DOMENICA XV dopo PENTECOSTE

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LXXXV:1; 2-3
Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die. [Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]
Ps LXXXV:4
Lætífica ánimam servi tui: quia ad te, Dómine, ánimam meam levávi.
[Allieta l’ànima del tuo servo: poiché a Te, o Signore, levo l’ànima mia.]

Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die. [Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]

Oratio

Orémus.
Ecclésiam tuam, Dómine, miserátio continuáta mundet et múniat: et quia sine te non potest salva consístere; tuo semper múnere gubernétur.
[O Signore, la tua continua misericordia purífichi e fortífichi la tua Chiesa: e poiché non può essere salva senza di Te, sia sempre governata dalla tua grazia.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti s. Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal V:25-26; 6:1-10
Fratres: Si spíritu vívimus, spíritu et ambulémus. Non efficiámur inanis glóriæ cúpidi, ínvicem provocántes, ínvicem invidéntes. Fratres, et si præoccupátus fúerit homo in áliquo delícto, vos, qui spirituáles estis, hujúsmodi instrúite in spíritu lenitátis, consíderans teípsum, ne et tu tentéris. Alter alteríus ónera portáte, et sic adimplébitis legem Christi. Nam si quis exístimat se áliquid esse, cum nihil sit, ipse se sedúcit. Opus autem suum probet unusquísque, et sic in semetípso tantum glóriam habébit, et non in áltero. Unusquísque enim onus suum portábit. Commúnicet autem is, qui catechizátur verbo, ei, qui se catechízat, in ómnibus bonis. Nolíte erráre: Deus non irridétur. Quæ enim semináverit homo, hæc et metet. Quóniam qui séminat in carne sua, de carne et metet corruptiónem: qui autem séminat in spíritu, de spíritu metet vitam ætérnam. Bonum autem faciéntes, non deficiámus: témpore enim suo metémus, non deficiéntes. Ergo, dum tempus habémus, operémur bonum ad omnes, maxime autem ad domésticos fídei.

Omelia I

DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV Omelia V.- Torino 1899]

“Se viviamo in ispirito, facciamo anche di camminare in ispirito. Non sia che siamo vanitosi, provocando od invidiando gli uni gli altri. Fratelli, se alcuno sia soprapreso da qualche colpa, voi, che siete spirituali, rinfrancate questo tale in ispirito di mansuetudine, badando a te stesso, che ancor tu non sia tentato. Sopportate a vicenda le molestie, e così adempirete la legge di Cristo. Perché se alcuno stima d’essere alcun che, essendo nulla, inganna se stesso. Ciascuno pertanto metta a prova l’opera sua, e allora avrà il vanto in se stesso e non in altri, perché ciascuno porterà il suo peso. Colui poi che viene istruito colla parola, faccia parte d’ogni suo bene a chi lo istruisce. Non vi ingannate; Dio non si schernisce; perciocché quello che l’uomo avrà seminato, quello ancora mieterà. Onde chi semina nella sua carne, dalla carne altresì mieterà corruzione; chi poi semina nello Spirito, dallo Spirito mieterà vita eterna. Intanto nel fare il bene, non ci venga meno l’animo, che alla sua stagione mieteremo  con sicurezza. Mentre adunque abbiamo tempo, facciamo bene a tutti, ma principalmente a quelli che hanno comune con noi la fede „ (Ai Galati, V, 25, 26; VI, 1-10). Tutti questi versetti della Epistola si leggono in continuazione di quelli che vi spiegai meglio nella omelia terza della Domenica XIV dopo Pentecoste. Come vi dissi, l’ultima parte di questa lettera ai Galati è tutta morale, dirò meglio, è un vero tesoro di dottrina morale, e le sentenze si succedono l’una all’altra con una copia, con una chiarezza, con una efficacia ammirabile. Devo poi avvertirvi che queste sentenze morali non sono sempre legate tra loro come conseguenza l’una dell’altra, ma parecchie possono stare da sé, a guisa di ricordi. L’Apostolo, in sul chiudere questa lettera, ci presenta l’immagine di un padre tenerissimo, che scrive ai suoi figliuoli lontani, e spinto dall’affetto e dal desiderio ardente del loro bene, fa raccomandazioni sopra raccomandazioni senza badare molto all’ordine delle cose. Ciò che gli sta a cuore è di ricordar loro ciò che maggiormente importa e ciò che crede per loro più utile e necessario. Ripetiamo le singole sentenze del grande Apostolo e facciamone la chiosa, come è nostro uso. – “Se viviamo in spirito, facciamo anche di camminare in spirito. „ È da ricordare, o carissimi, che nei versetti precedenti S. Paolo ha distinto i Cristiani in due grandi classi, quelli che vivono secondo lo spirito e quelli che vivono secondo la carne; i primi sono quelli, che avendo ricevuta la fede e la grazia di Dio, vivono conformemente agli insegnamenti del Vangelo, combattono le ree passioni della carne e praticano le virtù del loro stato; i secondi son quelli che, quantunque rigenerati da Cristo, secondano le passioni della carne e producono quelle male opere della carne, che S. Paolo viene numerando. Continuando il filo del suo discorso, S. Paolo dice: ” Io so bene che voi, o Galati, ammaestrati da me, vivete in ispirito, cioè siete informati ai grandi insegnamenti del Vangelo, volete essere veri discepoli di Gesù: se è così, mostratelo con le opere. Sta bene credere in Gesù Cristo, par che dica l’Apostolo; sta bene l’aver ricevuto il suo Battesimo, ma non basta: bisogna anche camminare, cioè operare secondo la fede. „ E questa una verità che si trova inculcata in cento luoghi delle lettere di S. Paolo. La fede è necessaria, e senza di essa non possiamo piacere a Dio: ma la sola fede non basta: essa deve essere avvivata dalle opere che mostrino la fede, e quasi le diano corpo. Vedete nel vostro campo la vite: essa deve essere viva, e a suo tempo mettere le sue gemme, i suoi germogli e coprirsi di foglie: ma v’appagate voi ch’essa sia viva e lussureggi nel fogliame? No, per fermo; voi volete che sia viva e vi dia il suo frutto: se non vi dà il frutto, tanto vale che sia secca, e voi la tagliate o svellete dal suolo. Similmente Iddio; vuole che abbiamo la fede: Spiritu vivimus, ma ciò non basta: vuole i frutti di questa vita di fede, ossia esige le opere Spiritu et ambulemus. Quanti che hanno la fede, ma non le opere! Quanti battezzati e vivono da pagani! Quanti che professano il simbolo, e non osservano il decalogo! Non siamo di costoro, la vita dei quali è una continua contraddizione! Tien dietro un’altra sentenza dell’Apostolo, che faceva al caso dei Galati, ma non sarà certamente inutile anche a noi. La Chiesa di Galazia era sossopra per opera di certi falsi predicatori, che mettevano in dubbio la dottrina e la missione di S. Paolo, e volevano col Vangelo di Cristo le leggi e le cerimonie mosaiche: erano uomini arroganti, pieni di orgoglio, che volevano avere il vanto di essere maestri dei Galati. L’Apostolo grida: ” Non sia che siamo vanitosi, provocando ed invidiando gli uni gli altri.” – Vedete forma delicata e piena di carità, che usa l’Apostolo. Poteva dire: “non siate vanitosi, „ ma dice: “Non sia che siamo vanitosi”, si mette anch’egli nel numero dei colpevoli, e la correzione che fa agli altri, la indirizza anche a se stesso per non offendere troppo vivamente l’amor proprio di quei suoi figliuoli indocili e riottosi. Imitiamo la prudenza e la carità dell’Apostolo, allorché per ufficio talora ci accada di dover correggere i nostri fratelli o figliuoli: più che sia possibile risparmiamo la loro debolezza, raddolciamo il rimprovero, affine di guadagnarli.  – Quali sono generalmente le conseguenze della vanità? Il dispetto, l’ira e l’invidia in quelli che la nostra vanità offende. — Fate che uno s’innalzi in mezzo agli altri o per veri o per falsi meriti, e voglia loro sovrastare e meni pompa dei suoi titoli. Con la sua vanità ed ambizione li disgusta e li ferisce, e di qui tosto il dispetto, il mal animo, l’invidia, i litigi, le discordie e gli sforzi per abbatterlo e rompere quel giogo che si tenta di imporre. A ragione pertanto, S. Paolo vuole che fuggiamo la vanità e l’ambizione per chiudere la porta alle ire ed alle invidie, e serbare la pace. L’Apostolo volendo chiudere la sua lettera, con una serie di gravi ammonimenti pratici, per far sentire quanto gli stavano a cuore e come ne desiderasse ardentemente l’osservanza, manda innanzi una parola piena di affetto, mostrando quasi di dimenticare la sua dignità, e comincia: ” Fratres — Fratelli! „ Come è cara questa parola in bocca all’Apostolo per eccellenza, e che si rivolge ai fedeli della Galazia, la maggior parte dei quali dovevano essere poverelli! Per i pagani era un linguaggio inaudito, incomprensibile, affatto contrario ai loro usi, alle loro leggi ed alle loro credenze: era un lampo di luce che brillava in mezzo alle tenebre, che annunziava un nuovo ordine di cose, che gettava le basi d’una nuova società. Quella parola sì santa, ” Fratelli, „ che allora si pronunciava per la prima volta nel mondo pagano (Il paganesimo ignorava al tutto l’idea di fratellanza degli uomini, ignorando la loro origine comune e il fine comune, a cui sono chiamati. Per i pagani la fratellanza umana era un assurdo, un insulto al senso comune: la schiavitù ne era una conseguenza ed una prova. Né è da credere che n’avessero un’idea piena gli Ebrei, che pure possedevano la vera religione. Gli Ebrei estendevano l’idea di fratellanza ai loro connazionali: fuori dell’ebraismo non vedevano che nemici o stranieri, non mai fratelli. È Gesù Cristo colui che annunzia la fratellanza vera ed universale.), a poco a poco faceva il giro del mondo, dissipava gli errori e i pregiudizi, e stabiliva il principio della fratellanza universale, la cui attuazione va lentamente, ma infallibilmente esplicandosi. « Fratelli, grida S. Paolo, se alcuno di voi è soprapreso da qualche colpa, voi, che siete spirituali, rinfrancate questo tale; siamo fratelli, e come fratelli dobbiamo amarci: ora che cosa domanda l’amore, l’amore fraterno? L’amore veramente fraterno vuole e deve volere il bene dei fratelli, anzitutto rimovendo da essi ogni male. Vedere il male che affligge il fratello, e poterlo allontanare da lui, e non allontanarlo, in chi ama davvero, non si può concepire, come non si può concepire il fuoco senza calore. Tra i mali che travagliano i fratelli nostri, i maggiori senza dubbio sono i morali, e perciò questi sopratutto son quelli che con ogni studio dobbiamo allontanare da essi. Ecco perché S. Paolo scrive ai Galati: “ Se qualcuno è soprapreso da qualche colpa, voi, che siete spirituali, rinfrancate questo tale; „ cioè, voi che vivete secondo lo spirito, e camminate secondo il Vangelo, porgete la mano al fratello caduto o in pericolo di cadere, sostenetelo, od aiutatelo ad uscire dalla colpa. Dirai: In qual modo farò questo? Con la preghiera senza dubbio, col buon esempio e particolarmente con la parola di correzione, di consiglio, di esortazione, di incoraggiamento, secondo le condizioni speciali, in cui versa il fratello e ti trovi tu stesso. E qual sarà l’accento delle vostre parole al fratello caduto o pericolante? In spiritu lenìtatis. Il vostro accento sia dolce, mite, affettuoso, tutto informato a carità: e perché? “Badando a te stesso, risponde san Paolo, che ancor tu non sii tentato; „ che è quanto dire: Sii benigno, caritatevole, correggendo ed ammonendo il fratello tuo, perché ancor tu puoi cadere ed aver bisogno che altri usi teco quella carità che ora eserciti con esso. Adopra con lui quella misura che vorresti usata con te, e certamente sarai mite e indulgente. La correzione fraterna! Quale argomento, o dilettissimi! Certo è un dovere, e gravissimo, ma non sono poche né lievi le difficoltà nell’eseguirlo. Noi siamo tenuti a correggere il fratello errante, quando non vi siano altri che per ufficio, per età, per carattere, o per altre ragioni sono tenuti prima di noi; quando vi sia speranza di ottenere qualche emenda, quando il farlo non ci esponga a pericoli, o dispiaceri, o danni soverchiamente gravi, che non siamo obbligati a subire. E quando poi sia manifesto il dovere della correzione, è da badare al modo, al tempo, al luogo, alle circostanze di adempirlo fruttuosamente; e qui conviene consultare la prudenza, la quale ci deve tener lontani ugualmente e dalla pusillanimità e dalla temerità. Governarsi saviamente nella pratica è cosa malagevole, e molte sono le regole che si sogliono dare affinché la correzione raggiunga il suo intento. Seguendo S. Agostino, io le riduco ad una sola, ed è questa: “Ama, e di’ come ti piace, e non suonerà giammai come ingiuria ciò che avrà apparenza d’ingiuria, se rammenterai e sentirai, che con la parola di Dio, con la parola della correzione, tu puoi liberare il fratello dai vizi che l’opprimono. „ Ah sì! Quando vuoi ammonire e correggere il fratello, fa’ che il tuo cuore sia pieno di carità verso di lui, carità attinta in Dio stesso, che è tutto e solo rarità, e non dubitare che la tua parola troverà la via del suo cuore, rischiarerà la sua mente e la renderà docile alla tua parola, che sarà parola di Dio. – Passiamo alla sentenza che segue, che si può considerare come un’altra manifestazione della carità: ” Portate le molestie gli uni degli altri, e così adempirete la legge di Cristo. „ Che cosa sono queste molestie, che l’Apostolo ci esorta a portare vicendevolmente? Sono i peccati, che tutti più o meno commettiamo; sono i difetti, che tutti abbiamo; sono le offese, le noie che ci diamo scambievolmente, e spesso senza saperlo nè volerlo. Dov’è l’uomo, anche virtuoso e santo, che non abbia colpe e difetti, o che almeno a noi non paia averne, che poi torna lo stesso? Io che vi parlo ho le mie colpe, i miei difetti, e più assai che non ne vegga e non ne senta, e voi che mi ascoltate, e ciascuno di voi, senza eccezione avete i vostri. Chi di noi oserebbe negarlo od anche solo dubitarne? Che faremo? Ci getteremo in faccia l’uno l’altro le nostre debolezze, i nostri falli? Non faremmo che accrescere i nostri mali e renderci per poco impossibile la quotidiana convivenza. Il miglior partito, non solo secondo il precetto dell’Apostolo, ma secondo la prudenza stessa del mondo, è quello di tollerarci a vicenda: ciascuno soffra le colpe e i difetti degli altri, affinché gli altri tollerino e compatiscano i suoi. Tu sei ardente, impetuoso, facile all’ira, e ti sdegni perché altri è freddo, quasi insensibile; tu non sai soffrire il fratello perché scialacqua e perde il suo in conviti e passatempi, e non vedi che tu pecchi per eccessiva parsimonia e grettezza d’animo; tu biasimi la dissimulazione, il carattere chiuso del fratello, e non badi che tu inciampi nel difetto contrario di non saper tacere a tempo. In mezzo a questo contrasto incessante di difetti, per i quali ciascuno riesce molesto agli altri, che ci resta a fare se vogliamo vivere in questo mondo in pace, od almeno, il men male possibile? Seguire il precetto dell’Apostolo, che è la ripetizione di quello di Cristo: “Portate le molestie gli uni gli altri — Alter alterius onera portate; „ io sopporterò i tuoi difetti, e tu sopporta i miei. Se in tutte le famiglie, se nella società si osservasse questa legge sì semplice e sì pratica, quante contese, quanti dissidi, quante discordie, quanti dispiaceri, quanti mali sarebbero sbanditi dal mondo! Quanta concordia di animi, quanta pace fiorirebbe in mezzo a noi! Osservando questo mutuo compatimento,soggiunge S. Paolo, “voi adempirete la legge di Cristo. „ Qual legge di Cristo? Per fermo l’Apostolo allude alle parole del Salvatore: Questo è il mio precetto, che vi amiate scambievolmente; „ e altrove: ” Amerai il prossimo tuo come te stesso. „ Colui che sa compatire i falli altrui e sopportare pazientemente le sue colpe, mostra di avere in  cuor suo l’amore dei fratelli e di adempire la legge proclamata da Gesù Cristo. – Segue un’altra sentenza, che spiega e rafferma ancor meglio quella che abbiamo udito: “ Poiché se alcuno stima d’essere alcunché, essendo nulla, inganna se stesso. „ Tu devi correggere il fratel tuo in spirito di mansuetudine e di carità, come vuole Gesù Cristo; se tu per contrario ti reputi migliore di lui e monti in superbia, quasi suo maestro e sua guida, e lo tratti con durezza, con alterigia e con disprezzo, non ne farai nulla; l’opera tua sarà vana, non guadagnera che si allontanerà da te, e scioccamente ingannerai te stesso, credendoti da più degli altri e rimanendo vittima del tuo orgoglio. E perché in quest’opera della correzione fraterna non abbia ad errare, S. Paolo mi mette sott’occhio un’altra regola eccellente, che è mestieri considerare con attenzione: ” Ciascuno pertanto metta a prova l’opera sua. „ Mentre ammonisco il fratello, devo badare a me stesso, e vedere se per avventura anch’io non sia colpevole e degno di biasimo e bisognoso di correzione al pari di lui: e se trovo d’essere in fallo come il fratel mio, vedrò di emendarmi tostamente, e questo conoscimento mi renderà più benigno ed indulgente verso di lui, avendo, come lui, bisogno di compatimento. Mentre ammonisco il fratello, devo anche esaminare me stesso, e vedere se non forse nella correzione che faccio abbiano parte la vanità, l’invidia, la presunzione, il malumore od il desiderio di umiliarlo: devo scrutare me stesso e studiarmi di adempire il mio dovere col fratello unicamente per amore di lui e per piacere a Dio, non mai per appagare qualsiasi passione che si annidasse nel mio cuore o per un fine non retto e men degno d’un cristiano. E da ciò ne conseguirà che, se troverò in me stesso qualche bene, potrò compiacermene innanzi a Dio, e da Lui a suo tempo ne avrò la mercede e la gloria, e non menerò vanto del bene che poi il fratello da me ridotto sulla retta via potesse fare: Et sic in semetipso tantum gloriata habebit, et non altero. Sono verità chiarissime e pratiche, delle quali tutti possiamo e dobbiamo fare tesoro, direi quasi, ogni giorno. Non dimentichiamo, soggiunge S. Paolo, che ciascuno porterà il proprio peso. „ Che dici, grande Apostolo? La tua è una manifesta contraddizione: or ora ci hai esortato con tanta forza a portare i pesi e le molestie gli uni degli altri: Alter alterius onera portate, e poi ci dici che ciascuno porterà il proprio peso: Unusquisque onus suum portabiti Come ciò? Non vi turbate, o dilettissimi: l’Apostolo non si contraddice punto, né può contraddirsi. Là egli ci inculca nella vita presente a sopportare a vicenda i nostri pesi e le molestie che ci rechiamo gli uni gli altri col mutuo compatimento, figlio della carità; qui ci dice che nella vita futura, dinanzi al tribunale di Cristo giudice, ciascuno dovrà rendere conto di sé e delle opere sue, e porterà il suo peso, ossia dovrà rispondere di tutto ciò che avrà fatto. Sarebbe superfluo il far avvertire che, secondo la fede cristiana, di cui S. Paolo è l’Apostolo per eccellenza, tutte le cose che si pensano, si dicono e si fanno, si debbono considerare alla luce di quella sentenza infallibile ed irrevocabile che Gesù Cristo pronunzierà alla morte di ciascuno e confermerà alla fine dei secoli. Ma ascoltiamo ancora il nostro gran maestro, che, continuando, dice: ” Quegli poi che viene istruito con la parola, faccia parte d’ogni suo bene a chi lo istruisce. E questa una raccomandazione che non si lega né con le sentenze che precedono, né con quelle che seguono, ma sta da sé sola. Gesù Cristo, mandando gli Apostoli a predicare, disse loro che l’alimento ed il necessario l’avrebbero avuto da quelli ai quali avrebbero annunziata la divina parola, perché l’operaio è meritevole della sua mercede, e se il ministro di Gesù Cristo dà i beni spirituali, è giusto che riceva in cambio quel tanto di beni temporali, che gli è strettamente necessario. È questa una verità chiaramente stabilita nel Vangelo e richiesta dalla natura stessa delle cose; e qui S. Paolo l’accenna: ” Voi, così egli, che ricevete l’istruzione dai sacri ministri, fate loro parte dei vostri beni in guisa che possano campare onestamente la vita. „ Per sé l’Apostolo non voleva nulla, e con santo orgoglio diceva: “Ai miei bisogni materiali provvedono queste mani; „ egli non volle mai essere di peso a persona, e dichiarava che non avrebbe mai permesso che altri gli togliesse questo vanto. Ma la regola ch’egli s’era imposto, di vivere col guadagno delle sue mani, era affatto volontaria, e non poteva imporla ad altri, e perciò qui, come altrove, rammenta ai fedeli l’obbligo che hanno di fornire del necessario i loro ministri. In quei primi principii della Chiesa, com’era naturale, i sacri ministri vivevano di giorno in giorno delle oblazioni volontarie dei fedeli, che non venivano meno giammai, come anche nel presente, quando si annunzia il Vangelo nei paesi che cominciano a riceverlo. Anzi le oblazioni dei fedeli erano sì copiose, che gli avanzi si mandavano a quelli che ne pativano difetto. Ora, nei nostri paesi, dove la Chiesa da tanti secoli è stabilita, ai bisogni dei ministri è provveduto regolarmente in guisa da non essere d’aggravio a chicchessia, e così è messa al sicuro la dignità e la indipendenza dei ministri stessi, ed i fedeli sono liberati da ogni peso. Ma se al presente i sacri ministri non hanno bisogno delle vostre oblazioni per avere un tetto che li copra ed il necessario per vivere e vestire, la chiesa, che ci raccoglie, che è la casa del Padre nostro e casa nostra, ha pur sempre dei bisogni, e deve essere vostra gloria l’averla bella, ornata, degna di Dio e degna di voi. Che le vostre mani per essa siano larghe e generose! Ascoltiamo ancora il nostro Apostolo, che scrive: ” Non vi ingannate: Dio non si schernisce. Perché ciò che l’uomo avrà seminato, questo raccoglierà: onde chi semina nella sua carne, dalla carne altresì raccoglierà corruzione; chi poi semina nello Spirito, dallo Spirito mieterà vita eterna.„ Queste sentenze, se male non vedo, si collegano con la grande dottrina sopra svolta dall’Apostolo, e che spiegai nella omelia III; là stabilisce che vi sono due grandi principii in ogni uomo: lo Spirito, ossia la grazia di Gesù Cristo, e la concupiscenza della carne, e che da quei due principii tra loro pugnanti derivano opere contrarie, le opere dello Spirito, opere buone e sante, e le opere della carne, opere cattive e malvagie. Richiamando quelle verità, san Paolo, compreso della loro importanza, premette quella forma di dire sì grave: “Badate bene a quel che dico: non ingannatevi, perché Dio non si inganna, Dio non si schernisce, e se tentassimo di farlo, il danno sarebbe tutto nostro e ne porteremmo il peso. „ E su qual cosa non dobbiamo ingannarci? Usa una similitudine comune e sempre bellissima: la nostra vita è una seminagione: seminiamo nel tempo, mieteremo nella eternità. Ora che cosa si miete? Quello che si è seminato. Seminate buon grano? Mieterete buon grano. Seminate cattivo grano? Mieterete cattivo grano. Seminate molto? Molto mieterete. Seminate poco? Poco mieterete. La mietitura risponde alla semina. Ora, o uomo, semini nella carne? cioè, operi seguendo le passioni della carne e aggiungi peccati a peccati? Non ne dubitare; il campo dell’anima tua sarà coperto d’una messe maledetta, e da queste opere di carne raccoglierai la corruzione, la morte eterna. Ora semini nello Spirito? cioè operi secondo lo Spirito, seguendo le voci della grazia, osservando il Vangelo? Il campo dell’anima apparirà coperto d’una messe ottima, e da questa raccoglierai la vita eterna. Voi vedete in sostanza che la dottrina dell’Apostolo si riduce a quell’altra sentenza del medesimo, dove dice: “Iddio darà a ciascuno secondo le opere sue: „ a chi ha vissuto cristianamente, il cielo, la vita eterna; a chi ha vissuto malamente, l’inferno, la morte eterna. – Dunque, ecco la conseguenza naturale che ne deriva, e che l’Apostolo non tace. Dunque nel fare il bene non ci venga meno l’animo. ,, Si raccoglie di quel che si semina: dunque seminiamo il bene, operiamo, non secondo la carne, ma secondo lo Spirito. Troveremo difficoltà molte e gravi; nemici scaltri e potenti ci si attraverseranno sulla via: saremo messi a dura prova, tentati di dar volta e correre sulla via facile della carne e delle passioni. Non sia mai, grida S. Paolo: Non deficiamus; non smarriamoci d’animo, ma camminiamo innanzi animosi sulla via della virtù. Finché ne abbiamo il tempo ed il modo, facciamo il bene, cioè le opere dello Spirito, per noi e per tutti : Dum tempus habemus operemur bonum. Quali opere buone? Tutte quelle che sono volute dal nostro stato e che sono possibili alle nostre forze. E a chi dobbiamo fare il bene? Udite, udite, dilettissimi: ” A tutti — Ad omnes. „ Anche ai Gentili? anche agli Ebrei ostinati? anche ai nemici? anche ai persecutori? ” A tutti, a tutti — Ad omnes, ad omnes. „ S. Paolo non fa eccezione, tutti commende quanti sono gli uomini: Ad omnes». Ecco la carità cristiana. E che veramente si debba fare il bene a tutti gli uomini secondo le nostre forze, è chiaro dalle parole che seguono: ” Massime a quelli che sono congiunti nella fede — Maxime ad domestìcos fidei. „ Se dobbiamo fare il bene a tutti, e specialmente a quelli che hanno comune con noi la fede, è cosa evidente che in quella parola “tutti” sono compresi anche i non credenti. Ho finito, o dilettissimi: ma permettete che, chiudendo la mia omelia, vi lasci con una osservazione semplice, ma utile, ed è questa: le sentenze di S. Paolo, sì concise e sì chiare, racchiudono un vero tesoro di verità morali, e voi non dimenticate mai le due ultime, che insieme abbiamo meditato: ” Nel fare il bene non vi venga mai meno l’animo, che a suo tempo mieteremo con sicurezza: e mentre che abbiamo tempo facciamo bene a tutti, particolarmente a quelli che hanno comune con noi la fede. „

Graduale
Ps 91:2-3.
Bonum est confitéri Dómino: et psallere nómini tuo, Altíssime. [È cosa buona lodare il Signore: inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]
V. Ad annuntiándum mane misericórdiam tuam, et veritátem tuam per noctemM. V. [È bello proclamare al mattino la tua misericordia, e la tua fedeltà nella notte.].

Alleluja

Allelúja, allelúja Ps XCIV:3 Quóniam Deus magnus Dóminus, et Rex magnus super omnem terram. Allelúja. [Poiché il Signore è Dio potente e Re grande su tutta la terra. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc VII: 11-16
“In illo témpore: Ibat Jesus in civitátem, quæ vocátur Naim: et ibant cum eo discípuli ejus et turba copiósa. Cum autem appropinquáret portæ civitátis, ecce, defúnctus efferebátur fílius únicus matris suæ: et hæc vidua erat: et turba civitátis multa cum illa. Quam cum vidísset Dóminus, misericórdia motus super eam, dixit illi: Noli flere. Et accéssit et tétigit lóculum. – Hi autem, qui portábant, stetérunt. – Et ait: Adoléscens, tibi dico, surge. Et resédit, qui erat mórtuus, et coepit loqui. Et dedit illum matri suæ. Accépit autem omnes timor: et magnificábant Deum, dicéntes: Quia Prophéta magnus surréxit in nobis: et quia Deus visitávit plebem suam.” [In quel tempo: Gesú andava verso una città chiamata Naim, seguito dai suoi discepoli e da gran folla. E giunse vicino alla porta della città mentre si portava a seppellire il figlio unico di una vedova, la quale era accompagnata da un gran numero di persone. Vedutala, il Signore, mosso a compassione di lei, le disse: Non piangere. Si avvicinò alla bara e la toccò. – Quelli che la portavano si fermarono.- Egli disse: Giovinetto, a te dico, alzati. Il morto si alzò a sedere, e cominciò a parlare, e Gesú lo rese a sua madre. Tutti furono presi da gran timore e glorificavano Dio, dicendo: Un profeta grande è apparso tra noi, e Dio ha visitato il suo popolo.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

Morte del giusto

[Luca VII, 11-16]

Accompagnato dai suoi discepoli, e seguito da numerosa turba, si avvicinava il divin Redentore alle porte della città di Naim; quand’ecco si vede venir incontro un giovane defunto, unico figlio di vedova madre, disteso sul feretro e portato al sepolcro. A questa vista, tocco da tenero senso di compassione: “non piangere, dice all’afflittissima lacrimante genitrice, “noli fiere”, e toccata la bara e fermatisi i portatori, “sorgi, o giovane, soggiunge, Io parlo a te”: “Adolescent, tibi dico, surge”. Sull’istante si alza il defunto, siede sul feretro con stupore di tutti gli astanti, parla liberamente, e vien reso vivo a colei che lo piangeva defunto. Fin qui l’odierno Vangelo, su cui riflettendo, S. Ambrogio: “si proibisce, dice egli, di piangere una morte che si doveva cambiare in risorgimento: “Fiere prohibetur eum, cui resurrectio debebatur” (Lib. 5 comm. In Luc.). Deve dirsi altrettanto della morte di un giusto. Non è da piangersi la morte di chi va a risorgere a miglior vita. Non è morte la morte di quei che a Dio son cari, ella è un placidissimo sonno, a cui succede nello svegliarsi il bel mattino di un’immortale felicità: “Cum dederit dilectis suis somnum, ecce hæreditas Domini” (Ps.XVI, 4). – Di questa morte, chiamata dal reale Profeta preziosa, io sono a tenervi ragionamento; e preziosa io dico è la morte del giusto o si riguardi la disposizione di lui che muore, o si riguardi la protezione di Dio che l’assiste. I due cardini, sui quali si aggirano i preziosi momenti della felice sua morte: ecco i due punti proposti alla cortese vostra attenzione.

I. La morte è l’eco della vita, e l’una e l’altra a vicenda si corrispondono; onde ne segue, che siccome una buona vita è disposizione ad una santa morte, così una buona morte è frutto d’una santa vita. Volete vederlo? Seguitemi col pensiero alla stanza d’un giusto moribondo. Eccoci intorno al letto ove giace rassegnato e tranquillo. Osservatelo sereno in volto, quieto nell’animo, dolce nel suo parlare, paziente nel suo soffrire. Presente a sé stesso va sfogando i suoi affetti col santo crocifisso, che or bacia devotamente, ora si stringe teneramente al petto; ed animato dalla fede, confortato dalla speranza, acceso dalla carità ne va formando gli atti più vivi e fervorosi. Son questi, uditori, gli effetti degli abiti buoni da esso contratti in vita, son questi i frutti di quelle virtù da lui praticate vivendo. “Quæ seminaverit homo, hæc et metet(Ad Gal. VI, 8). Egli ha seminato nel pianto d’una mortificazione continua delle sue passioni, nelle lacrime d’una compunzione sincera delle proprie colpe; ed ora nella tranquillità del suo cuore, nell’esultazione del suo spirito ne raccoglie il frutto: “Qui seminant in lacrymis, in exultatione metent( Ps. CXXV). Voi forse stupite che all’annunzio della vicina sua morte non si conturbi nè pel paese che lascia, nè per quello a cui si avviva; come non sia né travagliato da dubbi, né punto da rimorsi. Mi chiedete il perché? Udite. Quando si fabbricò il tempio di Salomone, ci assicura il sacro Testo, che nella costruzione di quel grande e superbo edificio non s’udì né colpo di martello, né taglio di scure, né rumore di altro fabbrile strumento, ma che tutto si lavorò con somma quiete in perfetto silenzio: “Malleus et securis, et omne ferramentum non sunt audita in domo cum ædificaretur(III Reg. VI, 7). E come mai poté avvenire, che nella fabbrica di mole sì vasta, in tanto numero di artefici, che ascendeva a trenta e più migliaia, non si sentisse strepito alcuno? Ciò avvenne, risponde l’Abulense, perché tutt’i legni e tutt’i marmi che dovevano servire per la grande struttura, erano prima stati, d’ordine del savio regnante, lavorati sul monte con tal proporzione ed esattezza, che poi nel tempio altro più non restava che disporre quei pezzi e insieme congiungerli a tenore delle precedenti misure. Non altrimenti nell’agonie di un’anima giusta, in sulle soglie di quella gran casa dell’eternità, non s’odono tumulti di premurose confessioni, non si sentono sospiri di tardo ravvedimento, non restituzioni da farsi, non obblighi da compiersi. Nulla v’è di sconcerto in quell’ora, in cui sta per compiersi il mistico edificio dell’esemplare sua vita. E perché ciò? Perché tutto è stato prima aggiustato sul monte santo di Dio, vale a dire ai piè del Crocifisso, ai piè del confessore, perché in vita si è pensato e provveduto a tutto, tutto si è ben disposto per quell’ultimo punto. “Malleus et securis non sunt audita in domo, quia Salomon fecit omnia expolivi in monte(in III Reg.) . Ed ecco come una buona disposizione in vita rende tranquilla e preziosa la morte. – Che vi ha in effetto che possa amareggiare in quell’ora un’anima giusta? La memoria dei propri peccati? Ma di questi nella contrizione del suo cuore si è accusata rea al sacro tribunale, questi ha poi pianti sempre con lacrime di amarissima vena, di questi ha con la penitenza procurato di soddisfare la divina giustizia. La perdita forse dei beni terreni? Ma a questi non ha mai viziosamente attaccato il cuore, né li ha goduti che a tenore della divina legge, con farne generosa parte ai poveri di Gesù Cristo. Forse i dolori del corpo infermo? Ma avendo in vita portato nel suo corpo la mortificazione di Gesù Cristo, si è avvezzata al patire e sono in lei passate in abito le virtù della pazienza, della rassegnazione, dell’uniformità al divino volere. Le angustie finalmente della vicina morte? – E vero, che la debole natura non può non sentire l’orrore della morte, ma lo spirito animato dalla fede e dalla grazia invigorito, “cupio dissolvi, va dicendo, et esse cum Christo”. Venga pure la morte, io la desidero, acciò mi tolga dal pericolo di offendere il mio Dio, e a Lui mi unisca per cui sospiro: “Cupio dissolvi, et esse cum Christo”. In questi estremi momenti della mia vita nelle braccia io mi abbandono nel mio Signore crocifisso, e sarà così per me un gran guadagno il morire: “Mihi vivere Christus est, et mori lucrum(Ad. Filipp. I, 21). E questa è morte? No, uditori Cristiani, è un passaggio dalla tempesta al porto, dall’esilio alla patria, dalla battaglia al trionfo, è un sonno, dice ed esclama il devoto Bernardo, sonno e riposo per gli amici di Dio, che gustano a quel passo il frutto soavissimo delle virtuose loro disposizioni. “O mors somnus iustorum requies amicorum Dei(Serm. 25 sup. Cant.).

II. Che diremo poi della protezione di Dio verso il giusto moribondo? Quel Dio, che Dio d’ogni consolazione si appella, quel Dio, che si trova tanto ben soddisfatto del suo servo fedele, pensate se nel maggior bisogno si scorderà di lui? Le anime dei giusti sono in mano di Dio, e perciò non possono star che bene, non possono riposar che sicure: “Justorum animæ in manu Dei sunt” (Sap. III, 1). Egli addolcirà in modo le loro agonie, che della morte non sentiranno l’ambasce; “non tanget illos tormentum mortis”: sembrerà agli occhi degli stolti mondani simile all’altrui la morte loro, ma essi non muoiono che per vivere d’una vita migliore, e riposano intanto in seno ad una tranquillissima pace, “visi sunt oculis insipientium mori, illi autem sunt in pace(Sap. V, 2). Questa sincera pace no, non arriveranno a intorbidare tutti i demòni dell’inferno. Escano pur dall’abisso d’ira avvampanti, e sapendo che il tempo è breve, cingano intorno di fiero assedio l’agonizzante, che potran essi, se Iddio è con lui, se un Dio lo difende, se lo protegge un Dio? “Si ambulavero in medio umbræ mortis, non timebo mala, quoniam tu mecum es(Psal. XXII, 4 ) A chi non avrebbe fatto raccapriccio insieme e pietà il pericolo dell’innocente Daniele? In una altissima fossa vien egli calato, in fondo alla quale affamati leoni alzano ruggiti anelanti alla  preda. Ma che! Daniele è giusto, Daniele è protetto dal cielo, Daniele non teme, e in mezzo ai leoni vive e dimora illeso e sicuro. Né solamente Iddio lo difende da quelle belve feroci, ma per mezzo del profeta Abacuc, preso da un Angelo per i capelli, mentre portava il pranzo ai suoi mietitori, lo provvede nel luogo stesso di cibo e di opportuno ristoro. Tanto adopra Iddio stesso a conforto del giusto che va morendo. Non solo lo guarda e lo difende dai nemici infernali, che, al dir di S. Pietro, a guisa di rabbiosi leoni se gli aggirano intorno, non solo il fortifica con più abbondante rinforzo della sua grazia, non solo il consola con certe voci interne, colle quali gli fa sentire la sua presenza; ma per mezzo dei suoi sacri ministri fa che se gli porgano col più opportuno pascolo più soavi conforti: pascolo del Pane Eucaristico, viatico alla vita eterna, conforti degli altri Sacramenti, conforti di pii sentimenti, di fervidi affetti, di preci, d’indulgenze, di benedizioni. – Quindi di tutto ciò non pago l’amoroso Signore, parmi che ai suoi sacerdoti rivolto vada dicendo con le parole d’Isaia: “miei ministri, che all’assistenza siete chiamati di quest’anima giusta, a me tanto cara, badate bene a non contristarmela, consolatela, al vostro buon cuore la raccomando”. “Dicite iusto quoniam bene(Is. III, 10), ditele che non si attristi, ditele che non paventi, datele dolci risposte, datele buone speranze, “dicite iusto quoniam bene”: ditele che le cose andranno bene e nel tempo e nell’eternità, ditele che so come sta verso di me il suo cuore, che perciò non diffidi del mio, ditele in somma. … ma via già m’intendeste: “Dicite iusto quoniam bene, quoniam fructum adinventionum suarum comedet”. Quanto è buono il nostro Iddio per quei che l’amano con cuor sincero : “Quam bonus Israel Deus his qui recto sunt corde” (Ps. LXXII)! – E pur non son queste a pro del giusto né le maggiori, né l’ultime prove della divina bontà. Egli, Egli stesso il pietoso Signore vuole di presenza assisterlo; onde intorno al letto di lui che langue si va aggirando a guisa di madre appassionata verso il moribondo figliuolo, che né di giorno né di notte gli si vuole staccare dal fianco, ma è sempre in moto a prestargli ogni aiuto, ogni sollievo, ogni conforto. “Dominus opem ferat illi super lectum doloris eius(Ps. XL, 3). – Che dirò poi della singolare sollecitudine del nostro buon Dio per quell’ultimo istante, in cui sta per dividersi dal corpo l’anima sua diletta? Vediamolo. Già si avvicina al gran passaggio. Osservatelo: ora d’amor sospira verso il crocefisso suo Bene, che si tiene fra le mani, or languido su d’esso volge lo sguardo: ed oh che consolazione in baciar le sue piaghe, che tenerezza in istringerselo a due mani sul petto! E Iddio nell’atto che vien meno il suo spirito, intanto che fa? Che fa Iddio in quest’atto? Lo chiedete a me? Chiedetelo al reale Profeta. – Quando si tratta della morte degli empi, dice egli, non si han tanti riguardi. Il mandriano della greggia immonda, che riguardo tien egli delle vili ghiande? A colpi di poderoso bastone dall’alto di una quercia lo fa cadere a pascere sozzi animali. Cosi si usa con i malvagi Non est respectus morti eorum”. Ma se si parli dei giusti, figuratevi un sollecito agricoltore, qualor dall’alta cima d’un albero gentile vuol cogliere un maturo pomo prezioso. Nell’atto che dal compagno fa staccare con grazia quel frutto, ei vi sta sotto colle mani aperte per riceverlo, acciò sgraziatamente non cada sul duro terreno. – Non altrimenti si diporta col giusto che muore, Iddio pietoso. Nell’atto, che dalla falce di morte si tronca il filo della sua vita, Egli ad altri non ne affida la cura, nel suo cadere dal tempo nell’eternità, stende le braccia a riceverlo e nelle sue stesse mani benignamente l’accoglie: “Justus cum ceciderit non collidetur, quia Dominus supponit manum suam(Ps. XXXVI, 26).  Morte felice, felicissima morte! Morte, conchiude il Mellifluo, che cangia la mortal  vita di miserie piena in una vita d’ eterne delizie ridondante: morte per cui il giusto a guisa del sole muore per gli altri, non per sé stesso, e non tramonta che per risorgere più luminoso è più bello. – Morte beata, morte preziosa: “Pretiosa in conspectu Domini mors sanctorum eius” (Ps. CXV, 6). Sarà simile a questa, uditori miei cari, la nostra morte? Se vogliam che sia tale convien prepararci, conviene disporci, bisogna vivere della vita del giusto per morire della morte del giusto.

Credo …

Offertorium
Orémus
Ps XXXIX:2; 3; 4
Exspéctans exspectávi Dóminum, et respéxit me: et exaudívit deprecatiónem meam: et immísit in os meum cánticum novum, hymnum Deo nostro. [Ebbi ferma fiducia nel Signore, il quale si volse verso di me e ascoltò il mio grido: e pose nella mia bocca un càntico nuovo, un inno al nostro Dio.]

Secreta
Tua nos, Dómine, sacramenta custodiant: et contra diabólicos semper tueántur incúrsus. [I tuoi sacramenti, o Signore, ci custodiscano e ci difendano sempre dagli assalti del demonio.]

Communio
Joann VI:52
Panis, quem ego dédero, caro mea est pro sæculi vita.
[Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo.]

Postcommunio
Orémus.
Mentes nostras et córpora possídeat, quǽsumus, Dómine, doni cœléstis operátio: ut non noster sensus in nobis, sed júgiter ejus prævéniat efféctus.
[L’azione di questo dono celeste dòmini, Te ne preghiamo, o Signore, le nostre menti e nostri corpi, affinché prevalga sempre in noi il suo effetto e non il nostro sentire.]

PAPA OCCULTO O IMPEDITO? BEATO VITTORE III

Ancora una volta troviamo nella storia della Chiesa, un Papa impedito nella sua funzione pontificale da vicende storiche complesse nelle quali figurava pure la presenza di un antipapa, insediatosi con la forza a Roma, circondato da chierici di dubbia fede ed osservanza. Certo, la vicenda non è paragonabile all’apostasia attuale della setta del Novus ordo che usurpa oggi la Sede Apostolica, ed ivi insediata con tutto lo schiamazzo mediatico, tutte le riverenze, il codazzo ed i salamelecchi dei “servi sciocchi” e della stampa mondiale delle tante marionette asservita a “coloro che odiano Dio e tutti gli uomini”. In ogni caso, rileggere quegli eventi fa comprendere che la situazione non è affatto nuova ed è contemplata come caso straordinario di persecuzione anche dalla Dottrina Cattolica e dalla Storia della Chiesa di tutti i tempi. Anche qui, non si tratta di un Papa occulto [come ancora oggi qualche “teologo faidate”, ignorante, falso “canonista” e fiancheggiatori vari, definiscono l’attuale Pontefice Gregorio XVIII, “occulto” solo perché, secondo loro, non lo si può incontrare al negozio dell’ottico di via del Corso a Roma o vedere nelle televisioni megafono dei modernisti dei quali sono un prezioso puntello fingendosi tradizionalisti], bensì di un Papa “impedito”, parola che evidentemente risuona alle orecchie degli stolti empi, come un trapano corrosivo delle loro false teorie e della falsa interpretazione che danno del Magistero [ammesso che lo conoscano bene … ma i dubbi sono enormi!]. Questa vicenda del Beato Vittore III infonde però speranza, come Gesù ci ha sempre insegnato, nella soluzione inaspettata dell’apparente prevalere delle forze del male sulla sua Chiesa! …

et Ipsa conteret …  

Beato Vittore III:

[A. Saba: Storia dei Papi, vol. I; Un. Tipogr. Ed. Torinese, 1957]

 Tra i cardinali designati da Gregorio VII morente, come degni di potergli succedere, v’era Desiderio, abate di Montecassino. I voti si raccolsero su di lui. La ricchezza del suo monastero, la riverenza in cui lo tenevano i principi di quell’età, le sue attinenze coi Normanni, financo i suoi rapporti con l’imperatore Enrico IV, rendevano desideratissima la elezione di lui. Roberto il Guiscardo, appoggio della Chiesa in questo momento, moriva a Cefalonia, il 17 luglio, poco tempo dopo Gregorio. Credevasi dunque non esservi adesso altri che Desiderio capace di metter pace nelle cose di Roma e dell’Italia. Ma dopo l a morte di Gregorio VII l a tiara pontificia faceva spavento. Desiderio tremava davanti al trono papale. L’anno 1085 trascorse senza una decisione. L’abate dichiarò il suo rifiuto a Giordano principe di Capua, alla contessa Matilde, ai cardinali, e protestò voler influire per un concilio romano e un nuovo Papa. Costretto, egli si recò a Roma con Gisulfo, nella Pasqua dell’anno dopo. La città era ancora divisa tra gli imperiali ed i gregoriani. I cardinali e gli ottimati si gettarono ai piedi dell’abate Desiderio supplicandolo ad accettare il Pontificato, e non ostante le sue opposizioni, fu proclamato il 24 maggio del 1086, col nome di Vittore III. – Desiderio, della famiglia dei conti di Marsi e figlio di un principe di Benevento, dove nacque, desiderava esser monaco di S. Trinità di Cava, ma ne fu impedito dai parenti. Entrò poi nel monastero di S. Sofia di Benevento, e dopo in un altro delle isole Tremiti. Fu amico di Leone IX, che lo conobbe nella sua campagna contro i Normanni. A Firenze, nel 1056, si trovò con papa Vittore II. Con Alfano passò al monastero di Montecassino, di cui divenne abate nel 1058, segnando nella storia di quella badìa un’orma immortale per la costruzione della grande basilica, per l’incremento della disciplina monastica e degli studi, e per le importanti missioni che ebbe dai papi. Gregorio VII si servì dell’opera sua nella tremenda lotta contro Enrico IV, e nelle relazioni coi Normanni. – L’elezione di Vittore III non avvenne senza contrasto. Il partito tedesco aizzato dal prefetto di Enrico, già in urto coi cardinali, raccolse armi in Campidoglio, ed impedì che Vittore fosse consacrato in Vaticano. Vittore, approfittando del torbido, prese la via del mare da Ardea, e dopo quattro giorni dalla sua elezione arrivò a Terracina, si spogliò delle insegne pontificie e corse tosto a rinchiudersi nel suo bel Montecassino. Qui rimase un anno intero, mentre a Roma s’invocava il suo ritorno. Nel marzo del 1087, in qualità di vicario della Sede romana nell’Italia meridionale, indisse un sinodo a Capua, per deliberare sull’elezione del papa. V’erano presenti anche Ruggero, duca delle Puglie, e il detronizzato principe Gisulfo. Ci furono alcuni che non inclinavano alla rielezione di Desiderio, Ma egli infine, tempestato dalle suppliche dei prelati e di principi, finì con arrendersi. Al 9 di maggio fu consacrato nella chiesa di S. Pietro, che ottenne a forza con le armi normanne. Roma infatti non era pacifica. Indisciplinata, piena di rovine, sentiva il peso delle fazioni in lotta. Enrico IV era lontano, in guerra coi suoi nemici, i quali ebbero fortuna su di lui, nel 1087. Tra il 1088 e i l 1090, per la morte dei suoi più temibili avversari, si risollevò alquanto. In Italia solo la contessa Matilde era ancora in armi contro di lui. Clemente III [l’antipapa dell’epoca –ndr.-] poteva raccogliere di nuovo un gruppo di partigiani e mettere residenza in Vaticano. I Normanni presero d’assalto la basilica che serviva di castello all’antipapa. – Clemente fuggì e riparò nella Città, dove si trincerò in un’altra chiesa fortissima, nel Pantheon. Dopo la vittoria sull’antipapa, e la sua consacrazione, Vittore rimase ancora otto giorni a Roma, e poi se ne ritornò al suo monastero. Appena vi arrivò, le milizie di Matilde lo invitarono a ripartire per Roma. Egli vi ritornò, e pose dimora insieme con la contessa nell’isola Tiberina: però non possedeva che il Trastevere, il Castel Sant’Angelo, S. Pietro, Ostia e Porto. L’antipapa Clemente godeva ancora forte protezione e si serviva del vecchio rancore contro Gregorio per tener su la sua causa. Un legato imperiale arrivava per riaccendere le mischie e sostenere l’avversario di Vittore. Il Papa, caduto infermo, se ne usciva per la terza volta da Roma, tanto fatale per la sua pace. – Nell’agosto del 1087 celebrò un sinodo a Benevento; vi proibì la simonia, le investiture laiche, e il ricevere i sacramenti dai preti venduti a Enrico [evidentemente falsi, come gli attuali novusordisti, i sedevacantisti e i lefebvriani -ndr.-], e rinnovò la scomunica contro Clemente III. – Sentendosi presso a morire, si faceva trasportare al suo monastero. Colà nominò Oderisio ad abate, perché sinora egli era rimasto al governo della badìa, raccomandò come suo successore il cardinale Ottone, vescovo di Ostia, e moriva il 16 settembre del 1087, nel rimpianto della pace monastica che lasciò malvolentieri, per un peso che gli fu tanto grave e gli diede poca gloria. Vittore III rimane ancora nella storia come il grande abate Desiderio. Leone XIII ne confermò il culto. Festa il 16 settembre. – Fu sepolto nel suo monastero, e i monaci lo ricordarono con una epigrafe toccante.

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (7), capp. X e XI

CAPITOLO X.

LA CROCIFISSIONE.

Le montagne scelte pel supplizio dei rei. — A qual fine. — Passo di Quintiliano, di Valerio Massimo, di Svetonio. — Arrivo dei condannati. — Occupazione dei carnefici.— I condannati distesi prima per terra, e poi messi sulle loro croci. — Forma della croce. — Cinque specie di croci: la croce semplice, la croce biforcata, la croce decussata, la croce commissa, e la croce immissa. — Qual fu la croce del Buon Ladrone.—Sentenza di Tertulliano, di s. Girolamo, di s. Paolino.— Ragioni misteriose di questa sentenza.— La forma della croce perpetuata nel T che incomincia il canone della Messa. — Passi di Innocenzio III, di Niceforo, e di Sandini.

Ora che ben conosciamo il Calvario, appressiamoci alla santa collina, e montiamo fino alla sua sommità, seguendo i tre condannati che vanno a morirvi. Perché mai, in luogo di una aperta pianura, o di una valle, si scelse un luogo eminente per la crocifissione? La risposta ad un tale quesito, mentre ci rivela gli usi dei popoli antichi, conferma colla testimonianza della storia profana, il racconto della storia sacra. Oltre le misteriose ragioni, che tra tutti i luoghi del mondo, fecero preferire il Calvario pel supplizio dell’uomo-Dio e dei suoi compagni, una ve n’ha al tutto semplice e tratta dall’uso generale dell’antichità. – A fine di render utile e salutare lo spettacolo dell’ignominioso e più crudele dei supplizi, i popoli antichi avevano disposto che le croci dei malfattori venissero piantate nei luoghi più esposti alla vista e più frequentati, e di preferenza sulla cima delle montagne, « Tutte le volte, dice Quintiliano, che sospendiamo alla croce dei malfattori, noi scegliamo le vie più rinomate, affinché il più gran numero possibile di persone siano testimoni di un tale spettacolo, e colpiti di un salutare terrore » Valerio Massimo così racconta la morte di Policrate, tiranno di Samo. « Inquieto per la felicità della quale aveva costantemente goduto, codesto principe, a prevenire la gelosia degli Dei, volle imporsi un sacrificio gettando in mare una preziosissima gemma che egli aveva carissima; ma pochi giorni appresso quella gemma si rinvenne nel corpo di un pesce; e questa fu l’ultima sua contentezza. Mentre meditava la conquista dell’Ionia, fu preso a tradimento da Orete satrapo di Cambise che lo fece crocifiggere sulla cima più elevata del monte Micale, di faccia a Samo. » Per le stesse ragioni le croci facevansi molto elevate. A ciò alludeva quella crudele ironia dell’imperator Galba, riferita da Svetonio. « Un condannato a morte invocava le leggi, e faceva valere il suo titolo di cittadino Romano. In vista di esaudirlo e di rendergli men penoso il supplizio, Galba ordinò ch’ei fosse crocifisso su una croce molto più alta delle altre e vestito di bianco.» La straordinaria altezza della croce doveva far conoscere la sua dignità di cittadino romano, e la veste bianca propria dei cittadini romani doveva attirare singolarmente su di lui l’attenzione degli spettatori. – Intanto Gesù, Dima ed il suo compagno giungono alla sommità del Calvario. Tra i soldati, ai quali era affidata l’esecuzione, alcuni scavano le fosse per impiantarvi le croci, altri gettano a terra i condannati e li acconciano sulle croci legate sul loro dorso. Misterioso spettacolo! « Nel medesimo luogo, dice s. Agostino, v’eran tre croci. Sopra una di esse il ladro predestinato, sull’altra il ladro riprovato, su quella di mezzo Gesù, che era per salvare l’uno e condannare l’altro. Nulla di più somigliante fra loro che queste tre croci, nulla di più dissimile fra loro di quei crocifissi. » Come udimmo da s. Agostino, le tre croci erano somiglianti; ma quale ne era la forma? Presso gli antichi la croce come strumento di supplizio, non era né sempre, né ovunque la medesima. Se ne distinguono cinque diverse specie. La croce semplice, simplex, era un largo trave, sul quale s’inchiodava il paziente in modo, che prendesse l’attitudine più o meno distinta d’uomo in croce. Quando questa specie di crocifissione aveva luogo, quel trave era così basso che gli animali carnivori potevano arrivare alla vittima, e sbranarla viva sull’istrumento del suo supplizio. Ne abbiamo due celebri esempi; uno nella Scrittura, l’altro nel martirio di s. Blandina. Sette figli di Saulle essendo stati dati nelle mani dei Gabaoniti, costoro li crocifìssero. Aia, loro madre, si tenne immobile giorno e notte a piè delle croci per impedire che gli augelli di rapina, e le belve carnivore divorassero i suoi sventurati figliuoli. Eusebio parlando dell’illustre martire di Lione dice : « Blandina essendo stata attaccata ad una trave, fu esposta alla voracità delle bestie. A tale spettacolo, tutti quelli che avevano combattuto con essa ripresero animo. Essi erano pieni di una gioia soprannaturale, vedendola crocifissa presso a poco siccome lo era stato Gesù Cristo. Essi ne trassero un buono augurio per la vittoria, da che sotto la figura della loro sorella credevan di vedere Colui, che per essi era stato posto in croce. Andarono essi pertanto incontro alla morte pieni della dolce confidenza, che chiunque muoia per la gloria di Gesù Cristo, riceverà una vita novella nel seno stesso del Dio vivente. » [Lettere delle Chiese di Vienna e di Lione in Euseb. Hist. lib. V. c. x].La croce biforcata chiamata furca, perché prende la forma di una forca ad Y, si trova usata sovente per supplizio degli schiavi. Un autore pagano, Apulejo, parla di questa specie di croce come istrumento di morte per i malfattori ordinari. La croce decussata, vale a dire in forma traversa come la lettera X. Essa è volgarmente conosciuta sotto il nome di Croce di S. Andrea, perché fu lo strumento sul quale l’Apostolo dell’Acaja subì il suo martirio.La croce commissa, croce avente la formo del nostro T maiuscolo, che e lo stesso del Tau dei Greci, e degli antichi Ebrei. La croce immissa è la croce ordinaria, chiamata croce latina. Ognuno sa che essa si compone di un tronco traversato nella parte superiore da due braccia in linea retta †. Di tutte queste croci quale servì al supplizio di Nostro Signore, e dei suoi compagni? La croce commissa rispondono senza esitare Tertulliano, s. Girolamo, e s. Paolino. « La lettera T dei Greci e dei Latini (dice Tertulliano) è la figura della Croce.» S. Girolamo : « Nell’antico alfabeto ebraico, di cui si servono tuttavia i Samaritani, l’ultima lettera T è la figura della Croce.» S. Paolino: « Nostro Signore senza il soccorso d’innumerevoli ed animose legioni, ma col misterioso istrumento della Croce, la cui figura è rappresentata dalla greca lettera T, e che è la cifra del numero trecento, ha trionfato delle potenze nemiche.» La testimonianza di questi antichi Padri ci sembra su questo punto preferibile al sentimento di molti altri non meno rispettabili. Tali sono s. Giustino, s. Ireneo, s. Agostino, che parteggiano per la surriferita croce immissa. Or ecco le nostre ragioni. Fin nei più minuti particolari della sua passione Nostro Signore effettuava tutte le figure e le profezie. E sol quando ei l’ebbe effettuate tutte, disse: « Tutto è consumato. » Ora la croce commissa realizza alla lettera due grandi figure profetiche. Nelle parole da noi citate, Tertulliano fa allusione al passo di Ezechiele, nel quale il Signore comanda di segnare con la lettera T la fronte di coloro, che dovevano essere preservati dallo sterminio. « Ed il Signore gli disse: va’ per mezzo alla città, per mezzo a Gerusalemme, e segna un Tau sulle fronti degli uomini, che gemono e sono afflitti per tutte le abominazioni che si fanno in mezzo ad essa » Il Tau è la figura materiale e misteriosa della Croce. Impresso sulla fronte degli abitanti di Gerusalemme, li scampava dalla morte temporale; e impresso sulla fronte dei Cristiani il Tau reale li salva dalla morte eterna. Or ecco un altro mistero. Nella numerazione greca ed ebraica la lettera T conta per trecento. E con trecento soldati Gedeone trionfò del grande esercito dei Madianiti. Era di notte e ciascun soldato portava una fiaccola in un vaso di terra, Al concertato segnale son rotti tutti quei vasi, le faci risplendono, suona la tromba: e il terrore invade il nemico esercito, che in gran disordine si dà scompigliato alla fuga. In mezzo alle tenebre del Calvario, il velo dell’umanità, che copre la divinità di Nostro Signore, è lacerato dalle torture della croce; la divinità si manifesta coi miracoli, e col Tau misterioso, che vale trecento, il vero Gedeone mette in fuga le infernali potenze. La tradizione sulla verace forma della croce si è perpetuata in una particolarità conosciuta da pochi. Negli antichi Messali, il T col quale incomincia il Canone, Te igitur clementissime Pater, è accompagnato da una croce dipinta sopra quella medesima lettera. Ond’è che la figura e la realtà si trovano insieme confuse. Le moderne edizioni pongono in luogo della croce un incisione che rappresenta Nostro Signore in croce e posta sempre al principio del Canone. Assai prima di noi, fece quest’osservazione di dotto Pamelio. Tuttavia alcuni Padri, come già notammo, danno alla Croce di Nostro Signore la forma più conosciuta fra noi. Il Papa Innocenzo III parlando al IV Concilio di Laterano, pare aver risoluta la questione dicendo: « Il Tau è l’ultima lettera dell’alfabeto Ebraico. Essa è la precisa figura della Croce, quale era prima che Pilato vi collocasse in cima il nome e il titolo del Crocifisso Signore. » – Non meno chiaramente si esprime lo storico Niceforo. « Allorché fu ritrovata la S. Croce, se ne rinvennero tre separate, più una bianca tabella sulla quale Pilato aveva fatto scrivere in più lingue, Gesù re de’ Giudei Questa tabella, situata sul capo di Nostro Signore si elevava in forma di colonna, e dichiarava che il Crocifisso era il re dei Giudei. » Infine l’autore della Glossa dice nei termini più precisi: « L’iscrizione che sormontava la Croce ne formava il quarto braccio. » [« Tabulam supra crucem loco quarti brachii fuisse. » In Clement., De smma Trinit.]. – Ciò posto, conchiude il Sandini, l’accordo è presto fatto. I Padri che danno alla croce dei condannati dei Calvario la forma del Tau, fanno astrazione dalla soprapposta tabella. Coloro che le danno non tre, ma quattro estremità, tengono conto dell’aggiunta iscrizione, e parlano indistintamente dell’una e dell’altra. La Croce è il mistero dei misteri,, il trofeo del figlio di Dio., lo strumento benedetto della nostra Redenzione, il segno pieno di terrore per gli uni, di speranza per gli altri, che precederà il supremo Giudice, quando nell’ultimo giorno del mondo discenderà dal Cielo per retribuire a ciascuno secondo le opere sue, al cospetto di tutte le nazioni radunate. E chi potrebbe trovar lunghi e fastidiosi i più minuti particolari presi ad esame per farla conoscere quale fu già vista nel mondo, e quale allora si rivedrà?

CAPITOLO XI.

I DOLORI.

I condannati fissati alla croce non con le corde, ma con i chiodi. — Passi di Artemidoro, di S. Agostino, di S. G. Grisostomo, di Molano, di Giusto Lipsio. — Numero dei chiodi. — Testimonianze di Innocenzio III, di Luca di Tuy, di Gregorio di Tours, di Baronio e di altri. — Torture di quei che erano crocifissi. — Il suppedaneum . — Altezza delle croci. — I condannati si crocifiggevano ignudi. — Ignominia e dolori del supplizio della croce. — Bestemmie dei ladroni.

Noi lasciammo i tre condannati gettati per terra e stesi sulle loro croci. I carnefici incominciano la loro barbara operazione. Udite i colpi di martello che risuonano sui chiodi del patibolo. Infatti con dei chiodi, e non già con delle corde, come vorrebbero far credere taluni dipinti, i crocifìssi erano appesi allo strumento del loro supplizio. Una tal usanza era generale. La croce, scrisse un’autore pagano, si compone essenzialmente di due cose, del legno e dei chiodi. » S. Agostino, esimio conoscitore delle antiche costumanze, si esprime in questi termini. « Gli infelici attaccati alla croce con dei chiodi, lungo tempo soffrivano. Le loro mani erano coi chiodi fissate al legno, e i loro piedi ne erano traforati. Il buon ladrone aveva il corpo trafitto dai chiodi, ma ne era intatta l’anima, e la sua intelligenza non era punto crocifìssa. » – Giovan Crisostomo afferma la medesima cosa. « E come, egli dice, non ammirare il buon Ladrone che traforato dai chiodi, conserva tutta la sua presenza di spirito? » Non altrimenti parlano tutti gli organi della tradizione, e solo a scanso di una soverchia prolissità, non ne alleghiamo i testi. L’uso dei chiodi nella crocifissione era a tal segno invariabile, che il dottissimo Gretzer conchiuse: « Non può comprendersi affissione in croce senza i chiodi. » E qual’era il numero dei chiodi? Fu esso il medesimo pei due ladroni, e per Nostro Signore? Non abbiamo ragione da dubitarne. Ora la tradizione degli antichi Padri ci assicura che il Figliuolo di Dio fu attaccato alla croce con quattro chiodi; due per le mani, e due per i piedi. Luca di Tuy, detto il Salomone della Spagna, riporta e chiosa il seguente passo d’Innocenzio III. « Quattro chiodi trafissero il Salvatore: ed aggiunge: questa è la testimonianza di quel gran Vicario di Dio, e dottore della Chiesa, di quel martello degli eretici, Innocenzio III. E quale testimonianza più di questa autorevole? Che di più vero di queste parole, discese dal trono di Dio, cioè a dire dalla Chiesa romana, per bocca del Padre di tutti i fedeli, il sommo Pontefice Innocenzio III? » Impertanto rappresentare Nostro Signore e i Ladroni affissi alla croce con soli tre chiodi è contrario alla tradizione più antica, ed anche alla ragione. Come mai con un sol chiodo trapassare i due piedi, soprapposti? Sembra questa un’operazione difficile anche per parte dei carnefici, mentre al contrario si vede esser facile con quattro chiodi. Posando in piano i piedi sul suppedaneo, poteano esser facilmente traforati e solidamente affissi con due chiodi appositi. Quei chiodi, dei quali Roma conserva un prezioso avanzo, eran di forma quadrata e lunghi circa cinque pollici, di una corrispondente grossezza e col capo a forma di fungo. Sospinti a gran colpi di martello, trapassavano da parte a parte le mani dei condannati. Le membrane, le vene, le fibre, le ossa, i muscoli e tutti i tessuti nervosi, sede della sensibilità, eran lacerati e rotti: il sangue ne usciva in copia, e provavansi dolori inesprimibili. Dalle mani si passava ai piedi, stesi sul suppedaneo sul quale posano, son essi come le mani traforati e confìtti alla croce. Le contorsioni e le grida delle vittime rallegrano o contristano gli spettatori. Abbiam nominato il suppedaneo; ci conviene dire che cosa fosse. Sospendere un corpo umano col semplice sostegno di quattro chiodi, due dei quali non traversavano che la palma delle mani, certamente non presentava una sufficiente solidità. Tratta dal grave peso del corpo la parte superiore delle mani poteva facilmente fendersi, e lasciar cadere il paziente. Nella previsione di un tal pericolo, la croce era munita di un legno, sul quale veniva a poggiare la pianta dei piedi. Negli antichi autori, un siffatto legno è chiamato sedile, suppedaneum, solistaticulum, ossia piccolo appoggio. Il Papa Innocenzio III ne parla così. « Quattro pezzi di legno composero la Croce del Signore; il tronco, la traversa, il suppedaneo, ed al vertice l’iscrizione. » Inchiodati sul loro letto di dolori, per non più discenderne, i condannati erano elevati da terra, affinché tutto il popolo potesse godere dello spettacolo del loro supplizio. La croce cadendo nello scavo preparato a riceverla, comunicava una violenta scossa a tutto il loro corpo, e fa fremere il solo pensare all’effetto di quel violento moto sulle membra piagate e lacerate. A rendere poi immobile nello scavo la croce, sostegni, chiodi posti con forza continuavano il doloroso movimento, fino a che saldo restasse il patibolo. E qual ne era l’altezza? Facemmo già osservare che l’altezza della croce variava secondo la dignità del condannato. Ciò nondimeno, la Croce di Nostro Signore non pare che fosse più elevata di quella dei due ladroni. S. Agostino dice che desse erano tutte tre simili, e sappiamo che vi fu necessità di un gran miracolo per poter riconoscere la vera croce dalle altre due. – Un’autorevole tradizione dà alla Croce del Salvatore quindici piedi di altezza, ed otto piedi di lunghezza al legno trasversale. Siffatte dimensioni nulla hanno d’inverosimile. Supponendo la croce profondata nello scavo per un piede e mezzo, il Capo di Nostro Signore, e quello dei suoi compagni doveva essere all’altezza di tredici piedi e mezzo da terra. Può ben credersi che fosse così, poiché per arrivare alla sacrosanta bocca del Signore allorché disse, Ho sete, bisognò porre la spugna sulla punta di una canna. Sia per l’impazienza che avevano i Giudei di soddisfare al loro cieco furore, sia per la tema che alcun miracolo non facesse loro sfuggir di mano l’augusta Vittima, sia finalmente per farlo ravvisare come il maggior colpevole dei tre condannati, Nostro Signore fu crocifisso il primo, e sulla cima più prominente del Calvario, mentre più in basso furono poste le croci dei due ladroni. V’è pur luogo a credere che i Giudei ed i soldati, ormai paghi e soddisfatti, non procederono che assai lentamente alla crocifissione degli altri due. Dopo che l’ebbero crocifisso, dice S. Matteo, si spartirono le sue vesti, tirando a sorte, e gli posero scritto sopra la sua testa il suo delitto: Questi è Gesù il Re dei Giudei. Allora furono crocifissi con lui i due ladroni, uno a destra e l’altro a sinistra. » Egli è probabile che avessero anch’essi il loro titolo scritto sul capo. Ma quel che par certo si è, che eglino al pari di Nostro Signore furono crocifissi ignudi. Tal era l’uso dell’antichità. La qual cosa ci vien confermata da questa facezia di cattivo gusto riferita da Artemidoro. « Essere crocifisso è un bene pel povero che vien sollevato da terra, ed è un male pel ricco ch’è crocifisso ignudo. » In quel momento piombò su di essi tale una piena di fisici e morali dolori, che il pensiero non giunge a formarsene un’idea. – « Fra tutti i generi di morte, dice S. Agostino, non ve ne ha uno più crudele della crocifissione. E ciò è sì vero che noi naturalmente chiamiamo croci i dolori e gli affanni giunti al più alto grado d’intensità. Pendenti dal legno del supplizio, avendo mani e piedi trafitti dai chiodi, i crocifissi morivano lentamente. Crocifiggere uno non era ucciderlo, poiché vivevasi lungamente su quel patibolo. Non per prolungare la vita sceglievasi quel genere di supplizio, ma sì per ritardare la morte, affinché non troppo presto finisse il dolore. » Il dolore pare al contrario che presto dovesse avere fine per il mancar della vita. Come mai poteva il crocifisso lungamente conservarla? Tutto in lui soffriva, e soffriva mortalmente: sospeso a quattro chiodi, immoto o scosso che fosse, il suo corpo provava dolori acutissimi che andavano al cuore. Violenti spasimi contraevano i muscoli, e l’irritamento nervoso straziava le viscere. La continua perdita del sangue, rendendo ognor più deboli le membra, faceale più sensibili allo spasimo. A sì fiera tortura si aggiungeva un’ardentissima sete cagionata dagli ardori della febbre. Trovarsi in siffatto stato, con innanzi agli occhi la m orte, ed attenderla per lunghe ore tra le imprecazioni e gli scherni di tutto un popolo, senza incontrare uno sguardo compassionevole, senza trovare in se stesso un consolante pensiero, è facile immaginare qual dovesse essere la disperazione del reo impenitente attaccato alla croce, e farsi una ragione delle sue bestemmie. Non sapendo con chi prendersela, Dima e il suo compagno si volgono a Nostro Signore. Veggono essi loro ai fianchi quel personaggio sconosciuto, la cui inalterabile calma ed il silenzio fan vivo contrasto con le loro imprecazioni e le convulsive loro agitazioni. Hanno inteso dire ch’Egli fosse il Figlio di Dio; il suo titolo porta scritto Re dei Giudei; intorno a lui si vedono persone che gli sono di gran cuore devote, e se fra le turbe accorse molti lo insultano, molti ancora lo piangono. Allora, per un sentimento che l’eccesso del dolore spiega, ma non giustifica, gli rinfacciano le loro torture, e lo svillaneggiano. Conviciabantur ei [Mc.XV, 32] « Se tu sei il Cristo, salva te stesso, e noi : » Si tu es Christus, salva temetipsim et nos [Luc., XXIII, 39.]. E ripetono contro l’innocente Vittima tutti gl’insulti dei Sacerdoti e gli oltraggi dei Seniori del popolo. Idipsum autem et latrones, qui crucifixi erant cum eo, improperabant ei – [Matth., XXVII, 44.] – Ed è egli vero che ambedue i ladroni si facessero l’eco delle bestemmie lanciate dai Giudei contro Nostro Signore? S. Luca dice: « Uno dei ladroni pendenti lo bestemmiava dicendo: Se tu sei il Cristo salva te stesso e noi [« Unus autem de his qui pendebant latronibus blasphemahat eum dicens: Si tu es Christus, salva temetipsum et nos. » – Luc., XXIII, 39.]. – Fondati su questo testo, parecchi Padri. han preteso che solo il cattivo ladrone avesse così bestemmiato; ma il maggior numero è di sentimento contrario. Si appoggiano questi sull’autorità di S. Matteo e di S. Marco, che positivamente incolpano del medesimo peccato tutti e due i ladroni. Poco sopra abbiamo riportate le loro parole. Alcuni dotti commentatori tolgono di mezzo la difficoltà, cc Può dirsi, così scrive il Cardinale Ugone, ed è ciò anche più conforme alla verità, che in sulle prime il Buon Ladrone bestemmiasse egli pure come il malvagio, ma che si rimanesse quando il Signore nella sua misericordia si degnò v visitarlo » – Un altro interprete, non meno autorevole, Tito vescovo di Bosra nel quarto secolo ci dà la medesima spiegazione. « Perché, egli chiede, S. Matteo e S. Marco ci assicurano che i due ladroni insultavano Nostro Signore, mentre S. Luca non ne incolpa che un solo? Sul principio entrambi i ladroni bestemmiavano il Signore al pari dei giudei. Eglino per avventura il facevano per gratificarsi il popolo bestemmiatore, ed ottenerne grazia, o almeno un qualche sollievo nelle loro angosce; ma vedendosi delusi nelle loro speranze, uno dei due sipentì, ed ammonì gravemente il Compagno a far senno. » – Checché ne sia, se il Buon Ladrone bestemmiò, la sua conversione è tanto più ammirabile; e noi ci facciamo a narrarla. È tempo ch’essa venga a confortare l’anima contristata dallo spettacolo che fin qui avemmo innanzi agli occhi.