LO SCUDO DELLA FEDE (219)

LO SCUDO DELLA FEDE (219)

MEDITAZIONI AI POPOLI (VII)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE VII.

E dopo la morte?!

Suona la nostra agonia…. S’odono i lenti rintocchi della trepida campana, che par ululi in gemiti simili agli aneliti lenti, interrotti…. del nostro petto, che van cessando…. Sono già cessati! ;… e noi saremo morti. I vivi non sanno fare più altro per noi, che dirci: — Gesù, pel povero morto! Con una insolita pietà che vuol dire: Gesù se lo abbia in paradiso! In paradiso?…. ma se ce l’avremo meritato… E se no? ah se no, saremo nell’inferno!… Qui è finita l’ora di lusingarci. Nel mondo avevamo un’anima da salvare: il tempo della vita non era che un’ora da prepararci all’eternità; e quest’ora passò più rapida che la folgore. Date un’occhiata indietro: fa spavento come gli anni sfumarono via, senza che ce ne siamo accorti. Vi avviene pur sovente di dire discorrendo fra voi: il tal fatto avvenne or sono tre anni: oh no, sono già cinque: no, no, diciam correggendoci, sono già dieci; eppure par ieri! Dunque dopo alcuni anni che paiono ieri, noi ci troviamo come oggi alla morte. È divina la parola: che dice: venit hora et nunc est: viene l’ora della morte… Ma se l’ora è già adesso!… Ecco, ecco si sentono le grida: Lo sposo dell’anima viene. Su, su dunque moviamogli incontro; mano alle lucerne! Ma se le avrem preparate! Via, siam sopra viaggio, urge il partire, accingiamo le vesti, mano al bastone per andare: ma ahi! sulle mosse ci sorprende subito il ladro, la morte. E noi saremo adunque sorpresi alla sprovveduta? Eppure tutto ci avvisa di prevederne l’avvenire. Gli animali par che presentano il prossimo inverno; gli augelli metton piume più fitte, più folte pellicce i quadrupedi; e fino i rettili in quella lor nudità avanti al primi geli si sprofondano nelle viscere della terra a dormire assiderati. Guarda il fico, dice l’Evangelo; se germoglia i grossi, fa segno che vien già l’estate, come le brine sulla testa ci avvertono che viene la morte. Fu ben prudente il villico, dice il Signore, a prepararsi chi l’accogliesse in carità dopo il rendiconto della mal amministrata partita. Noi stessi negli affari del mondo siam tutto calcolo e previdenza: solo pel sommo, per l’unico, pel più tremendo degli interessi, che noi soli riguardano, noi trattiamo alla spensierata, chiudendo gli occhi per gettarci in perdizione; sicché corriamo ridendo fatuamente fino là dove, se un passo moviamo ancora, restiamo traboccati nell’abisso dell’eternità. Eppure tremiamo tutti i di sotto i colpi della morte, che coglie qui e là: chiniamo il capo per iscansare il colpo quest’oggi: e schermitolo diciamo: oh, là! siam vivi ancora! Va bene; ma, se oggi fossimo morti, che cosa ci troviam per noi preparato nell’eternità, chiusi gli occhi? Eccovi il punto da meditare: che cosa troveremo noi dopo morte? quando cioè appena spirati vedremo il nostro cadavere, e raccolto il bene e il mal fatto, ci presenteremo al giudizio, che sentenzierà per noi il paradiso o l’inferno? Signori, io vi propongo a meditare su questa dimanda: — e dopo morte?…. Salvatore Gesù, caro compagno di questo nostro peregrinaggio, voi che state qui nel Sacramento del vostro amore per portarci salvi nel più tremendo dei pericoli, deh aiutateci a meditare come vorremmo dopo morte essere salvati per l’eternità. O Maria santissima, colle più fine cure voi da buona madre provvedete per noi vostri poveri figliuoli già nell’abbrivo dell’eternità, tutto che vorremmo dopo morte averci preparato. Vi preghiamo ora per l’ora della nostra morte (Ave Maria ecc.). – Spirata l’anima nostra, sorgono i gemiti, le strida, gli urli dei nostri più cari per un momento ;… e poi silenzio cupo, come dopo lo scroscio della tempesta, e negra solitudine nella camera della nostra morte!… Noi dunque saremo morti!… E che ci aspettiamo?… resteremo cadaveri abbandonati! Anche re Luigi XIV, il più corteggiato monarca di Europa, sul più splendido dei troni, fatto cadavere venne abbandonato per molte ore nella camera reale, senza neppure il lumicino della mortuaria lampadella. Tutti saranno andati via dalla stanzetta nostra impauriti;… e noi?… e le anime nostre che propriamente siamo noi istessi, ci rivolgeremo indietro a dare un’ultima occhiata al nostro cadavere, il quale lasciamo. li colle tracce ancora spaventose delle angoscie dell’agonia sofferte. Evvi presso un lume da morto per terra, il quale lambendo gli aridi stami, riflette una pallida luce su quel letto in disordine….. Ahi travedesi orribilmente sformato quel volto color di cenere; irti i capelli e madidi di sudore gelato, annerite le occhiaie, gli occhi sprofondati nel tenebror della morte; e la bocca spumante tuttavia dalla pressura dell’agonia… Deh un Crocifisso!… un Crocifisso per carità sopra quel petto agghiacciato! Almeno quando vedremo sul petto tra le nostre mani incadaverite rialzato il Crocifisso, piglieremo coraggio noi, che speriamo di essere allora caduti morti appiè della croce colla nostra carne mortificata e crocifissa in Gesù Cristo. Confortati a questo pensiero, immaginiamoci di gettarci sul corpicciuol nostro morto, prima che si cali nella tomba, con quella pietà che Maria santissima addolorata usava al suo Gesù, quando se l’aveva morto sul petto. Anche noi baciamo di cuore la nostra povera testa: quanti crucci, come le spine, l’hanno trafitta! Solleviamo queste poveri nostre mani cadenti; le furono crocifisse in tanti lavori! O ricchi benedetti, baciate anche voi le vostre mani che sparsero la carità sui poverelli: sono ora come piene del Sangue di misericordia del benedetto Gesù! Baciamo in petto il nostro cuore, caldo ancora dell’ardente palpito con cui ci siamo slanciati, spirando, nel Cuore squarciato di Gesù Salvatore. Diciamogli inteneriti: dormi, caro compagno nei travagli della vita del nostro peregrinaggio; addio, finché lo squillo della tromba nel gran giorno della giustizia universale ci chiamerà a spezzarti i vincoli della morte! Allora ti ridesterai, povera carne mia, rifiorita al trionfo della risurrezione. Là via, lasciamo: ché a fare per noi viene la buona madre la Chiesa, e compie l’ufficio dell’ultima carità. Udite, udite già alla porta… il sospiro di una mesta preghiera… È il Sacerdote che è da Lei mandato a pigliarci questo povero avanzo del corpo nostro cadutoci per terra. Sull’uscio della camera del morto egli grida con un gemito: Si îniquitates observaveris, Domine… O Signore, se tenete conto delle nostre iniquità, chi potrà, Signore, reggere al vostro cospetto? Deh! usate misericordia grande, come la vostra bontà: Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam. Qui La si piglia su il nostro cadavere, fa precedere a capo di noi il Crocifisso pegno dell’immortalità che cammina in trionfo davanti alla morte, e che, passato il giorno di questi secoli in fuga, ci sarà alla testa nel trionfo della risurrezione. Passa il morto lungo le vie. Ve’: sarà forse il cadavere del più meschinello, disprezzato da tanti quand’era vivente; ora tutti si scoprono il capo in passando, perché sentono cantare che quelle ossa umiliate sotto la croce sono esultanti per la speranza del risorgimento; e tutti glielo implorano con un requiem æternam. Vedete, o fratelli, se non è buona la Chiesa! Come la buona genitrice tiene in freno nel suo ardore la gioventù, affinché non trasmodi: così la Chiesa dichiara guerra alla nostra carne nel rigoglio delle passioni; ma ora che quelle sono spente, si piglia in braccio il corpicciuol nostro agghiacciato, e se lo porta in mezzo al santuario della sua Casa: lo depone appié dell’altare, e par che dica al suo Sposo celeste: Gesù mio, mi è svenuto ora in braccio questo povero figliuolo; ma no che non è morto, egli dorme, perché è il figliuolo della mia speranza! Per questo, premurosa vi accende i lumi d’intorno, quasi volesse alla luce della sua fede spirargli dentro quell’ardenza inquieta come quelle fiammelle che si slanciano verso del cielo. Quivi si direbbe che se lo scaldi in seno coll’alito della sua carità, e come impaziente di affrettare la risurrezione ne anticipi il giubilo colla preghiera: venite, esclamando, venitemi tutti d’intorno, esultiamo che è Dio il Salvatore nostro. Eh preparatevi anche voi, se mai vi chiamasse sin d’oggi; e preghiam che ce lo introduca presto nella requie, in quella luce che splende eterna in pace di Paradiso: Venite, exultemus… requiem æternam… requiescat in pace.Qui ascende all’altare il suo Sacerdote, che gridaa ripetuti sospiri: Kyrie! Christe! buon Dio nostro!e voi, Gesù Cristo, non lasciatecelo patiretanto in Purgatorio, ma pigliatelo in seno dellavostra misericordia — eleison! eleison! Poi: si si,o fratelli, gridiam tutti insieme mettendo innanzile piaghe di Gesù nostro: oremus… per Christum Dominum nostrum. — E per consolare la nostrapietà Egli ci manda un suo ministro dappiè deltrono della bontà di Dio, che è l’altare, a dirci, di non contristarci; perchè, essendo il fratel nostro morto nel bacio del Signore, ci dà parola lo Spirito Santo, che lo rivedremo a momenti risuscitati anche noi. Itaque consolamini in verbis istis. Con questa cara confidenza circondiamo tutti l’altare. E qui non mancherà d’intervenire con noi Gesù Cristo in persona, Egli speranza e salute dei vivi e dei morti. Ce lo promise che, dove ci saremo noi fratelli radunati nel bacio santo di carità, Egli si troverà in mezzo di noi. Ecco di fatto che Gesù nella messa sta sull’altare tra il morto e noi vivi, ed innalzato in Sacramento tra il cielo e la terra, ci apre le braccia, ci dà il cuore, e ci dice: carne della mia Carne, sangue del mio Sangue, vi ho preparato il paradiso. Oh beati i morti che muoiono nel bacio del Signore: beati mortui qui in Domino moriuntur. Ma il cadavere si porta alla tomba, a questa orrida bocca della morte, che tutte ingoia le speranze dei mondani. Ebbene la Chiesa, per renderla men paurosa l’ha scavata nella terra santa, intorno al santuario (almeno una volta), dove sta sempre nella sua celletta d’amore Gesù pronto a porgere del tesoro delle sue misericordie: e quel suolo consacrato chiama il luogo da dormire in pace, Cœmeterium. In esso, dopo avere purificato il caro morto con pietose abluzioni, lo depone tra i profumi delle preghiere, che si elevano al cielo come segno che debba risorgere spiritualizzato per viver coll’anima in beatitudine di paradiso. Udite, udite come in uno slancio di confidenza essa canta già l’inno dello sperato trionfo: Accorrete, o beati del cielo, incontro a questo figliuol mio, e conducetemelo nella celeste Gerusalemme in seno allo Sposo mio divino. Signori, fermatevi in questo momento ad immaginarvi di essere voi qui adesso a piangere sul corpicciuol morto della vostra buona madre, o della sposa. Voi non vi sentireste consolati di veder quelle care morte trattate con tanta pietà? Ma dunque quanto sono crudeli coi vostri cari, e con voi stessi quei miserabili i quali, odiando, tristi come demoni, la Chiesa cattolica, ributtano via la madre in quei santi momenti di così caro dolore; e vogliono invece mettere intorno ai nostri morti coi loro funerali civili le turbe della società col cappello in testa, col sigaro in bocca, collo scherno dell’indifferenza, a cicalare le bestemmie dell’empietà fin sulla terra che pia li deve ora ricoprire. È questo un ultimo sacrilego insulto al poverino defunto, che dimanda dall’amore dei cari un requiem a calmare le fiamme che già lo abbruciano nel purgatorio! Ah sì, o fratelli, con noi Cattolici sorgono qui gli scismatici, gli eretici e gli ebrei, i turchi ed i pagani, sorgono tutti i popoli del mondo universo per difendere i poveri morti da queste atroci derisioni, che sono i funerali civili; ed imprecano ai profani che vogliono seppellire i morti senza pie preghiere, senza un lume di fede! Tutti i popoli con riti di dolore solenne implorano lagrimando dalle loro false religioni che temperino i dolori dei vivi, almeno colla cara lusinga che i riti aiutino i morti nell’altra vita. Ma io ben comprendo la condotta dei liberi pensatori d’oggidì. Essi han perduto ogni resto di fede e di buon senso; e non isperando più né paradiso, né purgatorio per sé, come possono volerlo per voi? Pregate per codesti sciagurati, ma fuggiteli; e, pieni di riconoscenza verso Iddio e la Chiesa, ricordatevi che solo la religione Cattolica a questo bisogno, cui sente l’umanità intiera di aiutare i proprii morti, provvede divinamente colla fede del suffragio, e coll’accompagnare per mezzo del Sacrificio del Figliuolo di Dio l’anima del caro defunto fino in seno al Padre celeste in paradiso. È vero: abbiamo proprio bisogno della Religion nostra per l’anima e pel corpo, in vita e fino dopo morte. – Ma non v’ha un raggio di lume di cielo, non una stilla di consolazione nella tetra camera del morto del mondo. Questi credeva di godere sempre, e non pensava stolto! che questo sempre del mondo finirebbe in questo punto della morte. È inutile lusingarci! Quella giovinetta è una splendida bellezza che brilla come la corolla sul fiore; ma dentro il calice di quel fiore evvi il verme della morte che lo corrode. Vedi che appassisce omai, che piega il collo avvizzito… vedi, quel fiore è già caduto! Quell’uomo illustre, quella dama del gran mondo, fate largo, passano in mezzo di noi, povera gente del volgo, tronfi in orgoglio: ma in quel pettoruto, ma sotto quei preziosi drappi, sotto quegli ori e quelle perle, dentro quelle membra, in isfoggio di nudità fin sugli occhi a Gesù nella chiesa cova la morte pascolata di peccati. Ecco che essa viene gigante, e con un colpo li getta cadaveri in mezzo all’orrore di tutti…. O fratelli, questo pensiero vi funesta forse troppo? Sentite un fatto, che vi darà la ragione del supplicarvi che faccio, a vincere ogni ribrezzo, e meditare qual uso vorremmo aver fatto del corpo allora quando lo vedremo incadaverito: e deh che non lo possiamo vedere che porti ancora i luridi marchi del peccato nel marciume della sozza carnalità! — Era morta la regina Isabella di Spagna; e toccato al principe Francesco Borgia, come al grande di corte di sangue più vicino al trono, d’accompagnarla cadavere in Granata nei sepolcri. Solenne il corteo, le vie della città tutte parate a nero, le truppe sotto l’armi a lutto. Appare la croce, e si ode il mesto canto: De profundis…. e Miserere…. a cui sembra rispondanole trombe in lugubre tuono ululando. Fra ilpopolo gremito procedendo la funebre pompa appariva,portata sul magnifico feretro; quasi sul tronodella morte, la regina defunta. Dietro al funereocarro le carrozze in gran lutto di corte, coperte dinere gualdrappe, i cavalli nere piume agitanti, etutti i grandi in corrotto. Tutta quella gran pompasi fermò sulla porta della sepolcrale cappella. Inmezzo ad essa si depose la cassa di bronzo a fregid’oro tra quei melanconici principi tutti schieratiintorno, per compiere la voluta cerimonia della ricognizionedel cadavere reale. Toccò al principeBorgia d’aprire la cassa. Viene scoperchiata la bara,si ritira il bianco velo steso sulla regina morta….Ah! dà indietro per orrore la Corte… sta solo ilprincipe Borgia. Sportosi innanzi, innanzi fissa quelvolto, e come da fulmine percosso, cade in ginocchiocolle mani serrate sul cuore… Isabella! esclama,in questo stato?…tu regina mia… Isabella?…Dov’è quello splendore di bellezza che irraggiavala reggia? Dove quelle due stelle di occhi in quellanobile fronte? Dove quel sorriso del labbro, ambitopremio dei cortigiani? Oh Isabella » la più avvenente,la più fortunata, la più grande di tutte ledonne del nostro mondo!:.. Sta sopra sé un istante…Tacete: è un momento solenne: opera la grazia di Dio in silenzio!… Sorge il principe repente in piedi;e coll’impronta sul volto del più sublime pensierogetta uno sguardo, come un lampo che annientala Corte dei Grandi… poi: Mondo! hai finito d’ingannarmi! — E sì davvero, che il mondo nonl’ebbe ingannato più mai; perché egli si diedetutto a Dio: si fece religioso gesuita, e morì gransanto. — Anche noi guardiamoci li già come cadaveri;quindi sorgiamo su, colla ferma risoluzionein cuore di chi vuol salvarsi davvero, a dire: mondo,colle tue baie, co’ tuoi romanzi, colle tue promessehai finito ora d’ingannarmi… Ah mondo! tu nonmi lasci pensare alla morte, e mi meni colla manosugli occhi fino al punto in cui mi getti là inorriditocadavere in perdizione! amici del far tempone,voi coll’onda grossa mi strascinate a perdermi allegramente!giuochi, che rovinate con me la mia famiglia! taverne, dove m’ubbriaco in gozzoviglie,tane di vizi, voi mi menate in inganno per lasciarmi in appresso incadaverire del corpo, e coll’animadannata in inferno! — Dite voi adunque a quella persona che vi lega il cuore: oh! hai tu un bell’essere lusinghiera, ma tra poco ambedue saremo cadaveri in isfacelo! e l’anima?… » Fuggi, o giovane, fuggi via a tempo da quegli ingannevoli amici, e ritorna a’ tuoi buoni genitori in vita onesta: tornate, o mariti, alle vostre pie spose e voi tutti, uomini, che correte a perdervi in questo mondo di spensierati, pensate di vedervi li cadaveri, perduti eternamente. – E noi ora meditiamo nel secondo punto come in fine alla povera nostra persona non resti che quel po’ di bene, ed ahi! tutto quel male, che ci avremo preparato. Osservate intanto come v’inganna il mondo colle sue scene che durano un istante. Sul far di notte torna dalla campagna la contadina meschinella coll’osso della vita curvo sotto il fastello, e tirasi appresso l’affamato fanciullo che dice piangendo la preghiera del poverello. Con lei s’incontra l’artigiano affranto, tutto negro del fumo dell’officina, col cencio fracido di sudore sulle spalle; e vanno, per riaversi un poco, a ricoverarsi nelle tane dei loro tugurii. In passando appiè del palazzo del ricco sentono salire su i profumi di cucina, che, per la fame che lor divora le viscere, li fanno sospirare, mentre odono dal piano nobile, tra il cicalare dei ben pasciuti parassiti centellanti nettarei liquori, l’armonia che la giovine dama cava dalla tastiera del cembalo agile come l’aleggiare di un angelo terreno. Essi, che non ne ponno più della vita, guardano in alto agli illuminati cristalli delle finestre; e la pia sospira: almeno là quelli stanno bene! — E l’artigiano, a cui manca il conforto della rassegnazione, dice tronco con una bestemmia tra i denti: è quello il paradiso! — Ah, cari miei, che dite voi? Che coloro stan sempre bene? e che il paradiso è là?… Passate la sera appresso, e vedrete che quel paradiso è finito per sempre: transivi, et ecce non erat. Dalle finestre spalancate pare esca l’orrore: è un silenzio da morto in quel palazzo. E dove è mai il padrone corteggiato da chi lo sapeva godere? Voi potete entrare nella sua camera aperta. Vedrete il suo letto ravvoltolato come di chi è partito, e il signore stirato giù, stecchito cadavere sopra una tavola, fintantoché s’inchiodino quattro assicine da fargli la bara. Poverino! non ha più niente di che sia padrone, più niente di ben di mondo; e soltanto gli resta dopo morte ciò che ha preparato per l’eternità. – Io non so, o fratelli, se a voi non venne mai fatto di visitare una casa or ora abbandonata da chi traslocava altrove il domicilio, per non ritornarvi più mai. È una vera spelonca. Strappato ogni ornamento dalle denudate pareti, portato via ogni cosa dove si va a dimorare per sempre. Così vorrà ben l’anima niente lasciare in terra di tutto che buono sia da godersi nell’altra vita per l’eternità. In quella camera da re, il morto è un grande uomo del nostro tempo. postosi alla testa del partito dei politici del proprio interesse, egli giunse a soperchiare gli emuli, menò il paese; e per l’amor della patria fece tutti servire a se stesso. Chi fosse stato oso di avvisarlo, che guai a chi tocca le cose della Chiesa, perché è un toccar Dio stesso; e che le scomuniche sono tremende maledizioni, le quali penetrano le ossa, e sradican le famiglie; eh via, gli avrebbe risposto, che egli era un tristanzuolo del partito nero: e gli avrebbe fatto, fiscaleggiandogli fin l’intenzione, onoratamente la spia… Ora è morto il grande uomo, proprio sconcertato ne’ suoi grandi disegni, i quali come sogni d’infermo sono dileguati; e non è più che un miserabile, il quale ha le mani vuote per l’eternità. Glielo prevedeva bene lo Spirito Santo: nihil invenerunt in manibus suis! — Attraversate quell’aja di grande masserizia; passate in mezzo alle mandre, vere ricchezze di Giobbe; fatevi tra i contadini che si danno facende. I lavori della fattoria sono troppo importanti; e come non permettevasi che si riposassero alla festa, così non si arrestano essi, neppure il giorno in cui è morto il padrone. Questi era un uomo di considerevole fortuna; lavorò dodici, ventiquattro o più anni a condur quel gran fondo; si cavò dai cenci, fece il grandioso acquisto, allargò il tenimento, cacciando i vicini a coltelli d’usura. Allora che era attorno a far grandi affari, chi l’avesse avvisato col Vangelo di porsi in serbo in man dei poveri un bel tesoro pel dì della morte; chi gli avesse detto, pregandolo per carità, che una pagliuzza di quell’oro raccolto dai troppo rincarati frumenti avrebbe consolato tante famiglie, le quali basiscono di fame in questi anni di carestia pei poveri, e di gran fortuna per lui, egli avrebbelo avuto in grado? L’accorto, sapeva troppo bene che i tanti pochi fanno il molto, egli che filava sottile il centesimo e così giunse a formarsi un gran capitale. E poi certamente bisognava avere ardimento, quando sedeva al rendiconto tra i contadini la domenica, di venirgli a dire che andasse alla spiegazione del Vangelo anche pel buon esempio de’ suoi dipendenti. Bisognava aver del bel coraggio per avvisarlo che in quella solennità si acquistava la indulgenza plenaria, e che egli poi aveva un’anima da salvare… Eh via! lo stolto avrebbe sogghignando risposto, che le cedole erano in aumento, che le campagne rendono a chi può più spendere, senza strascinarsi nelle Chiese per terra a domandare la benedizione. Ma che è mai? Sta notte, quando appunto faceva calcolo di un grosso guadagno, è stato chiamato al giudizio di Dio… Come s’era preparato egli al rendiconto?. Ben si sa che aveva un ingente capitale nello scrigno; ma quel denaro là non deve aver valore pel regno eterno. E tutte quelle sue ricchezze? Aspetti l’anima a partire fino al dimani, e vedrà farsi scherno alla sua gretta economia, e sfondare nelle feste da ballo, né i sfarzi e nei viaggi, l’eredità degli accumulati tesori. Era adunque egli uno stolto, che non si è avveduto del bene per l’anima sua. Lo stolto era adunque; e glielo aveva detto Gesù, domandandogli per chi andasse accumulando tanta polvere: Quæ parasti, cuius erunt? In quel gabinetto elegante, che i pagani avrebbero scambiato con un tempietto della molle dea del piacere, in quel corpicciuol di cera albergava la vita di una signorina di garbo, di cuor tenerissimo, di sentire bene squisito. Almeno ella, l’affettuosa donna, si avrà fatto un po’ di ben Dio coi Sacramenti, colle opere di pietà. Pensate! … la non aveva proprio tempo. Due ore alla toeletta tutte le mattine, tre alla festa per mettersi coll’elegante bambina alla parata pell’ultima Messa; poi riabbellirsi per le visite, e mutare di vesti per la passeggiata di gala…; poi la sera l’interessante conversazione…; poi e poi?… Via, è morta! L’anima sua ora vede dentro nel forzierino le splendide parature di gioie; ma quei diamanti, sian pure d’acqua la più fulgente, non splendono nell’atmosfera dell’eternità: rovista nelle guardarobe tal ricchezza di vesti che le costano mezza la vita (e forse fin l’onore!); ma quelle vesti eh! non vorranno portarle neppure le emule; le son giù di moda, e resteranno da corrodere alle tignuole. L’aveva ben avvisata Gesù, cose che tinea corrumpit. Ma quei popolani, accorsi ad un palazzo, girano nella sala parata di nero a camera ardente, intorno alla bara gallonata d’oro, la quale rinchiude un gran signore del mondo. Ricco fortunato! Sapeva bene egli godere a modo! Lusso di casa, le mila lire in cavalli, festini sfarzosi; per lui le facili grazie delle famose bellezze. Sdraiato in trono nel suo salone, si dava l’aria di dotto (e la gente ne rispettava il diritto, perché era un… carico d’oro), e, cioncando, giù sentenze all’abbacchiata fino sul Papa, il quale, se voleva esser prudente, dovrebbe pensare come lui. Egli aveva una satira sempre alle persone devote; e già poi qualche persecuzioncella al noioso Prete zelante. Ora ecco, è morto! Tra la luce dei doppieri una densa turba si fa alla porta con grande pompa ad accompagnare al sepolcro il suo cadavere. Ma, e l’anima? L’anima è già sepolta nell’inferno! Ce ne dà parola Gesù, che dice sempre la verità: Mortuus est dives, et sepultus est in inferno. Ah sì che il mondo non ebbe più utile avviso di questo: Quid prodest homini, quid prodest si universum mundum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur?  Che giova all’uomo guadagnarsi pur tutto il mondo, se, va coll’anima in perdizione nell’inferno? Ah signori, che l’anima del perduto dietro al mondo troppo vede allora come niente le giova di ciò che nel mondo ebbe preparato in tutta la vita! Ah che vorrebbe ella allora una qualche cosa aver in pronto per l’eternità! Subito colla rapidità della mente scorre pei campi con dispendio e sudore di sangue coltivati: penetra nei soliti ridotti, nei caffè, nelle bettole, e case in cui, se non si vedeva mai nella chiesa, era però immancabile tutti i di: ma caffè, bettole e case non gli ricordano altro che i suoi peccati. Ora di tremendo abbandono! Sola co’ suoi peccati, in quella tetraggine orrenda a lei pare di sentire nella propria camera come un fremere di cupa tempesta…. Dalle pareti che nascosero i suoi vizi, voci alte e fioche, e un battere di mani, e visioni d’orribili spettri a minacciar con ischerno: venient visiones horribiles!… Di qua ad assalirla un demonio furente che ha nome Bestemmia, dalla faccia di fuoco, con sul volto smanie di dannato, la quale le vibra sul volto le bestemmie, proprio le stesse bestemmie da lei già vomitate nei trasporti de’ suoi furori. Dall’altra parte un mostro che Avarizia si noma, accosciato sulla cassa forte, sì batte la ventraia di metallo sonante, e mostra nel pugno di ferro semichiuso il danaro, che gronda il sangue dei bisognosi colle usure scannati, con tra i piedi gruppi di famigliuole dalle facce ingiallite. Il erudo divorossi il superfluo da Dio assegnato ai poveri per isfamarsi. Colà in mezzo un barbuto demonio che Orgoglio si appella, colle smorfie da dotto seduto al tavoliere, in mezzo agli oggetti preziosi che valgono niente, col dito di fuoco accenna sulle larghe gazzette le eresie, le ferite alla Chiesa, e gl’insulti sacrileghi lanciati fino a Gesù in persona, dei quali egli sì è pascolato forse ancor ieri; poi svolge i bei fogli, e mette sugli occhi le scandalose immagini della grande edizione di tutti i romanzi figurati. Ma il demonio più sozzo, cui labbro pudico non sa nominare, in atroci spasimi di convulsione tenta ripetere i ributtanti orrori di una invasata carnalità; e tutti insieme vanno ululando in riddone infernale: opera tua sumus, sequemur te usque ad tribunal Christi!… Maledetto, siamo le opere tue che ti accompagneremo fino al giudizio di Gesù Cristo! – Fratelli, fratelli, affrettiamoci di prepararci per quell’ora di troppo spavento degli amici intorno a conforto; e tali sono le opere buone che ci accompagneranno al giudizio di Dio. Così intervenne alla buona, ma prudente Tabita, morta santamente in Ioppe. Colpiti da quella spaventosa disgrazia tutti ì miserabili, mandando strida lungo le strade, cor- revano alla casa della loro ben amata benefattrice, era la corte della folla; la gente si urgeva per cacciarsi dentro nella sala; e disputavansi di farsele appresso, e la baciavano tutta d’intorno scoppiando di pianto, qual figliuoli sulla estinta madre di tutti. Quand’ecco all’improvviso entrare san Pietro, e tutti serrarglisi dattorno per dirgli ciascuno inconsolabile il suo dolore. Un povero vecchio barcollante per troppa angoscia gli alza la faccia in volto, e a calde lagrime: Oh Pietro, sì gli dice, la mi dava tutti dì la minestra di sua mano. — Ma l’ansia gli serra la parola in gola, abbassa la testa bianca sulle mani in tremito sul suo bastone… — Oh Pietro, me l’ha fatta lei questa veste che mi toglie la vergogna, — prorompeva una giovanetta, ed empiva le mani di pianto. E i poveri fanciulli senza papà e mamma strillavano forte: era la nostra madre! e, tutti ripetere singhiozzando: era la madre nostra! S. Pietro, intenerito alle lagrime s’avvicina alla morta, la piglia per mano, e: sorgi, le dice, sorgi, o Tabita; e la ridona a’ suoi beneficati. — Questo fatto vi consola, non è vero? Ebbene esso affigura la consolazione di voi, o buoni, i quali vivete con tutta la carità che potete con tutti. Coloro che ebbero provata la vostra bontà vi circonderanno il cadavere, accompagnando coi gemiti le anime vostre innanzi a Dio. Tutta in lagrime una meschinella: Signore, dirà coi singhiozzi, ella mi diede il letticciuolo pe’ miei poveri innocentini, e quella robettina pel vispatello che mi era ignudo! Mi consolava tanto, dirà sospirando una figliuola, quando veniva a dire tante mie disgrazie; essa fu che mì collocò in una buona famiglia, mi accolse abbandonata in sua casa; ed io non aveva che lei, buon Gesù mio, perché non ho più la mamma mia. Ed una poverina da lunga malattia consumata, colle sole labbra disseccate intorno ai denti dirà in un gemito che Dio ascolta: Ah non vedrò più quell’angelo venirmi a portare al letto la carità, a girarmisi intorno, a servirmi la tanto buona! Diranno tutti addolorati: le sue opere buone accompagnino la cara persona, o Gesù, innanzi al vostro trono — Opera enim eorum sequuntur illos. Deh, miei cari, mentre abbiam tempo, mettiamo in serbo opere buone e tante nel tesoro della bontà di Dio. Fedele è Dio, che le terrà conservate nelle sue pietose mani a nostro pro pel giorno del maggior nostro bisogno. – Ma ora meditiamo, come, dopo di avere raccolto tutto che facemmo di bene e di male, dobbiamo presentarci al giudizio di Dio. Qui dunque finisce il tempo, e qui davanti all’anima si spalanca l’abisso dell’eternità. Ma tra il tempo e l’eternità vi è un momento indefinibile, il quale partecipa del tempo e resta eternità. È questo il giudizio di Dio, in cui vien decretato Paradiso o inferno per sempre. Suvvia adunque leviamo di qui l’anima, via là il cuore dal mondo; non guardiamo più indietro: è inutile stender ancora le braccia. Il mondo non era che un fantasma: ora è sparito per sempre. Gioventù, lunga vita, onori, piaceri goduti erano un lampo di falsa luce: ora non ne resta altro che un ricordo di confusa visione. Tutte le cose mondane per noi cadono sepolte nell’orrido nulla, e al fragor dell’orrenda ruina balena un bagliore di fulmine che consuma: nel pensiero ogni limite di figura, e gitta l’anima sopra l’abisso della eternità. Negro abbandono! cupo silenzio! dall’orizzonte del tempo addentriamoci nell’orrenda eternità!… Miseri a noi! dobbiamo presentarci per essere giudicati dalla tremenda Maestà di Dio, davanti a cui non solo questa nostra povera terra, ma milioni di mondi non sono che polvere dalla sua mano dispersa. Increduli, voi iterate la bestemmia: Dio, Dio! e chi è questo Dio? Dove è questo vostro Dio? Ma mentre voi pazzi frenetici vibrate un insulto contra la Divinità, tra il vortice veloce del tempo vi travasa dal tempo nell’eternità come bolle di schiuma schifosa; ed eccovi trabalzati a’ piedi del trono, dal quale il Dio da voi disdetto vi fulmina nel suo giudizio….. Ecco: Dio sta; e voi ad essere giudicati da Lui…. Ah troppo immensamente è grande Iddio! e se scruta le creature nella sua giustizia, trova falli fino negli angioli stessi…. E chi mai di noi può reggere al suo cospetto? Nel tremendo abbandono in cui ci troviamo nella solitudine della morte appena spirati, chi verrà mai ad accompagnarci davanti a Dio?….. Angeli, Arcangeli, Potestà dei cieli…. venite, venite voi…. Ma voi vi velate dell’ali il volto tremanti dinanzi all’Altissimo!… Ma dunque da soli noi?…. Sì; nessuno starà alla nostra difesa (così san Bernardo), nessuno potrà almen dire per noi: Grande Iddio, perdonate!… Nessun dalla nostra parte può stare a fidanza…. nessuno! Gesù Redentor benedetto, Voi venite al grand’uopo nostro!… Oh fratelli, solleviamo l’anima e il cuor in alto, al cielo. Gesù Cristo è là in Paradiso in quella inaccessibile luce della Divinità: ma oh! tra i bagliori divini lo travediamo. Si… Egli è in seno al Padre, Dio fatto uomo: e Salvator nostro. Egli siede sul trono della sua gloria Signore dei mondi, ma padre qual è di noi figliuoli del suo Sangue, ha il Cuore qui in terra, con noi qui si abbassa, s’impicciolisce, a noi qui si unifica, ci compenetra, ci assorbe tutti nella sua Persona divina, e dà la sua vita in Comunione con noi. — Dunque noi ci troviam con Gesù tutto nostro; dunque Gesù qui è Dio:…. Dunque noi siam con Dio…. Dunque è tolto via l’abisso di mezzo che divide l’uomo dalla Divinità; e noi possiamo presentarci subito, farci vicino vicino a Dio… Ah siam già con Dio! — Ecco dove vanno a finire tutti i misteri della Religione cattolica, nella Comunione. Questo è l’abbraccio con cui Dio tira l’umanità a sommergersi nel paradiso della bontà sua divina. Dio della misericordia, Amor nostro Gesù, abbandonati noi da tutte le creature al cimento coll’eternità, evocati al giudizio troveremo dunque Voi amico divino, tenero padre: Voi vi piglierete in braccio l’anima nostra, e in quel terrore la nasconderete in seno a voi, ed oh, se Gesù sa trattar da padre di bontà al tutto divina! Per isgombrare lo spavento Egli ci mostra subito subito le belle cose che debbono assai ben confortarci, ciò sono i doni stessi che noi gli abbiamo fatto, e ci dice che Egli li teneva in serbo per noi e per questo  momento. Buon Gesù! Ma che mai di buono abbiamo noi potuto fare a voi, Gesù?.,. e le carità usate ai più cari de’ miei figliuoli, che sono i tribolati, i più miserabili? e la difesa della mia buona sposa la Chiesa tra tante persecuzioni su quella povera terra? E tutte le opere buone?… Nulla ho dimenticato: non un bicchier d’acqua dato in mio nome, non una parolina di carità. — Certo, certo: un gemito, un sospiro, un desiderio, tutto va nel tesoro della bontà di Dio, il quale ha un Paradiso da rimeritarci di ogni cosa. Ma tant’è! il giudizio, che decide del paradiso o dell’inferno pur sempre fa paventare sin gli angeli ;…. e l’anima trema. Ma Gesù: se sono io stesso che ti ho da giudicare! su su al Padre: ti presento io tra le mie braccia! Allora l’anima sente a dire: Volo, Pater, ut ubi ego sum, sit et minister meus: Padre mio, voglio che il mio servo sia sempre dove io mi sono. Entra dunque, il mio fedele buon servo, entra nell’eternal gaudio, t’imparadisa con Dio: serve bone et fidelis, intra in gaudium Domini tui. Gesù mio, io non vi abbandonerò piùmai, finché respiro: starò sempre qui con voi nelSacramento; affinché, quando mi sorprenda la morte,a tutt’ore io mi muoia sul petto a Voi. Allora, trale vostre braccia…. gaudio di paradiso!…E quale sarà la nostra sorpresa nel gaudio delparadiso! – Vedetelo in questo bel fatto. Sant’Anastasia,damigella la più fortunata, la più avvenenteche fosse nel più gran mondo, veniva cercata a sposadall’imperator Giustiniano. Ma ella per togliersi allosplendor del trono, luce di fosforo, alle delizie dellareggia, incanto di un’ora, agli amori dello sposomonarca, lusinghe di un momento, sparisce dalprincipesco suo palazzo di Costantinopoli, e via anascondersi in un monastero d’Egitto. Ma colà pureviene pressata a diventare imperatrice; di che ellase ne fugge, e va a seppellirsi in una caverna deldeserto della Tebaide. Par di vederla, quel fior didelicata bellezza, ne’ suoi quindici anni, candidacome un giglio tra le spine di orride rupi, in quellanegra spelonca, umida, fradicia tra l’acquitrinosgocciolante che faceva pozza in quel fondo di fango.Col brivido alla vita in quella paurosa oscurità, laverginella si peritava appena di guardarsi d’intorno.Sentiva l’intronare dei venti del deserto che percuotevanole coste delle tristi montagne; e la nottesentiva il ruggir dei leoni, che rombavano cupamentein gola in quel tenebrore, di che tremava tutta. Sulfar della sospirata mattina volgeva gli occhi a quel filo di luce dello spiraglio, ma intorno alla bocca dell’antro le apparivano sole le strisce luccicanti della schifosa lumaca notturna, e se la lucertola allo spuntar del sole protendeva la verde gola a quel buco dello speco, inorridita all’afa si ritraeva sulle foglie dell’edera della fratta a godersi del sole d’oriente di fuori. E la fanciulla…., pensate! a durarla là dentro un lungo anno. E si che le venivano i tristi pensieri: Anastasia, povera Anastasia, sepolta viva qui a questo modo!….. scappa, scappa via da tale spavento. Ma Anastasia pigliava se stessa con carità (perché giova tanto nelle tentazioni forti trattar con carità la povera anima nostra), e diceva a se stessa: Fa coraggio, Anastasia, ancor un momento! E durò là per cinque lunghi anni. E sì che il demonio le sì arraffava d’intorno a terribilmente tentarla in mille modi: Anastasia, non la puoi durare ve’:… guardati le braccioline come le sono già scarne; tu ti consumerai arrabbiata…. Vedi, sono ancora i belli venti anni:… e le damigelle meno ricche di te:… e tu, stolta!… e puoi essere imperatrice e far tanto bene! Ed ella: fa cuore, Anastasia, anco un momento! E stette là dieci anni!… Ma via, non voglio tenervi sospesi più: ella stette là venticinque anni; e quindi volò in paradiso… Oh colassù i venticinque anni che breve momento! Deh fanno ora mille e trecento e più anni; ed ella nell’eternità di Paradiso che breve momento! Passeranno i mille secoli, e di là i venticinque anni della caverna che breve momento le sembreranno, che lampo scomparso in quella eternità! Oh paradiso, oh eternità! O cari, o cari miei, ancora a noi la nostra vita che breve momento parrà, quando saremo ingolfati nella eterna beatitudine in paradiso! O Paolo santo, aveste ben ragione d’esclamare: non sono condegni i patimenti di questo momento della vita presente, ove ci si presenti all’anima eternità del paradiso: non sunt condignæ. Oh eterna gloria di paradiso! Oh beatitudine eterna di paradiso! paradisi gloria, paradisi gloria!… Ma al Giudice divino ancora vanno i peccatori. Grande Iddio! e come reggeranno essi al terrore della vostra Maestà che li sfolgora nel suo furore? Signori, a Roma, nella famosa cappella Sistina, Michelangelo dipinse nel suo Giudizio Gesù Cristo in atto di fulminare i reprobi nell’inferno con maestà tanto tremenda che, qualvolta uno sì metta a fissarlo in volto, non si può reggere per terrore, bisogna abbassi lo sguardo. Ora non fu che un uomo mortale, che tentò dare una smorta idea dell’Uomo- Dio sdegnato con un po’ di tinte di meschini colori. Quindi fate ragione voi quale sarà tutta la Maestà presente di un Dio vendicatore. Fa fremere il pensarvi. Immaginiamoci sol quell’istante in cui ì perfidi fratelli di Giuseppe venivano strascinati in catene appiè del trono del più gran principe reggitore d’Egitto, accusati com’erano di una colpa, ma colla coscienza angosciata ancor più per un vecchio e troppo enorme delitto che lor premeva sempre sul cuore; ché avevano essi il proprio fratello assassinato. Quando il Principe, che sedeva in soglio a giudicarli, sorse di repente in piedi e gridò in tuono tremendo: Figliuoli di Giacobbe, riconoscetemi, io sono Giuseppe, il fratello da voi tradito e venduto! tutti guardarongli in volto, e dissero in cuore: mio Dio è proprio il fratello Giuseppe!…. Caddero per terra quasi da fulmine rinversati: e chi si ricordava di avergli detto il primo mandiamolo a morte!… chi d’avergli gettato la corda al collo: chi quando lo calava giù nel pozzo, e se lo vedeva col volto in su gridante pietà: ed egli a chiudergli sopra il pozzo col sasso. Né fu di loro chi non si pensasse d’avergli contati in sulla faccia i danari della venduta sua persona…. Nessuno, nessuno aveva forza di guardargli in volto, dandosi tutti per morti; e grazia sarebbe stata per loro morire subito lì. E sì, che il fratello balzò subito di trono a tirarseli su, e abbracciarli ad uno ad uno, e d’ogni più tenero modo cercare di consolarli. Non pertanto eglino non potevano proprio riaversi; ed ogni più sensibile tenerezza di Giuseppe era un colpo a farli svenire nelle sue braccia. – Ah peccatori dementi! voi oltraggiate ad oltranza la tremenda Maestà di Dio;… a voi toccherà ricordarvi allora di tutti gli oltraggi…. Orrendo a dirsi, quando la tremenda parola: maledetti! vi riverserà nel fuoco d’inferno, tuonando: eternità…. eternità d’inferno. A me manca la parola, e sono tutto in terrore come quel solitario, al quale, ridotto a fil di morte, sulla porta dell’eternità fu rivelato in visione come fa Dio il giudizio. Restò il meschino da cosiffatto terrore colpito, che ristette muto per dodici anni, sempre cogli occhi fissi per terra, sempre col fremito della costernazione addosso… in meditare le parole: Dio, Giudizio, eternità, inferno!… Nella sua agonia serratiglisì intorno i monaci per supplicarlo a calde lacrime, che aprisse la bocca, e dicesse almeno una parola…. la parola più importante, egli trabalzò in tremore confuso, esclamò con un cupo gemito: Fratelli, fratelli, poveri noi! Giudizio di Dio! Eternità! Paradiso, o inferno!!! Ammutirono tutti in silenzio pauroso; ed egli andò a sprofondarsi nella eternità. – Anch’io lascio a voi quest’avviso: Figliuoli, figliuoli: e dopo morte? Dopo morte, giudizio di Dio! Paradiso, o inferno nella eternità! — Pensatevi, ché anche in questi poveri tempi di fede morta basta questa meditazione a farvi conoscere se, a vostro giudizio, l’anima vostra vede ancor qualche cosa.

LA GRAZIE E LA GLORIA (21)

LA GRAZIA E LA GLORIA (21)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO IV.

L’ABITAZIONE SINGOLARE DI DIO NELL’ANIMA DEI SUOI FIGLI ADOTTIVI. IL FATTO E LA NATURA DI QUESTA ABITAZIONE

CAPITOLO V

Altro modo in cui la grazia è causa di unione. Essa mette l’anima in possesso di Dio come oggetto di conoscenza e amore.

I. L’anima viviſicata, trasformata dalla grazia, e quindi tutta piena di Dio, Autore e consumatore di quella grazia, ha le sue operazioni soprannaturali, il cui termine e oggetto è Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo. È con questa attività, di cui la grazia è il principio intimo, che i teologi scolastici sono particolarmente abituati a spiegare l’unione avvenuta tra Dio e le anime dei suoi figli adottivi (« Gratia conjungit nos Deo per modum, assimilationis: sed requiritur ut uniamur ei per operationes intellectus et voluntatis, quod fit per caritatem ». S. Thom, q. unic, de Charit… a. 2, ad 7.) – Riassumerò tutta la loro dottrina su questo punto prima di riportarne le loro stesse parole. Secondo questi grandi Dottori, l’unione delle creature con Dio, considerata dal lato della creatura ragionevole, è soprattutto il possesso di Dio. Ora, è attraverso la conoscenza e l’amore che lo spirito si unisce allo spirito; è attraverso la conoscenza e l’amore che l’anima può apprezzare e possedere la verità sovrana e la sovrana bontà. Infatti, possederle è goderne, o poterne godere, e non si gode di Dio se non conoscendolo ed amandolo. L’intelligenza che conosce, la volontà che ama, queste sono, se posso esprimermi così, le due braccia con cui lo si afferra per unirsi a Lui così strettamente che Egli è mio, come io sono suo. – Ora, qual è in me il primo principio di conoscenza e di amore che mi metta in possesso del mio Dio, che lo faccia entrare nella mia anima come un cibo misterioso di cui si nutre e si inebria? Lo abbiamo già dimostrato: è la grazia santificante, un riflesso divino, una sacra partecipazione del principio infinito per cui Dio contempla e ama se stesso nel possesso eterno e benedetto della sua bellezza. Perciò, se ho questa grazia santificante e, attraverso di essa, il potere di conoscere e amare il Padre mio e Dio mio con carità, lo possiedo in me con un possesso vivo e sovranamente intimo. – Non mi si dica che questa unione non possa essere l’opera propria della grazia, poiché ogni natura ragionevole ha di per sé il potere di conoscere e amare Dio, come ci insegna la dottrina cattolica. Infatti, altro è la conoscenza e l’amore di Dio, che scaturiscono dalla grazia, e altro è la conoscenza e l’amore il cui principio è la natura. Secondo natura, non conosco di Dio che quello che mi rivela di sé nelle sue immagini più o meno grossolane che sono la creatura; e se lo amo, è molto imperfettamente, come loro e mio Autore. Le due braccia che posso tendere a Lui, la mia intelligenza e la mia volontà, non Lo afferrano nella sua essenza divina, come è in sé, Padre, Figlio e Spirito Santo. Elevarsi a queste altezze è il privilegio esclusivo della grazia e delle virtù di cui la grazia è la radice. – Non mi si dica nemmeno che questo tipo di unione perfetta non sia della terra, ma del cielo. È vero che il godimento consumato richiede il dono della gloria, cioè una luce di comprensione che Dio riserva ai figli per l’ora in cui entreranno pienamente nell’eredità del Padre. Ma la grazia, attraverso la fede, la speranza e la carità, ce ne dà già il godimento imperfetto, e in questo godimento un pegno, un principio ed una caparra del godimento consumato. – Non c’è nessuno che non veda quale forza aggiunga questa nuova considerazione alle ragioni che abbiamo dato nel capitolo precedente circa l’operazione di Dio sulle anime dei suoi figli adottivi. Dio, senza dubbio, è presente nel minerale più umile, come lo è negli esseri intelligenti e ragionevoli. Tuttavia, non si pretenderà che la presenza su entrambi i versanti sia identica. Dio è presente nel minerale, ma non al minerale; Egli è l’uno e l’altro per lo spirito che, avendolo in se stesso, ha la conoscenza certa che Dio è lì, anche nelle profondità del suo essere. Certo, non è la stessa cosa avere la persona che ami vicino a te, ma non essere consapevole della sua presenza e non poterne godere o vederlo ed entrare in rapporti regolari con lei. Questa è una pallida immagine del complemento che l’idea che stiamo cercando di portare alla luce aggiunge alla nostra prima spiegazione.

2. Torniamo ai maestri della teologia scolastica, e vediamo con quale insistenza abbiano proposto la spiegazione di cui si è appena data un abbozzo. Questa sarà la migliore risposta a coloro che, non avendo meditato a sufficienza, ne riconoscono solo l’importanza secondaria. Prima di tutto, ecco il dottore Angelico. « Bisogna dire – egli scrive – che la nostra unione con Dio avviene per operazione nostra, cioè in quanto lo conosciamo e lo amiamo: ed è per questo che questa unione dipende dalla grazia abituale, poiché l’operazione perfetta presuppone Lui in noi come suo Principio » (S. Thom., 3 p., q. 6, ad 1). Altrove, parlando dell’unione finale che sarà la nostra eterna beatitudine, dice ancora: « L’unione fruitiva è un’unione per operazione e poiché l’anima umana è incapace di un’unione così perfetta senza un’abitudine infusa, da qui viene la necessità di una grazia abituale che sia il principio di questa beata unione » (III, D. 13, Q. 3 a. 1 ad 7). – E ancora: « Al di sopra del modo comune in cui Dio è in ogni creatura, c’è un modo speciale della presenza che è appropriato esclusivamente alla creatura ragionevole, in cui Egli è presente come il conosciuto nel conoscente, l’amato nell’amante; e poiché la creatura che ama e conosce raggiunge Dio stesso per mezzo della sua operazione, ne segue che Dio, secondo questo modo speciale di presenza, non solo è nella creatura ragionevole, ma vi abita come nel suo tempio » (S. Thom., 1 p., q. 43, a. 3). – Nella stessa parte della Summa Theologica egli aveva già scritto: « Dio è doppiamente in una cosa: è in essa come causa agente, e in questo modo è presente in tutto ciò che ha creato; Egli vi è come l’oggetto dell’operazione in colui che opera: questo si trova solo nelle operazioni dell’anima, dove il conosciuto è nel conoscente e il desiderato nel desiderante (« Per visionem fit quasi quidam contractus Dei ad intellectum, cum omne cognitum sit in cognoscente, secundum quod cognoscitur ». Id. IV. D. 49, q, l, a. 1, sol. 2). Ora, in quest’altro modo, Dio è soprattutto nella creatura ragionevole che lo conosce e lo ama attualmente, o almeno abitualmente. E poiché è la grazia che dà alla creatura ragionevole la facoltà di conoscerlo ed amarlo, si dice che Egli è in questo modo nei Santi in virtù della grazia (Id., 1 p. q. 8, a. 3, in corp. et ad 3). – Citiamo ancora un altro testo dove il Santo ci espone più ampiamente tutto il suo pensiero: « C’è come un cerchio dove si muovono le creature: infatti, uscite da Dio, loro primo Principio, esse vi ritornano come al loro termine finale. Ora a questo doppio movimento delle creature, corrispondono come le sue processioni da Dio fuori da Lui stesso. Secondo la prima, Egli fa uscire da sé le creature in qualità di Principio; e secondo l’altro, Egli le riconduce a sé in qualità di fine. Questo si riporta ai doni che costituiscono la nostra natura e le sue proprietà … questo si riferisce ai soli doni che ci uniscono in modo molto ravvicinato a Dio, nostro fine ultimo, cioè la grazia santificante e alla gloria. Infatti, tra le partecipazioni della bontà divina, non sono i primi effetti, intendo quelli con cui abbiamo l’essere creaturale, che ci uniscono immediatamente a Dio, ma gli ultimi, quegli stessi effetti, con cui raggiungiamo il Fine supremo: ed è per questo che lo Spirito Santo ci viene dato solo nei doni gratuiti. – Affinché possiamo veramente ricevere lo Spirito Santo, non è sufficiente una nuova relazione di qualsiasi tipo tra la creatura e Dio; ci deve essere una relazione tra il soggetto possidente e l’oggetto posseduto: perché ciò che è dato a qualcuno deve in qualche modo essere posseduto da lui. Ora, una Persona divina non può essere posseduta da noi che con un godimento perfetto: ed è il possesso della gloria; o da un godimento ancora imperfetto, e questo è il possesso che risulta dalla grazia santificante », e dalle virtù infuse (S. Thom., I D. 14, q. 2, a.2. Cfr. de Pot., q. 10, a. 1). Questo è ciò che pensa San Tommaso d’Aquino.  – S. Bonaventura, in un articolo del suo commento alle Sentenze, dove doveva dimostrare che lo Spirito Santo non sia inviato al giusto solo con i suoi effetti, ma nella sostanza, scriveva a sua volta: « Dare una cosa è consegnarla al donatario perché la possieda; e possederla, per colui che la riceve, è poterla usare o goderne in piena libertà. Quindi l’uomo è veramente un possessore quando ha ciò che possa usare o godere. Ma l’oggetto del vero godimento è Dio, e il principio dell’uso conveniente è la grazia. Quindi il possesso perfetto richiede che si abbia Dio e la sua grazia. Così anche, poiché il dono perfetto va di pari passo con il possesso perfetto, non c’è dono eccellente e perfetto se non il dono increato che è lo Spirito Santo e il dono creato che è la grazia. È dunque necessario che entrambi ci siano divinamente donati » (S. Bonaventura, I D 14, a. 2 q. 1; Col.; Brevil. p. V., c. 1. Cfr. L. IV, c. 3, p. 234). – In un’altra opera, egli ritorna sulla stessa idea, tanto è centrale nella sua dottrina. « Per godere di una cosa, sono necessarie due condizioni: da un lato, la presenza del bene che rende possibile il godimento, e dall’altro, la disposizione adeguata a goderne. Così il possesso dello Spirito Santo richiede sia la presenza sostanziale che il dono creato di questo Spirito divino, cioè l’amore con cui ci uniamo a Lui. Non pensiamo, però, che quando lo Spirito Santo ci venga dato, cominci ad essere dove non era ancora. No; ma è in noi in modo nuovo, per la produzione di un nuovo effetto, in virtù della nuova relazione in cui entriamo con Lui; ed è così che è nella sua creatura, come non lo era prima; perché ora è in essa come termine di conoscenza e d’amore. Ne consegue che, nella giustificazione, riceviamo una doppia carità: la carità che ci ama e la carità con cui amiamo… Perciò, sebbene Dio sia in tutte le cose per essenza, per presenza e per potenza, tra gli uomini lo possiedono solo coloro che portano in sé la grazia » (idem, Compendio di teologia, c. 9). – Ciò che il Dottore serafico insegna qui, in accordo con l’angelico San Tommaso, lo aveva sentito dal suo illustre maestro, Alessandro di Halés, il cui insegnamento ho già trascritto (Alex. Halens, 3 p. q. 61, m. 2, a. 3. Cfr. L. IV, c. 3, p. 233). San Tommaso avrebbe potuto apprenderlo anche dalle lezioni di Alberto Magno, se avesse dovuto imparare nelle scuole. È questa, infatti, la dottrina di questo illustre dottore che « la carità ci volge verso Dio e ci trasforma in Dio ». Per mezzo di essa aderiamo a Dio; per mezzo di essa siamo uniti a Lui, in modo da diventare un solo spirito con Lui. Per mezzo dell’amore di carità, Dio viene all’uomo e l’uomo va a Dio. Dio non abiterà mai in un cuore vuoto di carità. Se dunque abbiamo la carità, possediamo Dio, perché Dio è carità » (S. Alberto M., De adhærendo Dei, c. 12). Ora, entrambi avevano tratto questa dottrina comune dalla fonte delle Scritture, come può insegnarcelo un bel testo di San Francesco di Sales. « Quando lo Spirito Santo vuole esprimere l’amore perfetto, usa quasi sempre le parole di unione e congiunzione. Nella moltitudine dei credenti, dice S. Luca, c’era un solo cuore e una sola anima (Atti IV, 32). Nostro Signore ha pregato suo Padre per tutti i fedeli, perché siano tutti una cosa sola (Gv. XVIII, 2). San Paolo ci avverte di stare attenti a conservare l’unità dello spirito attraverso l’unione della pace. Questa unità di cuore, anima e mente, significa la perfezione dell’amore, che unisce diverse anime in una sola. Così si dice che l’anima di Gionata era unita all’anima di Davide, cioè, come aggiunge la Scrittura, egli amava Davide come la propria anima (1 Reg. XVIII, 1). – « Il grande apostolo di Francia, secondo il suo proprio sentire e quello del suo Ieroteo, scrive, credo, cento volte in un solo capitolo dei Nomi Divini, che è l’amore che unifica, riunisce, raccoglie, stringe, raccoglie e riporta le cose all’unità. Gregorio di Nazianzo e Sant’Agostino dicono che i loro amici con essi, non avevano che una sola anima, e Aristotele, approvando già ai suoi tempi questo modo di parlare: « Quando – dice – vogliamo esprimere quanto amiamo i nostri amici, diciamo: l’anima di costui e l’anima mia non è che una: l’odio ci separa e l’amore ci unisce. Il fine ultimo dell’amore non è altro che l’unione dell’amante con l’amato » (Trattato sull’amore di Dio, L, 1, c. 9.). Questo testo fa molta luce sui precedenti. Inoltre, si accorda mirabilmente con l’affermazione di San Paolo: « Chi aderisce al Signore è un solo spirito con lui » (I Cor. VI, 17). « Ogni amore, sia esso di Dio o degli Angeli, l’amore spirituale o l’amore sensibile, è una forza unitiva e concretiva, che muove gli esseri superiori a diffondersi su quelli inferiori, gli esseri uguali a fluire in comunicazioni reciproche, e gli esseri subordinati a gravitare verso quelli superiori come verso il loro centro. – S. Dionigi, de Div. Nomin,, c. IV, § 15). Perché cos’altro è aderire a Dio se non conoscerlo intimamente e amarlo con l’amore perfetto di carità? S. Giovanni, l’Apostolo e il discepolo dell’amore, non predica nulla più spesso di questo privilegio della carità divina. « Chi sta nella carità sta in Dio e Dio in lui, perché l’amore è il legame per eccellenza; poiché tende a chiudere insieme due cuori che si amano; perché li fonde in modo da disporli a questa  flusso reciproco (« L’amore divino è ancora estatico; perché dove domina, colui che ama non è più suo, ma di colui che ama… Così il grande Paolo, eletto dal divino Amore, la cui potenza lo rapiva nell’estasi, gridava con voce più che umana: Io vivo, ma non sono io, bensì Cristo che vive in me: come un vero amante, passato, come dice di sé, in Dio, vivendo non di una vita propria, ma della vita sovranamente cara dell’oggetto del suo amore. » S. Dionigi, ibid. §13). « Il mio cuore – esclama la sacra amante dei Cantici . il mio cuore si è sciolto quando il mio amato mi ha parlato » (Cant. V. 6, Col. s. Thom., 1, 2. Q. 28 tot.). Ora, la carità che opera un tale mirabile avvicinamento, ha la sua radice nella grazia, ed è alla grazia che dobbiamo riferire i suoi atti come alla loro causa primordiale.

3. – Il coronamento della nostra adozione, la completa espansione di questa sostanza iniziale, initium substantiæ (Hebr. III, 14), che noi siamo oggi per grazia, non avverrà che in cielo. (è là che, divenuti uomini perfetti in Cristo, la nostra unione che oggi è abbozzata, sarà perfetta; là saremo veramente con Gesù Cristo, e Gesù Cristo sarà Egli stesso in noi; là, entrando nella gioia del Signore, ci troveremo pienamente penetrati e investiti dall’essenza divina. Ora, in cosa consiste soprattutto l’unione di beatitudine, e come si opera? Per la visione intuitiva e l’amore beatifico. È attraverso questi due atti che noi saremo con il Cristo; attraverso di essi Egli diventerà il nostro cibo, la nostra gioia, il nostro tutto. Grazia consumata, luce di gloria, carità perfetta, con le loro operazioni più sublimi della conoscenza e dell’amore, questo, noi lo sappiamo e lo gusteremo un giorno, è ciò che ci riempirà di Dio, ciò che realizzerà pienamente le promesse del Salvatore: Dio in noi, e noi in Dio. Se l’unione eterna dell’anima con il suo Dio deve essere perfezionata dalla conoscenza e dall’amore, non deve l’unione del tempo essere dello stesso ordine? – Questo, dunque, è l’esemplare e il culmine della nostra attuale unione. Da entrambe le parti, è unione attraverso le operazioni più spirituali dell’anima, con Dio per oggetto; la differenza è solo nella perfezione dei principi e nella perfezione degli atti che emanano da questi principi. « La vita della grazia e la vita della gloria sono la stessa cosa, dice Bossuet, nella misura in cui non c’è differenza tra l’una e l’altra se non quella che si trovi tra l’adolescenza e il fiore degli anni. Là è consumata, qui è in via di perfezionamento; ma è la stessa vita (di conseguenza, la stessa unione)… La gloria non è altro che una certa scoperta che si fa della nostra vita nascosta in questo mondo… » (Bossuet, 2° ser. (Bossuet, 2° sermone per la festa di tutti i Santi).

4. – La teologia mistica ci parla anche dell’unione dell’anima con Dio; di questa unione che, nel suo più alto grado, tiene per così dire il mezzo tra l’unione comune dei giusti e l’unione consumata dei beati, tra l’oscurità della fede e la piena luce della gloria. Non è più la terra e non è ancora il cielo. Il Cantico, quel dolce poema dell’amore divino, come l’ha giustamente chiamato Dionigi l’Areapagita (Hecc. Hierarc., c. 5), ci racconta, in versi di incantevole bellezza, le gioie, le prove e gli effetti. Non mi impegnerò a ripercorrerne qui i caratteri e i gradi, poiché il nostro soggetto è ben diverso. Inoltre, coloro che la condiscendenza divina ha colmato più abbondantemente di questi favori straordinari, si dichiarano impotenti a descriverceli. Se ne parlano, come fanno San Bernardo, Santa Teresa e San Giovanni della Croce, è per loro stessa ammissione un balbettio, tanto è incapace la lingua umana di esprimere queste misteriose comunicazioni e l’orecchio umano di ascoltarle. Ma ciò che è importante notare è che questa unione, sotto qualsiasi forma, con qualsiasi nome la si chiami, unione semplice, estasi, rapimento, volo dello spirito, fidanzamento mistico o matrimonio, è iniziata, perfezionata e consumata dall’operazione di Dio nell’anima e dell’anima su Dio (È questo doppio nodo che uno studioso mistico ci ha indicato nelle righe seguenti: « Tertius modus unionis est animæ contemplativæ cum Deo per quemdam confactum substantialem Dei ad anima quo præsens et unitus sentitur; et perficitur hæc unio, quando etiam potentiæ spirituales animæ, quantum patitur vitæ præsentis Status, Deo adhærent, intellectus per cognitionem pene continuam ac veluti evidentem, voluntas vero per amorem, non tantum desiderii, sed quodammodo satietatis et fruitionis. Phil. de S. Trin. p. 3 Tr. 1, D 1, A. 5). I Santi, parlando delle nozze spirituali, cioè dell’unione più stretta dell’anima con il suo Dio durante i giorni di questa vita mortale, usano una doppia formula. Per alcuni, questa alleanza si consuma al centro o nella sostanza dell’anima (Santa Teresa, Castello interiore, 7a dimora, c. 1; 5. Giovanni della Croce, La vive flamme de l’amour, cant. 6° vers. – Tradotto da P. Maillard – Opere spirit. Lyon, 1894, p. 243), e gli altri, nel seno della Trinità (S. Angela di Foligno, Bolland. 4 gennaio, L. I, p. 197, 198). Fondamentalmente, è la stessa idea. In entrambi i casi, queste formule tendono allo stesso obiettivo: esprimere, per quanto lo permetta l’imperfezione del linguaggio umano, l’eccellenza suprema dei due elementi che costituiscono questo tipo di unione, cioè la manifestazione che Dio fa di se stesso alla sposa, e l’intensità dell’amore che quest’ultima concepisce per il suo Sposo divino. « È – dice San Giovanni della Croce – l’amore che la porta a questo alto grado di perfezione e la unisce infine strettissimamente a Dio. E siccome ci sono diversi gradi in questo amore, più l’anima ne ha percorsi, più profondamente è in Dio …. e poi l’ultimo grado è nella sua consumazione, l’anima è nel suo centro il più profondo di tutto, cioè è tutta penetrata dalle luci di Dio, tutta ardente delle fiamme del suo amore »  (S, Giov. della Croce, ibid.). – Ho detto dell’unione mistica che si realizza per operazione di Dio sull’anima. Egli vi entra e la tocca nella parte più intima di essa: là Egli gli scopre le sue infinite bontà, le parla, la illumina, la infiamma. Senza dubbio ci sono delle tenebre in questa manifestazione di Dio alla sua creatura; ma la coscienza di Dio presente è così forte e così intima la luce, che nulla, durante la durata di questa grazia, può distrarla. Voci divine e soprannaturali di cui parla S. Ignazio, quando scrive nel libro degli Esercizi: « Appartiene solo a Dio dare consolazione all’anima, senza alcuna causa precedente, perché appartiene solo al Creatore entrare nell’anima, uscirne, ed eccitare in essa i movimenti interiori che la attirano interamente all’amore della sua Maestà divina » (S. lgnat. Exerc. spir. Reg. pro plen. discret. spirit. Reg. 2). – Ho detto che la stessa unione si ottiene con l’operazione dell’anima su Dio. Come, in effetti, potrebbe Dio dare all’anima un’esperienza così profonda della sua presenza in essa, come potrebbe afferrarla, parlarle e accenderla con il fuoco del santo amore, se l’anima rimanesse inattiva e non rispondesse alle operazioni di Dio con le proprie operazioni? – Non ignoro che alcuni falsi dottori abbiano insegnato un’unione in cui l’anima rimarrebbe assolutamente passiva; ma così facendo hanno distorto in modo strano la passività di cui parlano i veri mistici. Per loro, la passività significa l’assenza di qualsiasi operazione sia nella mente che nella volontà; per loro, essere passivi è ricevere questa felice unione “senza causa”, cioè senza che nessuno degli atti ordinari dell’intelletto e della volontà possa farla nascere in chi la riceve (S, Ignat., l. c.). Se non si chiama Dio, invano si cercherebbe di attirarlo con suppliche, sospiri e lacrime; invano si cercherebbe di trattenerlo quando gli piacesse andare via o nascondersi. Anche la santità più consumata non ha un tale potere, ed è perciò che questi singolari favori della bontà divina portano il nome speciale di favori e grazie soprannaturali: soprannaturali, dico, non solo perché la natura in virtù delle proprie forze non possa raggiungerli, ma anche e soprattutto perché non sono compresi nella provvidenza ordinaria di Dio sui suoi eletti. Ci sono modi e metodi per arrivare con la grazia al perfetto spogliamento di sé; sarebbe un’illusione cercarne o proporne uno che porti all’unione mistica dei contemplativi. Qui, soprattutto, si adempiono le parole del Maestro: « Lo Spirito soffia dove vuole » (Giovanni III, 8). – Ma se il flusso di Dio nell’anima e dell’anima in Dio, che avviene in questa misteriosa unione, dipenda solo da Dio, non è meno certo che esso supponga la partecipazione dell’anima. « È una verità indubbia – scrive San Francesco di Sales – che l’amore divino, mentre siamo in questo mondo, sia un movimento, o almeno un’abitudine attiva che tende al movimento, e anche quando raggiungesse la semplice unione, non cessa di agire, anche se impercettibilmente, per aumentarla e perfezionarla sempre di più » (San Francesco di Sales, Trattato sull’Amore di Dio, L. VII, c. 1). Ed è per questo che la santa amante del Cantico, dopo aver detto che dorme appoggiata al seno dello Sposo, aggiunge che il suo cuore veglia (Cant., V, 2). E S. Paolo: « Io vivo; no, non sono io che vivo, ma Cristo in me ». – Non diciamo forse, parlando dell’unione consumata, che essa è per eccellenza una vita, la vita eterna? Non è quindi né pura passività né inerzia, anche quando è immutabile ed eterno riposo nella verità e nella bontà. Un uomo è in contemplazione davanti a un capolavoro; non si muove e non si agita. Pretendete che sia solo passivo, quando tutta la sua anima è persa nell’ammirazione davanti al quadro o alla statua che lo incanta? Ora, se agli atti di contemplazione si deve attribuire la virtù di unire l’anima a Dio a tal punto che « l’anima è in Dio e Dio in essa » (S. Teresa, Autobiografia, c. 18), non è ovvio che gli stessi atti, anche se di minor grado di elevazione, spieghino come ogni anima giusta sia il tempio di Dio, e Dio il luogo dell’anima?

5. – Ma una grave difficoltà sorge contro queste spiegazioni. Se sono la conoscenza e l’amore che ci mettono in possesso di Dio, allora non abbiamo più quella presenza intima, quando non siamo nell’atto di conoscere e di amare. Per quanto plausibile sia la conclusione, nulla obbliga ad ammetterla. Infatti, anche se non ho le operazioni, conservo i principi da cui emanano; il torrente non scorre ancora, trattenuto com’è da ostacoli esterni, ma la sorgente è piena; la mia mente e il mio Cuore non sono attualmente diretti verso Dio, ma rimane il peso che tende a spingerli in Lui; non agisco come proprietario, ma ho i miei titoli e baderò ai miei frutti, quando mi piace. – Ascoltate di nuovo S. Francesco di Sales nel suo ingegnoso e grazioso linguaggio: « Immaginate dunque che San Paolo, San Dionigi, Sant’Agostino, San Bernardo, San Francesco, Santa Caterina di Genova o di Siena, siano ancora in questo mondo, e che siano addormentati per la stanchezza dopo molte fatiche intraprese per amore di Dio; immaginate, d’altra parte, qualche anima buona, ma non così santa come loro, che si trovi nello stesso momento in preghiera di unione. Ti chiedo, mio caro Teotimo, chi sia più unito, più vicino, più attaccato a Dio: o questi grandi Santi che dormono, o quest’anima che prega? Certamente sono questi amanti amorosi: perché hanno più carità e i loro affetti, anche se in qualche modo sopiti, sono così impegnati e presi dai loro padroni che sono inseparabili da loro. Ma – vi chiederete – come può essere che un’anima che è in preghiera di unione, e mossa all’estasi, sia meno unita a Dio di quelle che dormono, per quanto siano sante? Ti dico, Teotimo, questo è più avanzato nell’esercizio dell’unione e quelli sono più avanzati nell’unione; quelli che sono uniti, non si uniscono, poiché dormono, e quello si unisce, essendo nell’esercizio e pratica attuale dell’unione » (Id. L. VIII, c. 3). – Possedere in sé tutti i principi della conoscenza e dell’amore, cioè dell’unione, non è possedere l’unione, tanto più perfetta perché questi principii stessi sono più intensi e più perfetti? Si potrebbe dire ancora: poter conoscere Dio e amarlo, conoscerlo anche e amarlo attualmente con l’amore perfetto di carità, non è l’unione che fa dell’anima del giusto un tempio di Dio: perché né la conoscenza né l’amore presuppongono la presenza reale del loro oggetto, anche se lo attirano all’anima, o spingono l’anima verso di esso. D’accordo, ci sono conoscenze ed amore compatibili con l’assenza; e questo è troppo ovvio per essere dimostrato. Ma chi non vede che questo non sia il caso della conoscenza e dell’amore di cui stiamo parlando? Ecco due amici separati da una grande distanza: pensano l’uno all’altro, si amano. Non direi, naturalmente, che siano veramente presenti l’uno all’altro; tuttavia, questa distanza reciproca tende a diminuire in proporzione alla conoscenza e all’affetto che hanno l’uno per l’altro. Cosa c’è di più comune di queste e simili espressioni: … tu sei sempre presente per me nei miei pensieri; … ti porto nel mio cuore? – Supponiamo che, per un incredibile prodigio, la distanza che separa questi amici non impedisca loro di conversare familiarmente l’uno con l’altro, né di vedersi a tutte le ore, né di darsi i segni di amicizia che sarebbero possibili se vivessero fianco a fianco, nella stessa città, sotto lo stesso tetto; direte voi che, per quanto lontani possano essere nel corpo, non hanno cessato di essere nello spirito? Lo direste, soprattutto, se uno di loro potesse, a volontà, penetrare davvero, per un’azione misteriosa, nell’anima del suo amico, per parlargli cuore a cuore, per fornire continuamente l’orecchio alle sue parole, per accertare i suoi domini e i ricordi della sua amicizia? Ora, ecco cosa avviene tra l’anima del giusto e Dio, in virtù dei doni soprannaturali della grazia,…  cosa dico? Ciò che suppone per i due amici non è solo che un’ombra dell’ineffabile scambio del figlio adottivo con suo Padre: perché è la sostanza di Dio che è lì, che dà, conserva e attiva il potere di conoscerlo e amarlo. – Vorrei che coloro ai quali questa obiezione sembra così grave, facessero una semplice riflessione su queste parole dell’Apostolo: « Finché siamo in questo corpo mortale, siamo ancora lontani dal Signore. » E perché dunque lontani se Egli è dappertutto, anche nelle profondità di noi stessi? « Perché noi camminiamo con la fede, non nella pienezza del chiarore della vista » (II. Cor., V, 6-7). Così Paolo ha un immenso desiderio di vedere il proprio corpo dissolversi per essere se stesso con Cristo (Fil. I, 23) e perdersi in Lui. – Soppesiamo attentamente queste parole, perché forniscono la soluzione necessaria. Essere lontani da Gesù Cristo per i giusti di questa terra è conoscerlo e amarlo in modo imperfetto. Vederlo faccia a faccia, amarlo di un amore che nulla turba, nulla distrae, nulla arresta è essere con Lui, inabissarsi in Lui. Tuttavia, l’unione che abbiamo con Dio con la conoscenza di Dio e l’amore di amicizia è una presenza intima, un possesso, quando si compara lo stato del giusto e l’allontanamento della natura e del peccato. E Dio è veramente in questa anima di giustificato, come nel suo tempio. Se il tempio di Dio è, per eccellenza, la dimora in cui Dio è manifesto, conosciuto, amato, lodato, adorato, come rifiuteremmo noi questo titolo all’anima in cui la grazia, la fede, la speranza, la carità, tutte le virtù si incontrano e si uniscono per dargli il potere di glorificare interiormente il suo Dio? – Concludiamo questo capitolo con un testo di San Paolo: esso riassume, in poche parole, le nostre precedenti spiegazioni sull’unione soprannaturale dei figli adottivi con Dio. « Io inchino le mie ginocchia al Padre di Gesù Cristo, nostro Signore …., affinché, secondo le ricchezze della sua gloria, vi rafforzi nell’uomo interiore per mezzo del suo Spirito; affinché Gesù Cristo abiti nei vostri cuori per mezzo dello Spirito e voi siate radicati e fondati nell’amore » (Efes. III, 13-17). – Entriamo nel pensiero dell’Apostolo. La fede fa abitare Cristo nei nostri cuori: non la fede morta che si può trovare in un peccatore, sebbene egli non sia né il tempio né la dimora privilegiata di Dio, ma la fede nobilitata dalla grazia santificante, poiché essa presuppone la formazione dell’uomo interiore; la fede che, mescolando le sue radici con quelle della carità, opera con essa e attraverso di essa, « fides quæ per charitatem operatur » (Gal. V, 6). E poiché questa fede si trova nei figli di adozione, in virtù del loro Battesimo, con la grazia e la carità che la vivificano, le loro anime sono un tabernacolo dove Dio fa la sua dimora; e ogni madre cristiana può, seguendo l’esempio del padre di Origene, il martire Leonida, baciare con amore e rispetto il petto del proprio figlio battezzato: perché questo petto è in tutta verità il santuario dello Spirito Santo.

LA GRAZIA E LA GLORIA (22)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (20)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (20)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO OTTAVO

I doni dello Spirito Santo (4)

8) Il dono della sapienza è il dono regale, quello che più di ogni altro mette le anime in possesso della maniera deiforme del sapere divino. È l’estremo culmine, oltre. il quale è impossibile innalzarsi, al di qua della visione di Dio intuitiva e beatificante, massimo grado di sapienza. È lo sguardo del «Verbo che spira l’Amore » partecipato ad un’anima, la quale giudica tutte le cose dalle cause più alte, più divine, dalle ragioni supreme, a quel modo che Dio le giudica e le conosce. Introdotta, per mezzo della carità, nell’infinito abisso delle Persone divine e per così dire nella Trinità, l’anima divinizzata, sotto l’impulso dello Spirito d’Amore, tutto contempla da cotesto punto centrale, indivisibile, dove le appaiono come allo stesso Iddio: i divini attributi, la creazione, la redenzione, la gloria, l’ordine ipostatico, i più piccoli avvenimenti del mondo. Per quanto è consentito ad una semplice creatura, il suo sguardo mentale tende a identificarsi alla pienezza e acutezza di visione che Dio ha in sé e dell’universo. È la contemplazione in modo deiforme al lume della esperienza spirituale della divinità, della quale l’anima esperimenta in sé l’ineffabile dolcezza: « per quamdam experientiam dulcedinis » (S. Tommaso, I-II, q. 112, a. 5). Per bene comprendere questo, bisogna tener presente che Dio non può vedere le cose se non in Se medesimo: nella Sua causalità. Le creature non le conosce direttamente in se stesse, nemmeno nel movimento delle cause contingenti e temporanee che regolano la loro attività. In maniera eterna, le contempla nel suo Verbo. Conosce ed apprezza tutti gli eventi della Provvidenza alla luce della sua Essenza e della sua gloria. In due modi l’anima può comunicare o partecipare alla Luce increata: in un modo immutabile secondo che più o meno partecipa dell’eternità, ed è la visione di gloria nel Verbo; e in un altro modo, al di fuori del Verbo, per via di esperienza mistica e conoscimento saporoso delle divine dolcezze: nell’irradiazione, quindi, della luce beatifica o, in mancanza di questa, e tuttavia in condizioni di una certa quale violenza, sotto l’azione della fede rischiarata dai doni. Non è mai soverchio insistere su questa verità: l’esperienza mistica è come in esilio sulla terra; la vera patria dei doni è il cielo nel prolungarsi delle gioie beatificanti della visione « faccia a faccia » (I ai Corinti, XIII-12), ossia intuitiva, della Trinità. Che cosa accade, quaggiù, nell’anima che giudica tutto così, alla luce della Trinità presente in lei, presenza di cui esperimenta nell’intimo gli effetti — quanto almeno glielo consente lo stato di unione? Nelle potenze più elevate, più spirituali del suo essere reso deiforme dalla grazia santificante, sorge un’attività del medesimo ordine che permette all’anima così divinizzata di vivere « in società » con le Persone divine al livello di un’esperienza propriamente trinitaria. La fede le ha già aperto gli orizzonti soprannaturali e l’ha messa in contatto con tutto il paradiso; i doni della scienza e dell’intelletto le hanno permesso di assaporare, insieme al « niente » della creatura, il «Tutto » di Dio e di penetrare nelle insondabili ricchezze della vita trinitaria; sopravviene allora il dono della sapienza, il più divino di tutti i doni, il quale farà sì che quest’anima partecipi, nel più alto grado possibile sulla terra, alla conoscenza sperimentale che Dio gusta nel proprio seno, cioè nel suo Verbo che spira l’Amore. Oh, essa può ben « gioire di Dio » (San Tommaso, I, q. 3, a. 3, ad 1.) ora che l’unione trasformante l’ha stabilita in permanenza nell’atmosfera delle Persone Increate e l’ha introdotta come figlia adottiva nella famiglia della Trinità! Partecipe della divina natura, essa giudica tutto: in Dio, nel mondo e in se stessa, con la sua esperienza della divinità. Mentre il dono della scienza prende un movimento ascensionale per elevare l’anima delle creature fino a Dio, mentre il dono dell’intelletto penetra, con semplice sguardo d’amore, tutti; misteri di Dio, nell’intimo e al di fuori, il dono della sapienza non esce mai, per così dire, dal cuore stesso della Trinità. Tutto è visto da questo centro indivisibile. E l’anima, resa in tal modo deiforme, non considera ormai le cose che nel loro perché, nei loro motivi più alti, più divini. Tutto il movimento dell’universo fino ai minimi atomi cade quindi sotto il suo sguardo alla luce purissima della Trinità e dei divini attributi, ma con ordine, secondo il ritmo con cui le cose procedono da Dio. Creazione, redenzione, ordine ipostatico, tutto, anche il male, le appare ordinato alla maggior gloria della Trinità. Elevandosi infine, con uno sguardo supremo, al di sopra della Giustizia, della Misericordia, della Provvidenza e di tutti gli attributi divini, l’anima scopre d’improvviso tutte queste perfezioni increate nella loro Sorgente eterna: in quella Deità, Padre, Figlio e Santo Spirito, che supera all’infinito tutte le nostre, umane concezioni le quali la rimpiccioliscono e la circoscrivono; e lascia invece Dio incomprensibile, ineffabile, anche allo sguardo dei beati, anche allo sguardo beatificato di Cristo… quel Dio che, nella sua Semplicità sovraeminente, è insieme Unità e Trinità, Essenza indivisibile e Società di Tre Persone viventi, realmente distinte secondo un ordine di processione che non infrange la loro Uguaglianza consustanziale. L’occhio umano non avrebbe potuto scoprire mai un tale mistero, né l’orecchio percepire tali armonie, né il cuore supporre una tale beatitudine, se la Divinità non si fosse inchinata, con la grazia, fino a noi in Cristo, per farci penetrare negli insondabili abissi di Dio, sotto la condotta stessa del suo Spirito. Dopo tutto questo, c’è forse ancora bisogno di insistere per far comprendere che un’anima la quale viva abitualmente sotto queste alte ispirazioni del dono della sapienza, risale in tutti i campi alla visione del Principio supremo, in Dio, e — come notava e praticava suor Elisabetta della Trinità — non si arresta a considerare le cause seconde? E proprio in questa. riflessione suor Elisabetta ci lascia carpire il: suo intimo segreto. Dopo essere stati, per parecchi anni, a contatto dei suoi scritti, scrutando studiando tutti i moti dell’anima Sua; questa è la nostra convinzione più essenziale: che il dono della sapienza è il dono più caratteristico della sua dottrina e della sua vita. Istintivamente, possedeva il senso dell’eterno e del divino. – Avrebbe dovuto farsi violenza per discendere al li vello delle meschinità fra cui si trascina una moltitudine di anime, anche religiose — così dette contemplative — e che non sanno elevarsi al di sopra delle loro miserie e dei loro cenci. Suor Elisabetta andava diritta al Cristo ed alla Trinità, senza occuparsi troppo delle rare mancanze che sfuggivano alla sua fragilità. Crocifissa al suo dovere, non sì sovraccaricava di una quantità di pratiche minuziose, Ma attraverso alle innumerevoli piccolezze della monotona e spesso banale vita quotidiana, sapeva, come la Vergine dell’Incarnazione, tenere fisso lo sguardo alle alte cime. Ad imitazione della sua grande sorella del Carmelo, santa Maria Maddalena De. Pazzi. « imitatrice del Verbo » nella sua vita religiosa, suor Elisabetta della Trinità scopre nella sua vocazione di Carmelitana il mezzo per essere, insieme col Cristo, corredentrice del mondo, glorificatrice della Trinità. « Come è sublime la vocazione di una Carmelitana. Essa deve essere mediatrice con Gesù Cristo, essere per Lui quasi un prolungamento di umanità dove Egli possa perpetuare la sua vita di riparazione; di sacrificio, di lode e di adorazione. Chiedetegli che io sia all’altezza della mia vocazione ? (Lett. al Canonico A…  Gennaio 1906). I santi hanno visuali sconfinate. Si ricordi il grido apostolico di santa Teresa di Gesù Bambino: « Voglio trascorrere il mio paradiso a far del bene sulla terra: No, non potrò prendermi nessun riposo sino alla fine del mondo. Ma quando l’Angelo avrà detto: Il tempo non è più —, allora mi riposerò, allora potrò gioire, perché il numero degli eletti sarà completo ». Suor Elisabetta della Trinità aveva le stesse ambizioni. « Vorrei poter dire a tutte le anime quale sorgente di forza, di pace e anche di felicità esse troverebbero vivendo in intimità con le Persone divine » (Lettera alla mamma – 2 agosto 1906.). Da vera Carmelitana, desiderava ardentemente di « zelare la gloria del suo Dio ».  « Mi dono a Lui per la sua Chiesa e per tutti i suoi interessi. Ho bisogno dell’onore suo, come la mia santa Madre Teresa. Pregate perché questa sua figliola sia anche essa « vittima di amore: caritatis victima (Lettera al Canonico A… – Giugno 1906.). vivendo in epoca di persecuzione, gemeva sulla sua patria: «Povera Francia! Ho bisogno di coprirla col Sangue del Giusto » (Al medesimo – Gennaio 1906.). Nel suo intimo ideale di unione con Dio, va diritta alla causa esemplare suprema: all’anima di Cristo; e sogna di « essere talmente trasformata in Gesù, che la sua vita sia più divina che umana e il Padre possa riconoscere in lei l’immagine del Figlio suo » («Il paradiso sulla terra» – 5° orazione.). – Per esprimere questa sapienza cristiforme, trova delle formule di una robusta concisione: « Andiamo incontro ad ogni persona o cosa con le disposizioni d’animo vi andava il nostro Maestro santo » (Lettera, 1904); oppure racchiude il giudizio di più alta sapienza sull’essenza della vita cristiana in brevi frasi, come queste: « Esprimere Cristo agli sguardi del Padre » (Ultimo ritiro, XIV). « Che io non sia più io, ma Lui, e il Padre, guardandomi, possa riconoscerlo »(Lettera al Canonico ARLES Luglio 1906.). «Quando sarò perfettamente conforme a questo divino esemplare, tutta in Lui ed Egli in me, allora adempirò la mia vocazione eterna » quella per la quale Dio mi elesse « in Lui » « in principio », quella che proseguirò « in æternum » quando, inabissata nel seno della Trinità, sarò la incessante lode della sua gloria : laudem gloriæ eius » (Ultimo ritiro). Da questa luce, emana la risposta adeguata che risolve il problema del male e il mistero della sofferenza « Configuratus morti eius » la conformità alla sua morte: ecco ciò che bramo raggiungere » (Lettera al Canonico A. luglio 1906). « ciò che bramo raggiung Voglio andare con Lui alla mia passione per essere redentrice con Lui » (Lettera alla mamma 18 luglio 1906)Espressioni simili sono rivelatrici di tutta un’esistenza. Il medesimo atteggiamento di spirito essa prende di fronte a tutti i misteri divini. Basa l’intera sua vita nella fede al « troppo grande amore » È la sua visione, qui sulla terra (Lettera a Don Ch… 25 dicembre 1904).; « ogni cosa è un sacramento il quale le dona Dio ». Considera la sofferenza. non in se stessa, ma come uno strumento che obbedisce all’Amore (Lettera alla signora De S… – 25 luglio 1902) e sul suo letto do dolore ripete: «Il Dio nostro è un fuoco consumante; io subisco la sua azione ? (Alla priora). –  Così, nello svolgersi progressivo degli eventi, tutte le cose umane le apparivano in una luce sempre più divina. Nell’ora solenne in cui, per l’ultima volta, le sue sorelle del Carmelo sì riunirono intorno a lei, la udirono pronunciare, sotto un impulso luminoso del dono della sapienza, quasi in un canto: «Alla sera della vita, tutto passa. L’amore solo rimane ». Fa pensare a ciò che dice san Giovanni della Croce: « Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore » e si ricongiunge al comandamento supremo di Gesù: il primato della carità che tutto ordina e modera nella vita dei santi. Ma l’oggetto delle predilezioni dello Spirito di sapienza è il mistero della Trinità. Per sviluppare questo punto, bisogna riprendere, qui, e rivedere a questa luce tutto il capitolo che abbiamo consacrato allo studio dell’inabitazione della Trinità ed alla parte di centrale importanza che ha questo mistero nella vita e nella dottrina di suor Elisabetta della Trinità; nulla rivela con altrettanta evidenza il predominio del dono della sapienza nella vita intima dell’anima sua. L’esercizio continuo della presenza di Dio diviene in lei rapidamente il segreto di tutte le fedeltà. Pochi giorni prima di morire, ce ne ha lasciato lei stessa la preziosa testimonianza: « Credere che un Essere che si chiama l’Amore abita in noi sempre, in tutti gli istanti del giorno e della notte, e che ci chiede di vivere in società con Lui, è ciò che ha trasformato la mia vita, ve lo confido, in un paradiso anticipato » (Alla signora G. de B… – 1906). Tutta l’attività della vita spirituale, per lei, si riassume in questo: «La mia continua occupazione consiste nel rientrare dentro di me e perdermi in Coloro che sono qui» (Lettera a G. de G… – Fine settembre 1903.). Al tramonto della sua esistenza così breve, stabilita ormai nell’unione trasformante, ella giunge all’oblio perfetto di sé: è la fase suprema della sua vita spirituale che abbiamo già a lungo analizzata (Cfr. Capitolo I, paragrafo II « Carmelitana », e soprattutto il Capitolo IV « Lode di gloria » che ci sembra il più importante per la comprensione intima della dottrina e della vita di suor Elisabetta). Suor Elisabetta della Trinità è scomparsa dinanzi a Laudem gloriæ. Lei stessa non firma più le sue lettere che con questo « nome nuovo », e non vuol più chiamarsi che così; ché ormai l’anima sua, elevandosi al di sopra delle dolcezze della divina presenza, al di sopra di se stessa, si oblìa interamente, per non essere più che « l’incessante lode di gloria della Trinità ». È il trionfo del dono della sapienza: tutto è dominato da un unico pensiero: la gloria della Trinità; quindi, tutto ciò che non coopera alla glorificazione divina, o peggio, che minaccerebbe di ritardarla viene eliminato senza pietà. Però, essa non si ripiega egoisticamente in se stessa per arrestarsi a « godere di Dio » nella gioia beatificante di questa presenza delle divine Persone in lei, che forma il suo cielo anticipato. No; si tratta, innanzi tutto, della gloria di Dio; e, nel « cielo dell’anima sua » il suo ufficio essenziale è cantare giorno e notte, come i beati nel « cielo della gloria », la lode della Trinità; e sotto l’impulso del dono della sapienza, in corrispondenza all’esercizio e al progresso nella carità, tutta la sua vita prende il ritmo che conviene alla lode di gloria. « Una lode di gloria è un’anima di silenzio che se ne sta come un’arpa sotto il tocco misterioso dello Spirito Santo, perché Egli ne tragga armonie divine. Sa che il dolore è la corda che produce i suoni più belli; perciò è contenta che questa corda non manchi nel suo strumento, per commuovere più deliziosamente il cuore del suo Dio. Una lode di gloria è un’anima che contempla Dio nella fede e nella semplicità. È un riflesso di tutto ciò che Egli è, è come un cristallo attraverso il quale Egli può irradiare e contemplare tutte le proprie perfezioni e il proprio splendore. Un’anima che permette così all’Essere divino di saziare in lei il Suo bisogno di comunicare tutto ciò che Egli è e tutto ciò che ha, è veramente la lode di gloria di tutti i suoi doni. Finalmente, una lode di gloria è un’anima immersa in un incessante ringraziamento; ciascuno dei suoi atti, dei suoi movimenti, dei suoi pensieri, delle sue aspirazioni, mentre la fissa più profondamente nell’amore, è come una eco del « Sanctus » eterno. Nel cielo della gloria, i beati non hanno riposo né giorno né notte, ma sempre ripetono: «— Santo, santo, santo, il Signore onnipotente — …e, prostrandosi, adorano Colui che vive nei secoli dei secoli ». Nel cielo dell’anima sua, la lode di gloria inizia già l’ufficio che sarà suo in eterno; e, quantunque non ne abbia sempre coscienza, perché la debolezza della natura non le consente di fissarsi in Dio senza distrazioni, pure rimane sempre sotto l’azione dello Spirito che opera tutto, in lei. Canta sempre, adora sempre, è, per così dire, interamente trasformata nella lode e nell’amore, nella passione della gloria del suo Dio » (« Il paradiso sulla terra » – 13° orazione.).

LA GRAZIA E LA GLORIA (20)

LA GRAZIA E LA GLORIA (20)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO IV.

L’ABITAZIONE SINGOLARE DI DIO NELL’ANIMA DEI SUOI FIGLI ADOTTIVI. IL FATTO E LA NATURA DI QUESTA ABITAZIONE.

CAPITOLO IV.

Del modo in cui Dio con la sua grazia abiti nelle anime e sia ad esse unito. Come sia in esse principio efficiente e causa esemplare di tutto il loro divino. Contrasto tra l’unione divina e la possessione diabolica.

1. – Le spiegazioni date dai maestri della scienza sacra sono unanimi nell’affermare il fatto, ma sembrano divergenti in alcuni aspetti. Daremo prima le spiegazioni incontestabili; per le altre, sulle quali c’è qualche disaccordo, indagheremo in seguito, alla luce dei principii, di cosa dobbiamo pensare di esse. Inoltre, non c’è una grande ragione per essere sorpresi che manchino parzialmente le prove e la certezza assoluta. Dio, dandosi a noi come un padre ai suoi figli prediletti, ci ha rivelato sotto le ombre della fede i misteri della sua natura e dei suoi benefici; ma per quanto riguarda la piena comprensione che non è necessaria per illuminare il nostro progresso quaggiù, Egli ha voluto riservarla per la beatitudine finale, quando, sollevando tutti i veli, si degnerà di mostrare il suo volto paterno ai figli della sua adozione. Inoltre, non crediamo che dando una spiegazione si escludano allo stesso tempo tutte le altre; ce ne sono alcune che si suppongono, si collegano e si completano, come mostreremo in seguito. Un autore di grande autorità tra i mistici le riduce a due capi: « Dio – egli dice – è unito a noi in questo modo molto speciale, sia come principio che come termine; come principio che produce in noi la grazia, una partecipazione della sua propria natura e vita; come termine, raggiunto dall’anima per mezzo di questa partecipazione » (Philip. de SS. Trinit. Summa Theol. Mysticæ. P. III, D. 1. t. 1). È Dio che, con la sua operazione, si fa strada nelle più intime profondità dell’anima; ed è l’anima, a sua volta, che, con le operazioni che le derivano dalla grazia, entra in possesso di Dio. Due idee che faranno l’oggetto delle nostre meditazioni e ci spiegheranno come sia veramente la grazia, sotto ogni aspetto, il legame tra l’anima del figlio adottivo e Dio suo Padre. – San Giovanni Damasceno, il grande teologo e filosofo dell’Oriente, ha scritto nella sua magnifica opera sulla fede ortodossa (S. Joan. Dam, de F. Orth, L. I, c. 13, P. Gr. 94, p. 852. – Nemesius insegna a sua volta che nessun essere spirituale può essere direttamente presente in un luogo se non attraverso la sua operazione. De natura hom. c. 3 – “Etsi vero Deus universorum sit locus, non tamen corporaliter – [σωματικῶς = somatikos]- sed effective  – [δημιουργικῶς = demiourghikos]- :…. patet (eum) immensitatem esse i. e. virtutem quæ nullum finem habeat“, S. Maxim. Nel c. 1 de Nomin, div, P. Gr., t. 4, p. 189 in ſine.) un capitolo speciale al quale diede il titolo: « Del luogo di Dio, e come Dio solo è immenso ». Dopo aver ricordato la definizione aristotelica di luogo, il Santo chiede se esista un luogo spirituale, e in che senso potrebbe essere attribuito a Dio. « Sì – egli dice – c’è un luogo spirituale, ed è quello in cui c’è una natura incorporea dove questa natura è presente con la sua azione… Dio, sovranamente libero da ogni materia, Dio senza limiti, non può essere circoscritto da nessun luogo. Egli è il suo proprio luogo, riempie tutte le cose, è elevato su tutte le cose… Eppure, si dice che si trovi in questo o in quel luogo; e quello che si chiama il suo legame, è colà in cui si manifesta la sua potenza e la sua operazione… Ne consegue che quanto più una creatura partecipa alla sua operazione e alla sua grazia, tanto più stretto sia il legame con Dio. Ecco perché il cielo è la sua dimora, perché lì ci sono gli Angeli che fanno la sua volontà. – Così parla questo illustre Padre, che fu, come è noto, l’eco fedele dei più rinomati dottori dell’Oriente, come San Gregorio di Nazianzo, San Basilio, San Cirillo di Alessandria, San Gregorio di Nissa, dai quali prende in prestito in ogni momento la dottrina e persino le parole. Chi non riconoscerebbe nel suo linguaggio ciò che Alberto Magno, l’Angelo della Scuola e altri dopo di loro avrebbero sancito più tardi (Sup. T. III, c. 1, p. 213 e seguenti)? Perché è nello stesso modo, e quasi negli stessi termini, che essi spiegano la presenza degli spiriti in generale e soprattutto l’inabitazione di Dio nei giusti, suoi figli.  Egli è in essi come principio efficiente ed esemplare del loro soprannaturale; vi dimora perché il suo effetto è permanente, perché si compiace in essi, e perché, trattandosi degli effetti di Dio, l’operazione divina è tanto necessaria per conservare il loro essere quanto per darglielo (S. Thom, c. Gent, L IV, c. 21). – Io prevedo che questa spiegazione solleverà più di una difficoltà nella mente di molti lettori. Mi si dirà forse che non è la stessa cosa operare su un essere ed essere presente in esso. Ho già, se non mi sbaglio, risolto questa obiezione. Senza dubbio, ci sono cause che agiscono a distanza e lo possiamo vedere con i nostri occhi. È vero che il sole, fonte di calore e di luce, non è in contatto con tutti i corpi che illumina e riscalda con i suoi raggi. Ma se il sole estende la sua attività benefica alle regioni più remote della sua stessa sostanza, è perché non è la causa immediata e prossima degli effetti che vi produce. Se rimuovete questa materia impalpabile, le cui ondulazioni porteranno la sua influenza fino ai limiti estremi del suo impero, allora non c’è nessuna azione, nessun effetto. – L’operazione divina è molto diversa nell’ordine della natura, e molto di più in quello della grazia. Qui non c’è nessun intermediario. Se Dio non arriva direttamente all’anima, è il nulla della grazia e il nulla dell’esistenza stessa. Dio mi appare presente e vivo nei doni che mi porta. La grazia è un raggio in cui il focolaio che lo emette passerebbe tutto intero; essa è anche un’acqua zampillante che, venendo a bagnare l’anima, le porta la fonte stessa da cui proviene. Mi si perdoni se ritorno su nozioni che avevo già toccato; perché parte dell’oscurità di cui ci lamentiamo in questa materia deriva dal poco uso che facciamo di questi principi e dalla dimenticanza in cui sono tenuti. Dio è presente in sostanza nelle anime dei giusti come principio efficiente del loro essere soprannaturale e anche come causa esemplare. Se Egli è in loro in modo speciale, è per incidere la Sua immagine su di loro e renderli a sua somiglianza divina. Un timbro sempre applicato su una cera morbida, un pittore che si riproduce incessantemente sulla tela, tali erano, se ben ricordiamo, gli emblemi sotto i quali i Padri greci descrivevano spesso l’azione santificatrice nel profondo delle anime. Ed è questo che rende la dimora di Dio, che è la loro, ancora più intima. « È per somiglianza che ci si avvicina a Dio, e per dissomiglianza ci si allontana da Lui », diceva Sant’Agostino (“Non enim 1ocorum intervallis sed similitudine acceditur ad Deum, et dissimilitudine receditur ab eo“. S. Agostino, De Trinit., L. VII, c. 6, n. 12). « Sono lontani da Lui coloro che, con i peccati, si sono spogliati della sua immagine; gli si avvicinano quelli che con una vita pia ne sono rivestiti » (“Hique ab eo longe esse dicentur qui peccando dissimillimi facti sunt; et hi ei propinquare qui ejus similitudinem pie vivendo recipiunt“. Id, ep. 187 ad Dardan, n. 17). – Sembrerebbe potersi obiettare con più ragione che questo modo di presenza sia quello che si applica ad ogni creatura, e, di conseguenza, che non sia la singolarità dell’evento di cui dobbiamo dare conto. Sì, senza dubbio, c’è un’analogia tra questi due modi di presenza, poiché entrambi hanno come base l’influenza immediata di Dio sulla creatura. Ma, a parte questa somiglianza generale, quale sorprendente diversità si rivela, quando non ci si accontenti di guardare che in superficie. Ricordiamo il grande e luminoso principio enunciato prima da San Giovanni Damasceno, e concludiamo che dove ci sono più mirabili effetti della munificenza divina, lì Dio sarà più presente. E se questi effetti, come quelli della grazia e della gloria, sono di un ordine eccellentemente superiore, e superano infinitamente le altre opere della mano divina, Dio sarà nella creatura che li riceve, in modo infinitamente più intimo e più elevato che nel resto della creazione. Sarà in modo tale che possiamo veramente dire che Egli viene quando produce questi effetti; che rimane, finché li conserva; che se ne va, quando i nostri peccati distruggono l’opera della sua grazia in noi; (È una questione tra i teologi se si debba dire che c’è una missione invisibile dello Spirito Santo, in altre parole, se le Persone divine entrano nell’anima, ogni volta che c’è un aumento della grazia santificante, La controversia è più sulle parole che sulle cose stesse. Si può ammettere, senza timore di sbagliare, che ad ogni produzione di grazia sia legata una nuova entrata di Dio. Queste espressioni, tuttavia, non si conciliano bene con un semplice aumento della grazia, quanto con un nuovo stato, un grado non solo distinto, ma diverso nell’ordine della grazia. San Tommaso, il cui pensiero espongo qui, cita come esempio la professione religiosa. Potremmo aggiungere la ricezione dei Sacramenti, che consacrano l’uomo a Cristo come una delle sue membra, dei suoi soldati e suoi ministri, e così imprimono un carattere indelebile. Perché Dio entra nell’anima solo a condizione che si renda presente in modo nuovo.  Ma questo non accade quando c’è solo un aumento della grazia. Quello che si può dire è che allora si unisce più fortemente all’anima, che la penetra più intimamente. Supponiamo, al contrario, il secondo caso: c’è un effetto del tutto diverso, e di conseguenza Dio, che è presente nei suoi effetti di grazia, comincia realmente ad essere nell’anima in altri modi; non si limita, quindi, ad entrare più profondamente in essa; vi entra di nuovo. Cfr. S. Tom., 1 p., q. a. 6, ad 2). – Dunque, la grazia prodotta, la grazia conservata, la grazia aumentata dall’operazione divina, sono tutti mezzi con cui Dio lega e stringe l’unione permanente che si degna di avere con il giusto. Se togliamo questa grazia o, ciò che equivale alla stessa cosa, se togliamo l’azione stessa presente che ce la dà, non c’è più unione in questo ordine superiore e divino. È vero che Dio passerà di tanto in tanto molto vicino all’anima, e non la priverà delle sue operazioni soprannaturali; ma saranno visite transitorie, tocchi di un istante, lampi fugaci. Egli non dimorerà in quell’anima; che devo dire, non vi entrerà nemmeno. Perché no? Perché l’unica grazia santificante è nella sostanza dell’anima. Ogni altra grazia, luce, eccitazione, movimento soprannaturale, è rivolta direttamente alle sole potenze. Nel produrla, Dio rimane, per così dire, alle porte dell’anima; si avvicina, bussa, invita, chiama; ma è la grazia santificante che, facendo dell’anima un santuario, introduce l’Ospite divino e lo fissa a dimora.

2. – Questi argomenti appariranno ancora più solidi se meditiamo su come Dio, presente nell’anima come Autore, conservatore e supremo esemplare della grazia, non si attenga a questo effetto principale. L’anima ragionevole è sostanzialmente presente in tutto il corpo che anima; ma, sebbene sia presente in tutte le membra e in tutti gli organi, ce ne sono alcuni ai quali è più intimamente unita, perché la sua attività vi è più ampiamente sentita. Questa è una verità così palpabile che i filosofi hanno ritenuto necessario limitare la sede immediata dell’anima a certe parti maestre, il cuore o il cervello per esempio, ad esclusione delle altre. Certo, queste sono deviazioni dottrinali, ma ci aiutano a capire meglio la verità sull’unione soprannaturale tra l’anima del giusto e la Trinità divina. – È così che Dio, entrando con la grazia nelle profondità dei cuori, non si ferma nella sua marcia verso l’unione. Dal centro dell’anima dove ha fissato la sua dimora, si muove, per così dire, verso tutte le potenze dell’anima per avvolgerle nel suo abbraccio e per penetrare in esse e nelle loro operazioni con la sua vita divina. È, dicono i Padri, l’artista sublime che si nasconde in uno strumento diventato suo, e da cui trae un’armonia divina; è il motore principale che dall’interno ci spinge verso le cose celesti, che ci fa amare, pregare, agire da figli di Dio; è un sole interiore che ci inonda della sua luce e del suo fuoco; è un re sul suo trono « con il corteggio  delle virtù per esercito », secondo la bella espressione di Sant’Agostino; l’anima della nostra anima e la vita della nostra vita. – Così, quando diciamo che Dio abiti nelle anime come nel suo tempio, non immaginiamo una presenza oziosa, quella di un re seduto tranquillamente nel suo palazzo. No, non è questo che intendono la Sacra Scrittura e i Padri quando usano questa immagine. Il tempio in cui Dio abita è un santuario vivente, e ogni parte di esso, dalle fondamenta più basse a quelle più alte, è pieno della sostanza e dell’azione del Dio che lo abita.

3. – I mistici, per far risaltare l’intimità di questa unione, l’hanno talvolta contrapposta alla possessione diabolica. Il Vangelo, la storia della Chiesa e le vite dei Santi ci mostrano con quale potenza lo spirito maligno, quando piace a Dio lasciarlo libero, si impossessa delle sue vittime. Sembra come se fosse incarnato in loro, tanto li domina, li tiranneggia, e fa di tutti i loro atti esterni le proprie operazioni. Dio non voglia che il Signore e Padre tratti i suoi figli con tanta irriverenza (Sap. XII, 18), che li strappi dalle mani del loro consiglio e li spinga a movimenti così disordinati. Ma ciò che è importante sottolineare qui è la differenza tra l’occupazione dell’uomo da parte dello spirito del male, e la presa di possesso delle anime da parte dello Spirito di Dio. Il nemico colpisce direttamente solo gli organi, o, come diciamo noi, l’uomo esterno: è lì che è intronizzato, è lì che opera e risiede con la sua operazione. Se disturba la ragione, se ostacola il suo libero esercizio, è come da lontano, per gli ostacoli che porta al gioco regolare delle facoltà sensibili. L’intelletto e la volontà cadono sotto la sua influenza solo come conseguenza del suo attacco. – Ben diverso è il possesso divino che si fa per mezzo della grazia e nella grazia. Dio entra di diritto nel dominio più interno e segreto dell’anima, poiché è lì che la rinnova e la trasforma a sua immagine con un’operazione che è allo stesso tempo la sua potenza e la sua essenza. Da questo santuario, che è impenetrabile per chiunque tranne che per Lui, Egli passa, per così dire, alle facoltà spirituali, e si stabilisce in tutto il corpo, in modo da rendere tutto l’uomo come un unico e medesimo tempio, un tempio le cui parti sono tanto più sante in quanto sono più pienamente l’inabitazione di Dio. « Non sapete che le vostre membra sono il tempio dello Spirito Santo? » (1 Cor. VI, 19). La bestia, voglio dire il diavolo, può farsi adorare in questo tempio di Dio, tanto è grande la cecità degli uomini e la loro perversità deplorevole; ma penetrare nel Santuario, e sedersi lì per gustare i tributi sacrileghi cui aspira, è ciò che non è mai né sarà mai in suo potere. Volente o nolente, deve rimanere nelle parti esterne del tempio. E da ciò deriva questa meraviglia più volte osservata nella storia: un corpo di uomo energumeno con l’anima di un santo; Dio contemplato, adorato, amato nell’intimo Santuario, e il circostante occupato e regolato da satana (Vedi in particolare la vita di P. Surin). – Ascoltiamo di nuovo i seri pensieri del Dottore Angelico su questo argomento: « Poiché lo Spirito Santo non è una creatura ma il vero Dio, non possiamo dire che Egli riempie le anime dei Santi e le abita, nel modo in cui talvolta si dice che esse siano abitate e riempite dal diavolo. Leggiamo, è vero, di Giuda che, dopo il boccone di pane inzuppato che Gesù gli diede, satana entrò in lui (Joan, XIII, 27); o leggiamo, secondo una lezione del libro degli Atti, che Pietro disse ad Anania: Perché satana ha riempito il tuo cuore … (Act. V, 3). Il diavolo è una pura creatura; quindi, non può riempire le anime con la partecipazione della sua natura e abitare in esse con la sua sostanza. Se le riempie, è per effetto della sua malizia, secondo le parole dell’apostolo S. Paolo a Elymas: o uomo pieno di astuzia e furberia, figlio del diavolo (Act. XIII, 10)! Ma lo Spirito Santo, poiché è Dio, abita nelle anime con la sua sostanza, e le rende buone rendendole partecipi di se stesso; poiché Egli è la sua stessa bontà, in quanto è Dio. Inoltre, donandosi alle anime, le riempie anche degli effetti della sua virtù onnipotente. (S. Thom., c. Gent., L. IV, c. 18). – Un autore antico, Didimo Alessandrino, questo cieco meravigliosamente versato nella conoscenza delle Sacre Lettere, aveva espresso gli stessi pensieri nel suo commento al testo degli Atti: « Perché satana ha riempito il tuo cuore? », « satana – egli dice – è entrato, non secondo la sua sostanza, ma secondo la sua operazione; perché entrare in qualcuno appartiene solo alla Natura increata, a quella Natura che sola può comunicarsi, perché è il Creatore » (Didimo. Al, de Spirit. S., n. 64, P. Gr. t. 39, p. 1083; col. de Trinit, L I, t. cit. p. 369, sqq. – In un’altra opera, San Tommaso riproduce la stessa dottrina: « Quando si dice che il diavolo abiti nell’uomo, ciò può significare sia una dimora di cui l’anima sarebbe la sede, sia una dimora che si fermerebbe al corpo. Per quanto riguarda l’anima, il diavolo non può dimorare sostanzialmente in essa, perché è privilegio esclusivo di Dio penetrare uno spirito (solus Deus illabitur menti). Infatti, il diavolo non produce il peccato in noi, come lo Spirito Santo produce la grazia. Lo Spirito di Dio lavora dentro: il diavolo agisce con suggestioni esterne o sui sensi o sull’immaginazione… Si dice, tuttavia, che abiti nella facoltà affettiva dell’uomo: ma questo è per gli effetti della sua malizia, e non per se stesso… Per quanto riguarda il corpo, può abitarlo sostanzialmente, come vediamo negli energumeni. » Quodl. III, at. 8, Cf, S. Bern. Serm. 5 in Cant, n. 8; de Consider, L 5, n. 12). – È così che la sostanza di Dio si unisce alla nostra sostanza per mezzo della sua operazione, cioè come principio del nostro essere e attività soprannaturale. Non avevamo forse ragione di dire che la grazia è il legame tra Lui e i suoi figli adottivi, poiché è producendola in loro che Egli entra così profondamente e rimane così costantemente nei loro cuori?

LA GRAZIE E LA GLORIA (21)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (19)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (19)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO OTTAVO

I doni dello Spirito Santo (3)

5) Il dono del consiglio è per eccellenza un dono di governo. Ora, suor Elisabetta della Trinità non fu Priora né in alcun modo incaricata delle anime; l’intera sua vita religiosa trascorse dal noviziato all’infermeria. E tuttavia possedette in sommo grado questo Spirito di Dio. Il dono del consiglio, del resto, se è più manifesto in chi è investito di autorità, non è meno necessario a tutte le anime per il perfetto orientamento della loro vita secondo i disegni di Dio… Nei superiori, assume la forma di una direzione prudente e soprannaturale che, anche nella organizzazione delle cose materiali, cura innanzi tutto il bene spirituale delle anime e si preoccupa di dare a Dio la più grande gloria; negli inferiori, insinua una docilità vigilante nel sottomettersi a tutti i voleri del Signore manifestati dai suoi legittimi rappresentanti; perché, prescindendo dai loro pregi o dai loro difetti, Dio solo parla in essi, e in essi merita di essere ascoltato. Il dono del consiglio si mostrò, in suor Elisabetta della Trinità, dapprima sotto questa forma di pronta docilità al suo direttore spirituale; giovinetta, lo consultava su tutto quello che concerneva il bene dell’anima sua, e si atteneva fedelmente a quanto egli aveva deciso; novizia, ricorreva in ogni occasione alla sua Priora, qualche volta anche per dei nonnulla, tanto bramava di essere interamente nella linea della divina volontà. Un testimonio afferma: « Bastava accennarle: — L’ha detto la reverenda Madre —; per farla andare in capo al mondo ». Lo Spirito di consiglio, infatti, non solo conduce le anime con ispirazioni individuali e segrete, ma le induce anche a lasciarsi dirigere e guidare. Più tardi, questo stesso dono prese in lei un’altra forma, più elevata. Leggendo la sua corrispondenza, si resta sorpresi e ammirati nel vedere con quale disinvolta agilità va ad adattarsi alla varietà straordinaria delle sue relazioni: membri della sua famiglia, bambine, giovinette, persone del mondo nelle situazioni più diverse, anime sacerdotali: alcune attendevano da lei la parola decisiva che le avrebbe orientate verso l’unione con Dio. Eppure, non vi è corrispondenza epistolare più spontanea e meno convenzionale di questa. Nulla di pedante e che sappia di predica o di lezione morale; ma sempre un grande spirito di discrezione, un tatto squisito, un senso perfetto delle situazioni. Sa aspettare degli anni, se è necessario, prima di insinuare delicatamente la parola di rimprovero che sconcerterà un’anima. « Addio! Quando sarò lassù, vorrai permettermi di aiutarti, di rimproverarti, anche, se vedrò che non darai tutto al Maestro divino; e questo, perché ti amo. Che Egli ti custodisca interamente sua, perfettamente fedele; in Lui, io sarò tua per sempre» (Ad un’amica). I lumi più sublimi sulla « lode di gloria » o sul mistero della Trinità sono messi alla portata di tutte le anime, espressi in forma chiara e di una semplicità così luminosa e serena, che conferisce alla sua spiritualità una nota singolare di equilibrio e di precisione dottrinale. E quante anime, proprio per questo, hanno fatto degli scritti di suor Elisabetta della Trinità la loro lettura più intima e cara! Questa facilità di trasposizione e di adattamento dipende direttamente dal dono del consiglio, il quale inclina le anime, dopo aver consultato le ragioni supreme della Sapienza del Verbo, a discernere i mezzi pratici più semplici e più rapidi per giungere alla sommità della unione divina attraverso le difficoltà innumerevoli della vita. E proprio questa è la forma caratteristica che prese in lei lo Spirito di consiglio. La sua missione non era di dirigere una comunità, ma di condurre una moltitudine di anime verso le profondità della vita trinitaria per il sentiero dello spogliamento assoluto e dell’oblio di sé, « fino al grande silenzio interiore che permette a Dio di imprimersi in esse, di trasformarle in Sé » (Lettera a suor Odilia – Ottobre 1906.

6) Con i doni della scienza, dell’intelletto, della sapienza, penetriamo nella psicologia più profonda dell’anima dei Santi. L’azione di questi doni superiori ci consente di sorprendere il loro atteggiamento più intimo e segreto di fronte al «nulla » della creatura e al « Tutto » di Dio. Di qui, la loro primordiale importanza nello studio di un’anima contemplativa. In suor Elisabetta della Trinità, ci danno la chiave della sua vita spirituale e della sua dottrina mistica. Lo Spirito di scienza dà l’esperienza delle creature alla luce della carità; dà la capacità di giudicarle secondo le loro proprietà contingenti e temporali, e anche di elevarsi, per esse, fino a Dio. – Sotto il suo impulso, un duplice movimento si determina nell’anima: da un lato, l’esperienza del vuoto della creatura, del suo nulla; dall’altro, la rivelazione, nel creato, dell’orma di Dio. Questo medesimo dono della scienza strappava lacrime a san Domenico quando considerava la sorte dei poveri peccatori, mentre ispirava a san Francesco di Assisi il suo magnifico « Cantico al sole », dinanzi allo spettacolo della natura. Entrambi questi sentimenti si trovano espressi in quel noto passo del « Cantico spirituale » di san Giovanni della Croce, in cui descrive il conforto e insieme il tormento dell’anima mistica dinanzi al creato, perché le cose tutte dell’universo le rivelano il passaggio del Diletto, mentre Lui si è involato e si cela, invisibile, fino a che l’anima, in Lui trasformata, Lo incontrerà nella visione beatifica. – Nei grandi convertiti — in sant’Agostino, per esempio, nelle sue Confessioni — questo dono riveste l’espressione di una dolorosa esperienza del peccato. Ma l’anima verginale di suor Elisabetta della Trinità non provò mai in questa forma acuta e tragica gli effetti del dono della scienza. Secondo il ritmo soave della sua anima contemplativa, esso tendeva piuttosto a divenire in lei un potente stimolo allo spogliamento ed alla perfezione. Le creature sono fallaci ed oppongono ostacolo alla pienezza della vita divina: bisogna considerare tutte le cose della terra come rifiuti per possedere Cristo; e in Lui bisogna tutto dimenticare. È il «nescivi» dell’ultimo « Ritiro ». L’anima sua vuole attraversare le creature senza vederle, per non fermarsi che nel Cristo. Tutta l’ascesi del silenzio si spiega e si comprende a questa luce: le cose create, tutte quante, valgono mai la pena di uno sguardo per chi, fosse pure una volta sola, ha sentito il Signore? Il dono della scienza presenta un’altra forma positiva, nei Santi: lo spettacolo delle creature, come un tempo nello stato di innocenza, le porta irresistibilmente a Dio. La voce possente del concerto della creazione esercitava a volte, in alcune anime contemplative, una tale forza di rimprovero, che si sentivano mormorare ai cieli e ai fiori: — Tacete, oh, tacete! Sotto la mozione dello Spirito di scienza, il salmista. cantava: « Cœli enarrant gloriam Dei. I cieli narrano la gloria di Dio » (Ps. XVIII, 2). A questo secondo aspetto piuttosto che all’altro bisognerebbe ricollegare i movimenti della grazia che suor suor Elisabetta della Trinità provava abitualmente dinanzi alle bellezze del creato; come per tutti i Santi, la natura era per lei il gran « libro di Dio ». Da fanciulla aveva amato i vasti boschi solitari, la maestosità selvaggia dei Pirenei, l’immensità dell’Oceano; aveva amato soprattutto gli spazi sconfinati di una notte stellata; allora il senso dell’infinito la soggiogava e il contatto della natura le dava intensamente il suo Dio. – A mano a mano che procederà nella vita, questi due sentimenti del dono della scienza si confonderanno in lei in un sentimento unico. La miseria della creatura e la coscienza del suo proprio nulla la risospingeranno in Dio solo. « Se guardo dal lato della terra, vedo la solitudine ed anche il vuoto, perché non posso dire che il mio cuore non abbia sofferto » (Lettera al Canonico A… – 4 gennaio 1904). « Come fa bene, allorché si sente la propria miseria, andare a farsi salvare da Lui! » (Lettera alla signora A… – 24 novembre 1905.). « Quando si considera il mondo divino che ci avvolge fin d’ora, nell’esilio, quel mondo in cui possiamo vivere e agire, come svaniscono le cose di quaggiù! Esse sono ciò che non è, sono meno che niente ». « I Santi, quelli sì, avevano capito la vera scienza, la scienza che ci separa da tutto e da noi stessi, per slanciarsi in Dio e non farci vivere che di Lui!» (Lettera alla signora A… – 24 novembre 1904.) Così si manifestava all’anima sua quella conoscenza rivelatrice del «nulla» della creatura e del «Tutto » di Dio, che lo Spirito di Gesù comunica a coloro che Lo amano e che la sacra Scrittura chiama la « scienza dei santi » (Sapienza, X-10.).

7) I grandi contemplativi, come le aquile, puntano i loro sguardi sulle eccelse vette. Essi sanno che il più debole lume intorno alla Trinità è infinitamente più delizioso della conoscenza dell’intero universo. Che cos’è infatti tutto il movimento degli atomi e delle creature uscite dalle mani di Dio, di fronte alla silente ed eterna generazione del Verbo che si cela nel Suo seno? Introdurci nelle profondità di questi abissi trinitari, è il compito dei doni contemplativi. A questa luce tutta deiforme, l’anima vede le cose con lo sguardo stesso di Dio; e san Giovanni della Croce osa dire che l’anima, giunta a questo grado di unione trasformante, partecipa al mistero delle processioni divine: della generazione del Verbo, della spirazione dell’Amore. Mediante la fede e la carità, irradiata da questa luce altissima dei doni, essa compie degli atti riservati a Dio e propri delle divine Persone. È, secondo la promessa di Gesù, « la consumazione nella unità » (San Giovanni, VII-23). Il concetto di « partecipazione » indica, nello stesso tempo, la distanza infinita — che rimane sempre fra Dio e la sua creatura — e una vera comunicazione, per grazia, della vita trinitaria. L’anima partecipa alla luce del Verbo e al movimento dell’Amore increato. « Particeps Verbi, particeps Amoris » (I q. XXXVIII, a. 1, in corpore), secondo l’audace formula di sanTommaso, così scrupoloso nell’esattezza dottrinale e sempre così misurato nei suoi termini.L’effetto essenziale del dono dell’Intelletto è proprioquello di far penetrare, quanto più profondamente è possibile,nell’intimo delle verità soprannaturali alle quali lafede invece si accontenta di aderire su semplice testimonianzaesteriore.Questa penetrazione amante e saporosa delle più alteverità divine, soprattutto del mistero trinitario che è l’oggettodelle sue predilezioni, non dipende dall’acutezza intellettualedel soggetto, ma dal suo grado di amore e dallasua docilità perfetta al soffio dello Spirito. I tocchi piùsegreti di questo Spirito non potremo afferrarli mai, sullaterra; sempre essi sfuggiranno alle nostre indagini, comeciò che vi ha di più ineffabile e divino nella vita dei Santi.Le tracce che ne possiamo sorprendere in suor Elisabettadella Trinità ci dicono come l’attività dello Spiritod’intellettonon ebbe in lei tutto il suo ampio respiro senon dopo l’entrata al Carmelo, a contatto con la teologiamistica di san Giovanni della Croce e nella lettura di sanPaolo, dopo le supreme purificazioni della sua vita di fede. Si possono ridurre gli effetti del dono dell’intelletto asei principali; una realtà divina, infatti, può celarsi: sottogli accidenti, sotto le parole, sotto le figure o le analogie.sotto le cose sensibili, nelle sue cause, nei suoi effetti.È chiaro che questo Spirito si manifesta in maniera differentissimasecondo le circostanze, le indoli diverse deiSanti e la loro missione; dona, ad alcuni, una intelligenzapenetrante delle sacre Scritture, ad altri il discernimentodel divino nelle anime, oppure una conoscenza particolaredell’anima di Cristo o del mistero di Maria, il senso dellaRedenzione, della Provvidenza, di questo o di quell’attributodivino, della Unità nella Trinità. Non si finirebbepiù se si volessero specificare i modi innumerevoli e variin cui questo Spirito d’intelletto essenzialmente multiformepuò comunicarsi agli uomini ed agli Angeli, secondo chepiace a Dio, per sua bontà, di rivelarci la sua gloria.In suor Elisabetta della Trinità, i doni dello Spirito Santo, come gli aspetti della sua vita spirituale, presero normalmente una forma Carmelitana. Nei suoi scritti, nella sua vita luminosa, si possono raccogliere tante prove rivelatrici dell’azione dello Spirito di intelletto. Il suo sguardo contemplativo si fissava a lungo, adorante, nella anima di Cristo nascosto nel tabernacolo sotto le apparenze eucaristiche. « Noi possediamo — diceva — la visione in sostanza, sotto il velo dell’ostia » (A Don Ch… – 14 giugno 1903). Il dono dell’intelletto le apre il libro delle sacre Scritture e gliene svela i reconditi sensi; manifestazione, questa, singolarmente evidente della azione dello Spirito di Dio nell’anima sua. Il suo modo di procedere più abituale è la parafrasi mistica condotta con una rara penetrazione. Senza costringere o svisare il senso letterale, ne trae la sua ammirabile dottrina spirituale; le frasi ispirate le servono come punto di partenza, come motivo per delle magnifiche elevazioni contemplative in cui la sua anima di Carmelitana trova diletto. Talvolta una sola parola della Scrittura le dona, per anni interi, « la luce di vita » (San Giovanni, VIII-12.). San Paolo le svela il « nome nuovo » che le indica da parte di Dio, quale sarà il suo ufficio per l’eternità, l’ufficio che deve però già iniziare nel tempo: « l’incessante lode di gloria alla Trinità ». Nell’ultima fase della sua vita, è ancora san Paolo che viene a definire, in una formula che le reca tanta grazia nell’anima, il suo programma supremo di trasformazione in Cristo: « la conformità alla di Lui morte » (Filippesi, III-10.). Basta, a volte, un semplice accostamento di testi, perché ne scaturisca luce divina nell’anima sua. « Siamo stati predestinati, per decreto di Colui che compie ogni cosa secondo il consiglio della sua volontà, affinché siamo la lode della sua gloria… Dio ci ha eletti in sé prima della creazione, perché siamo immacolati e santi al suo cospetto, nella carità ». Se accosto fra loro queste due enunciazioni del piano di Dio « eternamente immutabile », posso concludere che, per compiere degnamente il mio di « laudem gloriæ », devo tenermi, in mezzo a tutto e nonostante tutto, « alla presenza di Dio »; anzi, l’Apostolo ci dice: « in caritate », cioè in Dio; « Deus caritas est »: e il contatto con l’Essere divino mi renderà « immacolata e santa ai suoi sguardi » (Ultimo ritiro, II.). Essere lode di gloria con l’esercizio continuo della presenza di Dio; ecco l’essenza della sua vocazione; e l’ha colta in san Paolo, con un solo sguardo. Ma un secondo movimento del dono dell’intelletto possiamo discernere in suor Elisabetta, movimento familiare alle anime pure e contemplative per le quali le minime cose sono, simbolicamente o per analogia, un richiamo alla divina presenza. « Quando vedo il sole penetrare e diffondersi nei nostri chiostri, penso che Dio invade così, come i raggi del sole trionfante, l’anima che non cerca che Lui » (Lettera a G. de G… – 14 settembre 1902). – Tutto l’universo visibile assume, nelle anime dei Santi, un senso spirituale che le eleva a Dio; il loro sguardo rivolge sempre al volto mistico delle cose. Una santa Caterina De Ricci non poteva vedere una rosa senza pensar al sangue redentore; e suor Elisabetta apparteneva alla stirpe di quelle anime verginali che sembrano aver ritrovato lo stato d’innocenza e leggono Dio nel libro del creato. Fino dalla sua entrata al Carmelo, essa Lo scopre negli infimi particolari della sua vita: « Qui — scrive — tutto parla di Lui » (A_M. L. M… – 26 ottobre 1902). « Al Carmelo, dappertutto c’è il Signore ». (Alla sorella, 1901). « Il Maestro è così presente, che si crederebbe sia lì lì per comparire nei lunghi viali solitari » (Alla zia – Pasqua 1903). Appena le viene annunciata la nascita di una nipotina, si informa della data del battesimo, perché vuole essere presente in ispirito nel momento in cui la Trinità santa scenderà in quell’anima, sotto i segni della rigenerazione cristiana. È il fiorire del simbolismo mistico: «Ogni cosa è un sacramento che le dona Dio » (Lettera alla signora A… – 1906). Vi è un altro aspetto del dono dell’intelligenza, particolarmente sensibile nei teologi contemplativi. Dopo le dure fatiche della scienza umana, d’un tratto, sotto un forte impulso dello Spirito, tutto si illumina: ed ecco che un mondo nuovo appare in un principio o in una causa universale: quali ad esempio, Cristo-Sacerdote, unico mediatore fra il cielo e la terra; oppure il mistero della Vergine Corredentrice che porta spiritualmente nel suo seno tutti i membri del Corpo mistico: o ancora il mistero dell’identificazione degli innumerevoli attributi di Dio nella sua sovrana semplicità e la conciliazione della Unità d’essenza con la Trinità delle Persone, in una Deità che oltrepassa all’infinito le indagini più acute e profonde di tutti gli sguardi creati. Ecco altrettante verità che il dono dell’intelletto approfondisce senza sforzo, saporosamente, nella gioia beatificante di una «vita eterna iniziata sulla terra », alla luce stessa di Dio. Due princìpi soprattutto attirarono e fissarono lo sguardo contemplativo di suor Elisabetta: l’influenza universale della Trinità che dimora nell’intimo dell’anima per santificarla e custodirla « immobile e in pace », sotto la sua azione creatrice; e l’attività redentrice di Cristo presente sempre in lei per purificarla e per divinizzarla: due punti cardinali della sua spiritualità. – In senso inverso, il dono dell’intelletto rivela Dio e la sua onnipotente causalità negli effetti, senza bisogno dei lunghi raggiri discorsivi del pensiero umano abbandonato alle proprie forze, ma con un semplice sguardo comparativo e per intuizione « alla maniera di Dio ». Negli indizi più impercettibili, nei minimi avvenimenti della sua vita, un’anima attenta allo Spirito Santo scopre d’un tratto tutto il piano della Provvidenza a suo riguardo. Senza ragionamento dialettico sulle cause, la semplice vista degli effetti della giustizia o della misericordia di Dio le fa intravedere tutto il mistero della predestinazione divina, del « troppo grande amore » (Efesini, II-4) che insegue, instancabile le anime per unirle alla beatificante Trinità. Attraverso a tutto, Dio conduce a Dio. – Quando si pensa alla limitata cultura religiosa di suor Elisabetta della Trinità, si resta stupiti delle pagine così profonde e luminose che ci ha lasciate sul mistero della Vergine e di Cristo, sull’abitazione di Dio nelle anime dei giusti, sulla lode di gloria che deve elevarsi, incessante, verso la Trinità adorabile. Il teologo attento deve concludere che tale conoscenza sopratecnica non può spiegarsi in quest’anima se non con l’esperienza di quella sapienza incomunicabile che Dio riserba « ai cuori puri» (S. Matteo, V-8.).

LA GRAZIA E LA GLORIA (19)

LA GRAZIA E LA GLORIA (19)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO IV.

L’ABITAZIONE SINGOLARE DI DIO NELL’ANIMA DEI SUOI FIGLI ADOTTIVI. IL FATTO E LA NATURA DI QUESTA ABITAZIONE.

CAPITOLO III

La grazia santificante, il legame necessario tra l’anima del giusto, figlio adottivo, e Dio inabitante. I due elementi dell’adozione: grazia creata, grazia increata.

1. – Non basta sapere che la Trinità tutta intera abiti nel cuore dei figli di Dio. Resta da cercare il nodo di questa ineffabile alleanza. Ora, questo legame non è altro che la grazia santificante; e questa è una verità che emerge con evidenza dai testi più volte citati (vedi, per esempio, L. II, c. 4.) nel corso di questo lavoro. « Miei cari, se ci amiamo gli uni gli altri (in altre parole, se abbiamo la carità), Dio abita in noi e noi in Lui » (I. Joan., IV., p. 113). (I. Giov., IV, 12). Ma, come sappiamo, la carità non può esserci senza la grazia santificante, dalla quale è necessariamente dipendente, e di conseguenza ciò che la carità fa, la grazia lo fa in essa e attraverso di essa. Perché Dio viene in noi? « Giacché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei vostri cuori » (Galati IV, 6). Che pensiero magnifico, e come ci mette davanti agli occhi tutta l’economia del nostro essere soprannaturale e della nostra adozione! Non era forse necessario che, dopo averci dato la partecipazione della sua natura e averci adottato come figli, Dio ci facesse entrare nella comunione dello Spirito che è nel Figlio, il primogenito del Padre? Ora, da dove viene questa filiazione che richiama lo Spirito, se non dalla grazia di cui è l’effetto formale? E così, in molti luoghi, la Sacra Scrittura, nella varietà delle sue formule, ci fa vedere la relazione naturale tra la grazia e l’inabitazione della Trinità nelle nostre anime. – Non stupiamoci, dunque, di vedere tutti i sapienti Dottori e gli illustri maestri della Scuola affermare questa connessione come essenziale. Nella prima metà del XIII secolo, alcuni discepoli di Pietro Lombardo, approfittando di un testo incompreso del Maestro delle Sentenze, inventarono una teoria più che singolare. Lo Spirito Santo – essi dicevano – può essere considerato da tre punti di vista principali: in se stesso: è l’amore del Padre e del Figlio; nell’anima dove abita: è la grazia nella volontà di questa stessa anima, èla carità con cui amiamo Dio. Di conseguenza, lo Spirito Santo da solo e senza alcun intermediario creato si unisce alle anime dei giusti. Andando ancora oltre, essi resero l’unione dello Spirito Santo con la volontà dell’uomo ad immagine dell’unione personale del Verbo con la natura umana. Come, dunque, il Verbo solo si è incarnato, anche se l’incarnazione è opera di tutta la Trinità; così, anche se le tre Persone uniscono lo Spirito Santo alla volontà, l’unione rimane esclusivamente propria di questo Spirito divino. Ne seguirebbe che Esso stesso sia la nostra carità non per appropriazione, ma per unione. Una tesi paradossale che essi confermavano con queste parole dell’Apostolo: « Chi aderisce al Signore è un solo spirito con Lui. » (1 Cor. IV, 17). Ho riportato questo antico errore negli stessi termini in cui lo espose San Bonaventura. S. Bonaventura lo espose, prima di combatterlo (S. Bonav. in I D. 17, p. 1, a. 1. q. 1). Riservando ad un altro luogo il giudizio da dare sull’unione singolarmente propria che essa suppone tra l’anima e lo Spirito Santo, citeremo qui soltanto le testimonianze della grande Scolastica a favore del dono creato della grazia, considerato come un mezzo ed un tratto di unione. Prima di tutto, ecco quello di Alberto il Grande. Perché Dio sia nei Santi in modo speciale, e non solo come è in ogni creatura, « è necessario che ci sia per mezzo dell’abitudine infusa della grazia… Infatti, Dio, questo nobilissimo Spirito, può unirsi all’anima spirituale solo per mezzo di una qualità creata che Egli infonde in quell’anima, e questa qualità la chiamiamo grazia » (Albert. M. in I D. 26.). Gli fa eco Alessandro di Halès, quando scrive: « Dio senza dubbio è in ogni creatura per essenza, per potenza e per presenza; ma solo la grazia può unirci a Lui con la conoscenza e con l’amore; e questo è il modo di unione che manca ai peccatori » (Alex. Halens., 3 p., q. 61, m. 2. A 3, ad 7 e 8). Poche righe prima, nel corpo dell’articolo, aveva scritto: « La grazia (ciò che rende un’anima oggetto della compiacenza divina) ha in colui che la possiede un doppio elemento: uno creato, l’altro increato. L’elemento increato è lo Spirito Santo che lo trasforma. L’elemento creato è la disposizione che rende l’anima capace di ricevere lo Spirito Santo, la forma che lo Spirito divino produce nell’anima, trasfigurata dalla sua influenza onnipotente. » E qual è questa disposizione? « Nient’altro che la deiformità dell’anima e la rassomiglianza divina. – Quæ dispositio non est aliud quam deiformitas et divina assimilatio” (Idem, 3 p., q.12, m.1). – Dopo i due maestri, ascoltiamo i discepoli, ma discepoli che, nella scienza come nella santità, hanno prevalso sui loro maestri. – Ricordiamo la risposta data da San Bonaventura a coloro che rifiutavano la grazia finita, con il pretesto che la sostanza dei doni soprannaturali è il Dono per eccellenza “Donum Dei altissimi“, cioè lo Spirito Santo: « Dire che lo Spirito Santo è la Sostanza dei doni, il Dono sostanziale, non è escludere il dono creato, ma includerlo. »  Poiché la ragione che dà per questo è una di quelle che si ripresenteranno quando dovremo trattare più espressamente del modo di unione, ne trascrivo qui solo un estratto. « Quando si dice che lo Spirito Santo ci sia dato, si afferma che è in noi come un oggetto di possesso. Ora noi lo possediamo quando abbiamo la facoltà di goderne, e questa facoltà la acquisiamo per il dono creato della grazia » (S. Bonav., II D. 26, a.1, q. 2, ad 1). – Su questo argomento capitale, il Dottore Angelico è in perfetto accordo, sia con i suoi predecessori che con il suo beato emulo, San Bonaventura. « La nostra unione con Dio – egli dice – si fa mediante la grazia abituale creata come sua causa, e per ciò in cui ha luogo l’unione; perché è nella somiglianza della grazia che l’anima diventa conforme a Dio e unita a Lui » (S. Thom. III D.13, q. 1, a.1, ad 1: – Dicendum quod unio nostri ad Deum est per gratiarm habitualem creatam sicut per causam et sicut id in quo est unio: quia in ipsa Similitudine gratiæ animam Deo conformatur et unitur »). Altrove, rispondendo agli sprovveduti discepoli del Maestro delle Sentenze, di cui abbiamo parlato prima, così li confuta: « Dio è presente nei Santi come non è presente nel resto delle creature. Ora, questa diversità di presenza non può avere la sua ragione d’essere in Dio, perché per sua natura Egli è assolutamente lo stesso per tutti. La causa di questa diversità deve dunque essere ricercata nella creatura in cui Egli fa la sua dimora speciale; cioè, questa creatura deve avere in sé qualcosa che non si ritrovi nelle altre. Ora, questo qualcosa non è l’Essere divino; perché ne seguirebbe che tutti i giusti sarebbero uniti allo Spirito Santo nell’unità di persona, allo stesso modo di come la natura umana è nei confronti della Persona di Cristo fatto uomo. Perciò è necessario che sia un effetto di Dio », cioè la grazia e la carità (S. Thom. In 1 D. 17, q.1, a. 1 in contra). – E questa prova gli sembra così convincente, che non si stanca di ritornarci ogni volta che lo stesso argomento si ripresenti sul suo cammino. Parlando della missione santificante dello Spirito Santo, egli osserva prima di tutto che una Persona divina non può essere né inviata, se non è in modo nuovo nella sua creatura; né data, se non è posseduta da essa. Ora – egli aggiunge – sia il dono che la missione presuppongono la grazia santificante. Da qui la conclusione: « È nel dono della grazia gratum facientis, che lo Spirito Santo è posseduto dagli uomini, ed in essi fa la sua dimora (« In ipso dono gratiæ gratum facientis Spiritus sanctus habetur et inhabitat hominem », 1 p., q. 43 a. 3, in corp.). Ma, per questo motivo, affinché l’umanità di Cristo gli sia sostanzialmente unita nell’unità della persona, sarebbe anche necessario interporre tra i due una perfezione creata, un legame necessario che li colleghi l’uno all’altro. Gli antichi Dottori avevano ammesso questa conseguenza. San Tommaso la respinge come incompatibile con l’unione sostanziale, ma rimane fedele al principio. Ecco come risolve la difficoltà: « È vero, lo Spirito Santo è dato di nuovo, non a causa di un cambiamento che avviene in se stesso, ma in virtù di quello che avviene nella creatura, con la ricezione del dono stesso della grazia. Ed è con un cambiamento analogo che il Figlio di Dio si unisca alla natura umana. Questo cambiamento non va cercato in Lui, perché è immutabile, ma nell’umanità, che Egli innalza fino a sé. Infatti non riceve più soltanto un dono creato, ma l’essere increato della Persona divina: poiché la natura è immediatamente unita, quanto all’essere, alla persona » (IIID. 13, q. 3, a.1 ad 7 e 9). È impossibile concepire come una vera unione possa formarsi tra due termini, fino ad allora separati, se non ci sia un vero cambiamento in nessuno dei due. Essendo Dio, dunque, l’immutabile per eccellenza, è nel termine creato che deve avvenire il cambiamento, condizione della nuova relazione e suo necessario fondamento. In Gesù Cristo, « Dio è nell’umanità in modo diverso che nelle creature ordinarie, per questo solo, che gli viene comunicato l’essere della Persona divina » (Ibid., ad 8). Dunque, un cambiamento reale da entrambe le parti; ma con questa differenza che nell’unione ipostatica è l’Essere increato che viene ricevuto, mentre nell’unione giustificante e santificante lo è il dono della grazia creata.

2. – Alla fine del Medioevo, apparve una scuola che, allontanandosi dalle antiche tradizioni, tendeva a confondere tutto in teologia, come in filosofia: era quella dei Nominalisti. Abbiamo già osservato come, senza respingere interamente la grazia abituale che ci rende figli di Dio, ne attenuava molto il ruolo, ne cambiava il carattere; in una parola, non vedeva più in essa quella forma interiore che trasfigura le anime, perché è l’immagine viva della natura stessa di Dio. Non consideravano questi, quindi, i doni creati come assolutamente necessari per la giustificazione e la glorificazione dell’uomo: poiché Dio, per un atto puramente estrinseco di benevolenza e senza alcuna reale trasformazione, poteva – a loro avviso – accoglierci nella sua grazia e conferirci la gloria come eredità. Di conseguenza e nello stesso ordine di idee, la dimora di Dio nei giusti e la missione dello Spirito Santo di cui questi stessi giusti sono il tempio, sebbene uniti nell’ordine attuale della provvidenza con l’infusione della grazia, sarebbero di per sé assolutamente separabili (Cf. Gregor. Arim. in I, D. 14. Q. 1. Concl. 3. Item, Ockam, Petr. Alliac, Gabriel Biel). – Essi sostenevano volentieri che Dio possa darci di produrre gli atti soprannaturali, non solo della fede e della speranza, ma anche della carità, con dei soccorsi attuali, indipendentemente dalla grazia santificante e dalle virtù infuse, sebbene questo modo di agire sia meno conforme alla natura delle cose o, per usare una locuzione teologica, non sia connaturale. Ma che in questa assenza dei doni abituali della grazia ci possa essere l’adozione, che sia la Sacra Scrittura che la Tradizione Cattolica ci predicano, è assolutamente impossibile da ammettere, quando abbiamo davanti ai nostri occhi gli insegnamenti della Sacra Scrittura e della Tradizione (Suppl. L. II, cap. 1-4). No, non c’è filiazione propriamente detta senza la grazia santificante e le virtù che l’accompagnano, perché chi non partecipa formalmente alla natura del padre non è figlio, e questa partecipazione non si spiega senza la forma immanente e permanente che chiamiamo la grazia. – Invano si affermerebbe che « l’assistenza dello Spirito Santo potrebbe, senza l’intermediazione di doni creati, santificare moralmente l’anima con la sua presenza, e darle la capacità di produrre le operazioni soprannaturali che sono proprie dei figli di Dio. » Sarebbe pure vano aggiungere: « Se un uomo può adottare un altro uomo, senza che quest’ultimo subisca alcun cambiamento fisico, perché Dio non potrebbe farlo? »  Concedo prontamente che, nel caso ipotetico di un’anima priva della grazia santificante, pura e senza peccato, ma illuminata, sostenuta, spinta da ciò che chiamiamo le grazie attuali e l’impulso dello Spirito Santo, « non adhuc quidem inhabitantis sed tantum moventis » (Conc. Trident., Sess. 14, cap. 4. Lo Spirito Santo muove i peccatori, non abita in loro. Infatti, abitare è dimorare. Ora, sebbene lo Spirito Santo sia nelle grazie attuali, e attraverso queste grazie nell’anima che le riceve, non dimora, perché le grazie attuali sono solo transitorie. Esso non dimora nella sostanza dell’anima, perché la grazia attuale raggiunge solo le potenze, e non va direttamente fino alla natura stessa), potrebbe esserci come un’ombra di adozione. Ma chi non vede come questa filiazione sarebbe inferiore sotto ogni aspetto a quella che Dio ci ha dato attraverso Gesù Cristo, il suo unico Figlio? Inferiore dal punto di vista dell’essere: perché non ci sarebbe nell’anima nessuna di quelle qualità soprannaturali e trasformanti su cui debba poggiare la suprema dignità di un figlio. Tutto si ridurrebbe ad atti transitori che la bontà divina si degnerebbe di accettare come disposizioni per il futuro possesso della sua gloria. In una parola, sarebbe meno la condizione attuale di figlio ed erede che la speranza di diventarlo un giorno. Inferiore anche per quanto riguarda l’azione: perché la persona, non avendo più in sé quell’eccellenza che eleva le sue operazioni e compie gli atti di un figlio, il merito delle opere difficilmente corrisponderebbe alla grandezza della ricompensa più degli atti soprannaturali che precedono la giustificazione in noi. Inoltre, abbiamo già visto perché l’adozione divina esiga nell’adottato una trasfigurazione della natura, che non è possibile né necessaria per le adozioni umane: queste ultime presuppongono la comunità della natura, mentre le prime, in una certa misura, devono farla. – Non è risolvere la difficoltà l’appellarsi alla grazia increata, la cui presenza basterebbe a costituire il fondamento dell’adozione, poiché questa grazia è permanente nell’anima solo attraverso la grazia creata. Bisogna quindi aderire alla dottrina espressa da Suarez a nome di tutti i grandi dottori della Scuola. Non c’è vero figlio adottivo senza una partecipazione della natura paterna; non c’è nuova inabitazione di Dio né missione dello Spirito Santo, senza un reale cambiamento in atto nel profondo delle anime, cosa che può essere spiegata solo dalla grazia e dai suoi annessi (Suarez, De Trinit., L XII, C.5, N. 3, ff.).

3. – D’altra parte, come abbiamo ampiamente dimostrato, non c’è filiazione adottiva per chi non possieda lo Spirito Santo. Non è Egli forse « lo Spirito di adozione dei figli, nel quale gridiamo: Abba, Padre? Egli che abita in noi e testimonia al nostro spirito che siamo figli di Dio? » (Rom. VIII, 13-16). È Egli, dunque, che appartiene alla costituzione del nostro essere di figlio; ed è ancora Egli che, dimorando e operando nell’anima con la sua grazia, dà con essa, alle nostre opere di meritare la vita eterna (S. Thom., 1, 2. Q. 114, a. 4 in corp. et ad 5). Come potremmo essere come figli e come agiremmo se non avessimo lo Spirito del Figlio? Inoltre, non si comprenderebbe nulla della natura della grazia creata, né del ruolo che svolge nelle anime, il concepirla come separata dallo Spirito Santo. Questo è ciò che il presente capitolo ha messo in luce, e che diventerà ancora più evidente in quelli che seguiranno (vedi sotto il bel testo di Sant’Ireneo, L. VI, c. 5). – Quindi, non è né la sola grazia né la sola presenza permanente di Dio nell’anima santificata, ma sono entrambi gli elementi allo stesso tempo che costituiscono lo stato di grazia e di adozione. L’uno non va e non può andare senza l’altro. La grazia santificante richiama l’Ospite divino, e la presenza intima di Dio presuppone la grazia. Non dobbiamo vederle come due benefici separati o separabili; e tale è la loro connessione armoniosa che Dio stesso non può rompere, poiché è formata dall’essenza stessa delle cose. Ci sono gradi nella grazia santificante come nella dimora divina; ma sono di natura tale che ogni aumento della grazia ha come correlativo un ingresso più intimo del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in colui che li riceve; e reciprocamente, ogni miglioramento dell’unione presuppone un aumento della grazia creata. – Per questo io non potrei, per nessun’altra ragione, essere d’accordo con alcuni autori secondo i quali i doni creati siano assolutamente compatibili con lo stato di peccato mortale e di inimicizia con Dio, mentre questo stesso stato non si possa conciliare con lo stato di figlio e la presenza dello Spirito Santo: poiché c’è in questo una sola e medesima grazia – totale e totalmente invisibile – nell’ordine essenziale. – Le Scritture e i Padri, dopo aver caratterizzato distintamente i due principi costitutivi del nostro essere soprannaturale, li uniscono più di una volta nella stessa espressione: tanto intima e necessaria ne è l’alleanza. Non è forse quello che ci dice la partecipazione alla natura divina di cui parla San Pietro, o questa comunione dello Spirito Santo che ricorre così frequentemente nei nostri Santi Dottori? Infatti, partecipare è ricevere la cosa alla quale si comunica. « Il calice della benedizione che noi benediciamo – dice San Paolo – non è forse la comunicazione (κοινωνία = koinonia) del sangue di Gesù Cristo, e il pane che noi spezziamo, non è la partecipazione al corpo del Signore; perché noi siamo… un solo corpo, tutti noi che partecipiamo (μετέχομεν = metekomen) dell’unico pane? » (I Cor. X, 16-17). Partecipare, è ancora ricevere da un altro una parte dei suoi beni. Ogni creatura partecipa in qualche modo all’Essere di Dio, perché è, nella sua misura, una somiglianza, una copia della perfezione infinita. Prendete questi due significati, e capirete come la stessa formula (κοινωνίκ, μετoχή, μέθεξις = koinonik, metoke metexis), possa esprimere sia la grazia creata che quella increata, la qualità soprannaturale che ci trasforma nell’immagine di Dio, e l’unione molto intima che fa di noi i templi di Dio. Che l’uomo non arrivi dunque a separare ciò che Dio ha così strettamente unito. Quod Dens conjunxit, homo non séparet. (Matth. XIX, 6).

LA GRAZIA E LA GLORIA (20)

LO SCUDO DELLA FEDE (218)

LO SCUDO DELLA FEDE (218)

MEDITAZIONI AI POPOLI (VI)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE VI.

Come ci prepariamo alla morte?

i denti anneriti, resta spalancata la bocca, e l’anima da quell’orrendo cadavere viene già trabalzata al tribunale di Dio!… Il Sacerdote nel tremendo istante stringendo nelle sue mani tremanti quelle mani convulse: Figliuol mio, grida, vi è ancora misericordia! io vi assolvo in nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo… Gesù, Gesù, salvate quest’anima! Gesù, Maria, Giuseppe, ricevete quest’anima nella sua agonia… Angeli, Santi, accorrete !!… Ed egli vomita l’anima in braccio al demonio!… Signori, disingannatevi! una vita non mai preparata alla morte va per lo più a terminare così.

Noi lavoriamo, lavoriamo per raccogliere un po’ di beni di terra; e alla morte tutti i beni raccolti ci cadon di mano per terra. Noi corriamo appresso a lusinghevoli vanità; e nell’atto di raggiungerle, vanno in dileguo. Noi ci stringiamo di tutto cuore alle creature che ci sono care; e quando crediamo di amarle per sempre, ci si corrompono in seno. Noi travagliamo, travagliamo in tutti questi pochi anni di vita per ammucchiare un poco di polvere, che noi chiamiamo ricchezze; e la morte ci percuote, e ci fa cadere cadaveri sui mucchi di polvere, che abbiam raccolti! Ah che cosa è mai questa povera vita nostra? Un fiore che brilla di vivaci colori alla mattina: dice san Gregorio Nazianzeno, ed è appassito e morto la sera: una soffiata di vento, che passa rumoreggiando, e non è più; una nave che scivola a vapore sull’onde del tempo, e non lascia un segno del suo passaggio: è un lampo di luce, che gitta nella oscurità! Che è mai la vita anche dei grandi del mondo? Hai mai veduto il polverone che s’innalza dietro il carro, il quale corre sopra via d’estate? Guardalo da lungi: quando gli danno dentro i raggi del sole, ti par un monte d’argento; corrigli vicino: dov’è il monte d’argento?… Precipitò la polvere per terra! Signori, il tempo della vita è come un rapido torrente, che rompendo tra i sassi scorre appiè del trono di Dio, e porta via sul filone dei fiotti, come fuscellini a galla, le generazioni degli uomini, e le trabocca nell’abisso dell’eternità: e noi, come le bollicine di spuma restate per poco ad un fil d’erba attaccate, traballiamo un istante sul vortice dell’acqua veloce del tempo, che ci travasa tutti nell’oceano dell’eternità. Eternità, che sei tu mai? Se io domando alla ragione che cosa è l’eternità, la ragione mi risponde: ne ho un sentore, ma non l’intendo. Se lo domando alla filosofia, mi dà per risposta: l’ammetto, ma mi confonde! Se domando alla mia coscienza, che cosa è l’eternità, mi risponde: mi fa paura! Ma che cosa è mai dunque questa eternità in cui corro a buttarmi dentro?… Non mi resta che domandarlo alla Religione, la quale mi risponde con chiaro concetto: l’eternità è il paradiso, o l’inferno, che duran sempre! Lasciamo le baie, o signori, lasciamo gli scherzi di questo mondo di un’ora, e prepariamoci alla eternità, che troveremo alla morte tale, quale noi ce l’abbiamo preparata nel tempo della vita; poiché la morte rende l’eco della nostra vita. Provatevi a gridare là dove risponde l’eco, e la vostra voce istessa vi ritornerà ripercossa all’orecchio. Siete voi vissuti senza pensiero di Dio? Ahi! alla morte vi troverete abbandonato da Dio; e l’uomo abbandonato da Dio in morte è uom perduto in inferno. Cercate voi Gesù, frequentate i Sacramenti, per salvarvi in braccio a Lui? Morirete nel bacio di Gesù in pace ed entrerete nel gaudio del Signore, ch’è il paradiso! La vita adunque non è che una prova, una scuola per imparar a morir bene. Ecché? L’artigianello nella bottega dell’operaio al tirocinio lavora senza paga per anni, a fine di apprendere un povero mestiere da campar grama la vita: lo studente consuma il fior della gioventù nei difficili studi, per tornar dalle università laureato È in patria: e poi? poi in fine muoiono. Eh valeva di spendere tanto di vita, per vivere onorati così pochi anni? Ma era prudente cosa, mi risponderebbero tutti, il provvedersi da vivere in questi pochi anni. Bene sta. Ma non sarà prudente lo spendere questa breve ora del viver nostro, per prepararci ogni ben di Dio per tutta l’eternità? La scuola adunque della morte è la più ragionevole, la più utile delle scuole. Faremo perciò questa sera un po’ di scuola per imparare a morir bene. La faccia ogni mese chi vuol assicurarsi la vera sua fortuna, il paradiso. – Signori, noi moriam tutti. Lasciamo adunque i pregiudizi: una cosa è la più importante, ciò è trovarci alla morte preparati pel paradiso: e chi di noi non si prepara a morire con buone Confessioni, e coll’unirsi a Gesù Cristo nella vita cristiana, va per lo più con una cattiva morte a dannarsi all’inferno, laddove chi in vita cerca coi Sacramenti di unirsi a Gesù nel corso’ di una vita cristiana, riceve la corona della sua vita devota a Dio in una beata morte: ha il paradiso. Salvatore nostro Gesù, Voi che fino nelle ansie della vostra agonia consolaste il peccatore che vi domandava di aiutarlo a morire, tirateci Voi tra le vostre braccia per prepararci a spirare devotamente e nel vostro Costato. E Voi, o Madre santissima addolorata, che col cuore straziato assisteste nell’agonia il Divin vostro Figlio, deh! per questa tremenda angoscia vostra mostrateci fin d’ora a prepararci alla santa morte, cosicché nell’agonia i figli volino in braccio alla Madre in paradiso. Pregate adesso, e nell’ora della nostra morte: ora pro nobis nunc et in hora mortis nostræ. Noi non possiam lusingarci di non aver da morire; tuttavia pare che crediamo di allontanarne il pericolo col non pensarvi. La morte ci atterrisce il al solo immaginarla; e noi col non pensarvi ci bendiamo gli occhi e corriamo a perderci senza spavento. È terribile la morte del peccatore; ma si batte tranquillamente la strada che conduce a quel termine tremendo! Deh provvediamo a metterci in salvo dal più orribile di tutti i pericoli, dalla mala morte. Fra poco tempo, e quando non l’aspetteremo, verrà il momento in cui noi ci troveremo sul letto a tmorire. Vedremo che le visite degli amici si fanno più rade; i medici nel loro fare incerto ci lasceranno comprendere che non ne possono più niente; i congiunti intorno con una insolita tenerezza… ci faranno uno sforzato coraggio; ma noi leggeremo facilmente negli occhi dei nostri cari, che vanno nell’altra camera ad empire le mani di pianto sulla nostra disgrazia! Intorno a noi una morta calma, un cupo silenzio … Qualche amico più confidente ecco viene fino all’uscio della nostra stanza, fa capolino, e si tira indietro dicendo: che non vuol disturbarci; ma è perché ha paura di noi che siam tantosto cadaveri!… Una persona, per lo più devota, si fa appresso del letto e con una confidenza mai non usata ci dice, che dobbiamo farci coraggio, che si prega per noi, che staremo meglio, che si spera… ma che sarebbe bene… per la quiete della famiglia… per divozione… È che? — Ricevere i Sacramenti al letto! — Oh Dio! — dobbiam dunque morire? — Che terribile colpo, che rompe sull’istante tutti i nostri disegni!… Noi qui nel mondo siamo come il pulcino sull’aia che va razzolando per entro alla lolla, e se trova qualche granello, batte le aline, saltella vivace; quando ecco l’avvoltoio gl’irrompe addosso e stridendo lo porta via. Mentre noi siamo tutti affannati ad arraffare ricchezze tra la polvere della terra, ahi! come aquila, che rapida piomba, ci cade addosso la morte, ci artiglia, ci porta nell’eternità; e delle cose del mondo forse non ci restano che sole le nostre colpe. Finché la sanità è fiorente, della nostra coscienza non vediamo che la superficie: un lungo abito di peccati si guarda come un solo peccato; e delle nostre passioni ci salta agli occhi solo la più tiranna. Ma la moltitudine delle nostre colpe, da noi tutti i giorni incautamente ingrossata, sta come una turma di assassini in agguato, per assalirci nel terrore di quella ultima confusione. Allora ah ci assalgono tristi fantasmi, immagini di tali persone e di tali fatti che… ah stanno come spettri, dinanzi agli occhi: e crudi rimorsi, come serpi mordono nel cuore; e più l’anima si addentra in quel tenebrore, i nemici ingrossano a furia, a maniera delle nubi nell’ora del temporale. Io non so, o fratelli, se voi non vi siete mai trovati in mezzo ad una solitaria campagna sul far della notte tra lo scoppiar di una tremenda burrasca. Allora buio il cielo, e dal tetro orizzonte nubi biancastre scorrono basse basse ad investir la terra: il mar ribolle ruggendo, e sopra esso nell’aere scuro il bianco airone fa il largo giro, mette uno strido, e si tuffa nelle onde. Allora gli augelli cercano un cavo negli alberi dove nascondersi; le fiere del bosco escon di tana, fiutano in alto, sentono odor di tempesta, e si rintanano; e fin le piante par che abbassino i rami ad aspettarla. L’aere è negro negro, romba il tuono, guizzano lampi, che ah! fan vedere più spaventosa la tempesta sul capo. Allora cerchiamo un nascondiglio a riparo. Così il povero peccatore, quando la morte lo sorprende non preparato. In quella tempesta d’affetti, tra il rombar di rimorsi e le immagini di peccati, guizzano certi lampi di verità, che abbruciano l’anima: e succede orror di sepolcro, terror del giudizio, buia eternità, truce bagliore d’inferno!… Il peccatore meschino cerca rifugiarsi, con fremito convulso abbranca le lenzuola, e tremebondo in tutte le membra, dice rotto, che vuole andare a casa!… Gli astanti impauriti mormorano sommessamente: Poverino sta male di morte! – Ma egli si sforza di riaversi, e dice a se stesso: che non morirà. Si cerchi un altro medico. Viene a consulta il più dotto del luogo, il quale con quel suo gran fare lusinga a parole; e l’ammalato trangugia in tremito gli ordinati rimedii, quasi bevesse la vita. Così, mentre si sente morire, per un fil di speranza si attacca furiosamente alla vita che manca. Come l’uomo che barcollando dalla vetta del monte scivola sulla rupe che gli sfugge di sotto: cerca sorreggersi, e precipitando sì aggrappa agli sterpi, s’arraffa alle spine, ma gli sterpi e le spine gli scappan di mano; gira le braccia per attaccarsi, quando piomba giù a rovina; nello stesso modo il disgraziato si attacca più vivamente al mondo quando la mano di Dio dal mondo lo balza nell’eternità. Oh morte, amara morte, così mi separi dal mondo? Siccine separas, amara mors ? Ma conviene che egli si disponga a confessarsi. I parenti si consultano… E quale sarà il suo confessore? Si guardano in volto con peritosa incertezza, e la consorte sospira con un gemito! La buona tutti gli anni alla santa Pasqua lo scongiurava che adempisse al principale dovere del Cattolico, si riconciliasse con Dio nella Confessione: ed egli in risposta una truce bestemmia. Ma intanto la morte si appressa. Presto, un Confessore qualunque!… Signori, ho da scoprire una piaga?… Eh mi è più cara la vostra salvezza che non il nostro onore sacerdotale! Io parlerò di coloro che, guardando la Pasqua come un tributo ancora da pagarsi al rispetto umano, con maligna accortezza si scelgono per Confessore un povero Prete, la cui vita mondana non possa essere di molto rimprovero alla loro propria, che vogliono continuare in peccato. Fermano nell’angolo della sagrestia un malcapitato Sacerdote, fosse pure un uom di piazza, e: fammi da profeta tu: esto mihi propheta! Dicongli in loro linguaggio. Giacché pensano che non avrà tanto zelo inquieto da disturbarli nella loro vita oziosa. Scelgono insomma un condottiero cieco, che li meni nel proprio accecamento in perdizione! Si cæcus cæcum ducit, ambo in foveam cadunt. Quanto è terribile Dio nella sua vendetta! Il peccatore voleva un Confessore mondano in vita per continuare ad offenderlo: ed ora per colpire il peccatore coll’istessa arma, in pauroso castigo… lascia che il peccatore sopra morte s’abbia un Confessore mondano! Ahi quanto è poi arido lo spirito del mondo! non ha una consolazione da dare nell’ora della morte! In tutta fretta, con alcune tronche parole, il prete voluto l’ha già confessato e assolto; se ne sbriga in furia, e va, abbandonando l’infelice morente nel terribile impegno di morire senza essere ben preparato. – Può avvenire che qualche anima buona tenga modo che gli sia mandato al letto un Confessore santo. Allora l’uomo di Dio lo vorrebbe disporre colle industrie della carità, e: Mio signore, da quanto tempo si è confessato?… Ed egli a lui: è già tanto…; non mi ricordo. — Ma da quanto tempo in questo peccato?… — Sempre: è il mio debole. — Ma quanti anni in questa pratica cattiva?… — Eh tanti anni…; ne aveva bisogno. — Dio della misericordia!… Ma qui è necessaria una confessione generale! — Per formarsi alla meglio un giudizio, il Confessore esamina… interroga… Ahi! con una mente che vacilla, con una memoria che si confonde, con un cuor che si spegne, con una lingua già incadaverita come stenebrar quegli abissi? come schiarire quella confusione di orrori a fine di metter in calma quella coscienza?. Ancor cerca di penetrarvi; ma l’infermo si conturba, si fa rosso infuocato… Il Confessore si accorge che egli diventa tutto convulso!… L’ha da far morire di spavento?… Tanto è inutile:… non lo comprende più!… Alza la mano, e gli dice tremando: Io ti assolvo per quanto posso… — quasi a dirgli: Va, ché sarai più esattamente giudicato da Dio! — Grande Iddio! uscirà quest’anima in tal confusione: si sveglierà scagliata ai piedi del tremendo tribunale della vostra giustizia, senz’altro intervallo tra una vita di peccato e la severità del vostro giudizio, che il vaneggiamento di pochi dì di malattia in furore? Sì, la settimana passata diguazzava ubbriaco in tempo delle funzioni nella bettola, e girava la notte a peccato proprio in quest’ora; stanotte va al giudizio di Dio: tre giorni fa nella casa del peccato, ora ad essere giudicato da Dio: senza altro tempo in mezzo tra il peccato mortale e la severità del giudizio tremendo; si, senza altro intervallo che di tre giorni di vaneggiamenti e di frenesie in furore. – Ben consolatevi voi, o cari, i quali in questa missione comporrete a pace la vostra coscienza, e per l’avvenire confessandovi sovente, così avrete il conforto di trovarvi preparati al giudizio di Dio. Alla morte chiamerete al letto il Confessore vostro: egli verrà, e il Confessore sarà l’amico che non abbandona l’amico nell’ora della paura: sarà come il medico che viene a calmarvi gli spasimi dell’agonia, sarà come un padre tenero ad asciugarvene i freddi sudori. Il Confessore sarà per voi come un Angelo che viene dal cielo a versare il balsamo del Sangue di Gesù Cristo sulle piaghe del vostro cuore tanto lacerato in quell’istante; o più ancora il Confessore sarà un ambasciatore, un vero plenipotenziario mandatovi dal Signore a dirvi a suo nome: Confida, o figliuolo, i tuoi peccati ti sono rimessi; ti do la scritta del perdono: presentala al giudizio segnata dal Sangue di Gesù Cristo: confide, fili, remittuntur peccata tua….. in nomine Jesu Christi: Amen. Noi, buon (GesùRedentore, vi baciam nel vostro Costato, perchévoi, che avete provato le angosce dell’agonia, ci deste la Confessione per farci spirar consolati nel vostro Nome. Ma può avvenire che noi moriamo all’improvviso. Dio tremendo! Avviene pur troppo che il peccatore sia là colla creatura del peccato, e che essole cada morto sui piedi all’improvviso! Capita che nel furor di una perdita di giuoco uno squarci labocca ad una bestemmia, e muoia colla bestemmia strozzata in gola! Che un altro sia là sul letto dei piaceri addormentato; e la morte gli dia il colpo…oh e’ si svegli sepolto in mezzo ai demoni nel fuoco d’inferno! Deh, deh pensatevi sopra (gridava per terrore infuocato s. Leonardo da Porto Maurizio).questo pensiero vale una predica! Uno può essere in peccato mortale addormentato, sentire il colpo di morte, aprire gli occhi e trovarsi all’improvviso sepolto coi demoni nel fuoco d’inferno! Pensateci, vi replico atterrito col Santo, pensateci!…Di certo si muore all’improvviso! anzi si muore troppo frequentemente all’improvviso. Noi non sappiamo bene se siano o i perturbati elementi, o i nostri metodi di vita alla moderna; se siano le passioni di più esacerbate, ovvero, come speriamo, se Dio colpisca in misericordia i buoni per dare avviso ai malvagi. Egli è un fatto che le morti improvvise si van ripetendo in tutti i luoghi a universale terrore; e voi le contate pressoché ogni giorno. Nei passati tempi qualche volta accadeva una morte improvvisa; ma era come uno scoppio di un di quei globi roventi, che di rado cadono di cielo, e nella loro caduta fan sentire un gran rombo le cento miglia lontano. Così le rade morti improvvise spandevano il terrore in tutto un regno. Si raccontava nelle famiglie nostre: il tale in quella città è caduto morto all’improvviso: restavamo muti un istante, poi un bisbigliare tutti colla nostra madre la preghiera: A morte improvisa libera nos, Domine!…. Ora queste tremende morti si ripetono tutti i dì; e noi assuefatti le ascoltiamo con una indifferenza che fa spavento. Se facciamo il calcolo quanti ne muoiano ad ogni mille, il conto ci dà chedi noi ora qui in questa chiesa molti troppo dovrebbero morire all’improvviso. Eh che la morte giàci mira alla vita! ah che qualcuno cade forse colpito ora… Guai a me! guai a voi! All’intronar tutt’intorno di quei colpi di morti improvvise io trabalzo in mezzo di voi strillando, come fa la chioccia sull’aia quando in mezzo ai pulcini guarda inisbieco in alto lo sparviero, il quale va roteando alarghi giri; fa la svolta, e stendendo gli artigli e il rostro giù, si vibra a terra. Garrisce la povera gallina madre che ella è: arruffa le penne, sì dibatte dell’ali, trabalza atterrita, croccia, croccia; e chiama crocciando i pulcini a salvarsi sotto la vita sua!…. Ah… piomba il falco! la si dà morta per terra!… poi si rialza… Oh le manca un pulcino! Ascolta in aria, e sente che geme negli artigli al girifalco… Corre furiosa: batte coll’ala i pulcini sperduti, e caccia tutti in un buco a salvarsi. Anch’io, anch’io vedo in alto che va roteando la morte, che ci adocchia la fiera: poveri, noi, veggo che ci coglie !…… Là siamo salvi ancora!. ahi che il colpo mi ha ucciso qui al fianco un amico! di là sento urla!..,. mi ha portato via un figliuolo!…. li ci è colpito un parente!…. Ma io non ne posso più!…. Strido col cuor lacerato: Salvatevi, salvatevi tutti! Io voglio cacciarvi tutti a riparare sotto le grandi ali del perdono di Dio: voi cioè vi dovete mettere tutti in grazia di Dio, affinché non vi porti via la morte improvvisa. Ma, se saremo in grazia, non potrà forse colpirci la morte improvvisa? No certamente. Potrà ben venire la morte repentina: ma improvvisa no, perché  l’abbiam prevista, e ci siamo provveduti. — Che se vi coglierà in grazia di Dio la morte repentina allora sarà una sorpresa d’amico. Quando è già da molto tempo che un amico non ha l’altro amico veduto, ed ora lo travede tra gente in calca, gli va adagino alle spalle, gli passa la mano sugli occhi all’impensata. In questa sorpresa l’amico quasi impaurito: ma chi è? esclama: l’altro gli risponde con un bacio in fronte, bacio reso più caro da quel quasi timore della sorpresa. — Fratelli, saremo noi in grazia, noi… Oh…. che è mai?…. Mi si oscura la vista!….. Mi manca il cuore ….. ahi che muoio!… o Gesù… o Maria !… Che spavento è la morte!,.. No, non abbiam tempo di spaventarci; ché non è più la morte; vi è Gesù che mi abbraccia alla vita nel bacio del paradiso!….. Oh paradiso,.. oh paradiso… oh benedetta la predica che mi fece preparare alla morte improvvisa! Ma è da ricevere il Santissimo Sacramento. Questo è il Mistero della Fede: Mysterium fidei. State attenti. Il Signore tratto tratto si degna di suscitare la divozione, anzi la fede con miracoli; e non vi è santuario della Madonna che non ne conti la sua serie. Celebri sono quelli dî Rimini, della Salette, di Lourdes; e noi ne vedemmo a Taggia; e poi quanti operati sulle tombe dei Santi! Ora se gli empi, a dispetto di tutte le prove da soddisfare la critica più esigente, calunniano e sanno di calunniare i devoti, dicono che li inventano; noi domanderemo loro perché mai non se ne inventano altrettanti e maggiori, siccome fatti dal SS. Sacramento, il più caro oggetto della divozione di tutti? Increduli! Nol vel diremo noi: È perché il Sacramento é più specialmente il Mistero da esercitare la Fede: Mysterium fidei… Noi crediamo che vi è Gesù nel Sacramento colla fede, potenza che viene da Dio. Invano gli occhi, il gusto, le mani ci dicono che non è: noi crediamo a dispetto dei sensi, che vi è il Corpo ed il Sangue di Gesù. Invano l’eresia dei protestanti, madre infelice del razionalismo, dice che è un segno, una figura; noi, a dispetto dell’orgoglio e dell’ eresia; e delle pretensioni della ragione, crediamo, che vi è proprio il vero Corpo e il Sangue di Gesù. Invano l’umanità progredisce nelle sue scoperte; noi crediamo colla fede degli Apostoli di mille ottocento anni fa. Eh noi siamo l’umanità più dotta, più virtuosa: perché la Chiesa Cattolica colla serie de’ suoi grandi uomini e de’ suoi Santi rappresenta l’umanità più colta e più virtuosa, ed è la maggior potenza intellettuale e morale del mondo: e noi con tali dotti, che non indietreggiano mai per le difficoltà nella ricerca del vero, con uomini dalle virtù eroiche più sfolgoranti, noi, buon popolo, noi facciam con essi come un sol corpo di una mente e di un cuore solo; noi crediamo, e crediamo unicamente perché Gesù Cristo dice: Questo è il mio Corpo, è il mio Sangue: quasi non ci curando neppure di citare miracoli, avvegnaché ne abbiamo dei grandiosi, come quello di Orvieto, in cui l’Ostia consacrata mandò vivo Sangue delle piaghe divine; e quello di Torino, dove l’Ostia santissima uscendo dalla pisside rubata elevossi in aria e stette sollevata risplendente qual sole al cospetto della città, la quale le innalzò una chiesa, a monumento eterno. Noi crediamo colla fede di s. Luigi re, che chiamato a veder Gesù visibilmente apparso sull’altare nel Sacramento, rifiutò di andarvi, essendo troppo più sicuro di crederlo colla sola fede, che di crederlo per averlo veduto. Noi crediamo di tal fede da voler dare la vita per difendere la nostra credenza. E qui appare l’onnipotenza di Gesù Cristo, il quale assoggetta tutte le menti dei popoli e dei più dotti con questa sola parola: questo è il mio Corpo: questo è il mio Sangue. Ma vi ha una fede, ch’è fede così morta che a mala pena si distingue dalla vera infedeltà. Lo dobbiamo dire? Se si domandasse ad un tale, se crede in Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento, egli risponderebbe forse indegnato: sì che credo e ché non sono io protestante. Ma, se credete (gli vogliam dire) perché mai bisogna scongiurarvi per farvelo ricevere almeno alla santa Pasqua? Perché lo si lascia senza un pensiero al mondo nelle chiesuole in un tabernacoletto che … e in villano abbandono? E se credete, perché si porta in trionfo la vanità fino sugli occhi a Lui sull’altare? Questa è fede morta! – Ma per morire santamente è necessaria viva la fede cattolica. Racconterovvi un fatto. Sofia principessa di Germania favoriva i falsi vescovi protestanti che si radunavano a convegno nelle sue sale. Quei sedicenti vescovi (benché si sia dichiarato, che ciascun protestante, massime della plebe, può morire come sel crede, senza pigliarsi punto cura di aver un ministro che lo assista al trapasso), trattandosi di una principessa in punto di morte, furono un giorno al suo letto, ciascuno colla Bibbia alla mano: poiché questo è il principio dei protestanti di ogni setta, che la santa Scrittura basti a tutti i bisogni dell’anime, e che sia libero a tutti d’intendere la parola di Dio, come ciascuno vuole e come meglio gli piace. Là eglino stavano a confortarla sopra morte. Principessa, le dice un protestante Luterano, pregate, pregate, acciocché Dio vi mantenga la fede, la quale basta a salvarvi: così dice a me la santa Scrittura qui. E che pregare? dice un protestante Calvinista; la santa scrittura qui mi fa sicuro, che la fede avuta una volta non si perde più. — Ma, principessa, le dice un protestante fido a Lutero nella sua prima confessione, preparatevi a ricevere Gesù impanato: ché l’evangelo parla chiaro qui, esservi il Corpo di Gesù. — Oh no, non fate; sarebbe questa idolatria, prorompe un altro Luterano; poiché Lutero si è poi dichiarato nella seconda confessione, che questo é, vale quanto: significa il Corpo mio. — Principessa, le diceva un Luterano moderato: doletevi dei peccati, che vi saranno perdonati. — Che peccati? Noi non possiamo peccare, perché non abbiamo libero arbitrio, diceva sdegnato un Calvinista. — Sì che si può peccare, rispondevagli infuocato un Luterano dei più recisi; ma abbiate la fede, e peccate pur qui allegramente in agonia: purché crediate, fate quel che volete. — Insomma tutti si bisticciavano in quelle dispute, buttando l’un all’altro sugli occhi le parole lì della Bibbia; e mentre s’incalorivano essi, chi era nell’impegno di morire, era la principessa, la quale con gemito loro diceva: O monsignori! lasciatemi morire senza disputare! La meschinella in quelle angosce aveva bisogno di morire con fede viva e sicura, e solo nella fede cattolica può essere la fede viva e sicura. Anche Melantone, uno dei caporioni dei protestanti assisteva nella morte la madre che atterrita nell’ansietà del dubbio: Mio figlio, gli disse col solenne accento dell’anelito estremo: tu disputasti già tanto di religione:…. dimmi ora, dimmi! alla fine dei conti, qual è la religione migliore? quella del Papa, o questa nostra protestante? — Melantone non ebbe cuore di tradire la madre in quel tremendo momento, e risposele con un sospiro: « mamma, questa nostra protestante mi va più a genio; ma quella del Papa è più sicura: Hæc nostra plausibilior, illa securior! » Venite ora a vedere come un cattolico, protestante in pratica, muoia con fede morta. Il buon parroco si fa al letto del malato, che visse con una fede a suo modo; e con gentil garbo: « signore, gli dice, voi vi siete confessato ;…. posso portarvi ora il Santissimo Viatico? E il morente a lui: Che?… or qui adesso?… sono già troppo stanco! Faremo presto: riposerete meglio poi… Ma egli: Oh… voi altri preti subito importuni a disturbar un malato!… Ma, signore! (in questi poveri tempi ormai siamo ridotti a parlar così)! signore! dichiaratevi: credete, o non credete?… Se credete, ricevete presto Gesù:….. è una gran fortuna che Egli venga a quest’ora ad accompagnarvi all’eternità! che se non credete, dichiaratelo; che io mi ritiro a piangere su di voi, e vi lascio morire nella vostra infedeltà!… Colui allora: eh voi altri preti siete sempre arrabbiati!… portatemi quel che volete!… Così si prepara a riceverlo in morte, come qualche volta in vita faceva per convenienza. Il Sacerdote intanto porta il Santissimo. La buona gente (e quale? Quella del buon popolo fedele, che correva appresso a Gesù, non già gli Scribi e Farisei nel paese dei Giudei d’allora) or l’accompagna col sospiro della confidente pietà salmeggiando: Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam: « O Signore, usate della vostra grande misericordia: e vogliamo dire di cuore: veniteci ad aiutare in morte, benché noi vi abbiamo tanto lasciato in abbandono in vita. » Entra in camera il Sacerdote, portando sul petto, innanzi al morente, Gesù santissimo, nostra speranza, tesoro dei nostri cuori; e coll’accento della tenerezza: Ecco, esclama, ecco l’Agnello di Dio, di cui non siam degni; ma Egli è che toglie i peccati del mondo. Esterrefatto il morente, come in pauroso incanto (egli non s’immaginò mai di vedersi quella scena nella propria stanza, perché non fece mai, come noi, la preparazione alla buona morte,) resta come da fulmine percosso. Il Sacerdote vien sopra all’infermo, e gli dice pietosamente: Ricevi, o fratello, Gesù .che ti accompagni alla vita eterna: accipe, frater, Viaticum… qui te… perducat ad vitam æternam! — Il morente apre macchinalmentela bocca. Il sacerdote gli depone in essal’Augustissimo Mistero. Quegli lo trangugia comeun boccone di medicina amara; e tristo e cupo sinasconde il capo dentro le lenzuola. Il Sacerdotese ne va: lodate, dicendo col suo popolo, lodate il Signore, il quale si è qui con noi fermato per usarecosì grande misericordia: Laudate Dominum omnes gentes, quoniam confirmata est super nos misericordia eius. — Ma il morente resta un istanteda solo: e qui alla prova la sua fede! Hodunque ricevuto Dio? dice con se stesso… Ma, sesono tutte nenie dei preti… Ma voglio credere cheho ricevuto Gesù Cristo… Eh no: guarirò, ripetecon rabbia: e sì allora non sarò stupido io da lasciarmitormentar dai preti… Ma se muoio? Vorreicredere io… Che negro dubbio… Voler crederee non poter credere, deve essere un terribile battagliarein quell’ora di tremendo scoramento.Ecco perché noi v’invitiamo, vi supplichiamo;vorremmo tutti unirvi con Gesù Cristo nel Sacramentoqui or in vita, affinché abbiate a trovarviin seno a Lui confortati alla morte, come s. FilippoNeri. Il gran Santo, vedete, viveva tutto colcuore nel suo Gesù. Per lui trovarsi avanti all’altarevicino vicino, cuore a cuore con Gesù nel Sacramentoera un sovrabbondar di gaudio tutto celeste,era un paradiso. Quando veniva obbligato amalincuore di allontanarsene, questo Santo innamorato,in sul partire gli occhi, il cuore, tutta la personarivolgeva addietro, e tornava a sorridere all’Amorsuo Divino, e gli mandava tenerezza di baci sullesue Piaghe, e l’abbracciava nel petto nella Comunionespirituale, e si sommergeva nell’immensabontà del suo Dio. Poi — là via, me ne vado, (diceva in un gran sospiro), ma il mio cuore resta qui. Neh, mio Gesù, che terrete il cuor mio con voi, mio tesoro? — Ebbene, era egli in sul letticciuolo nello stremo dell’età consunto di forze, mezzo addormentato, o come morto; quando lo scuotono, dicendogli: Padre Filippo! svegliatevi: viene Gesù nel SS. Sacramento! E s. Filippo: Oh! il mio Gesù…..! il mio grande Amico Divino!…: pensava ben io che non mi avrebbe abbandonato… Mio Gesù! sognava appunto proprio di ricevervi ora… Ciò dicendo fa uno sforzo per balzare di letto e gettarsegli incontro: e riceve Gesù in tale estasi di gaudio, che con due occhi scintillanti di luce celeste si solleva in aria, quasi volesse col suo Gesù risorto volare in Paradiso anche col corpo prima di risorgere…: egli sentivasi in petto nel Sacramento il pegno della sua risurrezione! Deh miei cari figli, ascoltatemi. Io voglio tutto il bene vostro: noi viviamo insieme in Gesù Cristo tra le sue braccia, col Cuore suo che palpita in Divinità, e versa il Sangue nel nostro cuore: nell’ora paurosa della morte proveremo consolazioni divine. Corriamogli in braccio con orazioni giaculatorie: Gesù allora con tocchi spirituali ci farà provare godimenti di Paradiso. Tutti i di, nelle sante Messe alle quali assistiamo, giuriamogli sul suo Corpo di voler vivere insieme con Lui: ed Egli alla morte ci conforterà con tale sentimento della sua presenza, che noi in seno a lui sfideremo l’inferno. Accogliamo in petto nelle Comunioni Gesù, e noi vivremo in Gesù; e Gesù, palpitando nel nostro cuore, ci farà sentire come non siamo noi che viviamo, ma vive in noi Gesù. Così nella morte insieme con Gesù spirando, come egli vive nel Padre, noi voleremo in seno al Padre ad immergerci nella beatitudine di Dio. Pur sopra morte un cotal senso di paura anche verrà a noi…. E noi la diremo in Cuor a Gesù: Salvator mio! che tremendo passo è mai morire!… e Gesù a noi: ma la morte è un volare in Paradiso;… O Gesù, ma mi spaventa il giudizio! Ma se sono Io stesso che ti ho da giudicare. Voi, buon Gesù nostro? Voi, il nostro giudice, Voi, che tanto ci amate e cui pur tanto amiamo?… Eh noi ci abbandoniamo tra le braccia della vostra bontà: così spireremo l’anima in beata morte nel vostro costato. Voi intanto pigliatevi la seconda lezione per fare una tranquilla anzi beata morte nel bacio del Signore: è questa; bisogna vivere cristianamente in pratiche di divozione, frequentare i Sacramenti. La Madre Chiesa allora vi preparerà alla santa agonia. Ma bisogna morire: e avvegnaché si sia indurato nel male, si muore. Il buon parroco va per visitare il morente, ed osserva con ansietà alla famiglia, come pur troppo la malattia volga alla peggio; ed osserva che sarebbe dovere confortare il caro infermo coll’ultima grazia che ha in mano da disporre, ciò è il Sacramento dell’Olio Santo. Ah no, risponde vivamente la consorte: lo fareste dare nelle furie: aspettate quando starà peggio (e vuol dire: quando sì dibatterà ferocemente colla morte, che già lo avrà artigliato e lo strozzerà), allora vi chiameremo! Buon Dio! così non si può neppur tentare la prova dell’ultima misericordia, che in quel frangente pauroso viene tanto opportuna. – Il Salvatore nostro ben previde tutte le nostre paure, e col darci l’ultimo Sacramento volle dirci: Care vite di figliuoli miei, avete a morire: ma Io vi manderò la mia Chiesa, alla quale diedi in mano tutto il mio Sangue da spendere a vostra salvazione. Ella vi farà da madre in quell’estremo bisogno, in cui forse altri vi avranno abbandonato. Vi piglierà in grembo ella, vi chiamerà intorno i padri delle anime vostre (inducat presbiteros Ecclesiæ), che sono i Sacerdoti. Essi con amore avendo curato le anime vostre sanno che i peccati lasciano quasi sempre delle tracce, cui solo la virtù divina può cancellare affatto, dopo il perdono. Quindi vi porteranno nell’Estrema Unzione il balsamo del mio Sangue che salderà le cicatrici, vi ristorerà nella perfetta interezza per vivere alla vita eterna. Anzi, se sarà il ben dell’anima vostra, la virtù del mio Sangue vi guarirà anche del corpo (Noi supplichiamo i nostri lettori, predicatori, missionarii e parroci di diffondere la pratica di amministrare l’Estrema Unzione a buon tempo in sollievo degli infermi; e di cercar così modo di salvar loro la vita. L’Apostolo dice quando infirmatur, e non quando moritur. Con questa benedetta pratica, ove si proponesse questo Sacramento agl’infermi, non vi sarebbe pericolo di spaventarli, potendosi loro citar molti che girano pieni di vita, dopo d’aver ricevuto l’Olio Santo: anzi lo sospirerebbero come un rimedio pel corpo e per l’anima.). — Intanto il Sacerdote, ributtato lontano dall’empio, accorre a quell’infermo felice, che si è preparato con vita da buon Cattolico a morir santamente; e portando sul petto i santi Olii: Pace, dice, a questa casa, pace a coloro che abitano in essa. Mio buon fratello, Gesù qui vi manda un rimedio che vi ha preparato col suo Sangue, l’Olio Santo dico, che spero vi guarirà per nostra fortuna, se è bene per voi. Così avete tempo di abbandonarvi tranquillo a far la volontà del Signore, il quale vuole tutto il nostro bene. Al tutto vi toglierà dall’anima ogni resto di umana miseria, affinché, se il Signore vi volesse nella eternità, possiate volare all’amplesso del Padre in cielo, caro a Lui siccome un figliuolo del Sangue del suo Figlio. A questo avviso l’anima sospira soavemente, e guarda il Crocifisso, dalle cui piaghe aspetta il balsamo alle piaghe del proprio cuore. L’Estrema Unzione! che bel Mistero di tenera misericordia! Che consolazione, di cui abbiamo tanto bisogno, sarebbe per noi; se non ne sturbasse il piangere dei congiunti! Però hanno essi una certa quale ragione, poiché si aspetta a dar l’Olio Santo a fil di morte. Sicché si confondono le consolazioni del Sacramento collo spavento dell’agonia. Via il terrore! lasciate fare a Gesù Salvator nostro. Egli con un Sacramento apriva le porte della Chiesa a noi appena nati; Egli ora a noi in pericolo di morte con un Sacramento apre le porte del paradiso; e prima che c’incamminiamo qui in basso tra noi versa da ciascuna delle sue piaghe il balsamo sulle piaghe nostre ad una ad una, ed impronta del sigillo del suo Sangue i sensi del corpo, per serbarlo alla risurrezione. Mettiamoci qui come a far prova di riceverlo anche noi. – Il Sacerdote esclama: — Grande Iddio, siam peccatori, lo confessiamo, abbiam fatto male: confiteor… mea culpa…; abbiamo fatto troppo gran male: mea maxima culpa. Ma a voi, o Maria, Madre nostra,a voi tutti, o Beati, confidiamo le nostre miserie. Deh otteneteci voi misericordia. — Qui il Sacerdoteci fa sopra il segno di croce per ripararci sotto le piaghe di Gesù; e alzando la mano, quasi pigliasse una manata del Sangue del Redentore, ci assicura la misericordia e tutta la indulgenza dalla parte di un Dio che ha una bontà onnipotente. Misereatur… indulgentiam; e stringendosi sul petto a Gesù, cerca ad una ad una le parti del corpo nostro, dove ipeccati potessero aver lasciata qualche impressione, per ogni taccola, ogni ricordo di colpa. Vi ungiamogli occhi col dirvi: Occhi puri, che vi siete chiusidavanti a lusinghieri oggetti, purificatevi col Sanguedi Gesù Cristo, perché, dopo la risurrezione, benchédi carne, avete da contemplare lo splendore dellabellezza di Dio. Bocche sante, calde dell’alito dellacarità, profumate dell’aroma delle preghiere, purificateviancora perché vi vorran baciare gli Angioli,a cui rispondeste di qui in terra, quando eravateintesi ai loro cantici di paradiso. Purificatevi,o caste orecchie: voi vi siete serrate alle mormorazioni,ai cattivi discorsi: ora dovete aprirvi adarmonie celesti. O ricchi, datemi le vostre manipiene d’opere di carità, e purifichiamole, perchéi poveri ve le vorranno baciare per eterna riconoscenza.Anche voi, o poveri, porgetemi le vostremani disseccate, indurite negli aspri lavori. Oh mi par di toccare le mani piene di Sangue e crocifisse.Ai Gesù Cristo! Via, lasciatemi purificare i vostripiedi o tribolati; ve li hanno lacerati le spine delCalvario, seguendo Gesù colle vostre croci d’ognimaniera. Proprio con questi piedi voi dovete camminarenegli eterni tabernacoli del novello mondodopo la risurrezione. Anima cara, hai amato la giustizia,hai odiato l’iniquità; ed. ecco: il SignoreIddio, il Dio tuo Gesù ti unse coll’Olio delle celesticonsolazioni! Bontà di Dio! noi vogliam baciarviin Cuor nel Sacramento a nome di tutti i moribondinella Religione Cattolica. Ma piangiamo di compassionepei poveri protestanti, i quali per consolarei loro moribondi fanno leggere belle poesie, crudelescherno nelle angosce della morte! Sciagurati!rifiutano colle altre grazie dei Sacramenti eziandioqueste consolazioni dell’Olio Santo.Ma il Sacerdote si accorge che la cara animacosì ben preparata ormai si svincola dalla terra, e batte l’ali verso del cielo; e guardala come un amicoche sarà a momenti accolto in paradiso, dovelo vorrà ben raccomandare. Laonde si tien fortunatodi accompagnarla con ogni gentilezza di caritàfin sulla porta dell’eterno regno; e non l’abbandona più, finché non la vede introdotta. Come padre amoroso ha sempre paura che non le incolgapericolo in quel passo; e le sospira d’intorno, emanda le sue grida ad invocar assistenza: — OSignore (sentite le belle orazioni pei moribondi), oSignore, che salvaste Noè dal diluvio universale,liberate quest’anima dalle angosce della morte chetutti travolge! O Signore, che avete tirato fuori Abramodalla terra d’infedeltà, tirate quest’animada questa terra di miserie e di schiavitù nel regnoeterno della beatitudine! O Signore, che avete liberatoS. Pietro e S. Paolo, l’un dal naufragio, l’altrodal carcere, cavate quest’anima dal carcere diquesto corpo che cade infralito e scampatela dalnaufragio dell’agonia. — Ma per un fil di vita ètrattenuta ancora l’anima dal volare al cielo. L’uomdi Dio allora alza sopra del letto della morte il Crocifissoverso del cielo, e: parti (le dice come in estasicolla fortunata), parti, o anima cristiana, pel paradiso.Sei figlia del Padre celeste che ti ebbe appuntocreata pel paradiso; sei redenta dal Figlio,corrigli in braccio come figliuola del suo Sangue;ti ha santificata lo Spirito Santo col suo amore, vaa sommergerti nell’amor di Dio, beatitudine eterna!— Al morente, in vedere il Crocifisso elevato sopradel capo, par di vedere Gesù istesso, che collamano insanguinata gli apre in alto le porte del paradiso;onde dà come indietro per umiltà: padre,esclamando, padre… son peccatore! Ma il Sacerdote:Coraggio!… è Gesù che ti introduce! Ma, padre,fermatemi qui con voi un poco…; e i peccati dellagioventù? Ma e la Confessione generale? Oh! qui dite,fratelli, vorreste voi averla fatta questa confessione,e con una confessione generale aver l’anima purificatapel paradiso? Ma padre, ripiglia il morente:e le penitenze tante che facevano i Santi? E il Sacerdote:E le indulgenze che ti hai guadagnato? Avoi, signori: vorreste averne voi un bel tesoro? Eppurequando la Chiesa nella sua Casa fa dall’altarpubblicare che in tal giorno apre il tesoro dellesue indulgenze; è vero, tutti i poveri di spirito siaffollano ai confessionali a fine di cercarne pel bisognodelle loro animette: ma noi uomini d’importanzaaspettiamo a sospirarle quando siam là permorire: ridotti a dire con Filippo re di Spagna:stolto: varrebbe più avere scritto sopra un quarticellodi foglio i peccati per confessarli, ché non tuttii protocolli degli affari di Stato. Per me poi credo proprioche sia stoltezza non prepararci mai per l’animaun po’ di bene che vorremmo trovar allora in abbondanza;stoltezza vera correre qua e là affannati in tantefaccende, e non muover piede per andare ad unperdono in una chiesa… — Ma l’agonizzante contremola voce: Padre… padremio!… ho paura a morire e non so perché… — Il Ministro di Dio conla sua autorità: Figlio! Io ti comando, muori senzapaura! Grande Iddio! quale comando!.. E il morente sarà obbligato a far uno sforzo per morire senza paura? Si certo, perché il Ministro di Dio è già da molto tempo che esercita quest’autorità su di lui; e ne prescrisse il diritto: ed ora se trema il penitente per debolezza della natura, sì conforta colla grazia dell’obbedienza; e sforzandosi di non aver paura, se spira tremando, cessa il tremito, spirando nel Cuor di Gesù; e dice appena spirato: Dio della giustizia, me l’avete fatto comandar voi dal ministro della vostra bontà di morire senza paura. Signori, per presentarci al giudizio con tal confidente pietà, bisogna esser stato solito d’antica data ad obbedire al Confessore. Egli vi comanda nel corso della vostra vita di evitare quella occasione, di esercitare quella virtù, di fare quel tal sacrifizio; e voi obbedite? Obbedirete fino a morir senza  – Ma gli occhi del pio morente, quasi sazi della luce della terra, si volgono a nascondersi sotto le palpebre per fissarsi in quiete nella luce del cielo, lasciando cader l’ultima lacrima in seno alla bontà di Dio. Il cuore palpita, palpita celere;… sospende il palpito… è l’ultimo non mai provato: è il palpito confuso col palpito del Cuor di Gesù, principio di vita immortale! Miei fratelli, anche noi, anche noi, impariamo a morire così: stringeremo le mani sul petto ansante, gli occhi al Crocifisso in man del Prete, il cuor nel Sacramento. Ci scompaiono tutte le cose d’intorno: solo, come tra nebbie lontane, ci appare il lume dell’assistenza;. .. alle orecchie un sordo rumore sempre più confuso… vediamo più niente… sentiamo più niente… Succede oscurità…, tenebre fitte… solitudine immensa e silenzio… E questa la morte?… Ah no no! sarà il paradiso; oh paradiso! oh vita eterna immersa nella beatitudine eterna di Dio. Deh vogliam tutti prepararci, o miei cari figliuoli, a spirare in Paradiso a questo modo. – Però intanto chi non si prepara a morir bene così, muore pur troppo sovente di mala morte. Quante volte nella notte il buon Sacerdote sente un battere alla sua porta come d’un uomo spaventato col grido — Correte, o padre, nella stanza di quel cotale: ché già la morte lo strozza. — Il buon Parroco, presto allora gli Olii Santi ;… sale affannato per la scura scala, apre l’uscio… un odor di cadavere che lo ributta:… vince il ribrezzo: entra in camera, e vede il morente cogli occhi spalancati nella pressura dell’agonia. Si getta in fretta in furia una stola attortigliata al collo: bagna il dito nell’Olio Santo, e sul moribondo in fremito di tormenti atroci, par che dica nell’ungerlo in Sacramento: Pel Sangue di G. Cristo, occhi contaminati da tante maligne occhiate, purificatevi! (ma gli trema la parola sul labbro) Bocca infuocata da bestemmie…. da brutti discorsi e luridi contaminata e da baci:… bocca rigurgitante di ubriachezze, sii ora purificata (ma gli trema la mano!): mani piene d’opere di peccato;… piedi lordi in tante occasioni, purificatevi… Ma al Sacerdote manca il cuore; ed al morente in quella tetraggine par di vedere forse 1’Angelo dell’eterna giustizia, che gli metta sulla persona il marchio della riprovazione… Forse a lui in sullo spirare… (orrendo a vedersi!…) il Sacerdote con ispavento: signore!… fratello!… mio figlio !… gli grida;… e atterrito sta!… Il moribondo gli manda un arido sguardo… Il Sacerdote: mio figlio, fate coraggio: il Signore vi chiama ora in paradiso!…. Ma, gli guizza dagli occhi un non so che di tetro e di feroce da far comprendere quanto atrocemente si dibatta contro il volere di Dio, cogli occhi di sangue come iena ferita digrigna i denti! Il Sacerdote si volta al Crocifisso: deh, o Signore, non entrate in giudizio col vostro servo; ma colui par che dica collo spasmodico anelito: son… già… giudicato!… Parole di perdono vengono sul labbro amorevole del Sacerdote; ma le ributta quegli con un cuor di sasso… Allora l’uom di Dio stacca dal muro un Crocifisso polveroso, e glielo mette sugli occhi, gridandogli: mio figlio, eccovi Gesù: baciategli le piaghe, spirategli in cuore… Ma ahi!… la vista del Crocifisso lo fulmina di troppo terrore, e torcendosi par che dica: allontanate quel Crocifisso, mi fa spavento! Sciagurato! se ti allontano il Crocifisso, chi ti salverà? Ma il rantolo lo va soffocando: stirati appaiono ì lineamenti del volto, gli occhi sbarrati come di vetro rovente, grosse gocce di freddo sudore piovono dagl’irti capelli, stridono

Deh prepariamoci! prepariamoci alla morte!… (Si fa la raccomandazione dell’anima.)

Miei cari figliuoli! Levatevi su qui con me; cerchiamo d’imparar la maniera di fare buona la nostra agonia. (Quì si piglia in mano il Crocifisso, ed inginocchiatosi, con tutto il popolo insieme fa la raccomandazione dell’anima dicendo:) Mettiamoci qui come a spirar l’anima: gli occhi di tutti sul Crocifisso; e in tanta paura ripariamoci col cuore nel Cuor di Gesù nel Sacramento! – Oh Gesù! Oh Gesù!… Quando mi si oscurerà la vista nell’agonia…. e vorrò guardare a Voi Crocifisso, e non vi vedrò più; … vorrei dire allora, ma non lo potrò! lo dico adesso per allora col cuore a voi nel Sacramento: Gesù e Maria vi raccomando l’anima mia!… – Oh Gesù, quando nel fremito della mia agonia tenterò di stringermi colle mie mani sul cuore a voi Crocifisso, e le mie mani tremolanti vi lasceranno cadere sul mio petto ansante;… vorrei dire allora, ma non lo potrò!… Ve lo dico adesso per allora col cuor a voi nel Sacramento: Gesù e Maria, vi raccomando l’anima mia!… – Oh Gesù:… quando vorrò baciarvi le piaghe sul Crocifisso e in quel bacio versare il mio cuore nel vostro costato…. e le mie braccia tremanti convulse non potranno baciarvi più; vorrei gridarvi allora, ma non lo potrò! lo faccio adesso per allora :… Gesù e Maria, vi raccomando l’anima mia!… – Oh Gesù…, quando mi sentirò accorciare il fiato,… tremolarmi tutte le carni, e nell’anelito boccheggiante morirmi il cuore!…. oh Gesù, oh Gesù, dirò, ahi che muoio! tremendo punto!… Oh che corro in questo momento in paradiso, o nell’inferno…. E chi è che parla ora d’inferno?… Gesù! Gesù! lo spiro nel vostro Cuore l’anima mia!… Gesù e Maria… ricevete l’anima mia… in paradiso., O miei figliuoli! spireremo di dì? spireremo di notte? dove spireremo?… Vi sarà qualcun che ci accompagni colla preghiera la nostra agonia?….. Non lo sappiamo… Siamo ora qui tanti;… recitiamo il Pater noster e l’Ave Maria della buona agonia… (Pater noster ecc. Ave Maria ecc.). Gesù, Maria, Giuseppe… Angelo Custode… ricevete l’anima mia, così tutti spiriamo in Gesù in santa agonia

LA GRAZIA E LA GLORIA (18)

LA GRAZIA E LA GLORIA (18)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO IV .

L’ABITAZIONE SINGOLARE DI DIO NELL’ANIMA DEI SUOI FIGLI ADOTTIVI. IL FATTO E LA NATURA DI QUESTA ABITAZIONE.

CAPITOLO II

La realtà dell’inabitazione soprannaturale di Dio nei suoi figli adottivi. Le loro anime, santuari della Trinità.

I.- Quando apro le nostre sante Scritture, incontro in ogni momento espressioni e formule che sembrano contraddire tutto ciò che abbiamo appena affermato sull’esistenza universale di Dio nelle creature e delle creature in Dio. Dio non è in tutto.: « Ecco, – Egli dice – io sono alla porta e busso » (Apoc. III, 20). Se è alla porta, se bussa per farsi aprire, allora non è ancora entrato. Dio si allontana dai peccatori che Lo disprezzano; non può tollerare la loro presenza (Sal. VI, 6); e quando essi hanno perseverato fino alla fine nella loro ribellione, li scaccia per sempre dalla Sua presenza (Matth., XXV, 41). Come potrebbe essere in loro? Dall’altra parte, vediamo Dio che ritorna alle anime, si avvicina a loro, entra in loro. Quindi non era in loro con la Sua essenza. Egli è con la sua potenza e la sua presenza in coloro dai quali ha ritirato la mano, e contro i quali dirige questa terribile apostrofe: Non vi conosco, non novi vos? – Tutto non è in Dio. « Poiché siete tiepidi e non siete né freddi né caldi, comincerò a vomitarvi dalla mia bocca » (Apoc. III, 13). È Gesù Cristo, il primogenito del Padre, che fa questa minaccia all’Angelo, cioè al Vescovo di Laodicea, per mezzo di San Giovanni. Vorremmo dire che sarebbe in Dio, questo Vescovo intiepidito, se la minaccia fosse messa in opera? Diremmo anche che sono in Dio i maledetti contro i quali il Signore emetterà l’anatema finale: Partite via da me; andate nel fuoco eterno? Preghiamo Sant’Agostino di mostrarci l’accordo tra testi così apparentemente contrari. Egli lo fa in una delle sue più belle lettere, dove questo tema è saggiamente sviluppato. « Ciò che è ammirevole – scrive questo illustre dottore – è che Dio, che è ovunque e interamente in ciascuno degli esseri, non abita in tutti. A tutti, infatti, non si possono applicare le parole dell’Apostolo: Non sapete che siete templi di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi ? (1Cor. III, 16) Perciò ci sono altri di cui è scritto: “Chiunque non abbia lo Spirito di Cristo Gesù, non gli appartiene” (Rom. VIII, 9). – Ora non credo che si possa credere, a meno che non si ignori completamente l’unità inseparabile della Trinità, che il Padre e il Figlio dimorino in colui in cui non risiede lo Spirito Santo, o che quest’ultimo sia posseduto da chi non abbia né il Padre né il Figlio. « Bisogna dunque confessare: se Dio è ovunque per la presenza della sua divinità, non è ovunque con la grazia della inabitazione. È a causa di questa inabitazione, in cui ci viene rivelata l’infinita liberalità dell’amore divino, che invece di dire: “Padre nostro che sei dappertutto”, il che sarebbe verissimo, diciamo: “Padre nostro che sei nei cieli”, facendo così memoria, nella nostra preghiera, del tempio di Dio, quel tempio che dobbiamo essere noi stessi se vogliamo entrare nella famiglia dei figli adottivi. – E non solo Colui che è ovunque non abita in tutti, ma non abita nemmeno in coloro in cui fa dimora. Cum igitur qui ubique est, non in omnibus habitet, in quibus habitat, non æqualiter habitat. Da cosa proviene in effetti, che tra i Santi vi sono alcuni che lo siano più di altri, se non perché Dio fa la sua dimora più perfettamente in essi? Unde in omnibus Sanctis sunt alii aliis perfectiores, nisi abundantins habendo habitatorem Deum?” – Trascriviamo un’altra parte di questo notevole passaggio. « Com’è che allora – si chiede lo stesso Padre – Dio è ovunque interamente, se è più in alcuni e meno in altri? Non dimentichiamo – egli risponde – che ovunque Dio è intero in se stesso… Quindi, non è solo all’universalità delle creature, ma anche a ciascuna delle loro parti, che Egli è allo stesso tempo presente così com’è, cioè intero. Sono lontani da Lui coloro che con il loro peccato sono diventati dissimili da Lui; e gli si avvicinano coloro che con una vita pia si rivestono della sua somiglianza. « Così si dice che gli occhi sono tanto più lontani dalla luce, quanto più completamente hanno perso la facoltà di vedere. Infatti, cosa c’è di più lontano dalla luce che la cecità, anche se questa luce inonda gli occhi spenti? E gli stessi occhi si avvicinano alla luce, nella misura in cui, recuperando la loro nativa vivacità, ne ricevono anche l’influenza vivificante… Così, come Dio non è assente da colui in cui non abita ancora, poiché è in lui tutto intero, benché non da lui posseduto; così Egli è interamente presente in coloro in cui abita, anche se, secondo la differenza di capacità, vi è ricevuto più o meno imperfettamente… « Dio, dunque, che è presente ovunque e dappertutto tutto interamente, non abita in tutti, ma solo in coloro che Egli fa diventare il suo tempio beato, strappandoli al potere delle tenebre e trasferendoli nel regno del Figlio del suo amore: il che comincia dalla rigenerazione… Ora, quando pensate alla inabitazione di Dio, pensate all’unità, pensate all’assemblea dei Santi, specialmente quella che è in cielo; perché è in cielo principalmente che Egli abita, poiché è in cielo che risponde alla sua volontà la perfetta obbedienza di coloro in cui Egli abita. Ma sulla terra stessa, Egli ha la sua dimora, che costruisce nel tempo, per farne una piena dedica alla fine dei secoli. » – S. Aug. 187 ad Dardanum, n. 41).

2. – Comincio a capire ora che Dio possa essere e non essere nello stesso uomo allo stesso tempo; allontanandosi da lui quando vi resta, e venendovi quando già vi era: perché c’è sia la presenza comune, sia quella singolare in virtù della quale Egli abita in un’anima, come nella sua propria dimora e nel Cielo, come in un tempio a Lui consacrato. – Alberto Magno, in uno dei testi che ho citato alla fine del capitolo precedente, si chiede se si possa assolutamente e senza spiegazioni dire di Dio che è nel demonio. No, risponde, perché la parola “demone” indica la malizia diabolica che non è opera di Dio. « Ma anche se si concedesse che Egli è in colui che la sua malizia ha reso un demone (che conserva in sé la natura e i beni della natura), non si deve assolutamente concedere che lo Spirito Santo sia in lui, poiché lo Spirito Santo è Dio. Infatti lo Spirito Santo, in quanto Spirito Santo, è presente con le sue ispirazioni e la santificazione; e, in questo modo, non è né nel diavolo né nel perverso. » Inoltre, inabitazione dice più della semplice presenza: poiché contiene nel suo concetto la comunità degli affetti e della famiglia: tanto che per essere “l’inabitazione di Dio” bisogna essere della famiglia di Dio, figlio di Dio (Alb. M., t. XVII, Tr. XVIII, q. 7). Questo è il pensiero di Sant’Agostino in una forma meno elegante e più didascalica. – Ora, gli stessi testi ci mostrano anche in che senso la Scrittura, da un lato, sembri negare che Dio sia nel peccatore per potenza e presenza, e, dall’altro, afferma che gli occhi del Signore siano sui giusti (Sal. XXXIII, 16), e che la sua mano li protegga, lo sostenga e li trasporti (Sal. XC, 14-16).  Ciò che si intende con queste ed altre simili espressioni non è l’abbandono dei peccatori, ma la singolare indulgenza del cuore di Dio per i suoi figli. E questa presenza di scelta è di natura tale che Dio non dimora in noi senza che noi dimoriamo in Dio. L’apostolo S. Giovanni, il discepolo dell’amore, non si stanca di ripeterlo: « Miei amati… Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio abita in noi e la carità in noi è perfetta. Questo è ciò che ci fa conoscere che noi rimaniamo in Lui ed Egli in noi, è che Egli ci ha resi partecipi del suo Spirito ….. Dio è amore, e chi rimane nell’amore rimane in Dio, e Dio rimane in lui. » (I Giov. IV, 12-16). Ciò che scriveva ai suoi fratelli, egli lo aveva appreso dalla bocca del Maestro stesso, in quel momento supremo in cui, vicino all’immolarsi, stava svelando ai suoi Apostoli, come ai suoi più intimi amici, i segreti fino ad allora nascosti nel suo cuore. Era dopo l’ultima cena, e Gesù diceva: « Chi mi ama osserverà la mia dottrina e sarà amato dal Padre mio, e Noi verremo a lui e faremo la nostra dimora in lui » (Gv. XIV, 23). Tre versetti prima avevamo già letto nello stesso Vangelo: « In quel giorno, quando il mondo non mi vedrà più, saprete che Io sono nel Padre mio, e voi siete in me, e Io in voi » (Gv. XIV, 24); notiamo di passaggio che questa inabitazione reciproca è qui il privilegio dell’amor di Dio e da questo, dell’amore del prossimo. Perché stupirsi di questo, visto che questi due amori si chiamano l’un l’altro, e nella loro sostanza sono tutt’uno? Infatti l’Apostolo scrive: « Se uno dice: “Io amo Dio” e poi odia suo fratello, è un mendace (I Joa. VI. 20). E la carità stessa non sta senza la grazia che ci rende figli di Dio, secondo questa bella formula di San Tommaso: « La carità è una virtù dell’uomo, non in quanto egli sia uomo, ma in quanto, per la partecipazione della grazia, sia diventato dio » (« Charitas non est virtus hominis ut est homo, sed in quantum per participationem gratiæ fit deus ». – Q. un., de Charit. à. 2, ad 3). Nostro Signore aveva detto ancora, parlando dell’Eucaristia che avrebbe istituito più tardi: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e Io in lui. » (Giov. VI, 57). Nei testi riportati finora, solo il Padre e il Figlio sono nominati esplicitamente. Ma non crediamo che lo Spirito Santo possa essere assente dalle anime dove il Padre e il suo Verbo hanno stabilito il loro Santuario. In assenza di autorità esplicite, la natura stessa di Dio ce lo proibirebbe; questa natura è così identica nelle tre Persone che Esse sono inseparabili, e che l’una è essenziale nell’altra. Inoltre, è un principio universalmente accettato dai Padri, che tutto sia comune nella Trinità, tranne, però, ciò che rende il carattere proprio di ogni persona. Ecco perché S. Paolo, dicendo del Padre che solo Lui è immortale, non esclude dall’immortalità divina né il Figlio né lo Spirito Santo, perché l’immortalità non spetta al Padre in virtù della sua proprietà personale, perché è il Padre, ma in virtù della sua natura in quanto è Dio. Poiché, dunque, la grazia ci rende templi di Dio, dire che il Padre o il Figlio è in noi è affermare equivalentemente che tutta l’adorabile Santa Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, risieda nelle nostre anime. Questo è ciò che San Giovanni Crisostomo rimarcava riguardo alle parole di San Paolo nella Lettera ai Romani: « Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, questi non è in Lui. Ma se Cristo è in voi, benché il corpo sia morto a causa del peccato, lo spirito è vivo a causa della giustificazione » (Rom. VIII, 9-10). « Ciò che Egli diceva – continua il dottissimo interprete – non è che volesse dare il nome di Cristo allo Spirito Santo, ma mostrare che chi possiede lo Spirito Santo, possiede il Cristo stesso. Infatti, è impossibile che lo Spirito Santo sia presente senza che Cristo sia presente con Lui: perché dove c’è una Persona della Trinità, c’è tutta intera la Trinità » (S. J. Chrysost., hom. 13 in h. I. P. Gr., t. 80, p. 518, sq.). Del resto, le testimonianze che ci parlano in termini formali dell’inabitazione dello Spirito Santo nel cuore dei giusti, si trovano in molti luoghi della Scrittura; talmente chiare e così frequentemente sono ripetute che, a giudizio di teologi molto gravi, lo Spirito Santo sembra avere, in questa comunità di presenza, qualcosa di personale e proprio a Lui solo. Più tardi esamineremo cosa si debba pensare di questa opinione; ricordiamo qui solo alcuni dei testi scritturali sui quali si è ritenuto possibile sostenerla. Secondo l’insegnamento di San Paolo, lo Spirito Santo abita in noi come dispensatore della carità (Rom. V, 5); Egli abita in noi, per farci conservare il buon deposito (II Tim. I, 14); abita nelle nostre membra come nel suo tempio e nel suo dominio assoluto (I Cor. VI, 19); Egli abita in noi come in un santuario sacro che non possa essere violato senza esporci a tutta l’ira divina (I Cor. III, 16, 17); Egli abita nel tempio, pegno e deposito della gloria che ci è promessa (II Cor, I, 22; V, 5); … abita in noi come principio della nostra futura risurrezione (Rom. VIII, 11). Infine, il che ci riporta all’idea fondamentale di tutte queste verità e di tutto questo lavoro: Dio, poiché siamo suoi figli, lo manda nei nostri cuori come Spirito di adozione nel quale gridiamo: Padre, Padre; come lo Spirito di suo Figlio che testimonia al nostro spirito che siamo figli di Dio; come il principio che ci fa vivere, agire e pregare in modo conforme all’eccellenza della nostra nuova dignità (Gal., IV, 6 – Rom. VIII, 9, 12, 14-16). – Questo è un privilegio meraviglioso, una grazia ineguagliabile che il Salvatore ha promesso agli Apostoli sgomenti alla vigilia della sua Passione. « Se mi amate – diceva loro – osservate i miei comandamenti, e Io pregherò il Padre mio, ed Egli vi darà un altro Paraclito, perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità, che il mondo non può ricevere, perché non lo vede né lo conosce. Ma voi lo conoscerete, perché Egli abiterà con voi e sarà in voi »  (Gv. XIV, 15-18). – XV, 26 ecc.) – Su questo Sant’Agostino si pone una domanda, che è utile trascrivere insieme alla risposta, perché completa la dottrina della sua lettera a Dardano. Ecco l’obiezione che solleva: « Come può il Signore dire: “Se mi amate, osservate i miei comandamenti, e Io pregherò il Padre mio, ed Egli vi darà l’altro Paraclito”, visto che parla dello Spirito Santo, che bisogna avere per amare Dio e osservare perfettamente la sua legge? … I discepoli già amavano. Se essi amavano, non era questo nello Spirito Santo? Eppure, comanda loro in primo luogo di amarlo e di osservare i suoi Comandamenti per ricevere lo Spirito Santo: quello Spirito senza il cui possesso sia l’amore che la perfetta osservanza dei Comandamenti sarebbero per essi impossibili. Comprendiamo, risponde, che questi possiede lo Spirito Santo: colui che ama, e che, possedendolo, merita di averlo ancora maggiormente, e che, possedendolo di più, ama ancora più perfettamente. Così i discepoli avevano lo Spirito che il Signore prometteva loro; ma non lo avevano come Lui lo prometteva. Essi lo avevano di meno, e doveva essere dato loro di più. Essi l’avevano avuto in segreto e stavano per riceverlo in pieno giorno, perché questo stesso aggiungeva alla grandezza del dono, che essi conoscessero manifestamente ciò che era stato dato loro » (S. Aug. Tract, 74 in Joan, n. 1-2).

3. – Se mai i santi Padri hanno scritto pagine magnifiche, è nel celebrare questa dimora intima e permanente del nostro grande Dio nelle anime dei suoi figli adottivi. Un intero volume sarebbe troppo poco per esaurire il soggetto. « Cos’è, in verità, l’anima dei santi, chiede San Cirillo di Alessandria? Un vaso pieno di Spirito Santo » (« A veritate quis non aberravit, si vas dicat esse Spiritus Sancti sanctorum animam ». – In Luc. C. XXII, P. Gr., t. 72, p. 904, 905) « Pieno di carità, pieno di Dio », dice a sua volta S. Agostino (« Qui plenus est caritate, plenus est Deo. » Enarr. in palm. 98, n, 1). – Questa verità è costantemente ricorrente per consolare i poveri ed abbassare l’orgoglio dei ricchi. « Ascoltate l’Apostolo che vi dice: Dio è amore; chi ha amore, Dio abita in lui ed egli in Dio. Dunque, se hai la carità, hai Dio. Cosa può avere il ricco, se non ha Dio? E il povero, cosa gli manca, se ha la carità? Immaginate forse che sia ricco colui il cui petto è pieno d’oro, e che non sia ricco colui la cui coscienza è piena di Dio? No, fratelli miei, non è così: colui nel quale Dio si degna di abitare è il vero ricco » (August., sermone, 44 di Temp.; paragrafo 112 di Verbis Apost., n. 1, 2). – La stessa verità si ritrova nelle controversie dei nostri più grandi Dottori e nei loro insegnamenti dottrinali. È un principio indiscutibile per loro vendicare la divinità dello Spirito Santo, attaccata dai discepoli di Macedonio: « Che questi insensati ci dicano come siamo i templi di Dio, per il fatto stesso che abbiamo lo Spirito Santo, se lo Spirito non fosse Dio per natura? Se Egli è una pura opera di Dio, come lo siamo noi, perché Dio vuole distruggerci come profanatori del tempio di Dio, quando contaminiamo il corpo in cui lo Spirito fa la sua dimora? ». (S. Cirillo Alex, in Joan 1, 3, P. Gr. 73, p. 157). È anche per essa, che danno la ragione della nostra filiazione adottiva. « Se non avessimo lo Spirito in noi, non saremmo in alcun modo figli di Dio. Come abbiamo dunque ricevuto il beneficio dell’adozione, come siamo partecipi della natura divina, se Dio non abita in noi, se non siamo strettamente uniti a Lui dalla comunione del suo Spirito? Ora, certamente, noi partecipiamo alla Sostanza che supera ogni sostanza, e siamo i templi di Dio » (S. Cirillo, Aless. P. Gr., vol. 74, p. 545).

4. Pienamente impregnati da questi nobili pensieri, che avevano ricevuto dagli Apostoli e dagli uomini apostolici del Signore, loro padri nella fede, i primi Cristiani li proclamavano a gran voce di fronte ai loro giudici e carnefici. Erano la loro forza davanti ai tribunali, la loro consolazione nella tortura. « Chi sei tu, demone malvagio – domandava Traiano al grande martire di Gesù Cristo, Ignazio di Antiochia – per osar trasgredire le mie leggi in questo modo ed incitare altri a farlo, fino alla loro stessa perdita? Ignazio rispose: Che nessuno chiami Teoforo demone malvagio. I demoni fuggono dai servi di Dio… Con Cristo, Re del cielo, sfido le loro insidie. Traiano disse: Chi è questo Teoforo? Chi porta Cristo nel suo cuore, rispose Ignazio… Traiano disse: Stai parlando di colui che fu crocifisso sotto Ponzio Pilato? Ignazio rispose: Sì, parlo di Colui che ha inchiodato il peccato alla croce con il suo autore, e ha messo ogni malizia demoniaca sotto i piedi di coloro che ce l’hanno nel loro petto. Traiano disse: Allora tu porti in te il crocifisso? Ignazio disse: Sì, senza dubbio; perché sta scritto: abiterò in essi, in loro farò la mia dimora (II Cor. VI, 16). Traiano dettò la sentenza: Ordiniamo che Ignazio, che si vanta di portare Cristo in sé, sia condotto in catene dai soldati nella grande Roma, per diventare il pasto delle bestie e il divertimento del popolo » (Ruinard, Acta Martyr. Sincera Veronæ, 1731, p. 14). S. Ignazio era uno dei Padri Apostolici. È la stessa fede nel cuore e sulle labbra dei fedeli più semplici. Al presidente Massimo, che lo minaccia delle più orribili torture se non abbandona il culto di Cristo, Andronico risponde con queste orgogliose parole: « Stupido spregiatore di Dio, tu sei pieno di pensieri di satana. Tu vedi il mio corpo, il cui fuoco non ha che fatto solo una ferita, e immagini che io tremi davanti alle tue minacce… Ma io ho Cristo in me, ed è per questo che ti disprezzo » (Ruinard, Acta… 3° Andron. Confessio, p. 389, 390). « Né le tue carezze potranno indebolirmi, né le tue minacce potranno trattenermi – rispose Felicita, conducendo i suoi sette figli al martirio: … perché io porto in me lo Spirito Santo che non permetterà al demonio di sconfiggermi. Ed è questo che mi rende fermo davanti a te » (Ruinard, Acta … p. 22). Chi non conosce il toccante episodio della passione di Santa Lucia (13 dic. in festo S. Luciæ, lez. 5 e 6)? Irritato dall’audacia delle sue risposte, il tiranno minacciò di farla tacere flagellandola: « Le parole non possono mancare ai Servi di Gesù Cristo – rispose subito la Vergine – perché il Maestro ha promesso che quando saranno davanti ai giudici, il suo Spirito parlerà attraverso la loro bocca. Lo Spirito Santo è allora in te? Coloro che vivono in castità e pietà sono il tempio dello Spirito Santo. » A questa risposta, il giudice, troppo cieco per coglierne l’alto significato, ma tuttavia comprendendo che la vergine parlava di un ospite puro e santo, minacciò di consegnarla agli ultimi oltraggi, affinché questo Spirito non abitasse più in lei. La leggenda del Breviario, che racconta la storia, ci dice anche con quale miracolo Dio preservò l’onore della sua casta serva. Dopo tante e così manifeste testimonianze, sarebbe imperdonabilmente avventato pretendere che il dono della grazia sia interamente nella realtà creata che chiamiamo grazia santificante, e mettere la singolare dimora di Dio nelle anime nella categoria delle pie metafore.

5. – Mi appello a tutti i grandi teologi senza escluderne uno (S. Bonav. In II. D. 36. Q. 2). Ecco cosa scrive Suarez, generalmente così equilibrato nei suoi giudizi circa l’ortodossia delle dottrine, su questo argomento. « Quando Dio versa nell’anima i doni della grazia santificante, non sono solo i doni, ma le stesse Persone divine che entrano nell’anima e cominciano a dimorarvi: e quindi lo Spirito Santo è inviato invisibilmente attraverso il mezzo di questi doni. Questo è l’insegnamento dei Dottori Scolastici; e questa dottrina è così indubitabile per loro, che San Tommaso chiama giustamente come un errore il sentimento opposto. Così pensa Alessandro di Hales: così fanno gli altri teologi, seguendo in questo il comune sentire dei Padri (Suarez, de Trinit., l. XII, c. 5, n. 8). – Non saprei dire quali furono i contraddittori che la Scuola antica confutò su questo punto, tanto i loro nomi sono rimasti sconosciuti. Quello che so meglio, è che gli scismatici Greci, per sfuggire agli argomenti con cui gli ortodossi dimostravano che lo Spirito Santo procede dal Figlio oltre che dal Padre, aveva proposto qualcosa di simile. Si diceva loro: Non vedete chiaramente dalle Scritture che il Figlio invia, che dà lo Spirito Santo? Ma non lo manderebbe né lo darebbe, se lo Spirito Santo non venisse da Lui. Incalzati da questa prova invincibile, risposero che per Spirito non si intende lo Spirito stesso, ma le grazie e i doni che Egli riversa nelle anime. Al che i loro avversari hanno risposto senza difficoltà che una soluzione di questo tipo è manifestamente illusoria. Perché è così? Perché Gesù Cristo non ha detto: Ricevete i doni del mio Spirito e Io vi manderò la sua grazia, ma ha detto: … ricevete lo Spirito Santo. Io vi manderò il Paraclito, lo Spirito stesso di verità. È vero che Esso non viene senza la carità, ma questa stessa carità ci viene espressamente indicata come un beneficio distinto dal dono dello Spirito Santo, dal quale proviene come effetto della sua causa. Infatti, dice espressamente l’Apostolo, la carità di Dio è stata riversata nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato dato (Petav. De Trinit., L. VIII, c. 5, n. 18-20). – Quanto è ammirevole la dignità del Cristiano fedele! Quello che è un santuario con il suo tabernacolo in mezzo alle dimore volgari, è tra gli altri uomini. Non chiamatelo un uomo terreno, un corpo di fango. È molto meglio di così, poiché egli è veramente Teoforo, cioè portatore di Dio, come amavano chiamarsi i Cristiani delle prime età (Mamachi. Orig. Du Christ, t. 1, L. I, § 8, p. 64); oppure Spirito-Portatore (πνευμοφόρος [= pneumotoforos], Spiritifer) secondo l’espressione forte di S. Atanasio, di S. Ireneo, di S. Cirillo d’Alessandria, di S. Girolamo ed altri ancora (Tutti questi testi si possono leggere in: Mamachi, nelle Origini cristiane, nel luogo citato nella nota. Sant’Ignazio di Antiochia ha riunito tutti questi nomi in due righe: « Siate dunque tutti compagni di viaggio nella carità, Teoforo, Naoforo, Cristoforo, Agioforo (portatore di Spirito Santo). » – Ep. ad Ephesians n. 9, P. Gr. t. 5, p. 652). Ma a questa grandezza quale santità non deve risuonare nelle nostre anime! Templi viventi di Dio, rispettiamo noi stessi e i nostri fratelli. Non vorremmo contaminare vasi consacrati dal Sangue di Cristo, o distruggere un tabernacolo dove Dio abita; e potremmo profanare vasi pieni di Spirito Santo, e, cacciando Dio dalle nostre anime, privarli così dell’onore di essere il loro Santuario? Cos’è un tempio di Dio se non un luogo specialmente destinato all’adorazione, alla preghiera e al sacrificio? Non dimentichiamo mai che siamo una razza eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, e non lasciamo che resti senza ostie, senza omaggi, senza il profumo delle nostre preghiere, contristando lo Spirito Santo, « quel dolce ospite delle nostre anime » (Dulcis hospes animæ: Inno Veni Creator). Diciamo, più ancora con la nostra vita che con le nostre parole, ciò che il salmista cantò una volta di un tempio meno prezioso del nostro: O Signore, ho amato la bellezza della tua casa e il luogo dove abita la tua gloria (Sal. XXV, 8). – Ahimè, quanti ce ne sono, anche tra i Cristiani che, vivendo in grazia, hanno l’inestimabile felicità di portare Dio nelle loro anime; quanti ce ne sono a cui potremmo applicare le parole di Giovanni Battista: « C’è uno in mezzo a voi (nel centro stesso del vostro essere), che voi non conoscete » (Joan. I, 26); o, almeno, che vi sembra di conoscere troppo poco. Che forza, che consolazione, che generosità darebbe questo pensiero, se ci fosse familiare. Nostro Signore è con me; il mio Signore è in me, padre, amico, protettore, testimone, sempre vigile, santo, sempre fedele!

LA GRAZIA E LA GLORIA (19)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (18)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (18)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO OTTAVO

I doni dello Spirito Santo (2)

2) Nessuna colpa grave ha deturpato mai la sua anima verginale; è naturale, quindi, che non vi sia in lei nessuna traccia di quel timore colpevole che angustia le persone mondane. L’angoscia dell’inferno, che ha fatto tremare tante altre anime quantunque sante, sembra non averla nemmeno sfiorata. Nel peccato., una cosa sola essa considera: l’offesa infinita al Dio d’amore; ed à questa che la spaventa nella sorte dei peccatori e nella sua propria vita: timore filiale di un’anima che teme soltanto la pena causata ad un Padre infinitamente buono, meritevole di tutta la fedeltà. « Io piango questi peccati che ti hanno fatto tanto male » (Diario – 14 marzo 1899.). – Piuttosto la morte che il peccato. « Se dovessi., un giorno, offendere mortalmente Io Sposo che amo sopra tutte le cose, o morte, falciami presto, te ne scongiuro, prima che io abbia avuta un’infelicità così grande » (Ibidem – 10 marzo 1899.). « Mi sento disposta a morire piuttosto che offenderti volontariamente. Sia pure co] peccato veniale » ((26) Diario – 11 marzo, 1899.). Sotto l’influenza dello Spirito di timore, l’anima si sente tremare dinanzi all’infinita Maestà che abita in lei e che potrebbe annientarla in un attimo. come le sembra di meritare per i suoi peccati. Fino a che rimane ferma in questo sentimento di religioso timore, quasi di terrore sacro, le diviene impossibile qualsiasi ripiegamento di compiacenza sopra se stessa; ma, con tutte le forze, elimina quanto in lei potrebbe dispiacere al suo Dio. Questo Spirito di timore la mantiene nell’umiltà che è custode della carità perfetta. Sentimento necessario ad ogni creatura dinanzi alla Maestà di Dio: tanto che esso anima ancora ed in eterno i beati nel cielo, e raggiunge la sua espressione suprema nell’anima del Cristo di fronte alla potenza tremenda del Padre suo, infinitamente temibile ai peccatori. Se non troviamo., in suor Elisabetta della Trinità dinanzi alla tremenda Maestà di Dio, quella forma di timore riverenziale così pungente nell’anima di certi santi e nell’Agonizzante del Gethsemani, possiamo riconoscerne però nella sua vita altri effetti caratteristici. Al dono del timore si ricollega quella beatitudine, la prima di tutte,dei « poveri in spirito », la quale ha una speciale affinità col primo dei sette doni; doni che rendono l’anima docilissima all’azione dello Spirito Santo. « Beati i poveri in ispirito », i distaccati da tutto, quelli che non vogliono altra ricchezza che la Trinità e, di tutto il resto, niente, nada. Niente delle creature; niente nella memoria e nei sensi; povertà, povertà, povertà. Niente nell’intelligenza, fuorché la luce del Verbo; niente nella volontà e nel più intimo dell’anima, se non la presenza della Trinità, la sola beatificante. – Sotto l’influenza dello Spirito di timore., l’anima, libera da ogni pensiero d’amore estraneo a Dio, s’immerge nel proprio nulla, si vuota di se stessa, paventa la più lieve colpa, il minimo attacco, l’ombra stessa dell’imperfezione, la fiducia che si appoggia alla creatura; per realizzare questa povertà, liberatrice che la renderà beata, vuole camminare, assolutamente « sola col Solo ». Ora, in Suor Elisabetta della Trinità, il dono del timore assume proprio questa forma essenzialmente Carmelitana, stimolandola lo Spirito, a distaccarsi da tutto per rifugiarsi in Dio solo, al di sopra di ogni motivo umano, nel vuoto di tutto il creato.

3) Il dono della Fortezza à uno dei doni più caratteristici della fisonomia spirituale e della dottrina mistica di suor Elisabetta della Trinità. I suoi primi sgomenti di bimba scomparvero ben presto al contatto contemplativo dell’Anima del Crocifisso. Fu segreto della trasformazione così rapida del suo atteggiamento dinanzi alla sofferenza. Il suo diario di giovinetta ce la mostra già vittoriosa di se stessa e della sensibilità puerile che l’aveva fatta tremare per dovere andare dal dentista. Il suo ideale si à fatto virile; adesso guarda in faccia il dolore, anzi lo desidera vivamente. A diciannove anni scrive: « Voglio vivere e morire da crocifissa » (Diario – 31 marzo 1899). – Tali desideri Dio li esaudisce; e fece bene, suor Elisabetta, a prendere come parola d’ordine. della sua vita religiosa: rendere i movimenti della propria anima sempre più uguali a quelli dell’Anima del Crocifisso. La vita religiosa à un vero martirio; e le sue anime sante vi trovano ampia messe di sacrifici crocifiggenti il cui merito può uguagliare e persino sorpassare quello del martirio di sangue. Dio sa determinare per ogni anima, nella cornice della propria vocazione, la via del Calvario che la condurrà diritta, senza indugi, alla conformità perfetta col Crocifisso, a condizione che non venga trascurata nessuna occasione di mortificare la natura e di abbandonarsi senza riserva alle esigenze dell’Amore. – Anche la sola pratica — assolutamente fedele — di una regola approvata dalla sapienza della Chiesa basterebbe per condurre le anime alle più alte vette della santità: tanto è vero che il sommo Pontefice Giovanni XXII diceva: — Datemi un Frate dell’Ordine dei Predicatori che osservi la sua regola e le sue costituzioni e, senza bisogno di altro miracolo, lo canonizzo. – Altrettanto si potrebbe dire delle sante regole del Carmelo e di ogni altra forma di vita religiosa. Il compimento perfetto dell’oscuro dovere di ogni giorno esige l’esercizio quotidiano del dono della fortezza. Non sono le cose straordinarie, lo sappiamo, che formano i santi, ma la maniera divina nel fare le cose ordinarie. Questo « eroismo di piccolezza » di cui santa Teresa di Gesù Bambino rimane nella Chiesa l’esempio forse più luminosamente noto, trovò nella Carmelitana di Digione una attuazione nuova. Poiché le mortificazioni straordinarie non le erano permesse, essa vi supplì con una fedeltà eroica alle minime osservanze del suo ordine, sapendo trovare nella regola del Carmelo « la forma della sua Santità » (Lettera al Canonico A… – Luglio 1903) e il segreto di « dare il sangue a goccia a goccia per la Chiesa, fino a morirne » (Alla sua Priora.). La fortezza, infatti, questo dono dello Spirito Santo, consiste meno — contrariamente a quanto per lo più si  crede — nell’intraprendere coraggiosamente grandi opere per il Signore, che nel sopportare con pazienza e col sorriso sul labbro tutto ciò che la vita ha di crocifiggente; essa poi si manifesta stupendamente nei santi allora del martirio e nella vita di Gesù, al momento della sua morte sulla Croce. Giovanna d’Arceo è più intrepida sul rogo che alla testa del suo esercito entrante vittorioso ad Orléans. – In Suor Elisabetta della Trinità, si trovano tutte due queste forme del dono della Fortezza, la seconda specialmente. All’inizio della vita religiosa e nell’entusiasmo del suo primo fervore, una fame e una sete inesprimibile di santità la divorano: « Sono contenta di vivere in questa epoca di persecuzione. Come bisognerebbe essere santi!… Chiedetela per me questa santità di cui ho sete.….. Vorrei amare come amano i santi, i martiri » (Lettera al Canonico A.- 11 settembre 1901). In lei, non erano parole vaghe come se ne sentono da certe anime che sognano il martirio d’amore e poi sopportano à stento una puntura di spillo e i minimi urti della vita comune. Senza smarrirsi in lontani miraggi di santità chimerica, ma col realismo pratico dei santi, suor Elisabetta, alla luce del suo Dio Crocifisso, ebbe la sapienza di scoprire nei minimi atti della vita ordinaria il mezzo migliore per provare à Dio quanto lo amava. « Non so se avrò la felicità di dare al mio Sposo divino la testimonianza del sangue; ma, se vivo pienamente la mia vita di Carmelitana, ho almeno la consolazione di consumarmi per Lui » (Lettera al Canonico A… – Luglio 1903.). « Se mi si chiedesse il segreto della felicità, risponderei: non far nessun conto di sé, rinnegare continuamente il proprio io » (Lettera à Fr. di S… – 11 settembre 1906.). Negli ultimi mesi, andò incontro al dolore « con la maestà di una regina » (Espressione di un testimonio.). Tutto il suo povero essere andava in rovina, Straziato, consumato, ma in quell’anima di martire. fu l’ora trionfale del dono della fortezza. La valorosa « ode di gloria », immedesimata sempre di più con l’anima del Crocifisso, faceva pensare alla forza divina del Calvario: vedendola, la sua Madre Priora si volgeva istintivamente all’immagine del Crocifisso. Ed ella stessa si rendeva conto perfettamente del senso di questa consumazione della vita nel dolore: scriveva alla mamma: «Tu temi che io sia designata come vittima per il dolore. Oh. te ne scongiuro, non ti rattristare; io temo, invece, di non esserne degna. Pensa, mamma, che sublime cosa partecipare alle sofferenze del mio Sposo Crocifisso e andare alla mia passione con Lui, per essere con Lui redentrice! » (Lettera alla mamma 18 luglio 1900). «Il dolore mi attira sempre di più: e il desiderio che ne provo supera persino quello del cielo, che è davvero grande. Il Signore non mi aveva fatto mai comprendere così bene che la sofferenza è la prova più grande di amore che Egli possa dare alla sua creatura, e allora, credi, ad ogni nuova pena, bacio a croce del mio Maestro e gli dico: — Grazie! — Ma non ne sono degna; penso che la sofferenza fu la compagna della sua vita. ed io non merito di essere trattata come Lui dal Padre suo » (Alla mamma – Settembre 1906). – «Il segno al quale possiamo riconoscere che Dio à in noi e che il suo amore ci possiede, è il ricevere non solo pazientemente ma con riconoscenza quello che ci ferisce e che ci fa soffrire. Per giungere a questo, bisogna contemplare il nostro Dio Crocifisso per amore e questa contemplazione, se è reale e sentita. conduce infallibilmente all’amore della sofferenza. Mamma cara. ricevi ogni prova, ogni contrarietà, ogni avvenimento sgradevole considerandoli alla luce che emana dalla croce; e così, sai;, che si piace a Dio e che si progredisce nelle vie dell’amore. Oh, digli grazie per me! Io sono tanto, ma tanto felice; e vorrei poter comunicare un po’ di questa felicità a coloro che amo… Ci ritroveremo all’ombra della croce; lì ti attendo per impararvi la scienza del dolore » (Alla mamma – 25 settembre 1906). – Suor Elisabetta, « lieta per dominio di volontà, sotto la mano che la crocifiggeva, sentiva il bisogno di rifugiarsi nella devozione della Regina dei martiri inabissata nella vastità di un dolore « immenso come il mare » (Thren. II-13) ma « ritta e forte ai piedi della croce » (Stabat), nella pienezza di un gaudio tutto divino —  « plane gaudens » [Enciclica « Ad diem illum », 2 febbraio 1904) — perché pensava, questa Madre addolorata, che l’oblazione del Figlio suo e lo spettacolo della redenzione placavano la Trinità santa. – Uno degli ultimi biglietti scritti alla mamma ci permette di sorprenderla in questo atteggiamento eroico del dono della fortezza. « C’è un Essere, che è Amore, il quale vuole che viviamo in società con Lui. Egli è qui con me, mi tiene compagnia, mi aiuta a soffrire, mi insegna a passare al di là del dolore per riposarmi in Lui… Così, tutto si trasſorma. » (Alla mamma, 20 ottobre 1906). È chiaro che tutto ciò supera la misura umana e non può spiegarsi se non mediante lo stesso Spirito di Fortezza che sosteneva Cristo in Croce.

4) Lo Spirito di Gesù riveste in noi aspetti multiformi: è lo Spirito di timore, di fortezza, di pietà., di consiglio, di scienza, di intelletto, di sapienza. Nel dono del timore e nella beatitudine dei poveri, sospinge l’anima al distacco assoluto e le ispira come parola d’ordine: « Nulla, nulla, nada » (S. Giov. Della Croce). Non contare che su Dio il quale non ci viene mai meno. Diffidente di sé, l’anima si rifugia nell’Onnipotenza divina; e allora Io Spirito di fortezza si impadronisce di lei e le fa ripetere con fiducia:. « Ho ſame e sete di giustizia, di santità (S. Matt. V, 6). Signore, spero in te e la mia speranza non sarà delusa » (Ps. XXX, 2). Pronta à tutti i martirii per il suo Dio, potrebbe esclamare come Teresa di Gesù Bambino: « Un martirio solo non basta: li vorrei tutti » (Storia di un’anima ); o come suor Elisabetta della Trinità: Vorrei amare come amano i santi, i martiri, …. amare fino à morirne » ( Cfr. Diario e lettera al Canon. A. 11 sett. 1901). Che dire delle meraviglie ineffabili che lo Spirito di Gesù può compiere silenziosamente in tali anime? E li penetra nelle più intime profondità del loro essere e le fa sospirare a Dio con gemiti inenarrabili. Ed allora l’anima, figlia adottiva della Trinità, mormora con una tenerezza tutta filiale: « Abba Pater! » (Rom. VIII, 5); è lo Spirito medesimo del Figlio. – Suor Elisabetta, possedendo una chiara coscienza di questa paternità divina, si fermava spesso e con tanto diletto, alla luce del suo caro san Paolo, nella meditazione di quella grazia di adozione che vivificava il suo culto verso Dio. Non metodi rigidi, né formule complicate che potrebbero paralizzare gli slanci del suo cuore filiale; corre à Dio come una bimba al padre suo. Tutto à semplificato: la Trinità à per lei la « cara dimora », la « casa paterna » donde non vuole uscir mai, l’atmosfera familiare dove l’anima sua di battezzata si Sente pienamente a suo agio. Tutti i moti del suo spirito si volgono a Dio come ad un Padre teneramente amato; e la sua sublime preghiera alla Trinità non è che l’effusione del suo cuore di figlia; bisognerebbe analizzarla alla luce del dono della pietà per scoprirvi il segreto della sua vita di orazione. Come è lontana da quelle preoccupazioni interessate che ingombrano tante vite di preghiera, le quali sembra che non si avvicinino a Dio se non per implorarne il soccorso. (Qui, il primo posto è per l’orazione silenziosa e adoratrice, per la conformità all’anima di Cristo, per la contemplazione degli « abissi » della Trinità; e, senza sforzo alcuno, l’anima si eleva fino alle Persone divine con lo Spirito stes3o de Figlio: « O mio Cristo. vieni in me come Adoratore e come Riparatore.….. tu, o Padre, chinati verso la tua povera piccola creatura e non vedere in essa che il Figlio diletto in cui hai posto tutte le tue compiacenze » (Elevazione alla Trinità). – Anche la preghiera di domanda per i peccatori occupa intensamente, à vero, la sua anima di Carmelitana e di corredentrice; ma, nella sua vita di adorazione, la preghiera che adora tiene — e di molto — il primo posto: è il più puro spirito di Gesù, il perfetto Adoratore del Padre, venuto sulla terra prima di tutto per raccogliere intorno à sé i veri adoratori che « il Padre cerca » (S. Giov. IV, 23) e che la Trinità attende. Infatti, il carattere proprio del dono della pietà è di elevare l’anima religiosa, nelle sue relazioni con Dio, al di sopra di ogni considerazione interessata e di ogni motivo creato, siano essi bisogni o benefici (Cfr. IL teologo classico dei doni dello Spirito Santo, Giovanni di San Tommaso – q. 70, disp. XVIII, art. 6, Vivès 668 – . Tutto lo sforzo della sua analisi del dono di pietà ha per testo fondamentale l’insegnamento di san Tommaso nelle sentenze – Ill, d. 34. Q. 3, a. 2, q. 1, ad 1 – « Pietas quæ est donum accipit in hoc ALIQUID DIVINUM pro MENSURA, ut scilicet Deo honorem impendat, Non quia sit E1 DEBITUS, Sed quia Deus honore dignus est, PER QUENM MODUM etiam ipse DEUS sibi honori est ». E, di qui, Giovanni di san Tommaso, p. 669: « At vero donum pietatis RELICTA hac MENSURA RETRIBUTIONIS et largitionis bonorum, honorat et magnihcat Dominum RATIONE SUI…, SOLUM attendit ad MAGNITUDINEM DIVINAM {IN SE », etc.). Mentre la virtù infusa di religione rende à Dio il culto che gli è dovuto nella sua qualità di sovrano Signore, principio e fine supremo di tutte le cose, autore dell’ordine dell’universo naturale e soprannaturale, invece il dono di pietà, prescindendo da tutto ciò che a Dio è dovuto per le sue liberalità, non guarda che l’eccellenza increata dell’Eterno, e la misura della sua lode è la gloria stessa che Dio trova nel proprio seno, nel Suo Verbo, cioè, e nelle sue perfezioni infinite. La Vergine santa, nel suo Magnificat, ci lascia cogliere un movimento bellissimo dell’anima sua vibrante al soffio dello Spirito di pietà, quando glorifica Iddio, non solo per le di lui « infinite misericordie di generazione in generazione », e nemmeno per la grazia sublime della maternità divina per cui tutte le nazioni la chiameranno beata, ma soprattutto perché Egli è grande in se medesimo, e le cose meravigliose operate da Lui nella sua povera serva non sono che il segno della « sua onnipotenza e della santità del suo Nome. Et sanctum Nomen eius » (Luc. I, 49). Di modo che la ragione per la quale glorifica Dio ed esulta in Lui, non è se non quella divina grandezza di cui tutte le opere esteriori non sono che debolissima manifestazione.La virtù di religione considera Dio creatore e provvidenza: « Degno sei tu, o Signore e Dio nostro, di ricevere l’onore e la gloria perché hai creato tutte le cose e le fai sussistere con la tua volontà » (Apoc. IV, 11). Ma rende a Dio anche un culto di riconoscenza e di Iode, perché Egli é l’autore della Redenzione e di tutto l’ordine soprannaturale: « Degno tu sei, o Signore, di ricevere ü libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e col tuo sangue hai riscattato a Dio uomini da ogni tribù e lingua e popolo e nazione; e li hai fatti popolo regale e sacerdoti, e regneranno Sulla terra » (V., 9 -10). Il dono della pietà, elevandosi al di sopra di tutti questi motivi di bontà di Dio verso di noi, non vuole considerare che Lui, Dio stesso, e il mistero insondabile perfezioni di questa Essenza divina in seno alla Trinità. Quindi non fissa il suo sguardo soltanto sulla paternità di Dio per le anime mediante la grazia, ma come il Verbo, lo Spirito di pietà penetra negli intimi recessi della divinità, fino alle più segrete ricchezze di questa natura increata: paternità eternamente feconda. Generazione di un Verbo consustanziale al Padre, sua immagine, sua gloria e suo splendore, spirazione di un comune Amore consustanziale e coeterno che sempre li ha uniti e li unirà, adesso e per i secoli senza fine; natura identica, comunicata dal Padre al Figlio, dal Padre e dal Figlio allo Spirito Santo, senza anteriorità di tempo, senza ineguaglianza di perfezione, senza dipendenza, ma con ordine e distinzione delle Persone in una indivisibile Unità. Il motivo del dono della pietà à la Trinità stessa. L’anima, non arrestandosi più alla stima dei benefici di Dio, vorrebbe glorificarlo tanto quanto Egli a se stesso la propria Iode. Vorrebbe uguagliare la misura divina, e ciò imprime una maniera deiſorme a tutto il suo culto di preghiera, di ringraziamento e soprattutto di adorazione. Secondo la formula così profonda, familiare a suor Elisabetta della Trinità, ella « adora Dio à causa di Lui stesso » e perché è Dio. La Chiesa della terra à sotto questa mozione speciale del dono di pietà quando, ogni giorno, al Gloria della Messa, canta: « Noi ti ringraziamo, o Signore, Per la tua gloria infinita. Gratias agimus tibi, propter magnam gloriam, tuam ». (Questo culto di glorificazione della divina Maestà non si rivolge ad alcuno dei suoi benefici, ma alla sola grandezza di Dio in se stesso; il motivo quindi di questo movimento di pietà adoratrice à la Deità stessa nella sua eccellenza increata, infinitamente superiore à tutti i suoi doni. Un sentimento simile à questo faceva esultare l’anima religiosa di suor Elisabetta della Trinità, come una volta quella della Madre sua santa Teresa, quando la domenica, all’ufficio di « Prima », la liturgia metteva suulle sue labbra il « Quicumque », facendo passare sotto Io sguardo contemplativo della Chiesa l’enumerazione delle perfezioni divine celate nel seno del mistero trinitario: Unità nella Trinità e Trinità nell’unità, senza confusione di Persone. senza Separazione di sostanza; una sola Divinità: Padre, Figlio e Santo Spirito; gloria identica, maestà coeterna, uguale potenza, uguale immensità, uguale eternità (« Quicumque »; a Prima della domenica.). – Nelle ultime ore della sua vita, suor Elisabetta, tutta dominata dal pensiero dell’eternità, amava tanto i capitoli dell’Apocalisse che le descrivevano la vita adoratrice della liturgia del cielo, dove tutto ciò che passa, al di sopra di se medesima, adora sempre Dio per Se stesso, secondo la parola del Salmista : « Adorate il Signore, perché Lui è santo ». L’adorazione è veramente una parola di cielo; mi pare che si possa definirla: l’estasi dell’amore; è l’amore annientato dalla bellezza, dalla forza, dalla Immensa dell’oggetto amato ». – « L’anima sa che Colui che essa adora possiede in sé ogni gloria ed ogni felicità e gettando la sua corona, come 1 beati, dinanzi à Lui, si disprezza, non bada più à sé, e trova la propria {elicità in quella dell’Essere ,adorato » (Ultimo ritiro. VIII). Con La liturgia eterna, espansione suprema del dono della pietà, la Chiesa trionfante, trasportata in Cristo e da Cristo nella lode del Verbo, realizza il sogno più caro dell’anima adoratrice di suor Elisabetta: l’incessante lode di gloria alla presenza della Trinità.

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (19)

LA GRAZIA E LA GLORIA (17)

LA GRAZIA E LA GLORIA (17)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO IV.

L’ABITAZIONE SINGOLARE DI DIO NELL’ANIMA DEI SUOI FIGLI ADOTTIVI. IL FATTO E LA NATURA DI QUESTA ABITAZIONE.

CAPITOLO PRIMO

Della comune presenza di Dio in ogni creatura ed in ogni ambito. Come questo si debba intendere?

1. – Abbiamo sentito il grande Areopagita insegnare in un famoso testo che la deificazione, la gloria dei figli di Dio perseguita dalla sacra gerarchia, consista in due elementi: « l’assimilazione e l’unione più perfetta possibile con Dio » (Ἡ πρός Θέόν ἠμῶν αφομοίωσίς τε και ἓνωσις. [= e pros Teon emon afomoiosis te kai enosis] Hier. Eccl., c. 2 § 1.). Finora abbiamo parlato solo del primo, cioè della partecipazione creata della natura divina che, formandoci ad immagine di Dio, ci rende suoi figli adottivi. Dobbiamo ora, nella misura della nostra debolezza, spiegare in termini balbettanti l’ineffabile unione che lega ogni anima rigenerata dei figli adottivi alla Santa e adorabile Trinità. Per mettere ordine e chiarezza in una questione così profonda e complessa, tratteremo prima dell’unione comune con tutta la Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo; poi studieremo in dettaglio ciò che è particolare nella relazione con ciascuna di queste Persone divine. Ma, poiché le cose della natura sono un riflesso delle meraviglie della grazia, mi è sembrato necessario, prima di affrontare direttamente il nostro argomento, ricordare in sintesi quale sia l’unione più universale del Creatore con ciascuna delle sue creature. Ora la filosofia, in accordo con la teologia cattolica, ci insegna che Dio, operando in tutte le cose, sia necessariamente in tutte le cose, e che tutte le cose siano in Lui. Tutto è in Dio. Egli ha creato il cielo e la terra e tutto ciò che è in essi; e quindi Dio può porre questa domanda con sicurezza: « Se un uomo si nasconde nelle tenebre, non lo vedrò io? Non riempio forse il cielo e la terra » ? (Gen I, 1 – Geremia, XXIII, 28.) I nostri Dottori, per esprimere questa esistenza di Dio in tutti gli esseri che Egli ha creato, insegnano che Egli sia ovunque, per potenza, per essenza e per presenza. Meditiamo con loro queste parole e avviciniamole alle affermazioni scritturali. Egli è ovunque per potenza. Niente esiste, né si conserva, né si fa se non da Lui solo o con la sua cooperazione. – Se rifiuta per un momento di cooperare con le cause seconde, c’è subito un torpore universale; nessun movimento, nessuna vita, nessuna azione. Se ritira la mano con cui sostiene l’universalità degli esseri, è il loro totale annientamento. Perché non dobbiamo immaginare che la Causa prima sia come le cause dipendenti e create. Un quadro non sarebbe creato senza il lavoro ed il pennello del pittore; ma, una volta che l’opera d’arte sia completata, la presenza dell’artista non ha importanza. Che se ne vada o rimanga, che viva o muoia, la sua opera rimane, perché non dipende da lui nel suo essere. L’influenza dell’Artista sovrano è del tutto diversa: è necessario che la sua opera sia eseguita, ma non meno necessario che rimanga; perché il suo effetto è l’essere stesso delle cose. L’essere, ho detto; non questo o quell’essere, ma ogni essere che non sia l’Essere divino, l’Essere per essenza; con qualunque nome si chiami, in qualunque forma appaia incidente, modalità, sostanza. – Egli è in tutto e dappertutto per essenza. Poiché la sua potenza e la sua operazione sono la base di tutto, deve esserci anche la sua essenza; perché in Lui, potenza, operazione ed essenza sono tutte una cosa sola. L’uomo può agire a distanza, perché ha i mezzi per trasportare la sua influenza in qualche modo, senza unirsi al soggetto che la riceve. Ma tu, mio Dio, non hai questa facoltà che io trovo nella tua creatura; e questo stesso fatto è la prova della tua incomparabile potenza. A chi allora potreste affidare il ruolo di trasmettere un’azione che può venire solo da Voi? E poi, non sarebbe necessario che la vostra potenza accompagni la causa che servirebbe da intermediario tra Voi e i vostri effetti, poiché essa stessa non avrebbe più essere e potenza di quella che riceverebbe in ogni momento da Voi? E se la vostra potenza lo accompagna e la porta, allora la vostra essenza è lì, poiché la vostra potenza non è altro che Voi stesso. – Lo abbiamo capito bene? Dio stesso è presente ovunque si eserciti la sua potenza; presente nella sua interezza, con tutti i suoi attributi, tutte le sue perfezioni; con la sua unità di natura e la sua Trinità di Persone: perché, ancora una volta, tutte queste cose in Lui sono una e medesima cosa. Egli è dunque nel mio corpo; è nella mia anima; è nelle mie facoltà e nelle mie minime operazioni; più in me di quanto io non sia in me stesso. Ma io non sono tutto nel mio corpo, né nella mia sostanza spirituale, tanto meno in ciascuno dei miei atti. Tutto intero in me; tutto intero fuori di me; poiché la sua presenza non ha altri limiti che quelli che si dà Egli stesso limitando il campo delle sue creazioni e della sua operazione. – Vogliamo aggiungere che è immenso? « Immenso è il Padre, immenso è il Figlio, immenso è lo Spirito Santo », canta la Chiesa nel simbolo di Sant’Atanasio. Certamente non che dovremmo, come alcuni hanno creduto falsamente, immaginare spazi puri che si estenderebbero infinitamente oltre tutti i mondi, e che Dio solo riempirebbe con la sua presenza …. chimera indegna di un pensatore; un fantasma creato dal nulla da una finzione ingegnosa ma cieca. Così i Padri, nelle loro considerazioni sull’immensità di Dio, non hanno mai scritto niente del genere. Se chiedete loro dove poteva essere Dio prima che la sua bontà onnipotente avesse creato il mondo, essi non vi risponderanno che era ovunque, in spazi immaginari. Piuttosto, ascoltateli: « Prima di ogni cosa, Dio era per sé mondo, luogo e tutto » (Tertull., c. Prax., c. 5). Non c’è bisogno di cercare dove fosse Dio prima che creasse il mondo. Non c’era che Lui, e di conseguenza Egli era in se stesso » (Bernard. de Consid., I V, c. 6, n. 13). « Qualcuno dirà: Prima che Dio facesse i Santi, dove abitava? Dio abitava in se stesso e presso di Lui » (S. August., Enarr. in Ps. CXXII). – Eppure, Dio era immenso, anche se allora era solo in se stesso, come è immenso oggi, anche se il mondo in cui dispiega la sua immensità è necessariamente circoscritto nella sua estensione. Questo è facilmente concepibile, se ricordiamo la ragione fondamentale della presenza di Dio nella sua creatura. Egli è lì come causa dell’essere e degli esseri, realizzandoli con l’onnipotenza della sua parola (Ebr., I, 3). Infatti, questa potenza non conosce limiti, poiché può creare nuove terre e nuovi cieli all’infinito, ne consegue chiaramente che non è circoscritto in nessuno spazio e che, senza subire alcun cambiamento in se stesso, sarebbe presente in altri spazi sempre più grandi, se si compiacesse di chiamare all’esistenza altri mondi. Ed è questo che intendiamo quando parliamo dell’immensità divina. Dio, dunque, sebbene fosse solo in se stesso, prima di uscire dal suo eterno riposo per fare le creature, era tuttavia immenso; perché aveva la virtù onnipotente che nella sua immutabile attività può estendersi fino a qualsiasi spazio immaginabile e a qualsiasi estensione possibile. – Questo, credo sia il solido fondamento su cui basare la spiegazione dell’esistenza sostanziale di Dio nell’universalità delle creature: la sua influenza creatrice e conservatrice al fondo di ogni essere che non sia l’Essere increato. Le Sacre Scritture non ne indicano altre. « Dove andrò – esclama il salmista – dove mi nasconderò lontano dal vostro spirito? dove fuggirò dalla vostra presenza? se salgo in cielo, Voi siete lì; se scendo negl’inferno, là vi trovo. Se dall’aurora, prendendo le mie ali, mi involo fino ai confini del mondo, è la vostra mano che ivi mi condurrà, la vostra destra mi sosterrà » (Sal. CXXXVIII, 6-10). – Quindi, ignorerebbero il carattere sublime dell’onnipresenza di Dio, coloro che vedrebbero in essa solo qualche rapporto di coesistenza con lo spazio ed il luogo. Lontano da noi queste idee meschine, perché ci farebbero dimenticare che questa presenza è sovranamente universale, perché è sovranamente attiva, e che penetra nel mondo degli spiriti come in quello dei corpi. Questo è ciò che capì bene Sant’Ignazio di Loyola quando scrisse nella bella contemplazione con cui chiude i suoi Esercizi Spirituali: « Nel Secondo Punto considererò Dio presente in tutte le creature. Egli è negli elementi, dando loro l’essere; nelle piante, dando loro la vita vegetativa; negli animali, dando loro la sensibilità; negli uomini, dando loro la vita dell’intelletto. Ed io, uno di essi, ho ricevuto da Lui l’essere, la vita, il sentire, il pensare; Egli ha fatto di me il suo tempio, poiché sono creato ad immagine e somiglianza della sua divina maestà » (Esercizi Spirituali. Contemplazione per ottenere l’amore divino in se stessi, Cf. S. Thom. Quodl. XI, a. 1 in corp.). – Aggiungiamo infine che Dio è in tutto e ovunque per presenza. Questo è il terzo punto di vista, sotto il quale la teologia scolastica è abituata a considerare l’esistenza viva di Dio nel suo dominio. – Ciò che intende con questa formula è che nulla può sfuggire alla conoscenza di Dio, così come nulla può sfuggire alla sua potenza. Dio non è il sovrano che gli amici di Giobbe hanno calunniosamente fatto immaginare a questo Patriarca che viva in mezzo alle nuvole o cammini tra i poli, e vede ciò che noi facciamo solo attraverso le nebbie (Giobbe, XXII, 13, 14.). Perché tutto è da Lui, poiché Egli è in tutte le cose, è necessario che tutto sia messo a nudo davanti ai suoi occhi. Il nostro sguardo può raggiungere la profondità delle cose solo dall’esterno; noi siamo al di fuori di esse. L’occhio di Dio va direttamente in profondità, perché esso è Dio stesso, e Dio che sostiene tutto non può essere assente da nulla. Questo è ciò che ci insegnano le Scritture, quando ci mostrano « lo Spirito di sapienza che scruta le reni del maldicente, che scruta il suo cuore, che dà ascolto alla sua lingua » – «. Perché lo Spirito del Signore riempie l’universo e Colui che contiene tutte le cose ascolta ogni voce. Perciò chi commette iniquità non può rimanere nascosto » (« Cordis scrutator et linguæ auditor….. Quoniam, replexit orbem… continet omnia ». Sap. I, 6, 7). Questo testo è abbastanza notevole: perché mostra chiaramente a coloro che lo meditano, il triplice modo in cui Dio sia in ogni creatura. – Il Salmo CXXXVIII, che abbiamo citato innanzi, non è meno esplicito su questo punto che il Libro della Sapienza. Ho già osservato come colleghi l’esistenza sostanziale di Dio, nell’universalità degli esseri, all’operazione onnipotente che dà loro l’esistenza e la conserva. Leggiamo il resto del salmo, e troveremo splendidamente descritto il legame tra la potenza agente e questa presenza che porta alla luce ogni creatura sotto lo sguardo divino. « E dissi: Può darsi che le tenebre mi coprano, ma per Voi la notte è luminosa come il giorno e le ombre sono come la luce. Perché Voi avete formato i miei reni, Voi mi avete ricevuto dal seno di mia madre… Le mie ossa non sono nascoste a Voi che le avete fatte nel segreto » (Sal. CXXXVIII, 11-15).

2. – E come Dio è in tutte le cose, così tutte le cose sono in Lui: tutte le cose, dico, senza eccezione; un essere che non fosse in Lui, non esisterebbe. Questa è la verità che San Paolo predicò nell’Areopago agli Ateniesi stupiti: « Dio non è lontano da ciascuno di noi, perché è in Lui che abbiamo vita, movimento ed essere » (Atti XVII, 27-28). Egli non ha fatto qui menzione che degli uomini. Ma ecco che non esclude nulla: « Da Lui, per Lui e in Lui sono tutte le cose » (Rom. VI, 36). E ancora, parlando del primogenito Figlio di Dio: « Per mezzo di Lui – egli dice – tutte le cose sono state create nei cieli e sulla terra; tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui, ed Egli stesso è prima di tutte le cose, e in Lui tutte le cose sussistono » (Col. I, 16-17). (Col. I, 16-17). « O grande, o Sovrano Procreatore degli esseri visibili e invisibili… Voi siete la causa prima, il luogo e lo spazio delle cose, il fondamento di tutto ciò che è; infinito, increato, immortale » (Arnob., Adv. Gent., L. I, n. 3). – Questa è la voce dei Padri e quella dei nostri Libri sacri. L’autore dei Nomi Divini ne è stato l’interprete sublime, quando chiama Dio « la fortezza e la dimora che contiene tutto ». – « Egli è il Pantocratore, cioè Colui che regge tutte le cose, perché è il fondamento sovranamente solido di tutti gli esseri… Egli li ha tratti da sé come da una fonte eminentemente feconda; li richiama a sé come ad un abisso assolutamente irresistibile; li riceve come una dimora infinitamente vasta, e li avvolge ricevendoli con un abbraccio immensamente potente » (Dionys Ar. De divin. Nom, c. 10, § 1. P. Gr, t. 3, p. 936). Questo testo, così grande nel suo fascino da essere quasi intraducibile, ci indica in qual senso dobbiamo prendere questa comprensione universale delle cose in Dio. Dio non è nelle creature come una parte di esse stesse; esse non sono in Lui come un attributo, una perfezione, uno sviluppo del suo Essere infinitamente semplice, infinitamente immutabile. Se guardiamo alla profondità delle cose, ciò che fa che Dio sia in tutto, fa anche che tutto sia in Dio. In entrambe le formule trovo, da diversi punti di vista, l’espressione della stessa verità fondamentale: Dio è la causa sovranamente efficiente e sovranamente immediata di tutto l’essere fuori di sé. Omnia in ipso constant: poiché « Egli supporta ogni cosa con l’onnipotenza della sua parola » (Hebr. I, 3).

3. – Poiché queste nozioni preliminari sono di grande importanza per una migliore comprensione di ciò che sia la dimora soprannaturale di Dio nei figli di adozione, prendiamo in prestito alcune ulteriori spiegazioni dalla filosofia cristiana. – La sostanza corporea, a causa delle sue dimensioni e della sua quantità, è necessariamente in relazione con lo spazio ed i luoghi in cui ha il suo determinato posto: una relazione così intima che non c’è né spazio senza corpo, né corpo senza spazio. La sostanza spirituale, invece, non avendo, per il fatto stesso di essere spirito, né estensione né superfici, è per sua natura indipendente da qualsiasi posizione in qualsiasi luogo, e da qualsiasi relazione di distanza o di vicinanza con gli esseri materiali. Da questo ne risulta una conseguenza molto notevole: è che l’assioma secondo il quale sia necessario essere da qualche parte prima di agirvi, sia vero per le cause materiali la cui azione presuppone il contatto, ma non possa essere vero per le cause immateriali, perché queste ultime entrano in relazione con la estensione solo in dipendenza delle loro operazioni e della loro influenza (« Dicendum quod esse in loco diversimode competit spiritibus et corporibus: quia corpus est in aliquo ut content, sicut vinuum in vaso; sed substantia spiritualis est in aliquo ut continens et conservans. Cujus ratio est, quia Subslautia corporalis per essentiam Suam che circumlimitata est quantitatis terminis, determinata est ad locum, et per consequens virtus et operatio ejus in loco est. Sed spiritualis substantia que omnino absoluta est a situ et quantitate, habet essentiam non omnino circumlimitatarm, loco. Unde non est in loco nisi per operationem, et per consequens virtus et essentia ejus in loco est. » S. Thom. I, D. 37, q. 2, a. 1. in corp.) – Pertanto, quando si chiede se Dio sia in tutti i luoghi, la risposta sarà diversa a seconda della diversità di significato che la domanda può contenere. Sarà negativa, se si intende con i termini « essere in un luogo » l’occuparlo alla maniera delle sostanze corporee. Al massimo si può dire, secondo l’osservazione di San Tommaso, « che Egli è in tutti i luoghi metaforicamente, perché li riempie non con le sue proprie dimensioni, ma con la quantità dei suoi effetti ». Sarebbe, al contrario, affermativo, se gli stessi termini significassero per voi il modo di presenza che si addice agli spiriti: poiché è in un senso molto proprio che, dando a tutti i luoghi sia il loro essere sia la loro proprietà di contenere dei corpi, Dio li avvolga e li penetri con la sua presenza (S. Thom., I, D. 37, q. 2, a. 1). – S. Alberto Magno non era di opinione diversa dal suo glorioso discepolo. Studiando come lui cosa sia la presenza di Dio nel mondo dei corpi, fa questa osservazione pienamente giusta: « Una cosa è essere localmente (localiter) in un luogo, un’altra cosa è essere nello stesso luogo causalmente (causaliter, a titolo di causa). Essere in un luogo secondo il primo modo è essere, o almeno poter essere, contenuto, delimitato, circoscritto da una superficie esterna; essere in un luogo secondo l’altro modo è produrre e conservare sia il luogo che ciò che è nel luogo… Dicendo, dunque, che Dio è qui o là, intendiamo dire che Egli sia legato a tale o a tal altro luogo, non secondo il modo del luogo, ma secondo il modo della causa » (Albert. M., Opp. tt. XVIII. Tr. XVIII, q. 70, m. 4. « Cum dicitur Deus in loc esse, comparatur ad locum non secundum modum loci, sed secundum modum causæ »). Ed è per questo che l’assioma che ho menzionato prima debba essere rovesciato quando si parla di spiriti puri e di Dio, lo Spirito puro per eccellenza. – Il sapiente Dottore, per dare maggior rilievo al suo pensiero, ci parla della presenza dell’anima nel corpo che essa anima, e di quella degli spiriti angelici nello spazio. « Ciò che l’anima è per il corpo, Dio non lo è per il luogo. Perché l’anima si riferisce al corpo come l’atto si riferisce alla potenza, come la forma si riferisce alla materia, e non come una cosa localizzata si riferisce al luogo in cui è localizzata. Se entra in relazione con il luogo, è per accidente, cioè perché il corpo di cui essa è l’atto e la forma, ha il suo luogo determinato in tale e tale parte della estensione. Ma non è in questo modo che Dio si rapporta al luogo: perché, come ho detto, vi si rapporta come causa » (Alb. M., ibid.). – Quanto all’Angelo, totalmente libero com’è da tutti i principi materiali, entra in relazione o con il luogo o con i corpi presenti nello stesso luogo, unicamente in virtù degli atti con cui assiste le creature corporeee le dirige sotto l’impero di Dio; « Quod ad hunc locum vel illum, refertur hoc est secundum vim et actum virtutis assistricis vel administricis » (Ib. Q. 73, m. 2.). È vero che più Angeli non possono occupare insieme lo stesso luogo, ma questo non perché lo riempiano con la loro quantità (come l’acqua fa in un vaso), ma « perché le loro operazioni non potrebbero, senza confusione, esercitarvisi contemporaneamente » (Id., ibid.). – Una dottrina solida e bella questa, in perfetta armonia con quella del Dottore Angelico, dalla quale emerge il grande principio: Dio sarà tanto più intimamente presente in una creatura; vi rimarrà tanto più costantemente, quanto più intimi, più permanente ed elevati saranno i suoi effetti (Occorre che io faccia notare, in conclusione, che la presenza degli spiriti nei corpi e nello spazio non debba essere rappresentata come immagine di quella di un punto senza dimensioni. L’indivisibilità del punto materiale è diversa dall’indivisibilità di uno spirito. Il punto, per quanto indivisibile possa essere supposto, appartiene per sua natura alla superfice in cui ha la sua posizione determinata. Lo spirito, al contrario, sfugge alla vostra idea di spazio e di estensione. Se si toglie l’uno e l’altro, non c’è più alcun punto concepibile; mentre l’esistenza e la natura degli spiriti non dipende in alcun modo da queste condizioni materiali).

LA GRAZIA E LA GLORIA (18)