FESTA DELLA CANDELORA (2020)

MESSA DELLA PURIFICAZIONE

Doppio di 2° classe. – Paramenti bianchi.

La festa delia Purificazione chiude il Ciclo santoriale del Tempo dopo l’Epifania. È una delle più antiche solennità della Vergine, ed occupava a Roma, nel VII secolo, il secondo posto dopo l’Assunta. Questa festa si celebra il 2 febbraio, poiché, volendo sottomettersi alla legge mosaica, Maria doveva andare a Gerusalemme, 40 giorni dopo la nascita di Gesù (25 dicembre – 2 febbraio) per offrirvi il sacrificio prescritto. Le madri dovevano offrire un agnello, o, se i loro mezzi non lo permettevano, « due tortorelle odue piccioni ». La Santa Vergine portò con sé a Gerusalemme il Bambino Gesù; e la processione della Candelora, ricorda il viaggio di Maria e di Giuseppe da Betlemme al Tempio, alfine di presentarvi « l’Angelo dell’alleanza » (Ep., Intr.), come aveva predetto Malachia. Le Messe dell’Annunciazione, dell’Assunta, della Natività di Maria, dell’Esaltazione della Santa Croce e della Candelora erano accompagnate una volta dalla processione. Questa ultima sola resta. La Purificazione, alla quale la Madre del Salvatore non era obbligata, perché Ella partorì in modo straordinario, passa in secondo piano nella liturgia ed è la Presentazione di Gesù che forma l’oggetto principale di questa festa. Rileggiamo la 1° orazione della benedizione delle candele, per comprendere il simbolo della lampada del santuario e dei ceri benedetti in questo giorno, e per ben conoscere l’uso che bisogna farne al letto del morenti, nelle tempeste e nei pericoli che può incorrere il «nostro corpo e la nostra anima sulla terra e sulle acque ». Se la Purificazione cade in una domenica privilegiata, la festa si celebra il giorno dopo; tuttavia la benedizione delle candele si fa prima della Messa della Domenica.

BENEDIZIONE DELLE CANDELE

Il celebrante, terminata l’ora di Terza, rivestito di stola e piviale violaceo, con i Ministri, procede alla benedizione delle Candele, poste dal lato dell’Epistola, e stando in piedi dice:

V.: Dóminus vobiscum

R.: Et cum spiritu tuo.

Oratio. – Domine sancte, Pater omnipotens, ætérne Deus, qui omnia ex nihilo creasti, et jussu tuo per opera apum, hunc liquórem ad perfectiónem cèrei venire fecisti: et qui hodierna die petitiónem justi Simeónis implésti: te humiliter deprecàmur: ut has candélas ad usus hóminum et sanitàtem córporarm, et animàrum, sive in terra, sive in aquis, per invocatiónem tui sanctissimi nóminis, et per intercessiónem beàtæ Mariæ semper Virginis, cujus hodie festa devòte celebrantur, et per preces omnium sanctórum tuórum, benedicere, et sanctificàre dignéris: et hujus plebis tuæ, quæ illas honorifice in manibus desiderat portare, teque cantando laudare, exaudias voces de cœlo sancto tuo, et de sede majestatis tuæ: et propitius sis òmnibus clamàntibus ad te, quos redemisti pretioso sanguine Filli tui, Qui tecum vivit ….

[Orazione. – O  Signor santo, Padre onnipotente, eterno Dio, te che tutto creasti dal nulla e mediante l’opera delle api, per comando tuo, facesti si che d’una molle sostanza si potessero formare dei ceri; te che oggi compisti i voti del giusto Simeone, noi ti supplichiamo di benedire e santificare queste candele, destinate ad uso degli uomini, a salute dei corpi e delle anime, sia in terra che sulle acque, mediante l’invocazione del tuo santissimo nome, l’intercessione della beata Maria sempre Vergine, di cui oggi si celebra devotamente la festa, e le preghiere di tutti i tuoi Santi. Di questo popolo tuo, che brama portare queste candele in mano in tuo onore e lodarti coi suoi canti, esaudisci le preghiere dai cielo e sii propizio a tutti quelli che t’invocano e che hai redento col sangue prezioso del Figlio tuo: Il quale teco vive e regna…

– Cosi sia.]

OratioOmnipotens sempitèrne Deus, qui hodiérna die Unigénitum ulnis sancti Simeónis in tempio sancto tuo suscipiéndum presentasti: tuam sùpplices deprecàmur cleméntiam; ut has candélas, quas nos fàmuli tui, in tui nóminis magnificéntiam suscipiéntes, gestàre cùpimus luce accénsas, benedicere, et sanctificàre, atque lùmine supérnæ benedictiónis accèndere dignéris: quàtenus  eas tibi Domino Deo nostro offerendo, digni et sancto igne dulcissimse caritàtis tuæ succénsi, in tempio sancto gióriæ tuæ repræsentàri mereàmur.Per eùmdem Dóminum nostrum.

Amen.

[Orazione. – Onnipotente ed eterno Dio, che oggi presentasti il tuo Unigenito nel tempio santo tuo per essere ricevuto tra le braccia del santo Simeone, noi preghiamo supplichevoli la tua clemenza affinché queste candele, che noi tuoi servii ricevendole al gloria del tuo santo nome bramiamo portare accese, benedica e santifichi. Degnati di accenderle con il fuoco della benedizione celeste, di modo che, con l’offrirle a te, Signore e Dio nostro, degni e accesi dal santo fuoco  della dolcissima carità, meritiamo di essere presentati nel tempio della tua gloria! – Per il medesimo Signor nostro. –

Cosi sia.]

Oratio. – Dòmine, Jesu Christe, lux vera, quæ illùminas omnem hominem veniéntem in hunc mundum: effùnde benedictiónem tuam super céreos, et sanctifica eos lùmine gràtiæ tuæ, et concede propitius; ut, sicut hæc luminària igne visibili accénsa noctùrnas depéllunt ténebras; ita corda nostra invisibili igne, id est, Sancti Spiritus splendóre illustrata, omnium vitiórum cæcitàte càreant: ut, purgato mentis óculo, ea cernere possimus, quæ tibi sunt plàcita, et nostræ saluti utilia; quàtenus post discrimina, ad lucem indeficéntem pervenire mereàur. Per te, Christe Jesu, Salvator mundi, qui in Trinitate perfécta vivis et regnas Deus, per omnia sæcula sæculórum.

Amen.

[O Signore Gesù Cristo, luce vera, che illumini ogni uomo che viene in questo mondo, benedici questi ceri e santificali con il lume della tua grazia. Concedi propizio che, come questi lumi accesi da un fuoco visibile fugano le tenebre, cosi i nostri cuori, rischiarati da un fuoco invisibile, cioè dalla luce dello Spirito Santo, siano liberi della cecità di ogni vizio, onde, purificato l’occhio della nostra mente, possiamo discernere quelle cose che sono gradite ed utili alla nostra salvezza, di modo che dopo le caliginose vicende di questo secolo, meritiamo di pervenire alla luce indefettibile. – Per te, Gesù Cristo, Salvatore del mondo, che nella Trinità perfetta vivi e regni Dio nei secoli dei secoli. –

Cosi sia.]

Oratio. – Omnipotens sempiterne  Deus, qui per Moysen fàmulum tuum purissimum ólei liquórem ad luminaria ante conspectum tuum jùgiter concinnànda præparàri jussisti: benedictiónis tuæ gratiam super hos céreos benignus infùnde: quàtenus sic administrent lumen exterius, ut, te donante, lumen Spiritus tui nostris non desit méntibus intérius.

Per Dóminum… in unitàte ejùsdem Spiritus Sancti.

Amen.

[Orazione. – Onnipotente eterno Dio, che per mezzo di Mosè tuo servo, comandasti

di preparare un purissimo olio per alimentare continuamente lumi davanti alla tua maestà, infondi benigno la grazia della tua benedizione sopra questi ceri, affinché, mentre procurano la luce esterna, per tuo dono non manchi alle nostre menti la luce interiore del tuo Spirito. Per il Signor nostro… in unione dello stesso Spirito Santo. – Cosi sia.]

Oratio. – Dòmine Jesu Christe, qui hodiérna die in nostræ carnis substàntia inter hómines appàrens, a paréntibus in templo es præsentàtus: quem Simeon veneràbilis senex, lumine Spiritus tui irradiàtus, agnóvit, suscépit, et benedixit: præsta propitius; ut ejùsdem Spiritus Sancti gràtia illuminati atque edócti, te veràcitar agnoscàmus, et fidéliter diligàmus: Qui cum Deo Patre in unitàte ejùsdem Spititus Sancti vivis et regnas Deus, per omnia sæculasæculórum.

Amen

[Orazione. – O Signore Gesù Cristo, che oggi, mostrandoti fra gli uomini nella sostanza della nostra carne, fosti presentato al tempio dai parenti e dal vecchio venerabile Simeone, illuminato dalla luce del tuo Spirito, fosti riconosciuto, preso (fra le sue braccia) e benedetto, concedi propizio che, illuminati ed ammaestrati dalla grazia dello Spirito Santo conosciamo veramente e amiamo fedelmente Te, che con Dio Padre in unità dello stesso Spirito Santo vivi e regni Dio, per tutti i secoli. –

Così sia.]

Il Celebrante pone l’incenso nel turibolo, asperge d’acqua benedetta le candele, dicendo l’Antifona: Asperges me senza il Salmo e dopo le incensa. Allora si avvicina all’Altare il più degno del Clero e porge la candela al Celebrante, il quale la riceve stando in piedi e senza baciargli la mano. Poscia il Celebrante distribuisce le candele cominciando dal più degno del Clero, poi ai Ministri sacri, agli altri del Clero e da ultimo ai laici. Tutti ricevono la candela genuflessi e baciano la candela e la mano del Celebrante, eccetto i Prelati.

Lumen ad revelatiónem géntium: et glóriam plebis tuæ Israel. (Cant. – ibid., 29, 31)

Nunc dimittis servum tuum, Domine, secùndum verbum tuum in pace.

Ant. – Lumen…

Quia vidérunt óculi mei salutare tuum.

Ant. – Lumen

Quod parasti ante fàciem omnium populórum.

Ant. – Lumen…

Glòria Patri et Filio et Spiritui Sancto.

Ant. – Lumen

Sicut erat in principio, et nunc, et semper, et in sæcula sæculórum. Amen.

Ant. – Lumen

Ant. – Ps. XLIII, 26. Exsurge, Dòmine, àdjuva nos: et libera nos propter nomen tuum.  

Ps. -Ibid., 2. Deus, àuribus nostris audivimus: patres nostri annuntiavéruntnobis. f. Glòria Patri.

Exsùrge …

[Sorgi, o Signore, aiutaci e liberaci per il tuo nome. Aiutaci e liberaci per iltuonome. Sai. – O Dio, abbiamosentito con le nostre orecchie i nostri padri ci raccontaronoi prodigi da te operati a nostro favore. – f. Gloria al Padre. Sorgi…]

Oratio. – Exàudi, quæsumus, Dòmine, plebem tuam: et, quæ extrinsecus annua tribuis devotióne venerari, intérius àssequi gràtiæ tuæ; luce concède. Per Christum Dóminum nostrum. R. Amen.

[Orazione. – Esaudisci, ti preghiamo, o Signore, il tuo popolo: e ciò che gli concedi di venerare esteriormente con annua devozione, concedi pure di conseguire interiormente con la luce della tua grazia. Per Cristo nostro Signore.

Cosi sia.

Quindi si fa la Processione: prima, però, il Celebrante pone l’incenso nel turibolo, poi il diacono rivolto al popolo dice:

V. Procedamus in pace.

R. In nomine Christi. Amen.

Precede il turiferario, segue il Suddiacono, che porta la croce fra ceroferari, poi il Clero ed ultimo il Celebrante col Diacono alla sinistra; tutti portano le candele accese e si cantano le seguenti Antifone:

Ant. – Adórna thàlamum tuum, Sion, et sùscipe Regem Christum: amplectere Mariam, quæ est cœlestis porta: ipsa enim portat  Regem gloriæ novi luminis: subsistit Virgo, adducens manibus Filium ante luciferum génitum: quem accipiens Simeon in ulnas suas, prædicàvit pópulis, Dóminum eum esse vitæ et mortis, et Salvatórem mundi.

[Ant. – Adorna il tuo talamo o Sion, e ricevi il Cristo Re: accogli con amore Maria, porta del cielo: Ella infatti reca il Re della gloria, la luce nuova. La Vergine si arresta, presentando sulle braccia il Figlio, generato prima dell’aurora. Simeone ricevendolo fra le sue braccia, annunzia ai popoli esser Egli il Signore della vita e della morte, il Salvatore del mondo.

Alia Ant. – Luc. II, 26-29 Respónsum accépit Simeon a Spiritu Sancto, non visùrum se mortem, nisi vidéret Christum Domini: et cum indùcerent puerum in templum, accepit eum in ulnas suas, et benedixit Deuin, et dixit: Nunc dimittis servum tuum, Dòmine, in pace.

t . Cum indùcerent pùerum Jesum paréntes ejus, utfàcerent secùndum consuetùdinem legis prò eo, ipse accépit eum in ulnas suas.

[Altra Ant. – Lo Spirito Santo aveva rivelato a Simeone che non sarebbe morto, prima di vedere l’Unto del Signore: e quando il bambino fu portato al tempio lo prese fra le sue braccia, benedisse Dio e disse: Ora lascia, o Signore, che se ne vada in pace il tuo servo.

V. Quando i genitori recarono il bambino Gesù, per compiere a suo riguardo le prescrizioni della legge, Simeone lo accolse fra le sue braccia.]

Nel rientrare in chiesa si canta.

Obtulerunt pro eo Dòmino par tùrturum, aut duos pullos columbàrum: * Sicut scriptum est in lege Dòmini.

f. Postquam impléti sunt dies purgatiónis Mariæ, secùndum legem Móysi, tulérunt Jesum in Jerùsalem, ut sisterent eum Domino. * Sicut scriptum est in lege Dòmini, f. Glòria Patri… * Sicut scriptum est in lege Dòmini.

[Offrirono per lui al Signor un paio di tortore o duepiccoli colombi: come è scritto nella legge del Signore.

f. Compiuti i giorni della purificazione di Maria, Gesù secondo la legge di Mosè, fu portato a Gerusalemme, per esser presentato al Signore: come è scritto nella legge Signore. – f. Gloria al Padre …

Come è scritto nella legge del Signore]

Terminata la Processione, Celebrante e Ministri depongono i paramenti violacei ed assumono i paramenti bianchi per la Messa

https://www.exsurgatdeus.org/2020/02/01/domenica-iv-dopo-lepifania-2020/.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLVII: 10-11.
Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.
[Abbiamo conseguito, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio: secondo il tuo nome, o Dio, la tua lode andrà fino ai confini della terra: le tue opere sono piene di giustizia.]

Ps XLVII: 2.
Magnus Dóminus, et laudábilis nimis: in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus.
[Grande è il Signore e sommamente lodevole: nella sua città e nel suo santo monte.]

Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

 [Abbiamo conseguito, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio: secondo il tuo nome, o Dio, la tua lode andrà fino ai confini della terra: le tue opere sono piene di giustizia.]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, majestátem tuam súpplices exorámus: ut, sicut unigénitus Fílius tuus hodiérna die cum nostræ carnis substántia in templo est præsentátus; ita nos fácias purificátis tibi méntibus præsentári. [Onnipotente e sempiterno Iddio, supplichiamo la tua maestà onde, a quel modo che il tuo Figlio Unigenito fu oggi presentato al tempio nella sostanza della nostra carne, cosí possiamo noi esserti presentati con ànimo puro.]

Lectio

Léctio Malachíæ Prophétæ.
Malach III:1-4.
Hæc dicit Dóminus Deus: Ecce, ego mitto Angelum meum, et præparábit viam ante fáciem meam. Et statim véniet ad templum suum Dominátor, quem vos quæritis, et Angelus testaménti, quem vos vultis. Ecce, venit, dicit Dóminus exercítuum: et quis póterit cogitáre diem advéntus ejus, et quis stabit ad vidéndum eum? Ipse enim quasi ignis conflans et quasi herba fullónum: et sedébit conflans et emúndans argéntum, et purgábit fílios Levi et colábit eos quasi aurum et quasi argéntum: et erunt Dómino offeréntes sacrifícia in justítia. Et placébit Dómino sacrifícium Juda et Jerúsalem, sicut dies sǽculi et sicut anni antíqui: dicit Dóminus omnípotens.

[Questo dice il Signore Iddio: Ecco, io mando il mio Angelo, ed egli preparerà la strada davanti a me. E subito verrà al suo tempio il Dominatore che voi cercate, e l’Angelo del testamento che voi desiderate. Ecco, viene: dice il Signore degli eserciti: e chi potrà pensare al giorno della sua venuta, e chi potrà sostenerne la vista? Perché egli sarà come il fuoco del fonditore, come la lisciva del gualchieraio: si porrà a fondere e purgare l’argento, purificherà i figli di Levi e li affinerà come l’oro e l’argento, ed essi offriranno al Signore sacrifici di giustizia. E piacerà al Signore il sacrificio di Giuda e di Gerusalemme, come nei secoli passati e gli anni antichi: così dice Iddio onnipotente.]

Graduale

Ps XLVII:10-11;9.
Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ.

 [Abbiamo conseguito, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio: secondo il tuo nome, o Dio, la tua lode andrà fino ai confini della terra.

V. Sicut audívimus, ita et vídimus in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus.
V. Ciò che sentimmo, ora lo abbiamo visto: nella città del nostro Dio, nel suo monte santo.

Allelúja,

V. Senex Púerum portábat: Puer autem senem regébat. Allelúja.

[ Alleluia, alleluia.

V. Il vecchio portava il Bambino: ma il Bambino reggeva il vecchio. Allelúia.]T

Evangelium
Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam.
R. Glória tibi, Dómine.

Luc II: 22-32.
In illo témpore: Postquam impleti sunt dies purgatiónis Maríæ, secúndum legem Moysi, tulérunt Jesum in Jerúsalem, ut sísterent eum Dómino, sicut scriptum est in lege Dómini: Quia omne masculínum adapériens vulvam sanctum Dómino vocábitur.
Et ut darent hóstiam, secúndum quod dictum est in lege Dómini, par túrturum aut duos pullos columbárum. Et ecce, homo erat in Jerúsalem, cui nomen Símeon, et homo iste justus et timorátus, exspéctans consolatiónem Israël, et Spíritus Sanctus erat in eo. Et respónsum accéperat a Spíritu Sancto, non visúrum se mortem, nisi prius vidéret Christum Dómini. Et venit in spíritu in templum. Et cum indúcerent púerum Jesum parentes ejus, ut fácerent secúndum consuetúdinem legis pro eo: et ipse accépit eum in ulnas suas, et benedíxit Deum, et dixit: Nunc dimíttis servum tuum, Dómine, secúndum verbum tuum in pace: Quia vidérunt óculi mei salutáre tuum: Quod parásti ante fáciem ómnium populórum: Lumen ad revelatiónem géntium et glóriam plebis tuæ Israël.

[In quel tempo: Compiutisi i giorni della purificazione di Maria, secondo la legge di Mosè, portarono Gesù a Gerusalemme per presentarlo al Signore, come è scritto nella legge di Dio: Ogni maschio primogenito sarà consacrato al Signore; e per fare l’offerta, come è scritto nella legge di Dio: un paio di tortore o due piccoli colombi. Vi era allora in Gerusalemme un uomo chiamato Simone, e quest’uomo giusto e timorato aspettava la consolazione di Israele, e lo Spirito Santo era in lui. E lo Spirito Santo gli aveva rivelato che non sarebbe morto prima di vedere l’Unto del Signore. Condotto dallo Spirito andò al tempio. E quando i parenti vi recarono il bambino Gesù per adempiere per lui alla consuetudine della legge: questi lo prese in braccio e benedisse Dio, dicendo: Adesso lascia, o Signore, che il tuo servo se ne vada in pace, secondo la tua parola: Perché gli occhi miei hanno veduta la salvezza che hai preparato per tutti i popoli: Luce per illuminare le nazioni e gloria del popolo tuo Israele.]

OMELIA

[G. PERARDI: LA VERGINE MADRE DI DIO – Libr. del Sacro Cuore, Torino, 1908]

XIII.

Presentazione di Gesù al Tempio e Purificazione di Maria

ESORDIO: Il fatto evangelico. Semplicità e misteri. — I . PURIFICAZIONE: Maria non v’è tenuta. Mistero di umiltà. Siamo umili. — II. OFFERTA DI GESÙ: 1. La legge dell’offerta. 2. Come Maria l’adempì. Significato. Il sacrifizio di fsacco. — 3. Ragione della legge. Raggiunge lo scopo coll’offerta di Gesù. — 4. Gesù si offre volontariamente.— 5. Maria è l’altare e il sacerdote. — III. SIMEONE: 1. Chi era. —2. Il cantico 3. Gloria a Gesù e Maria. — IV. CONCLUSIONE: Imitiamo Maria nell’umiltà.

Dopo Betlemme dobbiamo recarci in spirito a Gerusalemme, ove, quaranta giorni dopo la sua nascita, troviamo il Bambino Gesù e la Madre sua. Per l’intelligenza del fatto bisogna ricordare due leggi mosaiche: la prima riguardante la madre, la seconda riguardante il neonato, se primogenito. La madre doveva presentarsi per la cerimonia della purificazione legale; il neonato, se primogenito, doveva venire offerto al tempio, poi riscattato mediante un’offerta. Altrimenti quel fanciullo avrebbe dovuto prestarsi al servizio divino per tutta la vita. – Maria e Giuseppe si portano al tempio per presentare Gesù al Signore e per fare l’offerta. Allora « era in Gerusalemme un uomo, di nome Simeone, persona giusta e pia, che aspettava la consolazione d’Israele; e lo Spirito Santo era in lui: e gli era stato rivelato dallo Spirito Santo che non vedrebbe la morte, prima di vedere il Cristo del Signore. Così per lo spirito andò al tempio. E quando i genitori v’introdussero il bambino Gesù per far di lui secondo il rito della legge, egli pure se lo prese tra le braccia e benedisse Dio, esclamando: Adesso, Signore, rimanda in pace il tuo servo, secondo la tua parola; che gli occhi miei han visto la tua salute, la quale hai disposta al cospetto di tutti i popoli: luce a rivelazione per le nazioni e gloria d’Israele, tuo popolo. E il padre e la madre di Gesù restavano meravigliati delle cose che sì dicevano di lui. E Simeone li benedisse, dicendo però a Maria, sua Madre: Ecco, Egli è posto per rovina e per risurrezione di molti in Israele e per segno di contraddizione; e anche a te una spada trapasserà l’anima affinché restino svelati i pensieri di molti cuori. C’era inoltre una profetessa, Anna, figliuola di Fanuel, della tribù d’Aser; molto avanzata in età, vissuta col suo marito sette anni dalla sua verginità. Rimasta vedova fino agli ottantaquattro anni, non usciva dal tempio, servendo Dio notte e giorno con preghiere e digiuni. Questa dunque sopraggiunse in quell’ora stessa, e dava gloria al Signore, parlando di Lui a quanti aspettavano la redenzione d’Israele » (S. Luca, II, 25-28). Quale semplicità di narrazione è mai questa! Ma quali sublimi misteri offre alla nostra mente. « Misteri venerabili, dice il Bourdaloue, nei quali scopriamo ciò che la nostra Religione ha non solo di più sublime e divino, ma di più edificante e commovente: un Uomo-Dio offerto a Dio, il Santo dei santi consacrato al Signore, il sommo Sacerdote della nuova alleanza in istato di vittima, il Redentore del mondo riscattato; una vergine purificata; e una madre che sacrifica il proprio figliuolo; quali prodigi nell’ordine della grazia » (Sermone II della Purificazione.). No, non vi ha cosa in apparenza più semplice e più sublime in realtà del racconto che il Vangelo ci fa di questi misteri. Consideriamoli brevemente. Ci assista Maria perché possiamo ricavarne frutto di grazia per l’anima nostra.

I. — Il primo fatto su cui dobbiamo raccogliere la nostra considerazione è la Purificazione di Maria. Pronunziando la parola purificazione e applicandola a Maria il nostro cuore prova un senso di ripugnanza, perché sente che la legge della purificazione non era fatta per Maria, la creatura tutta bella, santa, pura, perché sente che le due parole purificazione e Maria contrastano, essendo Maria la Vergine per eccellenza, la Vergine Madre. Ed a Maria perciò si applica con più ragione la parola già indirizzata ad Ester: La legge non è fatta per te. No, la legge della purificazione fatta per le donne ebree, non era per Maria. E perché Maria vi si assoggetta ? Ha Ella forse dimenticato il saluto celeste: Benedetta tu fra le donne? Ha dimenticato d’aver Ella stessa proclamato che tutte le generazioni la chiameranno beata perché in Lei grandi cose aveva operato colui che è potente, Iddio? Non poteva Ella ripetere in questo momento che era beata, che era benedetta, e che era benedetto il frutto del suo seno; che veniva non a cercare la purificazione, ma a recarla al mondo, che veniva non a domandare il riscatto, ma a recarlo? Gl’interessi del suo Figliuolo non parevano forse prescriverle questo, mentre il suo silenzio e la sua condotta parevano derogare alla divinità di Lui e, facendolo passare per figliuolo ordinario, smentivano i tanti prodigi e i tanti oracoli che lo avevano già proclamato Figliuolo di Dio? Così certamente avrebbe pensato ed operato qualunque altra donna: non così pensa Maria. Maria è una creatura al tutto singolare. La sua grandezza è incomprensibile, ha dell’infinito; ma non meno grande è la sua umiltà. Questa virtù che spicca in tutti gli atti della vita di Maria, che abbiamo particolarmente ammirato nel mistero dell’Annunciazione, qui ci si rivela in un nuovo abisso incomprensibile, solo paragonabile alla incomprensibile grandezza di Lei. Ella accordandosi mirabilmente coi disegni di umiliazione e di sacrifizio di suo Figlio, si spoglia di tutte le grandezze, vela le sue glorie per soggettare Sé e Lui alle prescrizioni più umilianti. Scrutate quest’umiltà: Non sono trascorsi ancora undici mesi che Maria riceveva la visita dell’Angelo venuto dal cielo a richiederla del suo consenso alla divina Maternità: Maria tiene in sì alto pregio l’illibatezza verginale che è disposta a sacrificarle pur l’incomparabile grandezza della Maternità divina; e allora soltanto presta il suo consenso. Quando è assicurata che la sua verginità non patirà alcun detrimento, che quello che avverrà sarà dello Spirito Santo, che la potenza dell’Altissimo l’avrebbe adombrata. Ora nella purificazione Maria dimostra un amore, direi, ancor più grande dell’umiltà. Se per amore della verginità era disposta a rinunziare all’onore di Madre di Dio; ora per amore dell’umiltà si spoglia di tutte le grandezze, vela tutte le glorie, sacrifica lo stesso onore esterno della sua verginità. È la Vergine Madre di Dio: si umilia a segno da non comparire né Madre di Dio, né vergine, si umilia a comparire bisognosa di purificazione come un’altra donna qualsiasi. Quant’è ammirabile l’umiltà di Maria! Impariamo da questo fatto il dovere nostro di mortificare la superbia e praticare fedelmente l’umiltà se vogliamo essere veri devoti di Maria, imitandone quelle virtù ch’Essa ha particolarmente amato e praticato. Maria si assoggetta alla cerimonia della purificazione, offre le due piccole colombe pel sacrifizio, le due vittime che, se avessero potuto comprenderlo, si sarebbero stimate felici di essere offerte. Andate, piccoli animali, innocenti vittime, andate a morire per Gesù sinché Egli possa morire per noi.

II . — Il secondo fatto che dobbiamo considerare è la presentazione di Gesù al Tempio, cioè l’offerta di Gesù all’Eterno Padre.

1° Maria, purificata, si avanza nel tempio. « Quale indescrivibile commozione dovette provare Maria, rivedendo quel luogo confidente dei pensieri e dei fervori della sua fanciullezza? Lì Ella aveva passati lunghi giorni nella preghiera, aveva votato la sua verginità al Signore, e aveva accettato la mano di Giuseppe, ornata di gigli, per proteggere i suoi. Quante cose celesti erano passate da un anno appena; e adesso vi ritorna a presentare il Figliuol suo, l’Emanuele » (Lemann, La Vergine Maria, etc.). L’offerta del primogenito che gli Ebrei dovevano fare a Dio, si collegava con la loro liberazione dalla schiavitù d’Egitto e coll’uccisione di tutti i primogeniti degli Egiziani. L’indomani di questo prodigio Dio, per mezzo di Mosè promulgava la legge : Consacratemi tutti i primogeniti tra i figli d’Israele, poiché ogni cosa mi appartiene (Es. XIII, 2). Or Gesù, Figlio di Dio, appartiene veramente a Dio, anche come uomo. Sia dunque offerto a Lui. – Quando Iddio dispose che alla tribù di Levi fossero affidate le cure del culto riformò la legge dell’offerta dei primogeniti disponendo che, dopo d’averli offerti, i genitori li potessero riscattare mediante cinque sicli d’argento (circa 15 lire). Giuseppe e Maria offrono Gesù al Padre e lo riscattano coi cinque sicli d’argento. Oh Maria, riscattatelo pure il vostro Gesù! non lo avrete per lungo tempo; lo vedrete rivenduto per trenta denari.

2° Maria, coll’offrire Gesù non ha compiuto soltanto una cerimonia. Essa conosceva la grandezza dell’offerta: era l’offerta vera e reale di Gesù all’eterno Padre pel sacrifizio che il divin Figliuolo avrebbe offerto un giorno, della sua vita, sul Calvario. Quale sacrifizio pel cuor di Maria, pel cuor della Madre! – Un giorno Abramo ed Isacco ascendevano il monte Moria per offrire a Dio un sacrifizio. Isacco, che portava la legna per l’altare, domanda al padre: Dov’è la vittima dell’olocausto? E Abramo, col cuore lacerato da immenso dolore, non ebbe animo di rivelare ad Isacco ch’egli stesso era la vittima designata e si contentò di rispondere: Iddio stesso ci provvedere la vittima per l’olocausto (Gen. XXII). Noi ammiriamo l’eroica ubbidienza di Abramo, la sua perfetta sottomissione al cenno divino. Ma osserviamo pure che Dio domandò il sacrificio di Isacco non alla madre Sara, ma al padre. Una madre meditando questo fatto ebbe a dire che Dio non avrebbe chiesto un simile sacrificio ad una madre. Quello di cui Sara non sarebbe stata capace, compì Maria coll’offerta di Gesù al Tempio. Il sacrificio di Gesù non doveva consumarsi che più tardi sul Calvario: Nel tempio però Maria dà il suo consenso e offrendolo, in certo modo, dispone la vittima sull’altare. Maria aveva certamente coscienza di questo grande mistero nel momento in cui Ella lo compiva: «Se di fatto gli Ebrei illuminati intendevano in un senso spirituale quello che celebravano corporalmente, con ben maggior ragione Maria, la quale aveva il Salvatore tra le braccia e lo offriva con le sue mani all’eterno Padre, doveva eseguire quella cerimonia in ispirito ed unire la sua intenzione a ciò che era rappresentato dalla figura, vale a dire all’oblazione santa del Salvatore per tutto il genere umano. Pertanto nella guisa medesima che nel giorno dell’Annunciazione aveva prestato il suo consenso all’Incarnazione del Messia, che era argomento dell’annunzio angelico: così ratificò, per così esprimerci, in questo giorno il trattato della sua passione, poiché questo giorno n’era figura e come primo apparecchio » (Bossuet, Sermone III sulla festa della Purificazione). Perciò in questo giorno riscatta il Redentore; ma lo riscatta in figura per darlo poi in realtà; lo riscatta temporaneamente e quasi sotto condizione per allevarlo in vista del sacrificio, per essergli in esso compagna e dividerlo con Lui.

3° L’offerta di Gesù va considerata ancora sotto un altro aspetto per intendere tutto il disegno divino. E l’ha fatto con un’insuperabile maestà di vedute un grande oratore francese (Bourdaloue, Serm. II sulla Purificazione di Maria) che scrisse: « Dio voleva che in ogni famiglia il primogenito gli fosse offerto perché gli rispondesse di tutti gli altri e fosse come un ostaggio della dipendenza di quelli de’ quali era il capo. Ma ciascuno di questi primogeniti non era capo che della sua casa e la legge di cui si parla non obbligando che i figliuoli d’Israele, a Dio non ne poteva venire che un onore limitato, circoscritto. Che fa Iddio? Nella pienezza dei tempi elegge un uomo capo di tutti gli uomini, la cui oblazione gli è come un tributo universale per tutte le nazioni e per tutti i popoli: un uomo che ci rappresenta tutti e che sostenendo a nostro riguardo l’ufficio di primogenito risponde a Dio di lui e di noi, a meno che abbiamo l’audacia di sconfessarlo o che siamo così ciechi da separarcene: un uomo, infine, in cui tutti gli esseri riuniti rendano a Dio l’omaggio della loro sottomissione e che, mediante la sua obbedienza, rimetta sotto l’impero di Dio tutto ciò che il peccato ne aveva sottratto: ed anche su questo è fondato il diritto di primogenitura che Gesù Cristo deve avere al di sopra di tutte le creature: Primogenitus omnis creaturæ(Col. I, 15). « Dico di più: Tutte le creature, prese anche insieme, non avendo alcuna proporzione coll’Essere divino, e, come parla Isaia, non essendo tutte le nazioni, che una goccia d’acqua innanzi a Dio, un atomo, un nulla, perciò qualunque sforzo facessero per attestare a Dio la loro dipendenza, Dio non poteva essere pienamente onorato, e nel culto che riceveva restava sempre un vuoto infinito che tutti i sacrifici del mondo non avrebbero potuto riempire. Occorreva un soggetto grande come Dio, e che col più stupendo prodigio possedendo da una parte l’infinità dell’essere, e dall’altra parte mettendosi in istato di venire immolato potesse dire a tutto rigore di parola, che Egli offriva a Dio un sacrificio eccellente quanto Dio stesso, e che nella sua persona sottometteva a Dio non vili creature, non poveri schiavi, ma il Creatore e il Signore istesso ». E questo appunto fa oggi il Figliuolo di Dio coll’offerta sua all’eterno Padre, nel tempio di Gerusalemme.

4° Poiché occorre ricordare che Gesù al Tempio non solo viene offerto, ma Egli stesso volontariamente si offre. Gesù si era fatto bambino, del bambino aveva rivestito la debolezza ma non l’inconsapevolezza. Gesù era bambino e Dio: le umiliazioni a cui si sottometteva, gli atti che compiva non erano umiliazioni od atti di cui fosse inconscio; erano umiliazioni ed atti volontari. Gesù volontariamente si era sottomesso, otto giorni dopo la nascita, alla circoncisione; volontariamente aveva sofferto i primi dolori, sparse le prime lagrime, versate le prime stille di sangue; volontariamente si offrì nel Tempio, costituendosi fin da quell’istante vero e proprio mediatore nostro presso l’eterno Padre. Gesù aprendo gli occhi alla vita, già sapeva la sua missione, sapeva a qual sacrificio si sottoponeva. A nostro modo di esprimerci questo sacrificio ha nuovamente accettato col lasciarsi offrire, anzi col voler essere offerto da Maria all’Eterno Padre. E quindi in quell’ora ha, a dir così, accettato ufficialmente di essere, innanzi al Padre, nostro Redentore; ha accettato di essere a noi Maestro con la parola e con l’esempio, ha accettato la morte, la croce, i flagelli. Perciò dobbiamo oggi un pensiero ed un affetto specialissimo a Gesù. Figuratevi il figlio d’un Re che redime uno schiavo a prezzo di un grande sacrificio. Lo schiavo redento ricorderà un giorno tutti gli atti della sua liberazione; la determinazione, i preparativi, l’opera del suo liberatore. Ricorderà quell’istante in cui il Principe Reale, fatti gli apparecchi, rinnova l’accettazione della sua missione ricordando e quasi passando in rassegna le disposizioni prese e date, e confermando il suo proposito. E appunto nella sua presentazione al tempio, nel porsi tra Dio Padre e noi, Gesù ha confermato la determinazione presa da tutta l’eternità, i preparativi già fatti pel nostro riscatto, l’accettazione di quel genere di morte, ch’era secondo il beneplacito di Dio, accompagnata da tutti quei dolori che erano o necessari o convenienti al nostro maggior bene. Quindi riguardo a Gesù noi ricordiamo oggi l’atto suo di porsi tra Dio Padre e noi, quasi dicesse: Questi infelici prendo io sotto la mia tutela; sono peccatori: soddisferò io quello che non possono essi. In quest’offerta di sé, Gesù fu mosso da un doppio sentimento: amor del Padre per soddisfare all’eterna di Lui giustizia; amore di noi per salvarci. Vedete quindi come un affetto specialissimo meriti da noi oggi Gesù: sia un affetto di fervido amore e di sincera riconoscenza.

5° Un pensiero ancora all’offerta di Gesù la quale viene fatta per mano di Maria. Gloria incomparabile per Maria, e fondamento certo della nostra fiducia nella mediazione di Lei. Riflettete: Nell’Incarnazione il Figliuolo di Dio, mercé la cooperazione e la sostanza di Lei ha avuto un corpo come il nostro. Nella redenzione sarà immolato in unione a Maria che starà presso la croce. Nella presentazione vuole essere portato da Lei al Tempio, e da Lei medesima offerto. Le braccia ed il cuore di Maria sono come l’altare del sacrificio; Maria il Sacerdote; Gesù il Sacerdote e la vittima. « In quest’attitudine sublime le braccia della Madre di Dio offrivano; il suo cuore ardeva, e Gesù era nelle sue braccia e in mezzo al suo fuoco: non è questo l’altare del sacrificio? Come l’altare è inseparabile dalla vittima, la porta, la sostiene e sembra dirle: Sono una cosa sola con te, così la carità di Maria era pronta ad accompagnare ovunque la carità del Figliuolo di Dio pel mondo » (LÉMANN, op. cit.). Quanto ci si rivela grande la cooperazione di Maria alla nostra redenzione, e come basterebbe questo fatto a meritarle il titolo di corredentrice. – « Così questo mistero ci unisce alla santa Vergine in modo particolare. Essa vi rappresenta la Chiesa, offrendo Gesù Cristo a Dio in nome di tutta la società cristiana; ma tutta la società cristiana deve altresì congiungersi a Lei ed unirsi al suo sacrificio, come a quello del principale dei suoi membri operante in nome di tutto il corpo, e ciascuno deve procurare di entrare nelle sue disposizioni e pregarla di ottenerne qualche partecipazione » ( NICOLE, Saggi di morale, tomo XIII, pag. 318).

III. — Il terzo fatto dell’odierno mistero è costituito dalla parte che vi prende il vecchio Simeone.

1° Il Vangelo ci dice che questo vecchio era giusto e timorato di Dio e aspettava la consolazione d’Israele. Era giusto: la quale parola non esprime solo una virtù; ma le virtù nel loro complesso. Era timorato di Dio, di quel santo e figliale timore che è il principio dell’amore. Era giusto e timorato ed aspettava la consolazione d’Israele. Certamente non era solo ad aspettare; tutta la nazione, anzi tutto il mondo aspettava il Salvatore. I patriarchi, i profeti, i giusti l’avevano aspettato. L’avevano aspettato la terra, il cielo, il limbo. Di questa universale aspettazione il vecchio Simeone era come la personificazione veneranda; lo spirito dei giusti dell’antica legge era passato nel santo vecchio. Da questo giudicate le elette disposizioni dell’anima di lui. E ne riceve il premio: lo Spirito Santo dimorava in lui con singolare compiacenza, e gli aveva apertamente rivelato « che non vedrebbe la morte prima di vedere il Cristo del Signore ».

2° Il santo vecchio vive in quest’ansiosa aspettazione. Un giorno, mosso da presentimento divino, si reca al tempio quando appunto vi entrava la Sacra famiglia. Riconosce nel fanciullo il Salvatore del mondo, lo riconosce a nome di Gerusalemme che, atterrita da Erode non aveva ardito aggiungere alcun rappresentante al corteo dei Magi, lo riconosce, e con un movimento ardente e rapido come l’amore lo prende tra le sue braccia e stringendolo al cuore, erompe nel cantico: Adesso, o Signore, rimanda in pace il tuo servo… che gli occhi miei hanno visto la tua salute. E allora una chiara visione dell’avvenire si manifesta a Simeone: l’universalità del regno di quel bambino: Al cospetto di tutti i popoli, porterà la luce della fede non ai soli Giudei, ma altresì alle nazioni pagane: Luce e rivelazione per le nazioni; ma questa luce viene dal popolo d’Israele eletto, come a prepararla, e perciò il bambino è gloria d’Israele.

3° Questa profetica manifestazione della grandezza di Gesù ci rivela la costante economia di Dio a riguardo di Gesù e di Maria, la quale usa pure riguardo a tutti i Cristiani. Maria e Gesù nel mistero della Purificazione e della Presentazione cercano l’oscurità e l’umiliazione, e trovano lo splendore e la gloria. Come Vergine, Maria sacrifica la sua riputazione di verginità; come Madre, sacrifica il suo Figliuolo. E tosto per disposizione provvidenziale questo figlio, raccolto nelle braccia del vecchio Simeone, è proclamato Salvatore del mondo e Maria ristabilita nella gloria della sua maternità divina che aveva voluto nascondere sotto il velo della più umiliante condizione. – Ammiriamo le vie della Provvidenza; affidiamoci ad essa, sicuri che le vie da Essa disposte a nostro riguardo saranno le più salutari per noi.

IV. — Riserbandoci di considerar altra volta il seguito della profezia di Simeone raccogliamo il frutto dell’odierna considerazione, e raccogliamolo in una ferma risoluzione di praticar con singolare predilezione l’umiltà, col sacrificio volenteroso del nostro amor proprio. Se vi ha virtù di cui nel mondo si parla con disprezzo, perché ignorata, è appunto la umiltà! Oh, che non si dice contro tale virtù? Comprendete bene, o devoti Cristiani, che la vera umiltà è fondata sulla verità. Per l’umiltà dobbiamo sottometterci a Dio riconoscendo il suo pieno e perfetto dominio su noi. Non siamo nostri, siamo di Dio, a Dio apparteniamo noi e le cose nostre. Per l’umiltà dobbiamo riconoscere che se abbiamo qualche cosa di bene, essa non è nostra, ma di Dio da cui l’abbiamo avuta. Tutto quello che’ abbiamo, l’abbiamo avuto da Dio, e perciò dobbiamo usarne secondo la volontà di Dio, ricordando che perciò appunto a Dio un giorno dovremo renderne rigorosissimo conto. Per l’umiltà dobbiamo riconoscere il bisogno costante che abbiamo della divina grazia, perché se per un istante solo ci abbandona, che sarà di noi? Questo il pensiero che ci obbliga a non anteporci ad alcuno, neppure al più grande peccatore, perché tra breve possono essere cambiate completamente le cose: noi possiamo cadere e pervertirci, mentre il peccatore può rialzarsi e convertirsi. Per l’umiltà dobbiamo seriamente riflettere: Se Iddio avesse ad altri concesse le grazie che accordò a noi, qual maggior frutto avrebbero saputo ritrarne! E poi: quanti si trovano all’inferno, ed hanno peccato meno di noi! E perciò se avviene che il prossimo ci manchi di riguardo o di attenzione, se anche ci avviene di essere offesi, ricordiamo che innanzi a Dio abbiamo meritato ben peggio. Sappiamo elevarci a Dio, e rimirare in quello che quaggiù avviene, una permissione di Dio: e nelle persone, lo strumento di cui Iddio si serve. – Cerchiamo pertanto di conoscere seriamente il nostro nulla, la debolezza che portiamo con noi onde diffidare di noi e delle nostre forze. Imitiamo Maria: cerchiamo di essere buoni, virtuosi, pii innanzi a Dio, e non curiamoci del giudizio del mondo, non cerchiamone la stima, od il plauso. Nascondiamo volentieri agli occhi del mondo quel poco di bene, che con la grazia di Dio abbiamo potuto fare; da Dio solo attendiamone la ricompensa e sia nostra regola la sentenza di Gesù che vedemmo avverata nell’odierno mistero: Chi si innalza, sarà umiliato ; e chi si umilia, sarà esaltato(S. Luca, XIV, 11). Evitiamo ogni innalzamento di superbia pernon essere eternamente umiliati; umiliamoci quaggiù peressere eternamente esaltati nella gloria del cielo.

Credo

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Offertorium

Orémus
Ps XLIV: 3.
Diffúsa est grátia in lábiis tuis: proptérea benedíxit te Deus in ætérnum, et in sǽculum sǽculi.

[La grazia è diffusa sulle tue labbra: perciò Iddio ti benedisse in eterno e nei secoli dei secoli]

Secreta

Exáudi, Dómine, preces nostras: et, ut digna sint múnera, quæ óculis tuæ majestátis offérimus, subsídium nobis tuæ pietátis impénde.
[Esaudisci, o Signore, le nostre preghiere: e, affinché siano degni i doni che offriamo alla tua maestà, accordaci l’aiuto della tua misericordia.]

Comunione spirituale

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Communio

Luc II:26.
Respónsum accépit Símeon a Spíritu Sancto, non visúrum se mortem, nisi vidéret Christum Dómini.

[Lo Spirito Santo aveva rivelato a Simone che non sarebbe morto prima di vedere l’Unto del Signore]

Postcommunio

Orémus.
Quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut sacrosáncta mystéria, quæ pro reparatiónis nostræ munímine contulísti, intercedénte beáta María semper Vírgine, et præsens nobis remédium esse fácias et futúrum.

[Ti preghiamo, o Signore Dio nostro: affinché questi sacrosanti misteri, che ci procurasti a presidio della nostra redenzione, intercedente la beata sempre Vergine Maria, ci siano rimedio per la vita presente e futura].

Preghiere leonine

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Ringraziamento

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Ordinario della Messa

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DOMENICA IV DOPO L’EPIFANIA (2020)

DOMENICA IV DOPO L’EPIFANIA (2020)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Il Vangelo è tratto dallo stesso capo del Santo Vangelo della terza Domenica dopo l’Epifania. È il racconto di un nuovo miracolo. Gesù manifesta la sua divinità comandando ad elementi potenti ed indocili come le acque sconvolte ed i venti scatenati. E « l’Evangelista fa risaltare l’importanza del prodigio, opponendo alla grande agitazione delle onde », « la grande calma che ne segue » (Vang.). Ma è nella Chiesa che si esercita la regalità divina di Gesù; così i Padri hanno visto nei venti che soffiano in tempesta un simbolo dei demoni di cui l’orgoglio suscita le persecuzioni contro i Santi, e nel mare tumultuoso le passioni e la malvagità degli uomini; cause delle trasgressioni ai comandamenti e delle lotte fraterne. Nella Chiesa, al contrario, regna la gran legge della carità perché, se i tre primi precetti del Decalogo ci impongono l’amore di Dio, altri sette ci impongono, come conseguenza logica, l’amore del prossimo (Ep.) Dio infatti è nel prossimo perché, mediante la grazia siamo in certo modo il complemento del corpo di Cristo. È questo il mistero dell’Epifania. Gesù si rivela Figlio di Dio e tutti quelli che riconoscendolo tale, lo riconoscono loro Capo, divengono membri del suo corpo mistico. Formando tutti un solo corpo nel Cristo, i Cristiani devono anche amarsi reciprocamente. Questa barca, dice S. Agostino, rappresenta la Chiesa la quale manifesta nei secoli la divinità di Cristo. È infatti alla protezione del Salvatore che Essa deve « malgrado la sua fragilità » (Or. Sec), se non è inghiottita in mezzo a tanti pericoli che la minacciano (Or.). Gesù, dice S. Giov. Crisostomo, sembra che dorma per costringerci a ricorrere a Lui, e salva sempre quelli che lo invocano.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCVI:7-8 Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae. [Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda.]

Ps XCVI: 1 Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti.]

Orémus.

Deus, qui nos, in tantis perículis constitútos, pro humána scis fragilitáte non posse subsístere: da nobis salútem mentis et córporis; ut ea, quæ pro peccátis nostris pátimur, te adjuvánte vincámus.

[O Dio, che sai come noi, per l’umana fragilità, non possiamo sussistere fra tanti pericoli, concédici la salute dell’ànima e del corpo, affinché, col tuo aiuto, superiamo quanto ci tocca patire per i nostri peccati.]

LECTIO

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom XIII: 8-10

Fratres: Némini quidquam debeátis, nisi ut ínvicem diligátis: qui enim díligit próximum, legem implévit. Nam: Non adulterábis, Non occídes, Non furáberis, Non falsum testimónium dices, Non concupísces: et si quod est áliud mandátum, in hoc verbo instaurátur: Díliges próximum tuum sicut teípsum. Diléctio próximi malum non operátur. Plenitúdo ergo legis est diléctio.

Omelia I.

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

L’AMOR DEL PROSSIMO.

“Fratelli: Non vi resti con nessuno altro debito che quello dell’amore scambievole; poiché chi ama il prossimo ha adempiuto la legge. Infatti: «Non commettere adulterio; non ammazzare; non rubare; non dire falsa testimonianza; non desiderare; e qualsiasi altro comandamento si riassume in questa parola: «Amerai il prossimo come te stesso». L’amore del prossimo non fa male alcuno. L’amore è, dunque, il compimento della legge»”. (Rom. XIII, 8-10).

L’Epistola di quest’oggi è tolta dal cap. 13 della lettera ai Romani. L’Apostolo, inculcata antecedentemente la soggezione alle autorità costituite, e mostrati i motivi di questa soggezione, viene a parlare del dovere di rendere a ciascuno il fatto suo. Gli uni devono essere sciolti da qualsiasi debito verso gli altri. Un solo debito deve rimanere ai Cristiani: quello della carità fraterna. Invero, questo è un debito:

1. Al quale, nessun Cristiano può sottrarsi,

2. Che deve animare tutte le sue relazioni col prossimo,

3. Senza escludere nessuno.

1.

Fratelli: non vi resti con nessuno altro debito che quello dell’amore scambievole. Dopo gli obblighi versole autorità costituite, vengono gli obblighi verso gli individui. Come abbiamo dei debiti verso la società, così neabbiamo verso i singoli membri che la compongono. Se si considerano i debiti soltanto dal lato materiale, tanti potranno dire: Io non ho debiti con nessuno. Felice chi può dire così; perché di questi debiti non si dovrebbe averne. E se, caso mai, ce ne fosse qualcuno, la giustizia obbliga a pagarlo subito, se è possibile; o a mettersi in grado di poterlo pagare il più presto che si può.L’Apostolo, però, non considera solamente questi debiti, che nessuno dovrebbe avere. Considera anche un debito d’una natura tutta particolare: il debito della carità. Nessuno a questo debito può sottrarsi. L’uomo deve amar Dio. Nessuno, per altro, è così insensato da dire che ami Dio colui che non vuol amare ciò che Dio ama. E che Dio ami il mio prossimo è cosa più chiara della luce. Per tutti gli uomini, nessuno escluso, fu spinto dal suo amore a versar il sangue sulla croce. Sarebbe, dunque, un assurdo affermare che io ami Dio, quando escludo dal mio amore, coloro che Dio amò fino a morir per essi. «Infatti — dice S. Giovanni— chi non ama il suo fratello che vede, come può amar Dio, che egli non vede?». (I Giov. IV, 20).«L’uomo deve amare ciò che è caro a Dio». (S. Cipriano. De bono patientiæ, 3). E il prossimo è tanto caro a Dio, che il Discepolo prediletto ci assicura che chi ama il proprio fratello è quasi certo di vivere nella grazia del Signore. «Noi sappiamo che siam passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli». (I Giov. III, 14). E tanto più dobbiamo amare i propri fratelli, quanto più sono meschini, diseredati, sofferenti. Questi erano i prediletti da Gesù Cristo. E i santi, considerando in essi le membra sofferenti di Gesù Cristo, li facevano oggetto particolare del loro amore. Il Beato Andrea Umberto Fournier, rimproverato una volta dalla sorella, perché aveva dato parte dei suoi abiti a un poverello, risponde:« Che vuoi, ho incontrato Nostro Signore Gesù Cristo, potevo rifiutargli qualche cosa? ». Un’altra volta, preso un bicchiere, che aveva servito a un povero, dice: « Ch’io beva dopo Nostro Signore Gesù Cristo! » (Il Beato Andrea Umberto Fournier, Milano, 1926, p, 361). – Il soldato si conosce dalla divisa, e le varie armi tra i soldati si conoscono dai distintivi particolari di ciacun’arma. Qual è il distintivo del buon cristiano? È l’amore disinteressato verso i propri fratelli. Ciò afferma il Redentore stesso : « Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore l’uno per l’altro » (Jov. XIII, 35). Può capitare che uno, con tutta la sua buona volontà, non sia in potere di concorrere a un’opera di beneficenza; che sia nell’impossibilità di concedere un favore, che gli si chiede; e sia costretto a dire: «Mi dispiace, ma non posso accontentarvi». Chi è il Cristiano che osi dire: «Non posso amare il mio fratello?». Chi ha questi sentimenti, si pone da se stesso fuori del numero dei buoni Cristiani, e dimostra di non voler seguire Gesù Cristo.

2.

Non commettere adulterio: non ammazzare; non rubare; non dire falsa testimonianza: non desiderare, e qualsiasi altro comandamento si riassume in questa parola: «Amerai il prossimo come te stesso».

Chi ama il prossimo non desidera che al proprio fratello accada ciò che non vorrebbe accadesse a se stesso. Così, nessuno desidera che a proprio danno si commettano quelle mancanze che qui enumera S. Paolo, e altre simili. Naturalmente, non deve desiderare che si commettano neppure a danno del proprio fratello. Comincia a non commetterne da parte sua, e, per quanto sta da lui, s’adopera per impedire che si commettano dagli altri. E qui, quanto è vasto il campo! Se tutte le nostre azioni fossero informate dalla carità, non recheremmo mai offesa a persona qualsiasi. Chi ama il proprio fratello non lo critica, senza un giusto motivo; non lo giudica precipitosamente, non fa strazio della sua fama.Le visite, i convegni, le passeggiate porgono facile occasione di parlare del prossimo con grande leggerezza. Se si tratta di azioni apertamente cattive, non c’è pericolo che, pur condannando il male, il cattivo esempio, lo scandalo,si abbia a trovare qualche attenuante per il peccatore. Se si tratta di azioni a cui si possono dare diverse interpretazioni, siano pronti a dare, senz’altro, l’interpretazione peggiore. Se si tratta di azioni manifestamente buone, andiamo a cercare i secondi fini. Se si tratta di falli ancora nascosti, non ci par vero di essere i primi a farli palesi. Ben diversamente si comportano quelli che, nelle loro relazioni col prossimo, sono guidati dalla carità. Essi procurano di coprire i difetti del prossimo, non di rivelarli; di attenuarli, non di ingrandirli; di interpretarli in bene fin dove è possibile. Essi si guardano bene di scavar il solco della discordia tra fratelli, come fanno, per esempio, quelli che riportano le parole degli altri. Chi è animato dalla carità non inasprisce le sofferenze altrui con modi scortesi, con parole che umiliano. Cerca, anzi, di addolcirle con farsele proprie. « È un atto di vero amore far proprie le sofferenze di chi soffre».(S. Pietro Cris. Serm. 14). C’è poi una virtù che è veramente la prova dell’amore che anima le nostre relazioni col prossimo: la pazienza! Questa parola che noi ripetiamo volentieri agli altri e a noi stessi in tante circostanze, corrisponde ai fatti? Se sopportiamo i difetti del nostro prossimo; se sopportiamo con dolcezza le provocazioni, tante volte involontarie, che da esso ci possono venire, allora abbiamo la pazienza, e dimostriamo di amare il prossimo.

3.

L’amore del prossimo non fa male alcuno.

Chi ha l’amore del prossimo non fa dei torti al suo fratello, chiunque esso sia; anzi, è disposto a riceverne, invece di farne; e, quando li riceve, perdona. L’amor del prossimo è un amore che esclude ogni egoismo. Noi diciamo che non c’è vera amicizia, quando si cerca di sfruttare l’amico, pronti ad abbandonarlo quando non ci torna più utile, o ci potrebbe recar delle noie o chiedere dei sacrifici. Lo stesso dobbiamo dire dell’amor del prossimo, se ha per scopo il tornaconto. Si dà uno, ma con la speranza di potere un giorno, direttamente o indirettamente, ricavarne dieci. Si dà un aiuto, ma con l’animo di ipotecare chi lo riceve. Questa è una carità che fa piuttosto torto al prossimo. Far del bene a quelli che ne fanno a noi; amare chi ci ama è buona cosa, ma è troppo poco per un Cristiano, che, oltre la ricompensa degli uomini, attende quella di Dio. « Quando — dice il divin Maestro — fai qualche convito, chiama i poveri, gli zoppi, i ciechi, e sarai fortunato, perché non hanno da rendertene il contraccambio; ma il contraccambio ti sarà reso nella risurrezione dei giusti». (Luc. XIV, 13-14). Nessuna esclusione, dunque, di coloro che non possono esserci utili, o retribuirci. – Capita, quando si chiede qualche sussidio o qualche favore per una persona, di sentirsi rispondere: «Per quella persona ho già fatto abbastanza: adesso basta! ». Noi non dobbiamo mai dire basta, quando si tratta di usare, in un modo o in un altro, la nostra carità verso il prossimo. La carità è un debito diverso dai debiti materiali. Quando tu hai versato la somma che il creditore ti richiede puoi dire: “Adesso basta! Tra me e te i conti son saldati”. Ma il debito della carità è sempre aperto fin che c’è vita. E fino a che uno vive non puoi escluderlo dai tuoi creditori. Nota poi che, attingendo al tesoro materiale, questo tanto più diminuisce, quanto più ne dai al creditore. Attingendo, invece, al tesoro della carità questo tanto più s’accresce, quanto più sono gli atti di carità che noi usiamo verso gli altri, quanto più numerose sono le persone che ricevono dalla nostra carità. L’osservazione è di S. Agostino. La carità «con il darla non si perde, anzi, quanto più uno ne è prodigo, tanto più in lui s’accresce» (Ep. 192 ad Coles.). Ma si tratta di un nemico, d’una persona, che mi ha fatto del male; come posso amarla? Puoi amarla con l’aiuto di Dio. Se Dio comanda una cosa, dà anche la forza di compierla, e il comando di Dio è troppo chiaro per pretendere di sottrarsene. «Avete udito che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici; fate del bene a coloro che vi odiano, e pregate per coloro che vi perseguitano e calunniano». ( Matth. V, 43-44). Nessuno nega che è un bel sacrificio amare i nostri nemici; che è difficile amarli se li consideriamo come tali; ma in pratica la difficoltà diminuisce se li consideriamo come creature di Dio, figli come noi di uno stesso Padre. «Pensa — dice il Crisostomo — che tu fai bene non al nemico, ma a te. Non ami lui, ma obbedisci a Dio». (In Ep. ad Ephes. Hom. 7, 4). Si dice: L’amore è cieco, ma vede da lontano. Il nostro amore sia cieco sui torti del prossimo. Di là dei torti veda la volontà di Dio. “Non vogliate avere altro debito, che quello d’amarvi l’un l’altro; perché chi ama il prossimo, ha adempiuta la legge. Di fatto, il non fare adulterio, non uccidere, non rubare, non dir falsa testimonianza, non desiderare il male e se vi è alcuna altro precetto, tutto è compreso in questa parola: Amerai il prossimo come te stesso. L’amore del prossimo non opera alcun male: il compimento dunque della legge è l’amore „ (Rom. XIII, 8-10).

Graduale

Ps CI: 16-17

Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam. [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i re della terra la tua gloria.]

ALLELUJA

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua. Allelúja, allelúja. [Poiché il Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia, allelúia] Alleluja

Ps XCVI: 1 Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ. Allelúja. [Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matth. VIII: 23-27

“In illo témpore: Ascendénte Jesu in navículam, secúti sunt eum discípuli ejus: et ecce, motus magnus factus est in mari, ita ut navícula operirétur flúctibus, ipse vero dormiébat. Et accessérunt ad eum discípuli ejus, et suscitavérunt eum, dicéntes: Dómine, salva nos, perímus. Et dicit eis Jesus: Quid tímidi estis, módicæ fídei? Tunc surgens, imperávit ventis et mari, et facta est tranquíllitas magna. Porro hómines miráti sunt, dicéntes: Qualis est hic, quia venti et mare obædiunt ei?”

OMELIA II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE IX.

 “In quel tempo essendo Gesù montato nella barca, lo seguirono i suoi discepoli. Quand’ecco una gran tempesta si sollevò nel mare, talmente che la barca era coperta dall’onde; ed egli dormiva. E accostatisi a lui i suoi discepoli, lo svegliarono, dicendogli: Signore, salvaci: ci perdiamo. E Gesù disse loro: Perché temete, o uomini di poca fede? Allora rizzatosi, comandò ai venti e al mare; e si fe’ gran bonaccia. Onde la gente ne restò ammirata, e dicevano: Chi è costui, a cui ubbidiscono i venti e il mare”?

Nel Santo Vangelo si parla ripetutamente di un lago, il quale perciò è diventato assai celebre. Questo lago, che trovasi nella Palestina, è attraversato dal fiume Giordano, ed ha la forma ovale. Ed ora vien chiamato lago di Tiberiade dal nome della grande città romana, che sorgeva sopra le sue rive, ora il lago di Genezaret per ragione della vasta pianura di Genezar, di cui rende mite l’aria e fertilizza il suolo, ora semplicemente il mare, perciocché esso ha alle rive coperte di ghiaia il leggero movimento d’un piccolo mare. Incassato da ogni parte, eccetto che a mezzodì, da alte montagne, allorquando spunta il sole sembra un’immensa coppa azzurra incastonata nell’argento. Intorno ad esso sorgevano una diecina circa di città, e tra le più nominate Cafarnao, Betsaida, Tiberiade, Magnala; poi una gran moltitudine di castelli, di ville, di giardini. Era un luogo incantevole. Ed è attorno a questo lago, anzi sopra di questo lago medesimo, che Gesù Cristo compì la più parte dei grandi fatti della sua vita pubblica. Ed è pure in questo lago, che Gesù operò il grande miracolo, che ci racconta il Vangelo d’oggi, della tempesta sedata.

1. Ci dice adunque il Vangelo di questa Domenica, che essendo Gesù montato nella barca, lo seguirono i suoi discepoli. Ora, prima di andarti innanzi, conviene subito di sapere che cosa significa questa barca, sopra la quale montò Gesù Cristo. Ascoltate. Il nostro divin Salvatore disceso dal cielo in terra per salvarci, volle stabilire un mezzo, onde fosse assicurato il deposito della fede, fondando quaggiù un regno spirituale. Questo regno è la sua Chiesa, ovvero la congregazione de’ fedeli Cristiani di tutto il mondo, che professano la dottrina di Gesù Cristo sotto la condotta dei legittimi pastori, e specialmente del Romano Pontefice. Questa Chiesa qual madre amorosa doveva in ogni tempo e in ogni luogo ricevere coloro, che avessero voluto ricoverarsi nel suo materno seno, ed essere perciò in ogni tempo visibile ed accessibile a tutti. Quindi nel Vangelo questa Chiesa ora è paragonata ad una colonna, con tra cui nulla valgono gli assalti dei nemici delle anime, ora è paragonata ad una pietra, sopra cui poggia un grande edificio, che deve durare sino alla fine dei secoli, ed ora, come qui, è paragonata ad una barca, la quale farà sempre il suo cammino senza mai affondare, per quanto infurino contro di essa i venti e le tempeste delle persecuzioni. E sopra di questa barca in modo ora invisibile vi è Gesù Cristo, che l’assiste, ed in modo visibile a governarla vi è il Vicario di Gesù Cristo, il Romano Pontefice, successore di S. Pietro. E ciò è pure chiaramente indicato dal Vangelo di oggi, giacché la barca, sopra della quale montò nostro Signore, era propriamente quella di S. Pietro. Ora, o miei cari, come al tempo di Noè, quanti si trovavano fuori dell’arca miseramente perirono, così ora quanti sono fuori della barca di Gesù Cristo e di S. Pietro, vale a dire della “vera” Chiesa, non possono salvarsi. E qui vi è da tremare pensando al gran numero di coloro, che sono fuori della Chiesa Cattolica, epperciò fuori della barca, che conduce al porto celeste. Per altra parte vi è da rallegrarsi grandemente nel riflettere, che noi abbiamo la bella fortuna di trovarci dentro. Quale riconoscenza dobbiamo perciò al Signore per questo singolare benefizio, che ci fece senza alcun nostro merito! Ma il miglior modo di dimostrare la nostra gratitudine a Dio per tanto bene è quello di amare, rispettare, obbedire questa Chiesa istessa, di cui siamo figliuoli. Ed in ciò possiamo noi gloriarci di compiere esattamente il volere di Gesù Cristo, espresso in quelle parole: si autem Eccclesiam non audierit sit tibi sicut ethnicus et publicanus: Chi non ascolta la Chiesa, abbilo come per gentile e per pubblicano (Matt. XVIII, 19). Miei cari, riflettiamo bene, che la Chiesa, quando ci fa dei comandi, ce li fa con autorità, perché Gesù Cristo disse agli Apostoli, e nella loro persona a tutti i loro successori, il Papa ed i Vescovi, queste parole: « Ogni potere mi fu dato in cielo ed in terra: come il Padre mio ha inviato me, così Io mando voi. Andate adunque, ammaestrate tutte le nazioni, insegnando loro ad osservare i precetti, che Io ho dato a voi. Tutto ciò che voi scioglierete sulla terra, sarà sciolto in cielo, e tutto ciò che avrete legato sulla terra, sarà legato in cielo. Chi ascolta voi, ascolta me: chi disprezza voi, disprezza me »; e che perciò i comandamenti della Chiesa sono veri comandamenti, cioè atti di autorità, coi quali essa può e vuole con una legittimità perfetta legare la nostra coscienza, pel nostro vero bene, per la nostra eterna salute. Guai adunque a noi, se non la ubbidiamo nei suoi precetti! Sarà lo stesso come se non avessimo obbedito a Dio. Pur troppo vi hanno tanti Cristiani, che guardano alle leggi della Chiesa senza alcuna stima e se le mettono sotto i piedi con una leggerezza e superbia incredibile. – La Chiesa ad esempio comanda di lasciare assolutamente la lettura di certi libri e di certi giornali da lei proibiti, perché contrari alla fede ed ai costumi, o almeno pericolosi, e vi ha chi dice: Perché?… Come c’entra la Chiesa in ciò? Vuol dunque impedire di istruirci? E poi… non sono mica più un fanciullo! Mi sento abbastanza fermo nella mia fede e non temo affatto per essa cotali letture. E  intanto superbamente disobbedisce. La Chiesa per ispirito di penitenza saggiamente ci impone il digiuno in certi giorni dell’anno, e il magro in qualche dì della settimana, e madre benigna ed amorosa ciò fa, massime ai giorni nostri, con una remissione direi più unica che rara. Eppure quanti Cristiani vi sono, che scrollando la testa a questi santi precetti esclamano: Che magro? Che digiuno? Non è ciò che entra nella bocca, che macchia l’uomo. E superbamente disobbediscono. La Chiesa del tutto sollecita che la grazia del Signore adorni le anime nostre e la sua pace sia con noi, ci ordina di recarci almeno una volta all’anno ai piedi di un sacerdote per fare la confessione delle nostre colpe. Ma a questo precetto quanti non vi sono, che vanno dicendo: Che confessarci ? Noi ci confessiamo a Dio. E poi se c’è proprio questo dovere, lo soddisferemo al punto di morte. E superbamente disobbediscono anch’essi. Ora costoro che con sì futili e sì superbi pretesti si esimono dall’osservanza dei precetti ecclesiastici si potranno dire Cristiani? Impossibile. Si potranno ben dire protestanti, eretici, scismatici, ma Cristiani no. È Gesù Cristo stesso, che lo dice: Si autem ecclesiam non audierit sit tibi sicut ethnicus et publicanus (Matt. XVIII, 19). Chi non ascolta la Chiesa abbilo come per gentile e per pubblicano. Oh quanto importa perciò di fare in proposito un po’ di esame di coscienza per vedere se caso mai alcuno di noi appartenesse al numero di questi falsi Cristiani. Quanto importa che prendiamo la ferma risoluzione di volere mai sempre essere obbedienti ai comandi della Chiesa! Sì, o miei cari, obbediamo sempre umilmente, prontamente, esattamente, alla Chiesa Cattolica, al suo Capo augusto il Romano Pontefice, a’ suoi santi Pastori, i Vescovi; ed obbediamo in tutto, fiduciosi che obbedendo alla Chiesa obbediamo a Dio. Che se accadesse di parlare o udire altri a parlare della Chiesa diportiamoci come rispettosi figli verso amorosa madre: non diciamo mai cosa alcuna contro a quanto la Chiesa comanda o proibisce: e per quanto sta in noi parliamone sempre bene ed opponiamoci coraggiosamente a chiunque cercasse di parlarne male. Lo Spirito Santo ci assicura, che chi onora sua madre, è come chi fa tesori (Eccli. III, 5). E ciò sarà tanto più vero per colui che onora la sua madre secondo lo spirito, la Chiesa.

2. Ma Gesù Cristo non fu pago di fondare la Chiesa, Egli per di più le ha promessa e comunicata tale una forza, per cui non verrà meno giammai sino alla consumazione dei secoli. Tu sei Pietro, disse al Principe degli Apostoli, e sopra di questa pietra fabbricherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa giammai: et porta inferi non prævalebunt adversus eam (S. Matt. XVI, 18). Io ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede: rogavi prò te, ut non deficiat fides tua (S. Luc. XXII, 31). E a tutti gli Apostoli disse: Ecco che io sarò con voi sino alla consumazione dei secoli: Ecce ego vobiscum sani usque ad consummationem sæculi (S. Matt. XXVIII, 20). Così ha parlato Gesù Cristo alla Chiesa nella persona degli Apostoli, e Gesù Cristo ha fatto, fa e farà onore alla sua parola sino alla fine del mondo. Come la testa tiene il primo luogo nel corpo umano e da lei l’anima dà vita e forza a tutto il corpo, così Gesù Cristo capo invisibile di tutto il corpo mistico, che è la Chiesa, risiedendone sempre in Lui lo spirito e l’anima, a tutto il corpo mantiene la vita e la forza. – Ma sebbene per la promessa, che fedelmente Gesù Cristo mantiene, la Chiesa Cattolica non debba mai temere, o tanto o poco, di venir meno, è certo tuttavia, che la Chiesa va soggetta alle persecuzioni, è destinata anzi alle persecuzioni, e le persecuzioni formano uno de’ suoi essenziali e divini caratteri. Lo stesso Gesù Cristo come predisse ed assicurò alla Chiesa la indefettibilità, così le predisse e assicurò le persecuzioni. Se hanno perseguitato me, disse agli Apostoli, perseguiteranno anche voi: Si me persecuti sunt, et vos persequentur (Giov. XV, 20). E difatti da diciannove secoli, quanti ne conta la Chiesa Cattolica, mentre nel suo cammino e nel suo stabilirsi attraverso il mondo da molti è stata felicemente accolta, amata, obbedita, da molti altri invece è stata derisa, odiata, perseguitata a morte. E così sarà con momenti più o meno lunghi di tregua e di pace sino alla fine del mondo. E ciò perché mai? senza dubbio per moltissime ragioni, alcune delle quali non comprenderemo che in cielo. Ma tra quelle, che anche qui in terra possiamo rilevare, questa tiene un principalissimo posto: volere, cioè, il Signore Nostro Gesù Cristo, che non dimentichiamo giammai essere Egli colui, dal quale solo viene la vita e la forza della Chiesa, e dovere noi perciò incessantemente ricorrere a Lui per aiuto e protezione, affinché esaudendo le nostre preghiere e concedendo alla Chiesa l’aiuto e la protezione invocata, si renda ognor più manifesta la sua potenza e la sua gloria. È ciò che ci ha fatto chiaramente intendere Gesù Cristo stesso nel Vangelo di oggi. Poiché dopo d’essere con gli Apostoli montato sopra quella nave sul lago di Genezareth, e a poppa di quella nave dormendo, si suscitò una gran tempesta, talmente che la barca era coperta dalle onde e sembrava da un momento all’altro doversi capovolgere e calare a fondo. Quindi accostatisi a Lui i suoi discepoli, lo svegliarono mandando un grido di spavento e di invocazione, dicendo: Signore, salvaci, periamo: Domine, salva nos, perimus. Or bene, bellamente osserva Origene, quantunque Gesù Cristo dormisse allora col corpo, vegliava con la sua divinità, perché concitava il mare e conturbava gli Apostoli, affine di manifestare la sua potenza: Dormiébat corpore, sed vigilabat Deitate, quia concitdbat mare, conturbabat Apostolos, suam potentiam ostensurus. E poiché, come dice S. Agostino, quella nave, in cui Gesù Cristo si trovava cogli Apostoli, in tale circostanza raffigurava la Chiesa Cattolica, perciò ben possiamo dedurre che l’intendimento, che ebbe allora nel permettere la tempesta, lo abbia tuttora nel permettere le persecuzioni. Egli è certo ad ogni modo che la Chiesa ha mai sempre riconosciuto il bisogno ed il dovere di ricorrere a Dio per aiuto e protezione in tutti quanti i tempi, ma allora massimamente che trovavasi stretta dalla tribolazione; epperò sempre, benché con molteplici forme, Ella ha fatto salire al cielo questo grido: Salva nos, perimus. Signore, vieni in nostro aiuto, in nostra protezione, affinché non abbiamo a perderci. Ora, o miei cari, se noi amiamo davvero la Chiesa, adesso più che mai dobbiamo con lei e per lei rivolgere a Dio lo nostre ardenti preghiere, perché se mai furono tempi calamitosi per la Chiesa di Gesù Cristo, se mai volsero giorni così infausti alla nostra santissima fede, sono propriamente i giorni ed i tempi nostri. Oggi, più che mai, si muove guerra tremenda contro i santi altari; oggi, più che mai, si assaltano i dogmi, i misteri, la dottrina e la morale di Gesù Cristo; oggi, più che mai, si vede l’empietà sfidare il cielo e far disperate prove onde sbandire dalle menti umane persino l’idea di Dio. È ritornato proprio oggidì il tempo in cui fremuerunt gentes.., astiterunt reges terræ, et principes convellerunt in unum adversus Dominun et adversus Christian eius (Salm. II). Popoli e re, grandi e piccoli, tutti l’hanno con Cristo e con la sua Chiesa. I falsi dotti con la penna, la stampa irreligiosa coi fogli, il popolazzo con le urla e con le maledizioni, i governi con la forza brutale assalgono ad un tempo e da ogni parte questa barca costrutta da Dio, e già quasi si applaudono d’averla affondata. Si snaturano le intenzioni della Chiesa, le si attribuiscono umane passioni ed ingorde voglie, e sotto questi futili pretesti, i quali alle masse poco istruite, segnatamente in fatto di Religione, presentano sempre qualche cosa di specioso, le si rimprovera d’aver degenerato dalla primitiva perfezione, la incolpano di idee retrograde, di ostinazione a non volersi associare al progresso dei tempi, si rovesciano le sue istituzioni, si perseguitano le sue corporazioni religiose, si rapiscono violentemente i suoi beni, si atterrano le sue opere pie, si assediano e si spiano i suoi ministri per coglierli in fallo, ed al caso si calunniano, si sparge il ridicolo sopra le sue più auguste cerimonie, si beffano i più devoti e fedeli suoi figli. E intanto l’incredulità e l’indifferenza religiosa si impadroniscono dei cuori, il vizio passeggia a fronte alta da per tutto, i popoli, la gioventù si guastano e si corrompono spaventosamente, e così i membri della Chiesa di Gesù Cristo corrono i più gravi pericoli della eterna perdizione. Or bene, quantunque la Chiesa neppure ai dì nostri abbia a temere di se stessa, né con una lotta sì accanita abbia a cadere, a disfarsi, a perire, pur tuttavia ella ha bisogno di aiuto e di protezione celeste. Noi, da veri suoi figli, imploriamola da Dio nelle nostre preghiere per lei. Non dimentichiamo che questo è pure un nostro importantissimo dovere; epperò compiamolo volentieri e con impegno, ed allora avverrà anche tra di noi, quel che avvenne sul lago di Genezareth.

3. Poiché il Santo Vangelo prosegue a dirci che al grido degli Apostoli, Gesù disse loro: Perché temete, o uomini di poca fede? E allora rizzatosi, comandò ai venti e al mare, e si fe’ gran bonaccia. Onde la gente ne restò ammirata, e dicevano: Chi è costui, a cui ubbidiscono i venti e il mare? Sì, o miei cari, quello che allora avvenne sul lago di Genezareth per virtù onnipotente di Gesù Cristo, è quello che è avvenuto ed avverrà in tutto il corso dei secoli. E qui è impossibile narrarvi, anco a brevi tratti, tutti i fasti della Chiesa, i pericoli tutti e le tempeste ch’ella ha superato per l’intervento meraviglioso del suo Capo e nocchiero celeste Gesù Cristo. Ricordate, o miei cari, i flutti di sangue, le persecuzioni dei primi secoli, quei flutti furibondi che agitavano questa barca e sembravano dover inghiottirla nel sangue dei suoi figli. Allora Gesù Cristo parve dormire per ben tre secoli. Ma si destava un giorno, e nella sua Chiesa entrava con Costantino il trionfo, e si stabiliva la tranquillità più perfetta: Facto, est tranquillitas magna. Ricordate come scatenavasi poscia su questa barca il vento dell’eresia, e veniva per fracassarla e sommergerla nell’abisso, dal quale pareva non dovesse giammai risorgere. Ma allora apparvero i grandi dottori, e la verità di Gesù Cristo che si risvegliò al grido della Chiesa, alle grida de’ suoi Pontefici, ristabilì ben tosto la tranquillità: Et facta est tranquillitas magna. –Ricordate come vennero in seguito gli scismi a lacerare il seno della Chiesa, ed a turbarne il regime. Ma Gesù Cristo si è levato, e la piò perfetta tranquillità è rinata: Et facta tranquillitas magna. – Ecco poi gli scandali dell’incredulità e dell’orgoglio, per cui la fede in Gesù Cristo, la verità di Dio, la purezza dei costumi, la Chiesa stessa, tutto pareva distrutto. Ma Gesù Cristo con la sua voce comanda ai venti e al mare, e si ristabilì la più perfetta tranquillità: Et facta est tranquillitas magna. – Così la calma si ristabilirà anche ai tempi nostri, perché Gesù Cristo non verrà meno al suo costume. Tuttavia non lasciamoci addormentare dalla soverchia fiducia che tutto debba fare Iddio, e guardiamoci bene dal credere, che una tale fiducia ci comandi, od anche solo ci permetta l’inazione. Senza dubbio Iddio ha contato il tempo anche ai nemici della sua Chiesa, ma non è necessario lasciarli imbaldanzire come loro piace. È necessario anzi combatterli, e combatterli con tutte le nostre forze intellettuali, morali e materiali. È necessario combatterli col rivendicare costantemente i sacrosanti diritti, che noi abbiamo di manifestare anche pubblicamente il nostro amore alla Chiesa, combatterli con la manifestazione coraggiosa della nostra fede, combatterli con l’aiutare efficacemente la buona stampa, il movimento cattolico, le buone associazioni, e tutto ciò che mira a distruggere il regno di satana, combatterli col mostrare quanto più è possibile le arti inique, di cui essi si valgono, combatterli segnatamente con l’abbracciare la vera democrazia cristiana insegnata e voluta dall’Autorità della Chiesa, con l’inchinarsi pieni di compassione e di amore verso il popolo e verso la gioventù affine di illuminarli, indirizzarli, sostenerli nella via diritta dell’amore di Dio e della Chiesa istessa. Allora sì, combattendo ancor noi contro il furore delle tempeste, che irrompono contro la Chiesa, potremo ritenere per certo che il nostro Divin Capitano Gesù Cristo non tarderà a comandare un’altra volta al vento ed al mare delle mondane persecuzioni affinché cessino, e a ridonare alla Chiesa una grande tranquillità.

Altra omelia:

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la Mansuetudine.

Jesus imperavit ventis, et mari, ct facta est tranquillitas magna. Matth. VIII.

Quanto è dolce, Fratelli miei, di vedere la calma succedere ad una tempesta, in cui veduti ci siamo in pericolo di perdere la vita ! tale fu la felice circostanza, in cui si trovarono gli Apostoli sul mare di Tiberiade, dove una violenta procella, che sollevata vi si era, aveagli alle porte della morte condotti. Con qual piacere, cessare non videro i venti e la burrasca pel comando di Colui, al quali tutti ubbidiscono gli elementi! Tale è altresì la fortunata situazione di un’anima, che è stata lo scherno della morte eterna, e che dopo averne scosso il giogo, le dolcezze gusta, e la serenità che la virtù accompagnano. Volete voi farne, Fratelli miei, la felice esperienza? Domate le vostre passioni, sottomettetele all’impero della virtù, e gusterete la pace dell’anima. Or una delle virtù le più proprie a procurarvi questa pace, è senza contradizione la virtù della mansuetudine; poiché quanto l’ira intorbida il riposo dell’anima, altrettanto la mansuetudine conserva la serenità. Se lo stato di un uomo collerico rassomiglia ad un mare agitato dai venti, dove trovasi uno esposto ad ogni momento a far naufragio, dire si può che quello di un’anima, in cui regna la mansuetudine, simile è ad un mare tranquillo, ove si naviga in sicurezza, e con un’intiera fiducia di giungere felicemente al porto: “facta est tranquillitas magna”. Così dopo avervi fatto conoscere i disordini dell’ira, egli è mio dovere di dimostrarvi i vantaggi della mansuetudine, che n’è il rimedio. Infatti, per guarire le malattie dell’anima, usarne bi sogna come si fa per le malattie del corpo: per risanare queste, ci serviamo dei rimedi che loro sono contrari; rinfreschiamo quando evvi troppo di calore, riscaldiamo quando v’è troppo di raffreddamento. L’ira è un fuoco che fa dei gran danni in un’anima; convien dunque opporgli la mansuetudine, come una rugiada, che ne tempra gli ardori, Quali sono i vantaggi di questa virtù? Primo punto. Quale n’è la pratica? Secondo punto.

I. PUNTO. Dire si può della mansuetudine ciò, che Salomone disse della sapienza, ch’ella ci mette in possesso di tutti i beni, che render ci possono felici in questo mondo: venerunt mihi omnia pariter cum illa. La mansuetudine ci procura la benevolenza di Dio, l’amicizia del prossimo, e ci rende padroni di noi medesimi. Tali sono i vantaggi, che render ci devono stimabile questa virtù. La mansuetudine ci rende piacevoli a Dio; fu per questo mezzo che Mosè guada ò la sua benevolenza. Fu da Dio amato, la Scrittura, perché era il più mansueto tra gli uomini: dilectus Deo (Sap. IX). Con la mansuetudine noi possediamo il cuore di Dio, come un figliuolo possiede quello di suo padre. Beati, dice il Salvatore, sono i pacifici, perchè saranno chiamati i figliuoli di Dio: beati pacifici, quoniam filii Dei vocabuntur (Matth. V). Infatti, quanto il Signore abborrisce un’anima, in cui regna la dissensione e la discordia, altrettanto si compiace di fare la sua abitazione in quella dove regna la pace; ne fa le sue delizie, vi sparge i suoi più dolci favori: mansuetis dabit gratiam (Prov. III). La mansuetudine, dice il Crisostomo, è una virtù, che dà all’uomo un carattere di somiglianza con Dio, e che molto lo avvicina alla Divinità. Imperciocchè l’idea la più consolante che formar ci possiamo di Dio, e che c’ispira più di confidenza, si è quella della pazienza e della mansuetudine, ch’Egli esercita verso gli uomini. Non è forse sorprendente, infatti, che un Dio sì onnipotente, e sì giusto, com’Egli è, soffra con tanta pazienza gli affronti d’una infinità di peccatori, che precipitar potrebbe nel profondo degli abissi? Che non solamente li soffra, ma che li ricerchi,… che loro perdoni, quando a Lui ritornano: che li tratti con dolcezza: che ricolmi di benefici coloro che disprezzato l’hanno, offeso, ed oltraggiato? Con questi tratti di dolcezza, e di bontà verso gli uomini peccatori, fa particolarmente conoscere la sua onnipotenza, come ce lo annunzia la Chiesa: Deus qui omnipotentiam tuam parcendo, et miserando manifestas. E da ciò che ne segue, Fratelli miei? Che l’uomo, il quale è mansueto verso i suoi fratelli, e perdona di buon cuore le ingiurie, diventa per quanto può esserlo, simile a Dio; è sulla terra un’immagine vivente della Divinità; e per conseguenza l’oggetto delle compiacenze di Dio, il quale si riconosce in quest’anima, e si comunica ad essa con l’abbondanza delle sue grazie. Sono parimente le anime mansuete, e pacifiche, dice il Profeta, che Dio rende cura di condurre, e a cui insegna strade sicure, che bisogna tenere: docebit mites vias suas. Vuole ben volentieri servir loro di guida, e sotto la sua condotta non faranno esse alcun falso passo. Così dire si può, che la mansuetudine è uno dei segni i più certi di nostra predestinazione. Ce lo assicura Gesù Cristo medesimo, il quale apertamente ci dice, che coloro, che sono mansueti, sono beati, perché possederanno la terra: beati mites, quoniam ipsi possidebunt terram. (Matth. V.). – Or qual sarà questa terra, che sarà il retaggio degli uomini pieni di mansuetudine? Non è già, Fratelli miei, questa terra dai mortali abitata, la quale non è che un luogo di esilio, una valle di lagrime: questa terra è occupata dai peccatori egualmente che dai giusti: noi vediamo ancora, che i peccatori sono talvolta molto meglio favoriti nell’abbondanza de’ suoi beni, che i servi di Dio. La terra dunque, che è promessa a quelli che sono mansueti, è la felice terra dei viventi, dove più non si muore, da dove la tristezza, le malattie, i dolori sono interamente sbanditi; si è questo soggiorno di pace, in cui gli eletti di Dio gusteranno delizie ineffabili, e godranno l’abbondanza di tutti i beni: mansueti hæreditabunt terram, et delectabantur in multitudine pacis. (Psal. XXXVI.). Per farvi intendere questa verità, vediamo il gran segno di predestinazione, che ci dà l’Apostolo S. Paolo nella sua lettera ai Romani. Coloro, dice egli, saranno predestinati, che il Padre celeste ritroverà conforme all’immagine di suo Figliuolo: quos prædestinavit conformes fieri imaginis filii sui. (Rom. VIII). E non è forse stata la mansuetudine il carattere particolare del figliuolo di Dio? Non è forse stata una delle sue virtù le più gradite ? Con qual dolcezza trattò egli i peccatori? Ne rigettò mai alcuno? Qual fu la sua pazienza nel soffrire le rozzezze de’ suoi Apostoli? Come rintuzzò lo zelo amaro dei due tra loro, che volevano far scendere il fuoco dal cielo sui popoli ribelli? Niun altra difesa ha impiegato contro le violenze e le persecuzioni de’ suoi nimici: non è comparso innanzi a loro, secondo l’espressione di un Profeta, che come un agnello, il quale tosare si lascia senza dolersi: sicut agnum coram tondente se obmutescet. (Isai. V.). Mirate questo divin Salvatore nella sua passione, carico d’obbrobri, oppresso dalle ingiurie e dai cattivi trattamenti: come si difendeva? Non diceva neppur una parola per lamentarsi: Jesus autem tacebat. (Matth. XXVI). Ah quanto è eloquente questo silenzio di Gesù Cristo per ispirarci la mansuetudine, e la pazienza nel soffrir le ingiurie che ci dicono, i cattivi trattamenti che ci fanno! Tali sono l’arme, che ci ha messe in mano per difenderci dai nostri nemici, e per riportare la vittoria, che deve assicurare la nostra corona. Niun’altra ne diede ai suoi discepoli, allorchè gl’inviò a predicare il suo Vangelo. Io vi mando, loro disse, come agnelli in mezzo dei lupi: conservate sempre la semplicità della colomba, insieme con la prudenza del serpente. Gli Apostoli ancora renduti si sono più commendabili, ed hanno sommesse più nazioni all’impero di Gesù Cristo con la mansuetudine, e con la pazienza nelle afflizioni, che con i miracoli, che hanno operato, dice S. Gerolamo. La mansuetudine deve far dunque il carattere del Cristiano, giacché ha fatto quello di Gesù Cristo, e dei Santi: ma facendo il carattere del Cristiano essa è la sorgente della sua felicità, poiché gli guadagna il cuor di Dio, lo rende figliuol di Dio, e per conseguenza erede del suo regno, ed è uno dei segni i più certi della sua predestinazione. Tali sono i vantaggi, che ci procura la mansuetudine dal canto di Dio; grandi ancora ce ne procura essa dal canto del prossimo, di cui altresì il cuore guadagna, e l’amicizia. – Possiamo noi farci ubbidire con l’autorità; possiamo convincer lo spirito con la forza delle ragioni; ma non v’è che la mansuetudine, che guadagnar possa i cuori; alcuno non avvi, che non ceda alle sue attrattive; essa ha la virtù, dice lo Spirito Santo, di farsi degli amici, e di raddolcire anche i suoi nemici: multiplicat amicos, mitigat inimicos. (Eccl. VI.). Ed invero, chi astenere si può di amare un uomo mansueto e buono, il quale si fa un piacere di obbligar tutto il mondo, ed è di un carattere sempre eguale? Quanto si fugge la compagnia di un uomo collerico, altrettanto si ricerca e si ama quella dei mansueti. La loro conversazione incanta; si prova un gran diletto nel trattenersi con essi, perché si sa che di nulla si offendono, e facilmente perdonano i mancamenti, cui è l’umanità soggetta. Siccome portano sempre il miele nella loro bocca, ben lungi di disputar con calore, cedono anche con compiacenza i loro diritti i più legittimi: siccome sono sempre cortesi, e pronti a far piacere, ad essi ciascuno si indirizza con confidenza, persuaso che verrà graziosamente accolto. Se accordar non possono quanto loro si domanda, accompagnano i loro rifiuti con modi sì obbliganti, che se ne ritorna quegli molto soddisfatto della loro buona volontà. E come mai, ripeto, non amare persone di simil carattere? Oh quanto sarebbe mai tranquilla, e piacevole la società degli uomini, se composta non fosse che di persone mansuete e placide! Parlar non si sentirebbe né di contrasti, né di liti, né di rancore, né di vendetta: diverrebbe la terra simile al cielo, ove i cuori sono talmente uniti coi legami della carità, che tutti hanno i medesimi sentimenti, e gli affetti medesimi. Ma quanto rari sono questi uomini. Ed oh? come dovremmo loro unirci, quando li conosciamo! Mentre niente havvi di più prezioso nell’umana società, che un uomo ripieno di mansuetudine. Questa virtù ha non solo il potere di farci degli amici, ma ancora di riconciliare i nemici: mitigat inimicos. Essa trionfa dei cuori i più ribelli; non evvi uomo alcuno così feroce ch’ella non renda affabile. L’ira la più violenta, dice lo Spi rito Santo, resister non può ad una parola mansueta e cortese. Ne chiamo quì in testimonio l’esperienza, Fratelli miei; quante volte veduta non avete la vendetta la più pertinace disarmata dalla mansuetudine? E certamente in tal circostanza, che cosa risoluto non avevate ? Formati voi avevate neri disegni contro quella persona, che vi aveva disgustati; ma ben tosto voi siete stati appagati: le scuse che vi ha fatte, i modi cortesi, che ha per voi avuto, e i servigi, che vi ha renduti, tutto questo ha cangiato le vostre cattive disposizioni, e siete stati forzati di lodare la sua placidezza, ed il suo buon naturale: prova certissima, che nulla resiste alla mansuetudine. Non solamente questa virtù calma i nostri nemici, e con essi ci riconcilia, ma ancora quelli pacifica, coloro che sono tra loro divisi. Un uomo mansueto, dice il Crisostomo, sa talmente maneggiar gli spiriti, insinuarsi nei cuori, che discaccia ogni amarezza, che un insulto, o un cattivo servigio può avervi cagionata. Ora sono motivi di Religione, che propone per muovere a perdonare: ora sono scuse, di cui si serve, per sminuire il mancamento di colui che ha offeso; senza prendere alcun partito, dà a ciascheduno sua ragione, e prende sì bene le sue misure, che viene a capo di riunire i cuori divisi. Di qual vantaggio non è questo angelo di pace nell’umana società? Egli è un vero Apostolo, che procura la gloria di Dio, e degli uomini: dilectus Deo, et hominibus. Or se è padrone del cuor degli altri, lo è ancora di più di se stesso; terzo vantaggio della virtù della mansuetudine. Se l’ira trasporta l’uomo fuori di se medesimo, di modo che più non conosce se stesso, né sa più che cosa faccia; la mansuetudine all’opposto ritiene l’uomo in se stesso, lo rende padrone di tutti i movimenti del suo cuore; vede come in un acqua limpida, e chiara tutto ciò che avviene dentro di se medesimo; la minima procella, che vi si sollevi, sa immediatamente calmarla, perché la ragione, che gli serve da pilota, conduce il timone come vuole, e lo fa godere di una perfetta tranquillità. Tale è anche in questa vita medesima la ricompensa della mansuetudine, dissimile in ciò da molte altre virtù, le quali non avranno la loro ricompensa che nell’altro mondo, come la povertà, la pazienza, la mortificazione, le quali nulla hanno che di penoso in questo mondo; ma la mansuetudine porta seco la sua ricompensa; ella procura un riposo, che fa sino in questa vita un paradiso anticipato. Tanto le promette Gesù Cristo nel suo Vangelo: Imparate da me che sono mansueto, e ritroverete in questa mansuetudine il riposo delle anime vostre; et invenietis requiem animabus vestris (Matth. XI.), Ah, questa pace interiore, che accompagna la mansuetudine, quanti vantaggi procura all’uomo! Ella lo rende superiore ad ogni sventura, e a tutte le persecuzioni dei suoi nemici, agli affronti, ai dispregi, cui gli stessi più giusti sono esposti; gli si tolgano i beni con ingiustizie, gli si oscuri la sua reputazione con calunnie; egli è sempre eguale, sempre contento, perché possiede la pace di Dio, la quale supera tutto quanto dire si può, o pensare: pax Dei exsuperat omnem sensum (Philipp. IV.). Egli è a coperto di tutte le inquietudini, di tutte le agitazioni, di tutti gli affanni, che divorano, e consumano inutilmente l’uomo collerico. Può veramente esser sensibile ai mali, ma la sua virtù, e la sua religione soffocano ben presto i sentimenti della natura, e gli fanno trovare in se stesso un bene che lo risarcisce al centuplo di tutti i mali che può soffrire; un bene tanto più sodo, quanto che alcuno non può rapirglielo, e che da lui dipende di sempre conservare con la grazia di Dio, la quale non gli manca giammai. Questo vantaggio solo della mansuetudine bastar dovrebbe per rendercela pregevole. Imperciocchè nulla v’è di più soave, che di esser padrone di se stesso: ma nel medesimo tempo nulla di più grande, mentre è più glorioso, dice lo Spirito Santo, il trionfare di se stesso, che il vincere battaglie, ed il soggiogare città, e provincie. Volete voi farne, Fratelli miei, la felice esperienza? Apprendete qual sia la pratica della mansuetudine.

II. Punto. La mansuetudine non è soltanto l’effetto di un temperamento tranquillo; può bensì contribuire in qualche cosa a questa virtù, ma non ne fa il merito. Altro è l’essere mansueto per temperamento, altro è l’esserlo per virtù. Quelli, che sono mansueti per temperamento, hanno per verità minori vittorie da riportare per donar l’ira, che coloro, i quali sono di un temperamento vivo, e facile ad adirarsi. Ma questa placidezza può qualche volta degenerare in viltà, se non è sostenuta ed animata dalla forza, e regolata dalla prudenza, che è l’anima delle virtù. La mansuetudine non consiste nemmeno in alcune maniere oneste, in alcune parole affettate; possono esse esserne l’effetto, ma non ne sono un segno certo: un cuore inasprito, ed ulcerato si nasconde spesse fiate sotto le apparenze della civiltà, e ben molti fanno carezze a quelli, che l’oggetto sono del loro rancore, e della loro avversione. – La mansuetudine risiede dunque principalmente nel cuore; ed il proprio di questa virtù, dice S. Gioanni Crisostomo, è di reprimere, o di moderare in noi lo sdegno, e di cedere all’altrui: ecco in due parole il suo carattere, e la sua pratica. Se l’ira, che in noi si solleva, è biasimevole, la mansuetudine ne reprime i movimenti; se l’ira è lodevole, ed onesta, la mansuetudine la modera secondo le regole della prudenza, e della carità. Questa virtù non consiste dunque nell’insensibilità al male che ci accade; mentre aver si può della placidezza, e risentir vivamente il dolore per un’ingiuria che ci si dica, per un disprezzo che ci si faccia. La mansuetudine non è nemmeno incompatibile con un’ira giusta e ragionevole, che deve reprimere il vizio, e sostenere gl’interessi di Dio. Ma il proprio della mansuetudine, come dissi, è di reprimere in noi l’ira che merita biasimo, e di moderare quella che è degna di lode. Sì, Fratelli miei, se voi siete mansueti, avrete attenzione di reprimere ogni moto di collera che vi porti a vendicarvi, a nuocere al vostro prossimo. Voi soffocherete eziandio sino al minimo sentimento di amarezza, e di avversione, che potrebbe far nascere in voi un’ingiuria ricevuta, un cattivo servigio, che renduto vi avessero. Per la qual cosa esortava il grande Apostolo i primi Cristiani, a non avere tra essi niuna amarezza, niuno sdegno, nessun dispetto, nessun contrasto; ma abbiate, loro diceva, gli uni per gli altri della bontà, della compassione per perdonarvi vicendevolmente, come Dio perdonato vi ha in Gesù Cristo: estote invicem benigni, misericordes, donantes vobis invicem, sicut Deus in Christo donavit vobis. – Guardatevi duuque, se qualcheduno vi disgusta, di cercare i mezzi di rendergli la pariglia. Se v’han fatto qualche torto nei vostri beni, nel vostro onore, e che non possiate avere soddisfazione che per giustizia, fate in modo, che l’ira non abbia mai parte in questa riparazione: non proseguiate i vostri diritti con pregiudizio della carità; consultatevi prima d’intraprendere cosa alcuna, affinché la passione non conduca vostri passi, ma che vi presieda la sola ragione: rammentatevi sempre, che v’è maggior gloria, maggior profitto, maggior tranquillità nel perdonare, che nel farsi rendere giustizia; guardatevi soprattutto di render ingiuria per ingiuria; non è riparar il suo onore il macchiare quello del prossimo; ed affinché la vostra mansuetudine riporti una vittoria più compiuta sopra l’ira, non facciate neppur conoscere ad alcuno il dispiacere che vi è stato fatto, perché ritrovar potreste qualche spirito turbolento, come avvene purtroppo, che v’inasprirebbe di più, e vi impegnerebbe a prender soddisfazione del vostro nimico; in una parola, v’accada ciò che si vuole di dispiacevole dalla parte degli uomini, innalzatevi al di sopra di una natura sensibile sempre nimica di quanto le dispiace. Non siamo, è vero, padroni dei primi movimenti, che si sollevano nella nostr’anima; ma non è già il senso che ci rende colpevoli, è il consenti mento al male: tocca alla mansuetudine di prevenirlo, d’impedirlo, e di farci possedere la nostra anima in pace in mezzo delle più grandi tribolazioni: in patientia vestra possidebitis animas vestras (Luc. XXI). Ho detto in secondo luogo, che la mansuetudine deve moderar l’ira lodevole, ed il giusto sdegno, che risentire dobbiamo dei mancamenti altrui. Imperciocchè lungi da noi, Fratelli miei, una rea compiacenza, che non è sensibile alle offese di Dio, che tutto tollera, che non corregge il peccatore per tema di dargli fastidio, e d’incorrere nella sua disgrazia. Se cercassi di piacere agli uomini, diceva l’Apostolo, io non sarei più servo di Gesù Cristo: si hominibus placerem, Christi servus non essem (Gal. 1). La mansuetudine deve dunque essere accompagnata dalla fermezza per opporsi al vizio, per riformare gli abusi, massime in chi ha l’autorità, ed incaricato si trova per dovere di procurare la salute del prossimo. Quest’ira è sì necessaria, dice il Crisostomo, che senza di lei trionferebbe il vizio, e la virtù sarebbe oppressa. Mosè, benché il più mansueto degli uomini, si mise in collera contro gli adoratori del vitello d’oro, ed uccider ne fece venti mila. Gesù Cristo, l’agnello pieno di mansuetudine, si mise anche in collera contro i profanatori del tempio. Possiamo dunque adirarci senza peccare, come dice il Profeta, quando si tratta di sostenere gl’interessi di Dio:  irascimini, et nolite peccare (Psal. IV). Ma quest’ira dee esser moderata dalla mansuetudine. Essa si sforza di distruggere il vizio, senza voler distruggere il peccatore: riprender si deve il peccatore con fermezza, ma la mansuetudine ha da temperare l’amarezza delle riprensioni: in spiritu lenitatis (Gal. VI). Bisogna mescolare l’olio col vino per risanare le piaghe dell’infermo, facendogli vedere, che è la carità, e non la passione che ci spinge: caritas urget nos (2 Cor. V). Lungi dunque da noi, Fratelli miei, quei trasporti furiosi, quelle parole aspre, ed ingiuriose, quella voce minaccevole, quei modi fieri ed orgogliosi, quelle imprecazioni, quei cattivi trattamenti, i quali non fanno, che irritar il male, invece di guarirlo. Molti, che si lusingano di aver dello zelo, non hanno di severità che per gli altri, e d’indulgenza per se medesimi. Il vero zelo non inspira che rigore per se stesso e dolcezza per gli altri, ama meglio mancare per troppa bontà, che per troppo rigore. Finalmente la mansuetudine ceder ci fa all’altrui ira, e ci induce a prendere le convenienti misure per calmarla. Ella è cosa facile di esser mansueto e cortese con quelli, che lo sono per noi, di avere pazienza quando alcuno non ci reca fastidio. Ma non è già facile di cedere all’altrui ira, di essere sempre in pace, come il Reale Profeta, con quelli che non amano che la guerra: cum his qui oderunt pacem, eram pacificus (Psal. CXIX). Si ricerca per questo una mansuetudine universale e costante; universale per soffrire in ogni tempo, ed in ogni sorta di persone: una mansuetudine costante per non, disanimarsi dalle dure prove, cui ella è esposta. Tale nondimeno deve essere la mansuetudine cristiana; cedendo piuttosto che combattendo guadagna essa gli spiriti. Perciocché, se l’ira è un fuoco, che cerca distruggere tutto quanto gli viene imposto, invano per estinguerlo si vorrebbe opporgli un altro fuoco; non si farebbe che vieppiù accenderlo. Niente all’opposto più capace di che la mansuetudine, la quale, al dire della Scrittura, è una soave rugiada, che tempera gli ardori dell’ira. Ecco, Cristiani, l’arme di cui servir vi dovete per trionfare dell’altrui collera. – Voi a soffrire avete da qualunque sorta di persone, congiunti, vicini, amici, nemici, i quali talvolta si offendono di quanto avete detto, o fatto senza disegno di recare loro dispiacere; voi avete a vivere con persone bizzarre, turbolente, altere, che vi cercano contrasti ad ogni istante; con ostinati che intender non vogliono ragione alcuna; con violenti, che essere non possono dalle affabili maniere raddolciti, cui tutto il bene che si fa non serve che a renderli più cattivi. Come dovete voi regolarvi con questa sorta di gente. Imparatelo dal grande Apostolo: non vi lasciate vincere dal male, ma procurate di vincere il male col bene: noli vinci a malo, sed vince in bono malum (Rom. XII). Così si diportarono Gesù Cristo e i Santi riguardo ai loro nemici. A quanti affronti ed ingiurie corrisposto non hanno che coi benefizi i più segnalati? Caricavano Gesù Cristo d’oltraggi e di maledizioni, dice S. Pietro, ed Egli non malediceva alcuno: Christus cum malediceretur, non maledicebat ( 1 Pet. 2). Ci danno maledizioni, dice l’Apostolo, e noi loro diamo benedizioni; ci offendono con parole, e noi preghiamo per coloro che ci oltraggiano: blasphemamur, et obsecramur (1 Cor. IV). Ah! se i cristiani in tal modo si regolassero, se non opponessero che la mansuetudine all’ira di quelli con cui sono obbligati di vivere, si vedrebbero forse, come si vedono al giorno d’oggi, tante discordie e dissensioni nelle famiglie? Se una moglie, per esempio, invece di rispondere a suo marito con parole amare e pungenti, allorché si mette in collera contro di essa, non opponesse alle sue violenze, che le vie della mansuetudine; se osservasse il silenzio. quando non può altrimenti vincere i trasporti di un marito furioso, essa non ecciterebbe sopra di sé tempeste, di cui è la triste vittima: non si attirerebbe i cattivi trattamenti, che vengono tanto per colpa sua, quanto per l’ira di suo marito. Fu con la mansuetudine, che S. Monica venne a capo di calmare, e di convertire suo marito idolatro e furioso. Felici sarebbero le mogli, se seguissero quel modello: se la pazienza non convertisse i loro mariti, almeno vi troverebbero un gran fondo di merito innanzi a Dio: allo stesso modo se un marito avesse la compiacenza di cedere, quando vede una moglie resistergli in faccia, se procurasse di appagarla con buone ragioni; si vedrebbe regnar la pace nelle famiglie, si vedrebbe regnare altresì tra i vicini, i quali non sono in guerra gli uni con gli altri, se non se perché alcuno ceder non vuole. Ma se io sempre cedo, diretevi se il tutto soffro con pazienza, la mia mansuetudine mi attirerà nuovi insulti, si befferanno di me, mi disprezzeranno. La mansuetudine non ha ella forse i suoi limiti? Deve ella essere sì costante, e non deve finalmente esaurirsi a forza di perdonare? Ascoltate su questo proposito la risposta del grand’Apostolo: la vera carità non deve mai estinguersi; è un debito, che il cristiano de e sempre pagare, e di cui non è mai libero: nemini quidquam debeatis, nisi ut invicem diligatis (Rom. III). Voi potete bensì liberarvi dagli altri de biti, di cui caricati vi siete verso del prossimo; ma la carità è un debito di tutta la vita: perché, dice lo stesso Apostolo, la carità è la pienezza della legge: e chi soddisfa a questo precetto riempie tutta le legge: qui diligit proximum, legem implevit (ibid.). Non basta dunque di avere della mansuetudine in qualche occasione, di averne per qualche tempo: questa mansuetudine deve essere costante per sostenere in ogni tempo tutte le prove, cui può ella esser messa qualunque cosa molesta ci accada, qualsisia parola spiacevole ci si dica, fa d’uopo possedere sempre l’anima nostra in pace. – Volete voi finalmente, Fratelli miei, avere una mansuetudine costante e saldissima? abbiate l’umiltà, siate staccati da tutte le cose, e sottomessi ai voleri di Dio; la mansuetudine appoggiata sopra fondamenti sì sodi, ferma diverrà ed invincibile. Perciocché, se l’ira proviene dall’amore di se stesso, da un orgoglio segreto, da un attaccamento ai beni. del mondo; da un difetto di sommissione ai voleri di Dio; la mansuetudine è l’effetto delle virtù contrarie a questi vizi. Sì, fratelli miei, subito che avrete l’umiltà, voi avrete la mansuetudine. Gesù Cristo mette queste due virtù insieme, come due compagne indivisibili: imparate da me, che sono mansueto ed umile di cuore: discite a me quia mitis sum, et humilis corde. Tosto che avrete bassi sentimenti di voi medesimi; vi riputerete indegni d’ogni onore, amerete i dispregi e le umiliazioni; voi non sarete dunque disgustati del dispregio, che faranno di voi, degli affronti, degli insulti con cui vi opprimeranno; perché vi troverete il motivo della vostra umiltà. Se voi avete l’umiltà, accondiscenderete volentieri ai sentimenti altrui, parlerete loro in un modo affabile, sarete sempre d’un umore ugnale; il che è l’effetto della mansuetudine. Oimè! voi amate la mansuetudine e l’umiltà negli altri! Perché non praticate voi le virtù, che ritrovate sì amabili, e di cui siete molto contenti, che vi si diano delle prove? Siate staccati dai beni del mondo, né le perdite, né le disgrazie vi sapranno irritare. Siate staccati da voi medesimi, siate mortificati, ed avrete la mansuetudine; mentre l’ira, e l’impazienza non vengono che da un cuore immortificato. Siate ancora sommessi ai voleri di Dio, ed avrete la pazienza nelle afflizioni, nelle tribolazioni di cui Egli servirassi per provare la vostra virtù Non avvi virtù alcuna senza pazienza, ma è la pazienza, dice S. Giacomo, che dà alla virtù la sua perfezione patientia opus perfectum habet (Ja cob, 1). Ella è altresì che corona i uostri meriti, e che ci conduce alla somma felicità. Io ve la desidero. Così sia.

 Credo

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Offertorium

Ps CXVII: 16; 17

Déxtera Dómini fecit virtutem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini. [La destra del Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]

Secreta

Concéde, quaesumus, omnípotens Deus: ut hujus sacrifícii munus oblátum fragilitátem nostram ab omni malo purget semper et múniat. [O Dio onnipotente, concedici, Te ne preghiamo, che questa offerta a Te presentata, difenda e purifichi sempre da ogni male la nostra fragilità.]

Comunione spirituale

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Communio

Luc IV: 22 Mirabántur omnes de his, quæ procedébant de ore Dei. [Si meravigliavano tutti delle parole che uscivano dalla bocca di Dio.]

Postcommunio

Orémus.

Múnera tua nos, Deus, a delectatiónibus terrenis expédiant: et coeléstibus semper instáurent aliméntis. [I tuoi doni, o Dio, ci distolgano dai diletti terreni e ci ristorino sempre coi celesti alimenti.]

Preghiere leonine

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ringraziamento dopo la comunione exsurgatdeus

Ordinario della Messa

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LO SCUDO DELLA FEDE (96)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO VII.

Dal procurare che la natura fa quegli effetti, i quali ella ottiene, ai manifesti che ella non opera a caso.

I. Qualunque artefice retto, secondo la dottrina che dà l’Angelico, considera tre cose nei suoi disegni (S. Th. l. dist. 39. q. 2. art. 1). Considera il fine dell’opera: come si è (qualora egli abbia da fabbricar una casa) per chi la fabbrichi. Considera le proporzioni che hanno a tenersi: cioè la proporzion generale dell’opera al fine, e la proporzione speciale di ciascuna parti; dell’opera verso l’altre. E finalmente considera quali siano quei mezzi i quali più promuovono questo fine, e ne tengono indietro gl’impedimenti: valendosi però di modelli, di manovali, e di ordigni i più confacevoli che può ritrovare a tal uopo. Tutte queste considerazioni proprie dell’arte, nelle operazioni della natura risplendono a meraviglia: onde, se di niuno artefice, il quale proceda conforme alle dette regole, si dirà che egli operi a caso, ma che operi anzi con saper sommo; perché dovrà dirsi solo della natura? Forse non le osserva ella sempre divinamente? Miriamolo in ciò che ciascuno ha davanti gli occhi.

I.

II. La natura vuole che gli animali non lascino di nutrirsi, per la necessità che hanno tutti di riparare con l’alimento ciò che il calor innato consumò in essi con la sua attività.

III. Ed ecco che a tal fine ella riempie la terra d’erbe infinite, di frumento, di frutta, l’aria di pennuti, l’acque di pesci, le foreste di selvaggine, affinché quasi da dispensa incessante ne tragga chiunque vive una refezione proporzionata al talento, scegliendo fin  tra ciò che talvolta all’uno è veleno, all’altro è rimedio.

IV. Ma non basta che vi sia cibo: conviene che il cibo adattisi a quelle membra che si hanno ad alimentare. Ecco però, che a tutti gli animali, senza eccezione, vien data bocca da inghiottirlo, palato da discernerlo, denti da romperlo, da sminuzzarlo, da macinarlo; tanto che fino i tarli più tenerelli trovano nel duro legno di che sfamarsi, ed hanno al masticarlo una dentatura sì forte, che non si arrende dove si spezzan le seghe.

V. Senonchè non è sufficiente quella prima digestione di cibo che gli animali formano nella bocca, ad estrarne il sugo. Conviene che questo per la gola scenda allo stomaco, prodigioso nel suo lavoro. Perché, se quivi non si incontrasse una fervidezza piacevole, un fermento proporzionato, e una robustezza sufficiente di fibre e nervose e carnose con buona interna fodera vellutata nelle sue tuniche e corredata di minutissime glandule (affinché, secondo che è d’uopo, il cibo ritenuto si ammollisca, si agiti, si disciolga, ed in nuova tenera massa, risultante dal mescolamento del cibo con la bevanda, possa per lo clivo del piloro scorrere agevolmente nelle intestina, ciò che mangiossi, sarebbe più di peso che di sostegno.

VI. E pur che è ciò, rispetto al rimanente dell’opera che vi vuole alla nutrizione? Parlate agli anatomisti, ed essi con i propri lor termini vi diranno quanti liquori tuttavia vi abbisognino, stemperati con mirabil arte nelle officine del fegato, e del pancreas, donde per due loro acquedotti sgorghino al principio delle budella, quasi nuovo fermento, necessarissimo alla perfezion del chilo, perché assottigliato vieppiù, e quasi volatilizzato che questo siasi, possano le particelle utili (che sono le nutritive) separarsi dalle inutili (che sono le escrementizie), tanto che in virtù della pressione dei muscoli soprapposti, e delle fibre stesse degl’intestini, vadano a penetrare per angustissimi ingressi negl’innumerabili canali lattei, i quali, sparsi pel mesenterio, passano a prò del chilo per quelle ghiandole, prima di versarlo nel loro ricettacolo universale, detto altresì vaso linfatico grande. Né solo cibo, ma vi diranno come ivi il chilo nuovamente approfittisi nel mescolamento di sottilissima linfa, finché salendo per via poc’anzi scopertasi alla vena succlavia sinistra, arrivi misto finalmente col sangue, mediante la vena cava, al ventriglio destro del cuore; senzachè neppure venga però ammesso a nutrire perfettamente se non dopo essersi rotato prima tutto per li polmoni. E vi aggiungeranno, come alle imboccature dei canali per cui trascorre, son posti per ogni via tanti ripari contro il ringorgo de’ fluidi, e scompartiti tanti ingegni, e scansati tanti intoppi, e tenute tante avvertenze, che l’accennarle tutte sarebbe non finir mai. Pare a voi pertanto, che la natura in quel pochissimo solo che ne ho qui detto conseguisca un fine, il quale non sia da lei preteso direttamente, anzi procurato con tutte e tre quelle previe considerazioni le quali costituiscono il buono artefice (Queste considerazioni si trovano stupendamente espressa da Cicerone nel secondo libro del suo De natura Deorum.)?

II.

VII. Che se nella pura nutricazione degli animali, che è la più bassa di tutte le opere loro, bada ella sì attentamente al fine di essa, bada all’ordine, bada agli organi, bada a tutto, giudicate voi ciò che ella faccia nelle più sollevate: da che come un genere di ornamento cittadinesco, qual è il corintio, o il composto, è dovere che sia condotto più gentilmente di un rusticano: così nella fabbrica impareggiabile di qualunque animale non lascia la natura di avere la mira a ciò che dee più stimarsi. – Ditemi dunque: in che consiste far le cose a disegno, se questo è, secondo voi, farle a caso? Vedeste giammai miracolo così strano? Un cieco, nato senz’occhi, che mai non rimirò la luce in se stessa, mai ne’ colori, pigliare in mano un pennello, ed alla rinfusa bagnandolo in varie tinte, disegnare ad un tempo, e tirare a fine, non dirò un’opera pari a quella cena ammirabile degli dei, per cui RaffaelIo si dimostrò quasi nume della pittura, ma neppure una di quelle tanto inferiori che diedero il primo credito a Cimabue? Come può pertanto avvenire, che se la figura, contraffatta ancora e storpiata, di un animale, non può lavorarsi senz’arte, possa senz’arte lavorarsi a stupore l’animale medesimo vivo e vero? Bisogna bene uscire affatto di sé per credere queste ciance. Galeno mandò già un cartello di disfida a tutti gli epicurei, dando loro di tempo un intero secolo ad emendare, ad aggiungere, ad aggrandire, e mutare in meglio una minima particella del corpo umano; ed ove questo eseguissero, si offriva a farsi loro seguace, sino a riconoscere il caso per architetto di sì bello edifizio. Su, portate voi parimente una disfida simile agli ateisti sopra qualunque altro lavoro della natura, e vedrete se rimarran più che svergognati: tanto è infallibile che con tutto l’ingegno loro aguzzato dalla passione non troveranno in quei lavori altro oggetto che di applauso e di ammirazione; tale è la scienza del fine, tale è la disposizion delle parti, e tale è la prudenza in tutti que’ mezzi che la natura adopera al fine inteso.

III.

VIII. Né vale punto il ricorrere alle infinite combinazioni possibili di quegli atomi andati in volta: fra le quali una può dirsi che questa fu, da cui si forma al presente il nostro universo. Debol puntello a macchina sì cadente. Conciossiachè fra tutte le combinazioni che sian possibili al caso, non può trovarsi mai veruna di quelle che sono unicamente possibili all’intelletto. Se per infiniti secoli fossero andati già vagando per l’aria tutti i caratteri delle stampe olandesi, non avrebbero sortito mai di formare la Gerusalemme liberata del Tasso, ma ad ogni accoppiamento felice avrebbero sempre uniti a migliaia i falli; non potendo avvenire che il caso con tutti i suoi ravvolgimenti possibili giunga ad operar mai da quello che egli non è, cioè ad operare da artefice, non da caso; come non può avvenir che tutti i fantasmi di un cavallo, o di un cane, con infiniti ravvolgimenti che facciano in una tale immaginativa, giungano a produr mai discorso da uomo, mercecchè il discorrere trascenda tutti i confini prescritti al modo che tiene nel suo operare qualunque testa brutale. Tal è l’essenza del caso. Essere una cagione determinata a proceder in modo opposito a quello dell’intelletto, cioè a procedere senza connessione e senza corrispondenza: onde, se quei caratteri avessero mai formato un sol verso giusto, sarebbe stato un miracolo di fortuna maggior di quello che Plutarco racconta di un tal pittore, il quale disperato di poter esprimere al vivo la spuma del cavallo da lui ritratto col freno in bocca, gli gettò sul freno la spugna a guastare il fatto, e invece di guastarlo il perfezionò. E pure questo miracolo di fortuna cambiata in arte disse Plutarco esser l’unico a ricordarsi: Hoc unum fortunate artificiosum facinus narratur (Plut. libello de fortuna). Nel resto, come col gittar tale spugna infinite volte non sarebbe a quel dipintore riuscito mai di formare l’Elena di Zeusi, il Gialiso di Protogene, il Genio di Parrasio, l’Andiomene di Apelle, ma al più al più sarebbe avvenuto di fare qualche altra facile combinazion di colori, simigliante alle casuali; così quei caratteri, con accozzarsi infinite volte tra sé, non sarebbero mai pervenuti a formare un poema eroico. Pertanto, se immensamente più colma d’intelligenza e d’ingegno è qualunque composizione di un corpo animato, che non è qualunque composizione di versi, benché bellissimi; come può esser parto del caso un elefante, un alicorno, un delfino, un’aquila, un uomo, anzi tutto il concerto dell’universo sì ben disposto, se non può essere parto del caso un poema di ottava rima?

IV.

IX. Che più? Va per le bocche di tutti, che l’arte è bella, quando imita più la natura. Or come dunque la natura è senz’arte? Può chi copia cavare dall’esemplare ciò che non vi è?

X. Anzi, se l’arte ha bisogno di tanto senno e di tanta sagacità per imitar la natura; convien che la natura di tanto prevalga all’arte in senno e in sagacità, di quanto quel maestro che dà l’idea conviene che prevalga a quello scolaro che debba apprenderla. (L’arte umana è figlia della natura, come la natura è figlia di Dio, giusta il verso di Dante: « Sì che vostr’arte a Dio quasi è nipote – Inf. c. 11, v.105. ») É gran prodigio, che la luce di una verità così folgorante non ferisse a forza le pupille di Democrito, tutto che chine e chiuse in lui dall’impegno. Fu pur egli già quel Democrito, il quale abbattutosi in un tal villanello, detto Protagora, che su le spalle portava a casa un fastelletto di legne legate insieme con garbo non ordinario, si fermò prima tacito ad osservarlo, e dipoi fattogli scomporre da capo il suo piccol carico, pronunziò che Protagora avea talento da divenire filosofo di gran nome, e l’indovinò. Ora udite cosa incredibile, e pur sicura. Democrito riconosce in un fascio di legne ben ordinate l’ingegno di un uomo; ed in questo gran teatro dell’universo, sì metodico, riconosce se non il caso fabbricante a chius’occhi! Non vuole che poche legna accozzate insieme con qualche proporzione possano procedere da altra inferior cagione, che da un intelletto operante con avvedimento e con accortezza; e vuole che questa grande architettura del mondo, di cui tutti gl’ingegni umani non arrivano a penetrare la superficie, non che le finezze ed il fondo, sia struttura di un brulicame confuso di corpicciuoli volanti a caso nel nulla, ed acchiappatisi insieme, come fanno i ragazzi, alla gatta cieca. Ebbe ben ragione Aristotile (L. 1. metaph. c. 4) di chiamare questo discorso un discorso di ebbro, il quale non vede, travede. Se non che disse anche poco, mentre queste di verità non sono traveggole, sono stralunamenti. Ma voi frattanto che dite? Vi pare, che s’inducano a credere belle cose quei che hanno a sdegno di credere fermamente, che Dio vi sia? In qual de’ due casi dovete voi trattar più da tiranno la vostra mente; in obbligarla ad approvare i discorsi che sono cosi confacevoli alla ragione, o in obbligarla ad approvar le stoltizie? Ma tale è questa, che la natura non intenda quei fini a cui fa che cospirino tanti mezzi. Rimane ora a mostrare, che questi fini non ottenga ella soltanto una volta, o un’altra, come fa il caso, gli ottenga costantemente. Ma perché questo è chiamarmi all’altra proposizione, che getta a terra le fabbriche attribuite sì falsamente da Democrito a un orbo, riserbiamo il provarla ad un altro capo, da che so ‘l merita.

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