LO SCUDO DELLA FEDE (101)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (11)

CAPO XI.

La considerazione della terra ci innalza a conoscere Dio.

I. Discendiamo ora dal mondo superiore a questo inferiore, e ad imitazione di coloro che lungo tempo hanno affaticata la vista in ricami d’oro, ristoriamo alquanto nel verde di tante piagge e di tanti prati le pupille abbagliate dallo splendore di quelle sfere che vincono ogni chiarezza. Lasciamo il cielo, e con una forma di contemplazione più adattata alla gravezza de’ sensi fermiamoci in sulla terra. Avanzarsi alla cognizion del vero, mentre qualunque strada, o alta o bassa che tengasi, là ci mena: basta volere arrivarvi. Gli antichi maestri, per un arcano di profonda filosofia solean dire che padre di tutte le cose era il cielo, madre la terra. E di fatto veggiamo che come il cielo è in continuo moto per nostro prò, così parimente la terra è in continuo parto. Onde avendo noi pigliato a ristringere il molto in poco, potremo osservare in questa madre due pregi segnalatissimi: la fecondità nel numero della prole: la grazia nella bellezza: pregi che unitamente ci saran guida a ritrovare altresì la prima cagione, sorgente inesausta di tutto il buono e di tutto il bello, che è Dio, il quale, invisibile in sé, vuole altrettanto rendersi a noi visibile nei suoi effetti: Ita rerum naturarti instruxìt, ut ipse invisibìlis ex operibus suis agnosceretur (Àthanas. cantra idol.).

I.

II. Non è però se non bene, che prima di ammirare la figliolanza, diamo un’occhiata alla madre. Non vi è cosa nella natura che sembri fatta più a caso, che la disposizion della terra. E però, se anche in essa noi rinverremo una sapienza ammirabile, converrà pure cedere al vero, e gridare sin dal profondo: Quali saranno gli studi e le squisitezze, se sono tanto cariche di artifizio le negligenze? Ditemi dunque: chi tien sospesa in mezzo all’aria una macchina così vasta, qual è la terra; o se niuno v’ha che la tenga, su che si posa? Scavate pure giù, sprofondatevi, inabissatevi, e sappiate dirmi ove sieno le fondamenta di un edificio sì bene stante, che in. capo a centinaia di lustri ne pure ha mai fatto pelo. Appunto, direte voi. Qua non servono fondamenta. L’avere la terra il centro della sua gravità nel mezzo di se medesima è l’unica cagion della sua fermezza. Chi ve lo nega? Ma non vedete, come questo istesso dimostra a chi ha fior di spirito, che ella è formata a disegno , non a capriccio? Facciansi pure innanzi coloro che si argomentano di rifondere tutto l’ordine delle cose nella necessità della materia, e se dà loro il cuore espongano un poco da qual necessità di materia provenga mai, che questa gran mole penda tutta in se stessa, e così librata si riposi e si regga immobile ad ogni scossa?  Sicuramente non può dirsi, che fosse una tal materia quella che a sé diede una tale necessità: altrimenti sarebbe ella stata la formatrice di se medesima, che è appunto ciò che si provoca le fischiate da tutti i saggi. Adunque donde l’ebbe ella, se non da quello che fu l’inventor del tutto? Ogni principio passivo necessariamente suppone un principio attivo che quasi lo sottometta (S. Th. 1. p. q. 44. art. 1. ad 2).

III. Oltre a ciò: qual necessità di materia richiedea mai, che 1’acqua dimorasse dentro la terra a formar l’oceano, e non piuttosto la circondasse intorno intorno, come fa l’aria? da che tale è la situazion naturale dovuta all’acqua, se si consideri solo quale elemento. Ebbe la terra forse mani a scavare nelle sue viscere quella fossa sì sterminata, che è detta mare, ed ebbe forze ad abbracciarlo in se stessa con tanti seni, per gli utili che ne acquista? È ben cieco di mente chi non conosce, che a. tutto ciò si richiede la virtù di una intelligenza suprema, la quale ad agevolare il commercio umano, ridusse tutte l’acque in un lato, e volle che la terra ove si curvasse in gomiti, ove si sporgesse in capi, ove si schierasse in coste, ove si sfogasse in ispiagge; in un luogo desse angustissima entrata all’onde, per far canali; in altro si allargasse senza confine: tutto al bisogno della navigazione; per cui volle ancora, che di tratto in tratto spiccassero in mezzo all’acque isole fruttuose per opportuno riposo de’ naviganti, per ricovero, per rinfresco, e per additar loro, a guisa di termini fìtti in mare le miglia dei loro viaggi.

IV. Qual cosa noi a primo aspetto più trascurata, che la positura de’ monti? Eppure quei che appariscono uniti a caso, sono disposti con ordine sì perfetto, che i fiumi calando da essi a fecondare le valli truovano sempre fra l’uno e l’altro in tante giravolte che fanno la strada aperta, senza incontrare in sì lungo pellegrinaggio verso l’oceano lor patria, né un clivo, che non dia loro il passo cortesemente, ma si attraversi villanamente al cammino. La terra, secondo l’inclinazione particolare della sua natura, non richiedea varietà di monti e di piani: e posto ciò, a che vedersi un tale elevamento nelle sue parti, che queste a poco a poco salendo dalle spiagge più basse, sorgano sempre finché divengano gioghi? Chi ciò richiese fu la comodità del genere umano, che brama monti, dove a riparo da’ caldi, dove a ricreazione di cacce, dove a difesa da’ venti impetuosi. E chi ciò concedette, fu quella sapienza infinita, la quale avendo il braccio pari al consiglio, non solamente con quella diversità di pianure e di. vette, di pendici e di valli, fa più vago questo edificio, quasi con risalti di maestevole dissonanza; ma di più feconda questo gran corpo con tanti rivi che prima occultamente gli passano per le viscere, e poi manifestamente gli scorrono su pel dosso, con un moto somigliantissimo al moto del sangue umano: sicché, come il sangue correndo dal cuore per le arterie più di nascosto, s’insinua per tutti i membri, e da’ membri più apertamente ritorna al cuore medesimo per le vene; così l’acque del mare s’innoltrassero di soppiatto in seno alla terra per segreti canali, e poscia a vista di ognuno ritornassero al mare per fiumi aperti. Ed oh! così procurasse ogni uomo di meritarsi quel bel titolo, tanto stimato da Tertulliano, di scolare della natura, discipulus naturæ (Tert. de resur. car. c. 2 ): che dotte lezioni di sovrumana sapienza non ne verrebbe ad apprendere! Credete a me, che egli in breve vergognerebbesi di aver comune la specie con questi abortivi, o piuttosto mostri, che al tempo stesso son uomini, e negan Dio.

II.

V. Eppure tutta l’arte divisata fin ora così in iscorcio sul puro sito che fu dato alla terra appena serberà il nome d’arte, paragonata a quella mirabilissima Intelligenza, che arricchisce la medesima terra di tanta prole. Gli antichi ci dipingevano la natura sotto il sembiante d’un’Isidi, tutta mammelle, per allevare gli innumerabili parti che dava in luce. Bene sta. Ma chi ha empite di latte quelle mammelle che mai non restano, e chi ha colmate di spirito quelle viscere che non isteriliscono mai? Conviene pur ricorrere ad un primo essere, principio di tutto il bene, che è fuor di lui, edin tal considerazione forza è darsi per vinto sui primi passi, confessando con schiettezza, che assai, più facile alla natura sia fare, che all’uomo narrare il fatto: Facìlius est naturæ facere, quam homini recensere. Conciossachè a chi darà giammai l’animo di raccorre il numero grande delle erbe, delle piante, dei fieri, delle frutta, de’ semi, e di tanti animali, de quali la terra, se non è madre, almeno è nutrice, apparecchiando a tutti il lor cibo, qual mensa comune, pubblicamente imbandita dalla natura? A fare la rassegna generalissima, non dico degl’individui che sono in terra, ma sin delle spezie sole, sarebbe insufficiente la forma che tenne Serse ad annoverare il suo esercito, quando lo contò a schiere a schiere, dentro un gran cerchio. Fu pur dunque possente quell’alta voce che chiamò dal nulla ad un tratto tante gran cose, e che tuttor le sostenta: da che questa ancor non è minor meraviglia: mentre essendo tutte le cose terree da sé manchevoli, non hanno minor bisogno della prima cagione per mantenersi, di quel che ne avessero per uscire da principio al luce (S. Th. 1. p. q. 104. art. 1). – Ora in tante mutazioni, in tante morti, in tante rovine, ne regnano su la terra, non si è fin ora dopo tanti secoli spenta mai veruna di quelle specie, che sul nascere del mondo sorsero al cenno del divino volere: onde questa medesima osservazione sì diligente della natura viene a testificare quel gran padrone che dall’alto la regge incessantemente, e che ne tien cura.

VI. Aggiungete alla numerosità de’ parti la lor bellezza, e dite poi, se può rimanere alcun dubbio, che non sia ciascuno fattura di man celeste. Mi piacque sempre il sentimento di una grande anima, la quale viaggiando di primavera su spiagge erbose, smaltate di aghi fiori, a guisa di stelle, andava di tratte in tratto, con quel baston da viaggio che aveva in mano, battendo or uno di quei germogli, or un altro, e dicendo loro: Non gridare sì forte. Capiva egli con quale altezza di voi ciascuno di quei fiori veniva a significare, quanto più bello fosse di loro quel Dio che gl’avea creati: e però pareva che volesse dire: vi ho intesi, non più, non più, so ciò che volete avvisarmi. E a dire il vero, quantunque noi di tutto il bello sensibile non ne veggiamo in veruna cosa altro mai, che la superfice; contuttociò questa superficie medesima cosi degna, che basta a renderci attoniti di stupore: siccome attoniti ci rende appunto 1a pura superficie del mare, quando attorno attorno il miriamo da un alto scoglio. Date di mano a qualsiasi germoglio che vengavi colto il primo, sia erba, sia fiore, sia frasca, sia ramoscello; e mirandolo attentamente solo di fuori, notate un poco se poteva lavorarsi più acconciamente! Io son certo , che chi ne intenda il disegno, nulla troverà da emendarvi. Pensate dunque poi, che sarebbe se l’occhio potesse essere testimonio dell’ordine che han tra sé le parti più interne, e degli ordini occultissimi di cui si vale quella tal ombra di vita a nutrirsi, a conservarsi, a crescere, a generare un altro simile a sé.

VII. Ma perché parliamo più ai sensi, che all’intelletto, facciam così: restringiamoci solamente a considerare la varietà delle maniere che appaiono in queste creature sì basso, che la terra o genera, o allieva. Le angustie dell’ingegno umano, che pur è maggior del mondo, non permettono a verun artefice, che egli ecceda in qualunque pregio. Mirate i pittori soli. Altri sono eccellenti nel colorire, altri nel disegnare, altri nel disporre, altri nel finire le opere interamente. Chi non ha pari nel rappresentare battaglie, chi nel figurare paesi, chi nel fingere prospettive, chi nel porre dinanzi mari in tempesta, chi fiori, chi frutta, chi fiere, chi notti folte; senza che mai siasi trovato veruno, che in tutti questi generi insieme riporti il vanto. Eppure qui non si tratta, se non che di una semplice imitazione delle apparenze, note ad un guardo. Ora qual mente sarà pertanto mai quella che è perfettissima al pari non solo nel lavorare le apparenze di creature infinite, ma le sostanze, senza che possa trovarsi mai né che aggiungere ai suoi lavori, né che levarne? Quale sarà la fecondità di quelle idee che tuttavia dee ritenere in se stessa, se tanto prodigioso è quel numero che ne ha schierato in scena dinanzi a noi quasi per ischerzo? Io mi riporto alla considerazion delle foglie, che sono il meno che noi possiamo proporre nella moltitudine di tante tessiture più fine. Chi mai sarà che ridicami in queste sole la varietà, la vaghezza, i lineamenti che vi si scorgono; perché io mi vi perdo d’intorno? Altre larghe, altre lunghe, altre tonde, altre attorcigliate, altre aguzze, altre trinciate in più lati per bizzarria, altre molli più che velluto, altre piane senza ruggine, altre pari senza risalti, altre ricce come felpa, altre sode, altre scarne, altre coperte di sottilissima pelle, tutte distinte con ammirabili vene, fortificate da vari nervi, fornite di varia polpa, e tanto tra sé diverse, che (non dirò nelle fattezze, ma nel solo colore, in ciascuna verde) si ritroveranno dissimili, come dissimili sono le piante, cui servono di ornamento: Etiam quæ similia videntur, cum cantuleris, diversa sunt(Sen.). O sapienza infinita! sono io ben sordo, se tante lingue che mi favellan di te non arrivano a risvegliarmi! Sogliamo nelle festività più solenni seminar di frondì le vie che ci conducono ai tempii. Ora non ha il Creatore fatto altrettanto per invitarci alla cognizione di sé? Eppure si troverà uomo sì poco meritevole di tal nome, che non si lasci guidare a termine sì beato per una strada lastricata, non pur di l’rondi o di fiori, ma di altre creature ancor senza numero, che rabbelliscono il seno di questa gran madre nostra, la terra: mentre passeggiando fra continui miracoli, non li reputiamo degni de’ nostri guardi, non che de’ nostri stupori! Così cammina talora un rozzo bifolco per una collina piena di semplici eletti, senza riguardo, calpestando con pie’da giumento tante erbe che dan salute: mentre dall’altra banda un medico vi cammina con guardo attento, ammirator della virtù che quelle a gara racchiudono in poca spoglia.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.