DOMENICA QUINTA DOPO PASQUA [2018]

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Isa. XLVIII:20

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiate usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja [Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

Ps LXV:1-2 Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus. [Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: dà a Lui lode di gloria].

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiáte usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja [Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

 Orémus.

Deus, a quo bona cuncta procédunt, largíre supplícibus tuis: ut cogitémus, te inspiránte, quæ recta sunt; et, te gubernánte, éadem faciámus. [O Dio, da cui procede ogni bene, concedi a noi súpplici di pensare, per tua ispirazione, le cose che son giuste; e, sotto la tua direzione, di compierle.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli.

Jac. I:22-27

Caríssimi: Estóte factóres verbi, et non auditóres tantum: falléntes vosmetípsos. Quia si quis audítor est verbi et non factor: hic comparábitur viro consideránti vultum nativitátis suæ in spéculo: considerávit enim se et ábiit, et statim oblítus est, qualis fúerit. Qui autem perspéxerit in legem perfectam libertátis et permánserit in ea, non audítor obliviósus factus, sed factor óperis: hic beátus in facto suo erit. Si quis autem putat se religiósum esse, non refrénans linguam suam, sed sedúcens cor suum, hujus vana est relígio. Relígio munda et immaculáta apud Deum et Patrem hæc est: Visitáre pupíllos et viduas in tribulatióne eórum, et immaculátum se custodíre ab hoc sæculo

Omelia I

[Mons. G. Bonomelli: Nuovo saggio di omelie, vol. II, Marietti ed. Torino, 1898, Omelia XXIII]

“Carissimi! siate operatori della parola e non soltanto ascoltatori, ingannando voi stessi. Poiché se altri è ascoltatore e non operatore della parola, costui sarà simile ad un uomo che, avendo rimirato in uno specchio il suo volto al naturale e consideratolo, se ne ritrae tosto, dimentico di quello ch’esso è. Ma chi si è specchiato nella legge perfetta della libertà e vi perdura, non da smemorato ascoltatore, sebbene da ascoltatore operoso, questi sarà felice dell’opera sua. Che se qualcuno si pensa d’essere religioso, non imbrigliando la sua lingua, ma ingannando se stesso, la pietà di costui è vana. La religione pura e intemerata, presso Dio e Padre, è questa: Visitare gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e serbarsi “netto di questo mondo „ (S. Giacomo, c. I, vers. 22-27). – Forse voi non avete dimenticato l’omelia dell’ultima Domenica, nella quale presi a commentare alcune sentenze della lettera di san Giacomo, che si leggono nella santa Messa. Or bene; sappiate, o cari, che queste che adesso avete udito, sono la continuazione di quelle ch’ebbi a spiegarvi. Non vi è nulla di difficile, ma molto da apprendere, e ciò che importa anche maggiormente, le cose che vi dirò, rispondono ai bisogni d’ogni classe di persone, e ciò deve accrescere, se è possibile, la vostra attenzione. – S. Giacomo nel versetto che sta immediatamente prima di quello che siamo per commentare e che fu l’ultimo spiegato nell’altra omelia, aveva detto: “Accogliete docilmente la parola in voi seminata, che può salvare le anime vostre; „ a questa esortazione di ricevere la parola od insegnamento evangelico con docilità, che ha virtù di salvare le anime, con passaggio naturalissimo il nostro Apostolo fa seguire quest’altra sentenza, che la completa: “Siate poi operatori della parola e non soltanto ascoltatori.„ Buona e santa cosa è udire la parola del Vangelo e con essa accogliere la verità: ma non basta, come non basta al campo ricevere il seme; è mestieri, che lo faccia germogliare e renda moltiplicato il frutto. Miei cari! la Religione nostra santissima consta di due parti, del Simbolo e del Decalogo: quello è la regola del credere, questo è la norma dell’operare; quello guida la mente e deve precedere, questo guida la mano e deve seguire. Vi sono alcuni, i quali gridano sempre: La fede! i principi! ma poco si curano delle opere: vi sono altri che dicono: Le opere! i fatti! basta essere onesti, giusti e non parlano del Simbolo; errano questi e quelli: si esige la fede e si esigono le opere, è necessario il Simbolo ed è necessario il Decalogo. L’uomo non è soltanto anima e mente, ma è anche volontà, ed ha il corpo, e deve servire a Dio con l’anima e con la mente ed anche con la volontà e col corpo, cioè con le opere. Direste, voi che è perfetto pittore colui, che ne conosce tutte le regole, che si contenta di contemplare con la mente i suoi ideali, siano pur bellissimi, e che non ci mostra mai sulla tela una figura? Direste voi che è buono quel figliuolo, il quale conosce benissimo i suoi doveri verso di voi, o genitori, e li confessa e protesta di volervi amare e ubbidire, e poi non vi dà mai una prova di amore e di ubbidienza coi fatti? Certo la fede è necessaria, è la radice della vita cristiana, è il seme che ci deve dare l’albero e il frutto; ma la fede, o cari, può vivere a lungo se non è nutrita dalle buone opere? È ben difficile. Essa è come un albero, su cui per lunghi mesi non discende la pioggia, o che la mano industre del contadino non irriga opportunamente: a poco a poco le sue foglie ingialliscono, cadono, e l’albero finalmente muore. Non dimenticatelo mai, o dilettissimi; generalmente la fede muore perché non accompagnata o avvivata dalle opere: sono le passioni appagate, sono cioè le opere che mancano, quelle che fanno inaridire l’albero della fede. Il credere non costa molto, o cari, massime al popolo: ciò che costa è l’operare, e la maggior parte di quelli che tra i cristiani si perdono, si perdono non per essere trovati manchevoli del Simbolo, ma per aver fallito nel Decalogo. Siamo dunque non semplici ascoltatori, ma operatori della parola, e la nostra fede mostriamola con le opere; se questo non faremo, inganneremo noi stessi, perché è chiara la sentenza di Gesù Cristo che protesta: “Non chi avrà detto: Signore, Signore, ma chi avrà fatto la volontà del Padre mio (osservando la legge) sarà salvo [“Vera fides est, quæ in hoc quod dicit, moribus non contradicit” – S. Greg. M., Homil. 29. – “Monstruosa res gradus summus et animus infimus: sedes prima et vita ima; lingua magniloqua et manus otiosa: sermo multus et fructus nullus” (S. Bernard., De Consid., lib. 2, c. 7). – “Opus sermone fortius” ; Nazianz., Orat. 27]. – Per chiarire ed avvalorare la verità stabilita, il santo Apostolo adopera una graziosa similitudine, e dice: ” Se altri è ascoltatore e non operatore della parola (cioè crede e non ha le opere, frutto della fede), è somigliante ad un uomo, il quale avendo rimirato il suo volto al naturale in uno specchio, consideratolo, se ne ritrae tosto, dimentico di quello ch’esso è.„ Lo specchio di sua natura riflette l’immagine di tutto ciò che gli sta dinanzi, e la riflette sempre e fedelmente: esso non inganna, non mentisce mai. Perché l’uomo si affacciai allo specchio? Per vedere il volto suo e tutta la persona. Se nello specchio vede che il volto non è netto, non acconciati i capelli, scomposto l’abito e non abbastanza pulito, che fa tosto? Tenendo sempre l’occhio sullo specchio, lava e netta il volto, racconcia i capelli e compone debitamente il vestito. Similmente deve fare il cristiano: spesso deve farsi allo specchio dell’anima per vedere se in essa tutto è netto ed ordinato. E qual è lo specchio dell’anima? E la parola di Dio, è la fede, è l’insegnamento del Vangelo, che non erra e non inganna mai: specchiamoci in esso e vedremo tosto e con sicurezza se nella nostra condotta è tutto ordinato e conforme al volere di Dio. Fratello, accostati a questo specchio fedele della fede e della legge divina; esso ti farà conoscere qual sei. Esso ti mostrerà assai spesso il volto dell’anima tua bruttato da pensieri ed affetti indegni di cristiano: ti farà vedere le macchie della vanità, della superbia, del disordinato amore ai beni di quaggiù, dello stravizio e della intemperanza, della maldicenza, della discordia, della disubbidienza, dell’invidia, della pigrizia, della trascuratezza dei tuoi doveri cristiani e va dicendo. Oh! quante macchie scorgerai nell’anima tua dinanzi a quello specchio infallibile, se ben addentro vi spingerai lo sguardo. E allora che dovrai fare? Precisamente quello che fanno tutti coloro, uomini e donne, che si riguardano nello specchio. Devi lavare quelle macchie, mondarti di quelle sozzure, emendarti di tutte le tue mancanze, affinché il volto dell’anima tua apparisca bello, nitido, simile al gran modello, che è Gesù Cristo [“Splendidissimum in mandatis suis (Deus) condidit speculum, in quo homo suæ mentis faciem inspiceret et quam conformis imagini Dei, aut quam dissimila esset agnosceret”; S. Leonis, Serm. 11]. – Che diresti tu di quell’uomo, di quella donna, i quali dopo essersi lungamente riguardati nello specchio e viste tutte le macchie, ond’è brutto il volto e l’abito, se ne andasse e non si curasse punto di nettarsene? Diresti che è uno stolto, uno smemorato, e che se non voleva far nulla per nettarsi, non valeva la pena che ricorresse allo specchio e vi si rimirasse! e bene a ragione. Il somigliante è da dire di quel cristiano e di quella cristiana, che ascoltano la parola di Dio, conoscono la sua legge, e in essa, quasi in ispecchio tersissimo, vedono la propria anima tutta lorda e sozza per tante colpe e male abitudini, e, come non si trattasse di loro, tranquillamente se ne vanno e non si emendano. Carissimi! no, no, non imitiamo questi spensierati, che dimenticano sì facilmente qual è il volto loro al naturale, che sono ascoltatori, e non operatori della parola divina; ma per contrario, siamo imitatori, come vuole S. Giacorno, di colui “che si è specchiato nella legge della libertà (cioè nella legge evangelica, che ci ha affrancati dal male e ci dà la libertà del bene) e vi perdura, non da ascoltatore dimentico, ma da operatore col fatto; questi, questi! esclama S. Giacomo, sarà felice e beato dell’opera sua, „ e raccoglierà il frutto della redenzione. – Alla trascuratezza e spensieratezza dell’uomo che ascolta la parola di Dio e in essa si specchia senza cavarne vantaggio, toccata nel versetto superiore, S. Giacomo oppone in questo versetto l’avvedutezza e la prontezza dell’uomo che ascolta, conosce e, conformemente al conoscimento, regola la sua condotta colle opere. – Passiamo al versetto seguente: “Che se qualcuno crede di essere religioso, non raffrenando la sua lingua, ma ingannando se stesso, la sua religione è vana.„ Veramente, trattandosi d’una lettera come questa di S. Giacomo, che va tutta in sentenze morali pratiche, non si richiede che queste siano tutte legate tra loro, come in una trattazione scientifica. Esse possono stare benissimo anche separate, senza nesso di discorso, e alcuna volta ciò apparisce manifestamente, e potrebbe essere questo il caso della sentenza che vi ho riportata. Ma, considerando meglio la cosa, mi pare che il nesso tra il nostro versetto e gli antecedenti esista, comecché alquanto remoto. Sopra, S. Giacomo esorta i fedeli ad essere pronti ad udire e tardi a parlare; qui, ritornando su quella massima, la riconferma, dicendo, che se alcuno crede d’essere religioso o pio, che è tutt’uno, e non raffrena la sua lingua, costui si illude e mostra a fatti che la sua religione è vana. La lingua è lo strumento ordinario, mercé del quale comunichiamo altrui i nostri pensieri ed i nostri affetti, e non sarà facile frenare questi se non freniamo quella. La nostra mente e il nostro cuore sono come due sorgenti, dalle quali senza posa scaturiscono i nostri pensieri e i nostri affetti, buoni o rei ch’essi siano. Cessare di pensare o di amare è impossibile cosa; sarebbe come cessare di respirare: si muore. Nostra cura continua deve essere quella di vegliare sui pensieri della nostra mente e sugli affetti del nostro cuore, per reprimere i cattivi e lasciar libero il corso ai buoni; lavoro necessario e difficilissimo, perché esige un’incessante sorveglianza sopra di noi medesimi. Mezzo molto utile ed efficace a vegliare sopra i pensieri e gli affetti del nostro spirito sarà quello di vegliare sulla loro manifestazione mediante la lingua. Vegliare su questa importa vegliare sull’interno, giacché non si possono ponderare le parole senza ponderare i pensieri e gli affetti, che sono alle parole necessariamente congiunti, come il macchinista, se è prudente, non può regolare le valvole della locomotiva senza tener d’occhio in pari tempo la misura del vapore, ch’essa rinserra ne’ suoi fianchi. Vogliamo noi, o dilettissimi, regolare il nostro interno? Regoliamo l’esterno. Vogliamo stringere nelle nostre mani il freno della mente e del cuore? Custodiamo la porta per cui escono, stringiamo il freno della lingua. Ciò facendo, noi avremo un altro vantaggio e non lieve, o cari. Un uomo che continuamente versa tutti i suoi pensieri ed affetti per la via della lingua, è simile a colui che tiene sempre aperta la valvola della sua macchina: la forza del vapore se ne fugge tutta per essa e la macchina ben presto non può agire e cessa il lavoro. Perché la mente sia raccolta, i pensieri elevati eretti, gli affetti puri e nobili, è mestieri ponderarli; fa d’uopo concentrarci in noi stessi e riunire le forze tutte del nostro spirito per rivolgerle tutte insieme sopra un oggetto solo: se noi senza posa le disperdiamo fuori di noi con la parola, rimarremo vuoti, deboli, impotenti. Vedete l’acqua che discende dal monte: se la imprigionate opportunamente in vasi o tubi, si solleva, se volete, fino all’altezza dalla quale discende; se voi la lasciate scorrere liberamente sul suolo, si spande e sparisce: così avviene, dice S. Gregorio M., dell’anima nostra: tenetela raccolta in se stessa: si innalza con i suoi pensieri fino a Dio: lasciate che con le parole si effonda d’ogni parte, come per altrettanti rivi, si distrarrà, e sperderà miseramente le sue forze [S. Gregor. M., Moral., lib. 7. cap. 7). Se noi non custodiremo debitamente la nostra lingua, sappiatelo bene, la nostra religione e pietà sarà vana, e non avrà che l’apparenza: Hujus vana est religio. Ma qual è dunque, o beato Apostolo, la vera, la solida religione e pietà? Ascoltate: “La religione, o pietà pura e intemerata presso Dio e il Padre, è questa: Visitare gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni, e serbarsi mondi da questo secolo. „ Quale risposta! Quale verità, o carissimi! Voi lo sapete; la religione è l’insieme, il complesso dei rapporti tra Dio e l’uomo, quali scaturiscono dalla natura delle cose e quali sono voluti e stabiliti da Dio: Dio è nostro Creatore e conservatore e perciò nostro padrone assoluto: il Figliuol di Dio si è fatto uomo e ci ha ricomperati col suo sangue: ha diritto perciò alla nostra gratitudine, alla nostra obbedienza, al nostro amore: questi doveri di gratitudine, di obbedienza, di amore verso Dio si manifestano in modi svariatissimi, in atti interni ed esterni di fede, di adorazione, di ringraziamento, di speranza, di amore verso di Lui e verso il prossimo, in breve, nell’osservanza della legge divina in tutte le sue parti. Or come sta che S. Giacomo riduce la religione pura e intemerata a visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni e serbarsi netti da questo secolo? Forse ché intese dire che questo fosse bastevole e tutto il resto, che riguarda la fede, i Sacramenti e le altre opere, fosse inutile? Sarebbe un negare il Vangelo, un contraddire lo stesso Apostolo, che in questa lettera tante altre cose inculca e comanda, e sarebbe un offendere lo stesso buon senso. L’Apostolo, ricordando e proclamando la necessità di queste opere di misericordia, non negò la necessità delle altre già note ai fedeli: volle soltanto ricordare queste, perché allora più necessarie e più utili. La maggior parte dei fedeli, ai quali scriveva, erano nati e cresciuti nell’ebraismo, e forse molti di loro tenevano necessaria l’osservanza delle cerimonie mosaiche, tante di numero e sì gravose, e dalle quali non sapevano divezzarsi. S. Giacomo loro rammenta che la religione di Gesù Cristo non ha che far nulla con quelle cerimonie, ch’essa domanda le opere e sopra tutto le opere della carità verso del prossimo, come quelle che rendono cara ed amabile la religione e ne mostrano la efficacia, e di queste opere, a modo d’esempio, ricorda quella di visitare e consolare i più poveri e più abbandonati, che sono gli orfanelli e le vedove.Quando si medita questa sentenza di san Giacomo — la religione pura ed intemerata presso Dio e il Padre, è questa: “Visita orfani e le vedove” — non si può non sentire la grandezza e la santità della nostra religione. Essa ce ne rivela tutta la natura, che in fondo è la carità operosa verso tutti, ma specialmente per i più bisognosi, per i più derelitti de’ fratelli nostri, che sono gli orfani e le vedove! Ah! una religione che si compendia in una sentenza come questa, non può essere che una religione divina. Gli uomini non avrebbero mai trovata una definizione sì sublime!Aggiunge poi in fine, che la religione comanda di serbarsi mondo da questo secolo, il che importa di non seguire il mondo, le sue massime, di non abbandonarsi ai suoi colpevoli piaceri. In questa sentenza dell’Apostolo è scolpita a meraviglia l’indole della nostra religione, che ci vuole, sciolti dall’amore disordinato della terra, intesi ai veraci beni del cielo e pieni di carità verso i fratelli nostri sofferenti. Mettiamola in pratica onde non siamo uditori, ma fattori della parola divina, secondo la espressione di S. Giacomo.

 Alleluja

Allelúja, allelúja.

Surréxit Christus, et illúxit nobis, quos rédemit sánguine suo. Allelúja, [Il Cristo è risuscitato e ha fatto sorgere la sua luce su di noi, che siamo redenti dal suo sangue. Allelúia.]

Joannes XVI:28 Exívi a Patre, et veni in mundum: íterum relínquo mundum, et vado ad Patrem. Allelúja. [Uscii dal Padre e venni nel mondo: ora lascio il mondo e ritorno al Padre. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem. 

Joann XVI:23-30

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Amen, amen, dico vobis: si quid petiéritis Patrem in nómine meo, dabit vobis. Usque modo non petístis quidquam in nómine meo: Pétite, et accipiétis, ut gáudium vestrum sit plenum. Hæc in provérbiis locútus sum vobis. Venit hora, cum jam non in provérbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiábo vobis. In illo die in nómine meo petétis: et non dico vobis, quia ego rogábo Patrem de vobis: ipse enim Pater amat vos, quia vos me amástis, et credidístis quia ego a Deo exívi. Exívi a Patre et veni in mundum: íterum relínquo mundum et vado ad Patrem. Dicunt ei discípuli ejus: Ecce, nunc palam loquéris et provérbium nullum dicis. Nunc scimus, quia scis ómnia et non opus est tibi, ut quis te intérroget: in hoc crédimus, quia a Deo exísti.

Omelia II

[Ut supra, om. XXIV]

Gesù disse a’ suoi discepoli: In verità, in verità vi dico: se alcuna cosa domanderete al Padre nel nome mio, ve la darà: fino ad ora non avete domandato nulla nel nome mio: domandate e riceverete, affinché il vostro gaudio sia compiuto. Queste cose vi ho dette con similitudini. Viene l’ora che non vi parlerò più in similitudini, ma apertamente vi parlerò del Padre. In quel giorno domanderete nel nome mio; e non vi dic che pregherò il Padre per voi. Perché lo stesso Padre vi ama, perché voi avete amato me ed avete creduto, ch’io sono proceduto dal Padre. Sono proceduto dal Padre e venni nel mondo: di nuovo lascio il mondo e vado al Padre. I suoi discepoli gli dissero: Ecco, ora parli chiaramente e non adoperi alcuna similitudine. Ora sappiamo che tutto conosci, né hai bisogno che alcuno ti Interroghi: per ciò crediamo, che sei proceduto da Dio „ (Giov. XVI, 23-29).

Anche questo tratto di Vangelo, come quelli delle tre ultime Domeniche, si legge nel cap. XVI di S. Giovanni, e Gesù lo disse lungo la via dal cenacolo, dove aveva fatta la cena, all’orto del Getsemani. Il cenacolo (se la tradizione conservata fino ad oggi è esatta) era sulla parte alta di Gerusalemme, poco lungi dalla torre di Davide: il Getsemani è giù basso, dalla parte diametralmente opposta e per giungervi bisogna attraversare quasi tutta la città ed uscire dalle sue mura. La distanza potrà essere, in linea retta, d’un chilometro e mezzo. Fu durante questo tragitto che Gesù tenne la massima parte del discorso dopo l’ultima cena. Le parole, che testé vi ho riportate, sono parole di conforto ai suoi cari Apostoli, ai quali raccomanda la preghiera, e li assicura che sarà esaudita dal Padre. Veniamo alla spiegazione. “In verità, in verità vi dico: se alcuna cosa domanderete al Padre nel nome mio, ve la darà. „ Gesù aveva poco prima annunziata agli apostoli la vicina sua dipartita e la sua risurrezione, con quelle parole: ” Ancora un poco, e non mi vedrete più: di nuovo, ancora un poco, e mi vedrete: „ gli Apostoli ne erano desolati. Il pensiero della separazione dal loro Maestro li riempiva di tristezza. Lui lontano, chi li avrebbe consolati? Chi ammaestrati? A chi avrebbero essi avuto ricorso? Gesù, dopo aver promesso loro un altro Consolatore in suo luogo, lo Spirito Santo, offre ad essi un altro mezzo facile e sicuro, in cui avrebbero trovato conforto ed aiuto efficacissimo. E per rincorarli in tanta afflizione, manda innanzi quelle parole a lui famigliari nelle occasioni solenni. ” In verità, in verità vi dico; „ e, come avverte S. Agostino, una specie di giuramento. — Voi, o cari, così il divin Salvatore, siete afflitti ed atterriti, perché Io vi lascio: voi non mi avrete più in mezzo a voi e non potrete ricorrere a me, come eravate soliti fare. Ma Dio è sempre con voi: non vi perde di vista un solo istante, e invece di ricorrere a me, che vedete, ricorrete al Padre mio, a Dio [Qui Gesù Cristo nomina il Padre divino, come principio delle altre due Persone, e intende significare la divinità; nomina il solo Padre, credo, per ispirare, con questo nome sì dolce, maggior fiducia negli Apostoli], che è dovunque e dovunque può esaudirvi e consolarvi. Io vi assicuro, che qualunque cosa gli chiederete, ve la darà. Questa espressione ” qualunque cosa, „ vuol essere dichiarata perché non sia male intesa. Gesù Cristo promette che quello che gli Apostoli domanderanno al Padre, l’avranno; cioè quello che loro non nuoce, ma giova; quello che conduce alla salvezza delle anime e alla gloria di Dio, non ciò che può desiderare il mondo, onde quella espressione sì ampia — qualunque cosa domanderete — per la natura stessa delle cose, di cui parla Gesù Cristo, la si deve restringere a quelle che sono ordinate al bene dell’anima, e intenderle di tutte in modo assoluto sarebbe contro il senso cristiano e il modo di parlare costantemente tenuto dal Salvatore. E notate anche le condizioni esplicite, che Gesù appone alla sua promessa. Vuole che domandino, e domandino in suo nome. Indubbiamente Dio può concedere le sue grazie senza aspettare che noi le domandiamo, perché vede i nostri bisogni, può tutto ed è bontà infinita: ma ordinariamente esige che preceda la nostra preghiera, sia perché con essa confessiamo la nostra miseria e riconosciamo la sua onnipotenza, sia perché con essa esercitiamo la fede e la speranza, sia perché con essa cooperiamo con Dio all’acquisto di ciò che vogliamo e ci abbisogna, giacché Dio non vuol premiare la pigrizia e l’inerzia, e vuole che dal canto nostro facciamo ciò che possiamo. E non basta: vuole Gesù Cristo, che quello che domandiamo a Dio, lo domandiamo nel nome suo, vale a dire per i meriti suoi, per Lui, che è il mediatore nostro, per Lui, che è Dio come il Padre, per Lui, al quale, come a Redentore, in ispecial modo apparteniamo . Egli è per questo, o carissimi, che la Chiesa, madre nostra, chiude tutte le sue preghiere, pubbliche e private con quelle parole, che dirò quasi sacramentali: ” Per Dominum nostrum Jesum Christum — Per il Signor nostro Gesù Cristo. „ Fino ad ora, continua Gesù Cristo, voi non avete domandato nulla nel mio nome. „ Come ciò, o dilettissimi? Finché gli Apostoli vivevano con Gesù Cristo, fidenti in Lui, a Lui potevano chiedere e chiedevano ciò che volevano; ma quando Gesù non sarebbe più stato visibilmente con loro, allora essi dovevano rivolgersi a Dio, ma sempre nel nome e per i meriti di Gesù, di quel Gesù che nell’umana natura sederebbe alla destra del Padre, e in essa intercederebbe per essi. — In altri termini, Gesù volle dire: Ora io me ne vo al Padre: in avvenire non ricorrerete più a me, come mi vedete, ma a Dio, che sarà sempre vostro Padre, non dimenticando ch’Io sarò presso di Lui vostro mediatore. ” Su, dunque: domandate e riceverete. È una conferma della promessa fatta ed un eccitamento a pregare, con la certezza che otterranno e che in tal guisa la loro gioia sarà compiuta: Ut gaudium vestrum sit plenum. ” Queste cose vi ho detto con similitudini: viene l’ora che non vi parlerò più con similitudini, „ così il divin Maestro. Come apprendiamo dal Vangelo, Gesù Cristo ammaestrò gli Apostoli con parabole e similitudini; usò con essi il linguaggio della semplicità, anche ragionando delle cose più alte: Egli li condusse gradatamente dalle cose piane alle alte e difficili, ma sempre con un linguaggio figurato e quale poteva essere inteso da loro: ma, viene l’ora, dice Gesù Cristo, che non vi parlerò più in similitudini, ma apertamente vi parlerò del Padre. Quest’ora, non ne dubito si riferisce alla venuta dello Spirito Santo. – Allora Egli, avendo cessato di ammaestrare gli Apostoli col senso esterno della parola, cominciò ad ammaestrarli in modo più elevato, senza bisogno di parola esterna, rischiarando direttamente le loro menti intorno alle verità più sublimi che riguardano Dio: Palam de Patre annuntiabo vobis. Allora, dice Cristo, vi parlerò apertamente del Padre. Come? forseché Gesù Cristo dopo la sua risurrezione e dopo la venuta dello Spirito Santo parlò agli Apostoli e li istruì soltanto intorno alla Persona del Padre? Ciò sarebbe contrario anche a ciò che apparisce dai libri sacri e dal fatto, perché gli Apostoli furono istruiti da Cristo e dal suo Spirito in tutte le verità e possiamo anche aggiungere che pochissime sono le cose che si riferiscono al solo Padre. Qual è dunque il senso di quella sentenza? Evidentemente Gesù Cristo nomina il Padre come principio delle altre due Persone, e in Lui e per Lui intende tutto ciò che si riferisce a Dio e alle cose da Lui fatte. “In quel giorno voi domanderete nel nome mio, ed Io non vi dico che pregherò il Padre per voi, perché lo stesso Padre vi ama. ., In quel giorno, cioè quando sarà venuto lo Spirito Santo che vi ho promesso, non avrete bisogno ch’Io vi insegni a pregare, o preghi Io stesso per voi, perché, illuminati da Lui, voi pregherete come si conviene. No, non dovete temere di pregare direttamente il Padre, perché Egli vi ama teneramente come figli, e perciò con ogni fiducia potete presentarvi a Lui. Come è delicata e per noi consolantissima questa espressione di Gesù Cristo! Avvicinatevi al Padre, pregatelo con filiale confidenza, perché Egli vi ama e amandovi non può non aver cara la vostra preghiera. Dio, non dimenticate mai questa verità di fede, o dilettissimi: Dio ci previene sempre con la sua grazia, tantoché qualunque opera buona che noi facciamo, ha sempre il primo impulso da Dio; e questo primo impulso della sua grazia è una conseguenza, una prova dell’amor suo verso di noi. È Dio stesso che ci muove a pregare e come volete che non ci esaudisca? E perché il Padre vi ama?  “Perché voi, risponde Cristo, avete amato me e avete creduto ch’Io sono proceduto da Dio. „ Il Padre ama me come Figliuol suo naturale e, amando me, deve amare quelli che amano me, come Lui, e voi con le opere avete mostrato di amar me, credendo alle mie parole, credendomi suo Figlio fatto uomo. — Ora chi ama ardentemente una persona, deve esaudire le sue preghiere: fate dunque ragione, conchiude Gesù Cristo, se il Padre mio non deve esaudirvi. È per questo che Io non vi dico che pregherò il Padre per voi: non vi è bisogno, perché Egli vi ama. – Questa espressione di Gesù Cristo non si ha da intendere in modo da credere ch’Egli come uomo non preghi il Padre, che sarebbe contrario a ciò che S. Paolo scrive: ” Cristo vive sempre intercedendo per noi, „ e al suo ufficio di Mediatore e Sacerdote in eterno. Ma la risposta è facile: Cristo non disse: Io non pregherò, ma ” non vi dico, che Io pregherò per voi, perché il Padre stesso vi ama. „ D’altra parte sappiamo che Gesù Cristo, diffondendo il suo Spirito in noi, prega in noi e con noi, tantoché solo per Lui e con Lui noi possiamo dire a Dio: Padre! Clamamus: Abba, Pater. Gli Apostoli non potevano comprendere come Gesù Cristo, essendo venuto al mondo per stabilirvi il suo regno, si partisse dal mondo senza avervelo stabilito, e ciò che era peggio, nel modo ch’essi immaginavano. Più: essi non sapevano nemmeno concepire dove, partendo dal mondo, se ne dovesse andare. Quali fossero le idee di quei poveri discepoli, è difficile il dirlo, e probabilmente essi stessi non sapevano rendersene conto. Il perché Gesù, a chiarirli, disse: “Io sono proceduto dal Padre e son venuto nel mondo: di nuovo lascio il mondo e vado al Padre: ., in altre parole: Io sono Figlio dell’eterno Genitore; per l’incarnazione sono venuto in mezzo a voi, ed ora lascio voi e questo mondo e me ne ritorno al Padre. Gli Apostoli all’udire quelle parole furono scossi: i loro dubbi, le loro incertezze svanirono; compresero la verità, e nella loro gioia, con un senso di stupore e di gratitudine di averli sì chiaramente illuminati, esclamarono: “Ecco che ora parli apertamente e non adoperi alcuna similitudine. Ora sappiamo che tutto conosci, né hai bisogno che alcuno ti interroghi: perciò crediamo che procedesti da Dio. „ Il conoscere chiaramente ciò che Gesù Cristo era per fare, com’era naturale in quelle distrette dolorose, stava sommamente a cuore a quei poveri Apostoli, sì per l’amore, che sentivano vivissimo pel Maestro, e sì ancora perché toccava troppo da vicino la loro sorte: desideravano ardentemente saperlo, ma per una cotal riverenza e timore figliale non osavano dir tutto: era un pensiero comune in tutti, ma nessuno lo manifestava nettamente: l’aver Cristo indovinato, a così dire, quel loro bisogno e desiderio cocente, parve loro una prova, che leggeva nei cuori, e uscirono in quelle parole: Or sappiamo che tutto conosci, e non hai bisogno che altri ti interroghi, e questo solo, se fosse necessario, ci mostrerebbe che sei il Figlio di Dio. Quella confessione sì spontanea degli Apostoli, in quei momenti sì dolorosi, dovette far balenare un lampo di gioia sulla mesta fronte di Gesù Cristo e spargere una stilla di gioia sul suo cuore trambasciato. – Gli Apostoli furono ammaestrati da Cristo e si rallegravano di aver conosciuto la verità: ma come la conobbero? Perché ne fecero domanda a Gesù Cristo. Noi pure domandiamogli lume ed Egli non ce lo rifiuterà mai.

Credo …

Offertorium

Orémus Ps LXV:8-9; LXV:20

Benedícite, gentes, Dóminum, Deum nostrum, et obœdíte vocem laudis ejus: qui pósuit ánimam meam ad vitam, et non dedit commovéri pedes meos: benedíctus Dóminus, qui non amóvit deprecatiónem meam et misericórdiam suam a me, allelúja. [Popoli, benedite il Signore Dio nostro, e fate risuonare le sue lodi: Egli che pose in salvo la mia vita e non ha permesso che il mio piede vacillasse. Benedetto sia il Signore che non ha respinto la mia preghiera, né ritirato da me la sua misericordia, allelúia].

Secreta

Súscipe, Dómine, fidélium preces cum oblatiónibus hostiárum: ut, per hæc piæ devotiónis offícia, ad coeléstem glóriam transeámus. [Accogli, o Signore, le preghiere dei fedeli, in uno con l’offerta delle ostie, affinché, mediante la pratica della nostra pia devozione, perveniamo alla gloria celeste].

Communio

Ps XCV:2

Cantáte Dómino, allelúja: cantáte Dómino et benedícite nomen ejus: bene nuntiáte de die in diem salutáre ejus, allelúja, allelúja. [Cantate al Signore, allelúia: cantate al Signore e benedite il suo nome: di giorno in giorno proclamate la salvezza da Lui operata, allelúia, allelúia].

Postcommunio

Orémus.

Tríbue nobis, Dómine, cæléstis mensæ virtúte satiátis: et desideráre, quæ recta sunt, et desideráta percípere. [Concedici, o Signore, che, saziati dalla forza di questa mensa celeste, desideriamo le cose giuste e conseguiamo le desiderate.]

 

Nella festa di SAN PIO V

Nella festa di San PIO V

Bolla “Quo primum tempore” 19 luglio 1570 [che accompagnava il Messale Romano di S Pio V, nel quale veniva “pietrificato” il Rito Romano della Santa Messa]: “… Nessuno dunque, e in nessun modo, si permetta con temerario ardimento di violare e trasgredire questo Nostro documento: facoltà, statuto, ordinamento, mandato, precetto, concessione, indulto, dichiarazione, volontà, decreto e inibizione. Che se qualcuno avrà l’audacia di attentarvi, sappia che incorrerà nell’indignazione di Dio Onnipotente e dei suoi beati Apostoli Pietro e Paolo. [Ricordiamo solo per inciso che il tutto venne ribadito con pari autorità dai Sommi Pontefici: Clemente VIII e Urbano VIII _ ndr.] .

I modernisti, cioè i falsi prelati della setta del Novus Ordo, quelli che “si dicono cattolici ma non lo sono”, osano affermare che un Papa possa modificare “allegramente”, anche in senso rosa+croce [offrendo cioè un Sacrificio incruento al signore dell’universo, cioè al baphomret-lucifero!], quello che un Papa precedente ha definito in modo irreformabile e perenne, come appunto è la bolla “Quo Primum” citata. Vogliamo ricordare a questi falsi prelati, mai ordinati validamente, seppure in carnevalesche talari nera, rossa, bianca, o clergyman, etc., a questi mercenari lupi ingannatori, che fingono di obliare il Sacro Magistero della Chiesa Cattolica per giustificare le “porcate sataniche” della loro setta, che per sbugiardarli basta semplicemente il cap. III della Costituzione Apostolica “Pastor Æternus” definita nel Concilio Vaticano presieduto da S. S. Pio IX: “ … è evidente che il giudizio della Sede Apostolica, che detiene la più alta autorità, non può essere rimesso in questione da alcunosottoposto ad esame da parte di chicchessia”. Questo passaggio non ha bisogno, con tutta evidenza, di alcun commento o “ermeneutica”. Quindi colui che si permette di modificare, ribaltare, riscrivere sentenze pregresse, specie con annesso e connesso anatema o maledizione di Dio Onnipotente e degli Apostoli SS. Pietro e Paolo, dimostra semplicemente di essere un impostore, al massimo un antipapa servo di lucifero, un patriarca universale kazaro della sinagoga di satana, non essendo possibile che un Papa “vero”, un successore di S. Pietro, il Vicario di Cristo, possa contraddire anche per un attimo, un successore di Pietro, il Vicario di Cristo. Chi ammettesse questo, sarebbe non solo un blasfemo eretico manifesto, ma anche uno psicopatico demente ed allucinato da immediato T.S.O. … ma si capisce che questo non potrà mai succedere, sarebbe solo una ipotesi fantasmagorica, indegna anche di fumetti disneyani.

[grassetto e colore sono redazionali]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: DIO e MAMMONA

 

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO

DIO E MAMMONA

«Renovatio», VI (1971), fasc. 1, pp. 3-4.

Molti teologi hanno la grave tentazione di ridurre la teologia all’«antropologia». Si tratta di vera tentazione, perché se una teologia antropologica vuol mettere l’uomo al centro, cioè al posto di Dio, rischia di diventare addirittura blasfema; se intende sostituire le istanze umane a quelle divine, dando importanza preminente al benessere di questo mondo sulla vita eterna, diventa degenerata rispetto al suo compito. Può semplicemente occuparsi della parte che riguarda l’uomo – e questa esiste realmente ed obiettivamente in teologia – ma, il farlo in modo unilaterale, implica il pericolo di cadere nei due casi sopra esposti. – Conseguenza grave di una teologia ridotta ad antropologia è il costringere il Cristianesimo ad una mera istanza sociale. Il sociologismo, infatti, ha molte sfumature e varianti; però sposta sempre più o meno l’ago della verità e della realtà da come sono nella divina rivelazione. È per questo motivo che la nostra rivista non esce dalla sua programmatica funzione, se deve toccare qualche argomento in qualche modo sociologico. Per i veri cristiani l’argomento sociale ha sempre avuto come perno la persona umana, tanto degnata da Dio; per gli altri in modo più generale il perno è sempre stato non la persona, anche se si usa ed abusa del termine «libertà», ma il benessere e la sua spartizione. Perché esista una società, e non un mero aggregato, una folla, occorre un’autorità, comunque venga designata. I più accesi sostenitori di rivoluzioni sociali, da essi presentate come redentrici dei lavoratori, hanno terribilmente dilatato i compiti dell’autorità. Non solo non ne hanno potuto fare a meno – il che è eloquente — ma hanno dovuto esasperarli. Ma c’è un altro fatto interessante. Si è allargato lo spazio dell’autorità: costruendola come un potere delegato dal basso. Questo è il potere quale oggi lo abbiamo di fronte: in diverse forme di esercizio, dalla legittima spregiudicatezza alla disonestà. Naturalmente bisogna tenere conto del potere che taluni, senza alcuna delega, si sono costruiti per conto proprio. Il potere non è il denaro, ma, ordinariamente, al punto a cui siamo arrivati oggi, esso dispone a suo piacimento del denaro. La corsa al potere, che è lo spettacolo più impressionante del nostro piccolo mondo, è spesso giustificata dalla sete del denaro. Tra i «poteri» ci sono quelli sull’opinione pubblica, oggi i più tracotanti ed i meno controllati. Ma si tratta sempre di denaro. – Il denaro è lo strumento fungibile dello scambio, il sangue della economia. In sé non è pertanto cattivo; ma, per la capacità che ha di aprire tutte le porte, condiziona ogni potere prettamente terrestre, tanto quanto ne è condizionato. La sua mobilità e il suo impiego ne fanno il centro di tutti gli appetiti. E tuttavia molte strutture stanno spingendo le cose in modo da assoggettare il denaro al potere. Questa è la verità brutale della lotta per la quale una parte degli uomini combatte, mentre gli altri credono sia questione di ideali. – Il Vangelo ha opposto «mammona» a Dio. Nella sua corsa più generosa, quella verso la parità dei diritti, l’equa distribuzione dei beni, la serena convivenza dei popoli, il genere umano si trova impegolato di fatto nel gioco a spirale tra il potere e il denaro. Per i più il soggetto della economia non è, come dovrebbe essere, l’uomo: sono le «cose». E su questo sfondo realistico e brutale che si colora il tentativo di far diventare la teologia un’antropologia. E ripiglieremo il discorso perché ha aspetti anche più gravi. L’uomo si salva solo quando è umile e diventa grande quando adora Dio.