TUTTA LA MESSA (L’UNICA “VERA” CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (5)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (5)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE

Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

6 — La purificazione delle mani

155 — Perché il Sacerdote si lava le dita?

La cerimonia della lavanda delle mani ricorda l’antica pratica di offrire doni all’altare. Il ricevimento di questi doni – pane, vino, cera, olio, frutta, ecc. – ed il maneggio dell’incensiere sporcavano le mani del celebrante. In passato, quindi, la lavanda delle mani era un rito di utilità; oggi rimane un rito simbolico.

156 — Cosa figura la lavanda delle mani?

La lavanda delle mani è la purificazione da tutte le contaminazioni: contaminazioni delle mani che presto toccheranno l’Ostia consacrata, contaminazioni dell’anima che sta per ricevere Gesù in sé.

La rubrica prescrive, nella Messa privata, il lavaggio della punta delle dita per marcare la cura che il Sacerdote deve prendere di purificare il suo cuore anche dalle colpe più leggere, dall’ombra stessa del peccato.

157 — Quale preghiera recita il Sacerdote purificandosi le mani?

Il Sacerdote recita una parte del salmo XXV che racchiude il voto di celebrare il sacrificio immacolato dell’Agnello di Dio con la più gran purezza, con il più grande fervore possibile.

Preghiera:

Lavábo inter innocéntes manus meas: et circúmdabo altáre tuum. Dómine: Ut áudiam vocem laudis, et enárrem univérsa mirabília tua. Dómine, diléxi decórem domus tuæ et locum habitatiónis glóriæ tuæ. Ne perdas cum ímpiis, Deus, ánimam meam, et cum viris sánguinum vitam meam: In quorum mánibus iniquitátes sunt: déxtera eórum repléta est munéribus. Ego autem in innocéntia mea ingréssus sum: rédime me et miserére mei. Pes meus stetit in dirécto: in ecclésiis benedícam te, Dómine.

[Laverò fra gli innocenti le mie mani: ed andrò attorno al tuo altare, o Signore: Per udire voci di lode, e per narrare tutte quante le tue meraviglie. O Signore, ho amato lo splendore della tua casa, e il luogo ove abita la tua gloria. Non perdere insieme con gli empi, o Dio, l’anima mia, né la mia vita con gli uomini sanguinari: Nelle cui mani stanno le iniquità: e la cui destra è piena di regali. Io invece ho camminato nella mia innocenza: riscattami e abbi pietà di me. Il mio piede è rimasto sul retto sentiero: ti benedirò nelle adunanze, o Signore.]

7 — La preghiera alla Santa Trinità

158 — Cosa fa il Sacerdote dopo la lavanda delle mani?

Il Sacerdote ritorna al centro dell’altare, alza gli occhi verso il crocifisso e subito li abbassa, mette le mani giunte sull’altare, e poi, in questo atteggiamento, recita una preghiera alla Santissima Trinità.

Preghiera:

Súscipe, sancta Trinitas, hanc oblatiónem, quam tibi offérimus ob memóriam passiónis, resurrectiónis, et ascensiónis Jesu Christi, Dómini nostri: et in honórem beátæ Maríæ semper Vírginis, et beáti Joannis Baptistæ, et sanctórum Apostolórum Petri et Pauli, et istórum et ómnium Sanctórum: ut illis profíciat ad honórem, nobis autem ad salútem: et illi pro nobis intercédere dignéntur in coelis, quorum memóriam ágimus in terris. Per eúndem Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Accetta, o Santissima Trinità, questa offerta che ti facciamo in memoria della passione, risurrezione e ascensione di nostro Signore Gesù Cristo, e in onore della beata sempre Vergine Maria, di san Giovanni Battista, dei santi Apostoli Pietro e Paolo, di questi [martiri le cui reliquie sono nell’Altare], e di tutti i Santi, affinché ad essi sia d’onore e a noi di salvezza, e si degnino d’intercedere per noi in Cielo, mentre noi facciamo memoria di loro in terra. Per il medesimo Cristo nostro Signore. Amen.]

159 — La preghiera alla Santa Trinità riassume tutti gli elementi dell’offerta?

Questa preghiera riassume tutti gli elementi dell’offerta, perché dice a chi si rivolge l’offerta, la parte che il cielo deve prendere in essa, e l’aiuto che la Chiesa sulla terra può aspettarsi da essa.

È a Dio solo che viene offerto il santo Sacrificio. Tuttavia, può essere offerto a Lui in onore di un Santo – cioè per ringraziare il Signore per il trionfo concesso al suo servo – per assicurarci la protezione di un amico di Dio.

Il Concilio di Trento, infatti, citando proprio questa preghiera, afferma: « E sebbene la Chiesa sia stata abituata a volte a celebrare alcune messe in onore e in memoria dei Santi, essa insegna tuttavia che non è a loro che si offre il Sacrificio, ma solo a Dio che li ha incoronati. Per questo il Sacerdote non ha l’abitudine di dire: “Io offro il sacrificio a voi, … Pietro o Paolo; ma, nel rendere grazie a Dio per le loro vittorie, egli implora il loro patrocinio affinché gli stessi di cui ricordiamo la memoria sulla terra, si degnino di intercedere per noi in cielo. »

160 — Perché il Sacerdote menziona i misteri della Passione, della resurrezione e dell’Ascensione di Nostro Signore?

La Messa viene celebrata in memoria della Redenzione le cui parti principali sono: la Passione, la Risurrezione e l’Ascensione di Nostro Signore. Nella Passione, l’Agnello Immacolato è stato immolato; nella Risurrezione, è glorificato; nell’Ascensione, viene a sedersi alla destra del Padre per completare la nostra redenzione e salvezza.

161 — Quali sono i Santi menzionati in questa preghiera?

In questa preghiera, il Sacerdote fa menzione speciale agli stessi Santi che ha invocato nel Confiteor e ai Santi le cui reliquie sono poste nella pietra dell’altare.

162 — Perchè il Sacerdote chiede a Dio per mezzo del Cristo che i Santi preghino per noi?

Chiediamo a Dio per mezzo del Cristo non solo l’effetto delle preghiere che i Santi fanno, ma anche l’ispirazione e il desiderio di farle, perché possiamo chiedergli tutti i mezzi che gli piace usare per manifestare la sua gloria. Dobbiamo chiederlo per mezzo di Gesù Cristo, attraverso il quale solamente, ci deve venire tutto il bene.

« Ci sono intercessori in cielo – dice Bossuet – che pregano con noi: ma essi stessi sono ascoltati solo dal Grande Intercessore e Mediatore Gesù Cristo attraverso il quale tutti hanno accesso, sia gli Angeli che gli uomini, sia i Santi che vi regnano che quelli che combattono ».

163— Quale onore procura ai Santi la menzione del loro nome alla Messa?

La Messa, Sacrificio impetratorio, ottiene da Dio un aumento della gloria accidentale dei Santi, cioè un aumento del loro culto sulla terra. Inoltre, la menzione dei loro nomi nella Messa li associa più strettamente al trionfo dell’Agnello Immacolato in cielo.

8 — Orate Fratres

164— Cosa fa il Sacerdote dopo aver recitato la preghiera alla Santissima Trinità?

Il Sacerdote bacia l’altare, si rivolge ai fedeli, poi, stendendo mani e braccia, invita i presenti alla preghiera.

Preghiera:

Oráte, fratres: ut meum ac vestrum sacrifícium acceptábile fiat apud Deum Patrem omnipoténtem.

[Pregate, fratelli, affinché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio Padre onnipotente.]

Il popolo risponde immediatamente all’invito del Sacerdote, attraverso la voce del servente:

Suscípiat Dóminus sacrifícium de mánibus tuis ad laudem et glóriam nominis sui, ad utilitátem quoque nostram, totiúsque Ecclésiæ suæ sanctæ.

[Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio, a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua Santa Chiesa.]

Il sacerdote aggiunge a bassa voce: Amen, esprimendo così la sua adesione al pio desiderio degli astanti.

165 —Perché il Sacerdote bacia l’altare prima dell’Orate Fratres?

Il sacerdote bacia l’altare in questo momento, perché è nel Nome di Gesù, che l’altare rappresenta, che inviterà i fedeli a pregare.

Le parole Orate Fratres qui prendono il posto della formula ordinaria Oremus e servono come introduzione all’orazione successiva chiamata secreta. In passato, la cerimonia dell’offertorio durava a lungo e poteva distrarre l’attenzione dei fedeli; da qui il richiamo alla preghiera.

Oráte, fratres: ut meum ac vestrum sacrifícium acceptábile fiat apud Deum Patrem omnipoténtem.
M. Suscípiat Dóminus sacrifícium de mánibus tuis ad laudem et glóriam nominis sui, ad utilitátem quoque nostram, totiúsque Ecclésiæ suæ sanctæ.

[Pregate, fratelli, affinché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio Padre onnipotente.
M. Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio, a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua Santa Chiesa.]

166 — A chi si indirizza questa parola “Fratelli”?

Questa parola “fratelli” si rivolge a tutti i fedeli, senza distinzione di condizione o di sesso. Nelle parole degli Apostoli e dei Padri, questo termine designa i membri della Chiesa, rigenerati dallo stesso Sacramento (il Battesimo), nutriti per la vita eterna alla stessa mensa (l’Eucaristia), e uniti gli uni agli altri dai comuni vincoli della stessa fede, speranza e carità.

167— Spiegate questa espressione: “questo mio e vostro sacrificio”.

Nei Sacrifici della croce e nella Messa, è lo stesso Sacerdote che offre; è la vittima stessa che viene offerta, Nostro Signore Gesù Cristo. Ma Cristo si è creato con il Battesimo dei membri che la Cresima ha perfezionato. « Voi siete tutti insieme il corpo di Cristo e singolarmente le sue membra », dice San Paolo. « Non immaginiamoci che Cristo – osserva sant’Agostino – sia nella testa e assente dalle membra. No, è interamente nella testa e nel corpo ». Ecco perché, rinnovando in modo non cruento sui nostri altari il Sacrificio della croce, Cristo non è e non può essere separato da noi, prima di tutto dai suoi Sacerdoti, che ha fatto partecipi del suo Sacerdozio attraverso il Sacramento dell’Ordine, poi dai suoi fedeli intimamente associati a questo Sacerdozio come membri del suo Corpo, «… razza eletta, un sacerdozio regale, un sacerdozio santo, incaricato di offrire le ostie spirituali, gradite a Dio », come li chiama San Pietro. Benché i membri, uniti alla testa, come il ramo al tronco, partecipano all’altare in vari gradi, essi celebrano con Cristo, potendo ciascuno dire, in tutta verità, la MIA Messa, perché Cristo ha voluto che fosse la NOSTRA, dal momento in cui si è unito ai fedeli come membri del Suo Corpo Mistico.

9 — Secreta

168 — Perché questa orazione è chiamata secreta?

Questa preghiera, recitata a bassa voce, si chiama da tempo Secreta, o preghiera silenziosa.

Secondo diversi liturgisti, la parola stessa non significa a “bassa voce”, perché ancora oggi nel rito ambrosiano la preghiera corrispondente viene pronunciata ad alta voce. Secondo essi, la parola “secreta” viene dal latino secernere, che ha il participio secretum e significa “separare”, essendo questa preghiera recitata, alla separazione dei catecumeni dai fedeli, sul pane e sul vino destinati al sacrificio e separati dalle offerte destinate alla distribuzione. Secondo altri liturgisti, la parola “secreta” significa “segreta” o “misterioso”! Costoro considerano la secreta come appartenente al gruppo successivo di preghiere, in cui si trova il “Mistero della fede” per eccellenza: la Consacrazione.

169 — La secreta somiglia alla colletta?

Per quanto riguarda la forma, il numero, l’ordine e la conclusione, valgono le stesse regole che per le collette. Ma il soggetto delle une e delle altre è diverso: nelle collette, in generale, non si fa menzione del Sacrificio; le secrete, al contrario, hanno come obiettivo l’oblazione e contengono più o meno gli stessi pensieri dell’intero offertorio.

170 —Come terminano le secrete?

Il Sacerdote termina la secreta con le parole: per omnia sæcula sæculorum, [per tutti i secoli dei secoli], alle quali il servente risponde Amen. Questo Amen conclude tutta questa parte della Messa. Così sia! un atto di fede, sublime nella sua semplicità, di tutto il popolo cristiano, che approva ciò che è stato fatto, preparato e detto, e si costituisce nel tempo stesso, nell’amore che si offre, ostia con Cristo.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/20/tutta-le-messa-lunica-vera-cattolica-romana-momento-per-momento-6/

TUTTA LA MESSA (L’UNICA “VERA” CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (4)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (4)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE

Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

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Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

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AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

5 — Le predica

119 — Di quante parti si compone la predica?

La predica, come si fa oggi alle grandi Messe, si svolge in tre parti:

a) gli annunci delle feste, dei digiuni e dell astinenze che si verificheranno durante la settimana:

b) gli annunzi di nozze, le funzioni settimanali, le preghiere per i bisogni  temporali e spirituali, per la parrocchia e per i fedeli defunti;

c) l’istruzione dei fedeli.

120 — Che cos’è la predica od omelia?

L’omelia è un discorso familiare sul Vangelo.

6 — Il Credo

121— Quali verità contiene il Credo?

Il Credo contiene le principali verità che la Chiesa ci insegna.

Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente che ha fatto il cielo e la terra, tutte le cose visibili e invisibili. E in un solo Signore Gesù Cristo, unico Figlio di Dio, che nacque dal Padre prima di tutte i secoli, Dio da Dio, luce da luce, vero Dio da vero Dio; non fatto ma generato; consustanziale al Padre e per mezzo del quale tutto è stato fatto. Che, per noi uomini e per la nostra salvezza, scese dal cielo (qui ci inginocchiamo). E si è incarnato per opera dello Spirito Santo nel grembo della Vergine Maria E SI È FATTO UOMO. Che fu crocifisso per noi, soffrì sotto Ponzio Pilato e fu sepolto; è risorto il terzo giorno secondo le Scritture. Ascese al cielo e siede alla destra del Padre e verrà di nuovo nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il cui regno non avrà fine. Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, che procede dal Padre e dal Figlio, che con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato; ed ha parlato per mezzo dei profeti. Credo alla Chiesa; una, santa, cattolica e apostolica. Confesso un solo Battesimo per la remissione dei peccati; Aspetto la resurrezione dei morti e la vita del secolo a venire. Così sia.

122 — Perché il Credo viene detto un symbolo?

La parola simbolo significa marchio, segno e ancora stendardo. Diamo il nome di simbolo al Credo perché un tempo era un marchio o un segno che veniva usato per distinguere i Cristiani dagli infedeli: da signum, da symbolum, dà il segno, recita il simbolo, nella Chiesa primitiva si diceva di quelli che si presentavano alle riunioni. Il Credo è in qualche modo lo stendardo dei Cristiani, vale a dire il loro segnale di battaglia, quando la loro fede viene attaccata e quando si uniscono per difenderla, come i soldati attorno alla loro bandiera.

123— Quanti simboli si contano?

La liturgia reconosce tre symboli di fede:

a) Il symbolo degli Apostoli: la Chiesa lo recita nell’officio del breviario, il padrino e la madrina lo formulano a nome del bambino che sta per essere battezzato.

b) Il symbolo di sant’Athanasio: lo si recita all’Ufficio di certe domeniche.

c) Il symbolo di Nicea: lo si recita alla Messa.

124 — Quando si dice  il Credo alla Messa?

Due motivi in ​​particolare hanno determinato l’introduzione del Credo nella Messa: la speciale solennità del giorno e il rapporto che il simbolo ha con la festa celebrata.

Per la prima ragione, il Credo è recitato nelle feste del titolare della chiesa, ad esempio nella festa di Santa Caterina, San Luigi di Francia, ecc., nelle chiese che sono rispettivamente dedicate a loro; nelle feste del patrono del luogo, vale a dire il Santo che è solennemente onorato come il protettore particolare di una parrocchia, una città, una diocesi, una provincia, per esempio alla festa di Sant’Anna, alle due feste di San Giuseppe; alla festa di un Santo di cui è custodita una reliquia emblematica; alle solenni Messe votive, celebrate per una causa grave e generale, su ordine o con il permesso del Vescovo. L’ottava è la continuazione della festa: se questa ha il Credo, ce l’ha anche l’ottava.

Per la seconda ragione, si dice che il Credo sia presente alle Messe di tutte le domeniche, perché la Domenica è soprattutto dedicata all’adorazione della Santissima Trinità; nelle Messe di Nostro Signore, ad esempio: del Preziosissimo Sangue, del Corpus Christi; dello Spirito Santo; della Beata Vergine; degli Angeli, a causa delle parole: Creatore del cielo … e cose invisibili; degli Apostoli, per via delle parole: credo nella Chiesa che è … apostolica; i due evangelisti Luca e Marco, che si collegano agli Apostoli, e Santa Maria Maddalena, che annunciò la risurrezione di Cristo agli Apostoli; del giorno di Ognissanti, della Dedicazione e del suo anniversario, per via delle parole: credo nella Chiesa che è una; dei Dottori della Chiesa, che hanno magistralmente esposto la dottrina del simbolo.

125 — Perché il Sacerdote fa un segno di croce terminando il Credo?

Un tempo i fedeli pronunciando le parole “la risurrezione dalla carne”, solevano mettere le mani sulla fronte per affermare con questo gesto che è nella loro carne che resusciteranno. In seguito questo gesto è stato prolungato nel segno di croce.

TERZA PARTE

La Messa dei fedeli

OFFERTA:

Offertorio

Offerta del pane

Miscela dell’acqua e del vino

Offerta del vino

Invocazione allo Spirito Santo

Lavaggio delle mani

Preghiera alla santa Trinità

Orate Fratres

Secreta

CONSACRAZIONE:

Prefazio

Sanctus

Canone

Te igitur

Memento dei vivi

Communicantes

Hanc igitur

Quam oblationem

Consacrazione del pane e del vino

Unde et memores

Supra quæ

Supplices

Memento dei morti

Nobis quoque peccatoribus

La conclusione del Canono

COMUNIONE

Pater

Libéra nos

Frazione del pane

Agnus Dei

Preghiera per la pace

Preghiere prima della Comunione

La Santa Comunione

Le abluzioni

L’Antifona della Comunione

Il Postcommunio

La Preghiera sul popolo

La dimissione dei fedeli

Il Placeat

La benedizione

L’ultimo Evangelio

Le preghiere dopo la Messa

CAPITOLO IV

126 — Come si divide la Messa dei fedeli?

La Messa dei fedeli è divisa in tre parti: offerta, consacrazione e comunione (preparazione e ringraziamento).

Questa divisione è indicata dalle sante parole che precedono la consacrazione del pane e del vino: “Egli prese il pane… e anche questo prezioso calice” (offerta); “rese grazie, benedisse” (consacrazione); “spezzò e diede” (comunione).

OFFERTA

127 — Qual è lo scopo dell’Offerta?

Attraverso le preghiere e le cerimonie dell’Offerta, i fedeli, prima di offrire il santo Sacrificio dell’altare, affidano al Sacerdote di Dio le loro intenzioni di offerta e di domanda.

1 — Offertorio

128 — Perché il Sacerdote dice il “Dominus vobiscum” dopo il Credo?

Il sacerdote dice Dominus vobiscum dopo il Credo, perché è lì che inizia la Messa dei fedeli. Il sacerdote saluta il gruppo dei battezzati che parteciperanno al Sacrificio della Messa e li invita alla preghiera con questa parola: oremus, preghiamo.

129 — Come si faceva un tempo l’offerta dei doni all’altare?

In passato, i presenti venivano in processione per offrire al sacerdote i doni per il sacrificio, – pane e vino, – o per il fabbisogno personale del celebrante, – pane, vino, latte, miele, – o per il servizio pubblico della Chiesa, – olio, candele, incenso e altri doni.

Ascoltare la Messa o offrire il proprio pane era allora tuttuno per i fedeli. Chi non si è offerto non doveva associarsi al Sacrificio del Vescovo o del Sacerdote. San Cipriano (= 258) rimprovera una donna ricca che, per avarizia, si è astenuta dall’offrire, ma non ha esitato a fare la comunione: “Osi – diceva – partecipare al sacrificio offerto da un povero”.

130 — Donde deriva l’antifona chiamata offertorio?

Fintanto che la durava cerimonia di offerta, due cori eseguivano un canto composto da un’antifona ed alcuni versi. Questo canto processionale, come l’introito, non aveva nulla a che fare con l’offerta fatta all’altare; esprimeva un’idea in linea con la solennità del giorno. Questo carattere è stato generalmente preservato abbreviandolo.

131— Quando oggi i fedeli fanno i loro doni per il santo sacrificio?

Per ragioni pratiche, i fedeli sostituirono le oblazioni in natura richieste per il santo sacrificio – pane e vino – con il loro equivalente in forma di monete o di altri valori materiali. Per le stesse ragioni, i fedeli provvedevano al mantenimento personale dei loro Sacerdoti e al servizio pubblico della Chiesa con contributi in denaro. Questa è l’origine degli onorari per le Messe, delle questue, ecc.

Sant’Epifanio (+ 403) cita il caso di un ebreo che era stato battezzato segretamente sul letto di morte dal Vescovo di Tiberiade e iniziato ai sacri misteri dell’Eucaristia. Terminata la cerimonia, consegnò al Vescovo una quantità d’oro molto importante e gli disse: “Offri per me”. Santa Matilde ( + 968), alla morte del marito, l’imperatore Enrico l’uccellatore, fu sorpresa dagli eventi. Al posto delle normali oblazioni, offrì al sacerdote due braccialetti d’oro, chiedendogli di celebrare la Messa per il defunto.

132 — Con quale spirito i fedeli devono fare le loro offerte?

La nostra vita è legata al nostro pane, chi si aliena il suo pane, dona la sua vita, si dona vivente, si dona da se stesso. Nel portare il pane e il vino all’altare, i fedeli non solo offrivano. ma si offrivano da se stessi con Cristo. Nonostante le nuove modalità, il rito dell’oblazione e il suo significato profondo rimangono ancora oggi. Offrendo oggi le loro monete, i fedeli continuano ad offrire se stessi. Quanto più santo sarà questo atto di oblazione, tanto più sarà gradito a Dio, tanto più agirà sul suo cuore, tanto meglio assicurerà l’abbondanza delle sue grazie, tanto più sarà fecondo.

2 — Offerta del pane

133 — Cosa fa il Sacerdote dopo aver letto l’offertorio?

Il Sacerdote scopre il calice, prende tra le mani la patena su cui poggia l’ostia, la solleva davanti ai suoi occhi, che guardano per un attimo la croce sull’altare e subito ritornano all’ostia; pronuncia la preghiera Suscipe, “Ricevi, Santo Padre” … poi pone l’ostia sul corporale, facendosi il segno della croce con la patena.

Preghiera:

Suscipe, sancte Pater, omnipotens ætérne Deus, hanc immaculátam hóstiam, quam ego indígnus fámulus tuus óffero tibi Deo meo vivo et vero, pro innumerabílibus peccátis, et offensiónibus, et neglegéntiis meis, et pro ómnibus circumstántibus, sed et pro ómnibus fidélibus christiánis vivis atque defúnctis: ut mihi, et illis profíciat ad salútem in vitam ætérnam. Amen.

[Accetta, Padre santo, onnipotente eterno Iddio, questa ostia immacolata, che io, indegno servo tuo, offro a Te Dio mio vivo e vero, per gli innumerevoli peccati, offese e negligenze mie, e per tutti i circostanti, come pure per tutti i fedeli cristiani vivi e defunti, affinché a me ed a loro torni di salvezza per la vita eterna. Amen.]

134 — Perché il pane disposto sulla patena si chiama ostia?

Il pane depositato sulla patena diventerà presto il corpo di Cristo, la vera vittima o ostia reale del sacrificio. Attraverso questo pane materiale, la Chiesa contempla già in anticipo la vittima immacolata, l’ostia immacolata, Cristo Gesù.

135 — Di qual tipo di pane ci si serve per il santo Sacrificio della Messa?

I primi Cristiani offrivano al Sacerdote il pane delle loro case, pane fermentato. A partire dal settimo secolo, si è cominciato a preferire sempre più il pane azzimo. Nell’XI secolo le chiese d’Occidente usavano il pane azzimo e quelle d’Oriente il pane fermentato. Il Concilio di Firenze (1439) dichiarò la perfetta legittimità dell’usanza stabilita. Oggi  « nella celebrazione della Messa il sacerdote deve, secondo il proprio rito, usare pane azzimo o fermentato ovunque si trovi ». Questa è la regola stabilita dal Codice di Diritto Canonico.

136 — Cosa simbolizza il pane senza lievito?

Il lievito rappresenta la malizia e la malvagità. Poiché il pane eucaristico è azzimo, per mangiarlo con dignità, bisogna togliere dal cuore ogni lievito di peccato.

137 — Perché il Sacerdote leva gli occhi al momento dell’offerta?

Quando compieva atti particolarmente solenni, Gesù alzava gli occhi al cielo: per esempio, alla risurrezione di Lazzaro, alla moltiplicazione dei pani. Il sacerdote imita questo gesto durante la Messa, prima dell’oblazione del calice, durante l’invocazione allo Spirito Santo, prima della preghiera alla Santissima Trinità e anche prima della consacrazione.

138 — A chi il Sacerdote indirizza la sua preghiera?

Come farà spesso alla Messa, qui il Sacerdote si rivolge soprattutto a Dio  Padre, in unione con il Salvatore che si immola Egli stesso sull’altare al suo Padre celeste.

139 — Per chi il Sacerdote offre  il Sacrificio?

Prima per se stesso, poi per tutti i presenti, e infine per tutti i Cristiani, vivi e morti.

È normale che gli offerenti – un tempo offrendo in natura, oggi con un’offerta pecuniaria – siano presenti al Sacrificio, poiché è il loro sacrificio. Possono essere materialmente assenti, ma anche in loro assenza sono veramente offerenti; il Sacerdote offre a Dio il sacrificio in loro favore e da parte loro.

140 — Perchè è offerto il santo Sacrificio?

Il santo Sacrificio è offerto per la remissione dei peccati e per la salvezza di tutti nella vita eterna.

La Messa è infatti un Sacrificio propiziatorio, cioè rende Dio propizio, clemente e misericordioso onde perdonarci le nostre miserie, i nostri peccati e così riconciliarci con Lui.

La salvezza è la totalità di tutti i beni portati da Gesù Cristo; possederli significa essere salvati. Per noi qui sulla terra inizia con la grazia e si consuma dopo la morte nella gloria.

3 — Mescolanza dell’acqua e del vino

141 — Cosa fa il Sacerdote dopo aver deposto l’ostia sul corporale?

Il sacerdote si reca al lato dell’Epistola e versa nel calice il vino e qualche goccia d’acqua.

“Il Santo Concilio (di Trento) avverte che la Chiesa impone ai Sacerdoti di mescolare l’acqua con il vino da offrire nel calice, sia perché Cristo Nostro Signore, si crede, lo abbia fatto, sia perché l’acqua sgorga dal suo fianco insieme al sangue; è questo mistero che viene commemorato da questa mescolanza; e come le acque nell’Apocalisse di San Giovanni significano i popoli, così è qui rappresentata l’unione del popolo fedele stesso con il suo capo, Cristo. (Conc. Trid. Sess. XXII, c. VII).

142 — Come la mescolanza dell’acqua al vino rapresenti la nostra unione al Cristo?

Come l’acqua mescolata al vino partecipa alla natura del vino e diventa in qualche modo il vino stesso, così per grazia partecipiamo alla natura divina e diventiamo in qualche modo Dio stesso. Il Sacerdote, attraverso la preghiera che recita in quel momento, chiede a Dio di concederci di essere partecipi della natura divina:

Preghiera:

Deus, qui humánæ substántiæ dignitátem mirabíliter condidísti, et mirabílius reformásti: da nobis per hujus aquæ et vini mystérium, ejus divinitátis esse consórtes, qui humanitátis nostræ fíeri dignátus est párticeps, Jesus Christus, Fílius tuus, Dóminus noster: Qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus: per ómnia sæcula sæculórum. Amen

O Dio, che in modo meraviglioso creasti la nobile natura dell’uomo, e più meravigliosamente ancora l’hai riformata, concedici di diventare, mediante il mistero di quest’acqua e di questo vino, consorti della divinità di Colui che si degnò farsi partecipe della nostra umanità, Gesù Cristo tuo Figlio, Nostro Signore, che è Dio e vive e regna con Te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

143 — Quale è alla Messa la conseguenza dell’unione dei fedeli al Cristo?

Come Cristo, il capo del Corpo mistico della Chiesa, guida i suoi membri nella sua offerta, così i fedeli non sono più semplici trasgressori, sono veramente trasgressori. Ogni mattina, partecipando all’oblazione della Messa, versano nel calice del sacrificio di Cristo – come la piccola goccia d’acqua persa nel vino del calice – la somma dei sacrifici che la loro fedeltà alla sua legge richiede a ciascuno di loro, nel corso della giornata.

« Io sono – dice il Cardinale Mercier – la piccola goccia d’acqua che il vino della Messa assorbe, e il vino della Messa diventa il sangue dell’Uomo-Dio ». E il Dio-Uomo è sostanzialmente unito alla Santissima Trinità. La piccola goccia d’acqua viene portata nel fiume della vita della Santissima Trinità. Sarà mai abbastanza pura, abbastanza chiara, la piccola goccia d’acqua destinata a partecipare al santo Sacrificio della Messa?

144 — Perché il Sacerdote benedice l’acqua prima di mescolarla al vino?

L’acqua è l’immagine dei Cristiani, che hanno sempre bisogno di grazia e che traggono il massimo beneficio dalla loro unione con Gesù Cristo.

Nelle Messe dei Morti questa benedizione viene omessa. Tutte le cerimonie di questo ufficio hanno lo scopo di ottenere il maggior numero possibile di grazie per il defunto; pertanto, tutto ciò che può indicare il frutto che va ai presenti o ai vivi viene omesso.

4 — Offerta del vino

145 — Che fa il Sacerdote dopo aver mescolato l’acqua al vino?

Il sacerdote ritorna al centro dell’altare, solleva il calice per presentarlo a Dio e allo stesso tempo recita la preghiera: Offerimus,

Preghiera:

Offérimus tibi, Dómine, cálicem salutáris, tuam deprecántes cleméntiam: ut in conspéctu divínæ majestátis tuæ, pro nostra et totíus mundi salute, cum odóre suavitátis ascéndat. Amen.

[Ti offriamo, o Signore, questo calice di salvezza, e scongiuriamo la tua clemenza, affinché esso salga come odore soave al cospetto della tua divina maestà, per la salvezza nostra e del mondo intero. Così sia.]

146 — Perché il Sacerdote dice questa preghiera al plurale?

Il sacerdote è l’ambasciatore della Chiesa all’altare; perciò egli offre a nome di tutti i fedeli, e questi, specialmente gli assistenti, offrono in unione con il Sacerdote. Con il loro Amen, fanno proprie in qualche modo le parole del sacerdote.

Ci riuniamo in comune – dice San Cipriano – e celebriamo i sacrifici divini con il Sacerdote di Dio. San Paolo ha già scritto (1 Cor., X, 16): « Il calice di benedizione che noi benediciamo », cioè che consacriamo. Con queste parole si intendono i fedeli presenti al Sacrificio.

147 — Perché il Sacerdote chiama il vino offerto a Dio il calice della salvezza?

Presto questo vino sarà trasformato nel sangue di Nostro Signore; questo sangue è stato versato per la nostra salvezza e per la salvezza del mondo intero. È per noi uomini e per la nostra salvezza che il Verbo è sceso dai cieli, come cantiamo nel Credo.

148 — Spiegate l’espressione “salire come un profumo soave”.

Questa espressione allude agli antichi sacrifici, come quelli di Abele. Si bruciava allora una vittima e, vedendo il fumo salire verso il cielo, si stimava che Dio accettasse questo sacrificio odorando con soddisfazione il fumo odoroso.

149 — Quali disposizioni devono avere il Sacerdote ed i fedeli offrendo il santo Sacrificio?

Queste disposizioni sono riassunte nella preghiera che il sacerdote recita con le mani giunte e poste sul bordo dell’altare:

Preghiera:

In spíritu humilitátis et in ánimo contríto suscipiámur a te, Dómine: et sic fiat sacrifícium nostrum in conspéctu tuo hódie, ut pláceat tibi, Dómine Deus.

[Con spirito di umiltà e con animo contrito, possiamo noi, o Signore, esserti accetti, e il nostro sacrificio si compia oggi alla tua presenza in modo da piacere a Te, o Signore Dio.]

150 — Qual è il senso di questa preghiera?

Questa preghiera si trova per la prima volta sulle labbra dei tre giovani israeliti nella fornace di Babilonia. Poiché questi giovani non potevano più offrire a Dio i sacrifici prescritti dalla Legge, si sono offerti come vittime espiatrici, per ottenere misericordia per i loro peccati e per quelli del popolo. Seguendo il loro esempio, in spirito di umiltà e con cuore contrito, dobbiamo offrirci a Dio come olocausti graditi al Signore. Queste sono le migliori disposizioni che possiamo portare all’altare.

151 — Perché questa espressione “Possiamo esserti accetti”?

Le oblazioni – pane e vino – rappresentano gli offerenti stessi, il Sacerdote e i fedeli, esseri imperfetti che devono quindi presentarsi al Signore battendosi il petto.

5 — L’invocazione allo Spirito-Santo

152 — Quale rubrica osserva il Sacerdote recitando la preghiera allo Spirito-Santo?

Il sacerdote, in piedi, alzando e tendendo le mani, inizia l’invocazione allo Spirito Santo, poi, con le parole benedice questo sacrificio, fa il segno della croce sia sull’ostia che sul calice.

Preghiera:

Veni, sanctificátor omnípotens ætérne Deus: et bene dic hoc sacrifícium, tuo sancto nómini præparátum.

[Vieni, Onnipotente Santificatore, Dio Eterno, benedici questo sacrificio preparato per la gloria del tuo Santo Nome.]

153 — Perché questa invocazione allo Spirito Santo?

La liturgia unisce a più riprese i misteri dell’Incarnazione e dell’Eucaristia. Pur essendo prodotte dalla potenza divina delle tre Persone, tuttavia, come opere d’amore, l’Incarnazione e la consacrazione sono attribuite soprattutto allo Spirito Santo. La benedizione a cui si fa riferimento in questa preghiera è la consacrazione.

Senza sosta, la Chiesa tiene gli occhi fissi sulla transubstanziazione delle Oblate, sul corpo e sul sangue di Gesù Cristo. È attraverso la consacrazione e per essa che tutte queste cerimonie preparatorie di offerta hanno il loro significato.

154 — Perché il Sacerdote traccia un segno di croce sui doni deposti sull’altare?

Questo segno della croce rappresenta la benedizione dello Spirito Santo, che viene implorato sui doni offerti; l’alzare gli occhi, che lo precede, e il movimento delle mani mostrano il forte desiderio della discesa dello Spirito Santo e delle sue benedizioni.

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TUTTA LA MESSA (L’UNICA “VERA” CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (3)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (3)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE

Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

7 — L’Introito

63 — Cosa fa il Sacerdote dopo aver baciato l’altare nella direzione ove si trovano le reliquie?

Il Sacerdote, dopo aver baciato l’altare in direzione delle reliquie, va al lato dell’Epistola per leggere l’introito.

64 — Cosa significa la parola Introito?

La parola introito significa entrata; l’introito era un tempo un canto processionale che veniva eseguito mentre il Sacerdote si avvicinava all’altare.

65— Di quanti parti si compone l’introito?

L’Introito è composto da quattro parti: l’antifona, il versetto, la dossologia o Gloria Patri, l’antifona.

Nella formula normale e probabilmente la più antica, l’antifona è presa in prestito da un salmo, e il versetto che segue è il primo del salmo stesso. Spesso il testo dell’antifona è fornito da un passo biblico adattato, e talvolta da altre composizioni. Così, nella domenica di Quasimodo, l’antifona è tratta dalla prima epistola di San Pietro e dal versetto del Salmo LXXX.

66 — Qual è lo scopo dell’Introito?

L’Introito annuncia e commenta brevemente il mistero o la festa che il Santo Sacrificio solennizza. A volte esprime gioia o dolore, altre volte speranza o gratitudine, oppure è un pianto dolorosa o una preghiera, – I nostri antenati vivevano nella fede così uniti alla Chiesa nella celebrazione del suo culto, che chiamavano le domeniche come l’antifona degli Introiti. Si dice infatti: la domenica “Gaudete”, le domeniche “Lætare”, “Quasimodo”; si dice anche la Messa votiva “Rorate” della Beata Vergine, la Messa di Requiem”.

Notiamo qui l’espressione: “Noi ti rendiamo grazie per la tua grande gloria”, La Chiesa non dice: ti ringraziamo per le tue benedizioni e le tue misericordie. Essa usa un modo di dire molto più bello e profondo, dicendo: “Vi ringraziamo per la vostra grande gloria”. Questo modo di parlare esprime l’amore più puro dell’autoindulgenza, un amore che dimentica se stesso, non pensa al proprio vantaggio, ma solo alla gloria del suo amato Signore.

67 — Perché il Sacerdote fa il segno della croce cominciando la lettura dell’introito?

L’Introito costituisce veramente l’inizio del fatto liturgico per eccellenza: la Santa Messa. È abitudine dei Cristiani segnarsi prima degli atti importanti.

68 — Perché il Sacerote fa il segno della croce sul Messale alla Messa da requiem?

Alla Messa dei morti, le prime parole dell’Introito si applicano in modo molto speciale ai morti. È per loro che il Sacerdote, attraverso il frutto del suo Sacrificio, chiede il riposo eterno e la luce infinita. Invece di segnare se stesso per attribuirsi questa benedizione, segna il Messale e attribuisce la benedizione al defunto.

8 — Le Kyrie

69 — Che significa l’invocazione Kyrie eleison?

Questa invocazione, Kyrie eleison, composta da due parole greche, significa: Signore, abbiate pietà di noi.

70Quali suppliche richiama il Kyrie eleison?

Il Kyrie eleison ricorda le suppliche del cieco di Gerico, della donna Cananea, dei dieci lebbrosi.

71 — Perché si dice il Kyrie eleison in greco?

In passato, in Oriente, all’inizio della Messa, il diacono raccomandava ai fedeli i bisogni della Chiesa, dei Vescovi, dei Sacerdoti, dei Cristiani, dei catecumeni, dei malati, ecc… Ad ognuna di queste richieste, i fedeli rispondevano nella loro lingua: Kyrie eleison, Signore, abbi pietà di noi. Queste parole, che si ripetono frequentemente, sono diventate popolari e sono state accettate così com’erano dalla Chiesa latina senza preoccuparsi di tradurle.

La liturgia ha anche le espressioni ebraiche Amen, Alleluta, Sabaoth, Osanna: così troviamo nella Messa le tre lingue che, già sulla croce, proclamavano al mondo la regalità di Gesù Cristo (Giovanni, XIX, 20).

72 — A chi viene indirizzata l’invocazione Kyrie eleison?

I primi tre Kyrie sono rivolti a Dio Padre, i tre Christe a Dio Figlio, gli ultimi tre Kyrie a Dio Spirito Santo.

9 — Il Gloria

Gloria
Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex coeléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

[Gloria a Dio nell’alto dei cieli. E pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi Ti lodiamo. Ti benediciamo. Ti adoriamo. Ti glorifichiamo. Ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa. Signore Iddio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente. Signore, Figlio unigenito, Gesù Cristo. Signore Iddio, Agnello di Dio, Figlio del Padre. Tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi. Tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica. Tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi. Poiché Tu solo il Santo. Tu solo il Signore. Tu solo l’Altissimo, Gesù Cristo. Con lo Spirito Santo ✠ nella gloria di Dio Padre. Amen.]

73 — Quando sono state pronunciate per la prima volta le parole “Gloria in excelsis”?

Queste parole: « Gloria in excelsis » sono state pronunciate per la prima volta dagli Angeli che annunciano ai pastori la nascita di Gesù a Betlemme. Per questo motivo si chiama Inno degli Angeli.

74 — Quante parti si distinguono nel Gloria?

Nel Gloria si possono distinguere tre parti: la prima è a gloria del Padre, la seconda è una supplica al Figlio, la terza è rivolta allo Spirito Santo.

75 — Mostrate come il Gloria esprima i quattro fini del santo Sacrificio della Messa.

Il Santo Sacrificio della Messa è offerto per:

glorificare Dio (adorazione) – « Noi vi lodiamo, vi benediciamo, vi adoriamo »;

ringraziarlo (ringraziamento) – « Noi vi rendiamo grazie »;

espiare i peccati degli uomini (propiziazione) – « Voi che cancellate il peccato del mondo, abbiate pietà di noi »;

ottenere grazie (impetrazione) – « Accettate la nostra preghiera ».

[Notiamo qui l’espressione: « Noi ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa » – La Chiesa non dice: ti ringraziamo per le tue benedizioni e le tue misericordie. Essa usa un modo di dire molto più bello e profondo, dicendo: “Vi ringraziamo per la vostra gloria immensa”. Questo modo di parlare esprime l’amore più puro dell’indulgenza, un amore che dimentica se stesso, non pensa al proprio vantaggio, ma solo alla gloria del suo amato Signore.]

76 — In quali Messe è omesso il  Gloria e perché?

Il Gloria è un inno di gioia. Viene quindi soppresso nei giorni di lutto e di digiuno: nelle Messe per i defunti, nei giorni di Avvento e di Quaresima, e nella veglia di alcune feste.

Ecco la regola da seguire: ogni volta che il Te Deum viene recitato la mattina dell’ufficio quotidiano, il Gloria viene detto alla Messa in accordo con quell’ufficio; quando il Te Deum viene omesso dall’ufficio, viene omesso anche il Gloria. Ci sono due eccezioni: il Giovedì Santo e il Sabato Santo, dove si dice il Gloria nella Messa, anche se il Te Deum viene omesso dall’Ufficio, perché la Messa di questi due giorni ha un carattere gioioso che contrasta con la tristezza che regna nell’Ufficio.

Il Gloria non si dice nelle Messe votive, se non in quella della Beata Vergine, il sabato, in quella degli Angeli, e nella solenne Messa votiva per un serio interesse.

CAPITOLO III – ISTRUZIONI

77 — Qual è lo scopo dell’Instruzione?

Le preghiere, gli inni e le lezioni di cui si compone l’Istruzione hanno come scopo principale l’illuminazione dello spirito: servono a risvegliare la fede e ad accendere la devozione, affinché il sacerdote e i presenti siano preparati per il grande atto che deve essere compiuto sull’altare.

1 — Colletta e orazione

78  Perché il Sacerdote dice il Dominus vobiscum dopo il Gloria?

Finito il Gloria, il Sacerdote dice il Dominus vobiscum per invitare al raccoglimento il popolo in nome del quale va a pregare.

79 — Qual è il senso della parola colletta?

La parola “colletta” un tempo si usava per designare gli incontri dei fedeli per la preghiera, e soprattutto per la celebrazione della Santa Eucaristia. L’invito a pregare “Oremus”, [preghiamo], era immediatamente seguito dall’enumerazione di varie intenzioni. Il diacono diceva dopo ognuna di esse: “inginocchiamoci”, e l’assemblea pregava in ginocchio con queste intenzioni fino al momento in cui si diceva “levate”, cioè alzatevi in piedi. Il Sacerdote cantava poi una preghiera che riassumeva le preghiere dette in silenzio dai presenti. Il nome di “colletta”, che dapprima designava gli assistenti, ha ben presto designato la preghiera fatta a nome degli assistenti.

80 — Il Sacerdote può recitare più di una colletta

Nelle grandi feste, il Sacerdote dice una sola colletta. Nelle feste minori, il sacerdote può dirne diverse. Queste orazioni aggiunte alla prima, sono o memoriali di Santi la cui festa coincide con quella del giorno, o delle preghiere devozionali che il Sacerdote può aggiungere quando le rubriche glielo permettono, o un’orazione speciale ordinata dal Vescovo della diocesi per una particolare necessità.

81 — Da quante parti è composta la colletta?

La colletta è composta da quattro parti: l’elevazione dell’anima a Dio, il ringraziamento o la glorificazione, la petizione e la conclusione.

a) La preghiera è un’elevazione dell’anima a Dio.

b) Glorifichiamo Dio: o per i suoi attributi, o per i privilegi che ha concesso ai Santi, o per il mistero che celebriamo.

c) Dopo aver spiegato le ragioni della nostra fiducia e il motivo per cui ci rivolgiamo a Dio in un determinato giorno, chiediamo un favore che corrisponda alle qualità così sottolineate.

Questa parte centrale della colletta è di solito introdotta dalle parole: “concedete, accordate, proteggete, noi vi domandiamo”, etc…

d) Infine, poiché è Gesù Cristo il grande intermediario tra Dio e gli uomini, il Sacerdote termina la sua preghiera affidandosi ai meriti di Gesù Cristo per ottenere la grazia richiesta.

Tutte le collette contengono queste quattro parti. Per esempio, la preghiera della Domenica delle Palme:

a) Dio onnipotente ed eterno,

b) che, per dare al genere umano un modello di umiltà, avete voluto che il nostro Salvatore si rivestisse della nostra carne e si sottomettesse al tormento della croce;

c) concedeteci, nella vostra bontà, di meritare che riteniamo la lezione della sua pazienza e di partecipare alla sua risurrezione.

d) dallo stesso Nostro Signore Gesù Cristo. Così sia.

82 — Perché il Sacerdote stende le mani durante la colletta?

Questo rito risale a tempi antichi. Anche prima del Cristianesimo, gli Ebrei e i gentili alzavano le mani al cielo per pregare. Sant’Agostino esorta i fedeli a riprodurre, pregando, il segno di Cristo sulla croce.

83— Quale rubrica osserva il Sacerdote nel terminanre la colletta?

Al termine della colletta, il Sacerdote unisce le mani e si inchina al crocifisso dell’altare.

84 — Perché i fedeli rispondono “amen” alla fine della colletta?

I fedeli rispondono “amen” alla fine della colletta per unirsi alla preghiera che il Sacerdote ha fatto per loro.

2 — Epistola

85 — Quale preghiera fa il Sacerdote dopo aver letto o cantato le orazioni?

Dopo aver letto o cantato le orazioni, il Sacerdote, ponendo le mani sulla base del messale, legge l’epistola. E il servente risponde Deo gratias.

In passato, il chierico incaricato di questo ufficio leggeva gli scritti degli Apostoli e dei Profeti fino a quando la cerimonia lo consentiva, riprendendo da dove si era interrotto la domenica precedente. Per fermare la lettura, chi presiedeva diceva Deo Gratias.

86 — Perché il Sacerdote mette le mani sul messale leggendo l’Epistola?

Il sacerdote pone le mani sul messale mentre legge l’Epistola, per imitare il suddiacono che, durante le Messe solenni, tiene il libro tra le sue mani durante questa lettura.

87 — Donde viene questo nome di Epistola?

I primi Cristiani, riuniti per l’offerta del Sacrificio, leggevano i Libri Sacri. Questa lettura era presa dall’Antico Testamento, secondo l’usanza delle sinagoghe ebraiche, e anche dal Nuovo Testamento, di solito dalle Epistole degli Apostoli, specialmente da quelle di San Paolo. Da qui l’abitudine di chiamare questa lettura Epistola, anche quando è presa dagli Atti degli Apostoli o dall’Antico Testamento.

88— Perchè questi Cristiani leggevano di preferenza le Epistole degli Apostoli?

I primi Cristiani furono Ebrei o Gentili recentemente convertiti dagli Apostoli. Le Epistole loro rivolte dagli Apostoli continuavano l’insegnamento già ricevuto e correggevano gli errori di interpretazione delle loro parole. Così San Paolo raccomanda ai Tessalonicesi, « a tutti i santi fratelli », di leggere la sua lettera.

89— Quali sono gli Apostoli che hanno scritto delle Epistole?

San Pietro, San Giovanni, San Paolo, San Giuda e San Giacomo.

90— Quali parole introducono la lettura dell’Epistola?

L’epistola si intitola lectio, cioè lettura. Le parole Fratres, fratelli miei, e Carissimi, miei cari, ricordano in quali termini San Paolo e gli altri Apostoli si rivolgevano ai loro fedeli.

L’attuale Messale contiene 135 diverse letture dell’Antico Testamento di cui 25 tratte da Isaia; 106 letture dalle Epistole di San Paolo; 22 dal Libro degli Atti; 12 dalle due epistole di San Pietro; 12 dall’Apocalisse.

91 — L’epistola comprende diverse letture?

L’epistola di solito ha una sola lettura. In alcune Messe, come nei quatuor Tempora, ci sono diverse letture.

92 — Che significa la formula Deo gratias?

La formula Deo gratias significa: rendere grazie a Dio; è un’espressione di gratitudine al Signore, Autore di ogni bene. Gesù, fonte di grazia e di santità, è anche la fonte di luce e di verità. È doveroso ringraziarlo per gli insegnamenti che elargisce mediante la bocca dei suoi inviati.

3 — Graduale, Alleluia, Tratto, Sequenza

93 — Quali preghiere dice il Sacerdote dopo l’epistola?

Dopo l’Epistola. Il Sacerdote dice il Graduale e l’Alleluia.

94 — Di quante parti si compone il Graduale?

Il Graduale è composto da due parti, un responsoriale e un versetto preso dai salmi. In passato, dopo la lettura dell’epistola, un cantore cantava un salmo e il coro rispondeva: la parte del cantore era chiamata responsorio, la parte del coro versetto.

Il cantore che intonava il salmo stava su un grado dell’ambone, cioè il pulpito, dove si leggeva l’epistola. Dalla parola latina gradus, che significa gradino, è nata la parola Graduale per designare il canto un tempo eseguito sul gradino dell’ambone.

95 — Che significa la parola Alléluia?

La parola Alleluia significa: lodate il Signore.

96 — L’Alleluia si dice in tutte le Messe?

L’Alléluia è un canto gioioso: lo si sopprime in Quaresima, nelle Messe dei morti, e nei giorni di penitenza.

97 — Cosa si chiama Tratto?

Il Tratto era un salmo eseguito un tempo tutto d’un tratto da un solo cantore nell’ambone, senza essere interrotto da un responsoriale o da un’antifona; il nome Tratto indica quindi il modo in cui questo salmo viene cantato. In seguito, il Tratto, come il Graduale, è stato ridotto al canto di alcuni versetti.

98 — Quando si dice  il Tratto alla Messa?

Si dice il Tratto nella Messa al posto dell’Alleuja, durante la Settuagesima fino al termine della Quaresima.

99 — Cosa si chiama Sequenza?

Si chiama Sequenza dei canti, in prosa o in versi, delle aggiunte all’Alleluia o al Tratto.

100 — Qual è l’origine delle Sequenze?

Era consuetudine in passato prolungarere il canto sull’ultima lettera dell’Alleluia senza aggiungervi nuove parole. Ben presto cominciarono a essere poste delle parole sotto queste note: a questi canti fu dato il nome di Sequenze, cioè canti che seguono l’Alleluia o il tratto.

101 — Perché si dà il nome di Prosa alle Sequenze?

Le Sequenze sono chiamate Prosa perché originariamente erano composte in prosa.

102— Quali sono attualmente le Prose o Sequenze accettate alla Messa?

Quattro antiche Sequenze sono state accettate alla Messa da Papa San Pio V: la Victimæ paschali, a Pasqua; il Veni Sancte Spiritus, a Pentecoste; il Lauda Sion, al Corpus Domini; e il Dies iræ, alle Messe dei Morti. Più tardi è stato aggiunto lo Stabat Mater, per la festa della Madonna dei Sette Dolori.

4 — Evangelio

103— Che significa la parola Evangelio?

La parola Evangelo significa “buona notizia”. La predicazione del Salvatore e le sue opere costituiscono questa buona notizia.

104— Cosa fa il Sacerdote prima della lettura dell’Evangelio?

In piedi al centro dell’altare, il sacerdote alza gli occhi alla croce, poi li abbassa immediatamente e, con il corpo profondamente chinato e le mani unite, chiede a Dio di purificarlo e di benedirlo per la lettura che sta per fare.

Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen.

Jube, Dómine, benedícere.

Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen.

[Preghiera:

Purificate il mio cuore e le mie labbra, Dio onnipotente, che avete “purificato le labbra del profeta Jsaia, con un carbone ardente; degnatevi, con la vostra benevola misericordia, di purificarmi affinché io possa annunciare dignamente il vostro santo Vangelo. Per mezzo di Gesù Cristo Nostro Signore. E così sia.

Degnatevi, Signore, di benedirmi.

Che il Signore sia nel mio cuore e sulle mie labbra, affinché io possa annunciare degnamente e convenientemente il Suo santo Vangelo. Così sia.]

105 — Raccontate la visione di Isaia.

In una visione, il profeta Isaia vide il Signore seduto su un alto trono e udì gli Angeli dire più e più volte: « Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti, tutta la terra è piena della sua gloria ». Isaia, ricordando le sue colpe e pieno di sacro timore, gridò: « Guai a me! Mi sono perso! Io, uomo dalle labbra impure, ho visto il Signore delle schiere celesti! » Poi un Serafino prese un carbone ardente dall’altare e volò verso Isaia e gli toccò le labbra, dicendo: « Il fuoco ha toccato le tue labbra; la tua iniquità è stata tolta, il tuo peccato è stato espiato ». E Isaia proclamò al suo popolo gli oracoli divini. (Isaia, VI, 1 ss.)

106 — Perché il Sacerdote demanda a Dio di purificarlo?

Secondo un pensiero frequente negli scritti dei Santi Padri, l’anima deve ricevere la parola di Dio con una purezza pari a quella richiesta per la ricezione della Santa Eucaristia.

107 — Come si posiziona il Messa sull’Altare per la lettura dell’Evangelio?

Per la lettura del Vangelo, il Messale è posto di sbieco, in modo che il retro del libro guardi l’angolo dell’altare. Questo orientamento del Messale permette al celebrante di volgersi leggermente verso il popolo.

108 — Cosa simbolizza l’orientamento del Sacerdote durante la lettura dell’Evangilio?

Ogni altare dovrebbe essere rivolto ad est. Nel Vangelo, il celebrante, volgendosi alla sua sinistra, guarda a nord, la regione del freddo e delle tenebre, che simboleggia la dimora del principe delle tenebre, la cui venuta oscura le menti e raffredda i cuori. Rivolto a nord, il sacerdote legge il Vangelo, la parola stessa di Dio, che illumina gli spiriti e riscalda i cuori.

Inoltre, volgendosi alla sua sinistra, il sacerdote un tempo si faceva sentire meglio dagli uomini che occupavano questa parte della chiesa. Essi dovevano ascoltare bene le parole del Santo Vangelo per poterle poi spiegare con cura alle loro mogli e ai loro figli quando tornavano a casa.

109 — Perchè i fedeli restano in piedi durante la lettura dell’Evangelio?

Questo è l’atteggiamento di un servo alla presenza del suo padrone: designa il rispetto e l’attenzione dovuti alla parola del Salvatore, e la docilità nell’eseguire i suoi ordini.

110— Nominate i quattro Evangelisti.

San Matteo, san Luca, san Marco et san Giovanni.

111— Perché il Sacerdote dice “Dominus vobiscum” prima di cominciare la lettura dell’Evangelio?

Nelle Messe cantate, la lettura del Vangelo è fatta dal Diacono che si rivolge all’assemblea per la prima volta e lo fa con questo saluto.

112 — Come indica il Sacerdote il passaggio dell’Evangelio che sta per leggere?

Le parole: “inizio del Santo Vangelo…” e “sequenza del Vangelo “… indicano da quale evangelista e da quale parte del libro è tratto il brano da leggere. E a queste parole segue l’espressione: “In quel tempo” … , a meno che il Vangelo non inizi con la designazione del tempo in cui si sia verificato l’evento di cui si parla.

113 — Come il Sacerdote segna il Messale e si segna egli stesso all’inizio dell’Evangelio?

Il sacerdote pone la mano sinistra sul libro e, con il pollice della mano destra, fa il segno della croce all’inizio del testo che sta per leggere; e poi, mettendo la mano sinistra sotto il petto, fa il segno della croce sulla fronte, sulla bocca e sul petto con il pollice della mano destra.

114 — Perchè il celebrante traccia tutte queste croci?

Il Vangelo è la parola di Cristo, la bocca di Cristo, secondo l’espressione di sant’Agostino. Il libro dei Vangeli o Testo, come lo chiamavano semplicemente gli antichi, rappresenta la Persona stessa del Salvatore, che con la sua croce ha meritato per noi ogni grazia di illuminazione e di santificazione. Segnando il Libro dei Vangeli, il celebrante prende in prestito da Cristo stesso le grazie d’illuminazione e di santificazione che applica a se stesso segnandosi successivamente:

a) sulla fronte, per illuminare e affinare la sua fede e non arrossire mai nell’apparire Cristiano, cioè come discepolo di Cristo:

b) sulle labbra, per professare coraggiosamente la dottrina del Maestro;

c) sul petto, per conservare gli insegnamenti di Cristo come un tesoro nel proprio cuore e per meditarli con amore.

Tutti i fedeli devono imitare, in comunione di pensiero con il Sacerdote, questi stessi segni della croce sulla fronte, sulle labbra e sul cuore.

115 — Quali passaggi dei santi Evangeli si leggono alla Messa?

Durante l’anno, durante la Messa, leggiamo i passi dei Santi Vangeli che ci manifestano i grandi eventi della vita di Cristo, dalla sua nascita all’Ascensione, e ripetiamo i punti principali della sua dottrina.

Il nostro Messale contiene 198 diversi Vangeli, tra cui 65 da San Matteo, 12 da San Marco, 58 da San Luca, 63 da San Giovanni.

116 — Cosa risponde il servente dopo la lettura dell’Evangelio?

Il servente risponde a nome dell’assemblea: Lode a te, o Cristo! Egli testimonia così la profonda gratitudine dei fedeli che stanno per ricevere la verità e le sue grazie.

117 — Perché il Sacerdote bacia all’inizio l’Evangelio che sta per leggere?

Questo bacio non è solo un segno di venerazione per la parola di Cristo e di comunione con la dottrina evangelica, ma anche un segno di adorazione. Nel baciare il libro dei Vangeli, noi adoriamo Cristo stesso.

L’adorazione con cui onoriamo l’immagine di Cristo, la croce e i santi Vangeli non è rivolta al legno, all’oro, alla pergamena, ecc… ma alla Persona di Cristo, rappresentata da queste immagini o simboli materiali.

118 — Quale preghiera fa il Sacerdote baciando il santo Evangelio?

Nel baciare il Santo Vangelo, il sacerdote dice: « Per Evangélica dicta, deleántur nostra delícta »[Per queste parole evangeliche siano cancellati i nostri peccati]

Il Vangelo – le opere e le parole di Gesù – è stato ispirato dallo Spirito Santo agli evangelisti; la sua lettura, ascoltata con pietà, ha la virtù di produrre le disposizioni che ci ottengono la remissione dei peccati veniali, se abbiamo il fermo desiderio di vivere secondo questa dottrina insegnata.

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TUTTA LA MESSA (L’UNICA “VERA” CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (2)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (2)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S. Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28 martii 1943

SECONDA PARTE

La Messa dei Catecumeni

25 — Come si raggruppano le preghiere della Messa dei Catecumeni?

Le preghiere della Messa dei Catecumeni possono suddividersi in due gruppi: la preparazione e l’istruzione.

Preparazione: Entrata nella chiesa. – Il segno della croce. – Salmo Judica me. – Confiteor.La salita all’altare. Incensamento.Introïto.Kyrie.Gloria.

Istruzione: Colletta e orazione. –  Epistola – Graduale e Alléluia. -Evangelio. – Predica. – Credo.

PREPARAZIONE

26 — Cosa esprimono le preghiere della preparazione?

Le preghiere di preparazione esprimono fiducia in Dio nell’umile confessione delle colpe, il pentimento che implora misericordia. Attraverso di loro, l’anima si ordina, si orientata verso l’ideale primario di ogni Cristiano, la glorificazione del Padre.

1 — L’entrata in Chiesa

27— Descrivete l’andata verso l’altare.

Il sacerdote, vestito dei paramenti, prende il calice preparato con la mano sinistra e lo tiene all’altezza del petto, con la mano destra sulla borsa. Si inchina davanti alla croce o all’immagine in sacrestia e procede verso l’altare, preceduto dal servente.

28— Cosa fa il Sacerdote entrando in Chiesa?

Entrando in chiesa, il Sacerdote prende l’acqua santa e si fa il segno della croce.

L’uso dell’acqua santa quando si entra in chiesa indica che si vuole avere un’anima pura per partecipare alla Messa, e per dedicarsi con dignità alla preghiera.

Nelle religioni antiche era consuetudine non entrare mai nel tempio senza essersi purificati. La stessa religione ebraica prescriveva il lavaggio delle mani. Da lì, nel cortile del tempio si vedeva una vasca di bronzo piena d’acqua, chiamata il mare di bronzo. La Chiesa ha cristianizzato l’uso dell’acqua collocando delle acquasantiere vicino alle porte della chiesa.

29— Perché il Sacerdote sale all’altare prima di cominciare le preghiere della Messa?

Il Sacerdote sale all’altare prima di iniziare le preghiere della Messa per porre il calice sul corporale, che dispiega completamente, e per mettere i segnalibri nelle pagine del messale dove leggerà le preghiere della Messa.

2 — Il segno della croce

In nomine Patris et Filii et Spiritus sancti. Amen.

30— Perché si fa il segno della croce cominciando le preghiere della Messa?

Il segno della croce viene fatto all’inizio delle preghiere della Messa per tre motivi principali:

1) è il Sacrificio della croce che il Sacerdote, in unione con i fedeli, rinnoverà sull’altare;

2) è a nome della Santissima Trinità, cioè a gloria delle tre Persone divine e con il loro aiuto, che il Sacerdote offrirà il Santo Sacrificio a cui tutti i fedeli parteciperanno;

3) è l’inizio di un’azione importante.

31—Qual è l’origine del segno della croce?

Era consuetudine tra i primi Cristiani non iniziare alcuna azione importante senza fare il segno della croce, per indicare che tutto è stato fatto nel nome di Nostro Signore Gesù Cristo, rendendo grazie a Dio Padre per mezzo suo. Ora, con questo segno, si impiegava di solito la formula: “Nel nome del Padre, e del Figlio, ecc.” per invocare contemporaneamente la Santa Trinità. Da questo deriva la consuetudine di segnarsi, non appena pronunciato il nome della Trinità; questo può avvenire durante la Messa, sia invocando direttamente le Persone divine, sia semplicemente nominandole.

3 — Il salmo “Judica me” e la sua antifona

S. Introíbo ad altáre Dei.
M. Ad Deum, qui lætíficat iuventútem meam.
Postea alternatim cum Ministris dicit sequentem:
Ps. XLII, 1-5.
S. Iúdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab hómine iníquo et dolóso érue me.
M. Quia tu es, Deus, fortitudo mea: quare me reppulísti, et quare tristis incédo, dum afflígit me inimícus?
S. Emítte lucem tuam et veritátem tuam: ipsa me deduxérunt, et adduxérunt in montem sanctum tuum et in tabernácula tua.
M. Et introíbo ad altáre Dei: ad Deum, qui lætíficat iuventútem meam.
S. Confitébor tibi in cíthara, Deus, Deus meus: quare tristis es, ánima mea, et quare contúrbas me?
M. Spera in Deo, quóniam adhuc confitébor illi: salutáre vultus mei, et Deus meus.

Sacerdos repetit Antiphonam:
S. Introíbo ad altáre Dei.
M. Ad Deum, qui lætíficat iuventútem meam.

[Quindi, con le mani giunte davanti al petto, comincia l’Antifona:
S. Mi accosterò all’altare di Dio.
M. A Dio che dà letizia alla mia giovinezza.
Alternandosi con il ministro e i fedeli, dice:
Ps. XLII, 1-5.
S. Fammi giustizia, o Dio, e separa la mia causa da quella di una nazione non santa, e liberami dall’uomo iniquo e ingannatore.
M. Perché tu, o Dio, sei la mia forza; perché mi hai tu rigettato? e perché me ne vo’ contristato, mentre il nemico mi affligge?
S. Manda la tua luce e la tua verità: esse mi guidino e mi conducano al tuo santo monte e ai tuoi tabernacoli.
M. E mi accosterò all’altare di Dio; a Dio che dà letizia alla mia giovinezza.
S. Io ti loderò sulla cetra, o Dio, Dio mio. Perché, o anima mia, sei triste? e perché mi conturbi?
M. Spera in Dio, perché io lo loderò ancora: egli salute della mia faccia, e mio Dio.
S. Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo.
M. Come era in principio, e ora, e sempre, e nei secoli dei secoli. Amen.
Il Sacerdote ripete l’Antifona:
S. Mi accosterò all’altare di Dio.
M. A Dio che dà letizia alla mia giovinezza.

A. — L’Antifona

32 —Cosa indica la parola antifona?

La parola antifona si riferisce a un verso, una frase, una parola che apre e chiude i salmi e gli inni.

33 —Da dove è tratta l’Antifona « Io andrò all’altare di Dio »?

Questo antifona è tratta dal salmo “Judica me”.

I neobattezzati, uscendo dal fonte battesimale, si recavano all’altare per ricevere il Corpo del Signore, dicendo: “Andrò all’altare di Dio, del Dio che dà gioia alla mia giovinezza”.

34 — Cosa significa qui la parola giovinezza?

La parola “giovinezza” qui significa la vita soprannaturale, ottenuta attraverso la rigenerazione, effetto della grazia dello Spirito Santo.

Questa grazia distrugge in noi il vecchio peccatore e ci veste dell’uomo nuovo che rinasce nella conoscenza di Dio. Chi, “come un bambino appena nato, spogliato di ogni malizia, inganno, occultamento, invidia e calunnia”, si fa avanti verso l’altare, vede crescere la giovinezza del suo spirito, cioè il suo zelo, il suo ardore al servizio di Dio.

B. — Il Salmo

35 — Cosa esprime il SalmoJudica me”?

Il Salmo “Judica me” è una preghiera, seguita da una santa risoluzione, e si conclude con un atto di speranza e di sottomissione alla volontà di Dio.

36 — Chi ha composto il SalmoJudica me?

Questo salmo è attribuito al santo re Davide. Davide, cacciato da Gerusalemme dalla rivolta del figlio Assalonne, è duramente inseguito dai suoi nemici. La sua separazione dal Tabernacolo lo addolora e gli sembra un segno dell’ira di Dio. Sospira perciò il giorno in cui, liberato dai suoi nemici, verrà al santuario per cantare sull’arpa, mentre sull’altare dell’olocausto vengono offerti sacrifici di ringraziamento.

37 — In chi mette la sua fiducia il re David?

Il re David mette la sua fiducia in Dio, fonte di luce, di salvezza e di riposo.

38 — Si faccia l’applicazione l’applicazione di questo salmo al Sacerdote ed ai fedeli che offrono il santo Sacrificio

Come il re Davide, noi viviamo in esilio in questo mondo dove i nemici delle nostre anime sono molto numerosi. Chiediamo a Dio di liberarci da essi, perché Egli è la forza di coloro che confidano in Lui. Gli chiediamo la sua luce, che dissiperà le tenebre della nostra afflizione, e la sua verità, cioè la salvezza che si è impegnato a dare ai giusti e che deve operare se vuole che le sue promesse siano mantenute.

39 — Perché incliniamo ls testa recitando il Gloria Patri?

Nel recitare il Gloria Patri, chiniamo il capo per rispetto all’infinita maestà di Dio e come testimonianza del nostro nulla e della nostra indegnità.

Il Gloria Patri, chiamato la piccola Dossologia, (canto di gloria), forma la conclusione ordinaria dei salmi.

40 — Perché in certe Messe si omette la recita del salmo Judica me?

Questo salmo cerca di allontanare la tristezza dall’anima. Suppone, in chi lo recita, impressioni che sono soprattutto consolanti e gioiose. Conviene dunque sopprimerlo quando l’anima è permeata dal dolore e dalla pietà, come nelle Messe da Requiem e nelle Messe della Passione.

4 — Le Confiteor

41— Si reciti il “Confiteor”.

Confiteor Deo omnipotenti, beatæ Mariæ semper Virgini, beato Michael Archangelo, beato Joanni Baptistæ, sanctis apostolis Petro et Paulo, omnibus sanctis et tibi, Pater: quia peccavi nimis cogitatione, verbo et opere. Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. Ideo precor beatam, Mariam semper Virginem, beatum Michaelem archangelum, beatum Joannem Baptistam, sanctos apostolos Petrum, et Paulum, omnes sanctos, et te. Pater, orare pro me ad Dominum Deum nostrum.

Misereatur vestri omnipotens Deus, et dimissis peccatis vestris, perducat vos ad vitam aeternam, Arnen.

Indulgentiam, + absolutionem et remissionem peccatorum nostrorum tribuat nobis omnipotens et misericors Dominus. Arnen.

Confesso a Dio onnipotente, alla beata sempre Vergine Maria, al beato Michele Arcangelo, al beato Giovanni Battista, ai Santi Apostoli Pietro e Paolo, a tutti i Santi e a voi, o fratelli, di aver molto peccato, in pensieri, parole ed opere: per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. E perciò supplico la beata sempre Vergine Maria, il beato Michele Arcangelo, il beato Giovanni Battista, i Santi Apostoli Pietro e Paolo, tutti i Santi, e voi, o fratelli, di pregare per me il Signore Dio nostro.

 
M. Dio onnipotente, abbia pietà di te, e, perdonati i tuoi peccati, ti conduca alla vita eterna.

 
S. Amen,


S. Il Signore onnipotente e misericordioso ✠ ci accordi il perdono, l’assoluzione e la remissione dei nostri peccati.


R. Amen.

Le Confiteor è introdotto  da un versetto del Salmo CXXIII-8

V. Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cœlum et terram.

[V. Il nostro aiuto ✠ è nel nome del Signore
R. Che ha fatto il cielo e la terra.]

42— Perché il Sacerdote si segna all’Adjutorium?

Il sacerdote si segna all’Adjutorium perché con questa preghiera inizia una nuova azione.

43— In quante parti si divide il Confiteor?

Il Confiteor è diviso in due parti: dapprima prendiamo i Santi come testimoni delle nostre colpe, e poi ricorriamo alla loro onnipotente intercessione davanti a Dio.

44— Quale rubrica osserva il Sacerdote recitando il Confiteor?

Mentre recita il Confiteor, il Sacerdote, con le mani giunte, si inchina profondamente davanti all’altare e si batte tre volte sul petto dicendo mea culpa,

45— Cosa significano questa attitudine e questi gesti durante la récita del Confiteor?

Questo atteggiamento del sacerdote segna la disposizione di un povero peccatore, oppresso dal peso delle sue colpe, contrito ed umiliato, che implora perdono e misericordia.

Il Sacerdote e i fedeli colpiscono il petto tre volte perché hanno offeso Dio in tre modi: nel pensiero, nella parola e nell’azione. Sant’Agostino dice: “Colpire il petto è accusare e punire il peccato nascosto nel nostro cuore”.

46 — La confessione dei peccati prima del Sacrificio è peculiare della Chiesa Cattolica?

La confessione dei peccati ha sempre preceduto il sacrificio. Tra gli Ebrei, quando il sommo sacerdote offriva il capro espiatorio, confessava tutte le iniquità dei figli di Israele.

47 — Perchè nel Confiteor si si invoca in particolare la Santa Vergine, San Michele, San Giovanni-Battista, gli Apostoli San Pietro e San Paolo?

La Beata Vergine Maria è il rifugio dei peccatori; San Michele ha vendicato l’oltraggio di Lucifero fatto a Dio; San Giovanni Battista ha predicato la penitenza per la remissione dei peccati; San Pietro, il capo degli Apostoli, ha ricevuto da Gesù il potere di perdonare i peccati; San Paolo ha ottenuto la grazia di una straordinaria conversione.

48 — Cosa domanda il Sacerdote con la preghiera dell’assoluzione?

Il Sacerdote chiede al Signore, in virtù dell’onnipotenza di Dio, di avere pietà dei fedeli, di perdonare i loro peccati, di elevarli dalla morte spirituale alla vita di grazia e di condurli alla gloria.

Questo è un sacramentale, cioè è una formula e un rito che, in virtù della preghiera stessa della Chiesa e delle buone disposizioni di coloro che assistono alla Messa, cancella i peccati veniali e rimette le punizioni temporali dovute ai peccati.

49—Perché il Sacerdote si segna nel dire le preghiere dell’assoluzione?

Perché è per i meriti della croce che sono cancellati inostri peccati.

5. — Salita all’altare

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
O
rémus,
Aufer a nobis, quœsumus, Dómine, iniquitátes nostras: ut ad Sancta sanctórum puris mereámur méntibus introíre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen.
Orámus te, Dómine, per mérita Sanctórum tuórum, quorum relíquiæ hic sunt, et ómnium Sanctórum: ut indulgére dignéris ómnia peccáta mea.
Amen.

[V. Volgendoti a noi, o Dio, ci farai vivere.
R. E il tuo popolo si rallegrerà in Te.
V. Mostraci, o Signore, la tua misericordia.
R. E da’ a noi la tua salvezza.
V. O Signore, esaudisci la mia preghiera.
R. E il mio grido giunga fino a Te.
V. Il Signore sia con voi.
R. E con lo spirito tuo.
Preghiamo,
Togli da noi, o Signore, le nostre iniquità: affinché con ànimo puro possiamo entrare nel Santo dei Santi. Per Cristo nostro Signore. Amen.
Ti preghiamo, o Signore, per i mériti dei tuoi Santi dei quali son qui le relíquie, e di tutti i tuoi Santi: affinché ti degni di perdonare tutti i miei peccati. Amen.]

50 — Qual è il senso di questa espressione: rivolgetevi a noi?

Questa espressione significa: preveniteci, aiutateci a convertirci con la vostra grazia preveniente ed operante.

51— Perchè il Sacerdote dice: “mostrateci, Signore, la vostra misericordia”?

Il Sacerdote, consapevole della sua indegnità di salire all’altare, invita il Signore misericordioso a purificarsi ulteriormente e a meritare di celebrare degnamente.

52 — Perchè il Sacerdote si inchina dicendo questi versetti?

Il Sacerdote si inchina mentre dice questi versi per mostrare il suo rispetto e la sua fiducia.

53 — Perché il Sacerdote dice il “Dominus vobiscum”?

Il Sacerdote dice “Dominas vobiscum” per chiedere a Dio di benedire in modo speciale coloro ai quali rivolge questo desiderio e di invitare i fedeli ad una fervente preghiera, annunciata da questa parola “Oremus”, cioè Preghiamo.

Il sacerdote chiede ripetutamente durante la Messa che Dio sia con coloro che assistono al Santo Sacrificio, e i presenti esprimono il desiderio che Dio sia con lo spirito del celebrante.

54— Il saluto “Dominus vobiscum” è antico?

Booz diceva ai suoi mietitori: il Signore sia con voi, come ripete anche spesso san Paolo nelle sue lettere: la grazia del Signore sia con voi. Il Papa e i Vescovi usano la stessa formula quando si rivolgono ai fedeli.

55 — Che significa l’espressione: entrare nel Santo dei santi?

L’espressione entrare nel santo dei santi qui significa salire all’altare e offrire il santo sacrificio.

Nell’Antica Legge, il Sommo Sacerdote, egli solo, e solo una volta all’anno, poteva entrare in questa parte del Tempio chiamata il Santo dei Santi e offrire il sangue delle vittime.

56— Quali santi invoca il Sacerdote salendo all’altare?

Mentre il sacerdote sale all’altare, invoca i Santi le cui reliquie sono contenute nella pietra sacra. Si rivolge poi a tutti i Santi, in particolare a Gesù Cristo, loro Capo e Re, il cui emblema è l’altare.

57 — Perché il Sacerdote bacia l’altare dicendo la preghiera: Oramus te?

Il sacerdote bacia l’altare per venerare la pietra consacrata dal Vescovo e le reliquie dei Santi contenute in questa pietra.

58 — Perchè si chiudono le reliquie dei santi nella pietra dell’altare?

In ricordo della Messa che un tempo si celebrava presso le tombe dei Santi Martiri sepolti nelle catacombe.

6 L’incensamento dell’altare(nelle Messe cantate)

59 — L’uso dell’incenso è antico?

Il Signore stesso, secondo l’Antica Legge, aveva descritto esattamente come e quando l’incenso doveva essere preparato e quando doveva essere usato. Ogni giorno, mattina e sera, un sacrificio di incenso veniva offerto sull’altare dell’incenso posto nel santuario. L’incenso fu introdotto all’inizio del culto cristiano e divenne di uso generale quando nel quarto secolo, fu data libertà alla Chiesa.

60 — Di cosa l’inceso è figura ed immagine?

L’incenso che viene bruciato, rappresenta il sacrificio interiore dell’anima, e rappresenta la preghiera che piace a Dio. Le nuvole di fumo simboleggiano i frutti della preghiera, cioè la grazia che scende dal cielo o va dal tabernacolo e dall’altare, dove risiede Gesù Cristo.

61— L’incenso è impiegato sempre come segno di adorazione?

No, la Chiesa se ne serve anche come testimonianza della venerazione dovuta a tutto ciò che è santo. Ecco perché, oltre al Santissimo Sacramento, sono incensate le reliquie e le immagini dei santi, il libro dei Vangeli, il Sacerdote celebrante, il clero e il popolo.

62— Perchè si benedice l’incenso prima di servirsene?

Si benedice l’inenso prima di servirsene per fare una cosa santa e consacrata a Dio. Questa benedizione ci presenta più perfettamente l’incenso come un simbolo religioso. Così si fa per le ceneri e per le palme.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/15/tutta-la-messa-lunica-vera-cattolica-romana-momento-per-momento-3/

TUTTA LA MESSA (L’UNICA “VERA” CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (1)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (1)

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Avvertenza per il lettore

TUTTA LA MESSA IN DOMANDE E RISPOSTE, potrebbe portare come sottotitolo “Note di un catechista”. Inizialmente avevo redatto queste note per un corso di liturgia dato alla Scuola Marchand (Montréal). Per l’utilità di un maggior numero di fedeli, le ho pubblicate ad episodi nel nostro giornale parrocchiale, “Il faro”. Hanno fatto evidentemente del bene essendomi stata richiesto di raggrupparle in un volume e così diffonderle. – La dottrina si ritrova nel migliori commentari della Messa, in particolare Gihr, Croegaert, Grimaud, Dom Gaspard Lefebvre, Vandeur ed altri. Ho frequentemente citato i commentari dei Padri della Chiesa per dimostrare che noi preghiamo come i primi Cristiani. Questo libro vi viene offerto innanzitutto come come uno strumento di lavoro: io ho mirato all’utilità di coloro che insegnano e di coloro che vogliono apprendere. Non pretendo di aver detto l’ultima parola circa i soggetti trattati, né di aver detto tutto. Se volete, in aiuto di questa opera, per meglio comprendere, stimare ed utilizzare la Messa, leggete lentamente, poco alla volta, riflettete, meditate durante la Messa stessa, i riti; le parole per voi vuote di senso, saranno alfine luce, gioia e vita. Possano queste righe, che io ho dedicato all’Agnello immolato, farvi meglio gustare la vostra Messa per viverne profondamente.

Aldéric BEAULAC, p.s.s.

PRIMA PARTE

Nozioni generali

CAPITOLO I. NOZIONI GENERALI

a) Preliminari

1 — Che significa la parola MESSA?

La parola Messa significa rinvio. In passato, fin dall’inizio del Sacrificio, all’offertorio, coloro che erano in penitenza e coloro che non erano stati battezzati, che erano chiamati catecumeni, venivano rinviati: coloro che erano in penitenza e coloro che non erano stati battezzati – chiamati catecumeni – venivano mandati fuori dalla Chiesa. Alla fine del Sacrificio, il diacono diceva, come fa oggi: ite, missa est, andate, questa è finita, questo è il rinvio. Il popolo si è ricordato di questa parola e l’ha applicata a tutto il rito. – Il nome più antico della Messa era “Ecaristia”: esso significa azione di grazie. Si chiamò anche liturgia, cioè servizio pubblico. Alla Messa sono stati dati altri nomi: Elogio, che significa benedizione, frazione del pane, Cena, per ricordare l’ultimo pasto che Gesù fece con i suoi discepoli e il gesto di distribuire il pane consacrato; Santo Sacrificio, perché la Messa è il Sacrificio della croce rinnovata in mezzo a noi.

2 — Cosa si indica con: le cerimonie della Messa?

Si chiamano « le cerimonie della Messa » gli atti esteriori della Religione e i segni simbolici che la Chiesa usa nella celebrazione del Santo Sacrificio, per elevarne la maestà, istruire i fedeli e alimentare la loro pietà.

3 — Cosa si intende per: liturgia della Messa?

Si chiama « liturgia della Messa » l’ordine delle cerimonie e delle preghiere ufficialmente stabilito per la celebrazione della Messa dall’autorità religiosa competente.

La Messa, liturgia per eccellenza, ufficio pubblico, sempre uguale nella sua essenza, ha ricevuto solo gradualmente la disposizione che oggi vi troviamo. Cristo è stato il primo ad offrire il Sacrificio eucaristico. Nello stesso tempo, Egli diede ai suoi Apostoli e ai loro successori il potere e il comando di fare ciò che Egli stesso fece. Gli Apostoli aggiunsero all’atto essenziale del Sacrificio, varie preghiere ed alcune usanze, secondo le circostanze di tempo, luogo e persona, affinché la celebrazione dei santi Misteri fosse circondata da un maggiore rispetto ed edificazione. Nel corso dei secoli, a seconda della necessità o dell’utilità, questo rito si è sempre di più sviluppato, ordinato e completato. Da ciò sono nate diverse liturgie in tempi diversi, in luoghi diversi e tra popoli diversi. Sono esse però tutte concordi nei punti essenziali; si differenziano più o meno solo per la loro composizione e struttura.

4 — Quali sono le principali liturgie della Messa!

In generale, le varie liturgie sono divise in due gruppi: le liturgie orientali e quelle occidentali. – Le liturgie orientali si differenziano da quelle occidentali non solo per la loro patria d’origine e la loro lingua, ma anche per lo spirito, la forma e la composizione. Le principali liturgie della Chiesa d’Oriente sono: la liturgia di San Giacomo, la liturgia di Alessandria, la liturgia di San Basilio, di San Giovanni Crisostomo, degli Armeni, dei Melchiti, dei Siriani, dei Caldei, dei Bulgari Uniti. Tutte queste varie forme liturgiche sono state approvate dalla Chiesa Romana. Le principali liturgie occidentali sono: quella mozarabica, quella gallicana antica, quella ambrosiana e quella romana.

La liturgia romana ha sempre prevalso su tutte le altre e oggi è diffusa in tutte e cinque le parti del mondo. In Canada, gli orientali seguono la liturgia del loro paese d’origine; i fedeli di altre nazionalità adottano la liturgia romana.

5 — Quali differenze si possono notare nella celebrazione della Messa?

C’è la Messa cantata, in cui i canti liturgici accompagnano l’offerta del Santo Sacrificio, e la Messa bassa, in cui il Sacerdote recita le preghiere, senza alcun canto.

Tutti gli elementi della Messa cantata (o solenne), se spogliati della loro solennità, si ritrovano come raccolti e condensati nella Messa bassa: le parole vi si trovano nella loro interezza, con la differenza che i brani cantati alla Messa solenne sono letti ad alta voce alla Messa bassa.

6 — Siamo noi obbligati ad assistere alla Messa?

La Chiesa ci prescrive di partecipare alla santa Messa la domenica e nelle feste di precetto, non appena compiamo sette anni:

La domenica e nei giorni festivi, ascolterai la Messa.

7 —Come si deve assistere alla Messa?

Al Santo Sacrificio della Messa si deve assistere con la fede e l’amore dimostrato dagli Apostoli nella sua istituzione il Giovedì Santo; lo spirito di sacrificio e di riparazione della Beata Vergine, in piedi della croce, alla consumazione del Sacrificio del Calvario il Venerdì Santo”.

8 — Chi celebra il santo Sacrificio della Messa?

Celebra il Santo Sacrificio della Messa, il Sacerdote. – Il giorno dell’ordinazione, il Vescovo fa sì che l’ordinando tocchi il calice contenente il vino e la patena con l’ostia, dicendo: Ricevi il potere di offrire il sacrificio a Dio e di celebrare la Messa per i vivi e per i morti nel nome del Signore.

9 — Dove si celebra la Messa?

La Messa viene celebrata su un altare, di solito in una chiesa o in un oratorio aperto al pubblico.

10— Che cosa è l’altare?

L’altare è una tavola, sollevata da terra, sulla quale viene offerto un sacrificio. – Si distinguono due tipi di altari: l’altare fisso e l’altare portatile. Il primo è costituito da un grande tavolo di pietra sigillato con una base di pietra, con la quale forma un unico insieme consacrato. L’altare portatile è solo una semplice pietra, ma abbastanza larga per ricevere il calice e  l’ostia, adattandosi a qualsiasi pietra o legno. Che l’altare sia fisso o portatile, viene purificato al momento della sua consacrazione con molte abluzioni; viene unto più volte con l’olio dei catecumeni e del santo Crisma; è marcato con cinque croci; riceve, in una cavità al centro della pietra chiamata sepolcro, le reliquie di alcuni Santi, di cui almeno uno deve essere di un Martire.

11 – Come si addobba l’altare dove il Sacerdote celebrerà la Messa?

Per adornare l’altare dove il Sacerdote celebrerà la Messa, è necessario:

1) Coprirlo con tre tovaglie bianche di lino o di canapa;

La ragione di questo triplice rivestimento dell’altare è la convenienza e la necessità di mantenere l’altare pulito, e anche l’evitare qualsiasi profanazione del prezioso Sangue, qualora dovesse essere versato. Una delle ragioni di questa severa prescrizione è da vedere anche nel significato mistico dell’altare e dei suoi teli: l’altare rappresenta Gesù Cristo, e il rivestimento dell’altare ricorda quei teli di stoffa in cui il corpo di Gesù Cristo fu avvolto con profumi dopo la sua discesa dalla croce. – Anche il candore di questi tessuti si adatta molto bene al loro significato. Secondo la Sacra Scrittura, il bisso, una specie di lino finissimo, bianco brillante, designa la rettitudine dei Santi (Apocalisse, XIX, 8). È la figura della purezza del cuore e dell’innocenza della vita, che si può ottenere solo attraverso la preghiera, la vigilanza e la mortificazione, così come la preparazione di questa tela che richiede molto lavoro.

2) Mettervi, come oggetto principale, una croce con candelieri su entrambi i lati;

3) Collocarvi tre immagini, chiamate canoni, che ricorderanno al Sacerdote le preghiere che non potrebbe facilmente leggere nel messale in certi momenti della Messa.

4) Collocare il messale sul leggio dal lato dell’Epistola;

5) Secondo una pia e lodevole usanza, raccomandata dalla Chiesa, decorare gli altari con fiori, soprattutto nelle feste maggiori.

12—Quali sono i vasi sacri necessari  alla celebrazione della Messa?

I vasi sacri necessari per la celebrazione della Messa sono il calice e la patena.

Nel calice è consacrato il Sangue infinitamente  prezioso di Gesù Cristo, e sulla patena è posto il suo adorabile Corpo. Per questo la Chiesa ha ordinato che questi vasi siano fatti solo con i metalli più nobili e preziosi. Inoltre, il calice e la patena devono essere consacrati, con una cerimonia riservata al Vescovo a causa del santo crisma che vi è utilizzato.

13—Quali sono i teli sacri necessari alla celebrazione della Messa?

I sacri panni necessari per la celebrazione della Messa sono il corporale, la palla ed il purificatoio.

Il corporale è un telo che il Sacerdote stende sull’altare per eseguire la consacrazione della specie santa: porta questo nome per il suo contatto immediato con l’adorabile Corpo di Gesù Cristo. Il purificatoio è un pezzo di stoffa che viene utilizzato per pulire il calice, così come le labbra e le dita del celebrante dopo la Comunione. La palla è un piccolo panno quadrato da cui è ricoperto il calice.

14 — Perché il corporale, il purificatoio e la palla si chiamano teli sacri?

Il purificatoio, il corporale e la palla sono chiamati teli sacri, perché servono  direttamente per l’adorabile Sacrificio della Messa.

Tutti i teli devono essere di lino o di canapa. Solo i sacri Ministri possono lavarli; nessuno può toccarli senza permesso, una volta benedetti e usati.

15— Come si prepara il calice in Sacristia?

Sul calice viene posto dapprima il purificatoio; vi si aggiunge la patena che porta l’ostia; poi vengono la palla, il velo, l’astuccio speciale, detto la borsa, che contiene il caporale.

16 — Cosa fa il Sacerdote prima di preparare il calice?

Prima di preparare il calice, il Sacerdote si lava le dita che non devono essere sporcate da nulla prima di toccare l’ostia, il calice e gli altri oggetti sacri.

17 — Nominate qual sono  i paramenti di cui si riveste il Sacerdote per dire la Messa?

Il Sacerdote nella sacrestia si riveste con i paramenti sacri:

1) Al collo mette un panno bianco chiamato amitto.

L’amitto simboleggia la protezione divina, l’« elmo della salvezza », con cui ogni Cristiano debba essere armato per resistere al diavolo.

2) Si copre con un indumento bianco chiamato alba.

L’alba significa: innocenza, purezza di cuore.

3) Intorno ai suoi fianchi si cinge di un cordone.

Il cordone indica la purezza del corpo e la mortificazione della carne mediante la castità.

4) Al braccio sinistro, pone il manipolo.

Il manipolo è il simbolo del suo lavoro: con esso asciuga il sudore dalla fronte (in passato era usato per asciugare il sudore dal viso) e ci ricorda le opere buone, i dolori e le fatiche del ministero, le lacrime e le sofferenze che meritano il Paradiso.

5) Si sospende al collo e si incrocia sul petto, la stola.

La stola è l’emblema della dignità, del potere sacerdotale e dell’immortalità dell’anima.

6) Si ricopre con una grande veste, chiamata casula.

La casula è solitamente ornata con una croce e rappresenta il giogo di Nostro Signore (De Imit. Christi, L. IV, cap. V, n. 2-4).

7) Si copre la testa con un berretto nero, la berretta.

18 — Di qual colore devono essere i paraenti sacri?

Si distinguono cinque colori liturgici: il bianco, il rosso, il violetto, il verde ed il nero.

19Quale è il significato di ogni colore liturgico?

1) Il bianco è l’emblema della purezza, dell’innocenza e della santità, oltre che della gioia e della gloria.

Serve a celebrare tutti i misteri gioiosi e gloriosi della Madonna, di Tutti i Santi, dei Pontefici, dei Dottori, dei Confessori, delle Vergini e in generale di tutti i Santi che non sono martiri.

2) Il rosso è il colore del fuoco e del sangue, dell’amore e del sacrificio.

Si usa per celebrare le feste dello Spirito Santo, della S. Croce, della Passione, dei Martiri, comprese quelle degli Apostoli.

3) Il verde è il simbolo della speranza.

Si usa durante il tempo che, nella mistica liturgica, significa il pellegrinaggio in cielo, cioè i Tempi dopo l’Epifania e dopo la Pentecoste.

4) Il viola è il simbolo della penitenza.

Si usa in quei giorni in cui la Chiesa ha più bisogno di gridare a Dio: “Misericordia! Pietà! Perdono”, cioè durante l’Avvento, le Quattro Tempora, le Vigilie, le Rogazioni e le tre solenni benedizioni liturgiche dell’anno, quelle della candelora, delle ceneri e delle palme.

5) Il nero è l’immagine della morte.

Si usa nel grande giorno del Venerdì Santo e nelle messe di requiem.

(2)

b) Divisione della Messa

20 — Quali sono le due grandi divisioni della Messa ?

Le due grandi divisioni della Messa sono: la Messa dei Catecumeni e la Messa dei Fedeli.

21 — Qual è l’origine della Messa dei Catecumeni?

Quando i primi Ebrei si convertirono al Cristianesimo, continuarono a incontrarsi il giorno di sabato, come facevano secondo l’Antica Legge. Ma hanno dato un carattere cristiano ai loro incontri, cantando salmi, leggendo brani dei libri sacri, leggendo le Epistole degli Apostoli e brani del Vangelo del Maestro. Ben presto a queste letture si sono aggiunte preghiere e canti che oggi troviamo sotto forma di Kyrie eleison, Gloria in excelsis, la colletta. Poiché queste letture, preghiere e canti erano molto istruttivi, ma non facevano parte del Sacrificio cristiano, sono stati ammessi all’incontro non solo i Cristiani ma anche i catecumeni, cioè coloro che studiavano la dottrina cristiana in preparazione al Battesimo. All’inizio dell’Offertorio, i catecumeni venivano invitati a ritirarsi. È così che il nome della Messa dei Catecumeni si è imposto alla prima parte dei nostri santi Misteri.

22— Donde viene il nome di Messa dei Fedeli?

La Messa è un Sacrificio al quale si partecipa pienamente attraverso la Comunione. Tuttavia, solo il Battesimo ci dà il diritto di ricevere la Santa Comunione, e di conseguenza di essere presenti al Santo Sacrificio. Poiché coloro che avevano ricevuto questo primo Sacramento erano chiamati Fedeli, questa parte durante la quale il Sacerdote, in unione con i fedeli, offre il Santo Sacrificio, si chiama la Messa dei Fedeli.

23 — Cosa si indica come Ordinario della Messa?

Si chiama « Ordinario della Messa » la parte fissa, o quasi, constituente l’Ordo, vale a dire l’enunciazione delle formule e dei riti abituali della Messa.

24— Cos’è che si chiama il Proprio della Messa?

Si chiama « Proprio della Messa » la parte variabile, appropriata ai misteri o feste celebrate.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/14/tutta-la-messa-cattolica-momento-per-momento-2/

SABATO SANTO E LE 12 PROFEZIE

IL SABATO SANTO

L’uffizio del Sabato santo si compone di sei parti o cerimonie principali:

1.° La benedizione del nuovo fuoco;

2.° La benedizione del cero pasquale;

3.° Le lezioni;

4 °La benedizione del fonte;

5.° La Messa;

6.° Il Vespro.

La più venerabile antichità spira da queste belle cerimonie; le più commoventi ricordanze delle catacombe di Costantinopoli, di Nicea, di Gerusalemme, di tutte quelle grandi Chiese vengono l’una dopo l’altra sotto i nostri occhi. Possano le impressioni salutari che sono capaci di produrre, scolpirsi profondamente nelle anime nostre!

1.° La benedizione del fuoco sacro. Era un antico costume, stabilito fino dal IV secolo, di benedire ogni giorno, verso la sera, il fuoco col quale si doveano accendere le lampade per L’uFfizio dei vespri. Si cavava il fuoco dalla pietra invece di prenderlo dal focolare delle case. Un tal uso si riferisce a questo gran pensiero della Chiesa, che poiché tutte le creature sono state corrotte, non conviene servirsene senza benedizione nelle cerimonie del culto divino. Così fino dai primi secoli essa non si serviva del fuoco profano o comune nei sacrifizi e nelle pubbliche preghiere ove eran necessari i lumi. Dalla benedizione del fuoco, cerimonia ristretta ora al sabato santo, incomincia l’uffizio d’oggi. Si fa con molta solennità e con preci, poiché questo nuovo fuoco è per il Cristiano l’immagine della nuova legge, legge di grazia e di amore, che è per nascere dalla tomba del Cristo, come il fuoco antico è l’immagino dell’antica legge, spenta nel sangue del Salvatore. Quando adunque il clero è arrivato al coro, comincia le litanie de’ Santi; la Chiesa vuole che i suoi figli di già coronati nel cielo prendano parte alla gioia, onde all’apparizione della nuova legge si riempie il mondo, e che pregando per i fratelli in terra, ottengano loro la grazia di seguire siccome essi i comandamenti di questa santa legge, e di pervenire alla medesima felicità. Mentre si cantano le litanie, il Sacerdote benedice il novello fuoco. Questa è la prima parte dell’uffizio del sabato santo.

2.° La benedizione del cero pasquale. Il cero pasquale che non era in antico che una colonna, sulla quale il patriarca d’Alessandria scriveva l’epoca della pasqua e delle feste mobili che si ordinano secondo questa grande solennità. Essendo Alessandria la città ov’erano i migliori astronomi, il Vescovo doveva consultarli ogni anno, e dopo la loro conclusione determinare al Papa, e per lui a tutta la Chiesa, la prima domenica dopo il quattordicesimo giorno della luna di marzo. Allora si scriveva sulla cera, e sopra una specie di colonna formata di questa materia il Patriarca d’Alessandria distendeva il catalogo delle principali feste dell’anno. Il Papa riceveva questo canone [Si sa che la parola canone vuol dire regola. Quella colonna era il canone o la regola, secondo la quale si celebrava la pasqua e le feste mobili che ne dipendono.]  con rispetto, lo benediceva e ne inviava altri simili alle altre Chiese, che gli ricevevano con la medesima onoranza. Presto di questo bastone di cera si fece una candela che serviva a far lume nella notte di pasqua, e si riguardava nello stesso tempo come l’emblema di Gesù resuscitato. Il Papa Zosimo approvò quest’uso, e lo stabilì generalmente, ordinando a tutte le chiese parrocchiali di benedire il sabato santo un cero pasquale. [Zosimus papa decrevit oereum sabbato sancto Paschœ per ecclesias benedici (Sigebertus) M. Thirat, Spir. delle Cerem.]. Col fuoco sacro si accende il cero pasquale. Non è permesso di accenderlo diversamente, come gli altri ceri destinati per gli uffizi e la Messa della vigilia di Pasqua, Ogn’altro fuoco è dichiarato estraneo e profano, simile a quello che irritò il Signore contro Nadab e Abiu, e fu la causa della loro morte. La benedizione del cero pasquale risale alla più remota antichità: si trova di già nelle belle operedi sant’Ennodio, vescovo di Pavia, che viveva al principio del VI secolo. Questo cero molto alto è posto sopra un candelabro nel mezzo del santuario, in faccia all’altare: sta acceso all’uffizio del, sabato santo, alla Messa e al vespro per tutta la settimana di pasqua; e quindi alla Messa ed ai vespri delle domeniche e feste fino all’Ascensione. In tal giorno dopo il Vangelo della Messa solenne il cero immediatamente si toglie: in questo momento il Salvatore, tolto alla terra, ascende al cielo. – Tutte queste particolarità indicano abbastanza i l misterioso significato del cero pasquale. È il primo simbolo della Resurrezione di Gesù Cristo, che la Chiesa propone ai Fedeli il sabato santo: rammenta al tempo istesso che il loro divino Redentore è la luce del mondo. Così non vi è nulla di più magnifico nella liturgia, nulla di più celebre della formola usata per benedirlo; che comincia con queste parole: Exultet jam angelica turba cœlorum etc.

Gli Angeli del cielo, la milizia dell’alto, si rallegrino e tripudino di giubbilo, e lo squillo delle trombe annunzi i nostri sacrifizi di gioia. La terra gioisca della sua felicità, e si rallegri nel glorioso lume che a lei è venuto. E tu, santa Chiesa, nostra madre, tu ancor ti rallegra: eccoti raggiante nel lume della face divina, della face che illumina l’universo.

Echeggi il luogo santo alla viva gioia dei popoli: salgano al cielo gli applausi della terra.

In tutto il resto domina lo stesso entusiasmo. Degno del genio di s. Agostino è questa benedizione, che si crede composta da lui.

Il diacono canta questo bell’annunzio della festa di Pasqua; poiché la benedizione del cero pasquale è sempre stata del ministero del diacono, in presenza dello stesso Vescovo o del Sacerdote uffiziante. Il diacono allora è come un araldo del cielo che annunzia alla Chiesa la gloriosa resurrezione di Gesù Cristo, il suo trionfo in questo mistero, le splendide testimonianze della misericordia di Lui, e la felicità dell’uomo riconciliato col suo Dio per il compimento della grand’opera della redenzione. – I cinque grani d’incenso che egli inserisce nel corpo del cero, in forma di croce, sono un emblema delle cinque piaghe del nostro Signore, e degli aromi che servirono ad imbalsamarlo. La preghiera che la Chiesa adopera per benedirli, non lascia su ciò verun dubbio. Questa preghiera ci dimostra ancora l’efficacia del cero benedetto, come di tutte le altre cose santificate per allontanare il demonio, i flagelli e le malattie. D’ora innanzi, quando vedremo accendere il cero pasquale, pensiamo seriamente a resuscitare con Gesù Cristo, e quando da Pasqua all’Ascensione ce lo vedremo brillare davanti agli occhi, come la colonna luminosa che conduceva Israele verso la terra promessa, chiediamo a noi stessi se camminiamo fedelmente dietro il Salvatore resuscitato, se ci avanziamo verso il cielo, vera terra premessa del Cristiano.

Exsúltet jam Angélica turba cœlórum:

exsúltent divína mystéria: et pro tanti Regis victória tuba ínsonet salutáris. Gáudeat et tellus tantis irradiáta fulgóribus: et ætérni Regis splendóre illustráta, totíus orbis se séntiat amisísse calíginem. Lætétur et mater Ecclésia, tanti lúminis adornáta fulgóribus: et magnis populórum vócibus hæc aula resúltet. Quaprópter astántes vos, fratres caríssimi, ad tam miram hujus sancti lúminis claritátem, una mecum, quæso, Dei omnipoténtis misericórdiam invocáte. Ut, qui me non meis méritis intra Levitárum númerum dignatus est aggregáre: lúminis sui claritátem infúndens, Cérei huius laudem implére perfíciat. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Fílium suum: qui cum eo vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus: Per omnia sǽcula sæculórum.

[Esulti ormai l’angelico coro degli Angeli: vibrino di gioia i divini misteri; risuoni la tromba sacra per la vittoria del Gran Re. S’allieti la terra irradiata dagli splendori di sì grande trionfo e, illustrata dai fulgori dell’Eterno Re, si senta libera dalla caligine del mondo intero. Si rallegri la Chiesa, nostra Madre, adornata dei raggi di tanta gran luce, ed echeggi questo tempio delle più sonore voci dei popoli. Perciò, o fratelli dilettissimi, qui presenti allo splendore mirabile di questa luce santa, vi supplico di unirvi a me per invocare la misericordia di Dio onnipotente; affinché dopo avermi accolto nel numero dei suoi Leviti, senza alcun mio merito, mi doni un raggio della sua luce e mi dia la grazia di cantare degnamente le lodi di questo Cero. Per nostro Signore Gesù Cristo Figlio suo, che con Lui vive per tutti i secoli dei secoli.]

3.° Le lezioni. La terza parte dell’uffizio del sabato santo contiene le lezioni. Quando il diacono ha terminato la benedizione del cero pasquale, depone la dalmatica, e vestito del camice e della stola, sale alla tribuna a cantare la prima lezione. Le altre lezioni son cantate de chierici di grado inferiore. Al gran mistero di nostra rigenerazione la Chiesa ha avuto l’intenzione di applicare il senso di queste dodici lezioni, chiamate profezie: esse sono senza titolo in segno di lutto.

Prophetiæ

I. Profezia (Gen. I, 1-31; II, 1-2)

(Come una nuova creazione il Battesimo renderà alle anime i diritti che avevano, prima della caduta di Adamo, nell’Eden)


In princípio creavit Deus cœlum et terram. Terra autem erat inánis et vácua, et ténebræ erant super fáciem abýssi: et Spíritus Dei ferebátur super aquas. Dixítque Deus: Fiat lux. Et facta est lux. Et vidit Deus lucem, quod esset bona: et divísit lucem a ténebris. Appellavítque lucem Diem, et ténebras Noctem: factúmque est véspere et mane, dies unus. Dixit quoque Deus: Fiat firmaméntum in médio aquárum: et dívidat aquas ab aquis. Et fecit Deus firmaméntum, divisítque aquas, quæ erant sub firmaménto,ab his, quæ erant super firmaméntum. Et factum est ita. Vocavítque Deus firmaméntum, Cœlum: et factum est véspere et mane, dies secúndus. Dixit vero Deus: Congregéntur aquæ, quæ sub cœlo sunt, in locum unum: et appáreat árida. Et factum est ita. Et vocávit Deus áridam, Terram: congregationésque aquárum appellávit Maria. Et vidit Deus, quod esset bonum. Et ait: Gérminet terra herbam viréntem et faciéntem semen, et lignum pomíferum fáciens fructum juxta genus suum, cujus semen in semetípso sit super terram. Et factum est ita. Et prótulit terra herbam viréntem et faciéntem semen juxta genus suum, lignúmque fáciens fructum, et habens unumquódque seméntem secúndum spéciem suam. Et vidit Deus, quod esset bonum. Et factum est véspere et mane, dies tértius. Dixit autem Deus: Fiant luminária in firmaménto cœli, et dívidant diem ac noctem, et sint in signa et témpora et dies et annos: ut lúceant in firmaménto cœli, et illúminent terram. Et factum est ita. Fecítque Deus duo luminária magna: lumináre majus, ut præésset diéi: et lumináre minus, ut præésset nocti: et stellas. Et pósuit eas in firmaménto cœli, ut lucérent super terram, et præéssent diéi ac nocti, et divíderent lucem ac ténebras. Et vidit Deus, quod esset bonum. Et factum est véspere et mane, dies quartus. Dixit etiam Deus: Prodúcant aquæ réptile ánimæ vivéntis, et volátile super terram sub firmaménto cæli. Creavítque Deus cete grándia, et omnem ánimam vivéntem atque motábilem, quam prodúxerant aquæ in spécies suas, et omne volátile secúndum genus suum. Et vidit Deus, quod esset bonum. Benedixítque eis, dicens: Créscite et multiplicámini, et repléte aquas maris: avésque multiplicéntur super terram. Et factum est véspere et mane, dies quintus. Dixit quoque Deus: Prodúcat terra ánimam vivéntem in génere suo: juménta et reptília, et béstias terræ secúndum spécies suas. Factúmque est ita. Et fecit Deus béstias terræ juxta spécies suas, et juménta, et omne réptile terræ in génere suo. Et vidit Deus, quod esset bonum, et ait: Faciámus hóminem ad imáginem et similitúdinem nostram: et præsit píscibus maris et volatílibus cœli, et béstiis universæque terræ, omníque réptili, quod movétur in terra. Et creávit Deus hóminem ad imáginem suam: ad imáginem Dei creávit illum, másculum et féminam creávit eos. Benedixítque illis Deus, et ait: Créscite et multiplicámini, et repléte terram, et subjícite eam, et dominámini píscibus maris et volatílibus cœli, et univérsis animántibus, quæ movéntur super terram. Dixítque Deus: Ecce, dedi vobis omnem herbam afferéntem semen super terram, et univérsa ligna, quæ habent in semetípsis seméntem géneris sui, ut sint vobis in escam: et cunctis animántibus terræ, omníque vólucri cœli, et univérsis, quæ movéntur in terra, et in quibus est ánima vivens, ut hábeant ad vescéndum. Et factum est ita. Vidítque Deus cuncta, quæ fécerat: et erant valde bona. Et factum est véspere et mane, dies sextus. Igitur perfécti sunt cœli et terra, et omnis ornátus eórum. Complevítque Deus die séptimo opus suum, quod fécerat: et requiévit die séptimo ab univérso ópere, quod patrárat.

[In principio Dio creò il cielo e la terra. Or la terra era solitudine e caos, e le tenebre coprivano la faccia dell’abisso, ma lo Spirito di Dio si librava sopra le acque. Allora Dio disse: «Sia la luce». E luce fu. E Dio vide che la luce era buona, e separò la luce dalle tenebre. E diede il nome di Giorno alla luce e di Notte alle tenebre. Così si fece sera e poi mattina: primo giorno. Poi Dio disse: «Ci sia uno strato in mezzo alle acque, e separi le acque dalle acque». E Dio fece lo strato, e separò le acque che erano sotto da quelle che erano sopra lo strato. E così fu. E Dio chiamò Cielo lo strato. Intanto si fece sera e poi mattina: secondo giorno. Poi Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo si radunino in un solo luogo, e appaia l’asciutto». E così fu. E Dio chiamò Terra l’asciutto, e Mare l’ammasso delle acque. E Dio vide che ciò era ben fatto. Quindi disse: «Produca la terra erba verdeggiante che faccia seme, e piante fruttifere che diano frutto secondo la loro specie ed abbiano in se stesse la propria semenza sopra la terra». E così fu. E la terra produsse verdura, erba che fa seme della sua specie, e piante che danno frutto ed hanno ciascuna la semenza secondo la propria specie. E Dio vide che ciò era ben fatto. Intanto si fece sera e poi mattino: terzo giorno. Dio disse ancora: «Vi siano dei luminari nella volta del cielo per distinguere il giorno dalla notte e siano segni dei tempi, dei giorni e degli anni, e risplendano nel firmamento del cielo per far luce sulla terra». E così fu. E Dio fece i due grandi luminari: il luminare maggiore, affinché presiedesse al giorno: il luminare minore, affinché presiedesse alla notte; e fece pure le stelle. E le mise nella volta del cielo, perché dessero luce alla terra e regolassero il giorno e la notte, e separassero la luce dalle tenebre. E Dio vide che ciò era ben fatto. Intanto si fece sera e poi mattino: quarto giorno. Disse poi Dio: «Brulichino le acque di animali e gli uccelli volino sopra la terra, sotto la volta del cielo». E Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli animali viventi striscianti, di cui si popolarono le acque, secondo le loro specie, ed ogni volatile secondo la sua specie. E Dio vide che ciò era ben fatto. E li benedisse, dicendo: «Crescete e moltiplicatevi, e popolate le acque del mare, e si moltiplichino gli uccelli sopra la terra». E intanto si fece sera e poi mattino: quinto giorno. Disse ancora Dio: «Produca la terra animali viventi secondo la loro specie, animali domestici, e rettili e bestie selvatiche della terra, secondo la loro specie». E così fu. E Dio fece le fiere terrestri, secondo la loro specie, e gli animali domestici, e tutti i rettili della terra, secondo la loro specie. E Dio vide che ciò era ben fatto. Poi Dio disse: «Facciamo l’Uomo a nostra immagine e somiglianza, che domini i pesci del mare, i volatili del cielo, le bestie, e tutta la terra, e tutti i rettili che strisciano sopra la terra». Dio creò l’uomo a sua immagine, lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina. E Dio li benedì dicendo: «Crescete e moltiplicatevi, e riempite la terra e rendetevela soggetta, e dominate sui pesci del mare, e sui volatili del cielo, e sopra tutti gli animali che si muovono sulla terra». E Dio disse: «Ecco io vi do tutte le erbe che fanno seme sulla terra e tutte le piante che hanno in se stesse semenza della loro specie, perché servano di cibo a voi; e a tutti gli animali della terra, e a tutti gli uccelli del cielo e a quanto si muove sulla terra ed ha in sé anima vivente, affinché abbiano da mangiare». E così fu. E Dio vide tutte le cose che aveva fatte; ed esse erano molto buone. Intanto si fece sera e poi mattino: sesto giorno. Così furono compiuti i cieli e la terra e tutto il loro assetto. E Dio nel settimo giorno finì l’opera che aveva fatta e nel settimo giorno si riposò da tutte le opere che aveva compiute].

II. Profezia (Gen. V, 32 – VIII, 8, 21)

(Dio, per mezzo del Battesimo fa entrare le anime nella Chiesa, che è l’arca di salvezza)

Noë vero cum quingentórum esset annórum, génuit Sem, Cham et Japheth. Cumque cœpíssent hómines multiplicári super terram et fílias procreássent, vidéntes fílii Dei fílias hóminum, quod essent pulchræ, accepérunt sibi uxóres ex ómnibus, quas elégerant. Dixítque Deus: Non permanébit spíritus meus in hómine in ætérnum,quia caro est: erúntque dies illíus centum vigínti annórum. Gigántes autem erant super terram in diébus illis. Postquam enim ingréssi sunt fílii Dei ad fílias hóminum illæque genuérunt, isti sunt poténtes a sǽculo viri famósi. Videns autem Deus, quod multa malítia hóminum esset in terra, et cuncta cogitátio cordis inténta esset ad malum omni témpore, pænítuit eum, quod hóminem fecísset in terra. Et tactus dolóre cordis intrínsecus: Delébo, inquit, hóminem, quem creávi, a fácie terræ, ab hómine usque ad animántia, a réptili usque ad vólucres cœli; pænitet enim me fecísse eos. Noë vero invénit grátiam coram Dómino. Hæ sunt generatiónes Noë: Noë vir justus atque perféctus fuit in generatiónibus suis, cum Deo ambulávit. Et génuit tres fílios, Sem, Cham et Japheth. Corrúpta est autem terra coram Deo et repléta est iniquitáte. Cumque vidísset Deus terram esse corrúptam , dixit ad Noë: Finis univérsæ carnis venit coram me: repléta est terra iniquitáte a fácie eórum, et ego dispérdam eos cum terra. Fac tibi arcam de lignis lævigátis: mansiúnculas in arca fácies, et bitúmine línies intrínsecus et extrínsecus. Et sic fácies eam: Trecentórum cubitórum erit longitúdo arcæ, quinquagínta cubitórum latitúdo, et trigínta cubilórum altitúdo illíus. Fenéstram in arca fácies, et in cúbito consummábis summitátem ejus: óstium autem arcæ pones ex látere: deórsum cenácula et trístega fácies in ea. Ecce, ego addúcam aquas dilúvii super terram, ut interfíciam omnem carnem, in qua spíritus vitæ est subter cœlum. Univérsa, quæ in terra sunt, consuméntur. Ponámque fœdus meum tecum: et ingrédiens arcam tu et fílii tui, uxor tua et uxóres filiórum tuórum tecum. Et ex cunctis animántibus univérsæ carnis bina indúces in arcam, ut vivant tecum: masculíni sexus et feminíni. De volúcribus juxta genus suum, et de juméntis in génere suo, et ex omni réptili terræ secúndum genus suum: bina de ómnibus ingrediántur tecum, ut possint vívere. Tolles ígitur tecum ex ómnibus escis, quæ mandi possunt, et comportábis apud te: et erunt tam tibi quam illis in cibum. Fecit ígitur Noë ómnia, quæ præcéperat illi Deus. Erátque sexcentórum annórum, quando dilúvii aquæ inundavérunt super terram. Rupti sunt omnes fontes abýssi magnæ, et cataráctæ cœli apértæ sunt: et facta est plúvia super terram quadragínta diébus et quadragínta nóctibus. In artículo diei illíus ingréssus est Noë, et Sem et Cham et Japheth, fílii ejus, uxor illíus et tres uxóres filiórum ejus cum eis in arcam: ipsi, et omne ánimal secúndum genus suum, univérsaque juménta in génere suo, et omne, quod movétur super terram in génere suo, cunctúmque volátile secúndum genus suum. Porro arca ferebátur super aquas. Et aquæ prævaluérunt nimis super terram: opertíque sunt omnes montes excélsi sub univérso cœlo. Quíndecim cúbitis áltior fuit aqua super montes, quos operúerat. Consúmptaque est omnis caro, quæ movebátur super terram, vólucrum, animántium, bestiárum, omniúmque reptílium, quæ reptant super terram. Remánsit autem solus Noë, et qui cum eo erant in arca. Obtinuerúntque aquæ terram centum quinquagínta diébus. Recordátus autem Deus Noë, cunctorúmque animántium et ómnium jumentórum, quæ erant cum eo in arca, addúxit spíritum super terram, et imminútæ sunt aquæ. Et clausi sunt fontes abýssi et cataráctæ cœli: et prohíbitæ sunt plúviæ de cœlo. Reversæque sunt aquæ de terra eúntes et redeúntes: et cœpérunt mínui post centum quinquagínta dies. Cumque transíssent quadragínta dies, apériens Nœ fenéstram arcæ, quam fécerat, dimísit corvum, qui egrediebátur, et non revertebátur, donec siccaréntur aquæ super terram. Emísit quoque colúmbam post eum, ut vidéret, si jam cessássent aquæ super fáciem terræ. Quæ cum non invenísset, ubi requiésceret pes ejus, revérsa est ad eum in arcam: aquæ enim erant super univérsam terram: extendítque manum et apprehénsam íntulit in arcam. Exspectátis autem ultra septem diébus áliis, rursum dimisit colúmbam ex arca. At illa venit ad eum ad vésperam, portans ramum olívæ viréntibus fóliis in ore suo. Intelléxit ergo Noë, quod cessássent aquæ super terram. Exspectavítque nihilminus septem álios dies: et emísit colúmbam, quæ non est revérsa ultra ad eum. Locútus est autem Deus ad Noë, dicens: Egrédere de arca, tu et uxor tua, fílii tui et uxóres filiórum tuórum tecum. Cuncta animántia, quæ sunt apud te, ex omni carne, tam in volatílibus quam in béstiis et univérsis reptílibus, quæ reptant super terram, educ tecum, et ingredímini super terram: créscite et multiplicámini super eam. Egréssus est ergo Noë et fílii ejus, uxor illíus et uxóres filiórum ejus cum eo. Sed et ómnia animántia, juménta et reptília, quæ reptant super terram, secúndum genus suum, egréssa sunt de arca. Ædificávit autem Noë altáre Dómino: et tollens de cunctis pecóribus et volúcribus mundis, óbtulit holocáusta super altáre. Odoratúsque est Dóminus odórem suavitátis.

[Noè, essendo in età di cinquecento anni, generò Sem, Cam e Jafet. E avendo principiato gli uomini a moltiplicarsi sopra la terra e avendo procreato delle figliuole, vedendo i figliuoli di Dio la bellezza delle figliuole degli uomini presero per loro mogli quelle che più di tutte loro piacevano. E disse il Signore : Non rimarrà il mio spirito per sempre nell’uomo, perché egli è carne e i suoi giorni saranno solamente di cento veti anni. In quel tempo vi erano sopra la terra dei giganti: poiché, dopo che si accostarono i figliuoli di Dio alle figliuole degli uomini, esse generarono, e ne vennero questi uomini, forti e robusti, famosi nei secoli. — Vedendo dunque Dio quanto grande era la malizia degli uomini sopra la terra, e tutti i pensieri del loro cuore erano continuamente intesi al mal fare, si pentì d’aver fatto l’uomo. E preso come da un intimo strazio a! cuore: Sterminerò, disse egli, l’uomo da me creato dalla faccia della terra, dall’uomo sino agli animali, dai rettili fino agli uccelli dell’aria; poiché mi pento di averli fatti. — Ma Noè trovò grazia dinanzi al Signore. Questa è la Ascendenza di Noè. Noè fu uomo giusto e perfetto nei suoi, tempi, e camminò con Dio. E generò tre figliuoli: Sem, Cam e Jafet. Ma era corrotta la terra davanti a Dio e ripiena d’iniquità. E avendo veduto Dio come la terra era corrotta, poiché ogni uomo era corrotto nella sua maniera di vivere sulla terra, disse a Noè: Nei miei decreti è imminente la fine di tutti gli uomini; la terra è ripiena d’iniquità per opera loro, e io li sterminerò insieme con la terra. Tu costruirai un’arca con legni lavorati; tu farai delle piccole stanze nell’arca e la invernicerai di bitume di dentro e di fuori. E in questo modo la farai: la lunghezza dell’arca sarà di trecento cubiti, di cinquanta cubiti la larghezza e di trenta l’altezza. Farai una finestra nell’arca e il tetto dell’arca lo farai che vada alzandosi fino ad un cubito. La porta poi dell’arca la farai da un lato; vi farai un piano in fondo, un secondo piano e un terzo piano. Ecco che io manderò le acque del diluvio sopra la terra ad uccidere tutti gli animali che hanno spirito di vita sotto il cielo: tutto quello che è sopra la terra andrà in perdizione. Ma io farò un patto con te ed entrerai nell’arca tu, e i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli. E di tutti gli animali d’ogni specie, ne farai entrare nell’arca una coppia, un maschio e una femmina, affinché si salvino con te. Degli uccelli secondo la specie e delle bestie di ogni specie, e di tutti i rettili della terra secondo la loro specie, due entreranno nell’arca con te, affinché possano conservarsi. Prenderai dunque con te di tutte quelle cose che si possono mangiare, e le porterai in questa tua casa e serviranno a te e a loro di cibo. Fece dunque Noè tutto quello che gli aveva comandato il Signore. Ed. egli era in età di seicento anni allorché le acque del diluvio inondarono la terra. Si squarciarono allora tutte le sorgenti del grande abisso, e le cateratte del cielo si aprirono: e piovve sopra la terra per quaranta giorni e quaranta notti. In quello stesso giorno entrò Noè e Sem, Cam e Jafet suoi figliuoli, la moglie di lui e le tre mogli dei suoi figliuoli con essi nell’arca: essi e tutti gli animali secondo la loro specie, e tutto quello che si muove sopra la terra secondo la loro specie. Ora l’arca galleggiava sopra le acque. E le acque ingrossarono fuor di misura sopra la terra: e rimasero coperti tutti i monti più alti sotto il cielo, Quindici cubiti si alzò l’acqua sopra i monti che aveva ricoperti. E restò consunta ogni carne che ha moto sopra la terra, gli uccelli, gli animali; le bestie e tutti i rettili che strisciano sopra la terra: e rimase solo Noè e quelli che con lui erano nell’arca. Le acque occuparono la terra per centocinquanta giorni, ma ricordandosi il Signore di Noè e di tutti gli animali e di tutte le bestie che erano con essi nell’arca, mandò il vento sulla terra, e si abbassarono le acque. E furono chiuse le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo, e si arrestarono le piogge dal cielo. E si ritirarono le acque dalla terra andando e venendo: e cominciarono a scemare dopo centocinquanta giorni. E passati quaranta giorni, Noè, aperta la finestra che egli aveva fatta nell’arca, mandò fuori il corvo, il quale uscì e non tornò fino a tanto che le acque non s’asciugarono sulla terra. Mandò ancora dopo di esso la colomba per vedere se fossero sparite le acque sopra la faccia della terra. Ma la colomba, non avendo trovato ove posare il suo piede tornò a lui nell’arca: poiché le acque erano per tutta la terra: egli stese la mano e presala, la mise dentro l’arca. E avendo aspettato altri sette giorni, di nuovo mandò la colomba fuori dell’arca; ed ella tornò a lui alla sera portando in bocca un ramo d’olivo con verdi foglie. Comprese allora Noè che erano cessate le acque sopra la terra e aspettò non di meno altri sette giorni e rimandò la colomba, la quale non tornò più a lui. E parlò Dio a Noè dicendo: Esci dall’arca tu e tua moglie, i figli tuoi e le mogli dei tuoi figli con te. Tutti gli animali che sono presso di te d’ogni specie, sia di volatili sia di bestie o di rettili striscianti sulla terra, conducili con te; rientrate sulla terra: crescete e moltiplicatevi. E Noè usci coi figliuoli e sua moglie e le mogli dei suoi figli con lui. E tutti, con gli animali e le bestie e i rettili che strisciano sulla terra secondo la loro specie, uscirono dall’arca. E Noè edificò un altare al Signore e, presi tutti gli animali e uccelli mondi, ne offrì in olocausto sopra l’altare. E il Signore gradì il soave odore.]

III. Profezia (Gen. XXII, 1-19)

(Col Battesimo e con la fede in Gesù Cristo i neofiti divengono i figli che Dio aveva promesso ad Abramo)

In diébus illis: Tentávit Deus Abraham, et dixit ad eum: Abraham, Abraham. At ille respóndit: Adsum. Ait illi: Tolle fílium tuum unigénitum, quem diligis, Isaac, et vade in terram visiónis: atque ibi ófferes eum in holocáustum super unum móntium, quem monstrávero tibi. Igitur Abraham de nocte consúrgens, stravit ásinum suum: ducens secum duos júvenes et Isaac, fílium suum. Cumque concidísset ligna in holocáustum, ábiit ad locum, quem præcéperat ei Deus. Die autem tértio,elevátis óculis, vidit locum procul: dixítque ad púeros suos: Exspectáte hic cum ásino: ego et puer illuc usque properántes, postquam adoravérimus, revertémur ad vos. Tulit quoque ligna holocáusti, et impósuit super Isaac, fílium suum: ipse vero portábat in mánibus ignem et gládium. Cumque duo pérgerent simul, dixit Isaac patri suo: Pater mi. At ille respóndit: Quid vis, fili? Ecce, inquit, ignis et ligna: ubi est víctima holocáusti? Dixit autem Abraham: Deus providébit sibi víctimam holocáusti, fili mi. Pergébant ergo páriter: et venérunt ad locum, quem osténderat ei Deus, in quo ædificávit altáre et désuper ligna compósuit: cumque alligásset Isaac, fílium suum, pósuit eum in altare super struem lignórum. Extendítque manum et arrípuit gládium, ut immoláret fílium suum. Et ecce, Angelus Dómini de cœlo clamávit, dicens: Abraham, Abraham. Qui respóndit: Adsum. Dixítque ei: Non exténdas manum tuam super púerum neque fácias illi quidquam: nunc cognóvi, quod times Deum, et non pepercísti unigénito fílio tuo propter me. Levávit Abraham óculos suos, vidítque post tergum aríetem inter vepres hæréntem córnibus, quem assúmens óbtulit holocáustum pro fílio. Appellavítque nomen loci illíus, Dóminus videt. Unde usque hódie dícitur: In monte Dóminus vidébit. Vocávit autem Angelus Dómini Abraham secúndo de cœlo, dicens: Per memetípsum jurávi, dicit Dóminus: quia fecísti hanc rem, et non pepercísti fílio tuo unigénito propter me: benedícam tibi, et multiplicábo semen tuum sicut stellas cœli et velut arénam, quæ est in lítore maris: possidébit semen tuum portas inimicórum suórum, et benedicéntur in sémine tuo omnes gentes terræ, quia obœdísti voci meæ. Revérsus est Abraham ad púeros suos, abierúntque Bersabée simul, et habitávit ibi.

[In quei giorni Dio provò Abramo e gli disse: Abramo, Abramo. Ed egli rispose: Eccomi. E Dio gli disse: Prendi il tuo figlio unigenito, il diletto Isacco, e va nella terra della visione e ivi lo offrirai in olocausto sopra uno dei monti che io ti indicherò. Abramo, dunque, mentre era ancora notte alzatosi, preparò il suo asino e prese con se due servi e Isacco suo figliuolo: e tagliate le legna per l’olocausto, s’incamminò verso il luogo assegnatogli da Dio. E il terzo giorno, alzati gli occhi, vide il luogo da lungi e disse ai suoi servi: aspettate qui con l’asino: io e il fanciullo andremo fin là con prestezza; e, come avremo fatto adorazione, torneremo da voi. Prese anche la legna per l’olocausto e la pose addosso a Isacco suo figliuolo: egli poi portava colle sue mani il fuoco e il coltello. E mentre tutti e due camminavano insieme, disse Isacco a suo padre: Padre mio. E quegli rispose: Che vuoi figliuolo? Ecco, disse quegli, il fuoco e la legna: dov’è la vittima dell’olocausto ? E Abramo soggiunse: Dio ci provvederà la vittima per l’olocausto, figliuolo mio. Andavano dunque innanzi assieme. E giunti al luogo mostrato a lui da Dio, edificò un altare e sopra vi accomodò la legna, e avendo legato Isacco, suo figlio, lo collocò sull’altare, sopra il mucchio della legna.. E stese la mano, e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma ecco l’Angelo del Signore dal cielo gridò, dicendo: Abramo, Abramo. E questi rispose: Eccomi. E quegli a lui disse: Non stendere le tue mani sopra il .fanciullo e non fare a lui male alcuno; adesso ho conosciuto che tu temi Iddio e non hai risparmiato il figliuolo tuo unigenito per me. Alzò Abramo gli occhi e vide dietro a se un ariete che si dimenava tra i pruni e presolo per le corna, lo tolse e lo offerse in olocausto invece del figlio, e a quel luogo pose nome: il Signore vede! Donde fin a quest’oggi si dice: Sul monte il Signore provvederà. Per la seconda volta l’Angelo del Signore chiamò Abramo dal cielo dicendo: Per me medesimo ho giurato, dice il Signore: giacche hai fatto una tal cosa e non hai perdonato al tuo figlio unigenito per me, io ti benedirò e moltiplicherò la tua stirpe come le stelle del cielo e come l’arena che è sul lido del mare; s’impadronirà la tua stirpe delle porte dei suoi nemici; e nella tua discendenza benedette saranno tutte le nazioni della terra, perché hai ubbidito alla mia voce. Tornò Abramo dai suoi servi: e se ne andarono insieme a Bersabea, ove egli abitò]

IV Profezia (Es. XIV, 24-31; XV, 1)

(Col Battesimo Gesù strappa i catecumeni dal giogo di satana; come Mosè liberò gli Israeliti dalla schiavitù dell’Egitto)

In diébus illis: Factum est in vigília matutina, et ecce, respíciens Dóminus super castra Ægyptiórum per colúmnam ignis et nubis, interfécit exércitum eórum: et subvértit rotas cúrruum, ferebantúrque in profúndum. Dixérunt ergo Ægýptii: Fugiámus Israélem: Dóminus enim pugnat pro eis contra nos. Et ait Dóminus ad Móysen: Exténde manum tuam super mare, ut revertántur aquæ ad Ægýptios super currus et équites eórum. Cumque extendísset Moyses manum contra mare, revérsum est primo dilúculo ad priórem locum: fugientibúsque Ægýptiis occurrérunt aquæ, et invólvit eos Dóminus in médiis flúctibus. Reversæque sunt aquæ, et operuérunt currus, et équites cuncti exércitus Pharaónis, qui sequéntes ingréssi fúerant mare: nec unus quidem supérfuit ex eis. Fílii autem Israël perrexérunt per médium sicci maris, et aquæ eis erant quasi pro muro a dextris et a sinístris: liberavítque Dóminus in die illa Israël de manu Ægyptiórum. Et vidérunt Ægýptios mórtuos super litus maris, et manum magnam, quam exercúerat Dóminus contra eos: timuítque pópulus Dóminum, et credidérunt Dómino et Moysi, servo ejus. Tunc cécinit Moyses et fílii Israël carmen hoc Dómino, et dixérunt: Cantémus Dómino: glorióse enim honorificátus est: equum et ascensórem projécit in mare: adjútor et protéctor factus est mihi in salútem,

V. Hic Deus meus, et honorificábo eum: Deus patris mei, et exaltábo eum.
V. Dóminus cónterens bella: Dóminus nomen est illi.

[In quei giorni, era già la vigilia del mattino, e il Signore da una nuvola di fuoco guardò verso il campo degli Egiziani e lo scompigliò. Fece rovesciare le ruote dei cocchi, che erano trascinati nel profondo. Dissero allora gli Egiziani: «Fuggiamo Israele, perché il Signore combatte per loro contro di noi!». E il Signore disse a Mosè: «Stendi la tua mano sopra il mare, affinché le acque si rovescino sugli Egiziani, sopra i loro cocchi e i loro cavalieri». E avendo Mosè stesa la mano verso il mare, sul far della mattina, il mare tornò al suo posto di prima, e le acque piombarono addosso agli Egiziani che fuggivano: così il Signore li travolse in mezzo ai flutti. E le acque, ritornando, coprirono i cocchi e i cavalieri di tutto l’esercito del Faraone, che per inseguire erano entrati nel mare: né un solo di loro scampò. Ma i figli d’Israele camminarono sull’asciutto nel mezzo del mare, e le acque erano per loro come un muro a destra e a sinistra. Così in quel giorno il Signore liberò Israele dalle mani degli Egiziani. E gli Israeliti videro sul lido del mare gli Egiziani morti e la grande potenza che il Signore aveva dispiegato contro di essi. E il popolo temè il Signore e credettero al Signore e a Mosè, suo servo. E allora Mosè cantò coi figli d’Israele questo cantico al Signore, dicendo: Cantiamo al Signore perché si è maestosamente glorificato; ha precipitato in mare cavallo e cavaliere. Il Signore è la mia forza ed il mio cantico;


V. Egli è il mio Dio e lo glorificherò; il Dio di mio padre e Lo esalterò.
V. Il Signore debella le guerre: il suo nome è l’Onnipotente]

V Profezia (Is. LIV, 17- LV. 11)

(Con il Battesimo le anime fanno parte del nuovo popolo col quale Dio stringe un’alleanza infinitamente superiore a quella del Sinai)

Hæc est heréditas servórum Dómini: et justítia eórum apud me, dicit Dóminus. Omnes sitiéntes, veníte ad aquas: et qui non habétis argéntum, properáte, émite et comédite: veníte, émite absque argénto et absque ulla commutatióne vinum et lac. Quare appénditis argéntum non in pánibus, et labórem vestrum non in saturitáte? Audíte audiéntes me, et comédite bonum, et delectábitur in crassitúdine ánima vestra. Inclináte aurem vestram, et veníte ad me: audíte, et vivet ánima vestra, et fériam vobíscum pactum sempitérnum, misericórdias David fidéles. Ecce, testem pópulis dedi eum, ducem ac præceptórem géntibus. Ecce, gentem, quam nesciébas, vocábis: et gentes, quæ te non cognovérunt, ad te current propter Dóminum, Deum tuum, et sanctum Israël, quia glorificávit te. Quærite Dóminum, dum inveníri potest: invocáte eum, dum prope est. Derelínquat ímpius viam suam et vir iníquus cogitatiónes suas, et revertátur ad Dóminum, et miserébitur ejus, et ad Deum nostrum: quóniam multus est ad ignoscéndum. Non enim cogitatiónes meæ cogitatiónes vestræ: neque viæ vestræ viæ meæ, dicit Dóminus. Quia sicut exaltántur cœli a terra, sic exaltátæ sunt viæ meæ a viis vestris, et cogitatiónes meæ a cogitatiónibus vestris. Et quómodo descéndit imber et nix de cœlo, et illuc ultra non revértitur, sed inébriat terram, et infúndit eam, et germináre eam facit, et dat semen serénti et panem comedénti: sic erit verbum meum, quod egrediátur de ore meo: non revertátur ad me vácuum, sed fáciet, quæcúmque volui, et prosperábitur in his, ad quæ misi illud: dicit Dóminus omnípotens.

[Questa è l’eredità dei servi del Signore, e la loro giustizia è affidata a me, dice il Signore. Voi tutti che avete sete venite alle acque; e voi che non avete argento fate presto, comprate e mangiate venite, comprate senza argento e senz’altra permuta, del vino e del latte; per qual motivo spendete voi il vostro argento in cose che non sono pane e la vostra fatica in ciò che non vi sazia? Con docilità ascoltatemi e cibatevi di buon cibo; l’anima vostra si delizierà nel sostanzioso, nutrimento. Porgete l’orecchio vostro e venite a me: Udite, e vivrà l’anima vostra, ed io stabilirò con voi un patto eterno, l’adempimento delle misericordie assicurate a David. Ecco che ho dato lui per testimoniare ai Popoli, condottiero e maestro delle nazioni. Ecco che quel popolo che tu non riconoscevi, tu lo chiamerai; le genti che non ti conoscevano, a te correranno per amor del Signore Dio tuo, e del santo d’Israele, perché ti ha glorificato. Cercate il Signore mentre lo si può trovare: invocatelo mentre egli è vicino. Abbandoni l’empio, la via sua, e l’iniquo i suoi maligni progetti, e ritorni al Signore, il quale avrà misericordia di lui; al nostro Dio, che è largo nel perdonare. Poiché i pensieri miei non sono i pensieri vostri, ne le vie vostre son le vie mie, dice il Signore. Poiché di quanto il cielo sovrasta alla terra, tanto sovrastano le mie vie alle vostre e i miei pensieri ai pensieri vostri. E come scende la pioggia e la neve dal cielo e lassù non ritorna, ma inebria la terra e la bagna e la fa germogliare affinché dia il seme da seminare e il pane da mangiare; così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: essa non tornerà a me senza frutto, ma opererà tutto quello che io voglio, e felicemente adempirà quelle cose per le quali io l’ho mandata: così dice il Signore onnipotente.]

VI. Profezia (Bar. III, 9-22)

(Le anime battezzate gioiranno in una pace eterna se osserveranno le lezioni di vita e di sapienza che a Chiesa dà loro in nome di Dio)

Audi, Israël, mandáta vitæ: áuribus pércipe, ut scias prudéntiam. Quid est, Israël, quod in terra inimicórum es? Inveterásti in terra aliéna, coinquinátus es cum mórtuis: deputátus es cum descendéntibus in inférnum. Dereliquísti fontem sapiéntiæ. Nam si in via Dei ambulásses, habitásses útique in pace sempitérna. Disce, ubi sit prudéntia, ubi sit virtus, ubi sit intelléctus: ut scias simul, ubi sit longitúrnitas vitæ et victus, ubi sit lumen oculórum et pax. Quis invénit locum ejus? et quis intrávit in thesáuros ejus? Ubi sunt príncipes géntium, et qui dominántur super béstias, quæ sunt super terram? qui in ávibus cœli ludunt, qui argéntum thesaurízant et aurum, in quo confídunt hómines, et non est finis acquisitiónis eórum? qui argéntum fábricant, et sollíciti sunt, nec est invéntio óperum illórum? Extermináti sunt, et ad ínferos descendérunt, et álii loco eórum surrexérunt. Júvenes vidérunt lumen, et habitavérunt super terram: viam autem disciplínæ ignoravérunt, neque intellexérunt sémitas ejus, neque fílii eórum suscepérunt eam, a fácie ipsórum longe facta est: non est audíta in terra Chánaan, neque visa est in Theman. Fílii quoque Agar, qui exquírunt prudéntiam, quæ de terra est, negotiatóres Merrhæ et Theman, et fabulatóres, et exquisitóres prudéntiæ et intellegéntias: viam autem sapiéntiæ nesciérunt, neque commemoráti sunt sémitas ejus. O Israël, quam magna est domus Dei et ingens locus possessiónis ejus! Magnus est et non habet finem: excélsus et imménsus. Ibi fuérunt gigántes nomináti illi, qui ab inítio fuérunt, statúra magna, sciéntes bellum. Non hos elegit Dóminus, neque viam disciplínæ invenérunt: proptérea periérunt. Et quóniam non habuérunt sapiéntiam, interiérunt propter suam insipiéntiam. Quis ascéndit in cœlum, et accépit eam et edúxit eam de núbibus? Quis transfretávit mare, et invénit illam? et áttulit illam super aurum eléctum? Non est, qui possit scire vias ejus neque qui exquírat sémitas ejus: sed qui scit univérsa, novit eam et adinvénit eam prudéntia sua: qui præparávit terram in ætérno témpore, et replévit eam pecúdibus et quadrupédibus: qui emíttit lumen, et vadit: et vocávit illud, et obædit illi in tremóre. Stellæ autem dedérunt lumen in custódiis suis, et lætátæ sunt: vocátæ sunt, et dixérunt: Adsumus: et luxérunt ei cum jucunditáte, qui fecit illas. Hic est Deus noster, et non æstimábitur álius advérsus eum. Hic adinvénit omnem viam disciplínæ, et trádidit illam Jacob púero suo et Israël dilécto suo. Post hæc in terris visus est, et cum homínibus conversátus est.

[Ascolta, o Israele, i comandamenti di vita; porgi le orecchie ad imparare la prudenza: quale è la ragione, o Israele, per la quale tu sei in terra nemica? Tu invecchi in paese straniero, sei contaminato tra i morti, sei stato contuso con quelli che scendono nella fossa. Infatti tu abbandonasti la fonte della sapienza. Poiché se tu avessi camminato per la via di Dio, saresti vissuto in una pace eterna. Impara dove sia la prudenza, dove sia la fortezza, dove sia l’intelligenza; affinché sappia a un tempo dove sia la lunghezza della vita e il nutrimento, dove sia il lume degli occhi e la pace. Chi trovò la sede di essa? E chi penetrò nei tesori di lei? Dove sono i principi delle nazioni e coloro che dominano sopra le bestie della terra? Coloro che coi volatili del cielo scherzano; coloro che tesoreggiano argento ed oro, in cui confidano gli uomini, né mai finiscono di procacciarsene? coloro che lavorano l’argento, e gran pensiero se ne danno e non hanno termine le opere loro? Furono sterminati e discesero negli abissi e a loro altri succedettero. Questi, giovani, videro la luce e abitarono sopra la terra, ma la via della disciplina non conobbero e non ne compresero la direzione, né i loro figli l’abbracciarono; essa andò lungi da essi, di lei non si udì più parola nella terra di Canaan, non fu veduta in Theman. I figli ancora di Agar, che cercano la prudenza che viene dalla terra, e i negozianti di Merrha e di Theman e i favoleggiatori e gli scopritori della prudenza e della intelligenza, non conobbero la via della sapienza; né fecero tesoro dei suoi ammaestramenti. O Israele, quanto grande è la casa di Dio, e quanto grande è il luogo del suo dominio! Grande egli è e non ha termine: eccelso e immenso. Ivi furono quei giganti famosi che da principio furono di statura grande, maestri di guerra. Non scelse questi il Signore, né questi trovarono la via della disciplina; per questo perirono. E perché non ebbero la sapienza, perirono per la loro stoltezza. Chi salì al cielo e ne fece acquisto, e chi la trasse dalle nubi? Chi varcò il mare e la trovò e la portò a preferenza dell’oro più fino? Non è chi possa conoscere le vie di lei, né chi comprenda i suoi sentieri. Colui che sa tutto la conosce e la discoprì con la sua prudenza; colui che fondò la terra per l’eternità e la riempì di animali e di quadrupedi, colui che manda la luce ed essa va, la chiama ed essa ubbidisce a lui con tremore. Le stelle diffusero dai loro posti il loro lume, e ne furono liete: chiamate, dissero : Eccoci, e risplenderono con gioia per lui che le creò. Questi è il Dio nostro e nessun altro può essere messo in paragone con lui, questi fu l’inventore della via della disciplina e la insegno a Giacobbe suo servo, e ad Israele suo diletto. Dopo tali cose egli fu visto sopra la terra, e con gli uomini ha conversato.]

VII. Profezia (Ezech., XXXVII, 1-14)

(Il Battesimo infonde una nuova via nelle anime che il peccato aveva fatto morire, ciò è raffigurato dalle ossa disseccate che al comando di Ezechiele si rizzano, si rivestono di carne e divengono un’armata potente)

In diébus illis: Facta est super me manus Dómini, et edúxit me in spíritu Dómini: et dimísit me in médio campi, qui erat plenus óssibus: et circumdúxit me per ea in gyro: erant autem multa valde super fáciem campi síccaque veheménter. Et dixit ad me: Fili hóminis, putásne vivent ossa ista? Et dixi: Dómine Deus, tu nosti. Et dixit ad me: Vaticináre de óssibus istis: et dices eis: Ossa árida, audíte verbum Dómini. Hæc dicit Dóminus Deus óssibus his: Ecce, ego intromíttam in vos spíritum, et vivétis. Et dabo super vos nervos, et succréscere fáciam super vos carnes, et superexténdam in vobis cutem: et dabo vobis spíritum, et vivétis, et sciétis, quia ego Dóminus. Et prophetávi, sicut præcéperat mihi: factus est autem sónitus prophetánte me, et ecce commótio: et accessérunt ossa ad ossa, unumquódque ad junctúram suam. Et vidi, et ecce, super ea nervi et carnes ascendérunt: et exténta est in eis cutis désuper, et spíritum non habébant. Et dixit ad me: Vaticináre ad spíritum, vaticináre, fili hóminis, et dices ad spíritum: Hæc dicit Dóminus Deus: A quátuor ventis veni, spíritus, et insúffla super interféctos istos, et revivíscant. Et prophetávi, sicut præcéperat mihi: et ingréssus est in ea spíritus, et vixérunt: steterúntque super pedes suos exércitus grandis nimis valde. Et dixit ad me: Fili hóminis, ossa hæc univérsa, domus Israël est: ipsi dicunt: Aruérunt ossa nostra, et périit spes nostra, et abscíssi sumus. Proptérea vaticináre, et dices ad eos: Hæc dicit Dóminus Deus: Ecce, ego apériam túmulos vestros, et edúcam vos de sepúlcris vestris, pópulus meus: et indúcam vos in terram Israël. Et sciétis, quia ego Dóminus, cum aperúero sepúlcra vestra et edúxero vos de túmulis vestris, pópule meus: et dédero spíritum meum in vobis, et vixéritis, et requiéscere vos fáciam super humum vestram: dicit Dóminus omnípotens.

[In quei giorni la mano del Signore fu sopra di me: e lo spirito del Signore mi trasse fuori e mi posò in mezzo ad un campo che era pieno di ossa e mi fece girare intorno ad esso: esse poi erano in gran quantità sulla faccia del campo e molto inaridite: e disse a me: Figlio dell’uomo, pensi tu che possano riavere vita queste ossa? Ed io dissi: Signore Dio, tu lo sai. Ed egli disse a me: Profetizza sopra queste ossa e dirai loro: Ossa aride, udite la parola del Signore: queste cose dice il Signore Dio a queste ossa. Ecco che io infonderò in voi lo spirito e avrete la vita. E farò risalire su di voi i nervi e ricrescere sopra di voi le carni, e sopra di voi stenderò la pelle e darò a voi lo spirito, e vivrete e conoscerete che io sono il Signore. E profetai come egli mi aveva ordinato e mentre io profetavo, si udì uno strepito, ed ecco un brulichio: e si accostarono ossa ad ossa, ciascuna alla propria giuntura. E mirai, ed ecco sopra di esse i nervi e le carni vennero e si distese sopra di loro la pelle; ma non avevano spirito. Allora mi disse: Profetizza allo spirito, profetizza. figlio dell’uomo e dirai allo spirito: queste cose dice il Signore Iddio: Dai quattro venti vieni, o spirito, e soffia sopra questi morti ed essi rivivranno. E profetai come egli mi aveva comandato ed entrò in quelli lo spirito e riebbero la vita e stettero sui piedi loro, un esercito grande fuor di misura. Ed egli disse a me: Figlio dell’uomo, tutte queste ossa sono figli di Israele: essi dicono: Aride sono le ossa nostre, ed è perita la nostra speranza, e noi siamo troncati: per questo tu profetizza e dirai loro: queste cose dice il Signore: Ecco che io aprirò le vostre tombe e vi trarrò fuori dai vostri sepolcri, popolo mio, e vi condurrò nella terra d’Israele. E conoscerete che io sono il Signore allorquando avrò aperto i vostri sepolcri e vi avrò tratti dai sepolcri vostri, popolo mio, ed avrò infuso il mio spirito in voi, e vivrete, e vi avrò dato riposo nella terra vostra, dice il Signore, onnipotente.]

VIII. Profezia (Is. IV, 1-6)

(Isaia, dopo un cenno alla vedovanza e al celibato forzato delle vanitose donne di Gerusalemme, prive di uomini per la guerra, parla delle promesse messianiche.)

Apprehéndent septem mulíeres virum unum in die illa, dicéntes: Panem nostrum comedémus et vestiméntis nostris operiémur: tantúmmodo invocétur nomen tuum super nos, aufer oppróbrium nostrum. In die illa erit germen Dómini in magnificéntia et glória, et fructus terræ súblimis, et exsultátio his, qui salváti fúerint de Israël. Et erit: Omnis, qui relíctus fúerit in Sion et resíduus in Jerúsalem, sanctus vocábitur, omnis, qui scriptus est in vita in Jerúsalem. Si ablúerit Dóminus sordes filiárum Sion, et sánguinem Jerúsalem láverit de médio ejus, in spíritu judícii et spíritu ardóris. Et creábit Dóminus super omnem locum montis Sion, et ubi invocátus est, nubem per diem, et fumum et splendórem ignis flammántis in nocte: super omnem enim glóriam protéctio. Et tabernáculum erit in umbráculum diéi ab æstu, et in securitátem et absconsiónem a túrbine et a plúvia.

[Sette donne si disputeranno un sol uomo in quel giorno dicendo: Noi mangeremo il nostro pane, del nostro ci vestiremo; solamente dacci il tuo nome, togli la nostra confusione. In quel giorno il «Germoglio del Signore sarà in magnificenza e gloria, e il «Frutto della terra» sarà il sublime vanto e la gioia dei salvati d’Israele. Tutti quelli restati in Sion, quelli rimasti in Gerusalemme, saranno chiamati santi, tutti quelli inscritti per la vita saranno in Gerusalemme . Quando il Signore avrà lavata dalle macchie la figlia di Sion, e Gerusalemme dal sangue che è in mezzo ad essa con lo spirito di giustizia e lo spirito di fuoco, il Signore allora creerà sopra tutto il monte di Sion, e dovunque sarà invocato, una nuvola di fumo durante il giorno, e lo splendore del fuoco fiammante nella notte, e sopra tutta la sua Gloria vi sarà protezione. Il Santuario farà ombra per il calore del giorno, e di difesa contro la bufera e la pioggia.]

IX. Profezia (Es. XII, 1-11)

(I Battezzati mangeranno la carne dell’Agnello di Dio di cui l’Agnello pasquale è la figura)

In diébus illis: Dixit Dóminus ad Móysen et Aaron in terra Ægýpti: Mensis iste vobis princípium ménsium: primus erit in ménsibus anni. Loquímini ad univérsum cœtum filiórum Israël, et dícite eis: Décima die mensis hujus tollat unusquísque agnum per famílias et domos suas. Sin autem minor est númerus, ut suffícere possit ad vescéndum agnum, assúmet vicínum suum, qui junctus est dómui suæ, juxta númerum animárum, quæ suffícere possunt ad esum agni. Erit autem agnus absque mácula, másculus, annículus: juxta quem ritum tollétis et hædum. Et servábitis eum usque ad quartam décimam diem mensis hujus: immolabítque eum univérsa multitúdo filiórum Israël ad vésperam. Et sument de sánguine ejus, ac ponent super utrúmque postem et in superlimináribus domórum, in quibus cómedent illum. Et edent carnes nocte illa assas igni, et ázymos panes cum lactúcis agréstibus. Non comedétis ex eo crudum quid nec coctum aqua, sed tantum assum igni: caput cum pédibus ejus et intestínis vorábitis. Nec remanébit quidquam ex eo usque mane. Si quid resíduum fúerit, igne comburétis. Sic autem comedétis illum: Renes vestros accingétis, et calceaménta habébitis in pédibus, tenéntes báculos in mánibus, et comedétis festinánter: est enim Phase Dómini.

[In quei giorni disse il Signore a Mosè ed Aronne nella terra di Egitto: questo mese sarà per voi il principio dei mesi, il primo dei mesi dell’anno. Parlate a tutta l’adunanza dei figliuoli d’Israele, e dite loro: Il decimo giorno di questo mese, prenda ciascuno un agnello per famiglia e per casa. Che se il numero delle, persone è insufficiente per mangiare tutto l’agnello, inviterà, il suo vicino di casa, in modo che si abbia il numero sufficiente per consumare l’agnello. Questo poi sarà senza macchia , maschio, di un anno; e con lo stesso rito prenderete anche un capretto. E serberete l’agnello fino al giorno quattordicesimo di questo mese; e tutta la moltitudine dei figliuoli d’Israele lo immolerà alla sera. E prenderanno del sangue suo e lo metteranno su ambedue gli stipiti della porta e sull’architrave della porta delle case nelle quali lo mangeranno. E quella notte mangeranno quelle carni, arrostite al fuoco, con pani azzimi e lattughe selvatiche. Di esso non mangerete niente di crudo, o cotto nell’acqua, ma soltanto arrostito col fuoco; mangerete anche il capo, i piedi e le interiora. Niente di esso deve avanzare per il mattino; se qualche cosa ne avanzasse lo brucerete nel fuoco. E lo mangerete in questo modo; avrete i fianchi cinti, le scarpe ai piedi, e i bastoni in mano, e mangerete alla svelta perché è la Phase del Signore.]

X Profezia. (Jon. III, 1-10)

(Le anime, con la penitenza (Quaresima) ed il Battesimo ottengono la misericordia di Dio, come già i Niniviti)

In diébus illis: Factum est verbum Dómini ad Jonam Prophétam secúndo, dicens: Surge, et vade in Níniven civitátem magnam: et prædica in ea prædicatiónem, quam ego loquor ad te. Et surréxit Jonas, et ábiit in Níniven juxta verbum Dómini. Et Nínive erat cívitas magna itínere trium diérum. Et cœpit Jonas introíre in civitátem itínere diéi uníus: et clamávit et dixit: Adhuc quadragínta dies, et Nínive subvertétur. Et credidérunt viri Ninivítæ in Deum: et prædicavérunt jejúnium, et vestíti sunt saccis a majóre usque ad minórem. Et pervénit verbum ad regem Nínive: et surréxit de sólio suo, et abjécit vestiméntum suum a se, et indútus est sacco, et sedit in cínere. Et clamávit et dixit in Nínive ex ore regis et príncipum ejus, dicens: Hómines et juménta et boves et pécora non gustent quidquam: nec pascántur, et aquam non bibant. Et operiántur saccis hómines et juménta, et clament ad Dóminum in fortitúdine, et convertatur vir a via sua mala, et ab iniquitáte, quæ est in mánibus eórum. Quis scit, si convertátur et ignóscat Deus: et revertátur a furóre iræ suæ, et non períbimus? Et vidit Deus ópera eórum, quia convérsi sunt de via sua mala: et misértus est pópulo suo, Dóminus, Deus noster.

[In quei giorni il Signore per la seconda volta parlò a Giona profeta e disse: Alzati e va a Ninive città grande, e predica ivi quello che io dico a te. E si mosse Giona e andò a Ninive secondo l’ordine del Signore. Or Ninive era una città grande che aveva tre giornate di cammino. E Giona incominciò a percorrere la città per il cammino di un giorno e gridava e diceva: Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta. E i Niniviti credettero a Dio; e intimarono il digiuno e si vestirono di sacco tanto i grandi quanto i piccoli. E fu portata la nuova al re di Ninive: ed egli si levò dal suo trono e gettò via le sue vesti e si vestì di sacco e si assise sopra la cenere. E pubblicò e intimò in Ninive quest’ordine del re e dei suoi principi: Uomini e bestie, bovi e pecore non mangino niente, non vadano al pascolo, e acqua non bevano. E si coprano di sacco gli uomini e gli animali, e gridino verso il Signore con tutta la loro forza e si converta ciascuno dalla sua cattiva vita e dalle sue opere inique. Chi sa che Dio non si rivolga a noi e ci perdoni: e calmi il furore dell’ira sua, e così non ci faccia perire. E Dio vide le opere loro e come si erano convertiti dalla loro mala vita, ed ebbe misericordia del suo popolo il Signore Dio nostro.]

XI Profezia (Deut. XXXI, 22-30)

(Le anime che Dio fa entrare nel suo regno con il Battesimo dovranno, come il popolo che Mosè condusse verso la terra promessa, conservare il ricordo della legge e delle munificenze di Dio)

In diébus illis: Scripsit Móyses canticum, et dócuit fílios Israël. Præcepítque Dóminus Josue, fílio Nun, et ait: Confortáre, et esto robústus: tu enim introdúces fílios Israël in terram, quam pollícitus sum, et ego ero tecum. Postquam ergo scripsit Móyses verba legis hujus in volúmine, atque complévit: præcépit Levítis, qui portábant arcam fœderis Dómini, dicens: Tóllite librum istum, et pónite eum in látere arcæ fœderis Dómini, Dei vestri: ut sit ibi contra te in testimónium. Ego enim scio contentiónem tuam et cérvicem tuam duríssimam. Adhuc vivénte me et ingrediénte vobíscum, semper contentióse egístis contra Dóminum: quanto magis, cum mórtuus fúero? Congregáte ad me omnes majóres natu per tribus vestras, atque doctóres, et loquar audiéntibus eis sermónes istos, et invocábo contra eos cœlum et terram. Novi enim, quod post mortem meam iníque agétis et declinábitis cito de via, quam præcépi vobis: et occúrrent vobis mala in extrémo témpore, quando fecéritis malum in conspéctu Dómini, ut irritétis eum per ópera mánuum vestrárum. Locútus est ergo Móyses, audiénte univérso cœtu Israël, verba cárminis hujus, et ad finem usque complévit.

[In quei giorni Mosè scrisse un cantico e lo insegnò ai figli di Israele. E il Signore diede i suoi ordini a Giosuè figlio di Nun e gli disse: «Fatti coraggio e sii forte: tu introdurrai i figli d’Israele nella terra che ho loro promessa, io poi sarò con te». Or quando Mosè ebbe finito di scrivere le parole di questa legge in un libro, diede ordine ai leviti, che portavano l’arca del patto del Signore: «Prendete questo libro e mettetelo in un lato dell’arca del patto del Signore Dio vostro, che vi rimanga come testimonio contro di te; perché ben conosco la tua ostinazione e la tua durezza di testa. Se, mentre sono ancor vivo e cammino con voi, siete stati sempre ribelli contro il Signore; quanto più dopo la mia morte! Radunate presso di me tutti gli anziani di ciascuna delle vostre tribù, e i vostri prefetti, che pronunzierò dinanzi a loro queste parole, chiamando a testimonio contro di loro il cielo e la terra. Poiché so bene che dopo la mia morte agirete iniquamente, uscendo ben presto dalla strada che vi ho prescritta; e vi cadranno addosso i mali negli ultimi tempi, allorché avrete fatto il male nel cospetto del Signore, provocandolo a sdegno colle opere vostre». Mosè quindi pronunciò e recitò sino alla fine le parole di questo cantico mentre tutto Israele stava ad ascoltarlo.

XII. Profezia (Dan. III, 1-24)

(Le anime che giurano fedeltà a Dio, per mezzo del Battesimo saranno protette nei pericoli, come i tre giovinetti nella fornace)


In diébus illis: Nabuchodónosor rex fecit státuam áuream, altitúdine cubitórum sexagínta, latitúdine cubitórum sex, et státuit eam in campo Dura provínciæ Babylónis. Itaque Nabuchodónosor rex misit ad congregándos sátrapas, magistrátus, et júdices, duces, et tyránnos, et præféctos, omnésque príncipes regiónum, ut convenírent ad dedicatiónem státuæ, quam eréxerat Nabuchodónosor rex. Tunc congregáti sunt sátrapæ, magistrátus, et júdices, duces, et tyránni, et optimátes, qui erant in potestátibus constitúti, et univérsi príncipes regiónum, ut convenírent ad dedicatiónem státuæ, quam eréxerat Nabuchodónosor rex. Stabant autem in conspéctu státuæ, quam posúerat Nabuchodónosor rex, et præco clamábat valénter: Vobis dícitur populis, tríbubus et linguis: In hora, qua audiéritis sónitum tubæ, et fístulæ, et cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, et univérsi géneris musicórum, cadéntes adoráte státuam áuream, quam constítuit Nabuchodónosor rex. Si quis autem non prostrátus adoráverit, eádem hora mittétur in fornácem ignis ardéntis. Post hæc ígitur statim ut audiérunt omnes pópuli sónitum tubæ, fístulæ, et cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, et omnis géneris musicórum, cadéntes omnes pópuli, tribus et linguæ adoravérunt státuam auream, quam constitúerat Nabuchodónosor rex. Statímque in ipso témpore accedéntes viri Chaldæi accusavérunt Judæos, dixerúntque Nabuchodónosor regi: Rex, in ætérnum vive: tu, rex, posuísti decrétum, ut omnis homo, qui audiérit sónitum tubæ, fístulæ, et cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, et univérsi géneris musicórum, prostérnat se et adóret státuam áuream: si quis autem non prócidens adoráverit, mittátur in fornácem ignis ardéntis. Sunt ergo viri Judæi, quos constituísti super ópera regiónis Babylónis, Sidrach, Misach et Abdénago: viri isti contempsérunt, rex, decrétum tuum: deos tuos non colunt, et státuam áuream, quam erexísti, non adórant. Tunc Nabuchodónosor in furóre et in ira præcépit, ut adduceréntur Sidrach, Misach et Abdénago: qui conféstim addúcti sunt in conspéctu regis. Pronuntiánsque Nabuchodónosor rex, ait eis: Veréne, Sidrach, Misach et Abdénago, deos meos non cólitis, et státuam áuream, quam constítui, non adorátis? Nunc ergo si estis parati, quacúmque hora audieritis sonitum tubæ, fístulæ, cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, omnísque géneris musicórum, prostérnite vos et adoráte státuam, quam feci: quod si non adoravéritis, eadem hora mittémini in fornácem ignis ardéntis; et quis est Deus, qui erípiet vos de manu mea? Respondéntes Sidrach, Misach et Abdénago, dixérunt regi Nabuchodónosor: Non opórtet nos de hac re respóndere tibi. Ecce enim, Deus noster, quem cólimus, potest erípere nos de camíno ignis ardéntis, et de mánibus tuis, o rex, liberáre. Quod si nolúerit, notum sit tibi; rex, quia deos tuos non cólimus et státuam áuream, quam erexísti, non adorámus. Tunc Nabuchodónosor replétus est furóre, et aspéctus faciéi illíus immutátus est super Sidrach, Misach et Abdénago, et præcépit, ut succenderétur fornax séptuplum, quam succéndi consuéverat. Et viris fortíssimis de exércitu suo jussit, ut, ligátis pédibus Sidrach, Misach et Abdénago, mítterent eos in fornácem ignis ardéntis. Et conféstim viri illi vincti, cum braccis suis et tiáris et calceaméntis et véstibus, missi sunt in médium fornácis ignis ardéntis: nam jússio regis urgébat: fornax autem succénsa erat nimis. Porro viros illos, qui míserant Sidrach, Misach et Abdénago, interfécit flamma ignis. Viri autem hi tres, id est, Sidrach, Misach et Abdénago, cecidérunt in médio camíno ignis ardéntis colligáti. Et ambulábant in médio flammæ laudántes Deum, et benedicéntes Dómino.

[In quei giorni il re Nabuchodonosor fece una statua d’oro alta sessanta cubiti, larga sei cubiti e la fece alzare nella campagna di Dura, provincia di Babilonia. E così il Re Nabuchodonosor mandò a radunare i satrapi e i magistrati e i giudici e i capitani e i dinasti e i prefetti e tutti i governatori delle Provincie affinché tutti insieme andassero alla dedicazione della statua alzata dal re Nabuchodonosor. Allora si radunarono i satrapi e i magistrati e i giudici e i capitani, e i dinasti, e i grandi che erano costituiti in dignità, e tutti i governatori delle Provincie per andare tutti insieme alla dedicazione della statua, eretta da Nabuchodonosor. E stavano in faccia alla statua alzata dal re Nabuchodonosor: e l’araldo gridava ad alta voce: A voi si ordina, popoli tribù e lingue che nel punto stesso in cui udirete il suono della tromba e del flauto, della cetra, della zampogna, del saltero, del timpano è di ogni sorta di strumenti musicali, prostrati adoriate la statua d’oro eretta dal re Nabuchodonosor. Se alcuno non si prostra e adora, nello stesso momento sarà gettato in una fornace di fuoco ardente. Poco dopo, dunque, appena che i popoli tutti udirono il suono della tromba, del flauto, della cetra, della zampogna, del saltero, del timpano e di ogni genere di strumenti musicali, tutti senza distinzione di tribù e di lingua prostrati, adorarono la statua d’oro alzata dal re Nabuchodonosor. Subito, in quel punto stesso andarono alcuni uomini Caldei ad accusare i giudei e dissero al re Nabuchodonosor: Vivi, o re, in eterno; tu, o re, hai fatto un decreto che qualunque uomo che avesse udito il suono della tromba, del flauto, della cetra, della zampogna, del saltero, del timpano e di ogni sorta di strumenti musicali si prostrasse e adorasse la statua d’oro: che se alcuno non si prostrasse e adorasse, fosse gettato in una fornace di fuoco ardente. Vi son dunque tre uomini giudei i quali tu hai deputati sopra affari della provincia di Babilonia: Sidrach, Misach e gli Abdenago; questi uomini han dispregiato, o re, il tuo decreto: ai tuoi dei non rendono culto, non adorano la statua d’oro, alzata da te. Allora Nabuchodonosor pieno di furore e d’ira, ordinò che gli fossero condotti Sidrach, Misach e Abdenago; i quali furono condotti al cospetto del re. E parlò Nabuchodonosor re, e disse: È vero, o Sidrach. Misach e Abdenago, che voi non rendete culto ai miei dei e non adorate la statua d’oro che io ho eretta? Ora dunque se voi siete a ciò disposti, in quel momento in cui udirete il suono della tromba, del flauto, della cetra, della zampogna, del salterio, del timpano, e ogni genere di strumenti musicali, prostratevi e adorate la statua che io ho fatta che se non l’adorerete in quel punto stesso sarete gettati in una fornace di fuoco ardente: e quale è il Dio che vi sottrarrà al mio potere? Risposero Sidrach, Misach e Abdenago e dissero al re Nabuchodonosor: Non è necessario che noi ti diamo risposta. Perché certamente il Dio nostro che noi adoriamo, può liberarci dalla fornace di fuoco ardente e sottrarci al tuo patere, o re. Ma se anche non lo volesse fare, sappi, o re, che non rendiamo culto ai tuoi dei e non adoriamo la statua d’oro da te eretta. Allora Nabuchodonosor entrò in furore, e la sua faccia cambiò di colore verso Sidrach, Misach e Abdenago, e comandò che si accendesse il fuoco nella fornace sette volte più dell’usato. E ad uomini fortissimi del suo esercito diede ordine che legassero i piedi di Sidrach, Misach e Abdenago, e li gettassero nella fornace di fuoco ardente. E tosto, questi tre uomini legati nei piedi, avendo, i loro calzoni e tiare e i loro calzari e le loro vesti, furono gettati in mezzo alla fornace di fuoco ardente: poiché il comando del re non ammetteva indugi, e la fornace era accesa straordinariamente. Ma la fiamma di, improvviso incenerì coloro che vi avevano gettato Sidrach, Misach e Abdenago: mentre questi tre e cioè Sidrach, Misach e Abdenago caddero legati nel mezzo della fornace ardente. E camminavano in mezzo alle fiamme lodando Dio e benedicendo il Signore.]

4. ° La benedizione del fonte. La quarta parte dell’uffizio del sabato santo è la benedizione del fonte, cioè dell’acqua che deve servire al battesimo dei catecumeni. – L’uso di benedir l’acqua battesimale risale ai primordi della Chiesa. Se ne vede la prova negli scritti dei Padri del IV e anche del III secolo. Allorché i catecumeni avevano sostenuto il loro ultimo esame, fatta la triplice rinunzia e ricevuta l’unzione dal Vescovo, si conducevano alla fonte per benedirli. Tutta l’adunanza dei Fedeli, con in mano dei ceri accesi, andavano in processione cantando le litanie, che si dicevano a tre, a cinque o a sette cori, secondo il numero degli assistenti, o si ripetevano tmilo a due cori fino a tre, cinque e sette volte. Di qui è nato il nome di ternarie, quinarie, settenarie dato a queste litanie: ritornando dal fonte si cantavano le litanie ternarie, che si ripetevan tre volte; e si dicono così anch’oggi.

Finite di cantarsi le profezie, tutto il clero si muove verso il fonte, cantando le litanie. Arrivato al battistero, ilsacerdote benedice l’acqua: incomincia dal ricordare in un sublime prefazio le meraviglie che Dio ha operato per le acque; poi immergendo la mano nel bacino del fonte, divide le acque in forma di croce; domanda a Dio, che le riempia della virtù dello Spirito Santo e le fecondi con la sua grazia. Di poi ne sparge verso le quattro parti del mondo per significare che tutta la terra deve esserne innaffiata, cioè che secondo le promesse di Gesù Cristo, il Vangelo deve fare il giro del mondo, e tutti i popoli debbono esser chiamati al battesimo. Soffia tre volte sull’acqua, scongiurando Gesù Cristo di benedirla con la propria bocca e di sottrarla alla potenza del demonio. V’immerge tre volte il cero pasquale, per mostrarci che per i meriti di Gesù Cristo, morto e resuscitato, di cui questo cero è la figura, essa avrà la virtù di preservare i nostri corpi e le anime nostre dalle insidie del nemico e di rimettere i peccati veniali, facendo nascer nei cuori sentimenti di amor di Dio e di contrizione. Fa cadere qualche goccia di questa cera nell’acqua che ha benedetta, per notare che la virtù di Gesù Cristo vi rimane unita: quindi separa l’acqua che deve servire per il Battesimo. Quando è stata versata nel fonte, vi mescola il santo crisma, che essendo composto d’olio e di balsamo, ricorda la grazia che il battesimo produrrà in quelli i quali lo riceveranno. Quest’acqua – dice egli – per questa mischianza, sia santificata, fecondata, e riceva la virtù di rimettere i peccati e di rigenerare le anime per la vita eterna, in nome del Padre etc.

Una volta, dopo la benedizione il Sacerdote andava aspergendo di quest’acqua santificata tutti gli assistenti; si fa così anch’oggi. Di poi tutti i Fedeli potevano, e possono anch’oggi andare a prendere di quest’acqua per potarsela a casa. S’adopra a preservare dagli accidenti e dai pericoli spirituali e corporali.

Finita la benedizione, si ritorna al coro cantando le litanie. Nella primitiva Chiesa, si conducevano allora in processione all’altare i novelli battezzati, vestiti di bianco, con un cero acceso in mano, e accompagnati dai padrini e madrine. All’altare, ricevevano la santa eucaristia, latte e miele dell’innocenza.

5.° La Messa. La Messa comincia subito dopo ritornati al coro. È senza Introito, perché tutto il popolo era già entrato: nei primi secoli, il popolo era alla chiesa fino dalla vigilia: è molto corta per ragion della lunghezza dei precedenti uffizi. Il medesimo è dei vespri.

L ‘ ORAZIONE.

0 Dio, che avete reso questa santa notte illustre e solenne per la gloria della resurrezione di nostro Signore conservate nei nuovi figli della vostra Chiesa lo spirito d’adozione che avete dato loro , affinchè rinnovati di corpo e d’anima, vi servano con purezza di cuore; per lo stesso Gesù Cristo nostro Signore ec.

L’EPISTOLA .

Lezione tratta dalla Lettera dell’Apostolo s. Paolo ai Colossesi, Cap. III, v. 1. ì .

“Fratelli miei, se siete resuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo sedente alla destra di Dio: abbiate pensiero delle cose di lassù, non di quelle della terra. Imperocché siete morti, e la vostra vita è ascosa con Cristo in Dio. Quando Cristo, vostra vita, comparirà; allora anche voi comparirete con lui nella gloria”.

Se per il battesimo siete morti e resuscitati in Gesù Cristo,dovete condurre una vita tutta nuova, e in certo modo tutta celeste; non dovete avere più nessuna affezione che per il cielo; non desiderj, nè passioni nemmeno che per le cose del cielo, riguardandovi d’ora innanzi come cittadini di questa celeste patria viandanti sullaterra, che deve esser per voi un luogo d’esilio. Voi siete morti al mondo e al peccato in virtù del battesimo, e non dovete vivere’ più che in Gesù Cristo, ed in Lui la vostra vita deve essere come nascosta, deve cioè la vita dei cristiani essere una vita pura, una vita mortificata, che la fede anima e la carità nutrisce; talché tutti i Cristiani, resuscitati col capo di cui son membra, debbono poter dire, come s. Paolo: Io vivo: non sono io che vivo, ma Gesù Cristo che vive in me.

Dopo questa lettera la quale è una lezione che la Chiesa fa a tutti quanti hanno ricevuta una novella vita per il battesimo, essa dà principio alla pasquale solennità, intonando l’Alleluja, non più cantato dalla vigilia della Settuagesima, quando entrò nell’afflizione e nel luttodi penitenza; e intonandolo tre volte, con alzare sempre più la voce, per aggiungere un nuovo grado alla gioia che deve risvegliare in noi la risurrezione di Gesù Cristo. È un canto di lode, di ringraziamento e di allegrezza, il più corto dei cantici, composto di due voci ebraiche esprimenti più vivamente che non potremmo fare nella nostra lingua il suo significato, che è: Lodiamo ringraziamolo, facciamo echeggiare la nostra allegrezza: Alleluja. Dall’Apocalisse è tolto questo grido di gioia. Fu sì familiare ai Fedeli nel tempo pasquale, che era il saluto ordinario che si davan tra loro secondo lo spirito della Chiesa, la quale lo ripete sì spesso ne’ suoi uffiziper tutto questo santo tempo.

IL VANGELO.

Segue il santo Vangelo secondo s. Matteo, Cap. XXVIII, v. 1-7

La sera del sabato, che si schiariva già il primo dì della settimana, andò Maria Maddalena, e l’altra Maria a visitare il sepolcro. Quand’ecco egli fu gran terremoto, poiché l’Angelo del Signore scese dal cielo, e appressatosi, voltò sossopra la pietra, e sedeva sopra di essa, l’aspetto di lui era come un folgore: e la sua veste come neve. E per la paura, che ebbero di lui, si sbigottirono le guardie, e rimaser come morte. Ma 1’Angelo del Signore, presa la parola, disse alle donne: Non temete voi, poiché io so che cercate Gesù Crocifisso. Egli non è qui perocché è resuscitato, conforme disse. Venite a vedere il luogo, dove giaceva il Signore. E tosto andate, e dite ai discepoli di lui, come Egli è resuscitato da morte : ed ecco vi va innanzi nella Galilea: ivi lo vedrete: ecco che io vi ho avvertite.

R. Sia lode a voi, o Cristo.

L’amore premuroso di queste sante donne le conduce avanti giorno alla tomba del lor caro Maestro, e il Signore vi spedisce un angelo ad annunziare ad esse la sua resurrezione. Il fervore e la sollecitudine verso Dio hanno presto la loro ricompensa; ma i devoti tiepidi, le anime inerti e pigre, sono escluse dalla sala delle nozze, perché sempre arrivano troppo tardi. La resurrezione di Gesù Cristo ispira una gioia spirituale e dolcissima a tutte le anime fedeli, mentre riempie di spavento i suoi nemici. Quando l’uomo è veramente di Dio, ed ha una vera pietà e una coscienza pura, prova nelle feste di pasqua, e negli altri misteri nel corso dell’anno, questa dolce gioia che è un saggio di quella del cielo, mentre la falsa pietà, mentre una divozione apparente non è mai più malinconica, e non sente mai meno unzione e fervore che in queste grandi solennità.

6.° Vespri. Si compongono di un solo salmo di due versetti, ma come questo salmo è bene scelto! O nazioni della terra – esclama la Chiesa – lodate il Signore!

Popoli, lodatelo tutti, perché la sua misericordia si è manifestata su noi, e la verità di sua promessa rimane in eterno. Per le nazioni, il profeta intende i Gentili; per i popoli, i figli d’Israele, società un tempo separate, ma unite in questo gran giorno in Gesù Cristo, per non formare più che una sola famiglia. Perciò il profeta vedendo nell’avvenire questo mistero d’ unità, il battesimo,ove i Giudei e i Gentili, ricevendo il medesimo spirito,diventano figli del medesimo Dio, esclama in un santofervore: La sua misericordia si è manifestata su noi;si, sopra noi tutti, sopra voi e sopra noi. Oh! come questo noiè affettuoso! possa egli accendere i nostri cuori; quella carità veramente cattolica ond’è l’espressione!Il sabato santo entriamo nella tomba con Gesù Cristo; lasciamo ivi l’uomo vecchio; riconduciamoci alle notti brillanti e solenni della primitiva Chiesa, ove si inseriva il battesimo; rinnoviamo le nostre promesse; rarifichiamo la nostra veste battesimale con le lagrime di una sincera penitenza, a fine di potere il giorno di Pasqua intervenire alle nozze dell’Agnello.

LO SCUDO DELLA FEDE (107)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

[Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884]

CAPO XVII.

Si dimostra Dio sotto il concetto di un essere sommamente perfetto.

I. Gli osservatori delle stelle, là nell’Egitto costumarono da principio di contemplare ilcielo da que’ loro medesimi campi aperti dove abitavano: ma poi col tempo, perfezionandosi l’arte, andarono a mano a mano scegliendo, per tali osservazioni le specole più sublimi, e ancora formandole: tanto che il più nobile uso che avesse già quell’eccelsissimo tempio di Babilonia, dedicato a Belo, fu il servire con la sua sommità agli astronomi di quei giorni per considerare i moti delle sfere da un’aria men carica di vapori troppo alteranti, con le importunità delle rifrazioni, le misure fedeli, e le mire ferme (Diod. 1. 2. c. 4). Ora noi fin qui, dal piano delle creature, abbiam contemplata qualche cosa alla grossa intorno all’esistenza del Creatore. Giusto è però, che raffinata la forma di specolare, ci solleviamo ormai su tutto il sensibile, per indi contemplare, come da posto più purgato e più prossimo, non il cielo (che ci rimarrà sotto i pie), ma il Creatore del cielo, nel suo grande essere, contenitore in sé di ogni grado di perfezione, che sia diviso in qualunque grado di essere immaginabile. Altrimenti mi parrebbe di far troppo grave torto alla capacità del vostro intelletto, se non mi fidassi di potere imprimere in esso la verità della divina esistenza con altre stampe, che con le grossolane, prestate a noi dalle botteghe de’ sensi.

II. Ed in primo luogo mi piace che giudichiate di qual pena sieno rei gli ateisti, mentre negano l’essere al primo Essere. Anassagora, perché spacciò che il sole non altro fosse che una gran pietra di fuoco, fu riputato degno dagli ateniesi di cruda morte, in virtù di cui non avesse a mirare mai più quel lume che tanto egli andava infamando con tal sentenza. Lascio però al nobile areopago di tutti i savi lo stabilire qual supplizio si debba, non a chi asserisca, che il sole sia un gran crisolito, o un gran carbonchio, quale Anassagora potea dir che intendesse per quella pietra di fuoco: ma a chi non tema affermare che Dio non è, se non un nome chimerico, un fantasma, una favola, un nulla sotto la maschera di ogni bene. E pure a tanto pervengono gli ateisti.

III. Ma adagio un poco, che qui è dove voglio io cavare la talpa, se mi riesce, malgrado suo, di sotterra a mirar la luce, con valermi di questo dilemma acuto.

IV. Voi dite, che Dio non v’è: Non est Deus. Ora bene. Giacché non v’è, è possibile almenoche Egli vi sia, o non è possibile? Non è gran fatto che a prima giunta voi mi concediate la sua possibilità: da che ad alcuni darebbe lieve noia il sapere, che Dio sia possibile, purché si assicurassero, che egli non fosse in atto.Ma piano, piano, che a risponder così voi restatedi subito nella rete, mentre non vedete fra voi, che alla prima cagion di tutte le cose,non si può concedere mai la possibilità senza insieme concederle l’esistenza. Il sole, i mari,i monti, l’uomo vivente, e tutte le altre creature, possono essere quando ancor di fattonon sono. Ma Dio non può. Se è possibile,egli è parimente in atto. Conciossiachè fingete,che Egli possa essere, ma non sia. Adunque vi ha una cagione che può produrlo: non sapendola mente nostra neppure apprendere,che parto alcuno possa uscir mai dai cupi abissi del nulla, ed uscirne di virtù propria.Se n’esce, conviene che vi sia di necessità chi nel tragga fuora, comunicandogli quella esistenza, di cui qualsivoglia effetto, infino a tanto che è meramente possibile, non è peranche arrivato a pigliar possesso. Questa cagione adunque, in vigor di cui sarebbe possibile, che Dio, dal non essere attualmente,passasse all’essere, questa cagion, dico, sarebbe in sé più perfetta, che non sarebbe il termine prodotto da lei con sì grande azione,mentre non solo lo agguaglierebbe in tutte le prerogative di potenza, di sapienza, di scienza,di bontà, e di altre tali, che a lui donasse inprodurlo; ma di più lo precederebbe, per quella priorità almeno che appellasi di natura,se non per quella di tempo, e però questa cagione medesima sarebbe Dio prima dell’effetto prodotto. Ella conterrebbe nel suo seno la sorgente di tutto l’essere, avanti di trasferirla nel seno altrui: e così ella più veramente sarebbe la cagion prima. Mirate dunque, come con illazione necessarissima si deduce, che sesi dà per possibile il primo Essere, non può all’ora stessa non darsi per esistente.

V. Qui l’ateista indurato non può fare altro, che ritrattarsi, e dire, che egli errò nel concedere Dio possibile. Dovea dire anzi, che egli è impossibile affatto e così finire ogni lite.

VI. Ma ecco lo sventurato in peggior viluppo. Perché io dunque mi rimarrò dall’argomentare più oltra contro di lui, per lasciare a lui la fatica non poco grave, di provare sì bell’assunto. Io per me so, che secondo i filosofi possibile è tutto ciò che, se si riducesse all’atto, non recherebbe veruno inconveniente con esso sé. Dica dunque egli, quale inconveniente con esso se può recare la convenienza medesima, la pura perfezione, la pura probità, il puro essere in atto, che è quanto intendiamo noi nominando Dio? Troppo in questa battaglia mostrerei nondimeno di aver timore, se io volessi meramente schifarla, quasi da un alto colle, e non attaccarla. Argomento dunque così.

II.

VII. Tutte le creature stan situate, quasi fra due estremi contrari, tra l’essere e il non essere. E però, partecipando anche tutte dell’uno e dell’altro estremo, in parte sono ricche, in parte sono povere, che è quanto dire, portano ad ogni loro bene congiunta la imperfezione. Ora io qui chieggovi. Perchè son esse imperfette? Perché loro manchi un bene fantastico, favoloso, impossibile, di cui niuna potrebbe divenir vago senza follia? No certamente: mentre il mancare di qualsisia bene falso, non debbe ascriversi a povertà, ma a ventura. Adunque non è impossibile il bene che loro manca. Ma il bene che loro manca, è un bene infinito, potendosi tosto dire quel bene che hanno, ma non potendosi mai finire di dire quel che non hanno. Dunque un bene infinito non è impossibile. E tale è Dio.

VIII. Di poi chi può mai negare, che l’andare esente da ogni difetto, non sia dote, non solo buona, ma ottima, mentre è il fiore di ogni bontà? Óra come dunque direte voi che è impossibile? L’impossibile è odiabile al maggior segno, è dileggiabile, è derisibile. Questo èchiaro fra tutti i saggi (Anton. Perez, de Deo disp, 1. c. 4. et 5). Chi dirà dunque, che odiabile, dileggiabile, derisibile siasi l’andare esente da ogni difetto? Anzi questo è il bene unico che sia degno di sommo amore. Adunque egli è ben possibile, dacché ogni bene si sostenta su l’essere. E se è così, dunque è possibile Dio, non essendo Dio finalmente senonchè un bene puro da qualunque difetto. E certamente se una luce non è contraria mai all’altra luce, né anche una perfezione schiettissima e semplicissima sarà mai contraria ad altra perfezione di simil genere. Adunque potranno tutte d’accordo far lega insieme, come la fanno quanti mai sieno i diamanti in gioiello d’oro; e tutte potranno unirsi comodamente in una somma natura che le possegga senza eccezione. E tale è la natura divina. Mirisi però la stoltizia dell’ateista! Vuole che il bene sommo sia ben chimerico: onde, purché Dio non vi sia, non si cura di altro. Elegge che sia impossibile il sommo bene, piuttosto che l’eleggersi il sommo bene in un Dio possibile.

III.

IX. Su, sia così: non sia possibile Dio. Miriamo un poco quali inconvenienti ad un tratto ne seguiranno (Rigorosamente parlando , gl’incovenienti gravissimi qui registrati dall’autore avrebbero origine più che dalla negazione della possibilità di  ogni guisa; sian fisici, sian morali: i fisici mancando il primo principio; i morali, mancando l’ultimo fine.

X. E quanto ai fisici: se Dio non fosse possibile, non sarebbe possibile cosa alcuna. Perché, come non sarebbe possibile alcun calore, né alcun chiarore, se non fosse possibile il calor massimo, ed il chiaror massimo dalla cui maggiore o minor partecipazione avviene che si ritrovino cose calde, e cose chiare, in sì vari gradi; così non sarebbe possibile verun essere, se non fosse possibile l’esser massimo, che è l’essere da se stesso (S. Th. 1. p. q. 44. art. 1).

XI. Quanto ai morali poi: se Dio non fosse possibile, guardate che ne avverrebbe di detestando! L’amare Dio sopra di ogni altro bene, il temere del suo sdegno, il professargli soggezione, il porgergli suppliche, l’osservare i giuramenti fatti in suo nome, sarebbero tutte cose, non pure stolte, ma ree, come contrarie anche alla retta ragione. Onde non sarebbero virtù ma vizi dell’uomo. All’opposito, l’essere spergiuro, sacrilego, profanatore de’ templi, bestemmiatore, sarebbe secondo la diritta ragione, e si meriterebbe lode maggiore, che non meriterebbesi chi gettasse a terra un idolo dagli altari, e gli protestasse con quell’onta di farlo, perché egli è quivi una statua, non è un Dio vero. Sicché in ultimo le bestemmie, i sacrilegi, gli spergiuri sarebbero non più eccessi nell’uman genere, ma virtù sopraffine, da rendere meritevole di ogni encomio quel Dionisio tiranno di Siracusa, che pure rimase ai posteri tanto infame, per aver non solo sprezzata la religione, ma messala sempre in beffe (Valer. Maxim. 1. 1. c. 2).

XII. Di più, la somma saviezza si avrebbe a riputare somma stoltezza, se Dio non fosse possibile; e la somma stoltezza si avrebbe a riputare somma saviezza. Conciossiachè tutti i maestri delle cose divine si sarebbero allucinati nella prima di tutte le verità. Avrebbero atteso, per le tenute del nulla, ad istancarsi dietro la caccia perpetua di un’ombra vana. Avrebbero dati precetti meravigliosi, di credere, di confidare, di sottoporsi ad un mero sogno, cioè ad un essere, il quale altro esser non ha, che lo sproposito di una chimera, apparsa a deludere la fantasia di chi dorme. Onde tutta la scienza de’ maggiori maestri in divinità sarebbe una insensataggine manifesta; e per contrario il credere non più di quanto si vede, il reputarsi, come le bestie del bosco affatto mortale, il tener per fermo, che un mondo pieno di una simmetria incomparabile, si nelle sue parti speciali, sì nel suo tutto, sia nondimeno un’opera casuale, un edifizio senza architetto, un esercito senza generale, una barca senza governo, sarebbe, se Dio fosse impossibile, la sovrana di tutte le verità: onde, come io dicea, la somma stoltezza sarebbe un sommo sapere, ed il sommo sapere sarebbe una infinita stoltezza.

XIII. Finalmente, se Dio fosse impossibile, ne avverrebbe, che l’uomo fosse privo di ultimo fine. Onde il nostro intelletto anderebbe sempre, qual calamita, anelando ad un primo vero, come a suo polo, senza speranza di vederlo mai in faccia. E la nostra volontà andrebbe sempre, quasi nave, aspirando ad un sommo bene, come a suo porto, senza potere mai giungere ad approdarvi. La natura, che in tutte le cose appare sì amante della veracità, non avrebbe fatto altro, che nutrirci di inganno; e quella che mostrava d’amarci fino alle somme delizie (usque in delicias amamur), ci avrebbe al fine delusi più bruttamente, che non fè già quel sì famoso pittore, quando deludeva gli uccelli con le belle uve della sua tela dipinta.

XIV. Eccovi però che vuol dire essere ateista! Vuol dire avere per mira di mettere sossopra tutte le massime con cui si è governato perpetuamente, e tuttavia si governa il genere umano. E a voi par poco sì orrido inconveniente? Ma se questo e se altri simili senza fine ne seguono dal fingersi Dio impossibile, è impossibilissimo, che Egli non sia possibile. E se è possibile, è dunque ancora, come io vi dissi, di fatto; giacché in tutto quello che sia di necessità assoluta ed antecedente non si distingue dall’essere il poter essere.

XV. Che dite pertanto voi? Vi par bella gloria star dalla banda degli sconvolgitori dell’universo, piuttosto che arrolarsi tra quei che tanto bene lo riducono a legge con dargli Dio? Tornate pure a tormentar l’intelletto più che se il misero fosse schiavo in catene, perché vi dica, doversi Dio mandar esule nel paese degl’ircocervi, piuttosto che darlo all’uomo per suo primo principio da cui dipenda, e per suo ultimo fine. Noi dirà mai. E però questo, in ristretto, è il processo formato da noi sinora contra l’ateismo: Volere a forza ignorare quel bene sommo, che non si può non conoscere: Hæc summa delicti est: nolle eum agnoscere, quem ignorare non possis [Il sommo delitto è questo: non conoscere quel che non si può ignorare] (S. Cypr. de idol. vanit.).

LO SCUDO DELLA FEDE (106)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XVI.

La fabbrica del volto umano dimostra Dio.

I. Se nel regno della ragione, la mano, come abbiamo veduto, è il primo ministro dell’anima, converrà dire, che il volto sia quasi il trono, ove questa, assisa, renda visibile a tutti la sua maestà. Noi, a restringerci sempre più, non contempleremo del volto, se non che la sua semplice superficie, e per dir così, la facciata. E perché quelle cinque parti che da Vitruvio (L . 1. c. 2) vengono ricercate in ogni ben inteso edifizio si possono comodamente ridurre a due, all’utile e al vago, queste due sole contempleremo anche noi nella fabbrica augusta del volto umano.

I.

II. E per incominciare dal vago. Quella bellezza che, quantunque si glori di dominare i cuori, come padrona, pure più veramente li violenta, quasi tiranna, rendendosi talora schiavi gli stessi re, anzi obbligandoli ad amare insin le catene di cui gli stringe, quella bellezza, dico, dove ha mai la sua sede, fuorché nel volto? Il sommo che l’antichità potesse o stimare o scrivere della divina eloquenza del suo Platone, fu l’affermare, che non sarebbe riuscito levare dal suo dire una parolina, e sostituirne un’altra, senza guastarla. Ma chi è uso a contemplare le operazioni della natura, saprà ben tosto conoscere, quanto più si adatti un tal vanto al lavoro stupendo del corpo umano, e singolarissimamente della sua faccia, in cui qualunque variazione di sito, di materia, di mole, di atteggiamento, benché lievissimo, pervertirebbe ad un tratto la simmetria di quel tutto che vien composto per altro da poche parti, ma tanto ben congegnate insieme e commesse, che sol mirato nella sua superficie rapisce i cuori; e li rapisce a tal segno che non sia sola la Grecia a mettersi tutta in arme per un bel viso. In ogni banda v’ha pur troppo dell’Elene idolatrate, per cui se non si guerreggia e si sparge sangue da’ popoli di lei cupidi, si guerreggia e si sparge sangue da’ privati di lei rivali; e si riduce a gloria l’offrire per quelle in vittima le ricchezze, la riputazione, la vita. Che vale, che il volto donnesco sia fior del campo, oggi pomposo, domani squallido? Questa pompa medesima fuggitiva comparisce pur su quell’atto agli amatori di lei tanto riguardevole, che se ella fosse un amaranto immortale, non pare che potrebbe stimarsi più dalla fantasia de’ mortali, poco meno che estatici in contemplarla.

III. Tornando all’intendimento: chi non crederebbe, che per lavorare un bello di tanto pregio non convenisse formare tutte le facce ad un’aria, e stamparle tutte con un’impronta medesima, disegnata a tal fine? E pure considerate una moltitudine assisa in un anfiteatro a qualche spettacolo: la scorgerete ad un’ora, in qualsisia di quei volti, simile a sé, in qualsisia differente. Una varietà sì mirabile potrà però essere un gruppo di tante larve schiccherate in sogno dal caso? Sappiamo, che questa è l’eccellenza più rara di un dipintor valoroso: l’avere tal dovizia di belle idee nella mente, che gli escano dal pennello delineate tutte in sembianze diverse. E vorremo poi riconoscere per casuale abbattimento di sconsigliata fortuna tutto quel bello insieme e quel vario di cui ammiriamo una sì piccola parte, qual pregio spesso non conceduto ad artefici, ancora grandi, sicché quei medesimi, i quali si stupiscano tanto di Michel Agnolo, quasi di un miracolo d’arte, perché non trovano nelle sue fatture due volti di un’istessa invenzione, possano poi persuadersi, che i lineamenti sì vari, con cui si forma giornalmente l’innumerabile stuolo dei visi umani, sian opera di un mentecatto, che ciecamente ne abbia divisato il conio, e più ciecamente lo vada mettendo in opera?

IV. Aggiungasi a tutto ciò la necessità che v’era di sì fatta dissimiglianza, e così ancora fluiscasi di capire, che ella non fu casuale, ma fu voluta studiosissimamente dalla divina sapienza, amica in tutto di unire al vago anche l’utile, come si fa nelle fabbriche ben condotte.

V. Per un verso parrebbe, che la natura avesse a volere, che tutti coloro i quali sono interiormente uniformi nella sostanza, non fosser poi esteriormente difformi negli accidenti: di maniera che, come poco sono diversi all’aspetto leone da leone, lupo da lupo, e orso da orso (Vid. Less. de prov. n. 108), così poco un uomo fosse diverso dall’altro, e massimamente da quei, di cui tanta parte egli reca nelle sue vene, col sangue stesso, e con gli spiriti stessi, come fa de’ progenitori. Ma fate pure ragione, che così accada: qual luogo avrebbe più tra noi la giustizia, la pudicizia, la pace, la fedeltà, che è la base di tutto il commercio umano? Il reo si spaccerebbe per innocente, l’assassino per custode, l’adultero per consorte, il bugiardo per veritiere; e la vita umana, priva di corrispondenza scambievole, e piena all’incontro di sospetti, di ombre, di ostilità, si ridurrebbe per minor malo alle selve, e piangerebbe tutto lo stato civile seppellito in un caos di confusione impossibile a ordinarsi.

VI. A tutti questi sconcerti si oppose la natura, con dare a ciascuno un volto sì proprio che come nell’alfabeto ad una semplice vista si distinguon tutte le lettere senza abbaglio, così ad una semplice occhiata si discernano ancora tutte le facce, contrassegnate di modo con l’aria loro, che la propria dell’una non sia dell’altra: onde il trovare due volti simili affatto, riesca quel miracolo tanto rado nelle storie, e però finto sì spesso ancor su le scene, per modo di più piacevole scioglimento.

VII. All’incontro, perché una tale diversità di sembianti poco montava al vivere solitario che fanno i bruti, poco fu in loro parimente curata dalla natura, sempre magnifica nel beneficare i suoi parti, ma non profusa; sì che il distinguere in una greggia vestita di una medesima lana un agnelletto dall’altro, è opera fra’ pastori di avvedimento più che volgare.

VIII. Una provvidenza pertanto sì proporzionata al bisogno, sì universale, e sì stabile, in tutte le generazioni, in tutte le genti, come può riferirsi ad un fortuito accoppiamento di particelle unite alla cieca; mentre un accoppiamento, qual saria questo, sì vago, sì utile, e pur sì impremeditato, non potrebbe essere né si frequente ad intervenire, né sì fedele a persistere? Nihil est ordine perfectum, quod possit sine moderatore consistere, dice Lattanzio (L. 1. c. 10): e però, essendo quell’ordine, che veggiamo nella presente costituzione delle facce, così aggiustato, non si può non rifondere in qualche sovrumano regolatore, da cui provenga.

IX. Quindi noi possiamo discorrere in questa guisa. Se la semplice superficie del volto umano è da se sola uno specchio bastevolissimo a rappresentarci la divinità, così provvida in voler vario l’aspetto di qualunque uomo e così vigoroso nell’ottenerlo, senza veruna alterazione però, né di sito, né di simmetria, né di numero in quelle parti uniformi che lo compongono: chi ci saprà dunque dire, quale specchio per una mente ben purgata saranno quel mondo di meraviglie che si racchiude nell’interno edifizio del volto stesso, dove son poste le officine de’ sensi, costituiti tutti dalla natura nel capo quasi nella parte più nobile, e per dir così, nella reggia del corpo umano? Io mi sono in vero proposto la brevità: con tutto ciò accade a me, come a coloro, che passeggiando lungo le spiagge del mare, non san tenersi, in vederlo posato e placido, di non salire anch’essi in qualche barchetta a costeggiarne lievemente le rive che sì lo invitano. Troppo mi peserebbe non dare almen di passaggio uno sguardo all’ orecchia ed all’occhio, due sensi per altro i più benemeriti delle scienze.

II.

X. L’orecchia, altra è interiore, altra esteriore. L’esteriore non fu fabbricata dalla natura né d’osso, né di pura carne, ma di una cartilagine foderata, come tutte l’altre membra, di pelle. Non fu ella formata d’osso, perché sì dura poteva infrangersi, massimamente nel posarvisi su quando l’uomo giace. E poi qual incomodo non avrebbe ella arrecato al dormir di lui? Né fu parimente formata di pura carne, perché non avrebbe potuto ritener sempre la sua giusta figura, quale si ricercava, e per la bellezza del volto, e per la bontà dell’udito, dove ogni alterazione è di grave sconcio (Honor. Fabr. de hom. 1. 2. prop. 57. Andr. Lauren. hist. anatom. 1. 11).

XI. In mezzo ell’ha un piccolo foro, il cui uso men nobile è il ripurgare il cerebro dalla bile. E pure questo medesimo fu grand’arte, perché quell’umore amaro ed appiccaticcio che colà piove, vaglia a trattenere ogni piccolo animaletto, che per quel foro s’insinui dentro l’orecchia, o vaglia a scacciarlo.

XII. Tortuosa, oltre a questo, è la via di entrarvi: e ciò perché l’aria, commossa da qualche suono troppo impetuoso, non offenda l’orecchia interna, percotendola tutta di primo colpo. E si termina detta via a quel che chiamano timpano dell’udito, che è una membrana gentilissima ed asciuttissima, soda e tesa a un circolo d’osso, come appunto la pelle sta sul tamburo. E gentilissima, affinché sia sensibile ad ogni piccola vibrazione di aria che porti suono. E asciuttissima, affinché sia sonora: altrimenti come sarebbe sonora, essendo umidiccia? Ed è soda e tesa, affinché si risenta a qualunque tremore, ma non s’infranga.

XIII. Nella superficie esteriore di questo timpano v’è un nervettino tirato come una corda e nell’interiore tre ossetti, chiamati stapede, incudine, e maglio, dalla figura che hanno e insieme dall’uso: il quale è, che il timpano mosso da quel tremore che in propagarsi nell’aria produce il suono, comunichi un tal tremore a quegli ossicelli, e per essi lo renda sensibile ai nervi quivi attaccati, e per i nervi al cerebro.

XIV. Quindi è, che di tali ossicelli fu con mistero il numero parimente e la qualità. La qualità, perché se non fossero stati ossi, ma nervi; o lenti, non avrebbono riportato il suono a ragione; o tesi, l’avrebbono con le loro ondazioni raddoppiato a un tratto e confuso. Il numero, perché se non erano più ossi, ma uno, questo per la sua lunghezza e sottilità si saria di leggieri potuto rompere. Che però fra mille osservazioni stupende che di vantaggio potrebbero da noi farsi in si bella fabbrica, basti questa, ed è, che essendo nei bambinelli di latte, poc’anzi nati, tutte le ossa tenere e tutte le membrane tenere e molli; quella membrana, e quegli ossetti che servono all’udito, son per contrario non meno duri ed asciutti che negli adulti, altrimenti tutti nascerebbero sordi. E non basta quest’arte sola a farvi conoscere il magistero divino della natura, che a tutto pensa con tanta minutezza, e a tutto provvede? Saremmo bene insensati se fossimo ancora noi di quei miserabili che studiando già tanto di opere naturali, sì poco ne conobbero l’architetto: Operibus attendentes,non cognoverunt quis esset artifex. (Sap. XIII).

III.

XV. Passiamo ora all’occhio, sole, per dir così, di quel cielo che spandesi in su la fronte: ma sole doppio, perché quand’uno per disgrazia si ecclissi, supplisca l’altro (Hon. Fabr. 1.2. de hom. prop. 39. Andr. Lauren. hist. anatom. 1. n. 11). Se il sole fu già chiamato visibile figliuolo del Dio invisibile, noi più aggiustatamente chiamerem l’occhio visibile ritratto dell’animo non visibile: dacché tra i sensi niun’altro più da vicino ci rappresenta la mente, di quel che faccia la vista, per l’oggetto che ella ha, fra tutte le qualità corporee nobilissimo, qual è la luce; per la moltitudine delle verità che ci scopre, poco meno che innumerabili; e per la certezza con la quale ce ne assicura: onde poté da Galeno chiamarsi l’occhio una particella divina, e credersi che in grazia di lui fosse dalla natura formato il cerebro.

XVI. Ora, come ammirabile è l’occhio nella sua operazione, così non è meno ancora nell’opificio. Sono due, come anzi accennai, ma sì che pendano da un istesso principio: ond’è che gli oggetti, benché mirati a due occhi, non appariscono due, ma appariscono unici, quali sono. La figura loro è rotonda, figura che aggiunge sempre una maggiore capacità, maggiore agilità, maggior robustezza. (Àristot. probìem. sect. 31. n. 11). Sono collocati in luogo sublime e concavo, perché doveano rimaner muniti per ogni lato, con la durezza degli ossi che li circondano, e con la propria lor guardia delle palpebre; ciò che mirabile mente tornava ancora in acconcio a conservare e a corroborar quegli spiriti con cui si forma la vista.

XVII. Che direm poi della simpatia stupendissima, per cui ambo si muovono sempre insieme, ed or s’abbassano a terra, or s’alzano al cielo, ora si volgono da qualunque banda lor piace, ma sempre uniformemente? Senza questa uniformità, la qual proviene dall’esser ambo gli occhi ligati, come già si diceva, a un principio stesso, il vedere sarebbe un perpetuo travedere; gli occhi sarebbero testimoni sempre discordi; gli oggetti apparirebbero  quando moltiplicati, e quando manchevoli; e più beato sarebbe l’avere un occhio solo, quale i poeti lo finsero ne’ Ciclopi, che averne due. La loro sostanza non ha in sé punto di carne (che è la ragione, per cui, benché sempre esposti al rigor dell’aria, non sentano freddo alcuno), ma è d’un’acqua pingue, qual conveniva che fosse affin di ricevere le immagini tramandate in lei dagli oggetti. (Aristot. problém. sect. 31. n. 7 et n. 23).

XVIII. E, se vogliamo calar più al particolare, questa sostanza medesima è composta di tre umori, dell’acqueo, del vitreo, e del cristallino, che è il centro dell’occhio ed è più stimabile di qualunque diamante. A questo servono gli altri due umori, o per difenderlo come fa l’acqueo, o per nutrirlo come fa il vitreo, che di più gli forma l’incastro, come l’anello d’oro lo formerebbe ad una splendida perla.

XIX. Ma perché un aggregato di particelle sì molli non poteva mantener lungamente la sua figura senza contrarre qualche piccola ruga che impedirebbe totalmente la vista; ecco la provvidenza della natura accorse a vestire ciascun umore con le sue pellicelle delicatissime, divisate con sì bell’arte, che le trasparenti, come la cornea, cingano l’occhio per ogni parte; e le opache, o gli dipingano il fondo nero, come fa la retina; o si aprali dinanzi all’umor cristallino in una piccola finestrella, come fa l’uvea; la quale, ora più di la luce, ed ora minore, come richiedesi a veder bene ogni oggetto. Finalmente queste sfere lavorate con un magistero sì fino, son date a volgere a sei coppie di muscoli, dei quali quattro son retti, due sono obliqui, affine di muovere gli occhi velocissimamente a qualunque lato, e far che si meritino di agguagliar le sfere celesti nella celerità quegli orbicelli terreni, che, come vivi, le avanzano senza pari nella bellezza. E quando mai, ad un improvviso rivolgersi, quelle sfere ci fan vedere tanta varietà di accidenti nel mondo grande, quanta nel piccolo ce ne fanno gli occhi vedere ad un sol variamento di guardatura, con cui ci dimostrano l’uomo da allegro mesto, da adirato placato, da ardito pavido, da superbo umiliato, da distratto attento, da dispettoso amorevole? Sono tante quelle mutazioni di scena che un mero guardo sa fare nel volto umano ad ogni momento, che niuno le può sapere, se non sa quanti sieno ancora gli affetti che posson ivi comparire a tenervi contrarie parti, quando meno sono aspettati.

XX. Questo è l’occhio, o per dir meglio, questo è un abbozzo di quell’inarrivabile maestria, che dà tanto da studiare alla notomia per un verso, ed alla prospettiva per l’altro, nel contemplare che fanno l’istituzione e l’ingegno di sì grand’opera. Ma frattanto chi può rammemorarsi di questo poco, senza esclamare ad un tempo: o Dio incomprensibile! Un velo certamente è la natura, che vi ricuopre; ma un velo trasparentissimo, che lascia uscire da ogni banda di voi mille e mille raggi a ferirci la mente indocile: che però siete incomprensibile sì, ma non incognoscibile a noi mortali, qual vi può calunniare chi a voi non pensi. Non meritano di avere in capo quegli occhi che da voi riceverono gli ateisti, se in qualunque uomo non riconoscono ad un tratto la provvidenza, solo che lo mirino in viso. Or che avverrebbe, se potessero i miseri penetrar quell’abisso di meraviglie, che internamente compongono il nostro corpo, e lo rendono albergo degno di un padrone sì eccelso, qual è l’anima ragionevole: e molto più quell’abisso di meraviglie che contiene in se l’istessa anima ragionevole, con le sue potenze, co’ suoi abiti, co’ suoi atti, con le sue specie, o fantastiche, o intellettive, che sempre acquista? Converrebbe allora, che lo stupore trapassasse in orrore giacche di manco non era pago Agostino, neppure nella contemplazione di un piccol seme, quando considerandone l’ampiezza della virtù, nella tenuità della mole, esclamò sbalordito, che inorridivasi: Horror est consideranti (Tract. 8. in Io.).

XXI. Non accade più dunque che l’empietà si affatichi con forza grande a scancellare dalla sua mente la cognizione di Dio. Fatica invano. L’artefice onnipotente ha stampato sì profondamente il suo Nome, non come Fidia già nello scudo della sua famosa Minerva, ma in qualsivoglia parte di noi medesimi, che se l’uomo non si distrugge di mano propria, non può arrivare a radere da sé la memoria del suo Fattore. Piuttosto dunque, abbandonata un’impresa che è sì disutile e si dannosa, si rivolga egli con miglior consiglio verso chi gli die quanto gode, e per rendergli omaggio si studi con più facilità e con più frutto d’imprimere le divine fattezze ne’ suoi costumi. Gli alberi anche fitti in terra altamente, seguono con la maggior parte de’ loro rami il sole da quella banda dove ne provano i raggi più vigorosi. E noi, insensati più d’una pianta, priva, se non di vita, almeno di senso, non verremo una volta a riconoscer quell’Essere primitivo che ci fu Padre, mentre frattanto anche a forza pendiamo verso di lui con quel peso di tutti noi, che per istinto innato ed incontrastabile a lui ci spinge?

LO SCUDO DELLA FEDE (105)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XV.

L’uomo rimirando sé, viene, se vuole, in cognizione di Dio.

I . Due chiare testificazioni ha volute Dio della sua grandezza nell’universo. L’una dalla magnificenza dell’abitazione, che è il mondo. L’altra dalla bellezza dell’abitatore, che è l’uomo: Habet Deus testimonium, totum id quod sumus, et in quo sumus. Così parlò Tertulliano (In Marc. I. 1. c. 1 0): al cui verace sentimento arrendendoci, dopo aver noi già guardo ai bruti, in cui risiede, infallibile rispetto a Dio, da cui proviene come da sua cagion creativa. Negate Dio, o l’istinto rimane inesplicabile ricercata l’attestazione che della divinità ci vien fatta dal mondo grande, non possiam ricusare quella che ci vuol fare anche il mondo piccolo, qual è l’uomo. Senonchè, al guardare un composto così ammirabile, conviene che io qui subito mi ripigli. Mondo piccolo l’uomo nel mondo grande? Tutto al contrario. Anzi egli è il mondo grande nel mondo piccolo; mentre quanto il resto delle creature supera l’uomo nella vastità della mole, tanto l’uomo supera il resto delle creature nel valore della sustanza (Una sola creatura umana vale assai più che tutta l’immensurabil materia dell’universo, perché il pensiero di cui l’uomo va insignito, abbraccia e penetra tutta quanta la materia, mentre la materia non può penetrare, non che il diverso da sé, nemmeno se medesima): ed è però nell’universo, come la gemma nell’anello, cioè il pregio di tutta l’opera, e il fine a cui s i ordinò così bel lavoro.

I.

II. Ed oh così potessi io qui spiegare tutte le vele, ed ingolfarmi sino all’alto in un pelago, qual è questo, di maraviglie! Potessi favellare dell’anima ragionevole, immagine così espressa della divinità: e, se non tanto, potessi almeno discorrere delle sue potenze sensitive, interne ed esterne, e delle operazioni donate a ciascuna d’esse! potessi anche solo riferir meramente il numero, il posto, la proporzione, gli uffizi di quelle parti, le quali costituiscono il corpo umano? potessi tutte ad uno ad uno descrivere le tante ossa con cui si regge, i nervi, i muscoli, le membrane, le vene, le cartilagini, i canaletti, le viscere, le vesciche, gli umori, le giunture, i seni, gli spiriti, e tanto che v’è di più, non ancor terminato di enumerare dopo diligentissime notomie! Si scorgerebbe, che se mondo può dirsi l’uomo, può dirsi anche, in capo a tanti secoli, il mondo nuovo; mentre tuttora egli ha la sua terra incognita da scoprirsi. Ma solcar tanto mare non ci è permesso da più altri viaggi ben faticosi che ci rimangono a fare entro a pochi fogli. Dirò dunque in succinto, che la fabbrica sola del nostro corpo è sì prodigiosa, che Galeno (de usu part. I. 17. c. 3), dopo averla alquanto osservata in diciassette libri, soggiunse di aver con ciò formato un inno perpetuo di lode a Dio, il quale seppe disegnare, poté eseguire, e volle tanto pienamente diffondere la sua bontà sopra sì bel lavoro, composto di molte migliaia di pezzi, e pur congegnato con tale concatenazione, che par composto di un solo; ciascun dei quali contenendo in sé più miracoli, fa che l’uomo a torto stupisca della natura di altra opera, più che di quella, la quale egli rimira nel mirar sé: tanto in ciascuna parte di sé medesimo egli è un prodigio maggiore di qualunque altro. Et mìratur alia homo., cura sit ipse mirator magnum miraculum. (S. Aug. hom.32. ex 50). Certo almen è, che io niuno anatomista ho mai letto, niuno ne ho udito, che favellando dell’arte sua, non prorompa in esclamazioni, nate dalla evidenza con cui tal arte fa scorgere che v’è Dio. Udiamone fra tanti uno celebre per la fama, che fu medico illustre di Enrico quarto : Ingredere tu quisquis es, etiam athæe, così dice egli: Ingredere, quæso, sacram Palladis arcem, etc. An non etiam invitus exclamabis: O architectum admirabilem! o opificem inimitabilem! (Andr. Lauren. Hen. IV. Consil. et Medie. Hist. anat. I . 1. c. 6. Franc. Redi). E questo è il sentimento comune di tutti i professori di tale scienza, uno de’ quali ha detto a me, non trovarne per sé  medesimo verun’altra, la quale più di questa lo innalzi a Dio. Almeno parmi di potere tener per indubitato, non essere finora avvenuto mai, che un uomo insigne nella professione anatomica, sia ateista; convenendo per forza, che egli alla luce delle sue cognizioni sperimentali scorga evidentemente e veneri un nume provvido, perspicace, attentissimo, di cui mira stampate troppo sensibilmente le maestrie su qualunque minimo ordigno del corpo umano (Sono veramente splendide, e degne di essere lette segnatamente da’ giovani studiosi le pagine, nelle quali Cicerone dimostra l’esistenza di una mente divina dalla mirabile struttura del corpo umano, nel suo De natura deorum, lib. 2° cap. 54 e seg.).

III. Pertanto, giacche tal corpo né si può qui trascorrere tutto intero, né tutto intero è dovere che si tralasci, ci restringeremo a quel solo che di lui sempre abbiamo dinanzi agli occhi, non mai velato, che son le mani ed il volto: la cui considerazione, quantunque superficiale, e’ immerge in Dio, senza, per dir così, che ce ne avvediamo.

IV. Or quanto alle mani, due fini ebbe la natura in donarle all’uomo, uno prossimo, uno remoto. Il prossimo fu, perché egli potesse pigliare gli altri oggetti corporei a proprio talento, e adoperarli. Il remoto fu, perché  egli nelle mani avesse un istrumento di tutte le arti. Cominciam dal fine remoto, a cui come a superiore, dovea conformarsi il prossimo.

II.

V. Stimò Anassagora, che l’uomo, in grazia delle mani da lui godute, fosse dotato dalla natura di senno (Arist. de part. anim. I. 4. c. 20. Galen. de usu part. I . 1. c. 1). Nel che egli errò certamente: mentre non perché vi era la cetera fu fatto il suonatore, ma perché  v’era il suonatore fu fabbricata la cetera. Non fu però data la mente all’uomo, perché egli possedeva le mani: ma bensì furono date all’uomo le mani, perchè egli possedeva la mente. Tuttavia questo errore include un gran panegirico delle mani, mentre denota, essere sì stupendo il loro lavorio, che non un uomo del volgo, ma delle scuole, arrivò a potersi persuadere, benché falsamente, che in riguardo delle mani noi fossimo ragionevoli (La mano e la ragione nell’uomo hanno fra di loro una così intima e naturale attinenza, che basterebbe essa sola la struttura della mano a provare la superiorità specifica dell’uomo sul bruto, non che l’esistenza di un supremo infinito Artefice).

VI. Ora lasciando andar ciò, certo è, che come la ragione, al parer del filosofo, è virtualmente ogni cosa per conoscere, così la mano è virtualmente ogni cosa per operare (Arist. 1. c. Galen. de usu part. I. 1. c. 4). Ond’è che la natura, troppo fuor di ragione fu calunniata da chi si dolse, che, producendo ella tutti gli altri animali sì ben guerniti, l’uomo solo produca ignudo ed inerme. Che importa ciò, mentre all’uomo diede le mani, negate agli altri animali, di lui men degni? Quindi è, che gli altri non possono mai mutar abito, mutar armi, mutar nulla di ciò di cui li fornì là natura insieme col nascere; ma debbono così stare, così andare, così adagiarsi, così pigliare i lor sonni: laddove l’uomo può eleggersi a piacer suo e l’abito che vuole, e l’armi che vuole, e le può deporre: tutto in virtù delle mani.

VII. Chi può però dire di quanti beni le mani anche lo provvedano? Queste di alimento, queste di abitazione, queste di rendite, queste di agi, queste di amenità, e queste di infinite ricreazioni da lui godute, or nelle pesche, or nelle caccie, or ne’ conviti, or nei giuochi, or nelle sinfonie, or nelle scene, che se non fosser le mani, sarebbono tutte opere ignote al mondo.

VIII. Quinci in due stati può l’uomo considerarsi: in pace ed in guerra. In pace, che sarebbero tutte le arti proprie di un cuor tranquillo, senza la mano? Anzi neppur vi sarebbero. Non vi sarebbero le meccaniche, quali sono il tessere, il filare, il fabbricare, il cucire, ed altre infinite, che dalla mano hanno tutta la loro forma, benché sì varia. Non vi sarebbero le scientifiche, quali sono l’astronomia, l’architettura, la musica, l’anatomia, l’aritmetica, la geometria, la geografia, che dalla mano hanno tutti i loro istrumenti ammirabilissimi, e tutte anche le operazioni. E meno vi sarebbero ancora le imitatrici, quali sono il delineare, il dipingere, il fondere, l’intagliare, l’incidere, lo scolpire; arti di tutto sì debitrici alla mano. E per qual cagione una pittura, una scultura, una statua, si dicon essere di mano di Raffaello, del Bernini, del Buonarotti, o si negano essere di lor mano? se non perché quanto in tali opere è di stimabile al guardo, si attribuisce più quasi dissi alla mano dei loro valenti artefici, che alla mente.

IX. In guerra poi la mano fa che non solo l’uomo difendasi bravamente, ma ancor che offenda più di qualunque animale. Non ebbe pertanto egli bisogno di corna, come hanno i tori, perciocché di quelle ossa aguzze può molto più una spada di acciaio ch’egli abbia in pugno, un’asta, un arco, e più anche uno schioppo carico. Onde è, che i tori con la loro indomita fronte possono solo offendere da vicino, ma l’uomo con la mano quanto oltre arriva a sfogar lo sdegno! Che però neppure egli ha cagion d’invidiare i denti al cignale, il rostro allo sparviere, le branche allo scorpione, gli artigli all’aquila, le zanne orrende al leone. Che se dal leone è l’uomo superato in velocità, ecco che con la mano arriva l’uomo a soggettarsi il cavallo, sul quale assiso vince il leone nel corso. (Galen. de usu part. I. 1. c. 1). Quindi, lavorando mille armi negli arsenali, assolda egli, per dir così, fino i fulmini nelle bombe: ed arrivando sino a domar gli elementi con la sua mano, ora comanda all’oceano che gli sostenga, benché superbo, sul dosso possenti armate; ed ora imprigiona il fuoco dentro le mine, fino a costringerlo, se si vuole rimettere in libertà, dì servirgli in tal atto di guastatore, mandando all’aria, ove muraglie, ove massi d’immensa mole.

X. Tutte queste arti, o pacifiche, o bellicose (con tante ancora di più che potrebbero annoverarsi) che sarebbero all’uomo senza la mano? Sarebbero come un’aquila senza penne, inabile ad alzarsi un palmo da terra, non che a volare. Laddove col favor della mano a che non si son esse avanzate di perfezione? I soldati di Pirro, per dargli un vanto degno di quella velocità con la quale egli al tempo stesso arrivava, assaltava, abbatteva ogni suo nimico lo chiamarono un giorno col nome di aquila. Il che egli udendo: Sì, disse, soldati miei: mi contento dell’onor che mi fate con dirmi un’aquila, purché sappiate, che voi siete quell’ali su cui m’innalzo. Diansi pur dunque alla mente umana tutte quelle lodi più alte ch’ella si merita, purché confessisi, che le mani son l’ale per cui fa ella, che l’uomo sollevisi sopra gli altri animali, e signoreggi.

III.

XI. Quindi è che restaci a considerare ora il meglio, che è l’artifizio con cui le mani furono architettate dalla natura, affinché servissero all’uomo di esecutrici sì belle ne’ suoi disegni. E giacché questo altro non è che provare il secondo punto (cioè, quanto bene furono le mani adattate al lor fine prossimo, di pigliare, di stringere, di sforzare, di straportare altrove ciò che volessero) ecco che ad esse fu data in prima una figura bislunga, la quale vada a terminare in più parti, e sottili e fesse e flessibili a meraviglia: altrimenti non avrebber le mani potuto afferrare qualunque ragion di corpi, circolari, o concavi, o retti (che son le forme cui si riducono tutti), e molto meno avrebbero potuto afferrare i maggiori, o i minori di sé medesime, e malamente gli eguali. E perché molti ancora di tali corpi sono di mole o disadatta, o pesante, non solamente le mani, in riguardo di essi, furono due, ma furono tanto pari, tanto pieghevoli, e tanto bene inchinate ancor l’una all’altra, che si potessero aiutare insieme con somma facilità, come due sorelle carnali.

XII. Oltre a ciò, la division delle parti, cioè delle dita in cui la mano finisce, doveva essere con tal arte, che quando queste si congiungano insieme, la mano ci serva, come se ella fosse tutta d’un pezzo: e quando si disgiungano, ella ci serva, come se fosse di più. Per lo qual fine si richiese altresì che le dita fossero più di numero, ma non eguali di altezza, per potere al pari comprendere il poco e ‘1 molto: il poco, quale sarebbe un ago al sartore, con l’estremità dello prime due; il molto, quale sarebbe un’alabarda al soldato, con tutte insieme.

XIII. Né dovevano essere tutte disposte tali dita ad un modo: altrimenti se non vi fosse da lato il pollice, qual sarebbe la forza delle altre quattro? A premer bene una cosa, conviene premerla e di sopra e di sotto. Di sopra la premono l’altre dita, di sotto al tempo stesso la preme il pollice, dito però più corto sì, ma più grosso: più corto, perché agli altri non sia d’impaccio; più grosso, perché dovendo da sé solo valere al pari di tutti gli altri, sia più robusto. Quindi è, che come la mano non val più nulla, se perdute le altre quattro dita rimanga col solo pollice; così val poco, se perduto il pollice resti con l’altre quattro. Che però agli Egineti sì prodi in mare, fecero gli ateniesi tagliare il pollice, perché restassero atti a maneggiare il remo a loro piacere, ma non già l’asta. (Aelian. De Var. hist. 1, 2. c. 3).

XIV. E da che i corpi sferici, ad esser ben tenuti, non richiedono manco di cinque dita, cinque le dita sono, ma non son più, perché il sesto, siccome non necessario, sarebbe più d’incomodo a qualunque opera che di aiuto.

XV. Parimente dovevano le dita essere così tenere, così tonde, e così rinforzate in su l’estremo con l’unghie, quali in noi sono. Se non fossero tenere, non sarebbero istrumenti opportuni al tatto, tanto più valido, quanto più risentito: se non fossero tonde, non sarebbero tanto forti a tenere ciò che afferrano: e se non fossero rinforzate dall’ unghie, riuscirebbero inabili a ben tastare, specialmente le cose piccole, e a grattare, a graffiare, a scarnare ciò che sia d’uopo.

XVI. Di vantaggio non bastava alle dita poter piegarsi, affine di afferrare opportunamente ciò che volevano; ma dovevano ancora piegarsi tanto, che si adattassero a qualunque figura; e dall’altra banda non potevano senz’ossa fare gran forza; pertanto ecco che la natura, lavorandole a tal effetto d’ossa e di carne, ha divise ad un’ora l’ossa in più articoli, acciocché la man si potesse e spiegare in un attimo, e ripiegare senza fatica.

XVII. Tre sono gli articoli delle dita minori, perché se fossero più, non si distenderebbero tanto bene; e se meno, non abbraccerebbero ogni figura, ancora rotonda. E due sono gli articoli nel maggiore, cioè nel pollice, perché abbia maggior possanza a resistere quando preme. Ciascuno pòi di questi articoli è legato mollemente non meno che fortemente nella sua giuntura, affinché per qualunque sforzo non si sconvolga: essendo frattanto ciascuna giuntura ripiena di un umor pingue, che facilita il moto per ogni verso; come costumasi di tenere unte le ruote, perché in andare, più speditamente rivolgansi intorno l’asse.

XVIII. E dacché l’ossa non potevano muoversi da sé sole, la natura vi aggiunse i muscoli, provveduti né di tanta carne, dalla parte superior delle dita, che la mano riuscisse troppo pesante; ne di sì poca dalla parte inferiore, che, come emunta, riuscisse poco abile al palpeggiare.

XIX. Ai muscoli è convenuto poi di aggiungere i nervi, le vene, le arterie, le fibre, ed altri legami finissimi, intorno ai quali tante cose osserva Galeno, e tanto vi ammira la sapienza del loro compositore, che pare aver lui cambiate le parti di fisico in quelle di teologo, giungendo a riconoscere nella figura, nella fortezza, e nell’accrescimento dell’unghie stesse una provvidenza bastevole a svergognare qualunque incredulo.

IV.

XX. Ma frattanto interviene a me come ad un pescatore di perle, che mirando sott’acqua uno stuolo di margherite, che vanno a nuoto non sa quale si prendere avidamente, e quale lasciare: né tanto è allegro per la preda che stringe, quanto è afflitto per quella che scappagli dalla mano, angusta al bisogno. Altro libro che questo si converrebbe per discorrere degnamente di tali cose, senza pentirsi di averne impreso a trattare. Stando nondimeno in quel poco che ne ho accennato, vi sarà chi si possa persuadere, che mani lavorate con sì grande attitudine al loro fine, siano senz’arte? Anzi, come saranno giammai senz’arte, se esse son le immediate lavoratrici di quanto tutte le arti hanno in sé di utilità e di vaghezza, che pure è tanto? Quando fosse l’uomo però divenuto muto in predicar le glorie del Creatore, io son certo, che benché privo di lingua me lo darebbe chiaramente a conoscere, come sa fare ogni mutolo, con le mani.

XXI. E voi, che con tale occasione avete ormai scorto, che benefizio sia quello che il Creatore vi conferì con rendervi, in virtù di esse, spedito e sciolto a qualunque opera vostra, vi siete mai ricordato di ringraziarlo di sì gran dono? Figuratevi un poco, che sia di un uomo che nasce monco, o che monco in brieve diviene. Non è spettacolo fino agli stessi nemici di pietà somma? Come volete però, che un benefizio sì nobile, qual è questo, si debba al caso? Il caso (se vogliamo parlar così) il caso può levare ad uno le mani, con fare a cagion d’esempio, che quando egli scarica un archibuso, o un’artiglieria, se le stroppi miseramente; ma non può dargliele. Questo non è mai seguito a memoria d’uomo. Come dunque ritroverassi chi, invece d’impiegar le sue mani in tessere ogni dì novelli serti di gloria a chi gliele diede, le impieghi ingrato a strapparglieli dalla fronte?

LO SCUDO DELLA FEDE (104)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XIV.

Testimonianza che rendono i bruti a Dio colla loro stupenda propagazione.

I . Chi già negò negli animali ogni moto, non mentì sì bruttamente ai sensi, come bruttamente mentisce alla ragione chi neghi in detti animali il primo Motore immobile, qual è Dio. Voi avete già diveduto, quanto Egli vi operi negli strumenti e negli istinti che loro porge a conservazion de’ propri individui. Rimane ora a dire quello che vi operi a conservazion delle spezie. Conciossiachè, se un artefice sommo ha da compartire le cure sue con saviezza, non può dubitarsi, che dopo aver lui rimirato sì attentamente al ben di ciascuno, non rimiri più al ben di tutti.

I.

II. Primieramente non è meraviglia grande, che in sessanta secoli da che i bruti apparvero al mondo, non si sia di loro perduta pure una razza, massimamente se noi consideriamo, che alcune di queste sono perseguitate con tante insidie dagli uomini in aria e in acqua, ed altre con tanta forza nelle boscaglie? Come potea mantenersi in piedi sì lungamente quest’alta guerra che gli animali del continuo ricevono da chi può tanto più di loro, se quel gran fabbro, che dapprincipio lavorò ciascuna natura, non si fosse pigliato insieme l’assunto di conservarla, concedendo una virtù prodigiosa di propagarsi a quelle spezie più particolarmente , che più correvan pericolo di perire? Le lepri, chei forse le più innocenti fra tante bestie, hanno per loro mala ventura l’essere nondimeno le più ricercate a morte, son sì feconde, che generano in ogni mese felicemente; e congiungendo con unione mirabile frutti e fiori, stan preparando nell’utero nuovi parti, mentre allattano i parti usciti alla luce: tanto che non più che una piccola lepre gravida, la quale fu casualmente introdotta in una isoletta del mare icario, tra pochi anni vi dilatò in tanti rami la sua prosapia, che divorate tutte le biade, ridusse gli abitanti di quel paese a penuria somma. Andiamo a parte a parte considerando questa special provvidenza della natura, sì avanti che i bruti nascano, sì di poi.

II.

III. Fra tutti quegli, in cui non solo a generare la prole, ma ad educarla, fa di mestieri che si accordino insieme il maschio e la femmina, passa quasi una specie di matrimonio. Così avvien tra gli uccelli, i quali, essendo tutti privi di latte, hanno a sostentare le covate loro, per altro numerosissime, di rapina o di ruberia; e però ripartitasi la fatica, mentre uno restasi a custodirle nel nido ed a fomentarle, l’altro va alla busca di cibo. E quello che è più mirabile, mantengono con tanto di lealtà quella fede datasi, che non si scorge, che la rompano mai; rinfacciando in tal modo all’uomo i suoi gran disordini, sconosciuti ancora fra i bruti. Negli animali provveduti di latte, come sono tutti li quadrupedi, l’accoppiamento è vario e vagante, perché basta la femmina ad allevare la prole nata. Vero è, che in questi medesimi appaiono le passioni più regolate che tra noi stessi: non si accendendo nei più di loro la brama di propagarsi, se non in un tempo determinato dell’anno, oltre a cui tutti i maschi sogliono e sanno conversare poi tra le femmine con modestia. Chi girerà gli occhi sopra gli eccessi che la sfrenatezza degli uomini in questo genere fa vedere di tutte l’ore, e gli porrà al paragone dell’ordine inviolato con cui gli animali tengono in briglia la maggior parte dell’anno quella concupiscenza medesima che tra noi, rotto ogni freno, trascorre tanto; come non saprà ravvisare anche i n questo la bella scorta che a’ bruti fa la natura, sempre a sé somigliante nell’amar legge?

IV. Dopo la concezion della prole facea d’uopo pensare al suo nascimento. E perché  gli uccelli, come abitatori dell’aria, non doveano gravarsi di troppo peso, convenne, che per la loro gravidanza si fabbricassero un nido, ove riposasser con agio, ove depositassero l’uova, ove le scaldassero, ove le schiudessero, ed ove poscia allevassero ciò che nacque. In questa fabbrica sono meravigliose la struttura e la simmetria corrispondenti alla varietà del disegno. Scelgono il sito che pare loro più sicuro, o nelle siepi più intralciate, o negli scogli più inospiti, e non contenti della sicurezza natia che provien dal posto, si fortificano di vantaggio. Però, come la volpe difende il suo covile da’ lupi con l’erba squilla, da’ lupi abborrita in estremo; così la rondinella il difende da certi vermini con le foglie dell’apio, e così le cicogne il difendono da’ serpenti con la pietra detta lienite. Stupendo è poscia l’istesso nido a mirarsi nella sua fabbrica. La parte esteriore e quivi sempre più rozza, per darle forza, ed è fornita o di spine, o di sarmenti o di fango; e la parte interiore è più molle, o di fieno, o di muschio, o di lanugini, o di lane, o di piume, sì per fomento, e sì per quiete più agiata de’ figlioletti; ciò che dispongono i padri con tanta regola, e intessono con tant’arte che ben dimostrano di essere in tutto guidati da mano occulta, la quale non soggiace ad abbaglio. I nidi dell’alcione sono bastevoli a fare trasecolare di meraviglia; tanto egli, ponendoli giusta al mare, sa poi formarli impenetrabili all’onde.

III.

V. Nati che sieno i parti, chi può spiegare l’amore con cui gli allevano, e l’attenzione con cui gli ammaestrano, secondo i loro vari stati? Lo scimmie, domestiche per le case, sono tanto impazzate de’ lor figliuoli, che vanno incontro a chi entra, e glieli porgono a divedere, come la più bella cosa del mondo. La donnola, per gelosia che non le sieno rubati li trasporta più volte il giorno, or di qua or di là, tanto che sembra ch’ella abbiali sempre in bocca. Il Castore è della prole sì tenero, che essendo una volta chiuso lontan da essa, per ricercarla, rose co’ denti l’uscio del suo serraglio, e fattasi larga strada, si gettò da un luogo altissimo in precipizio dietro di lei. Né un tale affetto è proprio solamente di qualche specie: è comune a tutte; anzi le più fiere ne sono più dominate; sgorgandone quivi una vena più copiosa, dove sembra più duro il sasso. Il leone mai non combatte più intrepido, che quando abbia a difendere i suoi leoncelli. Allora sì che egli non fa caso nè di lance, ne di strali, nè di saette, nè delle ferite medesime che in sé miri, lasciando prima la vita, che la tutela di que’ teneri parti. La balena, ad ogni improvviso pericolo, li nasconde dentro di sé tenendoli nelle fauci, come nell’intimo di una rocca ben fortificata da orribile dentatura; e passato il rischio, li torna lieta a rivomitare nell’acque, quasi partorendoli nuovamente alla vita. La tigre, tanto efferata, che ha dato in presto il suo nome alla crudeltà, è nondimeno sì smaniante ancor ella de’ suoi tigretti, che una volta fu veduta in Bengala correre su le spiaggie ben trenta miglia dietro una nave, che costeggiando a vele piene per l’alto, glieli portava via senza remissione su gli occhi di lei medesima.

VI. Questo amore poi è ne’ bruti la ruota maestra di tanta macchina. Conciossiachè questo li fa arditi, benché non sieno. Il rosignuolo, per difendere il nido, non teme di azzuffarsi in fin colla vipera; e così imbelle com’egli è, col rostro, con l’ale, confida di lacerarla, se tanto gli riesca, o di porla in fuga. Questo li fa ingegnosi. I ladroni nell’indie, andando alla ruba, si vagliono più volentieri di quei cammelli cha tuttavia danno il latte. Imperocché questi, condotti ancora di notte in lontan paese, e mal segnato di vie, non solamente sanno poi rinvenire la strada da ritornare alla mandra, ma raddoppiano il passo per ritrovarvisi tanto più tostamente. Questo li fa prudenti. Il rinoceronte, per quanto sia provocato, sopporta pazientemente, insino a tanto ch’egli abbia posta in sicuro la prole amata: e dipoi si rivolge con tal furore, che getta a terra gli alberi, i quali incontra, e gli svelle fin dalle barbe. Questo gli fa giusti distributori dell’alimento (Jac. Bontius 1. 5. hist. nat. et med. c. 1). La rondinella comincia dall’imboccar quel figliuoletto che è nato il primo, e va in giro di mano in mano assegnando a ciascuno di loro con meravigliosa equità la porzion dovuta; grande esempio a que’ padri troppo parziali, che, per lasciare un figliuolo più benestante dell’altro, cambiano bene spesso l’eredità in un pomo venefico di discordia. Questo li fa costanti fino all’estremo. Il delfino, ove sia dato nelle reti uno de’ suoi parti, lo segue mesto, né sa staccarsene a forza di verun colpo, finché preso anch’egli non corra con esso lui la ventura stessa, o di liberazione o di morte. Così fin alla morte pur amali il pellicano, che giunge ad abbruciarsi per ismorzare le fiamme avventate al nido. E così fin alla morte pur amali la cicogna, che in caso d’incendio simile fu veduta volare al fiume e bagnarsi tutta, tornando poi per sopraffare con quell’acque le vampe; nè desisté dalla malagevole impresa finché non andò col nido ancor ella in cenere (Alber. Magn. v. Ciconia).

VII. E perché questo amore fu dato a’ bruti per educare la prole, non dura più che quanto dura il bisogno dell’educarla; che però poi non si riconoscono più (dirò così) per parenti ma si disgiungono: sicché quell’agnellino che sa ravvisare la madre in uno stuolo di tante pecorelle simili a lei, spoppato ch’egli si sia, la confonde in uno con l’altre quasi straniera. Parimente quelle cagnuole che prima disfacevano se medesime, essendo madri, per porgere l’alimento a’ lor catellini; cresciuti che questi sieno, giungono con essi a combattere per privarli fin di quell’osso che loro scorgono in bocca: tanto è rimasto estinto in esse un amore già sì cocente; mercecchè ora non è più questo necessario a quel fine per cui dianzi lo avevano ricevuto dalla natura, la quale diversificando, come è dovere, i bruti dagli uomini, ha pretesa in questi una educazione perpetua (tanto sono essi capaci di approfittarsi), in quegli una breve (Oltre al divario qui accennato dall’autore tra l’educazione dei bruti e quella dell’uomo, è a notarsi quest’altro, che l’uomo solo può altresì darsi a se medesimo l’educazione, perché dotato di intelligenza e di libera volontà, mentre un bruto, incalzato da cieco ed insuperabile istinto, non ha virtù di educare se stesso.).

IV.

VIII. Frattanto questa numerosa repubblica di animali, così ben governata in ciò che appartiene e al mantenimento di ciascuno individuo, e alla conservazione di ciascuna spezie, rende da tutti i lati dell’universo una testimonianza incessabile e incontrastabile alla esistenza divina. E la forza di tale testimonianza consiste in ciò che fu già notato più volte. Da un lato noi veggiam che tutte le bestie camminano al lor fine tanto ordinatamente, che, se usassero di ragione non potrebbero andarvi a passi più giusti. Dall’altro lato non conoscono il fine, ma operano in virtù puramente di quell’istinto che fu loro impresso nel cuore. (S. Th. contra gent. l. 3. c. 44). Adunque vi ha un Artefice superiore, il qual conoscendo questo fine per esse, imprime in esse parimente l’istinto da conseguirlo.

IX. Che poi le bestie di verità non conoscano questo fine, ma che vi vadano bensì, ma alla cieca, come va la palla scoccata da pratico balestriere a ferire il bianco, è manifestissimo. Conciossiachè, se operassero queste di ragion propria, non sarebbero tutte così uniformi nelle lor opere; ma come ogni pittore tra noi ha la sua maniera diversa di disegnar le figure, e di colorirle, perché quantunque vi adoperi gli stessi pennelli, le stesse tele, e l’istesse tinte degli altri, riguarda nondimeno l’idea diversa che egli ne concepì nella fantasìa; così le bestie in ciascuna razza sarebbono tra sé varie ne’ loro affetti, e ne’ loro affari, se non fosser guidate, ma si guidassero, come noi di capriccio. Oltre a ciò, men bene opererebbero le prime volte, che l’ultime mentre veggiamo, che sempre si perfezionano con l’esperienza quelle arti le quali sono apprese da noi per via di discorso. E pure la prima volta che la rondinella piglia a fabbricare il suo nido, lo fa sì bene, come la volta seguente. Non v’ha differenza tra quella tela che i ragni tessono appena nati, e quella che essi tessono già decrepiti: né i novelli sciami delle api sono meno esperti a riconoscere i fiori più delicati, a suggerne il miele, a fondere le cere, a formar le celle, a fare ogni lor lavoro nell’alveare, di quello che a ciò sieno gli sciami antichi.

X. Che più? Sappiamo che i bruti, ammaestrati dall’uomo, operano regolatamente molte azioni di cui al certo non intendono l’arte, perché non fu loro data per via di regole, ma per via di carezze e di bacchettate, alternate in tempo. I teatri moderni di Firenze, col ballo che introdussero dei cavalli, possono fare invidia ai teatri antichi di Roma. E pure quantunque si muovano quelle bestie in sì bell’ordine, e s’intreccino, e posino, e passeggino, e saltino tutte a un’ora, come se fossero tante ninfe danzanti, non è già, che intendano l’armonia di quel suono, o che capiscano la proporzion di que’ passi, o che conoscano il fine di quella festa (indirizzata al trattenimento di qualche ospite regio di una tal corte, manierosa al pari e magnifica in onorarli), mercecchè l’idea di quell’opera artificiale, non è nei cavalli stessi, è nel cavallerizzo, è negli scozzonatori, è ne’ sonatori, è negli uomini, i quali loro impressero nelle stalle con gran fatica la volontà di que’ moti che con tanto applauso da loro poi conseguiscono su la scena. E similmente l’idea di quelle opere naturali, assai più mirabili, che fan da sé tanti bruti senza maestro, non è ne’ bruti medesimi, è nel primo artefice Dio, il quale, avendo negata loro la ragione, si sta in vece di essa ne’ loro petti per governarli, disponendo lo spezie della loro fantasia di tal guisa, che secondo il bisogno apprendano come conveniente o come nocivo ciò che è amico o contrario alla loro conservazione. E questa disposizione di spezie è quella che da noi vien chiamata istinto (L’istinto dei bruti accoppia in sé  due caratteri, che sembrano contradditori : esso è cieco nelle sue movenze, infallibile nel suo scopo. Ma la contraddizione): ed in riguardo ai beni, in cui risiede, infallibile rispetto a Dio, da cui proviene come da sua ragion creativa. Negato Dio, e l’istinto rimane inesplicabile): ed in   quanto ella è mezzo ad operare con arte, è una piccola partecipazione dell’arte immensa, la quale risiede in Dio; ed in quanto è mezzo a conservarsi con prò, è una piccola partecipazione dell’infinita sua provvidenza. Sicché i bruti ancor essi, da qualunque banda li riguardate, manifestano la sapienza del loro artefice: a guisa di una statua condotta perfettamente, che da qualunque sito la rimiriate da alto o da basso, in prospettiva o in profilo, in faccia o alle spalle, sotto qualunque aspetto vi soddisfa pienamente, e rende autorevole testimonianza di lode intera al nome del suo maestro.