DOMENICA XIV dopo PENTECOSTE

 

Introitus
Ps LXXXIII:10-11.
Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice in fáciem Christi tui: quia mélior est dies una in átriis tuis super mília. [Sei il nostro scudo, o Dio, guarda e rimira il tuo Consacrato: poiché un giorno passato nel tuo luogo santo vale più di mille altri].
Ps LXXXIII:2-3
V. Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit, et déficit ánima mea in átria Dómini. O Dio degli eserciti, quanto amabili sono le tue dimore! l’ànima mia anela e spàsima verso gli atrii del Signore.

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice in fáciem Christi tui: quia mélior est dies una in átriis tuis super mília. [Sei il nostro scudo, o Dio, guarda e rimira il tuo Consacrato: poiché un giorno passato nel tuo luogo santo vale più di mille altri].

Oratio

Orémus.
Custódi, Dómine, quǽsumus, Ecclésiam tuam propitiatióne perpétua: et quia sine te lábitur humána mortálitas; tuis semper auxíliis et abstrahátur a nóxiis et ad salutária dirigátur.
[O Signore, Te ne preghiamo, custodisci propizio costantemente la tua Chiesa, e poiché senza di Te viene meno l’umana debolezza, dal tuo continuo aiuto sia liberata da quanto le nuoce, e guidata verso quanto le giova a salvezza.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal V:16-24
Fratres: Spíritu ambuláte, et desidéria carnis non perficiétis. Caro enim concupíscit advérsus spíritum, spíritus autem advérsus carnem: hæc enim sibi ínvicem adversántur, ut non quæcúmque vultis, illa faciátis. Quod si spíritu ducímini, non estis sub lege. Manifésta sunt autem ópera carnis, quæ sunt fornicátio, immundítia, impudicítia, luxúria, idolórum sérvitus, venefícia, inimicítiæ, contentiónes, æmulatiónes, iræ, rixæ, dissensiónes, sectæ, invídiæ, homicídia, ebrietátes, comessatiónes, et his simília: quæ prædíco vobis, sicut prædíxi: quóniam, qui talia agunt, regnum Dei non consequántur. Fructus autem Spíritus est: cáritas, gáudium, pax, patiéntia, benígnitas, bónitas, longanímitas, mansuetúdo, fides, modéstia, continéntia, cástitas. Advérsus hujúsmodi non est lex. Qui autem sunt Christi, carnem suam crucifixérunt cum vítiis et concupiscéntiis.”

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV Omelia III .- Torino 1899]

Camminate secondo lo Spirito e non seguite la concupiscenza della carne; perché la carne appetisce contro lo Spirito e lo Spirito contro la carne, e queste cose sono ripugnanti l’una all’altra, affinché non facciate tutto ciò che volete. Che se siete guidati dallo Spirito, voi non siete sotto la legge. Ora le opere della carne sono manifeste; queste sono adulterio, fornicazione, immondezza, dissoluzione, idolatria, avvelenamenti, inimicizie, contese, gelosie, ire, risse, dissensioni, sette, invidie, omicidi, ubriachezze e cose a queste somiglianti; delle quali cose vi predico, come ho già predetto, che coloro che le fanno non possederanno il regno di Dio. Ma il frutto dello Spirito è carità, allegrezza, pace, pazienza, benignità, bontà, fede, mansuetudine, continenza. Contro a queste cose non vi è legge. Ora coloro che appartengono a Cristo han crocifìsso la carne cogli affetti e con le “concupiscenze”„ (Ai Galati, V, 16-24).

Queste sentenze dell’Apostolo si trovano nel capo quinto della sua lettera ai Galati, e appartengono, come dissi altrove, alla terza parte della medesima, la quale versa tutta nella morale; ed è cosa sì manifesta, che ciascuno di voi, in solo udirla, se ne sarà accorto. Il tratto che dobbiamo spiegare si divide in due parti differentissime: nella prima S. Paolo in una rapida enumerazione delle opere della carne, cioè dei peccati che dobbiamo fuggire ed abominare; nella seconda, che ne è l’antitesi, accenna i frutti e le opere dello Spirito, ossia le virtù che dobbiamo esercitare. L’esortazione dell’Apostolo non presenta difficoltà alcuna ed è eminentemente pratica, ed io non farò che amplificarla alquanto, affinché ciascuno di noi più facilmente la venga applicando a se stesso. – Come apprendiamo dalla prima parte della lettera, la Chiesa di Galazia era fieramente lacerata da discordie: chi diceva che per aver salute bisognava osservare tutte le prescrizioni sì gravi della legge mosaica, e nominatamente la circoncisione; chi affermava, e a ragione, che la legge mosaica nella sua parte cerimoniale era abolita da Cristo: quindi contese, ire, discordie, mormorazioni senza fine, tantoché S. Paolo grida loro: “Se voi continuate a mordervi e divorarvi gli uni gli altri, badate che vi struggerete tra voi „ (Capo V, vers. 15). E qui, o carissimi, non sarà superbia, né fuor di luogo una osservazione. Più spesso che non vorremmo siamo noi pure testimoni di dissidi, di lotte, di aperte discordie nella Chiesa: fedeli contro fedeli, fedeli contro parroci e Vescovi, parroci ed anche vescovi dissenzienti tra loro e contendenti sopra alcuni punti forse anche di dottrina. – E certamente doloroso questo spettacolo nella Chiesa: ma non è nuovo: lo vediamo nella Chiesa di Galazia stabilita da S. Paolo e lui vivente. Qual meraviglia che ciò avvenga anche in mezzo a noi? La fede e la grazia non sopprimono le debolezze della nostra intelligenza e volontà, né distruggono le nostre passioni; ci danno solo la forza di combatterle e vincerle. Come furono composte le discordie della Chiesa di Galazia? chi le troncò e vi ristabilì la pace? S. Paolo con la sua autorità di Apostolo. Facciasi altrettanto in mezzo a noi. Se l’autorità del parroco non basta, si ricorra al Vescovo; se quella del Vescovo non basta, si ricorra al Vescovo dei Vescovi, il Papa, o almeno si serbi nell’animo la volontà ferma e sincera di stare al suo giudizio se questo tarda a pronunziarsi, e in questa volontà ferma e sincera, si avrà il mezzo di conservare la pace. – Stando così le cose della Chiesa di Galazia, era naturale che l’Apostolo, volendo farvi alcun riparo, dovesse a quei fedeli inculcare la carità, l’amore scambievole, e perciò ricorda loro che tutta la legge di Cristo si assomma in una sola parola, ed è questa: “Ama il prossimo tuo come te stesso — Omnia lex in uno sermone impletur: Diliges proximum tuum sicut teipsum „ (vers. 14). Posto questo principio fondamentale della vita cristiana, S. Paolo lo viene svolgendo e mostra ciò che esso ripudia e condanna, e ciò che approva ed esige, e qui comincia il nostro commento. – Io vi dico: Camminate secondo lo Spirito e non seguite le concupiscenze della carne; ché la carne appetisce contro lo Spirito, e lo Spirito appetisce contro la carne, essendo se ripugnanti l’una all’altra, affinché non facciate tutto ciò che volete. „ In queste parole del grande Apostolo è compendiata tutta la storia della lotta che ogni uomo sente agitarsi nel fondo del suo cuore, e che manifestandosi al di fuori nelle varie sue forme, diventa lotta sociale. Carissimi! Entriamo in noi stessi, discendiamo nel santuario della nostra coscienza, scrutiamo tutte le pieghe del nostro spirito, ascoltiamo tutti i battiti del nostro cuore; dal dì che la luce della ragione spuntò sul cielo dell’anima nostra sino ad oggi, che vi troviamo noi? Sotto quali forze si svolge la nostra vita? In noi troviamo costantemente due forze, che si contendono il dominio del nostro cuore: guardando in alto, contemplando le cime del mio spirito e ascoltando il grido della mia coscienza, vedo e sento che la virtù è bella e santa cosa; apprezzo e stimo l’umiltà, la modestia, il disinteresse, la temperanza, la mansuetudine; ammiro la purezza, la pazienza, il perdono delle offese, la carità; mi sento compreso di venerazione e tentato d’inginocchiarmi dinanzi a questi angeli di carità che consumano la loro vita in mezzo agli orfanelli, ai derelitti, al capezzale dei poveri e dei morenti. Ma da un’altra parte il vizio, le passioni col loro lenocinio mi tirano a sé: amo grandeggiare, corro dietro alle vanità e alle ricchezze; cedo volentieri al solletico della gola e secondo l’intemperanza; lodo la sincerità e talvolta mentisco; mi irrito con chi mi offende, sono spinto alla vendetta e ne assaporo il piacere; accarezzo l’ozio e la mollezza e vorrei che tutto fosse immolato ai miei voleri. Ho qui dentro una tendenza, una forza indistruttibile che mi porta in alto, verso le altezze della virtù; sento qui dentro un grido, che senza posa mi incoraggia a guadagnarne le vette: e in pari tempo ho qui dentro una tendenza, una forza pur essa indistruttibile, che mi trascina in basso verso gli abissi del vizio; sento qui dentro un grido che mi chiama, mi invita, mi trae a gettarmi in braccio alle passioni ed a sbramare in esse le mie voglie; sono posto tra la virtù ed il vizio, tra il bene ed il male: sono come una nave combattuta da due venti impetuosi e contrari. In me si avvera la sentenza del poeta: “Vedo il bene e l’approvo, eppure mi appiglio al peggio. „ E ancor meglio la sentenza dell’Apostolo: “Sento nelle mie membra un’altra legge o forza che ripugna alla legge o forza della mia mente. „ Che è questo, o cari? D’onde questa lotta in me stesso? Forse vi sono in me due anime, l’una buona, l’altra cattiva? Ma io sento d’essere un solo, sempre quel desso, un solo io indivisibile: sento che le due forze operano sopra di me quasi esternamente, e che è in poter mio seguir l’una o l’altra: anzi sento che la forza che mi inclina al bene, che mi muove verso la virtù e mi invita ai suoi casti amplessi, risponde assai meglio alle mie aspirazioni più nobili, mi fa gustare gioie più pure, mi solleva in una atmosfera più serena e tranquilla, e sgorga quasi dalle viscere del mio essere; mentre quell’altra forza mi avvilisce ai miei occhi stessi, mi fa arrossire, mi agita e mette in tempesta il mio cuore. D’onde adunque, domando ancora una volta, d’onde questa lotta? D’onde queste due forze pugnanti tra loro nell’animo mio? Perché questo duello fra due nemici implacabili, del quale il mio cuore è sempre l’arena? La fede e la ragione congiuntamente ci danno la spiegazione di questo fatto sì doloroso. Esse ci insegnano che la parte inferiore della nostra natura, che è il corpo, tende per se stesso ai piaceri sensibili, che lo allettano e lo traggono a sé; che il corpo, attratto da questi piaceri sensibili, che rispondono alla sua natura, tira con sé più o meno l’anima, che sente nel corpo stesso; ci insegnano che il mondo esterno per mezzo del corpo fa subire all’anima le sue impressioni assai prima ch’essa sia capace di elevarsi al conoscimento delle eterne verità, e perciò il mondo esterno e sensibile esercita sull’anima un fascino, un’azione assai maggiore di quella che sopra di essa eserciti la verità stessa: il senso precede, e per molti anni, la ragione e lo sviluppo della fede, e perciò riesce più vivo. La fede poi ci insegna che l’uomo per sua colpa cadde dallo stato nobilissimo in cui Dio l’aveva creato, ed in lui si diminuì la signoria che aveva sopra di se stesso, e per conseguenza la parte inferiore ribellandosi, cominciò a molestare la superiore, e a far opera a trascinarla dietro a sé sulla via dei piaceri sensibili. Ora l’uomo, collocato tra queste due forze contrarie, che deve fare? A quale delle due deve cedere? Deve seguire le basse voglie della carne, o, combattendo virilmente queste, seguire la voce della coscienza, o, come scrive S. Paolo, lasciarsi guidare dallo Spirito? La fede e la ragione stessa ci fanno sentire il dovere di ubbidire alla voce della coscienza, di seguire lo spirito della grazia divina, e ciò come uomini e molto più come cristiani. Come uomini, guidati dal solo lume della ragione naturale, dobbiamo frenare le incomposte passioni che ci travagliano, e praticare quelle virtù naturali che alle forze della sola natura sono possibili e corrispondenti; come cristiani poi, rischiarati dal lume della fede ed avvalorati dalla grazia divina, dobbiamo poggiare ben più alto e modellarci sull’esemplare sovrano d’ogni perfezione, che è Gesù-Cristo. – Su dunque, o carissimi figliuoli! In questa lotta incessante e feroce tra lo spirito e la carne, tra la grazia e le passioni, costretti a scegliere il nostro partito, non stiamo in forse un solo istante: gettiamoci animosamente dalla parte dello spirito contro la carne, della grazia contro le passioni, della virtù contro il vizio, di Cristo contro il mondo. Qual gioia più pura, qual gloria più bella del signoreggiare la carne, rintuzzare le passioni, debellare il vizio, soggiogare il mondo e levarci sulle ali dello Spirito verso il cielo, farci belli della bellezza di Dio? È vero, talvolta questa carne che portiamo, aggrava l’anima e ci fa sentire ciò che non vorremmo sentire: “Ut non quæcumque vultis, illa faciatis”; ebbene, santamente vendichiamocene. Come? Col far sentire noi pure alla carne ed alle sue cupidigie ciò che anch’esse non vorrebbero sentire, cioè il freno della mortificazione, il rifiuto del nostro consenso. “Che se poi, cosi continua S. Paolo, siete guidati dallo Spirito, voi non siete sotto la legge. „ Che significa essa questa sentenza? Eccone il senso: “Se voi, o Galati, seguite i movimenti dello Spirito e ubbidite docilmente alle voci ed agli impulsi della grazia, che viene da Gesù, siete superiori alla legge mosaica, e avete quella forza che non potrete mai avere da quella”. Porse questa sentenza dell’Apostolo può ragionevolmente intendersi in altro senso, che è questo: Se voi vi lasciate condurre dallo Spirito, ossia dalla grazia di Gesù, vi affrancate dalla tirannia della legge della concupiscenza e spezzate il suo giogo; voi, così facendo, non sottostate a nessuna legge, siete veramente liberi, perché quel che fate, non lo fate per forza o per timore, ma perché lo volete voi stessi. Quando, o dilettissimi, sentiamo noi il peso d’una legge e gemiamo sotto di essa? Quando la consideriamo come cosa esterna, impostaci da altri e contraria al nostro volere e, se ci fosse possibile, la vorremmo respingere, anzi, distruggere; ma se la legge che ci è proposta, noi l’accettiamo, l’amiamo, la facciamo nostra, come se fosse opera della nostra volontà, allora non ne sentiamo il peso, la adempiamo con gioia, e lungi dal considerarla come contraria alla nostra libertà, la teniamo in conto di amica fedele, quasi come facente una cosa sola con noi stessi. Vi è un figliuolo, tutto amore e docilità verso il padre suo: questi impose al figlio una serie di opere che comportano molti e non lievi sacrifici: naturalmente al pensiero di questi sacrifici egli prova una viva ripugnanza: si sente spinto a sottrarsi a quel peso: ma egli ama il padre: pensa alla gioia che gli procura con l’ubbidienza pronta e generosa; pensa alla gioia purissima che n’avrà egli stesso, appagando il padre suo, e in un impeto di risoluzione magnanima esclama: Il volere del padre mio è mio, voglio ciò che egli vuole, checché avvenga. — Credete voi. o carissimi, che codesto figliuolo troverà grave l’opera da compire? Io non lo penso: penso per contrario che l’amore del padre facendo suo il volere di lui, allevierà ogni fatica, raddolcirà ogni pena, e quasi convertirà in piacere lo stesso dolore. Vedete certi uomini che si sottopongono volontariamente a durissime fatiche, ad aspri lavori e pericoli. Questi salgono sulle cime più alte delle Alpi, inerpicandosi sui ghiacci e sui burroni: quelli attraversano le sabbie ardenti del deserto: altri s’aprono la via tra montagne di ghiaccio, sotto il polo del nord in mezzo a stenti e pericoli infiniti: un drappello di giovani audaci snida dai loro covi i leoni e le tigri, e ne affronta il furore. Dite loro: Voi avrete sofferto! quali patimenti! quali terrori! Sorridendo vi risponderanno: Oh no! son cose che abbiamo voluto noi: come potevamo lagnarcene? Così è: ciò che vagliamo noi, sia quanto si voglia malagevole e doloroso per sé, torna facile e quasi giocondo a farsi, voi ne converrete. Che il volere di Dio diventi il nostro, e la via che dovremo percorrere sarà piana e spedita! E questo, credo io, ciò che voleva dire san Paolo nella sentenza citata: “Se siete guidati dallo Spirito di Dio, voi non siete sotto la legge — Sì Spiritu ducimini, non estis sub lege. „ Uniti a Dio, formando con la conformità al suo volere una cosa sola con Lui, come Lui siete liberi e non soggiacete che alla legge della vostra volontà, perché la vostra volontà è quella di Dio. La legge dello Spirito, ossia la volontà di Dio e la volontà nostra, sono due cose distinte e differenti: necessariamente la volontà nostra soggiace alla volontà di Dio, che si manifesta nella sua legge e ne sente il peso: ma se di queste due cose noi ne facciamo una sola, è chiaro che non vi è più né quella che sovrasta, né quella che soggiace: è una sola cosa e opera a suo agio e diventa legge a se stesso. Congiungi adunque, o cristiano, la tua alla volontà di Dio per forma che sia una sola, e non sarai sotto la legge, e piena sarà la tua libertà. – Procediamo, seguendo l’Apostolo. Dopo aver accennato alle due leggi, od alle due forze che combattono tra loro, che sono la carne da una parte, e lo Spirito o la grazia divina dall’altra, S. Paolo enumera le opere dell’una e dell’altra: dopo averci messi dinanzi questi due alberi, ce ne mostra i frutti, e come i due alberi sono di natura affatto contrari tra loro, cosi affatto differenti e contrari sono i frutti loro. Quali sono i frutti o le opere della carne, ossia della mala concupiscenza, che nella carne s’annida? Udite: “Le opere della carne sono palesi: le quali sono fornicazione, adulterio, impudicizia, dissolutezza. „ Fermiamoci qui Io mi guarderò bene dallo spiegare partitamente il valore di queste parole ad una ad una perché potrei offendere le vostre orecchie e dire cose che sconvengono al carattere di chi vi parla ed al luogo santo, in cui ci troviamo! – Ma se l’Apostolo, divinamente ispirato, le scrisse nella sua lettera, che senza dubbio dovevasi leggere nell’adunanza dei fedeli, non sarà interdetto a noi il ripeterle e dire quel tanto che è necessario e conveniente per mettervi in orrore le opere della carne, fine inteso e voluto dalla Chiesa che oggi ce le fa leggere nella santa Messa. – Primieramente piacciavi osservare che san Paolo, enumerando le opere della concupiscenza, mette in primo luogo i peccati turpi, le brutture del senso. E perché? Perché, credo io, sono questi i peccati più comuni e quelli che tirano in perdizione il maggior numero di anime. In secondo luogo ponete mente come il santo Dottore in quelle quattro parole abbia abbracciato le forme principali che la sozza passione può assumere e purtroppo assume. Che posso io dirvi, o carissimi? Io grido a tutti voi che mi ascoltate: “Fuggite fuggite, detestate, abbominate ogni incontinenza. Siete liberi dai vincoli del matrimonio? Serbate casto il vostro cuore e il vostro corpo, come il tempio del Signore. Siete legati dai vincoli santi del matrimonio? Serbatevi a vicenda la più inviolabile fedeltà, e ricordatevi che la si può ferire e calpestare anche col solo pensiero, col solo affetto e col solo desiderio, come insegna il Vangelo. Siate puri, siate casti, siate incontaminati, sempre, in ogni luogo, anche soli, anche quando nessun occhio umano vi può vedere, perché anche là sta aperto sopra di voi l’occhio di Dio”. Chi può intendere, dirò col Vangelo, intenda! – Dopo aver messo in prima linea i peccati dell’incontinenza, S. Paolo prosegue la enumerazione delle opere della carne, ossia della natura corrotta, e nomina l’idolatria, o servitù degli idoli: Idolorum servitus. Ai nostri giorni e nella nostra società non v’è bisogno alcuno di combattere e riprovare il culto degli idoli, ultimo degradamento al quale possa discendere l’umana ignoranza: questa vergogna del culto degli idoli è scomparsa in mezzo a noi, ma era comune allorché l’Apostolo scriveva la sua lettera. Egli la colloca tra le opere della carne, perché l’idolatria in sostanza è il culto dei sensi: per essa l’uomo spogliò Dio della sua natura spirituale ed invisibile; lo vestì di forme visibili e materiali, umane, e perfino bestiali, anzi brute e insensibili, e gettandosi ai piedi di queste opere delle sue mani, aventi occhi senza vedere, orecchi senza udire, lingua senza favellare, in un vero delirio di cecità e di ignoranza, esclamò: “Voi siete il mio Dio; io vi adoro. „ Tanto pervertimento di mente e di cuore a noi sembra incredibile: eppure non lo vediamo noi, sotto altra forma, quasi comune nella società nostra cristiana? L’avaro che altro fa se non adorare le sue ricchezze? Il superbo, il goloso e il dissoluto, non prestano essi culto, non offrono essi sacrifici (e quali!) alla propria ambizione, al cibo ed alla bevanda di cui sono ghiotti, e agli oggetti dei brutti loro amori? Aveva ben ragione il Poeta di gridare:

Fatto vi avete Dio d’oro e d’argento:

E che altro è da voi all’idolatre,

Se non ch’egli uno e voi n’orate cento?

(Dante, inferno, c. XIX, v. 112 e segg.)

– Fine dunque, fine ad ogni idolatria! Creati per conoscere, amare ed adorare Dio solo nostro Creatore, che è nei  cieli, non sia mai che facciamo oltraggio a Lui e a noi stessi, amando disordinatamente e quasi adorando le sue creature e spesso inferiori a noi. Dopo l’idolatria S. Paolo colloca tra le opere della carne ì veneficii od avvelenamenti. Trovando qui dopo l’idolatria ricordato dall’Apostolo il delitto orribile dell’avvelenamento veneficia, „ è forza il credere che fosse non raro. È cosa che riempie l’animo di spavento il pensare che nella società greco-romana dei tempi di S. Paolo, in mezzo al fascino delle ricchezze, delle lettere, delle arti, delle grandezze di quella civiltà, gli avvelenamenti, congiunti quasi sempre col tradimento, fossero pressoché comuni. Eppure la storia stessa profana l’attesta; né deve recarci meraviglia, sapendo troppo bene come la raffinatezza del lusso, delle arti, e le strabocchevoli ricchezze ingenerino i massimi corrompimenti del costume e spingano a delitti senza nome. Se i delitti di sangue, i suicidi e omicidi non sono infrequenti nella nostra società cristiana, che si dà vanto di civiltà matura, che vorrà essere stato della pagana? – S. Paolo continua nella trista enumerazione, e dice: ” Pur opere della carne sono ire, contese, gelosie, sdegni, risse, dissensioni, sètte, invidie, omicidi. „ Tutte le passioni che tormentano la povera nostra natura si riducono a due, a quella che dicesi concupiscibile ed all’altra, che chiamasi irascibile. Noi tutti senza eccezione, e sempre, desideriamo e procuriamo di acquistare ciò che ci diletta e ci giova, onori, ricchezze, piaceri e andate dicendo: ecco la passione concupiscibile; noi tutti egualmente respingiamo ed odiamo ciò che ci impedisce il possesso di questi beni o riputiamo beni: ecco la passione irascibile; con la prima tiriamo a noi il piacere, con la seconda respingiamo tutto ciò che ce lo contende. Anzi, se ragioneremo sottilmente, comprenderemo che le due passioni, concupiscibile ed irascibile, si riducono ad una sola, come insegna S. Tommaso, ed è l’amore. Noi amiamo e vogliamo il bene, anche quando ci appigliamo al male, perché lo apprendiamo sempre come bene. È  questo stesso amore che ci porta al bene, quello che ci fa odiare e combattere gli ostacoli che si frappongono al bene, onde l’odio  stesso è amore, amore del bene, che non vuole il suo contrario. – S. Paolo, nella prima parte or ora spiegata, enumera le opere della carne spettanti alla passione concupiscibile; qui enumera le principali che si riferiscono alla irascibile. Vuole che sbandeggiamo l’ira, che ci spinge alla vendetta, a volere o fare il male del prossimo: vuole che sbandeggiamo le contese, le gelosie, gli sdegni, le risse, le dissensioni, le sette, le invidie, gli omicidi. „ che sono tutte cose, le quali rompono la carità, seminano gli odii, mettono sossopra le famiglie, le parrocchie e la stessa società. Tutti questi disordini, contro dei quali il grande Apostolo levava la sua voce e  voleva fossero tolti di mezzo alla Chiesa primitiva, ohimè! li vediamo turbare ed avvelenare le nostre famiglie, le nostre parrocchie e la nostra società, ancorché tutte cristiane. Quante contese e gare e sdegni! risse e dissensioni e partiti rabbiosi! Giriamo intorno gli sguardi, porgiamo orecchio allo strepito che ci assorda, e troveremo che anche al presente, come ai tempi di san Paolo, noi ci mordiamo e ci divoriamo gli uni gli altri. E siamo fratelli, figli dello stesso Padre, che è nei cieli, e della stessa madre, che è la Chiesa! Quale vergogna! quale vituperio! – Né qui si arresta S. Paolo, ma, come suole, nella sua foga, enumera altre opere malvagie della carne: “Ubriachezze, gozzoviglie e somiglianti — Ebrietates, comessationes et his similia. „ Queste parole cadute dalla penna dell’Apostolo ci richiamano alla mente uno spettacolo doloroso, che quasi ogni giorno ci sta sotto gli occhi. Molti soffrono la fame, non hanno con che coprire la loro nudità, albergano in miserabili tuguri, o piuttosto tane, ed altri seggono a laute mense, si ubriacano, spendono somme favolose in lusso, in passatempi, in sozzi piaceri! E l’ubriachezza che toglie all’uomo ciò che lo fa uomo, la ragione (lasciate che lo dica francamente), è più comune tra voi, o poveri, che tra i ricchi, Povertà ed ubriachezza! non si può immaginare accoppiamento più brutto di questo. Genitori ubriachi alla bettola, mogli e figliuoli piangenti di fame e freddo a casa! Sono disordini, sono mali che stringono il cuore e che sembrano impossibili in una società cristiana. Ma ponetevelo ben addentro nell’animo, grida qui indignato il santo Apostolo: “Ve lo dissi, ed ora ve lo ridico, tutti quelli che operano queste cose non possederanno il regno di Dio. „ Non illudiamoci, o fratelli miei: quanti si renderanno colpevoli di questi peccati, saranno inesorabilmente condannati da Dio alle pene eterne (Alcune delle colpe commemorate da S. Paolo in molti casi possono essere semplici peccati veniali, come le contese, le ire, le gelosie, le invidie ecc.; ma, in certe circostanze possono essere gravi. Dalla sentenza, con cui chiude la enumerazione, si rileva, che S. Paolo le considera nei casi che le costituiscono colpe gravi). E sentenza dell’Apostolo, è dottrina del Vangelo, e non ne cadrà invano una sola sillaba: riflettiamoci sopra, come vuole la grandezza della pena intimata. Chi ha qualche famigliarità con lo stile di S. Paolo, si accorge facilmente ch’egli ama le antitesi. ossia quella maniera di dire, per la quale ad una cosa si mette di fronte la contraria, e qui ne abbiamo una prova. Dopo aver fatto passare sotto i nostri occhi la lunga e brutta serie delle opere o peccati della carne o delle passioni, ora ci schiera dinanzi una serie quasi eguale delle opere o dei frutti dello Spirito, o della grazia di Dio in quelli che la posseggono. Udiamolo. – Il frutto dello Spirito è carità, gaudio, pace, longanimità, benignità, bontà, fedeltà, mansuetudine, continenza, modestia. „ Vedete, carissimi, un albero coperto di fiori e di fratti: quei fiori e frutti donde germogliano? Donde traggono il succo vitale che li nutre e li fa vigoreggiare? Dalla radice, dal seme che gli diede la vita. Vedete un uomo adorno di tutte le virtù cristiane: donde queste virtù e gli atti, nei quali si vanno svolgendo le stesse virtù? Dallo Spirito di Dio, dalla grazia, che ne è il primo germe. S. Paolo, volendo porci innanzi i fiori e i frutti benedetti della grazia divina, come ci ha messi innanzi i frutti amari e mortiferi della concupiscenza, comincia dalla carità, che è la regina di tutte le virtù, e sulla quale, come sul suo fondamento, poggiano tutte le altre, quasi rami sul loro tronco: carità verso Dio e verso il prossimo, carità ricca non di sole parole, ma di opere. Frutto di questa carità è il gaudio, cioè quella coscienza netta, serena, tranquilla, che spande nell’anima una gioia soavissima, e che brilla eziandio al di fuori e soprattutto negli occhi. Inseparabile compagna di questa coscienza pura e contenta di sé è la pace interna, che sta riposta nell’equilibrio di tutte le potenze dell’anima, o, come scrive S. Agostino, nella tranquillità dell’ordine, per cui tutto è composto in un’armonia inalterabile. Col gaudio e con la pace vanno congiunte la longanimità e la benignità, che ci rendono facili al compatimento, dolci ed umili nella parola, nel tratto, in ogni cosa, con ogni classe di persone, anche coi tristi, coi malevoli, coi nemici stessi. Con questi doni dello Spirito di Dio si accompagnano la bontà, che ci porta a far bene a tutti, e la mansuetudine, che fa soffrire ogni cosa senza fiele e colla serenità sulla fronte; vengono poi la fedeltà, nemica della frode e della menzogna, che ci rende leali osservatori delle promesse fatte e dei doveri assunti: la modestia, che dà a tutti i nostri atti esterni la giusta misura, e finalmente la continenza, che mette il freno a tutte le nostre voglie, fermo l’occhio nella regola infallibile della fede. – Non è a credere, o dilettissimi, che qui san Paolo abbia voluto ricordare tutti i doni dello Spirito di Dio e i frutti della sua grazia; no, ha ricordato soltanto i principali, come gli si affacciavano alla mente e come tornava più utile ai Galati, turbati, allora da intestine discordie. – In questa sì bella enumerazione noi pure abbiamo molto da apprendere: essa mi pare somigliante ad una lauta mensa, su cui sono imbandite molte e squisite vivande: ciascuno prende ciò che maggiormente gli piace e giova; lo stesso facciamo noi, fermando la nostra attenzione su quella virtù, che risponde meglio ai bisogni speciali di ciascuno di noi. “Contro a siffatte cose, dice S. Paolo, non vi è legge. „ Fate che un uomo operi secondo questo Spirito del Vangelo e dia questi frutti di vita, qual legge mai lo potrà biasimare o condannare? Di qual legge volete voi che abbia bisogno? Egli è legge a se stesso e non ha nulla a temere, perché adempie perfettamente ciò che la legge prescrive. – “Ora quelli che appartengono a Cristo, conchiude S. Paolo, hanno crocifissa la loro carne con i vizi e con la concupiscenza. „ Gesù Cristo, così mi sembra ragionare l’Apostolo, Gesù Cristo tolse sopra di sé la pena ch’era dovuta ai nostri peccati, e sulla croce scontò nella sua carne santa le nostre colpe: Egli crocifisse per noi la sua carne. Ora che dobbiamo far noi? Questa carne è il fomite delle nostre passioni: in essa si appiatta la concupiscenza con tutti i vizi, dei quali è madre feconda: essa senza tregua combatte lo Spirito. – Noi dobbiamo metterci dalla parte dello Spirito, dalla parte cioè di Cristo, e combattere questa carne, questa concupiscenza, che giorno e notte ci insidia e tormenta. Come Cristo confìsse alla croce il suo corpo, così noi mettiamo in croce la carne con i suoi vizi e le sue concupiscenze, ed allora mostreremo d’essere veramente discepoli di Cristo e suoi soldati. E come la porremo in croce? Porse materialmente, come fece Gesù Cristo? No, ma moralmente, come a noi ora è possibile e imposto. La concupiscenza ti gonfia con la vanità, con l’orgoglio, con l’ambizione? E tu con l’umiltà la schiacci. Ti invita, ti spinge ad accumulare ricchezze, non badando che talvolta sono il prezzo della iniquità, il frutto di chi soffre la fame? E tu le volgi le spalle e sii largo coi poverelli. Ti trae a trasmodare nel mangiare e bere e quasi, come scrive altrove lo stesso Apostolo, a farti Dio del ventre? tu resisti all’abbietta voglia e tieniti saldo nei confini della temperanza e castiga la gola. Ti solletica con la mollezza dell’ozio? Ti punge con lo stimolo dell’invidia? ti accende in cuore il fuoco dell’ira e dell’odio? Ti accarezza e tenta sedurti con le blandizie e con i sozzi piaceri del senso? E tu sventa le insidie, rigetta gli assalti, reprimi e calpesta l’implacabile nemica sotto qualunque forma si presenti. Con il timore dei divini giudizi, con la vigilanza costante sopra i tuoi sensi, con la preghiera, con la mortificazione, con la penitenza raffrena e crocifiggi la concupiscenza, ed apparterrai al numero di coloro che sono di Cristo.

 Graduale
Ps CXVII:8-9
Bonum est confidére in Dómino, quam confidére in hómine.
È meglio confidare nel Signore che confidare nell’uomo.

V. Bonum est speráre in Dómino, quam speráre in princípibus. Allelúja, allelúja  [È meglio sperare nel Signore che sperare nei príncipi. Allelúia, allelúia].

 Alleluja

XCIV:1.
Veníte, exsultémus Dómino, jubilémus Deo, salutári nostro. Allelúja.
[Venite, esultiamo nel Signore, rallegriamoci in Dio nostra salvezza. Allelúia.]

 Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt VI:24-33
“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Nemo potest duóbus dóminis servíre: aut enim unum ódio habébit, et álterum díliget: aut unum sustinébit, et álterum contémnet. Non potéstis Deo servíre et mammónæ. Ideo dico vobis, ne sollíciti sitis ánimæ vestræ, quid manducétis, neque córpori vestro, quid induámini. Nonne ánima plus est quam esca: et corpus plus quam vestiméntum?
Respícite volatília coeli, quóniam non serunt neque metunt neque cóngregant in hórrea: et Pater vester coeléstis pascit illa. Nonne vos magis pluris estis illis? Quis autem vestrum cógitans potest adjícere ad statúram suam cúbitum unum? Et de vestiménto quid sollíciti estis? Consideráte lília agri, quómodo crescunt: non labórant neque nent. Dico autem vobis, quóniam nec Sálomon in omni glória sua coopértus est sicut unum ex istis. Si autem fænum agri, quod hódie est et cras in clíbanum míttitur, Deus sic vestit: quanto magis vos módicæ fídei? Nolíte ergo sollíciti esse, dicéntes: Quid manducábimus aut quid bibémus aut quo operiémur? Hæc enim ómnia gentes inquírunt. Scit enim Pater vester, quia his ómnibus indigétis. Quaerite ergo primum regnum Dei et justítiam ejus: et hæc ómnia adjiciéntur vobis”. [In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Nessuno può servire due padroni: infatti, o avrà in odio l’uno e amerà l’altro, o si affezionerà all’uno e non farà caso all’altro. Non potete servire Dio e mammona. Perciò vi dico: non preoccupatevi di quello che mangerete, né di che vi vestirete: l’anima non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo, che non séminano né mietono, né accumulano nei granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non siete più di quelli? Chi di voi, angustiandosi, può allungare di un palmo la sua vita? E perché mai siete preoccupati per i vostri vestiti? Guardate come crescono i gigli del campo: eppure non lavorano né filano. Tuttavia vi dico che neppure Salomone, nello splendore della sua gloria, fu mai vestito come uno di essi. Ora, se Dio veste così l’erba del prato, che oggi esiste e domani sarà gettata nel fuoco, quanto maggiormente voi, o uomini di poca fede? Non siate dunque preoccupati dicendo: che mangeremo o che berremo o di che ci vestiremo? Sono i gentili che cercano queste cose. Mentre il Padre vostro sa che voi avete bisogno di tutto ciò. Cercate prima, quindi, il regno di Dio e la sua giustizia, e ogni altra cosa vi verrà data in più.]

 Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

[Vangelo sec. S. Matteo VI, 24-33]

Due Padroni.

Servire a due padroni ella è cosa impossibile, dice l’incarnata Sapienza nel Vangelo della corrente Domenica : “Nemo potest duobus dominis servire”. Servire a due padroni diversi di natura, differenti di massime, opposti di volontà, servire a Dio e all’idolo delle ricchezze, servire a Dio e al mondo, a Dio e alle proprie passioni, a Dio e al peccato e al demonio, non è assolutamente possibile, ripete Gesù Cristo in quest’istesso Vangelo: “Non potestis servire Deo, et Mammonæ”. Qual convenzione, ripiglia S. Paolo, esser vi può tra la luce e le tenebre, tra Cristo e Belial, tra il tempio di Dio e l’altare degl’idoli? Questa evangelica verità sembra non aver bisogno di schiarimento e di prove; pure siccome molti fra i cristiani mostrano almeno in pratica di non intenderla, perciò mi son proposto nella presente spiegazione di metterla nel più chiaro aspetto, onde persuasi che non a due, ma ad un padron solo si può prestar servitù, ci risolviamo a servire l’unico, vero, incommutabile nostro padrone , che è Dio. Uditemi, cortesemente. – Per ragion di chiarezza io distinguo tre classi d’uomini, ed osservo che battono tre diversi sentieri. Alcuni allettati dalla sapienza via del piacere si fanno un idolo di tutto ciò che lusinga e pasce le proprie passioni. Sono e sanno d’essere empi per abito e per sistema: costoro è manifesto che servono a un solo  padrone, al mondo cioè, e a tutto ciò che è nel riprovato mondo; e di questi non parlo. – Altri, persuasi delle vanità delle terrene cose, illuminati dalle verità della fede, che dopo il breve pellegrinaggio di questa labile vita vanno incontro ad un giudizio tremendo, ad un’eternità di pene o di delizie, corrono la via dei divini comandamenti, la strada della salute. Questi è fuor di dubbio che servono ad un Padrone solo, che è Dio, e neppur parlo di questi. – Parlo di quei che, per una parte adescati dalle lusinghe del mondo e atterriti per l’altra dalle minacce della Religione e della fede, si argomentano tenere una strada di mezzo, e conciliare così il servigio di Dio con quello del mondo. Questa strada è fallace ed ingannevole, dice lo Spirito Santo; all’apparenza sembra retta e giusta, ma il termine a cui conduce è rovinoso e fatale: “Est via, quæ videtur homini iusta; novissima autem eius deducunt ad mortem” (Prov. XIV, 12 ). A questo falso seducente sentiero si tengono coloro che san dare il suo tempo al Carnevale e il suo alla Quaresima: in quello balli e teatri, in questo prediche e funzioni: alla Pasqua i sacramenti che suppliscano l’omissione di tutto l’anno: mai in Chiesa tutta la settimana, alla Domenica l’ultima Messa che alcuna volta si trova inoltrata, alcun’altra si perde: la lingua, egualmente facile alle preghiere e alle mormorazioni: le mani pronte a qualche limosina ed anche a qualche furto: i piedi alla visita dei Santuari e a quella di case sospette; ai vesperi e all’osteria. Ora una strada così obliqua come può condurre a buon termine? Una condotta così irregolare come può piacere à Dio? – Iddio, altissimo Padrone dell’universo, a tutti intima: “Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo” (Matth. XXII, 37). Non col cuore, dic’Egli, amerai il tuo Signore, il tuo Dio, ma con tutto il tuo cuore, “ex toto corde tuo”: non basta, L’amerai con tutta la tua mente, con tutte le tue forze “in tota mente tua, ex tota fortitudine tua” [Matth. Ibid. – Deut. VI, 5].  E perché? Perché Egli ci ha dato e cuore e mente e facoltà onde, come a nostro Creatore, a Lui riferire tutto quanto compone il nostro essere. Tal è il dovere della creatura verso del proprio Facitore. Tutto abbiamo da Dio, tutto dobbiamo a Dio, ed Egli da noi giustissimamente l’esige. Un cuore diviso non può essere a Lui accettevole, o tutto lo vuol possedere, o da Sé lo rigetta: “Qui non est mecum, contra me est”. – S’è così, come la fede e la ragione c’insegnano, fino a quando, dirò a voi quel che Elia Profeta diceva al popolo d’Israele, fino a quando andrete zoppicando incerti a qual parte dovete tenervi? “Usquequo claudicatis in duas partes ? (Lib. III Reg. XVIII, 21) . “Se Baal, se il demonio, se il mondo merita d’essere riconosciuto per Dio, seguiteLo pure: “Si Deus est Baal, sequimìni eum”. Se poi Quel che vi diede l’essere, Quel che vi conserva, Quel da cui dipende ogni vostro bene, Lo credete l’unico e vero Dio, unitevi a Lui, osservate i suoi precetti, sperate i suoi premi, temete i suoi castighi : “Si Dominus est Deus, sequimini eum”. Qui non vi è strada di mezzo, qui non vi è neutralità. Se volete persistere in questa colpevole alternativa, avverrà a voi quel che avvenne ai Filistei, che sul medesimo altare collocarono l’arca del Testamento a fianco dell’idolo Dagone, e perciò si trassero addosso i più tremendi flagelli di Dio sdegnato. O miei cari, intendetela bene. Un corpo non può avere che un sol capo. Un cuore doppio, che tenga due strade, non può aver buon successo: “Cor ingrediens duas vias, non habebit successus” (Eccli. III, 28). Non apprendete ancora il vostro pericolo? Seguite ad ascoltarmi. – Sarebbe minor rischio per voi, se voltate a Dio le spalle, rompeste il suo giogo, disertaste dalle sue bandiere, vi arruolaste al servizio del mondo. Vi sorprende questa proposizione? Io vengo a provarvi quanto ella è vera. Se, abbandonato Iddio, vi date al reprobo senso, e vi fate schiavi del mondo, conoscerete allora chiaramente che siete in istato di dannazione, che non potete sperar salvezza: sentirete i reclami della rea coscienza, che vi ridurrà a questo bivio, o di cangiar vita, o di darvi per perduti. Alla prima disgrazia, alla prima pericolosa malattia, è più facile che apriate gli occhi a conoscere quanto sia cosa amara l’aver fatto divorzio da Dio; è più facile, che a vista di un mondo che vi sparisce dinanzi, alla vista di una morte che vi minaccia, di una eternità che si avvicina, che il vostro cuor si compunga, che cerchiate di far pace con Dio, e di tornare al suo seno. Se per l’opposto vi lusingate di riuscire a salvarvi con essere metà di Dio, e metà del mondo, chi vi trarrà da quest’errore che accomoda, da quest’inganno che piace? È più facile schivar un precipizio che si abbia sott’occhio, che un trabocchetto di cui neppure si sospetta! –  Per altre ragioni ancora sarà più sperabile il vostro ravvedimento. Dandovi in braccio al mondo e ai suoi piaceri, proverete o tardi o tosto essere egli un padrone crudele. La miseria del figliuol prodigo lontano dal padre, sarà un’immagine della vostra: vedrete quanto siano fallaci le sue promesse, quanto ingannevoli le sue lusinghe; toccherete con mano di esservi fidati di un traditore. Via su, donne di bel tempo, date fede ai vostri insidiatori, vendete a questi la vostra onestà o la fedeltà coniugale, che poi, come tutte le altre vostre pari, andrete svergognate a morir sulla paglia. Potenti del secolo, impinguatevi pure del sangue dei poveri, delle vedove, dei pupilli, verrà un giorno che vomiterete dalle viscere vostre di ferro le sostanze usurpate, proverete con acerba esperienza che il peccato non fa fortuna, che l’altrui sudore non fa buon pro, che la roba altrui è fuoco che ridurrà in cenere la vostra casa. Giovani scostumati, pascetevi pure, come il corvo di Noè, di cadaveri e di carname, proverete, se già non lo provaste, che la brutta passione vi farà invecchiare prima del tempo, vi farà infracidar la carne, perdere la riputazione, abbreviare la vita, in una parola, dice S. Agostino: “se secondo lo spirito del mondo darete sfogo alle vostre passioni, non incontrerete che spine”. Prova se puoi, trovar piacere che non abbia il suo pungolo, gioia che non abbia la sua spina: “Si poteris, convertere ad aliquam voluptatem, ubi non spinas sentias” (Aug. in Psal. CI). – Più: che vi dice la vostra esperienza del come tratta il mondo? Quante volte vi siete sfogati in queste lagnanze: Ah mondo tristo! Chi può vivere? Ch’è mai questo mondo? Oggi amico, domani traditore, oggi vi loda, domani vi biasima, oggi vi segue, domani vi fugge,  oggi vi alletta, domani vi nausea. Così é, miei cari, tal è il mondo, tal’è sempre stato, tale e forse peggiore sempre sarà. Or dunque, persuasi in pratica che il mondo non vi può far contenti, è tutto facile, che, disgustati del suo rio costume, abbandoniate questo duro padrone, e sull’orme del figliuol prodigo, sedotto e assassinato dal mondo, ritorniate in seno del vostro Padre celeste.Disinganniamoci, miei dilettissimi, questo mondo e tutto ciò ch’è nel mondo, altro non è che un’ombra che passa, un lampo che fugge, un vapore che nel suo apparir si dilegua, una scena volubile, dice l’Alapide, che ad un batter di palpebra cangia una regia sala in orrida prigione, un ameno giardino in spaventosa boscaglia: “Mundus ad instar scenæ”. Ma voglio concedervi che per taluno il mondo non cangi aspetto, non muti scena. Non potete negarmi però che questa scena, comunque bella e piacevole, non si rivolti in punto di morte. In quel punto, volere o non volere, necessariamente si deve volgere, si deve mutare. E come? Il corpo in un cadavere, le ricchezze in uno straccio, i piaceri in vermi, la casa in un sepolcro, il mondo in una interminabile eternità. – Così un giorno per noi finirà il mondo, e tutt’i suoi prestigi. Ed ecco a qual padrone ci siamo assoggettati, o peccatori fratelli. Ecco la mercede della lunga nostra servitù. Venite or qui, e conchiudiamo. A due padroni non si può servire, già l’abbiamo veduto. O a Dio solo, o al mondo solo e al demonio dobbiamo darci per servi; vi dirò ciò che già disse al suo popolo Giosuè, eleggete qual più vi aggrada “Eligite quod placet, cui servire potissimum debeatis” (Gios. XXIV, 15). Lascia Iddio alla vostra scelta l’acqua o il fuoco, o a questo o quella stendete la mano. “Apposuit tibi aquam et ignem, ad quod volucris, porrige manuum tuam” (Eccli. XV, 17). Mi unisco alla divina proposta, e come Elia vi metto al bivio, decidete: o servire Dio, o Baal il demonio: vi presento, come Pilato, Gesù Cristo o Barabba, a chi date la preferenza? – Ah mio Dio! E alla vostra presenza, e in faccia ai vostri altari siamo costretti a discendere a questi confronti? Perdono, mio buon Signore, siam creature delle vostre mani, siam figli di vostra adozione, vogliamo essere vostri servi fedeli. E vero, ho detto, quando peccai, che non volevo servirvi, e voi potete rinfacciarmelo giustamente: “Dixisti: non serviam” (Jerem. II, 20); ma ora che conosco esser voi Signore e Padrone dell’universo, degno d’ infinito ossequio, a Cui servono tutte perfino le creature insensate: “Omnia serviunt tibi” (Psalm. CVIII), vi negherò la mia servitù? Non sia mai vero: son vostro servo : “Ego servus tuus”, e a Voi prometto coll’osservanza della vostra legge, coll’adempimento de1 miei doveri, coll’affetto del mio cuore, costante e perpetua servitù fino all’ultimo dei  miei respiri.

Credo …

Offertorium

Orémus
Ps XXXIII:8-9
Immíttet Angelus Dómini in circúitu timéntium eum, et erípiet eos: gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus. [L’Angelo del Signore scenderà su quelli che Lo temono e li libererà: gustate e vedete quanto soave è il Signore].

Secreta
Concéde nobis, Dómine, quǽsumus, ut hæc hóstia salutáris et nostrórum fiat purgátio delictórum, et tuæ propitiátio potestátis. [Concédici, o Signore, Te ne preghiamo, che quest’ostia salutare ci purifichi dai nostri peccati e ci renda propizia la tua maestà].

Communio
Matt VI:33
Primum quærite regnum Dei, et ómnia adjiciéntur vobis, dicit Dóminus. [Cercate prima il regno di Dio, e ogni cosa vi sarà data in più, dice il Signore.]

 Postcommunio
Orémus.
Puríficent semper et múniant tua sacraménta nos, Deus: et ad perpétuæ ducant salvatiónis efféctum.
[Ci purífichino sempre e ci difendano i tuoi sacramenti, o Dio, e ci conducano al porto dell’eterna salvezza].

 

IL MAGISTERO IMPEDITO: L’ORA DI PIETRO

L’ORA DI PIETRO

[«Renovatio», V (1970), fasc. 3, pp. 325-326.]

Quanti scrivono di religione e di Cristianesimo si autodefiniscono teologi. Non sempre meritano questo titolo, perché esso non si basa solo su una laurea od un insegnamento, ma su un modo limpido, coerente e fedele di pensare con la Chiesa e di vivere nella Chiesa. Sono dei raccordi precisi ed impegnativi con la Chiesa che determinano la qualità di teologo. Una turba errante ci porta verso la notte. Non diciamo che siano decadenti o ignoranti. Forse non sempre sono in mala fede, ma certo ci portano verso la notte, non verso la luce. Hanno oscurato Dio e non mancano tra loro taluni che si affannano a indicarci i succedanei di Dio. – Hanno — non i veri teologi, gli altri – oscurato la Chiesa. La pensano presente quando l’umanità rifiuta il reale e vi sostituisce una idealizzata e inafferrabile immagine di se stessa. Il divino è esattamente questa superiore forma di umanità, vissuta ad un tempo come presente e pure ancor da realizzarsi. Questa comunità non ammette più gerarchie, se non provenienti dalla conoscenza di questo uomo superiore e dal servizio di esso. Non si parla più di verità; si accetta come valore la sola attività «sensibile pratica» di Marx: pertanto non si parla più di «ortodossia», bensì di «ortoprassi». – Che meraviglia, allora, se qualcuno nega chiaramente che il Magistero si estenda anche alle verità di ordine morale? Questi sono errori da bambini, non da pensatori! Per essere tali, bisogna dire ben altro, ci vuole una categoria più grande e di più alto livello: occorre arrivare ad una visione globale della Chiesa che la intenda non come regno di Dio, ma solo come l’autocoscienza di un divenire umano in cui Dio è presente solo in quanto «dimensione infinita dell’uomo». Il «divenire della storia» è il «divenire di Dio». – Chiesa, Magistero, Papa, Gerarchia, morale tradizionale, celibato … tutto condannato al rogo. Ed anche se qualcuno non lo nomina o non capisce che la logica di quello che dice l’obbligherebbe a nominarlo, nel bel mezzo di questo rogo c’è Dio. Allora si capisce perché nel gran rogo bruciano tutti gli ideali dell’uomo, pur sempre in attesa di superiori realtà, che si sostituiscono con la droga e gli allucinogeni. – Il fatto è impressionante. Il disordine è al tal punto che un autorevolissimo rappresentante della «nuova teologia» ritiene che ogni pensiero sia ortodosso, se considerato nell’ambito dei valori che gli sono propri. –

S. S. GREGORIO XVII

Al di là c’è il popolo buono e fedele, che implora di poter nutrire la propria fede con semplicità e chiarezza. Sa di soffrire e per questo chiede di sperare. Sente i frutti dell’odio e per questo chiede di amare: deve andare ad attingere alle fonti inquinate? Le fonti inquinate sono cisterne dissipate. – Basta con questi predicatori. È al Magistero che bisogna rivolgersi ormai e i teologi non possono considerarsi fonti genuine; se non in quanto vi si sottomettono, lo traducono, lo salvaguardano. Certo esistono buoni teologi: Dio aumenti la forza della loro voce nello splendore della loro obbedienza. Ma, il Magistero dove è pienamente certo? La Chiesa docente può senza dubbio insegnare infallibilmente, ma lo può fare se è con Pietro. E dunque necessario ritornare al centro; alternativa di questo ritorno è solo la demolizione di tutto, uomo compreso. E allora? Questa è l’ora di Pietro.