GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: TEOLOGI IN TEMPO DI CRISI

IL MAGISTERO IMPEDITO:

TEOLOGI IN TEMPO DI CRISI

[«Renovatio», VII (1972). fasc. 3, pp. 331-332.]

 Il consenso dei teologi nella Chiesa è criterio certissimo di verità, ossia è sufficiente per dimostrare la verità teologica di un asserto. Tale valore non viene affatto ai teologi di per sé, ma dall’approvazione esplicita, od implicita, dell’autorità magistrale della Chiesa. Se non esiste una solida ragione per cui si possa ritenere che la Chiesa docente ha in qualche modo ratificato una tesi teologica, questa non ha autorità sul piano della fede. Con questo, abbiamo ricordato semplicemente un principio della dottrina cattolica. – È possibile allora rispondere alla domanda: chi, nella Chiesa, è il teologo» nel pieno e vero senso della parola, quello cioè che può concorrere alla formazione del «consenso» dei teologi, criterio certissimo di verità? La risposta è conseguente e necessaria: è teologo chi è in grado di avere l’approvazione del Magistero e pertanto può unirsi alla schiera degli altri che ottengono su un punto lo stesso consenso. Per essere teologi nel senso pieno, e fuori di ogni equivoco o sospetto, non basta aver una laurea in materia, non basta essere professore di teologia, scrivere, disputate, affermare circa la stessa. – La conclusione è netta: molti, moltissimi che oggi si dicono teologi non lo sono affatto nel senso sopra indicato. Non possono turbare la coscienza di alcuno, possono essere discussi da tutti, non sono strumenti utili per l’esercizio del Magistero. La nostra rivista protesta fortemente contro l’abuso che si fa del nome di «teologo». E non è affatto una mera questione di titoli, è invece una questione di sostanza e di serenità nella Chiesa. L’argomento dell’individuazione dei veri teologi, distinti dai non veri, ci porta ad alcune note storiche su quel che accade nel campo, non sempre a ragione, detto «teologico». – Le ideologie culturali che dominano la piazza «laica» non permettono di riconoscere il rapporto tra concetto ed essere, tra parola e vita. L’oggettività del linguaggio è misconosciuta, come lo fu, talvolta, in passato. Infatti per Heidegger il linguaggio coglie l’essere solo nel momento in cui l’essere si dilegua. È evidentemente come dire, in linguaggio corrente, che non coglie nulla. La filosofia analitica afferma che nessuna proposizione ha senso se non è immediatamente verificabile dall’esperienza. In ambedue i modi viene frustrato il rapporto tra concetto e realtà. Essi aprono la via all’affermazione arbitraria perché nel loro quadro il problema della verità neppure esiste. Ciò appare chiaramente nella filosofia ermeneutica, per cui il significato di ogni espressione è ridotto all’incidenza del testo espresso sulla condizione del lettore. Tutto deve ricondursi alla situazione del soggetto che ascolta o legge, disegnata dal messaggio implicito del linguaggio. Questa filosofia non risolve una questione, ma la nasconde nelle pieghe di una trovata. Infatti l’ermeneutica toglie la consistenza al linguaggio per ricondurlo semplicemente ad una soggettiva rielaborazione in colui che lo ascolta. [questa ad esempio è l’“ermeneutica” dietro la quale nasconde le sue eresie il teologo neo-gnostico J. Ratzinger – ndr-]. È nudo soggettivismo. Accostiamoci un momento al campo morale o della norma del costume. Si coglie qua e là, talvolta sussurrato, talvolta esplicito, l’unico riferimento ad un essere «collettivo». Non c’è più il riferimento alla coscienza individuale e di questa alla «norma» che ha un fondamento trascendente: il singolo uomo, la persona è alienata nelle regole puramente esteriori del comportamento collettivo. Questo è lo stato del pensiero nella sua trincea creduta avanzata. Un complesso d’inferiorità inspiegabile, uno zelo discutibile di incontro col mondo e con le «ricchezze» del pensiero moderno hanno autorizzato molte persone, laureate in teologia e non, ad immettere tutto questo nella teologia. – L’immissione è avvenuta non avvertendo che si scardinava tutto: uomo, pensiero, teologia, chiesa, fede. – L’immissione è aggravata da altri fatti dei quali ora citiamo i maggiori. I teologi protestanti, soprattutto tedeschi ed americani, hanno applicato senza risparmio le nuove ideologie alla loro teologia. Ciò è potuto accadere assai facilmente perché alla radice del luteranismo ci sta una fede che è soltanto fiducia e pertanto non espressiva della verità obiettiva immutabile. Non pochi cattolici nell’entusiasmo del dialogo hanno direttamente preso da teologi protestanti armi e bagagli, senza approfondirne le implicazioni. E così ci è dato di leggere quello che ci è dato di leggere. La volontà ecumenica è una ragione ottima. Ma non è mai una ragione valida per tradire la verità obiettiva, anzi rivelata. – La nostra prima considerazione ci ha fatto capire che molti professori di teologia non concorrono a formare il «consenso dei teologi», avente valore di criterio certissimo per la verità. Pensiamo che la seconda serie di considerazioni sull’attuale momento culturale ponga un ulteriore criterio di discrimine. Il soggettivismo conduce dalle vie del pensiero creativo alle vie del pensiero vano, del vaneggiamento. E allora, quanti sono i teologi, quelli che, in regola con la Chiesa, possono essere ascoltati, possono diventare strumento valido del Magistero, soprattutto di quello ordinario? Su quanti oggi scende il consensus Ecclesiæ seu Magisteri? [ … il breve passo omesso è chiaramente manipolato.] La verità non la si ritrova se non nell’unità. Qua e là maestri autentici parlano: siano benedetti. Il loro criterio sia sempre l’accordo con la Chiesa Universale, ossia col Romano Pontefice.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.