UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI APOSTATI, “ERETICI ACEFALI” DI TORNO: “Il Trionfo” di Pio VII

I Papi in esilio


Pio VII
“Il trionfo”

Prima di leggere e gustare la breve enciclica di S. S. Pio VII, riportiamo una nota storica che di questa è l’antefatto. Ecco la vicenda di uno dei tanti Papi della storia della Chiesa ad essere esiliato ed impedito nelle sue funzioni Pontificali. Questo soprattutto a beneficio di tutti gli “acefali”, tesisti, sedevacantisti, finti-sedeplenisti o scismatici “cani sciolti”, che ritengono che un Papa impedito, che essi chiamano stoltamente “occulto”, non abbia “nota di Cattolicità”. C’è veramente da compiangere certi personaggi che si ritengono … udite, udite … canonisti, senza averne oltretutto alcun titolo! Sembrano piuttosto bambini imbecilli ed in mala fede che giocano al “piccolo teologo” eretico-scismatico. Consideriamo piuttosto le pene e le torture, spesso materiali, o quantomeno spirituali, che questi valorosi Nocchieri della “barca di Pietro” hanno dovuto sopportare per condurre in porto il loro divino Mandato e la “barca” loro affidata tra flutti e tempeste di ogni tipo, e lasciamo che gli “acefali” coltivino i loro deliri fanta-teologici. – “Il trionfo” è scritta in italiano dal legittimo Papa, che trionfante torna ad occupare il Soglio che gli compete; da questa enciclica, noi Cattolici “pausillus grex”, possiamo trarre fiducia che una analoga situazione si ripeta presto, quando i fasulli impostori, i clown-marrani, verranno bruciati dal soffio della bocca di Cristo: … et non prævalebunt!  

Il Papa prigioniero di Napoleone.

[C. Castiglioni: Storia dei Papi, 2^ ediz. vol. II; Torino, 1957- imprim.-]

Pio VII e Napoleone, i due uomini più opposti di carattere, di genio, d’indole, di costumi e di sentimenti, l’agnello e il leone, si trovarono di fronte una seconda volta sul territorio francese. La prima volta il pontefice era accorso in Francia a consacrare l’autorità, la seconda vi fu trascinato vittima di quella autorità che egli stesso aveva consacrata. Il 27 maggio 1809 da Vienna, ove era entrato trionfatore per la seconda volta, Bonaparte, per punire il Pontefice, che non aveva voluto chiudere il porto di Civitavecchia alle navi inglesi ed assecondare in tutto e per tutto le voglie imperiali, con un semplice decreto annetteva all’Impero francese lo Stato pontificio; dichiarava Roma città imperiale e libera, assegnata per residenza al Papa come capo della Chiesa, con la dote annua di due milioni e l’immunità dei Palazzi Apostolici. Mascherava poi l’usurpazione con ragioni storiche e religiose abbastanza speciose. Carlo Magno aveva concesso ai vescovi di Roma quei territori in feudo, perciò Roma e il suo Stato non avevano mai cessato di appartenere all’imperatore francese; il successore di Carlo Magno non faceva che richiamare in vigore i suoi diritti, revocando le donazioni feudali di Pipino e di Carlo. D’altra parte l’unione dell’autorità spirituale e temporale nella stessa persona non poteva essere che sorgente di disordini. Protestò energicamente il pontefice contro il generale Miollis, incaricato dell’esecuzione dell’ordine imperiale, e fece affiggere alle porte delle basiliche la bolla di scomunica (10 giugno), stesa dal padre barnabita Francesco Fontana, contro gli spogliatori della Santa Sede. In Roma serpeggiava grave malcontento contro i Francesi, e il Miollis, temendo un’aperta rivolta, interpretando il pensiero del suo imperatore, ordinò al generale Radet di impadronirsi della persona del Pontefice e del suo segretario, il cardinale Pacca. La notte dal 5 al 6 luglio si diede l’assalto al palazzo del Quirinale, dove viveva ritirato il pontefice, dacché la città era stata occupata militarmente dai Francesi, il 2 febbraio 1808. Scalato il muro del giardino e aperto il portone dall’interno, Radet fece irruzione. Di appartamento in appartamento, abbattendo le porte a colpi di scure, penetrò fino alla camera, ove il Pontefice, in fretta e furia alzatosi da letto, attendeva coi suoi familiari. – La Guardia svizzera, composta di quaranta uomini, s’era schierata nell’anticamera: alla intimazione di resa depose le armi, giacché così aveva ordinato il Pontefice per evitare spargimento di sangue. Il Santo Padre stava ritto nel mezzo della stanza coi cardinali Pacca e Despuig, l’uno alla destra, l’altro alla sinistra; i familiari e i prelati facevano ala. Entra il Radet, che si pone a fronte del pontefice, mentre gli ufficiali gli si allineano ai lati. Momenti solenni di silenzio; i due gruppi di persone si guardano immobili, attoniti. Finalmente il generale, pallido in volto, con voce tremante, annunciava gli ordini di cui egli si diceva esecutore irresponsabile. Il Papa, senza scomporsi, dignitoso e fermo, rispose: « Se ella ha creduto di dover eseguire tali ordini dell’imperatore pel giuramento fattogli di fedeltà e d’obbedienza, s’immagini in qual modo dobbiamo sostenere i diritti della Santa Sede, alla quale siamo legati con tanti giuramenti ». « In questo caso — concluse il generale — io ho l’ordine di condurvi fuori di Roma ». Il Papa, senza prendere altra cosa che il breviario, col cardinale Bartolomeo Pacca si avanza verso la porta. In istrada stava pronta una vettura, sulla quale sono fatti montare. Gli sportelli si chiudono a chiave; Radet balza in serpe col postiglione e via verso Porta Salaria, scortati da gendarmi. Albeggiava appena: alle finestre delle case vicine, che si aprivano all’insolito trambusto, s’intimava dai militi la chiusura irnmediata. – Fuori porta erano pronti i cavalli di posta, e si prese l a via di Toscana. – Il Sovrano di Roma e il suo primo ministro intraprendevano il loro viaggio veramente all’apostolica: non portavano seco non peram in via, neque duas tunicas (Matt. X, 10). In tasca tra tutti e due non contavano che 35 baiocchi! Pio VII aveva già superati i 67 anni, ed era molto sofferente in salute: ma lungo la via dolorosa dell’esilio si consolava pensando al Martire del Golgota: «Noi stiamo bene. Nostro Signore ha sofferto più di quello che noi soffriamo ». La triste notizia del rapimento del Pontefice precorreva lo stesso Rad: le popolazioni si commovevano, e il generale accelerava il viaggio oltre il ragionevole. Dopo Poggibonsi la vettura ribaltò spezzando una ruota; il generale veniva balzato in un pantano, il Papa e il Cardinale sballottati entro la cassa chiusa e rovesciata. Il popolo accorso gemeva ed invocava: «Santo Padre! Santo Padre! »  Schiavato lo sportello, ne uscì il Pontefice, sollevato sulle braccia del popolo, che si affannava a baciargli le vesti e a chiederne la benedizione. Dalla Certosa di Firenze si ripartiva tosto alla volta di Francia: il Cardinale però, veniva separato e per altra via inoltrato in Piemonte. A Sarzana si prese i l mare per San Pier d’Arena; indi per Alessandria e Torino al Cenisio, sostando solo quando era necessario per serbare in vita l’augusto prigioniero. Gli strapazzi del viaggio causarono non pochi svenimenti al povero infermo, tanto che se ne risentì presso il colonnello Brissard, che aveva preso il posto di Radet: «Avete voi ordine di condurmi morto o vivo? Se il vostro ordine è di farmi morire, continuiamo il viaggio; se non è tale, voglio fermarmi ».All’Ospizio del Cenisio sosta di due giorni. Il Pacca raggiunse il Santo Padre e si accompagnò di nuovo con lui fino a Grenoble. Quivi nuova e definitiva separazione, poiché il Cardinale fu tradotto prigioniero nella fortezza di Finestrelle, ove rimase con altri personaggi fino al 5 febbraio 1815. Il Santo Padre per Valenza, Avignone, Nizza, raggiungeva Savona, sempre « fra le persecuzioni della terra e le consolazioni del cielo ».Il giorno del rapimento del Pontefice fu quello della vittoria di Wagram, dopo la quale l’imperatore dettava la pace nel castello di Schönbrunn il 14 ottobre (1809), e di essa approfittava per trattare la questione religiosa. In verità Napoleone cominciava a tremare nell’animo suo: l’inerme prigioniero di Savona gli faceva paura più di un esercito in assetto di guerra. L’uomo straordinario, che reggeva l’Impero con lo scettro di ferro, conservava in fondo all’animo un briciolo di fede: l’animo suo era un groviglio di misteri; aveva un doppio carattere: era l’Attila e il Carlo Magno dell’età moderna; il persecutore e il sostegno del popolo di Dio, il cieco strumento della giustizia divina. – Ritornato a Fontainebleau, Napoleone volle che gli si compilasse l’elenco di tutte le scomuniche pronunciate dalla Santa Sede, incominciando dai tempi più remoti, contro i sovrani. L’elenco, per quanto incompleto ne enumerava 85 a partire dal 398, e accortamente ometteva l’ultima del 10 giugno 1809. Napoleone faceva tuttavia dello spirito, e parlando col cardinale Caprara sorrideva della scomunica papale, che non « faceva cader le armi dalle mani dei suoi soldati! ». Era il gesto di sfida di Capanèo contro il Cielo! Ma sulle gelide steppe di Russia, racconta il conte di SÉGUR, che ne fu testimonio, « le armi dei soldati parvero insopportabile peso alle loro braccia assiderate. Nelle loro frequenti cadute sfuggivano ad essi dalle mani, infrangevansi e perdevansi nella neve. Se si rialzavano, se ne trovavano privi, poiché non le gettavano, ma venivano loro strappate dalla fame e dal freddo ». – Il superbo imperatore voleva indurre il Pontefice a porre la sua residenza a Parigi per averlo a sua discrezione, come puntello alla sua tirannia e come strumento del suo dominio. Le lusinghe imperiali a nulla approdavano sull’animo dell’intrepido vegliardo. Per ridurlo ai suoi voleri il persecutore allontanò dal pontefice tutti i prelati a lui non ligi; gli fece sequestrare tutta la corrispondenza e togliere persino penna e calamaio. Il Papa sopportò con eroica fermezza quelle vessazioni. « Io voglio — diceva — deporre le minacce ai piedi del Crocifisso e lasciare a Dio il vendicare la mia causa, perché è tutta sua ». L’imperatore decise quindi di convocare a Parigi un concilio nazionale. Ma i 95 tra vescovi e cardinali intervenuti, non ostante le mene del clero cortigiano, si dichiararono incompetenti a supplire alle bolle pontificie, per cui Bonaparte, montato sulle furie, li disperse il 6 ottobre 1811, dopo tre mesi di vane discussioni. – La stella imperiale precipitava verso l’occaso. L’armata delle 20 nazioni mare: nelle pianure della Russia misteriosa. Perchè l’Inghilterra non tentasse nel frattempo un colpo di mano in favore del Pontefice, Napoleone, partendo con la Grande Armata ordinava il trasferimento del prigioniero a Fontainebleau. Nuova andata al Calvario. – Nel rivalicare il Cenisio il Pontefice patì tanto che giunse agli estremi di vita. I buoni religiosi dell’Ospizio dovettero amministrargli gli ultimi Sacramenti. Ma non era ancora la fine: altre lotte ed altri trionfi l’attendevano. Secondo le disposizioni imperiali, il pontefice a Fontainebleau non poteva essere avvicinato che da prelati francesi devoti al despota, i quali lavoravano per piegare l’animo di Pio VII or con le lusinghe or con le minacce di uno scisma. Scorsi appena, cinque mesi dacché il Santo Padre soggiornava a Fontainebleau, Napoleone tornava inatteso a Parigi dalla disastrosa campagna di Russia. In quelle strettezze estreme la riconciliazione col Pontefice poteva molto conferire alla fortuna dello sconquassato trono imperiale. – La sera del 19 gennaio 1813 Napoleone, con la seconda imperatrice Maria Luigia, recavasi improvvisamente a Fontainebleau. Si presentava al Papa, e con grande effusione l’abbracciò e lo baciò in volto. Pio VII ne fu profondamente commosso, e quella commozione seppe sfruttare Napoleone per indurlo a firmare i preliminari di un nuovo concordato. Per riuscire nell’intento ricorse anche ad intimidazioni ed a villanie; si disse anzi che in un eccesso di collera Napoleone acciuffasse il Papa pei capelli. Pio VII però smentì recisamente quella diceria. Appena ebbe carpita la firma (25 gennaio), l’imperatore s’affrettò a pubblicare il nuovo concordato, prima che i cardinali potessero abboccarsi con l’ingannato Pontefice. E per gettare polvere negli occhi del popolo, mise in libertà 13 cardinali, che trovavansi a domicilio coatto, e permise ai medesimi di visitare il Pontefice. Profonda mestizia prese l’animo della povera vittima, appena si accorse di aver troppo accondisceso: lo presero gli scrupoli e per parecchi giorni si astenne persino dal celebrare la Santa Messa. – L’energia e la prudenza del cardinale Pacca valsero alfine a rimettere la pace in quel cuore angustiato, giacché si poteva ancora rimediare. Anche Pasquale II aveva concesso il diritto d’investitura episcopale all’imperatore Enrico V, che, impadronitosi della sua persona, con tratti di corda l’aveva costretto a sottoscrivere! Ma appena libero Pasquale II, nel Concilio di Laterano, aveva annullato le fatte concessioni (1111). – Altrettanto faceva Pio VII con la celebre lettera del 14 marzo (1813) a Napoleone. E la volle scrivere tutta di proprio pugno per non esporre altra persona alla collera imperiale. In previsione di un simile gesto, il Pontefice era sorvegliato di continuo, e quando usciva di camera per andare a celebrare, si frugava nelle sue carte. Impiegò vari giorni a stendere quel documento, perché non poteva, per l’infermità fisica, scrivere a lungo. Scriveva alla presenza del Pacca e del Consalvi: i quali, accomiatandosi dopo l’udienza quotidiana, trafugavano il foglio che la notte era custodito dal Cardinale Pignatelli, e al mattino veniva di nuovo riportato al Pontefice, perché proseguisse a vergarlo. – I cortigiani sollecitarono l’imperatore a romperla definitivamente col Papato, proclamandosi capo della religione, come aveva già fatto Enrico VIII in Inghilterra; ma l’ardire di Napoleone non giunse a tanto. Inviò egli messi d’ogni sorta al Pontefice, esaurì tutti i ripieghi per fargli mutare proposito: tutto fu vano. Le vicende militari intanto volgevano di male in peggio: il 16 ottobre sui campi di Lipsia, con la battaglia dei popoli, gli oppressi di tutta Europa scuotevano il giogo e lo infrangevano. Percosso dalla giustizia di Dio, il tiranno riconobbe d’aver abusato troppo della sua potenza e che il prigioniero di Fontainebleau attirava sopra di lui i fulmini del cielo. Il 23 gennaio 1814 inaspettatamente arrivava l’ordine di liberazione di Pio VII. – Commenta CHATEAUBRIAND: « La mano che gli aveva messo le catene si vide obbligata a rompere i ceppi che gli aveva posto. La Provvidenza aveva invertite le fortune, e il vento, che soffiava contrario a Napoleone, spingeva gli Alleati a Parigi » (Mem. d’Outretombe, pag. 272). – A Napoleone i suoi satelliti, coi loro tradimenti, strappavano l a corona dal capo: Pio VII la riaveva dal suo carceriere. L e armi e gli eserciti non bastano a Napoleone per assicurarsi l’Impero, e Pio VII lo riacquista con la mansuetudine e la dolcezza; i popoli esasperati maledicono al mostro sanguinario, al gigante Golia abbattuto, e si prostrano ai piedi dell’innocente Davide. – La mattina del 20 aprile (1814) Napoleone, con lo strazio nel cuore, con le lacrime agli occhi, salutava la Guardia Imperiale nel castello di Fontainebleau, baciava l’aquila che aveva volteggiato sinistra e vittoriosa su tutti i campi d’Europa, e si avviava verso l’isola d’Elba, ove era deportato, il 4 maggio, da una nave inglese. – Venti giorni dopo, Pio VII era accolto trionfalmente in Roma, fra le lacrime di giubilo del popolo fedele; e sotto il manto paterno di Pio VII trovavano asilo sicuro la madre di Napoleone e gli altri membri della dispersa famiglia imperiale. – Sul trono di Francia venivano restaurati i Borboni. Il Pontefice da Roma inviava a Parigi il celebre Canova per trattare la restituzione dei cimeli preziosi e delle opere d’arte, che i rivoluzionari avevano requisito negli Stati pontifici. L’impresa non era ancora facile e per agevolarla il Pontefice dovette far dono alla Francia di non pochi capolavori. – Durante l’ultima raffica della bufera napoleonica, i Cento giorni, Pio VII lasciava Roma per portarsi a Genova, ove re Vittorio Emanuele I lo circondò di ogni cura. – Rientrava in Roma definitivamente il 7 giugno 1815, ed inviava il Consalvi al Congresso di Vienna a reclamare dalle Potenze la restituzione dei suoi Stati. L’Austria si riteneva tuttavia la parte del Ferrarese, posta sulla sinistra del Po, col diritto di presidiare Ferrara e Comacchio, onde il Consalvi si rifiutò di sottoscrivere l’Atto finale del Congresso del 9 giugno 1815. Il Pontefice non volle neppure aderire al famoso trattato della Santa Alleanza, varato da Alessandro I di Russia, da Federico Guglielmo III di Prussia e da Francesco I d’Austria, perché, a parte le buone intenzioni dei tre firmatari, era basato su d’un cristianesimo interconfessionale, che la Chiesa Cattolica non poteva accettare. – L a Santa Alleanza fu dagli uni schernita e vilipesa come lo strumento di schiavitù dei popoli; e dagli altri esaltata come la panacea politico-sociale-religiosa per tutti i mali prodotti dalla Rivoluzione francese. Nella realtà e gli uni e gli altri esagerarono nei loro apprezzamenti. – Negli ultimi anni di pontificato Pio VII, sempre con l’assistenza del Consalvi, attese alla restaurazione religiosa e civile dei suoi Stati. Furono ristabilite le Congregazioni religiose, a cominciare dai Gesuiti; furono promulgati nuovi codici, abolita la leva militare obbligatoria, ma furono anche conservate molte delle istituzioni francesi, che apparivano buone e rispondenti ai bisogni dei tempi mutati. Nel programma di restaurazione il Consalvi non si accordava completamente col delegato apostolico Agostino Rivarola, il quale voleva ristabilire gli antichi ordinamenti nella loro integrità. – I movimenti rivoluzionari del 1820 – 21, che ebbero grande sviluppo nella Spagna, nel Napoletano, in Piemonte e nella Lombardia, non scoppiarono affatto nello Stato pontificio, per quanto quivi pure fosse molto attiva la propaganda della Carboneria. Contro di questa associazione segreta e contro tutte le altre sètte religioso-politiche Pio VII pubblicava una bolla di condanna il 21 settembre. – Il Thorwaldsen, sul monumento funerario in S. Pietro, rappresentò Pio VII in mezzo a due figure allegoriche: la fortezza e la moderazione, le virtù che ne caratterizzano il Pontificato.

Pio VII
“Il trionfo”

1. Il trionfo della misericordia Divina è ormai compiuto su di Noi. Strappati con violenza inaudita dalla Nostra Sede pacifica, dal seno dei Nostri amatissimi sudditi, e trascinati dall’una all’altra contrada, siamo stati condannati e forzati a gemere per quasi cinque anni. Noi abbiamo versato nella Nostra prigionia lacrime di dolore innanzitutto per la Chiesa, affidata alla Nostra cura, perché ne conoscevamo i bisogni, senza poterle apprestare un soccorso, poi per i popoli a Noi soggetti, perché il grido delle loro tribolazioni giungeva fino a Noi, senza che fosse in Nostro potere di arrecare loro un conforto. Temperava però l’affanno acerbissimo del Nostro cuore la viva fiducia che, placato finalmente il pietosissimo Iddio giustamente irritato dai Nostri peccati, avrebbe alzato l’onnipotente sua destra per infrangere l’arco nemico, e spezzare le catene che cingevano il Vicario suo sulla terra. La Nostra fiducia non è stata delusa. L’umana alterigia, che stoltamente pretese di uguagliarsi all’Altissimo, è stata umiliata, e la Nostra liberazione, cui anche miravano gli sforzi generosi dell’augusta Alleanza, è giunta per prodigio inaspettato. Debitori a quella mano onnipotente che stringe le sorti dell’uomo, non Ci stancheremo giammai di benedirla e di cantare le sue glorie.

2. Noi non abbiamo trascurato di consacrare le primizie della Nostra libertà al bene della Chiesa, la quale, costando al suo divino Fondatore il prezzo di tutto il Suo Sangue, deve essere l’oggetto primario delle Nostre apostoliche sollecitudini. Avremmo a tal fine desiderato di accelerare il Nostro ritorno alla Capitale, sia come Sede del Romano Pontefice, per ivi occuparci dei molti e gravi interessi della Religione Cattolica, sia come residenza della Nostra sovranità per ivi soddisfare quanto prima all’ardente brama che abbiamo di migliorare il destino dei buoni sudditi Nostri; ma plausibili ragioni Ce lo hanno finora impedito. Ci disponiamo peraltro ad eseguire ciò, ansiosi di stringerli al seno, come un tenero padre stringe con trasporto i suoi figli amorosi dopo un lungo ed amaro pellegrinaggio. Intanto facciamo precedere un Nostro delegato, il quale, in virtù di Nostro speciale chirografo riprenderà per Noi, e rispettivamente per la Santa Sede Apostolica, tanto in Roma quanto nelle province, col mezzo di altri subalterni delegati già prescelti da Noi, l’esercizio della Nostra sovranità temporale legata con vincoli tanto essenziali con la Nostra spirituale indipendente supremazia. Egli procederà di concerto con una Commissione di Stato da Noi nominata alla formazione di un governo interino, e darà tutte quelle disposizioni che potranno condurre, per quanto le circostanze lo permettano, alla felicità dei Nostri fedelissimi sudditi.

3. Se per un risultato delle decisioni militari non possiamo tornare ora all’esercizio della sovranità anche in tutte le altre antichissime terre possedute della Chiesa, non dubitiamo di tornarvi al più presto, affidati non meno alla inviolabilità dei Nostri sacri diritti (ai quali non intendiamo recare con questo atto il minimo pregiudizio) che alla luminosa giustizia degl’invitti Monarchi alleati, da parte dei quali abbiamo anzi ricevuto particolari consolanti assicurazioni.

4. Per debito del Nostro ministero di pace esortiamo tutti i sudditi Nostri a conservare gelosamente la tranquillità, la quale, d’altronde, è anche il voto prezioso del Nostro cuore. Se taluno ardisse turbarla sotto qualunque pretesto sarà irremissibilmente punito con tutto il rigore delle leggi. Noi dichiariamo ai Nostri popoli che, se vi sarà fra loro chi si sia reso colpevole di qualche traviamento, alla sola Nostra sovrana autorità appartiene il compito di esaminare se sussiste il reato, giudicare della qualità del medesimo, e proporzionargli la pena. Siano dunque ubbidienti i figli, come debbono essere: nessuno di loro osi arrogarsi sull’altro la patria potestà, perché sono tutti subordinati alle leggi e al volere del comune genitore. Nella fiducia che i buoni sudditi Nostri saranno per uniformarsi esattamente a queste sovrane paterne intenzioni, diamo loro con tutto l’affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Cesena questo dì 4 maggio 1814, anno quindicesimo del Nostro Pontificato.