? se avessero a procacciarsi un compagno, guarderebbero prima com’egli fosse nimico al vizio; se avessero ad affezionarsi ad un padrone, mirerebbero prima com’egli fosse favorevole alla virtù; tra i confessori si cercherebbe il più dotto, tra i teologi si preferirebbe il più pio, tra i consiglieri si amerebbe il più schietto; e così sempre si procurerebbe di metterla più in sicuro che si potesse. Ma ohimè! che molti fanno appunto l’opposto; e se mi è lecito di usare in ciò le parole di Geremìa (XII. 7); dant dilectam animam suam in manu inimicorum ejus; danno la lor anima in mano ai nemici d’essa; perciocché non solo comunemente più piacciono o i compagni più liberi, o i padroni più licenziosi; ma molti ancora, se la lor coscienza hanno a porre nelle provvide mani di un confessore, ne cercan uno che men avveduto gli palpi ne’ loro delitti; se in quelle di un teologo, lo vogliono scorretto, perché li assecondi; se in quelle di un consigliere, lo vogliono interessato, perché gli aduli. Dant dilectam animam suam (oh cosa orribile!), dant dilectam animam suam in manu inimicorum ejus. E questa è sollecitudine di salvarsi?Ahimè! che questa par piuttosto un’ansia frenetica di perire ad altrui dispetto, ed un convertirsi gli ajuti in nocumenti, i soccorsi in rischj, e gli antidoti stessi in più rio veleno. Si dolea Salomone ne’ suoi Proverbi, trovarsi alcuni, i quali giungono a tanto di stolidezza, che tesson reti, che tendon lacci contro dell’anima propria: Moliuntur fraudes contra, animas suas (Prov. 1. 18). Chi però son questi, chi sono, se non quei miseri, de’ quali or noi ragioniamo, cioè coloro che si affaticano di aggirar sé medesimi e d’ingannarsi, con darsi a credere di poter vivere in coscienza sicuri, sul detto di uomini che non hanno coscienza? Sconsigliati che siete! Se quelli prezzano poco l’anima propria, come volete che stimino assai la vostra? Ma questo appunto è (come io dissi) ciò che da voi si pretende: dar la vostr’anima in mano a chi non la curi, lasciarla pericolare, lasciarla perdere, lasciarla andare in rovina, perché sempre più si verifichi ciò ch’è scritto nella Sapienza, che l’uomo ormai non è altro che un crudo micidial dell’anima propria: Homo permalitiam occidit animam suam (Sap. XVI, 4). Oh me infelice! oh me misero! e chi fu mai che agli occhi miei dia due torrenti di acqua sì impetuosi, com’io dovrei di presente averli, per piangere un tal furore? Ora, ora è tempo che facies meo intumescat a fletu col santo Giobbe (XVI, 17); o veramente che insieme con Geremia (IX, 18), deducant oculi mei lacrymas, et palpebræ memæ defluant aquis. E che vi pare, uditori? Vi siete fissi mai di proposito a penetrare che voglia dire esser beato in eterno,o esser tormentato in eterno? che voglia dire un’eternità di contento, o un’eternità di rancore? che voglia dire un paradiso, ove eternamente si giubila, o un inferno, ove eternamente si freme? Che dite, Cristiani, che dite? Vi siete immersi mai di proposito in tal pensiero? se non ci avete finora mai posto mente, andate vi dirò, quanto prima,con Isaia (XXVI, 20), andate, andate, chiudetevi in una stanza: Vade, populus meus, intra in cubicula tua, claude ostia tua: non più su l’altre faccende, no, super te: e quivi, a finestre serrate, a fiaccole spente,fatevi un poco d’avvertenza speciale, e dipoi tornate a parlarmi, ch’io son sicuro che tornerete come coloro che uscivano già dall’antro del famoso mago Trofonio (Paremiogr. 457); ch’è quanto dir, come attoniti, come assorti, e senza poter mai più prorompere in un sorriso. Ma se ci avete pur qualche volta pensato, com’io son certo,qual trascuraggine più luttuosa di. Questa si può mai fingere, che avventurare per verun capo un negozio di tanto peso? non sentirne premura? non averne ansia? Non v’accorgete che qui si tratta del vostro, si tratta del ben vostro, si tratta del danno vostro, si tratta d’un affare che tutto appartiene a voi? E se voi cadete, che non piaccia a Dio, nell’inferno, chi sarà mai sì pietoso, chi sì potente, che ve ne tragga?Assalon, rilegato in un duro esilio, ebbe il favorito di Davide, che impetragli, benché con qualche malagevolezza, il ritorno (2 Reg. 14). Giuseppe, racchiuso in una oscura prigione, ebbe il coppiere di Faraon che.gli ottenne, quantunque dopo alcuna dimenticanza, la libertà (Gen. XLI). Ed un Geremìa, gittato già da’ malevoli nel profondo di una cisterna fangosa, a dover quivi stentatamente morir di freddo, di fame, di fracidume, di puzzo, ebbe un Abdemelecco, che, mosso a pietà di lui, gli calò dall’alto una fune, alla quale egli attenendosi, su ne venne (Jer. XXXVIII). Ma voi chi avrete, che tal ajuto vi porga ad uscir dagli abissi: De altitudine ventris inferi? (Eccli. LI, 7). Qual fune si troverà, che dal cielo giunga sino a quel baratro di tanta profondità? Qual braccio, che vi regga? qual forza, che vi sollievi? Qui descenderit ad inferos, non ascendet (sentite bene, che son parole di Giobbe), nec revertetur ultra in domum suam (Job. VII, 9 et 10). Chi va giù, non torna più su; chi va giù, non torna più su: Qui descenderit, non ascendet; qui descenderit non ascendet. E voi neppur ci pensate? Ah! fili, fili, io vi dirò dunque afflitto con l’Ècclesiastico (X. 31) / fili, serva animam tuam, et da illi honorem secundum meritum suum. Se io stamane con tante sorte di autorità e di ragioni preteso avessi di persuadervi una cosa di mio privato interesse, come sarebbe, che qui veniste con gran concorso alla predica, che mi approvaste, che mi applaudeste, qualche mercé riguardevole ai miei sudori, potreste avermi (qual dubbio c’è?) per sospetto, e non darmi fede; ma io per me non intendo muovermi ad altro, se non che solo ad avere qualche premura di voi medesimi, o almeno qualche pietà: Miserere animæ tuæ, miserere, (Eccli. XXX, 24). E che poss’io dunque promettermi mai da voi, se ciò non ottengo? Che ne potrò riportare? a che potrò indurvi? Non plane durius vobis dici potest, io vi rinfaccerò con Salvia no (1. 3 ad Eccl.), nihil tam ferum, nihil tam impium, a quibus impetrari non potest, ut vos ipsos ametis? Che non amiate i vostri emoli, vi compatisco: che non amiate i vostri nemici, vi scuso; ma che non amiate voi stessi? chi può soffrirlo? Peccantem, dirò col Savio, peccantem in animam suam, quis justificabit? (Eccli. X, 32). Deh, se d’altronde non sapete far degna stima della vostra anima, vi basti ciò: considerare (come da principio io dicea) quanto il demonio sempre inquieto si adoperi per rubarsela, e quanto d’arti egli però ogni ora tenti ad ingannarvi, a sollecitarvi, a sedurvi, ad assicurarvi. Egli, egli è quegli che ogni altro studio vi fa preporre a quest’uno, che di ragione prepor dovreste ad ogni altro; e però ditemi un poco; quis furor est(e sono parole anche queste di sì gran Vescovo), quis furor est viles a vobis animas vestras haberi, quas etiam diabolus putat esse pretiosas? quis furor est viles a vobis haberi? (Salv. 1. 3 ad Eccl.) S’egli fosse padron del mondo (credete a me) velo darebbe volentierissimo tutto per la vostra anima, conforme a quella: Hæc omnia tibi dabo, si cadens adoraveris me (S. Matth. IV, 9). E voi volete venderla a lui per sì poco? per un piacer momentaneo, per una bellezza fugace, per un interesse leggero di casa vostra, e correrete così per niente a gettarvi, quasi vilissime donnole, in bocca al rospo? Non sia mai vero, uditori, che voi facciate alla vostr’anima un torto così solenne: Ne adducas animæ tuæ inhonorationem(Eccli. 1. 38); ma da quest’ora, rientrando un poco in voi stessi, incominciate ad aver di voi quel riguardo che si conviene, e, come disse nel Deuteronomio Mosè, custodite sollicite animas vestras (Deut. IV. 15).

SECONDA PARTE.

VII. Io non vi voglio negare che questa grave trascuratezza, ch’han gli uomini di salvarsi, finora detta, sarebbe per avventura alquanto scusabile, quando il salvarsi negozio fosse di agevole riuscita; ma fors’egli è tale, uditori, è forse egli tale? Ah voi infelici, se tale è da voi stimato; anzi, oh voi miseri, mentre in materia sì rilevante prendete un error sì grave! Non solo il negozio della nostra eterna salute non è, quale a voi sembra, di agevole riuscita, ma è piuttosto sì lubrico, sì fallace, che, ancora dopo un’immensa sollecitudine, ha tenuto in timore i più eccelsi Santi, spaventatissimi per li tremendi giudizj di quel Signore, il quale riesce, non so come, terribile ancor a quei che gli stan tuttora d’intorno a formar corona: Terribilis super omnes, qui in circuita ejus sunt (Ps. LXXXVIII, 8). –  Sconsolato Girolamo! che non fec’egli per concepire in sé stesso qualche mediocre fidanza di affar sì grande! in quanto folti boschi si ascose! in quanto cieche caverne si seppellì! quanto aspra guerra sino all’età più decrepita seguì a fare contra i suoi sensi! Eppur che dicea? Ego, peccatorum sordibus inquinatus, diebus ac noctibus operior cum timore reddere novissimum, quadrantem(Ep. 5). Un san Gregorio che gemiti non metteva sul trono a lui sì spinoso del Vaticano! (1. 19. mor. c. 9) Un san Bernardo che ruggiti non dava dagli orrori a lui sì diletti di Chiaravalle! (1. 6,de int. domo) E un santo Agostino oh come palpitante diceva di temer l’inferno! Ignem æternum timeo, ignem aeternum timea (in Ps. LXXX). Né a cacciar fuori un tal timore bastava tanto amor di Dio, che avvampavagli dentro al petto. Ma che dich’io sol di questi? Venite, venite meco sino a quell’orrida grotta di solitarj, la quale, per l’aspro vivere che veniva da tutti menato in essa, s’intitolò la Prigione de’ penitenti, ma meglio potea dirsi l’Inferno de’ convertiti. Oh là dentro sì che faceasi daddovero a placar lo sdegno celeste! Stavano alcuni tutta la notte diritti orando al sereno, altri ginocchioni, altri curvi; ma per lo più con le mani tutti legate dietro le spalle, a guisa direi, perpetuamente tenevano i lumi bassi, né si riputavano degni di mirare il cielo. Sedevano altri in terra aspersi di cenere, sordidi, scarmigliati: e, fra le ginocchia tenendo celato il volto, luctum unigeniti faciebant sibi, planctum amarum (Jer. VI, 26); ch’è quanto dire, come suol piangersi sopra un amato cadavere, così ululavano sopra l’anima loro, e la deploravano. Altri percuotevansi il petto, altri si svellevano i crini; ed altri, putrefatte mirandosi le lor carni per gli alti strazj con li quali le avevano macerate, parea che solo in questa vista trovassero alcun sollievo, e si confortassero. Che trattar ivi di giubili? che di scherzi? che di facezie? Pietà, clemenza, compassione, perdono, misericordia: questi erano i soli accenti che per quelle caverne si udivano risuonare; se pur si udivano, mercé i singhiozzi, mercé i ruggiti che ogni altro suono opprimevano, né  lasciavan altro distinguere, se non pianto: quivi prolissi i digiuni, quivi brevissimi i sonni, quivi niuna cura, quantunque moderatissima, de’ lor corpi. Avreste veduti alcuni, per la gran sete lungamente raccolta, trar gravi aneliti, e tenere a guisa di cani la lingua fuori, tutta inaridita, tutt’arsa. Altri si esponevano ignudi di mezzo verno alle notturne intemperie di un ciel dirotto, altri si attuffavan ne’ ghiacci, altri si ravvolgevano tra le nevi; ed altri, i quali non avean animo a tanto, pregavano il Superior, che almen gli volesse caricati di ferro tenere in ceppi; né tenerveli solo per alcun dì, ma stabilmente, ma sempre, ma finché fossero dopo morte condotti alla sepoltura. Benché qual sepoltura diss’io? Non mancavano molti di supplicare con ansia grande, che neppur questo si usasse loro di pietà; ma che, ancor caldo, fosse il loro cadavere dato ai corvi, o gettato ai cani; e così spesso veniva loro promesso e così attenuto, non sovvenendoli prima, per sommo loro dispregio, neppur di un salmo, non che di alcun più onorevole funerale.

VIII. Or chi non crederebbe, uditori, che in una vita, qual costoro menavano, cosi santa, dovessero almanco avere questo conforto, di tener quasi per certa la loro salute, o almen di averne di lunga mano maggiore la probabilità che ‘l sospetto, a speranza che l’ansietà? Eppure udite ciò che, qualora io vi penso, mi colma tutto di profondissimo orrore. Tanto era lungi che però punto venissero que’ meschini ad  assicurarsi, ch’anzi quando alcuno di loro giaceva ornai moribondo sopra la cenere (ch’era il letto ove amavano di spirare) se gli affollavano tutti a gara d’intorno più che mai mesti ; Circumstabant illum æstuantes et lugentes, ac desiderio pleni; e così con molto tremore lo interrogavano: ebben, fratello, che ti pare ornai poter credere di te stesso? Quid est, frater? Quorum modo tecum agitur? quid dicis? quid speras? Quid suspicaris? Hai finalmente ottenuta quella salute, la quale tu ricercasti con tante lagrime, oppure ancora ne temi? Percepisti ne ex labore tuo quod quærebas, an non valuisti?Che ti aspetta^? il reame,o la servitù? lo scettro, o la catena? Il Cielo, o l’Inferno? Ti par di udire una voce amabile al cuore, la qual ti dica: Remittuntur tibi peccata tua (S. Luc. V, 20), o li par anzi di ascoltarne un’orribile, la qual gridi: Ligatis manibus et pedibus ejus, mittite eum in tenebras exteriores? (S. Matth. XXII, 12). Che dici, o fratello, che dici? Quid ais, frater, quid ais? Beh, ti preghiamo,scuoprici un poco il tuo stato, perché dal tuo possiam dedurre qual sia per essere il nostro. A queste tanto affannose interrogazioni quali riputate che fossero le risposte rendute da’ moribondi? È vero, che alcuni d’essi, sollevando i lor occhi sereni al cielo, benedicevano Dio, e così dicevano: Benedictus Dominus, qui non dedit nos in captionem dentibus eórum (Ps. CXXIII, 6); ma, ohimè,quanti all’incontro rispondevan di pendere ancora in forse! Forsitan pertransibit animanostra aquam intolerabilem (Ibid. 5), quasi dicessero, speriamo di passare, speriamo; ma la fiumana è grossa, ma l’acqua è torbida, ma grave sino al fine è il pericolo di annegarsi. E quel ch’è più, non mancavano ancor di molti, i quali prorompendo dolenti in un alto gemito: , esclamavano, ; né dicevan altro; e pregati a piegarsi più apertamente: soggiungevano, Væ animæ illi, quæ non servavit professionem suam integram et immaculatam! Guai a quell’anima, la quale non osservò la sua professione intatta ed immacolata; guai alla miseria, guai! Perché a quest’ora si accorgerà ciò che di là se le appresti: Hæc enim hora sciet quid illic præparatum sit. Lo so, signori cari, che un tal racconto può avere a molti sembiante di favoloso; mercecché tale amerebbesi ch’egli fosse. Ma non accade no lusingarsi troppo è vero. Riferì; pur tutte queste cose chi videle con gli occhi propri, chi le udì con le proprie orecchie, San Giovanni Climaco (De accurata pœn. Or. 5), famosissimo abate del monte Sina, e le riferì quando appunto quelle avvenivano, cioè quando ognuno rimproverare il potea di grandissimo temerario, se nulla di suo capo vi avesse o alterato, o aggiunto, non che mentito.

IX. Ma se ciò è vero, che vuol dir dunque stimar noi soli sì facile, o sì sicuro il negozio della salute, che non ne abbiamo sollecitudine alcuna, non altrimenti che se ‘l tenessimo in pugno? Unde nobis ista dissimulatio est, fratres mei? vi dirò addolorato

con san Bernardo: unde hæc tam perniciosa tepiditas? unde hœc securitas maledicta?(Serm. in Job.) Ah ch’io non posso riferir ciò ad altra cagione, se non ad una in considerazion profondissima che ci accieca, e neppur ci lascia, come dice il Savio, veder que’ precipizj che abbiamo dinanzi agli occhi: Via impiorum tenebrosa: nesciunt ubi corruant (Prov. IV. 19). Però che dobbiamo fare? A me lo chiedete? Chiedetelo a qualcun altro, ch’io, quanto a me, miglior consiglio non potrei darvi di quello ch’ho per me preso. Se a me volete rimettervi: andate, vi dirò, rivoltante le spalle al mondo: e se ancor siete con Lot in tempo a fuggirvene di Pentapoli, non tardate, perché neppur gl’innocenti possono vivere a lungo andare sicuri fra’ peccatori. Ma se pur di tanto eseguire o non vi da l’animo, o non vi riman libertà, perché non risolvervi a frequentar d’ora innanzi ogni settimana quei sacramenti, che sono i mezzi più agevoli alla salute?Perché non deporre tanta alterigia nel tratto? Perché non iscemar tonto pascolo all’ambizione? Perché non mettere ormai qualche freno stretto a sì laide carnalità? Se non fate ciò, che volete ch’io vi risponda?Che voi siete punto solleciti di salvarvi? No, che non siete, no; ve lo dico sì apertamente, ch’io non ho punto a temer che non m’intendiate. Temer ben poss’io piuttosto, che voi però non pigliate a sdegno di udirmi. Ma che posso io fare? Se non mi voleste udir voi, a queste immagini mi rivolterei, a questi marmi, a questi macigni, perché tutti fossero innanzi a Dio testimonj nel giorno estremo, ch’io non ho mancato al mio debito di parlarvi con fedeltà. Benché né anche ho io bisogno di tali testimonianze. È qui in persona quel Giudice vivo e vero, che mi dovrà giudicare, ed Egli mi ascolta. Però, mio Dio,voi sapete quanto di cuore io desideri la salute di questo popolo, illustre popolo vostro.Felice me, s’io potessi dar per esso le viscere, dare il sangue, come l’avete voi stesso dato per me! Ma giacché tanto io non posso, non mancherò almen di questo, e ve lo prometto, di dirgli il vero. Voi fate ch’esso con quel buon affetto il riceva, con che io gliel predico. Io parlerogli alle orecchie, e voi frattanto favellategli al cuore, lo schiarirò gl’intelletti, e voi frattanto infiammate le volontà. Voi dovete essere quegli, che con amorosa violenza tiriate a voi quei che da voi si dilungano. Io ch’altro posso, se non che, a guisa di quei fanali che scorgono fra le tenebre i naviganti, far loro lume? A voi sta spirare a prò loro quella sant’aura, che prosperamente conducali salvi in porto.

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (11)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (11)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov. Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA ABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO III

La nostra filiazione divina adottiva. — Analogie e diversità tra l’adozione divina e le adozioni umane.  — Incomparabile grandezza e dignità del Cristiano.

I.

Diventati con la grazia santificante di natura divina, divinæ consortes naturæ (II Petr., I, 4), siamo, per lo stesso motivo, elevati all’incomparabile dignità di figli adottivi di Dio con diritto all’eredità paterna (Rom. VIII, 17) – (S. Th., Ia IIæ, q. CXIV, a. 3.).   Questa verità, che ogni Cristiano dovrebbe sempre avere davanti ai suoi occhi e che non saprebbe mai troppo approfondire, perché questi sono i nostri titoli di nobiltà al presente e la nostra promessa di felicità per il futuro, è registrata in tutte le pagine del Nuovo Testamento, « È per redimerci dalla servitù della legge, dice l’Apostolo, e per comunicare a noi l’adozione dei figli, che Dio ha mandato suo Figlio, nato dalla donna sotto la legge » (Gal IV, 4-5). E poiché siamo suoi figli, Egli ha mandato nei nostri cuori lo Spirito di suo Figlio per ispirarci sentimenti di filiale fiducia nel Padre celeste (Ibid.). « Perciò questo stesso Spirito divino testimonia al nostro spirito che siamo figli di Dio. » (Rom. VIII). Per convincerci che questa non sia una semplice denominazione esterna, un titolo puramente onorifico, ma una filiazione molto reale, che è una partecipazione alla filiazione stessa di Cristo, l’apostolo San Giovanni non esita a dire: « Guardate quale amore il Padre ci ha mostrato concedendoci non solo il titolo, ma anche la vera qualità dei figli di Dio: Videte qnalem caritatemit nobis Pater, ut filii Dei nominemur et simus. ». (1 Giov. III, 1). E come rapito da ammirazione in presenza di tanta grandezza: « Sì, miei cari, ripete, noi siamo fin da ora i figli di Dio; ma ciò che un giorno saremo non appare ancora. Noi sappiamo che quando Dio si mostrerà, noi saremo come Lui, perché lo vedremo così com’è. Chiunque ha questa speranza santifica se stesso, siccome è santo egli stesso. » (Ibid. 2-3). – I Santi Padri celebrano questo glorioso titolo di figli di Dio, ne esaltano le prerogative, ne ripetono i preziosi vantaggi con fede ed amore. Ascoltate il grande Vescovo di Ippona: « Quale non sarebbe la gioia di uno sconosciuto, di qualcuno che non conoscesse i suoi genitori, e che fosse nella miseria, nel dolore e nel duro lavoro, se qualcuno venisse improvvisamente a dirgli: Tu sei il figlio di un senatore, tuo padre gode di un’immensa fortuna che è destinata a te, e io vengo a riportarti da lui. Quali trasporti di gioia non esprimerebbe se potesse credere nella realtà di queste promesse? Ebbene, ecco un Apostolo di Gesù Cristo, la cui parola merita ogni credito, che è venuto a dirci: Perché disperarvi? Perché soffrite e vi consumate dal dolore? Perché vi abbandonate alle proprie concupiscenze e languite nella miseria prodotta da questi piaceri voluttuosi? Voi avete un padre, una patria, un’eredità. Chi è questo Padre? Miei cari, noi siamo figli di Dio » (S. Aug., Enarrat. in Ps. LXXXIV, n. 9.). Agli occhi di san Leone, tutte le altre benedizioni svaniscono di fronte alla grandezza di questa filiazione divina. « Che Dio – egli dice – disse, chiami l’uomo suo figlio, che l’uomo dia a Dio il nome di Padre, e che questo chiamarsi reciproco sia l’espressione della realtà, questo è il dono che supera ogni dono » (S. Leo M. Serm.VI de Nativ.). Ascoltiamo come San Pietro Crisologo espone ai neofiti la suprema dignità del Cristiano: « Così grande – egli dice – è per noi la bontà divina che la creatura non può che ammirarla sempre più: l’abbassamento di un Dio che scende fino alla nostra schiavitù, la dignità alla quale ci eleva condividendo con noi la sua divinità. Padre Nostro che siete nei cieli …. Oh uomo, fino a che punto ti ha elevato arrivando all’improvviso la grazia? Dove ti ha condotto la tua natura celeste? Anche se vivi ancora nella carne e sulla terra, non conosci più la terra e la carne, quando dici: Padre nostro che siete nei cieli. Colui che crede e confessa di essere figlio di un tale Padre, possa condurre una vita in rapporto alla sua origine, conforme a quella del Padre suo; possa affermare nel suo pensiero, nei suoi atti ciò che ha ottenuto con la sua origine celeste » (S. Petr. Chrysol., serm. LXXII in Orat. Domin.). – Per evidenziare la natura della nostra adozione divina, non sarà fuori luogo confrontarla con l’adozione umana e studiarne a sua volta le analogie e le differenze.  Quaggiù, adottare un bambino significa portarlo nella propria famiglia, dandogli liberamente e gratuitamente il titolo e le prerogative di figlio che non gli appartenevano in virtù della sua nascita, compreso il diritto di ereditare dal padre adottivo. – Da ciò si può dedurre che per una vera adozione sia necessaria una triplice condizione: in primo luogo, l’adottato deve essere per origine estraneo alla famiglia che lo introduce nel suo seno, e non ne fa naturalmente parte; in secondo luogo, l’ingresso nella nuova famiglia deve essere il risultato di una libera e gratuita scelta; infine, è necessario che, con il titolo di figlio, l’adottato riceva un diritto rigoroso e legale all’eredità dalla persona che lo adotta. Queste diverse condizioni sono facili da stabilire nel caso in cui sia solo suscettibile di adozione, cosa manifesta; sarebbe una contraddizione adottare il proprio figlio. Come si può dire, infatti, del figlio legittimo, del figlio per natura, che è stato introdotto gratuitamente in una famiglia alla quale non apparteneva per nascita, che ha ricevuto per libera scelta il nome e il diritto di ereditare dal padre? Ma tutto questo gli tocca naturalmente, in virtù anche dalla sua origine. Il figlio legittimo può, è vero, demeritare; può essere cacciato dal tetto paterno per la sua cattiva condotta e per i disordini della sua vita; può anche, in alcune circostanze eccezionali, essere legittimamente diseredato; ma quando, istruito dalla disgrazia e pentito, questo nuovo prodigo ritorna alla casa paterna, riprende il suo posto nella casa di famiglia e non è adottato. Il legame di sangue è indistruttibile, e ci sarà sempre una profonda differenza tra il figlio naturale, qualunque possano essere i suoi torti, e colui che è entrato in famiglia solo per la buona compiacenza del suo capo. Inoltre, l’adozione è essenzialmente volontaria e gratuita: volontaria sia da parte dell’adottante che dell’adottato; gratuita, in quanto non si basa su diritti naturali o acquisiti. È un contratto con il quale due persone, naturalmente indipendenti e libere di disporre l’uno del proprio nome e della sua fortuna, l’altra della propria persona, si impegnano reciprocamente: la prima, per conferire al secondo tutti i diritti di un figlio legittimo, e il secondo, per riconoscere l’autorità del padre adottivo di cui si accettano le liberalità. – Un’ultima condizione finale dell’adozione, che i giureconsulti convengono nel considerare fondamentale, è il conseguente diritto legale della persona adottata a ricevere un giorno la successione dell’adottante.

II.

Se, quindi, la nostra adozione per grazia non è una parola vuota, essa deve soddisfare questa triplice condizione che, data la natura stessa delle cose, si trova necessariamente in ogni vera adozione. Che questo sia davvero  così, è facile da dimostrare. Infatti, vi sono molti estranei che Dio introduce nella sua razza, quando si degna di concedere agli esseri ragionevoli la grazia santificante, e quindi comunicare loro una partecipazione della sua natura e della sua vita. Indubbiamente, « considerato nella sua natura e quanto ai beni dell’ordine naturale, l’uomo non è estraneo a Dio, poiché deve a Lui tutto ciò che possiede; ma per quanto riguarda i beni della grazia e della gloria, egli gli è estraneo; ed è proprio in questo che egli è adottato » (S. Th., III, q. XXIII, a. 1, ad 1). L’uomo della natura, l’uomo privo della grazia, non può quindi essere considerato come uno di quelli ai quali è stato detto: « Voi siete dei e figli dell’Altissimo » (Ps. LXXXI, 6); egli non fa parte della famiglia divina, non ha diritto al possesso dei beni di Dio; egli è veramente un estraneo. Le relazioni che lo uniscono all’Autore del suo essere sono le relazioni di effetto alla causa, dell’opera all’operaio, ed in nessun modo quelle di figlio al padre, dal momento che egli esiste per creazione e non per generazione, che egli procede dal nulla e non dal seno di Dio. Se egli ha, come qualsiasi effetto, una certa somiglianza con la sua causa, non partecipa, tuttavia, alla natura del suo principio; se è stato fatto ad immagine di Dio, pure non vive della vita divina; non ha, nei suoi elementi costitutivi, nulla di veramente divino, né per essenza né per partecipazione.  Indubbiamente, in questo senso ampio e molto improprio, secondo il quale ogni artefice può dirsi, in un certo senso, padre della sua opera, Dio può essere chiamato nostro Padre nell’ordine naturale, e tutte le creature, specialmente le creature intelligenti, che portano in modo più evidente l’impronta della divinità, possono essere chiamate figlie di Dio (« Numquid non ipse est pater tuus, qui possedit te, et fecit, et creavit te? » (Deut., XXXII, 6 – Giob. XXXVIII, 28); ma, per dirla in senso stretto, non lo sono per difetto di questa somiglianza di natura che deve esistere tra il padre ed i figli. Così, la tradizione cattolica ha sempre considerato l’adozione divina come una chiamata di Dio agli esseri che per natura gli sono estranei e che, per la loro condizione originaria, sono per Lui servi, non figli. Ecco come lo spiega San Cirillo d’Alessandria: « Noi che, per natura, siamo creature prodotte e di condizione servile, otteniamo per grazia e al di sopra delle esigenze della nostra natura la dignità di figli di Dio: Nos qui natura censemur effecta servaque creatura, iidem supra naturam et per gratiam nanciscimur præstantiam filiorum Dei » (S. Ciril. Alex In Joan. l. 1). – Sant’Atanasio esprime lo stesso pensiero nei seguenti termini: « Gli uomini, essendo, per loro natura, creature, non possono diventare figli di Dio che ricevendone lo Spirito da Colui che è il vero Figlio di Dio per natura: Nec alio modo possunt filii fieri cum ex natura sua sint creati, nisi Spiritum ejus, qui est naturalis ei verus Filius, acceperint » (S. Athan., Orat. 2 contra Arian). Il Sommo Pontefice Leone XIII non era dunque che l’eco della dottrina tradizionale quando, nella sua bella Enciclica sullo Spirito Santo, diceva: « La natura umana è necessariamente la servente di Dio: Per natura, noi siamo i servi di Dio (S. Cyr. Alex., Thesaur., 1. V, c.5). Inoltre, a causa della comune caduta, la nostra natura è finita in un tale abisso di vizio e vergogna che eravamo diventati nemici di Dio. Nessun potere era in grado di strapparci da questa rovina e di salvarci dalla perdita eterna. Questo compito, Dio, Creatore dell’uomo, lo ha compiuto nella sua sovrana misericordia per mezzo del suo Figlio unigenito, grazie al quale siamo stati restaurati con una maggiore abbondanza di doni in dignità e nobiltà di quanto avessimo perso. È impossibile dire quale sia stata l’opera compiuta dalla grazia divina nell’animo umano; perciò, i Libri Santi e i Padri della Chiesa ci chiamano esseri rigenerati, creature nuove ammesse alla partecipazione della natura divina, i figli di Dio, gli esseri divinizzati e altri titoli simili » (Ex Epist. Encycl. Divinum illud munus Léon. Papæ XIII.). Così, nel momento stesso in cui riceviamo la grazia, avviene in noi un profondo cambiamento; da servi che eravamo in virtù della nostra creazione, diventiamo improvvisamente figli di Dio; da figli del primo Adamo, eredi della sua natura e della sua colpa, diventiamo fratelli del secondo Adamo, Gesù Cristo nostro benedetto Salvatore, che non si vergogna di darci questa gloriosa qualifica (Propter quam causam non confunditur fratres eos vocare. » – Hebr., II, 11.); e sentiamo l’Apostolo pronunciare queste significative parole: « Non siete più stranieri ed ospiti, ma siete concittadini degli Santi e della Casa di Dio: Jam non estis hospites et advenæ, sed estis cives sanctorum et domestici Dei. » (Ephes. II, 19) – Non contento di distruggere in noi il vizio della nostra prima origine, Dio ci comunica un nuovo essere, una nuova vita, una nuova natura; ci genera spiritualmente, non certamente allo stesso modo, né come il Verbo divino, ma a sua somiglianza. Egli è consustanziale con il Padre, che gli comunica la propria natura in tutta la sua pienezza; abbiamo solo una partecipazione finita, un’imitazione analogica di questa stessa natura. Lui è Dio, noi siamo semplicemente divinizzati. La sua generazione è eterna e necessaria; la nostra rigenerazione, che si compie nel tempo, è libera e volontaria. Voluntarie genuit nos verbo veritatis (Giac. I, 18). In breve, il Verbo è Figlio per natura; noi non lo siamo che per benevolenza e adozione, essendo stati divinizzati dalla grazia, senza essere nati dalla sostanza divina: Homines dixit deos, ex gratia sua deificatos, non de substantia sua natos (S. Aug., in Ps. XLIX, n. 2). Ma pur essendo solo figli adottivi, abbiamo comunque diritto all’eredità del nostro Padre celeste. « Se siamo figli – dice san Paolo – siamo anche noi eredi: eredi di Dio e coeredi di Gesù Cristo: Si autem filii, et hæredes: hæredes quidem Dei, cohæredes autem Christi. » (Rom. VIII, 17) . Questo diritto all’eredità paterna è la parte più essenziale dell’adozione; è il suo scopo e il suo fine, così come l’amore ne è il principio. Inoltre, « non appena, per effetto della sua infinita bontà, Dio chiama gli uomini ad ereditare la propria beatitudine, si dice che li adotti » (S. Th., III, q. XXVIII, a. 1). È una grande e sublime vocazione, una benedizione inestimabile, che ha strappato dall’Apostolo san Paolo quel grido di gratitudine e di amore: « Benedetto sia Dio e Padre di Nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha ricolmati in Gesù Cristo di ogni sorta di benedizioni spirituali e celesti, avendoci eletti in Lui prima della costituzione del mondo, perché fossimo santi e immacolati davanti a Lui nella carità. Perché con un favore gratuito ci ha predestinato a diventare suoi figli adottati per mezzo di Gesù Cristo, per la gloria ed il trionfo della sua grazia, con la quale ci ha resi graditi ai suoi occhi nel suo amato Figlio. » (Ephes. I, 3-6).

III.

La grazia soddisfa così tutte le condizioni per una vera adozione, poiché attraverso di essa gli stranieri vengono introdotti liberamente nella famiglia di Dio, di cui diventano eredi. Ma quanto questa adozione differisce dalle adozioni umane! Se ci sono certe analogie, certi tratti di somiglianza tra di loro, tante, d’altra parte, sono le differenze profonde e marcate! Tra gli uomini, l’adozione avviene solo per compensare, in una certa misura, l’assenza di figli legittimi e per popolare una casa che la natura aveva lasciato deserta. Quando due coniugi, privati del beneficio della fertilità, temono che un grande nome si estinguerà e che si disperderà una brillante fortuna, scelgono uno sconosciuto, lo introducono come un figlio nella loro casa, e, trasmettendogli il loro nome e la loro eredità, si consolano nel pensiero che non moriranno del tutto. Ma se i coniugi hanno un figlio, fanno attenzione a non ridurre il suo patrimonio dandogli dei coeredi. « Questo – disse sant’Agostino – è ciò che fanno gli uomini; Dio agisce in modo diverso: Hoc faciunt homines….. No sic Deus » (S. Aug., in Joan., tract, 2, n. 13). Non è per l’indigenza, in assenza di un figlio, che Dio ci adotta; è solo per amore, con l’intenzione di diffondere su altri esseri l’abbondanza delle sue perfezioni. Egli possiede infatti un Figlio uguale a Se stesso, sovranamente perfetto, immortale, erede di tutti i suoi beni (Hebr. I, 2); ma, spinto dalla sua bontà, vuole allargare il cerchio della famiglia divina, ammettere alla condivisione dei suoi beni delle creature che non ne avevano alcun diritto, e conferire loro, adottandoli, una sorta di filiazione che è immagine di quella del Verbo, così come, con l’atto creativo, aveva comunicato a tutti gli esseri usciti dalle sue mani una somiglianza della sua perfezione (Rom. VIII, 29 – S. Th., III, q. XXIII a. 1, ad 2). Di qui le parole dell’Apostolo: « Coloro che Dio conosceva nella sua prescienza, li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo. » (Rom. VIII, 29). Era infatti necessario che, prima di adottarci, Dio cominciasse con il conferirci una partecipazione alla sua natura generandoci spiritualmente, perché la conformità della natura tra chi adotta e chi viene adottato si impone così manifestamente che non si giunge all’idea che un uomo possa prendere come figlio una creatura diversa dall’essere umano. Ora, mentre l’adozione umana suppone questa comunità di natura, l’adozione divina deve crearla, perché la divinità appartiene naturalmente solo a Dio. Inoltre, mentre l’uomo sceglie a piacimento tra i suoi simili colui che vuole fare suo figlio adottivo ed erede, Dio può adottare un essere ragionevole solo se lo divinizza in anticipo informandolo della sua natura. Inoltre, tra gli uomini, l’estraneo adottato può ricevere da se stesso l’eredità che gli è stata devoluta; se non può rivendicarla in virtù della sua nascita, basta una semplice formalità giuridica a costituire per lui un diritto e metterlo in possesso dei beni che gli sono stati lasciati in eredità. Questo non è il caso dell’adozione divina. Invece di limitarsi a designare la persona chiamata a ricevere l’eredità celeste, Dio deve prima creare, nell’eletto, la capacità di entrare in possesso e di godere dei beni divini; perché nessun essere creato, lasciato a se stesso e abbandonato alla sua sola forza, è capace di raggiungere tali altezze; c’è bisogno dell’integrazione della grazia e della gloria (S. Th. III, q. XXIII, a. 1); indubbiamente, non appena l’uomo è stato fatto ad immagine di Dio e possiede una natura intelligente, ha la potenza radicale di essere elevato alla visione beatifica e alla partecipazione della beatitudine divina, che consiste nel godere di Dio (Ibid.); ma, per ottenere l’effettivo godimento di questa beatitudine suprema, ha bisogno di forze soprannaturali che perfezionino la sua intelligenza e dilatino il suo cuore. Come si vede, l’adozione umana è un atto puramente esterno, una finzione giuridica, che può benissimo cambiare la situazione sociale dell’adottato, ispirargli nuovi sentimenti, stabilire tra lui e colui che lo adotta rapporti di intimità e di affetto, ma che non può fare nulla sulla natura. Il padre adottivo ha dato tutto quello che può trasmettere, quando ha dato il suo nome, la sua eredità e il suo cuore. « Colui che ne prende ora il nome, non appartiene alla razza per questo motivo. Se ha un cuore nobile e riconoscente, sposerà i sentimenti, i pensieri e le tradizioni della sua famiglia adottiva; ad essa dedicherà amore e obbedienza; ma a questa filiazione artificiale e convenzionale mancherà sempre il legame di origine, la consanguineità. Questo non è il caso dell’ordine della nostra filiazione suoprannaturale. Il giorno in cui diventiamo Cristiani, la nostra iniziazione non solo ci conferisce il nome, non solo ci aggrega alla casa, non solo ci impegna alla dottrina di Gesù Cristo: ma imprime nella nostra anima un sigillo di somiglianza, un carattere indelebile; essa ci comunica internamente « lo spirito di adozione dei figli in cui gridiamo; Padre » (Rom. VIII, 15); infine, attraverso l’azione sacramentale del Battesimo e di altri segni, e ancor meglio attraverso il nettare eucaristico, essa insinua il sangue di colui in cui siamo adottati nella parte più intima del nostro essere. Attraverso questo, entriamo autenticamente nella sua razza: ipsius enim et genus sumus (Act. XVII, 28). E siccome siamo della razza di Dio: genus ergo cum simus Dei (Ibid. 29), perché la nostra filiazione non è puramente nominale, ma rigorosamente vera e reale, diventiamo eredi di diritto e di stretta giustizia, eredi del Padre comune che abbiamo con Gesù Cristo, coeredi quindi del primogenito della nostra razza (Rom. VIII, 17): Si filii, et hæredes: hæredes quidem idem Dei, cohæredes autem Christi » (Card. Pie, 3 e Instruct. synod. sur les principales erreurs du temps présent, § XVI).

IV.

Cosa sono, di fronte a queste qualità di figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo, i titoli più fastosi di cui la vanità umana ama adornarsi come di un’aureola? Che cos’è un principe della terra, un capo di stato, un monarca benché si presuma essere così potente, accanto a un erede della corona celeste? Questo aveva perfettamente compreso il nostro grande San Luigi; egli infatti preferiva l’umile nome di Luigi di Poissy, il luogo dove aveva ricevuto il Sacramento della rigenerazione, al nome sì giustamente famoso di Re di Francia. Altri si vantino, se lo desiderano, della nobiltà della loro origine, dell’ampiezza e della profondità della loro conoscenza, dell’abbondanza delle loro ricchezze, della brillantezza dei loro onori: agli occhi della fede, e di conseguenza a giudizio di Dio, nulla di tutto ciò è paragonabile alla dignità di un Cristiano in stato di grazia. Questo giusto non è forse che solo un povero artigiano, che vive a malapena del lavoro delle sue mani, o una donna umile, senza influenza o notorietà, per non parlare di un mendicante misconosciuto e disprezzato, con pochi stracci sordidi per coprire la sua nudità. Ma mentre il felice della terra passa accanto a lui senza degnarsi di guardarlo, tutto il Cielo intero ha gli occhi su di lui; Dio lo contempla con amore, pronto a ripetere per lui le parole che un giorno caddero dalle labbra a lode di Gesù Salvatore: « Questo è il mio amato Figlio, nel quale ho riposto tutte le mie compiacenze » (« Hic est Filius meus dilectus, in quo mihi bene complacui. » (Matth,, XVII, 5); gli Angeli lo circondano di religioso rispetto e lo coprono della loro protezione, perché vedono in lui un fratello e un coerede della gloria celeste. Questo è ciò che deve essere insegnato e ripetuto frequentemente agli uomini della generazione contemporanea che sono così freddamente indifferenti alle cose della salvezza, così ingrati a Dio, così sprezzanti dei beni della grazia. A questi battezzati che fanno conto del titolo di Cristiani come di una cosa da nulla, quand’anche non se ne umiliano apertamente davanti ai figli del secolo, è necessario ricordare lo splendore della loro nascita spirituale, la dignità del loro Battesimo, l’incomparabile grandezza dei loro destini; è necessario insegnare loro a non arrossire di ciò che li rende gloriosi. Un figlio di famiglia, un giovane di nobile estrazione, arrossisce forse per i nomi dei suoi antenati? Nasconde o dissimula il proprio blasone? Al contrario, egli lo fa risuonare ben in alto, si ingegna nel metterlo bene in evidenza. Ebbene, tutti noi che siamo stati battezzati apparteniamo alla più grande razza del mondo: siamo della razza divina, siamo figli di Dio. « Imparate – diceva san Girolamo alla vergine Eustochio, invitandola a non associarsi alle superbe matrone gonfie per l’importanza dei loro mariti – imparate a concepire qui un santo orgoglio; sappiate  che voi siete migliori di loro: Disce sanctam superbiam; scito te illis majorem. » (S. Girol. Epist. IX). Se l’umiltà cristiana ci si addice come creature, e specialmente in quanto peccatori, non è opportuno avere pensieri mediocri o sentimenti bassi circa le cose della grazia. Un santo orgoglio appare qui appropriato, per colui che rispetta i doni di Dio e si rifiuta di derogare. Che gli uomini estranei alla nostra fede riservino la loro stima per i beni ed i benefici nell’ordine naturale, che esaltino più della ragione le conquiste della scienza, questo è concepibile; poiché « l’uomo animale – secondo l’espressione energica di san Paolo – non conosce le cose che sono dello Spirito di Dio » (« Animalis homo non percipit ea quas sunt Spiritus Dei. » (I Cor., II, 14); quanto al Cristiano, egli non la cede a nessuno quanto alla stima e alla cultura delle scienze naturali e umane – perché, lungi dall’essere una depressione della natura, la grazia è, al contrario, la sua più splendida esaltazione – fa professione di credere in una scienza superiore e più necessaria, la scienza di salvezza. – Ascoltate dunque con quali nobili accenti san Cipriano risponde a tutti quei difensori della natura che hanno costantemente in bocca le grandi parole di “progresso”, “civiltà” e “scoperte moderne”, e che, non contenti di esaltarsi davanti a quelli che chiamano i capolavori del pensiero e le conquiste della scienza, sembrano voler imporre la loro ammirazione agli altri: « Non ammirerà mai le opere umane, chi sa di essere figlio di Dio ». È un discendere dalla vetta della grandezza l’ammirare qualcosa dopo Dio. Nunquam humana operato mirabitur, quisquis se cognoverit filium Dei. Dejicit se culmine generositatis, qui admirari aliquid post Dominum potest. » (S. Cyp., lib. de Spectac., n. IX). E per incoraggiare il Cristiano a rifiutare coraggiosamente la tentazione, l’illustre Vescovo di Cartagine non trova motivo più potente di quello della sua divina figliolanza: « Ogni volta che la carne vi sollecita a piaceri vergognosi, rispondete: Io sono il figlio di Dio, chiamato a un destino troppo alto per farmi schiavo di vili passioni. Quando il mondo vi tenta, rispondete: Io sono il figlio di Dio; mi sono riservate le ricchezze celesti, non è degno di me che io mi leghi ad una zolla di terra. Quando il diavolo cerca di attaccarvi e vi promette onori, ditegli: io sono il figlio di Dio, nato per un regno eterno; ritirati, satana, non confondere mai gli alti pensieri che appartengono ai figli di Dio. « O Cristiano – aggiunge san Leone – riconosci la tua dignità e, divenuto partecipe della natura divina, non ritornare alla tua precedente bassezza con una condotta indegna della tua origine celeste » (« Agnosce, o christiane, dignitatem tuam, et divinse consors factus naturae, noli in veterem vilitatem degeneri conversations redire. » (S. Léo, serm. 1 de Nativ. Domini.)

https://www.exsurgatdeus.org/2020/03/05/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-12/

SALMI BIBLICI: “CONFITEMINI DOMINO, QUONIAM BONUS … DICANT QUI REDEMPTI” (CVI)

SALMO 106 “Confitemini Domino, quoniam bonus … Dicant qui redempti”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 106

Alleluja.

 [1] Confitemini Domino, quoniam bonus,

quoniam in sœculum misericordia ejus.

[2] Dicant qui redempti

sunt a Domino, quos redemit de manu inimici, et de regionibus congregavit eos,

[3] a solis ortu, et occasu, ab aquilone, et mari.

[4] Erraverunt in solitudine, in inaquoso; viam civitatis habitaculi non invenerunt.

[5] Esurientes et sitientes, anima eorum in ipsis defecit.

[6] Et clamaverunt ad Dominum cum tribularentur, et de necessitatibus eorum eripuit eos;

[7] et deduxit eos in viam rectam, ut irent in civitatem habitationis.

[8] Confiteantur Domino misericordiæ ejus, et mirabilia ejus filiis hominum.

[9] Quia satiavit animam inanem, et animam esurientem satiavit bonis.

[10] Sedentes in tenebris et umbra mortis; vinctos, in mendicitate et ferro.

[11] Quia exacerbaverunt eloquia Dei, et consilium Altissimi irritaverunt.

[12] Et humiliatum est in laboribus cor eorum; infirmati sunt, nec fuit qui adjuvaret.

[13] Et clamaverunt ad Dominum cum tribularentur; et de necessitatibus eorum liberavit eos.

[14] Et eduxit eos de tenebris et umbra mortis, et vincula eorum dirupit.

[15] Confiteantur Domino misericordiæ ejus, et mirabilia ejus filiis hominum.

[16] Quia contrivit portas aereas, et vectes ferreos confregit.

[17] Suscepit eos de via iniquitatis eorum, propter injustitias enim suas humiliati sunt.

[18] Omnem escam abominata est anima eorum, et appropinquaverunt usque ad portas mortis.

[19] Et clamaverunt ad Dominum cum tribularentur; et de necessitatibus eorum liberavit eos.

[20] Misit verbum suum, et sanavit eos, et eripuit eos de interitionibus eorum.

[21] Confiteantur Domino misericordiæ ejus; et mirabilia ejus filiis hominum.

[22] Et sacrificent sacrificium laudis, et annuntient opera ejus in exsultatione.

[23] Qui descendunt mare in navibus, facientes operationem in aquis multis,

[24] ipsi viderunt opera Domini, et mirabilia ejus in profundo.

[25] Dixit, et stetit spiritus procellæ, et exaltati sunt fluctus ejus.

[26] Ascendunt usque ad caelos, et descendunt usque ad abyssos; anima eorum in malis tabescebat.

[27] Turbati sunt et moti sunt sicut ebrius; et omnis sapientia eorum devorata est. [28] Et clamaverunt ad Dominum cum tribularentur; et de necessitatibus eorum eduxit eos.

[29] Et statuit procellam ejus in auram, et siluerunt fluctus ejus.

[30] Et laetati sunt quia siluerunt; et deduxit eos in portum voluntatis eorum.

[31] Confiteantur Domino misericordiæ ejus; et mirabilia ejus filiis hominum.

[32] Et exaltent eum in ecclesia plebis, et in cathedra seniorum laudent eum.

[33] Posuit flumina in desertum, et exitus aquarum in sitim;

[34] terram fructiferam in salsuginem, a malitia inhabitantium in ea.

[35] Posuit desertum in stagna aquarum, et terram sine aqua in exitus aquarum.

[36] Et collocavit illic esurientes, et constituerunt civitatem habitationis;

[37] et seminaverunt agros et plantaverunt vineas, et fecerunt fructum nativitatis.

[38] Et benedixit eis, et multiplicati sunt nimis; et jumenta eorum non minoravit.

[39] Et pauci facti sunt et vexati sunt, a tribulatione malorum et dolore.

[40] Effusa est contemptio super principes; et errare fecit eos in invio, et non in via.

[41] Et adjuvit pauperem de inopia, et posuit sicut oves familias.

[42] Videbunt recti, et lætabuntur; et omnis iniquitas oppilabit os suum.

[43] Quis sapiens et custodiet hæc? et intelliget misericordias Domini?

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CVI

Celebra il Signore, il quale da1 traviamenti, dalle carceri, dalle malattie, e dai pericoli del mare, e da tutti i mali libera coloro, che lo invocano, e gli ricolmadi favori. Sotto tali immagini è adombrata la vocazione delle genti liberate dalla loro cecità, e dalla funesta loro schiavitù per Gesù Cristo:

Alleluja: Lodate Dio.

1.Date lode al Signore, perché egli è buono perché la misericordia di lui è eterna. (1)

2. Lo dicano quelli che dal Signore furon redenti, i quali egli riscattò dal dominio dell’inimico, e gli ha raccolti di tra le nazioni.

3. Dall’oriente e dall’occidente, da settentrione e dal mare.

4. Andaron errando per la solitudine, per aridi luoghi, non trovando strada per giungere ad una città da abitare.

5. Tormentati dalla fame e dalla sete, era venuto meno in essi il loro spirito.

6. E alzaron le grida al Signore, mentr’erano tribolati; e gli liberò dalle loro angosce.

7. E li menò per la via diritta, affinché giungessero alla città da abitare.

8. Diano lode al Signore le sue miserie e le meraviglie di lui in prò dei ligliuoli degli uomini.

9. Perché egli ha saziata l’anima sitibonda e l’anima famelica ha ricolma di beni.

10. Sedevan nelle tenebre, e all’ombra di morte imprigionati o mendichi, e nelle catene.

11. Perchè furon ribelli alle parole di Dio e dispregiarono i disegni dell’Altissimo.

12. E fu umiliato negli affanni il loro cuore, restarono senza forze, e non fu chi prestasse soccorso.

13. E alzaron le grida al Signore, mentre erano tribolati: e liberolli dalle loro necessità.

14. E li cavò dalle tenebre e dall’ombra di morte, e spezzò le loro catene.

15. Lodino il Signore le sue misericordie e le sue meraviglie a prò’ de’ figliuoli degli uomini.

16. Perché egli ha spezzate le porte di bronzo e rotti i catenacci di ferro.

17. L i sollevò dalla via della loro iniquità, dappoiché per le loro ingiustizie furono umiliati.

18.  L’anima loro ebbe in avversione qualunque cibo; e si accostarono fino alle porte di morte.

19. E alzaron le grida al Signore mentre erano tribolati, e gli liberò dalle loro necessità.

20. Mandò la sua Parola, e li risanò; e dalla lor perdizione li trasse.

21. Lodino il Signore le sue misericordie, e le sue meraviglie a prò de figliuoli degli uomini;

22. E sacrifichino sacrifizi dilaude, e celebrino con giubilo le opere di lui,

23. Coloro che solcano il mare sopra le navi, e nelle grandi acque lavorano. (2)

24. Eglino han veduto le opere del Signore, e le maraviglie di lui nell’abisso.

25. Alla parola di lui venne il vento portator di tempesta, e i flutti del mare si alzarono. (3)

26. Salgono fino al cielo, e scendono fino all’abisso: l’anima loro si consumava di affanni.

27. Erano sbigottiti, e si aggiravano come un ubbriaco; e tutta veniva meno la loro prudenza.

28. E alzaron le grida al Signore mentre erano nella tribolazione, e gli liberò dalle loro necessità.

29. E la procella cambiò in aura leggera, e i flutti del mare si tacquero.

30. Ed eglino si rallegrarono perché si tacquero i flutti; ed ei li condusse a quel porto, ch’e’ pur bramavano.

31. Lodino il Signore e le sue misericordie, e le sue meraviglie a prò’ de’ figliuoli degli uomini.

32. E lui celebrino nell’adunanza del popolo; e nel consesso de’ seniori a lui diano laude.

33. Ei cangiò i fiumi in secchi deserti, e le sorgenti dell’acque in terreni assetati.

34. La terra fruttifera cangiò in salsedine per la malizia dei suoi abitatori. (4)

35. I deserti mutò in istagni di acque, e alla terra arida diede sorgenti di acque.

36. E in essa collocò gli affamati, e vi fondarono città da abitarvi.

37. E seminarono campi, e piantaron viti, ed ebher frutti in copia nascenti.

38. E li benedisse, e moltiplicarono grandemente, e accrebbe i loro bestiami.

39. Quantunque e’ fosser ridotti a pochi, efosser vessati da molti affanni e dolori;

40. Il dispregio piovve sopra i potenti, ed ei li fe’ andare fuori di strada, e dove strada non è.

41. Ed egli sollevò il povero nella miseria, e fe’ le famiglie come greggi di pecore.

42. Queste cose le comprenderanno i giusti, e ne avranno allegrezza, e tutta l’iniquità si turerà la sua bocca.

43. Chi è il saggio, che farà conserva di queste cose, e intenderà le misericordie del Signore?

(1) La forma di questo salmo è unica. I primi tre versetti formano una sorta di preludio; poi vengono quattro strofe in cui il pensiero segue regolarmente lo stesso andamento; il quadro seguente farà meglio comprendere questo piccolo capolavoro poetico:

Stato del popolo di Dio in cattività o prova:

I strofa vv. 4, 5. II strofa: vv. 10-12; III strofa: vv. 17, 18; IV strofa: vv. 23-27;

Preghiera a Dio – Liberazione immediata:

I strofa vv. 6, 7. II strofa: vv. 13-14; III strofa: vv. 19, 20; IV strofa: vv. 28-30;

Azioni di grazie:

I strofa vv. 8, 9. II strofa: vv. 15-16; III strofa: vv. 21, 22; IV strofa: vv. 31-32.

Nell’ultima parte, che comincia al versetto 33, la forma non è più la stessa; vi vediamo la rovina di Babilonia, o dei nemici del popolo di Dio, in contrasto con la riedificazione di Gerusalemme. Così i vv. 33, 34 formano un contrasto dirompente con il versetto 35, come il versetto 36-38 con i versetti 39, 40 (P. Emm. Nuovel Essai sur les Psalmes.). Questo salmo era cantato alternativamente da due cori, la maggior parte dal coro dei leviti e dei cantori, ed i versetti intercalari 6, 8, 13, 15, 19, 21, 28, 31, dal popolo

(2) Siccome il mar Mediterraneo circonda la Palestina ad Occidente, ed il livello delle sue rive è meno elevato della terra ferma che le lambisce, il salmista esprime, con la parola “discendere”, ciò che fecero tanti Giudei dopo la presa di Gerusalemme da parte Caldei. Essi fuggirono verso il mare per cercare un rifugio in Egitto, in Africa, in Grecia, in Italia; ma Dio li seguiva dappertutto, essi ebbero a subire le tempeste più spaventose.

(3) La parola “stetit” non significa affatto “si è arrestata” senso che sarebbe in opposizione con il seguito del salmo.

(4) Hengstenberg intende che questi versetti riguardino Babilonia; ma ci sembra più giusto, con Maurer ed altri esegeti, riferirli alla terra di Canaan che, dopo la prigionia dei suoi abitanti, restò incolta ed isolata, e dopo il loro ritorno recuperò la sua bellezza e la sua fertilità.

Sommario analitico

Questo salmo, che si può riportare – in accordo con diversi interpreti – al ritorno dalla cattività, ha tuttavia un intento più esteso. Esso è composto da diverse parti e termina con una strofa intercalare in forma di ritornello cantato dal coro. Esso comprende e dipinge in cinque quadri di un’audacia e di una bellezza ammirevole, cinque classi di persone che devono particolarmente ringraziare Dio. Il Profeta si serve di numerose comparazioni o allegorie per far comprendere la grandezza di questi benefici che, secondo i santi Padri, sono la figura della redenzione del genere umano. Nella numerazione di queste cinque classi, il Profeta, come sottolinea Rosen-Muller, e secondo Schmurrer, segue sempre lo stesso ordine. Egli mette in scena una determinata classe di uomini, espone la grandezza dei loro mali, la loro preghiera, il soccorso dall’alto e l’azione di grazie.

I CLASSE: La prima classe è quella degli uomini erranti ed affamati che hanno trovato un asilo e del pane, ciò che conviene ai gentili o ai peccatori che, in rapporto alla religione ed alla salvezza, sono veramente come degli sbandati e degli affamati, senza fissi principi, senza strada né uscita, senza termine possibile alla loro marcia dolorosa e nello stesso tempo sterile (1-9).

II CLASSE: La seconda classe comprende coloro che, schiavi o caricati da catene, riscoprono la loro libertà e rappresentano lo stato di cecità, di indigenza spirituale  e di dura schiavitù del genere umano alla venuta del Messia (10-17).

III CLASSE: La terza classe, sotto l’immagine delle infermità corporali, comprende tutte le malattie spirituali degli uomini ed il disgusto mortale che essi avevano delle verità eterne (17-22).

IV CLASSE: La quarta classe comprende coloro che sono sfuggiti al naufragio e rappresenta le tempeste eccitate dalle passioni nel tumulto del mondo, o le persecuzioni portate contro la Chiesa nascente (23-32).

V CLASSE: La quinta classe comprende coloro che vogliono tornare all’abbondanza dopo la sterilità, sotto l’immagine di una terra devastata e di un’altra terra feconda e popolata. Taluni vedono qui i Giudei riprovati, lo spirito di vertigine che ingannò i principali tra loro, in opposizione alla vocazione dei gentili e la protezione che Dio accorda alle anime umili e docili (38-41).

VI. – CONCLUSIONE. – Il  Profeta fa osservare:

1° Questa condotta della divina Provvidenza sarà per i buoni fonte di gioia, per i malvagi soggetto di confusione (42);

2° I saggi devono sempre aver presente questa condotta di Dio per comprendere e lodare le sue misericordia (43).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-9

ff. 1-3. – Questi tre versetti sono come la prefazione di questo salmo, nel quale Davide esorta tutti coloro che hanno provato la misericordia del Signore, a proclamare le sue lodi, e proclamarle soprattutto perché Egli è sovranamente buono e misericordioso, e la sua misericordia non fa mai difetto. Egli fa appello innanzitutto ai fedeli che Dio ha riscattato con il sangue del suo unico Figlio, poi  coloro che il Signore ha raccolto in un solo popolo, in una sola Chiesa, in un solo regno, il regno del suo Figlio diletto, che Egli ha radunato non dall’Egitto o da Babilonia, come altre volte gli Ebrei, ma dal levante al ponente, dal Nord e dal Mezzogiorno. (Bellarm.).- Quattro sono i caratteri della misericordia di Dio al nostro riguardo: noi siamo stati riscattati letteralmente; noi siamo stati riscattati dal Signore, al quale apparteniamo oramai a titolo particolare, nel compimento di questa profezia: « Questi dirà: Io appartengo al Signore, quegli si chiamerà Giacobbe; altri scriverà sulla mano: Io appartengo all’Eterno. », (Isai. XLIV, 5). Questi quattro benefici segnalati dalla bontà e dalla misericordia di Dio ci sono richiamati nei primi due versetti: 1° noi siamo stati riscattati; 2° siamo stati riscattati dal Signore; 3° Siamo stati radunati da diversi paesi per formare un’unica Chiesa. – 1° Noi siamo stati riscattati, nel senso rigoroso del termine, secondo l’ammirabile teologia di san Paolo. Agli occhi del grande Apostolo, lo stato del genere umano, effetto del peccato, si presenta come un debito immenso contratto verso Dio, e che l’uomo non poteva ripagare. Il Cristo, conoscendo questo contratto funesto che ci incatenava alla morte, lo cancella con il suo sangue e lo inchioda alla croce come un monumento della sua vittoria e della nostra libertà (Coloss. III, 14). Egli mette fine al vecchio impero del peccato e lo rimpiazza con il decreto di salvezza; (Efes. II, 15); Egli ci riscatta dalla maledizione di questa legge funesta (Gal. III, 13), noi abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue e con essa la piena remissione dei peccati. Ecco il fatto positivo, effettivo, della redenzione del genere umano: liberazione, guarigione, riscatto e remissione del peccato con il suo sangue. – 2° Noi siamo stati riscattati dal Signore, che è il sovrano padrone di tutte le cose, noi che siamo i più miserabili ed indegni tra gli schiavi, noi Gli apparteniamo ora a titolo tutto particolare. « Il Signore riscatterà l’anima dei suoi servi » (Ps. XXIII, 23). « I mortali sapranno che sono Io il Signore che salva, e che il tuo Redentore è il Forte di Israele. » (Isai. XLIX, 26). « Il nostro Redentore è il Dio degli eserciti, il suo nome è il Santo di Israele. » (Isai. XLVII, 4). Compimento di questa profezia: « L’uno dirà: io sono col Signore, l’altro porterà il nome di Giacobbe, un altro scriverà di sua mano: io appartengo all’Eterno. » (Isai. XLIV, 5). – 3° Egli ci ha riscattato dalla potenza del nostro nemico più crudele, cioè la potenza del demonio, – a) Ci ha riscattato con saggezza: « Voi ci avete riscattato, Signore Dio di verità, » (Ps. XXX, 6); – b) Egli ci ha riscattati con forza, incatenando il forte armato, e ci ha liberato dalla tirannia, (Matt. XII); – c) Egli ci ha riscattato con giustizia. « Egli ha inviato la redenzione al suo popolo, » un Redentore ed il prezzo della redenzione. (I Cor. VI, 20). « Voi siete stati riscattati a caro prezzo. » – d) Noi siamo stati riscattati con amore, Egli è stato sacrificato, perché Egli lo ha voluto. » (Isai. LIII, 1). « È così che Dio ha tanto amato il mondo, da dargli il suo unico Figlio. » (Giov III, 16). – 4° Infine Egli ci ha radunato da diverse nazioni, per formare un unico gregge sotto la guida e la direzione di un unico Pastore. – Io mi glorificherò non perché sono giusto, ma perché i miei peccati mi sono stati rimessi; non perché io mi sia reso utile agli altri, o perché mi sia attirato i loro benefici, ma perché il sangue di Cristo è stato sparso per me. Senza le mia prevaricazioni, io non sarei stato riscattato a così caro prezzo. Queste prevaricazioni mi sono state più utili dello stato di innocenza. Nell’innocenza, io ero divenuto orgoglioso, e dopo essere divenuto prevaricatore, io sono rientrato nella sottomissione. (S. Ambr.) – Dio non limita gli effetti della sua misericordia ad un’unica nazione; essa si spande su tutti i popoli. « In verità, io vedo che Dio non fa eccezione di persone; ma che in ogni nazione, colui che lo teme e pratica la giustizia gli è gradito.. » (Act. X, 34, 35).  

ff. 4-9. – Quattro sono le grandi miserie corporali, ed un numero uguale di miserie morali. Le miserie corporali sono innanzitutto la fame e la sete: risultato della sterilità, della siccità, cioè di una causa esteriore qualsiasi e naturale; poi la cattività, che ha la sorgente in una violenza straniera, cioè in una causa esterna e volontaria; viene in terzo luogo la malattia, risultato di una cattiva costituzione, cioè un principio esterno naturale; infine il pericolo di un naufragio, che nasce da un principio esterno naturale, vale a dire dalla direzione dei venti, e da un principio interno volontario, cioè la curiosità dell’uomo che non contento di calpestare la terra solida sotto i suoi piedi, ha voluto tentare il viaggio sulle superfici liquide. Le quattro grandi miserie morali sono quelle che i teologi chiamano le ferite della natura, triste retaggio del peccato originale: l’ignoranza dell’anima, la concupiscenza delle cose, la collera e la malizia dello spirito; le virtù opposte sono la prudenza dell’anima, la temperanza delle passioni, la forza su se stesso e la rettitudine della volontà, che sono dette le quattro virtù cardinali. In questa prima parte, il Profeta canta la misericordia di Dio, che libera dalla prima miseria sia corporale che morale (Bellarm.). – L’ignoranza della salvezza, è la piaga di un gran numero di uomini erranti nel deserto, come fuori della loro vita, che hanno fame di sete e di verità, della fontana della saggezza e della prudenza. Tutti gli uomini aspirano naturalmente al bene; ma il maggior numero – preoccupato da vani pensieri – perseguono sempre il possesso dei beni temporali, cercando la beatitudine ove essa non è; altri scambiano per beatitudine ciò che non ne è che l’ombra, e nella loro ignoranza del fine, ignorano necessariamente la strada che vi conduce. Errando così all’avventura, essi non possono trovare la città della loro vera abitazione (Bellarm.). – Studiamo tutti i tratti di questo quadro oscuro che ci fa il Profeta: 1° « essi hanno errato. » Tutti i peccatori si condannano a questa vita di inganni: – a) nella loro intelligenza, « essi hanno errato come i ciechi nelle strade e sulle pubbliche piazze; » (Thren. IV, 14); « in pieno giorno, essi brancolano come nelle tenebre, e li fa vacillare come se fossero ubriachi, » (Giob. XII, 25); – b) nella loro volontà depravata ed abbassata interamente verso terra, « essi si sono allontanati da me, e si sono ingannati dietro ai loro idoli, » (Ezech. XLIV, 10); – c) nelle loro azioni, « essi errano e si smarriscono, tutti coloro che fanno il male. » (Prov. XIV, 22). Ecco l’immagine della società attuale, che si allontana sempre più da Dio e dalla vera strada che è Gesù-Cristo, perdendosi in una vita senza religione, attraverso contrade lontane, in mezzo a pericoli di ogni tipo, con la triste prospettiva di una morte certa. – 2° ogni peccatore erra nella solitudine: « Essi hanno errato nella solitudine, in un deserto senza acqua, » come un gregge senza pastore, come un orfano senza padre, come un orfano senza tutore, come una vedova priva del suo sposo, come un viaggiatore senza guida. Il Signore è la via; al di fuori di questa via e delle sue cure paterne della sua provvidenza, noi non riscontriamo più che una solitudine arida e sterile che non è mai irrorata dalla rugiada celeste. (S. Greg. di Nyssa, Tract. I in Ps.). – Qual triste sorte quella di questi infelici erranti, incamminati nelle vie deviate in cui li vediamo ogni giorno perdersi, abbandonati ai loro sensi, sballottati ed incerti in seno a tutte le contraddizioni e a tutti gli errori, così lontani dalla celeste patria e dalla vera gioia, che è Gesù-Cristo! Qual solitudine desolante è quella in cui non c’è Dio! In cui l’anima non vede, non sente, non spera più nulla! Qual via di incertezza, di dubbi, di errori, su tutte queste grandi questioni che interessa tanto conoscere all’uomo! – 3° Errando così nella solitudine dei loro pensieri e dei loro desideri, « essi non hanno trovato il cammino della città che dovevano abitare. » L’uomo è errante in questo mondo per tanto tempo, finché non abbia trovato la città di Dio, la città della fede, della speranza e della carità: la Chiesa, che sola può appagare la fame e la sete del suo spirito. I peccatori, gli empi, non trovano la via che conduce a questa città, perché essi non vogliono né riconoscere, né ascoltare Colui che dice loro: « Io sono la via, la verità e a vita, » e si condannano così ad errare quaggiù nelle orribili solitudini del dubbio e dell’errore e più tardi, nelle solitudini ben più desolanti di una espiazione che non avrà altro termine che l’eternità. – 4° Errando nella solitudine, l’anima smarrita muore di fame, e di sete, fame e sete crudele di cui la fame e la sete che torturano il corpo non possono dare che una debole idea. « … Io invierò, dice il Signore, la fame sulla terra, non la fame del pane, né la sete dell’acqua, ma la fame della parola di Dio. »  Ed essi si agiteranno da un mare all’altro, e dopo il settentrione andranno fino al mezzogiorno per cercare la parola di Dio; essi non la troveranno. « In quel giorno, le vergini ed i giovani moriranno di sete » (Amos VIII, 11, 12). Qual tormento quello di un’anima che dopo essere stata, sull’esempio del prodigo del Vangelo, il più lontano possibile dalla casa paterna, in un paese straniero, ove ha dissipato tutte i ricchi tesori, e dato al mondo tutto ciò che Dio voleva avere, è condannato a lanciare il suo grido di angoscia: « Io muoio di fame! » Morir di fame, è quella in effetti la sorte che attende queste anime create per nutrirsi di verità, ma che, avendo rigettato volontariamente questo nutrimento divino delle intelligenze fatte ad immagine di Dio, non hanno più che da aspettare che gli snervamenti prodotti dai loro lunghi errori e gli sfinimenti della morte: « Essi hanno errato nella solitudine, in una terra senza acqua, e non hanno trovato alcuna via verso una città abitabile; affamati, assetati, la loro anima è piombata nella rovina. » – Per garantirsi dalla sventura che dipinge il profeta, i Santi procurano in se stessi una solitudine tutta differente da quella di coloro in cui camminano i peccatori. « Questa solitudine – diceva San Gregorio – consiste nell’escludere dal cuore il tumulto dei desideri della terra, ed a porvi, con la meditazione dell’eternità, l’amore della patria celeste. » I peccatori, errando nei loro deserti, non sanno cosa vogliono, mentre il giusto vede sempre il termine al quale aspira. – Qual mezzo per uscire da queste difficoltà, da queste angosce, dall’errore, dalla solitudine, da questa fame e da questa sete disastrosa? Un solo grido esce dal fondo del cuore verso il Signore, e tutto è cambiato. (S. Greg. di Nyssa, Te. I, in Ps.). – È dal fondo di questo abisso che la misericordia divina viene a riprenderli: « Essi hanno gridato verso il Signore in mezzo alle loro afflizioni, ed Egli li ha tratti dalle loro necessità. » Questo stesso grido che l’anima volge a Dio, è un effetto della grazia divina, perché l’uomo non saprebbe gridare con questo grido possente che ottiene la grazia della sua liberazione, se lo Spirito Santo non formasse in lui questi gemiti ineffabili che sono sempre esauditi da Dio. Dopo questo grande grido lanciato verso Dio, cosa ancora resta da fare! Qual soccorso ha dato loro in ragione del loro smarrimento? Il Profeta ci lo indica in queste parole: « Egli li ha condotti nella retta via. » La loro intelligenza, il loro cuore, la loro volontà, le loro opere, la loro maniera di essere, le loro abitudini, tutto era deragliato, Dio ha ricondotto tutto sulla retta via. Dio li ha condotti nella via retta per farli arrivare ad una città abitabile. Gesù-Cristo solo è il retto cammino che conduce a questa città veramente abitabile, a questa città permanente che ha un fondamento stabile, di cui Dio stesso è il fondatore e l’architetto (Hebr. XI, 10). – Fuori da Gesù-Cristo, l’uomo non cammina che su terre mobili, incapaci di consistenza, che franano da ogni parte e non fanno vedere che spaventosi precipizi. – La fede solo, ponendoci sulla pietra stabile, può condurci verso questa città delle solennità, della Gerusalemme celeste, il soggiorno della pace, questo padiglione che non sarà trasportato in altri luoghi, i cui appoggi non saranno divelti, le cui corde non saranno spezzate; è solo là che il Signore fa apparire tutta la sua magnificenza (Isai. XXXIII). – Dolce e legittimo soggetto di lode che dobbiamo rendere a Dio, sono le sue misericordie. È il cantico che canteremo in eterno, e che bisogna iniziare già fin da questa vita. – Il Profeta non ha ancora detto come Dio li abbia tratti da tutte le loro necessità; ma aspettate, egli lo dirà. « Che sia confessato il Nome del Signore per le sue misericordie, e per le meraviglie che ha fatto in favore dei figli degli uomini. » Ditelo a coloro che non lo hanno ancora provato, voi che siete entrati nella retta via, voi che siete condotti verso la città in cui abiterete, voi infine, che siete già liberati dalla fame e dalla sete; dite che il Signore ha saziato l’anima che era vuota, e colmato di beni l’anima affamata. (S. Agost.). – L’animo del Cristiano ha sempre fame e sete, ma è saziato e sempre ed in modo costante. C’è nella via del bene, nel sentimento del dovere pieno per Dio, una soddisfazione che solo le anime abiette possono negare. Perché nella vita dei Santi si nota una felicità, una gioia, una pace che brillano in tutta la loro fisionomia? … Non siate stupefatti: questi uomini sono sazi, essi hanno le facoltà piene di cose vere, nobili e grandi! Dio stesso sazia la loro fame, estingue la loro sete; e tuttavia man mano che avanzano ne desiderano sempre di più, ma ad ogni desiderio, il Signore accorda nuove grazie e dispensa nuovi benefici. La loro vita trascorre così tra i bisogni soddisfatti dalla liberalità di Dio, e tra i desideri che crescono per ricevere nuovi appagamenti (Mgr LANDRIOT, Beatit. n, p. 222).

II. —10-17

ff. 10-17. – La seconda schiavitù, è la schiavitù della concupiscenza e del peccato.Percorriamo i principali tratti di questa umiliante servaggio. – 1° Il peccatore disteso nelle tenebre in seno alle ombre della morte, come un cadavere è affetto già dalla corruzione della tomba. 2° Il peccatore incatenato nei ferri delle sue passioni e dei suoi disordini – ridotto alla più umiliante servitù ed alla mendicità più completa, nh ed umiliato nei lavori più ignominiosi: « Sono un uomo maledetto, chi mi libererà da questa vergognosa schiavitù? » – « Dio che ha comandato alla luce di brillare dal mezzo delle tenebre (I Cor. IV, 6), fa uscire il peccatore dalle tenebre e dalle ombre della morte, e distrugge tutti i legami del peccato con la forza della sua grazia. – 3° La debolezza, la malattia, la totale astenia del peccatore fuori dalla grazia di Dio, non trovano nessuno che giunga in soccorso. – Il peccato, le abitudini inveterate, la schiavitù delle passioni, sono molto più difficili da infrangere delle porte di bronzo e delle barriere di ferro (Dug.). – Essi sono sotto la schiavitù del mondo e delle loro passioni, e quali legami! Esse sembrano leggeri, ed il loro peso è intollerabile; esse sembrano accompagnate da piaceri, e portano nell’anima un dolore mortale; sotto queste catene, nessun vero riposo, nessun solido benessere, nessuna speranza in grado di consolare. (S. Agost.). – Vediamo come Dio li  liberi da tutte le sue miserie: 1° Dio li estrae dalle loro tenebre con la luce della fede e delle grazie dello Spirito-Santo. « Egli li fece uscire dalle tenebre e dall’ombra di morte. » La prima luce dell’intelligenza, è la fede (S. Pier Dam., L. H. Ep. 5); ogni grazia è una luce. – 2° Dal momento che questa luce ha brillato nei nostri occhi, Dio spezza le catene che tenevano schiavo il nostro cuore: « … ed Egli spezza i loro legami. » Egli rinnova, per il peccatore al quale ha reso la libertà, quello che ha fatto per San Pietro: « Ed ecco che apparve un Angelo del Signore, e la luce brillò nella prigione, e l’Angelo, colpendo san Pietro sul fianco, lo svegliò dicendogli: alzati prontamente, e le catene caddero dalle sue mani » (Act. XII, 7). – 3° Rotti i legami e spezzate le catene, apre loro le porte della prigione, e rende loro la libertà: « Egli ha distrutto le porte di bronzo, e rotto le barre di ferro. » È con le porte che difendiamo il passaggio, è con le barre che fortifichiamo la chiusura delle nostre dimore. Cosa figurano queste porte? La contraddizione. Che significano queste sbarre? La ribellione. Il ferro che rompe tutti i metalli, è il simbolo dell’audacia, ed il bronzo il simbolo della pertinacia. Le porte di bronzo dunque, rappresentano la contraddizione ostinata; le barre di ferro, la ribellione audace. Dio distrugge dunque le porte di bronzo e le sbarre di ferro, quando rompe e spezza – con la compunzione interiore – la ribellione audace ed ostinata di un cuore indurito dal crimine. (Rich. De S. Vict.). 

III. — 17-22

ff. 17 – 22. – La terza classe di uomini dipinta dal Profeta comprende, sotto la figura delle infermità corporali, tutte le malattie spirituali, ma soprattutto l’abbattimento, lo scoraggiamento, la dissolvenza dell’anima, il disgusto di ogni nutrimento. Il corpo che ha disgusto ed orrore per ogni tipo di nutrimento, è senza dubbio molto vicino alla morte; l’anima che prova disgusto, avversione, orrore per le verità celesti, che sono il suo vero nutrimento, è molto vicino alle porte della morte eterna. (Dug.). –  Vi sono tre specie di nutrimento spirituale, per le quali i peccatori hanno disgusto ed orrore: la parola di Dio: « L’uomo non vive solo di pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio; » (Matt. III); « non sono i frutti della terra che nutrono gli uomini, ma la vostra parola che conserva coloro che credono in Voi, » (Sap.,. XVI, 26); il corpo di Gesù-Cristo: « La mia carne è vero cibo, il mio sangue è vera bevanda. »  (Giov. VI, 55); le virtù e le buone opere: « portate al giusto delle parole di pace, ditegli che gusterà il frutto delle sue virtù, » (Isai. III, 10); « I mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha inviato e compiere la sua opera. » (Giov. IV, 34). È questo il triplice nutrimento per il quale il peccatore prova disgusto ed avversione. « Egli ha in orrore il pane, che era l’alimento della sua vita, respinge le vivande che per lui erano in precedenza le più delicate. La sua carne si consuma e si assottiglia, le sue ossa si disseccano e deperiscono. » (Giob. XXXIII, 20, 21). – È questo uno dei caratteri più evidenti dello stato di tiepidezza: la preghiera non ha attrattiva, la Comunione è senza gusto, la parola di Dio una guida inopportuna. Questa terza tentazione è quella della noia, come la chiama Sant’Agostino, che la caratterizza in due parole: il disgusto dei due principali alimenti della vita cristiana, la lettura e la preghiera. Ancor meno, l’uomo colpito da questa malattia potrebbe, in questo triste stato, ricorrere alla meditazione. Egli diviene sempre più incapace di accogliere l’idea del dovere, il pensiero di Dio lo stanca, le verità religiose si oscurano, le pratiche di pietà non gli sembrano che una vana formalità; egli non concepisce come altre volte abbia potuto inginocchiarsi in una chiesa alla vista di un prete, ricevere la cenere sulla fronte al fianco di un uomo del popolo; egli ama di più non attenersi che a ciò che chiama lo spirito della religione: la religione naturale; oramai è il solo culto che voglia seguire. La noia lo ha allontanato dalle sue abitudini; l’orgoglio lo precipita in tutti i pericoli di una libertà senza regole e senza freno (Rendu). – Come la grazia divina libera le anime da questi languori, da questa tiepidezza mortale? 1° il rimedio, da parte nostra, è nella preghiera indirizzata a Dio con fede: « Essi gridano al Signore nel mezzo delle loro afflizioni, ed Egli li libererà dalle loro necessità. Quando la tiepidezza o la noia opprime la vostra anima, non perdete comunque la fiducia, non abbandonate i vostri esercizi spirituali, ma implorate la mani di Colui che può venire in vostro soccorso; ad esempio la Sposa dei Cantici chiede a Dio che la si attiri a Lui, fino a che la sua grazia vi abbia restituito la vostra vivacità ed il vostro primitivo fervore, voi possiate dirgli: « … io ho corso nella via dei vostri comandamenti, quando avete dilatato il mio cuore. » (S. Bern. Serm. XXII, in Cant.). – 2° Il rimedio da parte di Dio è inviare la sua parola: « Egli ha inviato la sua parola e li ha guariti, li ha tratti dalla morte. » Questa parola è il Verbo di Dio, Gesù-Cristo, la Parola eterna con la quale tutte le cose sono state fatte. Questa parola – sono ancora i discorsi dei ministri del Verbo – sono le divine Scritture e le sante ispirazioni che Dio invia nelle anime. Gesù-Cristo, Figlio di Dio, Parola eterna con la quale tutte le cose sono state fatte, è inviato – dice Isaia – per guarire coloro che hanno il cuore oppresso dalla tristezza, per essere la medicina sovrana delle nostre anime, che Egli ha guarito con le sue piaghe. « Era – dice S. Agostin -, il gran medico che doveva avvicinarsi personalmente al grande malato ». – Sotto la mano potente e nello stesso tempo dolce e prudente di questo divino Medico, l’anima oppressa si rialza, sente rinascere le proprie forze e, con le sue forze, la sua salute, il suo fervore, il suo gusto per le cose di Dio. – Guarendo tutto il genere umano dalle sue infermità e dai suoi languori, ha lasciato ancora un fondo di tristezza, ma di tutt’altra natura rispetto a ciò che lo divorava prima della sua guarigione: « … Noi gemiamo – dice l’Apostolo – nell’attesa della nostra dimora che è nel cielo. » (II Cor. V, 4). Ma questa tristezza è l’effetto del prezioso dono della salvezza che Gesù-Cristo ci ha reso. (Berthier). – Vedete allora il male che causa questo disgusto spirituale, vedete a quale pericolo il malato sia destinato da Colui verso il quale ha gridato: « Egli ha mandato la sua parola, li ha guariti, e li ha liberati. » Da cosa? Non dai loro smarrimenti, non dalla fame, non dalle difficoltà di vincere i loro peccati, ma « dalla loro corruzione. » È in effetti una corruzione dello spirito il provare disgusto per ciò che è pieno di dolcezza. Per questo beneficio dunque, come per quelli che lo hanno preceduto, « … che il nome del Signore sia confessato per le sue misericordie e per le sue meraviglie che ha fatto in favore dei figli degli uomini. Gli offrano essi un sacrificio di lode. » Se essi lodano il Signore, gustano così la sua dolcezza; « e rendano pubbliche le sue opere con trasporto di gioia, » senza noia, senza tristezza, senza ansia, senza disgusto ma, al contrario, con trasporto di gioia (S. Agost.).

IV. — 24-32.

ff. 24-32. – La quarta angoscia dell’umanità abbandonata a se stessa ci è dipinta dal salmista sotto l’immagine di un mare in tempesta. Il mondo è questo mare burrascoso al quale gli uomini sono costantemente esposti, battuti dalle onde delle persecuzioni degli uomini, o dalle tentazioni del demonio. Tutti i tratti di questo quadro, possono essere applicati ai peccatori: là essi discendono sul mare su navigli, come Giona fuggente davanti al volto di Dio, abbandonando la terra ferma, cioè il soggiorno nell’umiltà, nella pace, nella grazia; 2° essi lavorano in mezzo a grandi acque, dandosi molta pena per soddisfare nella loro vita delizie e voluttà; 3° essi vedono le opere di Dio con le sante ispirazioni che dà loro; 4° essi vedono le sue meraviglie con lo sguardo della fede che penetra fino alla profondità dell’inferno; 5° il soffio della tempesta si leva con la tentazione del demonio; 6° le onde del mare si sollevano per le diverse calamità da cui sono oppressi; 7° si eleveranno fino al cielo per l’orgoglio dei loro pensieri e delle loro afflizioni; 8° discendono fino negli abissi per la disperazione che avvolge il loro cuore; 9° la loro anima cade nell’astenia per la perdita delle grazie e dei doni dello Spirito-Santo; 10° essi si turbano, ed è questo l’affetto naturale e primario del peccato nell’anima priva di pace, che è – per Sant’Agostino – la tranquillità dell’ordine; 11° essi sono agitati come un uomo che è ubriaco dai desideri insensati che lo dominano e lo trasportano; 12° ogni loro saggezza è abbattuta, divorata. Il pilota del naviglio, cioè l’intelligenza che veglia sul corpo e sull’anima, è piombato a causa del peccato in un sonno profondo: « … voi sarete come un uomo che dorme in mezzo al mare, come un pilota assopito che ha perso il controllo. » (Prov. XXIII, 34). Due cose – dice san Tommaso – impediscono all’anima di vedere la verità: la violenza delle passioni, che allontana l’anima dalle cose spirituali per portarla interamente verso le cose sensibili, e la sollecitudine prodotta dalla preoccupazione delle cose terrene. – La grande ed assoluta dipendenza dell’uomo da Dio, non sembra in alcun luogo più evidente che sul mare, quando si vede su qualche tavola unita, esposto ad ogni furore di questo elemento indomabile, quando vede da vicino che non conosce se non dal racconto dei viaggiatori, la potenza di una tempesta, l’elevazione delle onde, l’immensità e la profondità dei mari, e la morte che gli si presenta da ogni lato. – È questa la demoralizzazione degli uomini in presenza del naufragio, allorché ogni energia, ogni risoluzione li abbandona, ed essi si allarmano fino a perdere lo spirito. – La potenza di Dio è che comanda con autorità ai venti ed alle tempeste: « Egli domina l’orgoglio del mare, ed abbatte i suoi flutti elevati. » (Ps. LXXXVIII, 10). – Quando il vento dell’orgoglio agita il mare del cuore umano, le onde dei desideri si elevano fino al cielo. – « Le sue onde si elevano, salgono fino ai cieli e discendono fino al fondo degli abissi. » Ecco un’agitazione violenta; è un’immagine viva degli spiriti curiosi: i loro pensieri, vaghi ed agitati, si spingono, come flutti, gli uni contro gli altri; si gonfiano, si alzano smisuratamente; non c’è nulla di così elevato nel cielo, né nulla di così nascosto nelle profondità dell’inferno, ove essi non immaginano di poter sprofondare; ed i consigli della sua Provvidenza, le cause dei suoi miracoli, la sequela impenetrabile dei suoi misteri, tutto vogliono essi sottomettere al loro giudizio. Infelici sono coloro che, agitandosi per la loro sorte, non vedono che il loro arrivo come in coloro che sono tormentati dalla tempesta: « Essi sono ondeggianti come degli ubriachi, » la testa gli gira in questi movimenti; tutta la loro saggezza si dissipa e, avendo malauguratamente smarrita la strada, urtano contro gli scogli, si gettano negli abissi (Bossuet, sur l’Eglise, IIe p.), immagine meno viva delle continue vicissitudini alle quali gli uomini sono esposti durante questa vita, subito elevati fino al cielo per la fiducia che ispira la fede, presto abbassati fino al fondo degli abissi dallo scoraggiamento in cui li fa sprofondare la timidezza, la debolezza, la sfiducia. – Il  turbamento, le emozioni causate dalla vista di tanto male, sono come un uomo ebbro, che non sa ciò che fa, né cosa dice. – Dio cambia, quando gli piace, le tempeste più violente, i venti più furiosi, in una brezza dolce e piacevole. Così tutto ad un colpo cadde il furore dei venti e dei flutti, alla voce di Gesù-Cristo che li minacciava; Egli non fa un miracolo minore quando, tra i fragori di una coscienza allarmata ed i dolori dell’inferno, fa sentire ad un’anima pentita, con una viva fiducia, con la remissione dei suoi peccati, questa pace che oltrepassa ogni intelligenza. (Bossuet, Or. fun. D’Anne de G. ). – Sant’Agostino applica tutta questa descrizione alla Chiesa. Questa quarta tentazione ci mette tutti in pericolo. Tutti noi, in effetti siamo sulla stessa barca: gli uni come operai, gli altri come passeggeri: tutti, tuttavia, condividono il pericolo nella tempesta e la salvezza nel porto. « Coloro che scendono sul mare nei navigli e che lavorano in mezzo alle grandi acque, » cioè in mezzo ai popoli numerosi (Apoc. XVII, 15), hanno visto le opere del Signore ed i suoi miracoli nelle profondità delle anime. Che cos’è in effetti più profondo del cuore umano? È da qui che più frequentemente partono gli uragani, che vengono le tempeste delle sedizioni ed i conflitti che agitano il naviglio. E cosa succede allora? Dio, volendo che i piloto ed i passeggeri gridino egualmente verso di Lui, « … Dio ha detto, ed il soffio della tempesta è tenuto buono. » Che vuol dire « Ha tenuto buono? » Egli ha continuato, ha perseverato, agita ancora l’imbarcazione e lo sballotta in ogni senso, ed il suo furore non passa. E cosa succede? « Ed i flutti sono stati sollevati. Essi salgono fino ai cieli, » con il loro coraggio, « e discendono fino al fondo degli abissi » nel loro terrore. Battaglia all’esterno, fragori all’interno. « La loro anima era consumata per i tanti mali. Essi erano turbati e traballavano come un uomo ubriaco. » Coloro che sono seduti al governo e sono fedelmente attaccati alla loro imbarcazione, sentano queste parole: « Essi erano turbati, e traballavano come un uomo ubriaco. » Sicuramente, quando parlano, leggono, spiegano i libri santi, sembrano saggi; ma guai a loro se la tempesta si eleva, « tutta la loro saggezza svanisce. » Talvolta, tutti i consigli degli uomini sono ridotti a nulla; da qualunque lato si girino, le onde muggiscono, la tempesta è furiosa, cadono loro le braccia; da qualsiasi lato volgano la prua, a quale onda presentare il fianco della nave, in quale direzione favorire la corsa, da quale roccia allontanarsi per paura di non perire? Nessuno di quelli che governano la nave riesce a vedere. Quale risorsa resta loro se non questa: « … essi hanno gridato verso il Signore in mezzo alle loro afflizioni, ed Egli li ha liberati dalle necessità in cui si trovavano. » – « Egli ha comandato alla tempesta, ed essa ha tenuto bene; è stata trasformata in un vento piacevole. » Essa ha tenuto bene, non sotto forma di tempesta, ma sotto forma di un vento dolce e favorevole « … ed i flutti del mare hanno fatto silenzio. » Ascoltate su questo soggetto la voce di un pilota esposto a questi pericoli, umiliato e liberato: « Non vogliamo infatti che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in Asia ci abbia colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze, sì da dubitare anche della vita. »  E che, forse Dio abbandona coloro che le loro forze abbandonano? O ai quali le loro forze mancano se non per aumentare la sua gloria? Così l’Apostolo aggiunge: « Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte per imparare a non riporre fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti. » – « Egli ha comandato alla tempesta, ed essa ha mantenuto bene, trasformata il un vento piacevole. » Già questi uomini, tutta la saggezza dei quali era assorbita, avevano ricevuto in se stessi la sentenza di morte, « ed i flutti del mare hanno fatto silenzio; » e sono stati pieni di gioia per il silenzio dei flutti, ed il Signore li ha condotti nel porto che essi desideravano. Che il Nome del Signore sia dunque confessato, non per i nostri meriti, non per le nostre forze, non per la nostra saggezza, ma « per la sua misericordia. » Amiamo, in tutte le nostre liberazioni, Colui che invochiamo in tutte le nostre sofferenze (S. Agost.).

V. — 33 – 43.

ff. 33 – 38. – In questa ultima parte, il Profeta, dopo aver cantato le misericordie del Signore, che porta rimedio alle Quattro grandi miserie dell’umanità, loda Dio per l’onnipotenza provvidenziale con la quale cambia talvolta la natura delle cose, amandosi rivelare con i suoi cambiamenti, come il solo e vero Creatore e padrone di tutte le cose. – Il salmista qui ha in vista non un fatto particolare al popolo di Dio nel deserto o nella terra promessa, ma i tempi primitivi dell’inizio della propagazione del genere umano dopo il diluvio. Così come Dio cambiò la fertile terra di Sodoma in un deserto arido, così, in altri luoghi, diede nascita a fiumi, a città; Egli fece fiorire la coltura dei campi, piantare delle vigne e moltiplicare gli uomini e gli animali. (Bellarm.). Il deserto è sterile, l’acqua che feconda vi manca; ma è Dio che fa scorrere l’acqua nel deserto, così come è Lui che ritirandola, cambia in deserto il suolo più fertile (Isai. XXV). – Le acque scorrono per il popolo giudaico con l’insegnamento dei Profeti. Oggi cercate i Profeti tra i figli di Israele, non li troverete più; la fede del Cristo, non la troverete più; il sacerdozio non lo troverete più; il sacrificio, il tempio, non lo troverete più. Perché? Perché Dio ha cambiato i fiumi in deserto. Ecco come resiste ai superbi. Ma vedete nello stesso tempo come Egli dia la sua grazia agli umili: Egli cambia il deserto in stagno, e queste terre aride in acque correnti. Dio ha detto a suo Figlio: «Tu sei Sacerdote secondo l’ordine di Melchisedech. » Voi cercate tra i Giudei il sacrificio di Aronne, e non lo troverete da nessuna parte; ma il sacrificio di Melchisedech lo si celebra dappertutto nella Chiesa, dall’oriente all’occaso, si offre una vittima pura al Nome del Signore, al posto delle vittime immonde che sacrificavano le nazioni quando non erano che un deserto; vedete dappertutto in seno alla Chiesa, delle sorgenti, dei fiumi, degli stagni e delle acque correnti: Dio dà la sua grazia agli umili (S. Agost.). – Immagine terribile di un’anima che Dio abbandona dopo che essa per prima lo ha abbandonato. Noi abitiamo ora nel seno di questa Chiesa bagnata dalle acque divine, ma guardiamoci dal ricadere per colpa nostra nell’aridità e nella sterilità dei giudei; e se la corruzione del nostro cuore arresta l’effusione salutare per le acque vivificanti dello Spirito-Santo, volgiamo i nostri occhi verso la bontà e la potenza di Colui che cambia il deserto in mare, e la terra arida in sorgenti di acqua viva. (D’Allioli).

ff. 39-41. – Sulla terra non c’è nulla di perpetuo e di stabile. Gli uomini che Dio ha colmato delle sue benedizioni, dei quali ha moltiplicato la razza, si vedono ben presto colpiti dai loro peccati, diminuiti e ridotti ad un piccolo numero, in preda ad insidie e persecuzioni. – Questi castighi non colpiscono solo i singoli particolari, ma pure i prìncipi. – Castigo terribile è sia per i popoli che per i re, e severa è la condanna quando Dio getta il disprezzo sui principi, cioè quando ha fatto, con la sua Provvidenza, che i principi ed i superiori, sia ecclesiastici che secolari, diventino disprezzabili, perché allora c’è insubordinazione, e la disciplina si rilassa, e tutto questo procede a loro rovina; i capi privi di luci di saggezza e di grazia, camminano all’avventura in percorsi perduti, e non più sulla retta strada, cioè vivono nel vizio, scandalizzano i popoli con i loro cattivi esempi, favoriscono i malvagi e perseguitano le persone dabbene. (Bellarm.). – Nello stesso tempo che Dio abbassa l’orgoglio di questi principi insensati, si compiace di rivelarsi ai poveri ben persuasi della propria povertà e che aspettano tutto da Dio.

ff. 42, 43. – Un cuoreretto gioisce nel vedere la rettitudine della condotta di Dio sugli uomini. – Ora i giusti tacciono in presenza dei malvagi; ma verrà il tempo in cui l’iniquità non oserà più aprire bocca. Attendiamo questi tempi con pazienza. (Dug.). – La Chiesa della terra è e sarà fino alla fine dei tempi, la Chiesa militante. Non è che in seno al regno eterno che la bocca di coloro che vomitano l’iniquità sarà imbavagliata, e sarà dato ai buoni rallegrarsi vedendo che ogni iniquità ha le labbra chiuse. Questa è la triste consolazione lasciata ai figli delle tenebre, di poter contraddire con più o meno libertà ed audacia, secondo che la Religione sia più o meno esposta alla mercé dei loro attacchi, tutto ciò che contribuisce all’avanzamento del regno di Dio. (Mons. Pie, T. II, p. 30, 31). – Vedete come il Profeta termina questo salmo: « Chi è l’uomo saggio? Se è povero conserva le sue cose; se non è ricco, cioè se non è superbo, né gonfio d’orgoglio, conserva le sue cose. Perché? « perché egli comprenderà la misericordia del Signore; » egli comprenderà che non i suoi meriti, non le sue forze, non la sua potenza, ma che le misericordie del Signore, lo hanno ricondotto nella via e nutrito, egli errante e mancante di tutto; poiché Egli lo ha slegato e liberato quando combatteva contro gli ostacoli innalzati dai suoi peccati, ed era lanciato nei legami dell’abitudine; Egli gli ha inviato il rimedio della sua parola e lo ha creato di nuovo quando era disgustato dalla parola divina e moriva di noia; che, strappandolo ai pericoli del naufragio e della tempesta, ha calmato il mare e lo ha condotto fin nel porto; che lo ha posto in seno al popolo ove dà la sua grazia agli umili, e  non al popolo per cui resiste ai superbi; infine che gli si è legato in tal modo che resta del gran numero in seno alla Chiesa, invece di essere del piccolo numero fuor dalla Chiesa. « Ogni uomo saggio terrà presente queste cose. » Come le terrà presenti? Con la sua umiltà e l’intelligenza che avrà delle misericordie del Signore (S. Agost.).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. Pio VI, “DUM NOS”

La lettera enciclica “Dum Nos” di Papa Pio VI, inviata ai prelati e fedeli francesi, si inserisce nella feroce lotta dei rivoluzionari francesi e dei loro falsi usurpanti governanti contro la Chiesa Cattolica, vero bersaglio di questi scellerati servi del demonio orchestrati ad arte dagli “illuminati” e dai cabalisti delle logge massoniche. Il Santo Padre protesta ancora una volta vibratamente contro abusi, violenze, appropriazioni indebite di facinorosi ed empi personaggi che, sostituendosi ai legittimi governanti ed in certi casi persino ad esponenti della gerarchia ecclesiastica, pretendevano di sovvertire l’ordine civile, morale e religioso di un’intera nazione. La barbarie della rivoluzione francese, in nome di una libertà assoggettata ad esponenti del cabalismo mondiale, giungeva all’epoca a sottrarre alla Santa Sede territori e strutture di legittima proprietà, come d’altra parte la barbarie demoniaca ha sempre fatto. La lettera elogia coloro che hanno resistito ed ancora resisteranno impavidi alla violenza sanguinaria di scellerati ed improvvisati giudici e governanti pilotati da passioni abominevoli ed esecrande « … soggetti a tutte quelle persecuzioni che dall’empietà, dallo scisma e dall’eresia poterono mai essere escogitate, così che ai Nostri occhi appare già vicino il momento nel quale ci sarà un nuovo e più crudele pericolo per la vostra religiosità e per la vostra fede », ed ancora: «… non è sufficiente sopportare per un certo tempo le ingiurie soltanto con animo forte, ma è necessario perseverare con la stessa costanza fino alla fine e, se è necessario, sacrificare la propria vita. Infatti, non chi ha incominciato ma “colui che avrà perseverato fino in fondo sarà salvo” » (Mt X,32). La Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica, apostolica e perseguitata in ogni tempo, d’altra parte si gloria per la volontà di rendere almeno in parte quanto deve al suo fondatore e Capo, che ha portato il suo sacrificio fino alla morte, ed alla morte di croce. La Chiesa non troverà pace finché non abbia reso almeno parzialmente la sofferenza e la persecuzione che per Essa sopportò con amore il suo Fondatore, suo Capo e Sposo divino, e nemmeno la morte o la sepoltura potrà mai fermarla, sapendo che così si compiranno i patimenti del Cristo nel suo Corpo mistico, non meno che nel corpo mortale dell’Uomo-Dio. Questa è pure l’idea che la “vera” Chiesa Cattolica attuale persegue, per cui, lungi dal respingere la violenta persecuzione attuata con stratagemma finemente spirituale, da una falsa chiesa, sinagoga di satana, e dalle satelliti sette lefebvriane e sedevacantiste, abbraccia ed abbraccerà fino alla fine, compreso l’eventuale martirio, tutte le sofferenze e le persecuzioni, alle quale sarà ancor più sottoposta. Ma il premio che ci attende, non ha prezzo, vale ogni sacrificio, ogni rinuncia, ogni supplizio, perché è una felicità eterna ed inimmaginabile, che scaturisce dalla diretta visione e godimento di Dio. Chiediamo solo, “pusillus grex” cattolico, di essere sostenuti dal nostro Redentore fino alla morte, e consolati dalla nostra Mamma celeste, alla quale il divin Maestro ci ha affidato dall’alto della croce. Ausilium Chriastianorum, ora pro nobis! Il Cuore di Gesù ci procuri la grazia della perseveranza finale.

Dum nos

Pio VI

All’Arcivescovo di Avignone e i Vescovi di Carpentras, Cavaillon e Vaison, e ai diletti Figli del Capitolo, del Clero e del Popolo della città di Avignone e del Contado Venesino.

1. Mentre Vi scriviamo questa nuova lettera apostolica come pastore universale e vostro sovrano, pensiamo che non vi sia occasione più opportuna e più valida perché Noi possiamo continuare a lodare coloro che fedeli a Dio e al loro sovrano sono accusati e condannati dall’attuale Assemblea Nazionale francese; al contrario, mentre di nuovo ammoniamo ed esortiamo alla penitenza coloro che sono ribelli a Dio e al loro sovrano, la stessa Assemblea francese li esalta con tante lodi, fra l’incredibile stupore di tutte le genti.

2. Dio, dal quale le Nostre colpe e quelle dei popoli sono punite attraverso le tribolazioni, ma che non abbandona mai nessuno di coloro che difendono particolarmente la sua causa, in verità Ci ha consolato con una non trascurabile soddisfazione. Infatti, per opera divina è accaduto che la Nostra precedente lettera ammonitrice che Vi abbiamo inviato il 23 aprile dello scorso 1791 (non per usare la prepotenza o qualche altra difesa propria di quest’epoca, delle quali si avvalgono i potenti del mondo, ma in nome del Signore Dio Nostro) e che Voi, Venerabili Fratelli, guidati da uno spirito non dissimile di bontà, Vi preoccupaste di diffondere, ebbe presso i capitoli, i parroci, il clero, i magistrati e la gente, e anche presso molti fautori della Costituzione francese, tale e tanta forza che a tutto il mese di febbraio di quest’anno furono vani quasi tutti gl’iniqui tentativi degli avversari, tante volte esperiti e con il decreto del 14 settembre dello scorso anno nuovamente ripetuti con i quali l’Assemblea Nazionale – essendo inutilmente riluttante e contraria una gran parte, la più sana, del popolo – tolti di mezzo altri quattro decreti speciali da essa stessa emessi, e cancellato e annullato un altro decreto generale approvato in precedenza che vietava l’occupazione della proprietà altrui, e poste in non cale tutte le leggi umane e divine, nonostante l’indignazione di tutti i sovrani d’Europa osò invadere con la violenza il Nostro territorio di Avignone e del Contado Venesino ed annetterlo al regno di Francia.

3. A comprovare l’ottimo esito che le Nostre precedenti esortazioni avevano conseguito contro tentativi tanto indegni, potremmo enumerare con opportuna orazione le nobili imprese con le quali Voi, Venerabili Fratelli e diletti Figli, avete onorato soprattutto la vostra Religione, che Ci sta particolarmente a cuore, e successivamente la Vostra fedeltà verso di Noi, sopportando, con ammirevole costanza, taluni la perdita dei beni e delle fortune, altri l’esilio, altri le ingiurie e le persecuzioni, altri il carcere, e altri infine lo sterminio e la morte stessa. Da questo derivò che pochi ecclesiastici e laici seguirono Benedetto Francesco Malierio, pseudo-vicario capitolare della Chiesa di Avignone, che Noi già sospendemmo con precedente lettera dall’esercizio dell’ordine. Si tratta di persone non molto dissimili dai suoi costumi e dalla sua indole, abbastanza noti per la gravità dei delitti compiuti. Egli dovette utilizzare i predetti sia nell’adempimento dei compiti della Chiesa, come si deduce chiaramente dall’editto in lingua volgare pubblicato il 10 giugno 1791, con il quale fu indetta da lui una Supplica per le feste del Corpus Domini, sia delegando alcuni pseudo-parroci, che la maggior parte della popolazione religiosamente e pubblicamente rifiutò di riconoscere, tanto che disprezzò sia il delegante sia i delegati.

4. Sarebbe facile per Noi citare pubblicamente molti altri esempi della vostra religiosità e della vostra fedeltà a maggiore vostra gloria ed onore, ma Ci asteniamo deliberatamente dal ricordarli in quanto uomini assolutamente insospettabili (cioè coloro che chiamano “Comitati delle petizioni e di sorveglianza“) li hanno raccolti in una relazione presentata all’Assemblea francese durante la sessione dell’11 febbraio scorso dedicata alla situazione di Avignone e del Contado Venesino. Dato che la relazione è stata stampata e diffusa largamente, nessuno ignora che lo spirito pubblico è tanto mutato ad Avignone, e molto di più a Carpentras e in altre località del Contado, essendo pochi, e apertamente disprezzati, coloro che sostenevano la Costituzione Gallicana e che i relatori Gallici ricolmano di tante lodi. Per contro è ingente il numero di coloro che essi chiamano sediziosi e seduttori, cioè di coloro che fra gli ecclesiastici, fra i magistrati e fra i laici brillavano per il culto a Dio e per la fedeltà al loro sovrano, tanto che sarebbe prossimo, e non potrebbe assolutamente essere evitato, il ritorno a quello stato nel quale erano prima della ribellione.

5. Rallegratevi ed esultate, Venerabili Fratelli, che allora vi segnalaste per zelo, pietà, carità, e particolarmente tu, Vescovo di Carpentras, che per i tuoi meriti eccezionali ti sei meritato un maggiore elogio. Nello stesso tempo rallegratevi anche voi, diletti Figli, che uniti ai vostri legittimi pastori forniste straordinari motivi della vostra pietà; rallegratevi tutti, diciamo, per le ingiurie che vi vengono indirizzate in quella relazione e che si volgono a vostro onore e decoro, e ricordatevi con Sant’Agostino che “anche il Signore Gesù Cristo fu chiamato seduttore, a conforto dei suoi servi, quando sono detti seduttori“.

6. Se questa è la situazione di Avignone e del Contado Venesino alla data dello scorso febbraio, a buon diritto speriamo che quei pochi che perseverano nell’errore e nell’infedeltà si convertano e seguano la maggioranza, ma non possiamo assolutamente ignorare il nuovo genere di delitto compiuto dall’Assemblea Nazionale con il decreto del 3 marzo scorso. Infatti, con questo decreto essa si è arrogata il diritto di dividere il Nostro territorio di Avignone e del Contado Venesino in due distretti, e di sottometterli al duplice distretto del Rodano e della Druma, che i Francesi chiamano Dipartimento, e al contempo di stabilire che tutte le leggi dell’Impero francese siano valide senza indugi anche nel Nostro territorio, e che le singole Municipalità siano rinnovate. Inoltre, con nuovi decreti subito emessi l’Assemblea comandò che venisse revocata la formazione de la marck, e che ad essa fossero assegnati altri soldati; ché, anzi, fra gli stessi rabbrividenti popoli di Parigi, e con loro meraviglia, giunse al punto di comandare di liberare dalle carceri quei mostri che il 16 ottobre dell’anno scorso si macchiarono di un delitto tanto indegno e tanto volgare; e ciò ordinò per nessuna altra ragione se non perché nei grandi rivolgimenti delle cose non si possono considerare delitti le scelleratezze più gravi che persino le genti barbare e incolte detestano e ne inorridiscono.

7. È tale il furore di cui ardono e da cui sono presi i nemici, che Noi, con immenso dolore del Nostro animo, già vediamo Voi, Venerabili Fratelli e diletti Figli, soggetti a tutte quelle persecuzioni che dall’empietà, dallo scisma e dall’eresia poterono mai essere escogitate, così che ai Nostri occhi appare già vicino il momento nel quale ci sarà un nuovo e più crudele pericolo per la vostra religiosità e per la vostra fede. Ci è già stata riferita la voce di una nuova persecuzione non solo contro gli uomini ma – ciò che non si può ascoltare senza orrore e che rivela i criminali intendimenti dei persecutori – anche contro le sacre immagini. In questo momento decisivo è necessario che vi sia riferito il Nostro parere.

8. Per quanto riguarda la Religione, non Vi sfugge che non è sufficiente sopportare per un certo tempo le ingiurie soltanto con animo forte, ma è necessario perseverare con la stessa costanza fino alla fine e, se è necessario, sacrificare la propria vita. Infatti, non chi ha incominciato ma “colui che avrà perseverato fino in fondo sarà salvo” (Mt X,32). Quella costanza che finora avete dimostrato Ci spinge a sperare che sarete egualmente costanti in futuro contro qualunque rischio della sorte e anche della vita: il che sarà certamente condiviso da Noi che, sebbene assenti, porteremo i vostri tormenti come fossero Nostri.

9. Affinché, poi, i buoni vengano maggiormente confermati nel loro proposito e sia concesso ai cattivi un nuovo spazio della Nostra benignità per la loro resipiscenza, come già ritenemmo che fosse da estendere ai popoli del Nostro territorio Avignonese e del Contado Venesino la Nostra precedente lettera ammonitrice del 13 aprile 1791 da Noi indirizzata ai diletti Nostri Figli i Cardinali di Santa Romana Chiesa e ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi e ai diletti Figli del Capitolo, del Clero e del popolo del regno di Francia, così ora estendiamo agli stessi popoli la nuova lettera ammonitrice del 19 marzo scorso, indirizzata agli stessi Arcivescovi, Vescovi, Capitoli, Clero e popolo del regno di Francia, con la quale viene fissato lo spazio di sessanta giorni dalla data di essa per la seconda ammonizione, e di altri sessanta giorni per la terza. Ciò è riferito soprattutto a Benedetto Francesco Malierio, pseudo-vicario capitolare della Chiesa Avignonese, ai parroci, ai vicari e agli altri preti che, non delegati dai legittimi pastori, si sono impadroniti della direzione spirituale, e a tutti gli altri ecclesiastici che l’avevano occupata anche in forza della tentata divisione dei Nostri territori, secondo le diverse classi distintamente e chiaramente espresse nell’ultima Nostra lettera della quale, Venerabili Fratelli, vi abbiamo spedito molte copie affinché esse, unite a questa lettera, secondo le vostre possibilità siano mandate in giro ai Capitoli, al Clero e al popolo di Avignone e del Contado. Frattanto sarà Nostra cura provvedere affinché le stesse siano diffuse non solo in codeste regioni, ma anche in quelle vicine, in modo che nessuno le ignori.

10. Guardando la travagliata condizione delle cose francesi, con altra lettera dello stesso 19 marzo Noi concedemmo agli Arcivescovi, ai Vescovi ed agli Amministratori delle diocesi del regno di Francia particolari facoltà in forza delle quali potessero provvedere al bene spirituale della gente. Poiché non meno travagliata è la condizione di Avignone e del Contado Venesino, estendiamo anche a Voi, Venerabili Fratelli, le stesse facoltà, con le stesse condizioni comprese nell’indulto, del quale troverete diverse copie allegate a questa lettera.

11. Queste sono le provvidenze che servono a tenere la Religione riparata e protetta, e a renderne più spedite le norme e le procedure. Per quanto riguarda la fedeltà che Ci spetta quale legittimo sovrano, non ignorate, Venerabili Fratelli e diletti Figli, come in gran parte dimostrano le cose da Voi compiute, da quale stretto vincolo siate tenuti ad osservarla, dal momento che ciascuno è obbligato dal divino precetto “ad ubbidire ai legittimi poteri” (Rm XIII,1; Eb XIII,17), e ciò è richiesto dallo stesso giuramento che Voi, non diversamente dai vostri antenati, avete prestato a questa Sede Apostolica, così che i buoni e i cattivi, secondo le loro possibilità, non debbano omettere nulla di quelle cose che possono sostenere i primi nella fedeltà, e ricondurre i secondi a quella obbedienza dalla quale si distaccarono: ciò per liberare Noi dalla necessità di mettere in uso rimedi più energici e di porre mano alle dovute pene.

12. Abbiamo trattato con gli stessi ribelli come se fossero figli, e nel colmo della sfida abbiamo dato considerevoli aiuti agli uni e agli altri. Sappiamo che l’antico governo di questa Santa Sede, libero ed esente da ogni dazio, suscitò l’invidia di tutti i popoli; assai spesso abbiamo dichiarato che se alcuni, a Nostra insaputa, fossero caduti costà in abusi, immediatamente si sarebbe provveduto da Noi ad allontanarli e a castigarli; non si possono sovvertire gl’imperi ad arbitrio dei popoli e introdurre con leggerezza nuove forme di governo. Perciò nulla è stato tralasciato da parte Nostra, tanto che possiamo sperare per il futuro che gli stessi ribelli, quando si sia calmata un po’ la passione del fanatismo, debbano riconoscere l’orrore dei propri crimini, il peso di nuovi balzelli e servitù, e di tanti altri gravi mali che finora non ebbero ed ai quali, sotto l’aspetto di una simulata e fittizia libertà, saranno senza dubbio contrari, non senza rovina della loro patria se non si ritireranno subito dalla lotta nella quale furono trascinati già da due anni per disobbedienza, corruzione e per ogni genere di violenza.

13. Noi peraltro, restando in quel modo d’agire paterno che abbiamo usato finora con Voi, e nella trasparente giustizia della Nostra causa che con Nostra gioia riconobbero i principi, tutti i re e l’universo mondo, non pensando minimamente di rinunciare in qualunque modo ai Nostri diritti o di trattare qualsiasi compensazione per il principato che i primi decreti dell’Assemblea Nazionale rivendicano da Noi, e che pertanto Ci confermano che il possesso di oltre cinque secoli è titolo legittimo e indiscutibile, Noi qui non solo dichiariamo valido il Nostro chirografo del 5 novembre 1791 con il quale, aderendo alle precedenti proteste ed essendo oltremodo manifesto a tutti la falsità e la calunnia di quegli argomenti che pretendevano di giustificare l’iniqua occupazione, dichiarammo nullo il decreto del 14 settembre dello stesso anno, ma inoltre dichiariamo invalido, irrito e di nessun valore e merito il nuovo decreto del 3 marzo, e tutto ciò che decisero o forse decideranno a danno del Nostro principato, unitamente a tutti gli atti che con temerario ardimento siano già stati perpetrati o verranno perpetrati. Disponiamo e comandiamo che questa Nostra lettera, unitamente a quella del 23 aprile 1791, sia allegata al predetto chirografo e sia conservata a perpetua memoria nell’archivio segreto della Nostra camera.

14. È tanto il Vostro zelo, Venerabili Fratelli e diletti Figli, che riteniamo inutile aggiungere nuove esortazioni. Convertitevi con Noi, confidando con indubbia speranza in Dio; pregatelo incessantemente, così come anche Noi lo preghiamo, perché tenga lontano il rigore della sua giustizia, e con quella misericordia di cui è fornito illumini le menti dei ribelli e dei loro sostenitori, e renda le loro anime ferventi nell’ossequio e nella venerazione verso la sua santa Religione e nello zelo e nello spirito di obbedienza verso questa Sede Apostolica. Accesi da questi desideri, a Voi, Venerabili Fratelli, e a Voi, diletti Figli, impartiamo con grande amore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 19 aprile 1792, nel diciottesimo anno del Nostro Pontificato.