DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (24)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (24)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

TESTI SPIRITUALI

Ultimi consigli di vita interiore (**)

(**) In questa risposta, scritta l’11 settembre 1906 (qualche settimana prima di morire) ad una amica d’infanzia, traspare tutta la sua esperienza della vita interiore, formulata alla maniera dei Santi: con la semplicità del Vangelo.

« Voglio rispondere alle tue domande ».

« Ecco che finalmente Elisabetta viene, con la matita, a porsi vicino alla sua Fr… cara; dico: con la matita, perché col cuore ti sono sempre vicina, e da tanto tempo ormai, non è vero? e sempre restiamo strettamente unite l’una all’altra. Come sono belli i nostri promessi incontri della sera! Sono come il preludio di quella comunione che si stabilirà fra le anime nostre dal cielo alla terra. Mi sembra di starmene reclinata su di te come una mamma sulla sua figlioletta prediletta. Alzo gli occhi, guardo il Signore, poi li abbasso ancora su di te, e ti espongo ai raggi del suo amore. Non gli dico nulla, ma Egli mi comprende anche meglio senza parole, e preferisce il mio silenzio.

Mia figliola cara, vorrei essere santa per poterti fin d’ora aiutare quaggiù, in attesa di farlo lassù, in cielo. Che cosa non vorrei soffrire per ottenerti quella forza, quelle grazie di cui hai bisogno!

Voglio rispondere, ora, alle tue domande. Parliamo prima di tutto dell’umiltà. Ho letto su questo argomento delle parole magnifiche. Un pio autore dice che « nulla può turbare l’umile; esso possiede la pace inalterabile, perché si è sprofondato in un tale abisso, che nessuno andrà a cercarlo così in basso ». Dice ancora che « l’umile trova la più saporosa dolcezza della sua vita nel sentimento della propria impotenza di fronte a Dio ». Ma l’orgoglio, sai, non è un nemico che si possa atterrare con un bel colpo di spada. Senza dubbio, certi atti di umiltà eroica come ne vediamo nella vita dei Santi, lo colpiscono, se non mortalmente, in modo almeno da indebolirlo di molto; ma bisogna farlo morire ogni giorno. « Quotidie morior », diceva san Paolo, « io muoio ogni giorno » (1 Cor. XV, 31). Questa dottrina del « morire ogni giorno a se stessi» è divenuta legge per ogni anima cristiana, dal momento che Gesù ha detto: « Se qualcuno vuol seguirmi, prenda la sua croce e rinneghi se stesso » (S Matteo XVI, 24); sembra così austera, ed è di una soavità ineffabile, se si considera qual è il termine di questa morte. È la vita; la vita di Dio che si sostituisce alla nostra vita di miserie e di peccati. E proprio questo voleva dire san Paolo quando scriveva: « Spogliatevi dell’uomo vecchio e rivestitevi del nuovo, secondo l’immagine di Colui che lo ha creato » (Col. III, 20). Questa immagine è Dio stesso. E ricordi come Egli esprime formalmente questa Sua volontà nel giorno della creazione, quando dice: « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza »? (Gen. I, 26).

Oh, credimi; se pensassimo di più alla nostra origine, le cose della terra ci sembrerebbero così puerili, che non potremmo più stimarle. San Pietro, poi, scrive in una delle sue epistole che « siamo fatti partecipi della natura Divina » (II S. Piet. I, 4). E san Paolo ci raccomanda di « conservare salda sino alla fine questa base » (Ebr. III, 14), inizio del suo Essere, che Egli ci ha dato.

L’anima che ha coscienza della sua grandezza entra in quella santa libertà dei figli di Dio (Rom. VIII, 21), di cui parla l’Apostolo, cioè supera tutte le cose ed anche se stessa.

Mi sembra che l’anima più libera sia quella che più si dimentica; e se mi si chiedesse il segreto della santità, direi: non fare nessun conto di sé, rinnegare il proprio io, sempre. Ecco un buon sistema per uccidere l’orgoglio: farlo morire di fame. L’orgoglio è amore di noi medesimi; ebbene: l’amore di Dio cresca tanto e sia così forte da estinguere ogni altro amore in noi.

Dice sant’Agostino che in noi abbiamo due città: quella di Dio e quella dell’« io »: in proporzione dell’affermarsi della prima, sarà demolita la seconda. Un’anima che vivesse di fede sotto lo sguardo di Dio, che avesse quell’« occhio Semplice » di cui parla Gesù nel Vangelo (S. Matt. VI, 22)), cioè quella purezza d’intenzione che mira a Dio solo, una tale anima mi pare che vivrebbe anche nella umiltà: saprebbe riconoscere i doni ricevuti da Lui, perché l’umiltà è verità, ma non si approprierebbe nulla, riferendo tutto a Dio, come faceva la Vergine santa. I movimenti di orgoglio che senti in te non divengono colpevoli se non quando la volontà se ne fa complice: altrimenti, potrai soffrire molto, ma non offenderai il Signore. Le colpe di questo genere che ti sfuggono come tu dici, senza neppure rifletterci, denotano certamente un fondo di amor proprio; ma questo, mia povera cara, fa parte in qualche modo del nostro essere. Quello che il Signore vuole da te, è che non ti fermi mai volontariamente in un pensiero di orgoglio qualunque esso sia, e che tu non compia mai un atto ispirato da questo stesso orgoglio, perché faresti male; ma se anche tu dovessi poi riconoscere di avere agito così, non scoraggiarti, perché l’irritarsi è ancora segno di orgoglio; deponi invece la tua miseria ai piedi del Maestro come faceva la Maddalena, e chiedigli che te ne guarisca; gli piace tanto vedere che l’anima riconosca la propria impotenza! Allora, come diceva una grande santa, « l’abisso dell’immensità di Dio si trova di fronte all’abisso del nulla (Sant’Angela da Foligno).

Figliola mia, non è orgoglio pensare che tu non vuoi saperne di una vita facile; anch’io ritengo che il Signore vuole davvero che la tua vita si svolga in una sfera dove si respira aria divina. Credi; sento una compassione profonda per le anime che non vivono più in su della terra e delle sue volgarità; mi sembrano schiave, e vorrei dir loro: Scuotete il giogo che pesa su di voi; perché vi trascinate con cotesti lacci che vi incatenano a voi stesse ed a cose inferiori a voi? Io ritengo che i felici, quaggiù, siano quelli che sanno tanto disprezzare e dimenticare se stessi, da scegliersi in retaggio la croce; quando sa trovare la gioia nel dolore, che pace deliziosa! « Io completo nella mia carne ciò che manca alla Passione di Gesù Cristo per il suo corpo che è la Chiesa » (Col. I, 24): ecco ciò che formava la felicità dell’Apostolo. Questo pensiero non mi abbandona mai; e ti confesso che provo una gioia intima e profonda nel vedere che Dio mi ha scelta per associarmi alla passione del suo Cristo. Questa via del Calvario che salgo ogni giorno mi sembra piuttosto la strada della beatitudine. Hai visto mai quelle immagini rappresentanti la morte che miete con la falce? È quanto accade in me; e la sento che si avvicina. La natura ne freme di pena, talvolta; e ti assicuro che, se mi fermassi lì, non esperimenterei che la mia viltà nel dolore; ma questo è lo sguardo umano, e subito « apro l’occhio dell’anima al lume della fede »; questa fede mi dice che è l’amore che mi consuma lentamente, che mi distrugge; e allora provo una gioia immensa e mi abbandono a Lui come sua preda.

Per raggiungere la vita ideale dell’anima, io credo che sia necessario vivere nel soprannaturale, cioè non agire mai « naturalmente ». Bisogna sapere e pensare che Dio è in noi, nell’intimo del nostro essere, e agire sempre con Lui; allora non si diventa mai volgari, neppure compiendo le azioni più ordinarie, perché non si vive in queste cose, ma si oltrepassano. Un’anima soprannaturale non discute mai con le cause seconde, ma si volge a Dio solo; e come è semplificata la sua vita, come si accosta a quella degli spiriti beati, come è sciolta da se stessa e da qualsiasi cosa! Tutto, per lei, si riduce all’unità, a quell’« unico necessario » (S. Luc. X, 42) di cui il Maestro parlava alla Maddalena; ed allora è veramente grande, veramente libera, perché ha « racchiusa la sua volontà in quella di Dio ».  Come appaiono spregevoli le cose visibili, quando si contempla la nostra predestinazione eterna! Ascolta san Paolo: « Quelli che Dio ha predestinati, li ha anche voluti conformi all’immagine del Figlio suo ». Ma questo non è ancor tutto; ed egli ti dirà che tu sei anche nel numero dei predestinati: « Quelli che ha predestinati, li ha pure chiamati ». È il Battesimo che ti ha resa figlia di adozione, che ti ha segnata col suggello della santissima Trinità. « E i chiamati li ha anche giustificati ». Quante volte sei stata giustificata anche tu dal sacramento della penitenza e da tutti quei tocchi di Dio nella tua anima, che ti hanno purificata senza che neppure te ne accorgessi! « Coloro che ha giustificati, poi, li ha anche glorificati » (Rom. VIII, 28-30). È ciò che ti attende nell’eternità; ma ricordati che il nostro grado di gloria corrisponderà al grado di grazia nel quale Dio ci troverà in punto di morte. Lasciagli dunque compiere in te l’opera della tua predestinazione, e segui san Paolo che ti dà un programma di vita: « Camminate in Gesù Cristo, radicati ed edificati in Lui, fortificati nella fede e crescendo in essa sempre più con rendimento di grazie » (Col. II, 6-7).

Sì, figliolina dell’anima mia, cammina in Gesù Cristo; hai bisogno di questa via larga e spaziosa; non sei fatta, tu, per gli angusti sentieri della terra. Sii radicata in Lui, quindi sradicata da te; cioè, ogni volta che incontri il tuo io, contrarialo e santificalo. Sti edificata in Lui, molto in alto, al di sopra di tutto ciò che passa, lassù dove tutto è puro, tutto è luminoso. Sti ben ferma nella fede, non agire che secondo la luce di Dio e mai le tue impressioni o la tua fantasia; credi che Egli ti ama, che vuole aiutarti nelle tue lotte e difficoltà; oh sì, credi al suo amore, al suo « amore troppo grande » (Efes. II, 4), come dice san Paolo. Nutri la tua anima dei grandi pensieri di fede che ci rivelano le nostre vere ricchezze e il fine per cui Dio ci ha creati. Se vivrai di queste verità, la tua pietà non sarà una esaltazione nervosa, come temi, ma sarà soda e vera; è così bella la verità, la verità dell’amore! « Egli mi ha amato e si è dato per me » (Gal. II, 20). Ecco, bambina mia, che cosa vuol dire essere veraci nell’amore. E poi, finalmente, cresci nell’azione di grazie; è l’ultima parola del programma e non ne è che le conseguenze. Se camminerai radicata in Gesù Cristo, forte nella. tua fede, vivrai nella azione di grazie, nella dilezione dei figli di Dio.

Mi domando come è mai possibile che non sia lieta sempre, in qualsiasi pena, in qualunque dolore, l’anima che ha sondato l’amore che c’è « per lei » nel cuore di Dio. Ricordati che « Egli ti ha eletta in Lui, prima della creazione, perché tu sia pura e immacolata al suo cospetto, nell’amore » (Ef. I, 4): è ancora san Paolo che te lo dice. Quindi non temere la lotta, la tentazione. « Quando sono debole — esclamava l’Apostolo — allora sono forte perché la virtù di Gesù Cristo si trova in me » (I Cor. XII, 9).

Che cosa penserà la nostra reverenda i Madre quando vedrà questa lunga lettera? Ella non mi permette quasi più di scrivere, perché sono di una debolezza estrema, e ad ogni momento mi sento mancare. Ma sarà forse l’ultima lettera della tua Elisabetta; ci son voluti molti giorni per scriverla, e questo ti spiegherà la sua incoerenza; eppure, stasera, non so ancora decidermi a lasciarti. Sono le sette e mezzo; la comunità è in ricreazione, ed io sono qui, nella solitudine della mia celletta, e mi sembra di essere già un po’ in paradiso; sono qui, sola con Lui solo, portando la croce con Lui, il mio Maestro diletto. La mia gioia cresce in proporzione delle mie sofferenze; se tu sapessi quale dolcezza si cela in fondo al calice preparato dal Padre dei Cieli!

A Dio, Fr… cara; non posso continuare; ma nei nostri silenziosi incontri, tu sentirai, tu comprenderai tutto quello che non potrò dirti. Ti abbraccio, ti amo come una mamma ama la sua figliolina. Addio, mia piccola cara. Che all’ombra delle sue ali Egli ti custodisca da ogni male ».

Suor Maria Elisabetta della Trinità

« Laudem gloriæ »

Questo sarà il mio nome nuovo in cielo…

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LA GRAZIA E LA GLORIA (26)

LA GRAZIA E LA GLORIA (26)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO V

LA FILIAZIONE ADOTTIVA CONSIDERATA NELLA SUA RELAZIONE CON CIASCUNA DELLE PERSONE DIVINE. LA RELAZIONE CON IL PADRE E IL FIGLIO.

CAPITOLO V.

Rapporti tra i figli adottivi e la seconda Persona. Il Figlio di Dio, celeste sposo delle anime.

2. – Tuttavia, so che nella sacra Liturgia è alle vergini, e specialmente alle vergini dedicate a Dio per la professione religiosa, che sono specialmente applicati il titolo e l’onore della sposa e della fidanzata di Cristo. Ne vedo come garanti le preghiere recitate dal Pontefice, i canti che le accompagnano e le altre cerimonie di consacrazione delle vergini. Così, per esempio, nel dare loro l’anello, il Vescovo dice: « Io ti fidanzo a Gesù Cristo, il Figlio del Padre Supremo… Ricevi dunque questo anello come il sigillo dello Spirito Santo, affinché, se rimani fedele al tuo Sposo celeste, tu possa essere eternamente incoronata ». E le vergini cantano: « Eccomi qui, fidanzata sposa a Colui che gli Angeli servono, a Colui la cui bellezza il sole e la luna ammirano; il mio Signore Gesù Cristo mi ha legato a Lui con il suo anello, ed Egli mi ha adornata con una corona come sua sposa ». E il Vescovo, in un magnifico Prefatio, esalta ancora « la beata verginità che, riconoscendo il suo Autore, e la santa gelosia dell’integrità degli Angeli, si riserva al talamo immacolato di Colui che è insieme lo Sposo e il Figlio della perpetua verginità” (Pontificale Rom. de Consecr. Virginum. Dell’antichità di questi riti ci si può convincere leggendo: Muratori, Liturg. Rom. vet. t. 1, p. 444; t. 2 p. 701). – Ma celebrare il privilegio delle vergini cristiane in questo modo non significa negare che ogni anima in stato di grazia abbia diritto al titolo di sposa, non più di quanto chiamando con il nome di religiosi quelle persone specialmente dedicate al culto di Dio, noi non pretendiamo di negare il significato di questa parola al resto dei Cristiani. Che cosa facciamo, dunque, o meglio, che cosa fa la Chiesa, quando attribuisce singolarmente a certe persone o il nome di sposa o quello di religiosa? Essa consta che esse hanno un diritto speciale per portare l’uno o l’altro titolo: perché nello stato che abbracciano, devono realizzare il suo significato in modo più glorioso e completo. Queste Vergini, che rinunciano per sempre al diritto di appartenere a sposi terreni per appartenere a Gesù Cristo, dedicandogli senza alcuna condivisione, anche legittima, tutto ciò che hanno e che sono, non meritano forse di portare singolarmente questo nome benedetto che le distingue? – Al di là di questa unione delle vergini, la teologia mistica ci mostra nella vita dei Santi altri fidanzamenti, un altro e ancora più intimo matrimonio spirituale tra Cristo e le anime privilegiate, come lo furono Santa Teresa, Santa Gertrude, Santa Caterina da Siena e tante altre. – Il piano di quest’opera non mi permette di entrare nella spiegazione di questi favori straordinari (Vedi su questo argomento Santa Teresa, Castello int., 7° dim.; Giovanni della Croce, Cantici spirituali, 19° cant.; S. Bern., in Cant. Serm. 83, ecc.) Ci basterà notare che qui non c’è nulla che contraddica la dottrina precedentemente esposta. « Questo matrimonio spirituale e casto del Verbo e dell’anima » (San Lorenzo Giustin., de Spirituali et casto Verbi animæque connubio.) non è, in fondo, che un’alleanza fondata sulla grazia, ma con una manifestazione talvolta sensibile del Verbo che si rivela all’anima come Sposo, un sentimento molto vivo, intimo e quasi abituale della sua presenza, una trasformazione più profonda dell’essere umano sotto le effusioni della luce divina e i tocchi sacri dello Sposo. – Con questi favori straordinari Nostro Signore fa, per certi membri del suo Corpo mistico, qualcosa di analogo a ciò che fece per il Suo corpo naturale, quando si mostrò trasfigurato sul Tabor. Non era questa la glorificazione finale della sua santa umanità, ma un preludio, una prova temporanea di ciò che sarebbe stato un giorno, dopo l’uscita dalla tomba. Così gli piace dare un assaggio, nelle anime scelte, dell’unione che sarà consumata nella gloria. E come lo splendore riversato sul corpo del mio Maestro nell’ora della trasfigurazione veniva dall’interno, come una rivelazione della divinità latente sotto le apparenze della nostra miseria, così le prerogative eccezionali che ammiriamo nei Santi sono lo svolgimento più pieno e l’irradiazione esteriore del mistero che è al fondo di tutte le anime santificate dalla grazia. Ed è da questo punto di vista che, senza essere lo stato normale della nostra attuale unione con Gesù Cristo, esse contribuiscono nella loro parte a gettare una maggiore luce su questa mirabile alleanza.

1 – Quando si parla della santa Chiesa, i titoli di corpo e sposa di Cristo Gesù sono così intimamente uniti che l’uno sembra fondersi con l’altro. Aprite l’epistola di San Paolo agli Efesini; vi leggerete che tra Cristo e la sua Chiesa c’è la stessa unità che tra uomo e donna. Un’unione molto più stretta e profonda, poiché l’unione dei coniugi cristiani, santificata com’è dal Sacramento della nuova alleanza, deve rappresentare quella di Cristo con la Chiesa come suo esemplare divino. Questo è ciò che l’Apostolo dichiara quando dice del Matrimonio cristiano: « Questo è un grande sacramento, io dico in Cristo e nella Chiesa » (1 Ef., V, 32). Ora, tra l’uomo e la donna non esiste una qualsiasi unità: « Essi saranno due – dice la Scrittura – ma in una sola carne », tanto intima deve essere la loro società, tanto sacri sono i diritti che hanno l’uno sull’altra. Così il marito deve amare la moglie come il proprio corpo, in modo che il suo amore per lei sia lo stesso del suo amore per se stesso (Ibid., 28, 29). Vediamo ora, che non è l’unità puramente morale che risulta da un’amicizia reciproca, ma una certa unità fisica che richiede l’unità dell’amore e deve essere consacrata da essa. E questo è ciò che ammiriamo, ma con una perfezione superiore, nell’archetipo delle unioni umane, cioè nell’unione di Gesù Cristo e della sua Chiesa. Il Verbo di Dio, nel suo immenso desiderio di unirsi più strettamente a noi, si è rivestito della nostra natura, affinché in essa e attraverso di essa potesse contrarre quel misterioso matrimonio con la sposa. E questa sposa, perché non fosse meno indegna di Lui, la trasse dal suo fianco, dal suo cuore aperto sulla croce. Da lì è uscita, vivificata dalla nascita dal sangue dello Sposo; da lì ha ricevuto tutto ciò che la rende ciò che è, gloriosa, santa, immacolata: carne della sua carne e osso del suo osso. Questa è la Sposa e questo è il Corpo di Cristo; lo Sposa perché è il Corpo, e il Corpo perché è la Sposa (Ef., V, 30, 31. « Sponsus in capite, sponsa in corpore », dice sant’Agostino). Abbiamo sentito le Sacre Scritture parlarci in venti luoghi del Corpo Mistico di Gesù Cristo, che è la Santa Chiesa di Dio. Esse non proclamano né meno spesso, né meno eloquentemente, la qualità della sposa. Uno dei libri dell’Antico Testamento, il Cantico dei Cantici, non ha altro scopo che rappresentare in un’allegoria poetica le nozze spirituali di Cristo con la sua Chiesa, ed il sacro amore con cui essi ardono l’uno per l’altro (P. Gietmann, Comment. in Cant. De Allegoria Cantici (in Cursu Script. S., auctore Cornely, etc. p. 388, seq.). Anche il V Concilio, tra le altre opere di Teodoro di Mopsuesta, respinse con orrore uno scritto in cui questo precursore e maestro di Nestorio sosteneva che i Cantici sono una scrittura profana, e « non contengono l’annuncio dei beni futuri della Chiesa ». (Labbe Concil., t, VI, p. 64). – La stessa alleanza ci è promessa nei Profeti: « In quel giorno, dice il Signore, il mio popolo mi chiamerà mio sposo e non più mio Signore; e io vi sposerò per sempre, e vi sposerò in giustizia e misericordia… e fedeltà » (Os. 1:16, 19-20; cfr. Is., LIV, 5, 6 – testo ebraico – . Il Nuovo Testamento è venuto a fare piena luce su queste promesse divine ed a mostrarci il loro adempimento. Cristo è lo Sposo che si rallegra per la sua presenza, e la cui assenza porterà digiuni e lacrime; è il Figlio del grande Re, i cui servi vanno per tutti i crocicchi e le strade invitando la gente al banchetto di nozze (Matt. IX: 15; XXII:2 suqq.). Giovanni Battista, l’amico dello Sposo, sentì la voce di Colui che possiede la sposa, e ne fu felicissimo (Giov., II, 29.3). Giovanni Evangelista, nelle sue visioni di Pathmos, contemplò la solennità nuziale in cui la Sposa splendidamente adornata si presenta, alla chiamata dello Sposo, per sedersi accanto a Lui sul trono della sua gloria (Apoc., XIX, 7-9; XXI,2; XXII, 16). Più di un lettore potrebbe volermi fermare qui per dire: non abbiamo dubbi che Gesù Cristo sia veramente uno sposo per la Chiesa, poiché è il Capo di cui Ella stessa è il corpo. Ma non è solo per la Chiesa che dovete rivendicare questo titolo; è in particolare per l’anima di ciascuno dei figli di Dio. Sono così inconsapevole di questo, e così poco dimentico di questo, che tutto ciò che precede, contiene il germe della verità di cui devo dare la prova e la spiegazione. A questo proposito, non ho già sottolineato che, per la Chiesa, il titolo di Corpo e quello di Sposa sono inseparabili? Pertanto, poiché il primo titolo mi unisce a Gesù Cristo come membro nell’unità di questo stesso Corpo, perché il secondo non dovrebbe appartenere a me, che sono nella Sposa? Si può obiettare che, se l’unità del corpo e la molteplicità delle sue membra non siano incompatibili sotto uno stesso capo, questo non è più il caso per la qualità della Sposa: poiché lo Sposo è unico, la Sposa deve essere come Lui. Ecco perché il crimine dello scisma e dell’eresia, da un lato, e il divorzio e la poligamia tra i Cristiani, dall’altro, sono ugualmente ingiuriosi per la misteriosa alleanza di Cristo e della sua Chiesa: perché entrambi tendono a moltiplicare la Sposa, o dividendola da se stessa o distruggendo l’unità indissolubile nel tipo umano che la simboleggia. – A S. Paolo risolvere l’obiezione! Egli certamente conosceva questa necessaria unicità della Sposa; e tuttavia egli stesso prese come sua missione di affidare ciascuna delle Chiese particolari a Cristo, l’unico Sposo, e di presentargliele come una vergine pura (1 Cor. XI, 2). Ha voluto moltiplicare il numero delle spose, quando non ha risparmiato né sforzi né sangue per aumentare il numero di queste chiese? No, senza dubbio. Perché no? Poiché le Chiese particolari formano nel loro insieme armonioso la Chiesa universale, l’unica Sposa del re Davide: in un salmo incomparabile, egli ha cantato questo Re Salvatore Re, e la Regina, cioè la Chiesa, in piedi alla sua destra, con vesti tutte splendenti d’oro e di ricami; ma le figlie dei Re, vergini come Ella, la accompagnano, presentate in letizia e condividendo la gloria e l’amore dello Sposo, perché sono una cosa sola con Ella (Salmo, XLIV, 10, 15,). « Ecco Roma, ecco Cartagine, ecco altre città e altre ancora; tante figlie di re che sono le delizie del Re Gesù nello splendore della sua gloria; ma di tutte se ne fa una sola regina. Et ex omnibus fit una quædam regina », dice S. Agostino nella sua interpretazione di questo passo (Enarr. in ps. XLIV, n. 23). Così, sebbene il numero di regine e fanciulle sia infinito, c’è solo una colomba per lo Sposo: « Una est columba mea » (Cant., VI, 7-8). Perciò, avvicinatevi, anime sante, compagne della Chiesa, sue figlie e membra, che vivete nel suo seno e della sua vita, non temete che lo Sposo vi respinga: perché abbracciandolo tra le sue braccia, è anche voi che Egli abbraccia, voi che Egli stringe al suo cuore. (Sant’Agostino si chiede come i fedeli, che sono figli della Chiesa, possano essere spose nella Chiesa, sposa e madre. « Nei matrimoni umani e carnali – egli dice – la sposa è diversa dai figli, ma nella Chiesa di Dio la Sposa non è distinta dai figli, quæ uxor, ipsi filii… Essere nella Chiesa è essere sposa nella misura in cui se ne è membri. (Enarr. In psalm. CXXVII, n° 12). Inoltre, i santi Padri non hanno mai cessato di descriverci l’unione soprannaturale di Gesù Cristo con le anime giuste sotto il simbolo di una purissima unione tra sposi. Chi non conosce l’eloquente esclamazione di San Gregorio di Nazianzo nel panegirico di sua sorella Gorgonia: « O purezza meravigliosa, e conservata senza macchia dal Battesimo! O anima, sposa di Gesù Cristo, in un corpo immacolato per un letto nuziale – in puro corporis thalamo » (S. Gregor. Naz. P. Gr. t. 35, p. 805.)! – Un altro Gregorio, quello a cui i posteri hanno dato il nome di Magno, ci mostra lo Sposo divino « riposare con amore nei cuori dei fedeli, e nutrirsi lì a mezzogiorno, cioè nel fervore della carità, sul pascolo verdeggiante delle loro virtù » (S. Gregor. M. sup. Cant ,c. I, 6). – Questa dottrina è troppo conosciuta per aver bisogno di accumularla tra i testi. Diciamo in una parola che, tra la legione di eminenti interpreti e santi mistici che, da Origene fino a tempi recenti, hanno scritto sul Cantico, non ce n’è uno che non abbia visto in questa sublime allegoria non solo la Chiesa, la sposa di Gesù Cristo, ma anche ogni anima santa con Ella. Diciamo ancor più; è di questo ancor più che di quell’altro di cui parlano nei loro commenti: testimone ne è questo passo di San Bernardo: « La sposa è ogni anima che ama (« Sponsæ nomine censetur anima quæ amat » – San Bernardo. In Cant. 7, n. 3) » . Inoltre, niente potrebbe essere più naturale di questa alleanza, poiché queste anime sono la parte migliore della Chiesa; poiché sono unite nell’unità della stessa fede, nello stesso desiderio, nella stessa intenzione e nello stesso cuore, esse formano la colomba unica.

3. – Cristo è l’esemplare e il fratello, il capo e lo sposo dei figli di Dio. Perché tutti questi titoli e come si armonizzano tra loro? Bossuet, dopo S. Basilio il Grande (S. Basilio, de Spir. s. ad Amphiloc., c. 8), ce ne darà la risposta: « È necessario – dice questo grande uomo – adorare la sacra economia con cui lo Spirito Santo ci mostra la semplice unità della verità attraverso la diversità delle espressioni e delle figure. È l’ordine della creatura di poter rappresentare solo attraverso la pluralità raccattata l’immensa unità da cui proviene. Così, nelle sacre sembianze che lo Spirito Santo ci dà, dobbiamo notare in ognuna il tratto particolare che porta, per contemplare nell’insieme riunito l’intero volto della verità rivelata. In seguito, dobbiamo passare sopra tutte le figure (e tutte le analogie) per sapere che c’è qualcosa di più intimo nella verità, che le figure, né unite né separate, non ci mostrano: ed è lì che dobbiamo perderci nella profondità del segreto di Dio, dove non si scorge più nulla, se non il vedere le cose così come sono. Tale è la nostra conoscenza, quando siamo guidati dalla fede » (Bossnet, Lettera a una giovane donna di Metz). – Riconosciamo qui, senza bisogno di farlo rimarcare, quel metodo generale di elevarci alla concezione delle cose divine, insegnato dal grande Areopagita, e così meravigliosamente applicato dal Dottore Angelico, San Tommaso d’Aquino (San Tommaso, de Pot., q. 7, a 5 et alibi passim). L’intelligenza dell’uomo non ha alcun pensiero per concepire, né alcuna parola per esprimere come merita, l’unione fatta dalla grazia tra il figlio adottivo e il Figlio per natura. Saremo ridotti al silenzio, o lo Spirito Santo dovrà rinunciare a darci un’idea di questa benedetta unione? No, senza dubbio. Cosa farà allora? Egli sceglierà dal linguaggio umano tutti i termini che possono, da diversi punti di vista, rappresentare i legami più forti e i commerci più intimi, in modo che, riunendo come in un unico fascio tutti questi raggi sparsi, possiamo formare una debole immagine di questa alleanza per sempre benedetta. Da qui vengono questi nomi di sposa e di sposo, dopo quelli che abbiamo studiato alla luce della rivelazione. Cristo è lo Sposo delle anime e ciascuna di esse, nella misura della sua grazia, è una sposa. – Queste ultime espressioni tendono a tracciare per noi più espressamente diversi caratteri dell’unione della grazia con Gesù Cristo Nostro Signore. Questo ci sarà facile da capire se meditiamo su come si formi l’alleanza dello Sposo con la sposa, e quali siano i beni propri di questa unione. In primo luogo, è evidente che non è la natura che fa l’unione del matrimonio; anzi, tenderebbe a metterla da parte quando i legami naturali sono più stretti. Qui è la libera scelta che decide tutto. Un uomo sceglie una moglie per amore, e la moglie così scelta si dà a sua volta, non per costrizione ma per scelta: una società formata nel cuore prima di essere esternamente espressa in atti autentici. – Non è così che Gesù Cristo si unisce alle anime? Quale amore, quale premura, quale ricerca? Lo vedo scendere dal cielo alla terra, andare da Betlemme alla croce, stare in mezzo a noi nel suo tabernacolo, chiamare le anime, moltiplicare i suoi passi, bruciare d’amore e in qualche modo spirare amore. Ed è quando le anime così avvertite, chiamate e cercate rispondono con amore all’amore, che l’alleanza si conclude definitivamente. (Occorre leggere S. Agost. nel suo commento al versetto 12 del Salmo XLIV, che egli traduce secondo una versione antica: « Quoniam concupivit rex speciem tuam. Quam speciem, inquit, nisi qua mille fecit? Rex tuus et ipse est sponsus tuus; regi nubis Deo, ad illo dotata, ad illo decorata, ad illo redempta, ad illo sanata. Quiquid habes unde illi placeas, ad illi habes. » In h. Salmo, n. 26). Ma che differenza tra le unioni umane e questa unione soprannaturale del Verbo con la sua creatura, se la guardiamo soprattutto dal lato dello Sposo! E quale grande idea di ciò è data dall’esortazione di San Paolo ai coniugi cristiani: « O uomini, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa, e si è offerto per essa, al fine di santificarla, purificandola nel battesimo d’acqua mediante la parola di vita, – per preparare per sé una chiesa gloriosa….., santa e immacolata » (Ef. V., 25-28). Bisogna aggiungere che, se la premura dello Sposo delle anime è infinitamente più grande, il suo amore è ancora più incomparabilmente gratuito: poiché Egli si è riservato il privilegio di dare tutto, senza aspettarsi nulla che non venga da Lui: tutto, dico, non solo fino al suo nome, ma fino all’amore che riceve, fino alla bellezza che rende la Sposa piacevole ai suoi occhi. – È dunque una catena d’amore, la carità divina, che ci viene rivelata da questi nomi di Sposo e di sposa. L’amicizia è certamente una grande cosa, quando l’amico è il Creatore, e l’amica, la sua povera creatura. Tuttavia, i due titoli che stiamo meditando hanno qualcosa che mi tocca ancora di più. A parte il fatto che contengono qualcosa di più dolce e tenero, esprimono più fortemente la comunione molto intima che debba esistere tra l’anima e Dio (San Bernardo, in Cant. Serm. 7 n. 2). È, da parte di quest’ultimo, la condivisione dei suoi infiniti tesori con la sposa che si è fatto; da parte di quella, la conformità dei giudizi, delle volontà, dei gusti, con i giudizi, le preferenze ed i più piccoli desideri dell’amato. La fusione di due anime e due cuori in una sola anima e un solo cuore, il cuore e l’anima dell’Amato. Un dono reciproco, in cui l’uno comunica abbondantemente ciò che ha, mentre l’altra, non avendo nulla di proprio, non vuole altra vita, né altri interessi che quelli dello Sposo celeste. (Che questi siano gli effetti e i caratteri di questa divina alleanza, lo apprendiamo da ciò che i Santi hanno scritto delle nozze mistiche e spirituali, cioè di un’analoga, ma più perfetta, dell’unione tra Gesù Cristo e certe anime privilegiate. Ascoltiamo Santa Teresa che parla di se stessa: « Nostro Signore, mostrandosi a me nell’intimo della mia anima attraverso una visione immaginaria, come aveva fatto spesso, mi dice: “Guarda questo chiodo; è il marchio e il pegno che sarai la mia sposa”. Fino ad ora, non lo avete meritato. D’ora in poi, ti prenderai cura del mio onore, non solo vedendo in me il tuo Creatore, il tuo Re e il tuo Dio, ma anche vedendoti come mia vera sposa. Da questo momento, il mio onore è il tuo e il tuo onore è il mio. » Poi aggiunge: « Mentre stavo fondando il monastero di Siviglia, la Madonna mi disse: ‘Tu conosci il matrimonio spirituale che esiste tra noi: in virtù di questo legame, ciò che io possiedo è tuo; e così ti do tutti i dolori e le fatiche che ho sopportato. In virtù di questo dono tu puoi chiedere al Padre mio come se tu domandassi il tuo proprio bene » – Santa Teresa. Aggiunte alla sua vita da lei stessa, tradotte da P. Bouix, p. 592, 593. Lo stesso contratto è stato stipulato tra la Madonna e la Beata Margherita-Maria, e gli effetti sono gli stessi come si può leggere nella Vita di B. scritta dai suoi contemporanei (Vita ed Opere della S., Marg. Maria, 3° ed., t. 1, p. 15, 15).

4. – La teologia ci insegna, seguendo sant’Agostino, che ci sono tre beni principali da considerare nel matrimonio: la fedeltà, l’indissolubilità e la fecondità, « fides, sacramentum et proles » (sant’Agostino, De Nuptiis et concup., c. 11). O Gesù, amabilissimo Sposo delle anime, proprio ora stavo ammirando come il vostro amore di Sposo superi gli affetti umani di tutta l’altezza che si addice al loro ideale. Ora lasciatemi contemplare, per istruirmi nei miei doveri, per lodarvi e per confondermi, come da parte vostra i tre beni che ho appena enumerato, superino immensamente quelli delle unioni mortali. Fedeltà. È una dottrina di fede che non si abbandona mai un’anima, a meno che essa stessa non vi costringa, con il vostro abbandono, a ritirarvi da essa. Cosa devo dire? Anche l’abbandono non vi respinge. Non siete Voi il buon Pastore che va alla ricerca della pecorella smarrita? Non c’è posto nel focolare umano per la sposa sleale che l’ha disonorato con la sua infamia. Ma Voi, Signore, non conoscete questi rifiuti, per quanto legittimi possano essere. Ho letto in Geremia, il vostro Profeta, la descrizione spaventosa che egli dà, sotto l’ispirazione del vostro Spirito, delle infedeltà di Israele e di Giuda, entrambi il tipo di anime che hanno violato la fede che vi hanno giurato. Ma ciò che mi conforta tanto quanto le vostre minacce mi spaventavano, sono i teneri inviti che rivolgete a queste spose colpevoli: « Ritornate – dite loro attraverso lo stesso Profeta – convertitevi a me, guida della vostra verginità, perché Io sono vostro Sposo. E siccome io sono la santità stessa, Io guarirò il male che la vostra fuga e le vostre defezioni hanno causato ». (Gerem. III, passim). È là, se lo comprendiamo bene, che Dio Nostro Signore ha il diritto di mostrarsi meno inesorabile delle sue creature: puro nell’essenza, Egli può restituire un candore verginale alle anime più disonorate dalla macchia del vizio; lo può con un’efficacia tanto più certa, poiché ha fatto del suo sangue versato a torrenti un bagno salutare per lavare tutte le nostre macchie. – E che per oscurare lo splendore di una fedeltà ineguagliabile, non si parli di un amore condiviso, con il pretesto che lo Sposo celeste vorrebbe, per quanto è in sé, comunicarsi a tutte le anime. Se questa condivisione avesse realmente luogo, il bene e l’amore che Egli dà a ciascuno sarebbe incomparabilmente al di sopra dei loro meriti, e richiederebbe ancora delle azioni di grazie eterne. Ma Dio non voglia che sia così. « Gesù Cristo nella sua interezza è così interamente tuo che può darti dei compagni e mantenerti in una fedeltà inviolabile. Esse sono distinte da Te nella sostanza, ma sono uno con Te per la carità. Perciò, quando le ama, è ancora Te che Egli ama; così che, lungi dal diminuire per ciascuno, a causa della moltitudine, come avviene negli affetti umani, il suo amore ne riceve piuttosto un nuovo aumento. » Così parlò alla sua anima un autore pio e dotto, le cui opere ci sono state conservate sotto il nome di San Tommaso d’Aquino (Opusc., de Dilect. Dei, c. 12). Perciò, o mio Salvatore, non è della vostra fedeltà che dubito. Ma chi mi assicura la mia, in mezzo a tante tentazioni e tanti fallimenti? Voi solo, per la forza della vostra destra; e il trionfo della vostra fedeltà, come quello del vostro amore, sarà di salvaguardare la fedeltà delle vostre spose e di tenerle per sempre fissate nel santo amore. Ma per coloro che sanno misurare le cose per il loro valore, quale crimine sarebbe per un’anima tradire un Dio così amorevole e così gentile; e quali tormenti non dovrebbe essere disposta a subire, piuttosto che rendersi, anche solo una volta, infedele ad uno sposo così fedele! – Io ho parlato della prima cosa buona di questa felice unione, e sulla seconda non farò che due o tre osservazioni: perché non abbiamo detto quasi nulla della fedeltà che non possa essere in gran parte legata all’indissolubilità. Il legame del matrimonio umano, sebbene indissolubile per natura, è interrotto dalla morte. Non è questa la condizione dell’unione contratta dal Verbo con l’anima che ha scelto come sua sposa. La mano della morte, che scioglie gli altri nodi, verrà a dare a questo, con la suprema perfezione, il carattere immutabile dell’eternità, poiché la sposa sarà allora, come lo Sposo, immortale nella vita della grazia e della gloria, cioè nell’unione consumata. È solo in questa vita che il matrimonio divino può essere sciolto, non dallo Sposo, ma dalla Sposa, le cui gravi colpe la porterebbero alla morte. Ora, a questo proposito, c’è una grande differenza tra il matrimonio soprannaturale e l’unione comune. Infatti, questa morte spirituale che rompe l’alleanza tra l’anima e Dio è nel potere della sposa di sfuggirvi con l’assistenza dello Sposo divino; inoltre, con la stessa assistenza, essa può lasciare la tomba e rinnovare la catena d’oro che la lega a Cristo Gesù. – Quanto è bella e gloriosa, dunque, l’unione significata dai titoli di Sposo e sposa! Ma anche qual è la sua fecondità! Questo è il terzo bene che dobbiamo considerare in essa. Innalziamo le nostre menti e i nostri cuori al di sopra dei pensieri volgari, e non lasciamo che nulla di vile o terreno entri nella contemplazione dei frutti di questa unione divina. L’anima, sposa del Verbo, diventa madre, e la posterità che la tenerezza dello Sposo le dà attraverso il suo Spirito, sono i meriti nel tempo e la gloria nell’eternità. Io lo so, che anche per questo misterioso parto, la pena e la sentenza pronunciata contro la prima donna, “Tu partorirai nel dolore“, ha la sua controparte nell’ordine dello spirito; ed è per questo che ogni opera santa che è un merito è allo stesso tempo soddisfazione per il peccato. – Ma anche che le consolazioni che seguono questa generazione di opere buone superano la gioia che fa tremare le madri secondo natura, « al pensiero che un uomo sia venuto nel mondo » (Gv. XVI, 20-21). D’ordinario i figli non si aggiungono numerosi al focolare senza qualche danno per la madre: talvolta c’è il pericolo di morte; la salute può avere delle menomazioni; oserei dire che certi fiori di bellezza fisica, questo tesoro che le donne vanitose stimano al di sopra delle glorie della maternità, possono appassire nel duro lavoro di modellare gli uomini. Non c’è nulla di simile da temere nella maternità spirituale. Più feconda è la sposa e più numerose sono le nascite, più vigorosa diventa l’anima, più viva e più radiosa è la sua bellezza. Qui non ci sono limiti alla fecondità. Infatti, tutto ciò che può contribuire non solo a prolungarla ma ad esaltarla, cresce in proporzione ai frutti che ha prodotto: l’amore reciproco, la forza, lo splendore della giovinezza, il desiderio; e, come conseguenza naturale, i frutti stessi sono tanto più belli quanto maggiore è il numero di quelli che li hanno preceduti. – Ma per un’anima completamente posseduta dall’amore del suo Dio, i meriti personali, per quanto grandi possano essere, non basterebbero. Essa ama, adora; nell’ardore del suo zelo, brucia per acquisire per l’amato nuovi figli che lo adorino e lo amino con essa. Né il dolore, né la fatica le costano quando si tratta di farlo conoscere e di conquistare cuori per Lui. Dove sono i Santi che, contenti di essere Santi per se stessi, non abbiano lavorato, secondo la misura e l’estensione delle loro forze, per propagare il regno di Dio sulle anime? È il privilegio incomunicabile delle spose di Cristo di cercare delle compagne, tanto più felici e orgogliose quanto possano portarne di più numerose, di più belle e meglio adornate all’unico Sposo, il Re Gesù (Psalm., XLIV, 14, seg.).

5. – Per coronare queste considerazioni su uno dei titoli più cari alle anime particolarmente devote a Gesù Cristo Nostro Signore, mostriamo, in poche parole, la catena di verità sviluppata in quest’ultimo libro. Per noi, il punto più importante è la paternità dell’adozione che ci consegna al Padre come suoi figli. Come figlio di Dio, posso dire al Figlio eterno: fratello mio. Se Gesù Cristo è ancora il Capo del corpo di cui sono membro, se vuole che la mia anima stia con Lui in una relazione sponsale, queste due verità, lungi dal contraddire la prima, la confermano. Perché lo fanno? Perché entrambi i titoli mi danno un nuovo diritto di guardare a Dio come mio Padre. – Come membro del Corpo mistico di cui Cristo è il capo, appartenendo così strettamente alla sua Persona che non mi separa da Lui nei suoi misteri, in Lui e attraverso di Lui partecipo alla sua filiazione divina. Non vi partecipo meno, grazie al titolo di sposa. Con l’alleanza nuziale, infatti, la sposa, che fino ad allora era stata estranea alla famiglia del marito, prende posto in essa; e non un posto qualsiasi, ma il posto di una figlia agli occhi del padre e della madre di colui che l’ha resa, sposandola, carne della sua carne e osso del suo osso,secondo l’espressione energica delle nostre Scritture. Ed è ciò che il Cantico esprime con adorabile semplicità quando mette questa apostrofe sulle labbra dello Sposo: « Tu hai ferito il mio cuore, sorella, mia sposa, soror mea sponsa (Cant., IV, 9-10). Sorella mia, perché diventando mia sposa, sei diventata la figlia di mio Padre; sorella mia anche perché per aspirare alla mia mano dovevi essere della mia stirpe: perché Cristo non si mescola. Ed è così che nei nostri misteri tutto è richiamato e tenuto insieme; così anche tutte le nostre relazioni con l’unico Figlio di Dio contribuiscono a far risplendere maggiormente la nostra filiazione adottiva.

(Su questo titolo di sposo e sposa, si leggerà con frutto Riccardo di San Vittore nel prologo della sua spiegazione del Cantico dei Cantici, e nel cap. 7 dove descrive i misteriosi colloqui dello Sposo con la sposa – P. L. t. 196 -; idem per Bossuet, Discorso sull’unione di Gesù Cristo con la sua sposa. – Si noti anche questo bel passaggio di San Bernardo: « Sponsa vero nos ipsi sumus, si non vobis videtur incredibile; et omnes simul una sponsa, et animæ singulorum quasi singulæ sponsæ… Multum haec sponsa sponso suo inferior est genere, inferior specie, inferior dignitate. Attamen propter Aethiopissam istam de longinquo Filius æterni Regis advenit, et, ut sibi desponsaret illam, etiam mori pro ea non timuit… Unde tibi, aninia humana, unde tibi hoc? Unde tibi tam inaestimabilis gloria ut ejus sponsa merearis esse in quem angeli ipsi desiderant prospicere? Unde tibi hoc ut ipse sit sponsus tuus cujus pulchritudinem sol et luna mirantur; ad cujus nutum omnia mutantur? Quid retribues Domino pro omnibus quæ retribuit tibi, ut sis socia mensæ, socia regni, socia denique thalami, ut introducat te Rex in cubiculum suum? Vide jam quibus brachiis vicariæ charitatis redamandus et amplectendus si qui tanti te aestimavit, imo qui tanti te fecit? De latere enim suo deformavit, quando propter te obdormivit in cruce, somnium mortis excepit. Propter te a Deo Patre exivit, et matrem Synagogam reliquit ut adhærens ei unus cum eo spiritus efficiaris. Et tu ergo..… desere carnales affectus, sæculares mores dedisce.., Jam enim desponsata es illi, jam nuptiarum prandium celebratur: nam cœna quidem in cœlo et in aula æterna paratur. » – Serm. 2 in dom. 1 post octav. Epiph., n. 2, sgg. P. L. t. 183, p. 158, sq.; cfr. serm.74 et 83 in Cantica).

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (23)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (23)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

EPILOGO

LA SUA MISSIONE

1) «La mia missione sarà quella di mantenere le anime in questo grande silenzio interiore »

2) « Vi lascio questa vocazione che fu la mia in seno alla Chiesa: Lode di gloria della Trinità Santa ».

1) Il grande silenzio interiore — 2) Lode di gloria della Trinità.

 I grandi servi di Dio, mentre stavano per lasciare la terra, sentivano che la loro attività apostolica al servizio della Chiesa, lungi dal cessare con la morte, avrebbe anzi potuto espandersi soprattutto quando l’anima loro fosse giunta in seno a Dio. Non avevano essi l’esempio e il ricordo della promessa del Maestro agli Apostoli: « È bene per voi che io me ne vada. Quando sarò ritornato al Padre, vi manderò lo Spirito »? – San Paolo ci ha lasciato la descrizione dell’attività eterna di Cristo sempre vivo dinanzi al Volto del Padre, per adorarlo e glorificarlo, ma anche «per intercedere continuamente in nostro favore » (Ebr. VII, 25). – E chi oserebbe pensare che, dopo la sua gloriosa assunzione, la Madre degli uomini si sia disinteressata delle nostre terrene miserie e che nel suo mistero eterno, frai gaudî della visione, la Madre di Dio non sia sempre occupata di questi altri suoi figli, intercedendo per loro? Che non sia sempre china su di essi tutti quanti, per « generarli al Cristo », più madre che mai? – Non è raro trovare sulle labbra dei grandi fondatori di Ordini, parole simili a quelle di san Domenico ai suoi figli che piangevano intorno a lui morente: « Vi sarò più utile di lassù ». Il mondo intero ha udito il desiderio della « santa più grande dei tempi moderni » (Pio X, ad un Vescovo missionario.), Teresa di Gesù Bambino: « In cielo, io non starò inattiva. Voglio passare il mio cielo a fare del bene sulla terra ». E la sua umile sorella di Digione ha lasciato erompere dall’anima lo stesso grido apostolico: « Non dubitate: lassù, nella sorgente dell’Amore, io penserò attivamente a voi; e chiederò per voi una grazia di unione, di intimità col divino Maestro: è quella che ha resa la mia vita un paradiso anticipato ». Qualche giorno prima di morire, mossa dallo Spirito Santo. tracciò in matita, con mano tremante, questa frase celebre, indirizzata ad una povera sorella conversa: « Mi sembra che la mia missione, in cielo, sarà quella di attirare le anime nel raccoglimento interiore, aiutandole a uscire da loro stesse per aderire a Dio, mediante un movimento semplicissimo e tutto d’amore; e di mantenerle in quel grande silenzio interiore che permette a Dio di imprimersi in esse e di trasformarle in Sé ». Parole profetiche. E la propagazione rapida e mondiale dei « Ricordi » ce ne fa constatare la realizzazione.

1) In cielo, i santi hanno ciascuno la loro missione in armonia col piano della redenzione e in ricompensa dei meriti acquistati sulla terra. E sino alla fine del mondo, essi continuano a lavorare per l’estensione del regno di Dio e per la formazione del « Cristo totale »; tutti: la Madre del Verbo Incarnato come Mediatrice universale di tutte quante le grazie, senza eccezione; gli altri Santi, chi più chi meno, ciascuno nella propria linea, secondo il loro posto nell’economia provvidenziale. Così, i patriarchi degli ordini religiosi vegliano particolarmente sui membri del loro istituto, una santa Giovanna d’Arco sulla sua patria, un Vescovo sulla sua diocesi, un curato sulla sua parrocchia, un padre o una madre sui figli. La missione affidata dalla Provvidenza a suor Elisabetta della Trinità non è di intervenire luminosamente nella direzione del mondo, ma di attirare le anime nelle vie del silenzio e del raccoglimento, per la gloria della Trinità. « Credo che la mia missione, in Cielo, sarà quella di attirare le anime nel raccoglimento…» … « aiutandole a uscire da loro stesse ». È la grazia delle grazie. Quante anime « labirinti » non riescono mai ad uscire da loro stesse, attraverso ai dedali innumerevoli del proprio « io »! Le più ferventi ne gemono e si desolano; ma invano cercano di liberarsi coi loro proprî sforzi; non vi riescono, perché è compito che supera le forze umane: ci vuole la grazia di Dio. È dunque grazia preziosissima quella che promette la cara serva di Dio a tutte le anime interiori che sono imprigionate nel loro « io ». Dal Cielo, il suo aiuto silente le conduce a quella liberazione totale che le getta « pienamente in Cristo ». – Ma l’anima non si distacca che per unirsi, « per aderire a Dio ». È l’aspetto positivo della missione di suor Elisabetta della Trinità. I suoi scritti spirituali hanno portato già tanti tato già tanti frutti negli ambienti cattolici più diversi, perché il suo invito al raccoglimento interiore si rivolge a tutte le anime della Chiesa di Dio. Tuttavia — bisogna riconoscerlo — la silenziosa Carmelitana di Digione sembra aver ricevuto una missione tutta particolare da svolgere presso le anime contemplative, per strapparle a loro stesse e qualche volta ai loro poveri « cenci », e rapirle nella grande corrente della vita divina che conferisce loro potenza di redenzione sul Cuore di Dio. Ma, per un gran numero di queste anime interiori, quante complicazioni nella pratica della loro vita spirituale! Alcune cercano Dio nelle mortificazioni eccessive, altre in una fedeltà minuziosa troppo attaccata alla lettera, troppo meccanica, troppo poco attenta al soffio dello Spirito. A tutte queste anime di buona volontà, qualche volta male illuminate, suor Elisabetta ricorda che bisogna andare a Dio « con un movimento semplicissimo, tutto di amore ». Soltanto l’amore dona la semplicità. Un’anima che in ogni cosa non cerca che la gloria divina, con amore perfetto, è un’anima che va diritta a Dio. – « Deus ignis consumens »: il nostro Dio è un fuoco consumante, cioè un fuoco d’amore che distrugge, che trasforma in Sé tutto ciò che tocca. Per le anime che, nel loro intimo, sono tutte abbandonate alla Sua azione, la morte mistica di cui parla san Paolo diviene tanto semplice, tanto soave! Esse pensano molto meno al lavoro di spogliamento e di distruzione che rimane loro da compiere, che non ad immergersi nel fuoco d’amore che arde in loro e che è lo Spirito Santo, quello stesso Amore che, nella Trinità, è il vincolo di unione fra il Padre e il suo Verbo. La fede ve le introduce; e là, semplici e quiete, sono da Lui stesso trasportate in alto, più in alto delle cose tutte, dei gusti sensibili, fino alla « tenebra sacra », e sono trasformate nell’immagine divina. Esse vivono, secondo l’espressione di san Giovanni: « in società » con le Tre adorabili Persone; la loro vita è in comune: è la vita contemplativa » («Il paradiso sulla terra» – 6° orazione). – Allora, l’anima è custodita « in quel grande silenzio interiore » così caro a suor Elisabetta della Trinità e centro in cui converge tutta la sua dottrina spirituale. Dopo il capitolo consacrato all’Ascesi del silenzio, non c’è più bisogno di insistere su questo punto importantissimo. Oggi, nel mondo, tutto è assorbito da un’attività dinamica; e non si pensa che all’azione esteriore. Le anime non sanno più tacere per ascoltare Dio. In questo mondo moderno che si agita rumorosamente c’è forse una missione più urgente di quella affidata dalla Provvidenza alla santa Carmelitana di Digione? Ricondurre, cioè, le anime nella via del raccoglimento e « custodirle in quel profondo silenzio interiore che permette a Dio di imprimersi in loro, e di trasformarle in Se medesimo ». Lei stessa ci ha insegnato « che un’anima che si riserba ancora qualche cosa nel suo regno interiore, un’anima le cui potenze non sono tutte « raccolte » in Dio, non può essere una perfetta lode di gloria… Un’anima che scende a patti col proprio « io », che si occupa delle sue sensibilità, che va dietro ad un pensiero inutile, a un desiderio qualsiasi, quest’anima disperde le proprie forze, non è concentrata in Dio; la sua arpa non vibra all’unisono; e quando il Maestro divino la tocca, non può trarne armonie divine. Vi è incora troppo di umano » (Ultimo ritiro – II giorno.). Tutto deve tacere in noi: i sensi esteriori alle cose della terra, le potenze interiori a tutti i rumori del di dentro: silenzio dello sguardo, silenzio dell’immaginazione della memoria, silenzio del cuore soprattutto. « Perché nulla mi distolga da questo bel silenzio interiore, sono necessarie sempre le stesse condizioni, lo stesso isolamento, stesso distacco, lo stesso spogliamento. Se i miei desiderî, i miei timori, le mie gioie, i miei dolori, se tutti i movimenti che derivano da queste quattro passioni non sono perfettamente ordinati a Dio, io non sarò silenziosa, vi sarà del tumulto in me; occorre dunque la quiete, il sonno delle potenze, l’unità dell’essere » (Ultimo ritiro – X giorno). Anche le facoltà spirituali più elevate devono, a loro volta, entrare in questo « alto silenzio interiore »: silenzio dell’intelligenza; nessun pensiero inutile; silenzio del giudizio, così radicalmente opposto allo spirito moderno. Critico per eccellenza; silenzio della volontà soprattutto, che produce nell’anima il grande silenzio dell’amore. Questo « alto silenzio interiore » quando si sia profondamente affermato nelle anime, « permette a Dio di imprimersi in esse e di trasformarle in Se medesimo ». Si realizza, allora. lo scopo supremo di ogni vita umana: l’unione trasformante. « Ormai il Signore è libero: libero di effondersi, di donarsi « a suo beneplacito ». e l’anima così semplificata, unificata, diventa il trono dell’Immutabile, poiché l’unità è il trono della santa Trinità » (Ultimo ritiro – II giorno.).

2) Un documento postumo, di straordinaria importanza, ci rivela un altro aspetto ancora più essenziale della missione provvidenziale della serva di Dio. Dopo la sua morte, fu trovata una piccola busta, accuratamente sigillata con ceralacca rossa che recava questo indirizzo: « Segreto per la nostra Madre ». Confidenza suprema, nell’ora in cui i Santi vedono tutte le cose alla luce dell’eternità. « Madre mia. quando leggerete queste righe, la vostra piccola « lode di gloria » non canterà più sulla terra, ma sarà inabissata in seno all’Amore… L’ora è così grave. Così solenne! e non voglio indugiarmi a dirvi cose che mi sembrerebbe di diminuire volendo esprimerle con la parola… Ma la vostra figliola vuol rivelarvi quello che sente o, per essere più esatta. quello che il suo Dio le ha fatto comprendere nelle ore di raccoglimento profondo, di contatto unificante… Madre venerata, Madre per me consacrata fin dall’eternità, a Voi, partendo, io lascio in eredità quella vocazione che fu la mia in seno alla Chiesa militante e che, d’ora innanzi, adempirò incessantemente nella Chiesa trionfante: « lode di gloria della Santa Trinità ». La gloria della Trinità: ecco il testamento supremo della santa Carmelitana a tutte le anime che vorranno seguirla nel cammino della vita interiore. Questa « lode di gloria della Trinità » che fu « la sua vocazione fin dall’esilio », e rimane il « suo ufficio per la eternità » alla presenza della maestà di Dio, risponde al più sublime disegno divino riguardo a tutte le creature. Sì; tutto, nell’opera di Dio, è ordinato a questa gloria. – « Universa propter se operatus est Dominus » (Prov., XVI, 4.). Se ha mandato nel mondo il Figlio suo, è stato prima di tutto per riparare questa gloria offesa dal peccato. Gesù stesso riassumeva in una parola la sua missione sulla terra: « Padre, non ho cercato che la tua gloria: Glorificavi Te, Pater » (San Giovanni, XVII, 4.). Ormai possiamo abbracciare in tutta la sua ampiezza la dottrina mistica di suor Elisabetta della Trinità. La Trinità adorabile è il Bene supremo al quale tendono tutte le anime e il mondo dei puri spiriti; e proprio per farci entrare « in società » con le Persone divine, il Padre ha creato l’universo ed ha « inviato il Figlio suo ». Tutto il mistero della Chiesa e della Madre di Dio, Mediatrice di grazia, è di condurre il « Cristo totale » alla contemplazione della Trinità. « La visione della Trinità nell’Unità: questo è il sublime destino dell’uomo » (Cfr. san Tommaso, I Sent. I, II, 1 Expositio textus: « Cognitio Trinitatis in Unitate est fructus et finis totius vitæ nostræ ».). – Egli cammina penosamente sulla terra, in Cristo, il « Crocifisso per amore », ma per giungere a perpetuarsi in Dio. E attraverso tutte le croci, tutte le notti, tutte le morti della Chiesa militante, continua la silenziosa ascesa delle anime verso l’immutabile e beatificante Trinità. Ma giungono alla visione divina che è « la consumazione nell’unità » quelli soltanto che, in questa ascesa, hanno il coraggio di abbandonare tutto ciò che è estraneo a Dio, per gioire di Lui, nel suo isolamento, nella sua semplicità, nella sua purezza; di Lui, l’Essere da cui tutto dipende, a cui tutto mira, dal quale deriva l’essere, la vita, il pensiero. « C’è un Essere che è l’Amore, e che vuol farci vivere in società con Lui » (Lettera alla mamma – 20 ottobre 1906). « Questo Amore infinito che ci avvolge e ci penetra vuole associarci, fin da questa vita, alla sua beatitudine. Riposa in noi tutta la Trinità, questo mistero che sarà, in Cielo, la nostra visione » (Lettera a G. de G. 20 agosto 1903.). – Come sembra vano tutto il resto all’anima che ha intravisto, mediante la fede, questi splendori trinitarî. Essa è cosciente di possedere in sé un Bene, così grande, dinanzi al quale ogni altro bene illanguidisce e scompare. « Tutte le gioie che le sono concesse sono per lei come altrettanti inviti a gustare il Bene che possiede, preferendolo a tutto perché nessun altro bene può essergli paragonato » (« Il paradiso sulla terra » – 11° orazione.). E quale amore, quale desiderio di unirsi a Lui, nell’anima fortunata che ha incontrato questo Bene! Lo ama di un amore « più forte della morte », lo vuole con brama ardente, si disillude di ogni altro amore, trascura le altre bellezze che per un istante avevano potuto sedurla. La privazione di tutto il creato non è una sofferenza per chi possiede Dio; infelice è soltanto chi è privo della visione di questa suprema Bellezza. Bisogna, dunque, lasciare tutto per possedere questa ricchezza ineffabile, svincolarsi completamente dal fascino delle bellezze fugaci che potrebbero distogliere l’anima dal suo fine; bisogna non voler sapere più nulla della terra, fuggirsene « sola col Solo », estranea a tutto. La vera patria dell’anima è là, in seno alla Trinità beata, nel silenzio e nel raccoglimento. « La Trinità: ecco la nostra dimora, la nostra cara intimità, la casa paterna donde non dobbiamo uscire mai» (« Il paradiso sulla terra » – 1° orazione). – Una fase superiore di vita spirituale si realizza nell’anima quando, trionfando del suo « io », e « dimenticandosi interamente », essa non vive più che per Dio, come i beati in cielo, nell’« incessante lode di gloria ». « In ogni suo movimento, in ogni sua aspirazione, come in ogni sua azione per quanto ordinaria sia, quest’anima è, per così dire, un « Sanctus » perpetuo, una continua « lode di gloria » (Ultimo ritiro – VIII giorno.). Comincia nel tempo il suo « ufficio della eternità »; ma sempre raccolta nel fondo del suo essere, nell’intimo santuario dove si è ritirata col suo Dio. – « O la più bella delle creature, anima che desideri ardentemente di conoscere il luogo dove si trova il tuo Diletto, per cercarlo e unirti a Lui, sei tu stessa il rifugio dove Egli si ritira, la dimora in cui si nasconde. Il tuo Diletto, il tuo tesoro, l’unica tua speranza, ti è così vicino, che anzi, abita in te; e, senza di Lui, tu non puoi nemmeno esistere » (San Giovanni della Croce – « Cantico spirituale, strofa 1°.). Si ricordi però, quest’anima, che Dio abita in lei non per lei soltanto, per la sola sua gioia, ma prima di tutto per la propria gloria. « La Trinità brama ritrovare nelle sue creature la propria immagine e somiglianza ». Ecco quindi che la gloria della Trinità deve elevare alfine l’anima al di sopra di se stessa e della sua propria gioia. propria gioia. « Poiché l’anima mia è un cielo in cui vivo aspettando la celeste Gerusalemme, questo cielo deve cantare la gloria dell’Eterno, niente altro che la gloria dell’Eterno » (Ultimo ritiro – VII giorno.). A questo, in ultima analisi, la dottrina spirituale di suor Elisabetta della Trinità vuole condurre le anime: « Vivere in un eterno presente ad immagine dell’immutabile Trinità, sempre adorandola per Lei stessa, e divenire, mediante uno sguardo sempre più semplice, più unitivo, lo splendore della sua gloria o, in altre parole, l’incessante lode di gloria delle sue adorabili perfezioni » (Ultimo ritiro – XVI giorno). – Mentre santa Teresa di Gesù Bambino ha suscitato schiere di anime che l’hanno seguita nella sua offerta di vittima all’Amore misericordioso, suor Elisabetta della Trinità sembra aver ricevuto la missione di suscitare nella Chiesa una moltitudine di « Lodi di gloria » alla Trinità: Vi lascio in eredità questa vocazione che fu la mia in seno alla Chiesa militante e che adempierò d’ora innanzi incessantemente nella Chiesa trionfante:

« Lode di gloria

della Santissima Trinità».

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (24)

LA GRAZIA E LA GLORIA (25)

LA GRAZIA E LA GLORIA (25)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO V

LA FILIAZIONE ADOTTIVA CONSIDERATA NELLA SUA RELAZIONE CON CIASCUNA DELLE PERSONE DIVINE.

LA RELAZIONE CON IL PADRE E IL FIGLIO.

CAPITOLO III

La relazione dei figli adottivi con il Figlio di Dio. MGesù Cristo, il nostro fratello primogenito.

1. – Poiché il Padre è nostro padre, e noi siamo fatti secondo il Figlio come secondo il nostro modello, niente è più naturale a prima vista che chiamarlo con il dolce nome di fratello. Eppure la Sacra Scrittura sembra proibirci di dargli questo titolo. Infatti, Egli non solo è nato dal Padre, ma è l’unigenito Figlio del Padre; e lo Spirito di Dio, per mostrarci tutta la forza e la verità di quest’ultimo nome, lo ha fatto registrare almeno cinque volte negli scritti dell’evangelista S. Giovanni. Ora, chi dice unico, esclude ogni fratello dalla casa dell’unico. Ma, d’altra parte, le stesse Scritture ci insegnano a guardare questo medesimo Figlio unigenito come un fratello; perché leggo in San Paolo: « Egli non si vergognava di chiamarli fratelli, dicendo: Proclamerò il tuo nome ai miei fratelli » (Ebr., II, 11; cfr. Salmo, XXI, 26.). Gli Apostoli si contraddirebbero a vicenda, l’uno negando ciò che l’altro conferma? Dio non voglia! Inoltre, la stessa Scrittura in cui abbiamo letto espressioni così apparentemente opposte, le concilia in una parola: Il Figlio unigenito è il primogenito del Padre, “Primogenitus” (Hebr. I, 6); il primogenito tra molti fratelli, « Primogenitus in multis fratribus » (Rom. VIII, 29). – Primogenito, non solo perché esiste prima di tutti gli altri, ma soprattutto perché è di un ordine, di un grado e di una maestà a cui nessuno degli altri può aspirare; ed è questo che gli merita anche il nome di Unico. Così la prerogativa di essere l’unico Figlio è in armonia con la moltitudine dei fratelli, così come la semplicissima unità di Dio nell’essenza è in armonia con il numero sempre crescente di dei divinizzati. Ecco perché l’Apostolo nella sua epistola agli Ebrei, dove tratta magnificamente della nostra fratellanza con Cristo, ha potuto scrivere del Verbo incarnato, il nostro grande Pontefice,  … « che Egli è tanto più esaltato sopra gli Angeli perché ha ricevuto un Nome molto più diverso dal loro. Perché a quale Angelo Dio ha mai detto: “Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato”? E ancora: “Io sarò suo Padre ed Egli sarà mio Figlio? » (Hebr. I, 4-5). Angeli e uomini, in virtù della loro nascita soprannaturale, sono elevati all’onore di essere fratelli di Cristo, ma fratelli che lo riconoscono come loro Dio, loro principio e il loro Re. È davvero il vero Giuseppe, amato da suo padre più di tutti i suoi figli, che può veramente dire loro: « Ascoltate la visione che ho avuto: mi sembrava che stessimo legando dei covoni nel campo, e ho visto il mio covone in piedi, e tutto intorno i vostri covoni che lo adoravano » (Gen. XXXVII, 4-8). Inginocchiandoci davanti a Lui, meditiamo ancora su questo nome di primogenito, per gustare pienamente e nella loro totalità tutti i significati che contiene. Primogenito, perché è uscito dalla bocca dell’Altissimo prima di qualsiasi creatura. Primogenito, perché è l’espressione adeguata del Dio invisibile; che per mezzo di Lui e per Lui sono state create tutte le cose, e che Egli stesso è prima di tutte le cose, e che tutte le cose sussistono per mezzo di Lui (Col. I, 15-18). Primogenito, perché ha dei fratelli sotto di Lui, che sono per imitazione accidentale ciò che Lui è per natura e sostanzialmente. Primogenito, perché questi fratelli che il Padre ha dato nel tempo a questo Figlio la cui nascita è eterna, è in Lui e per mezzo di Lui che hanno ricevuto l’adozione di figli (Gv. I, 11-12). Primogenito, perché se noi speriamo nell’eredità del Padre, coeredi come siamo del suo Figlio, è ancora per mezzo di Lui che abbiamo questa speranza e questo diritto (Ebr. X, 19-26). – « Diciamo dunque a Dio: Padre nostro! Osiamo dirlo, perché Lui stesso ce lo ordina; ma viviamo in modo tale che Egli non possa rimproverarci: Se io sono vostro Padre, dov’è l’onore che mi dovete (Mal. I, 16)? A chi diciamo Padre nostro? Al Padre di Cristo. Chi dice al Padre di Cristo, nostro Padre, cosa dice a Cristo, se non che è nostro fratello? Eppure, non è il Padre di Cristo così com’è nostro Padre. Cristo stesso, presentandoci con Lui davanti a questo Padre comune, ha sempre mantenuto la distinzione tra Lui e noi. Egli è il Figlio uguale al Padre; noi siamo stati fatti tali dal Figlio, adottati da questo “Unico”. Ecco perché nessuno ha mai sentito Gesù Cristo Nostro Signore parlare ai suoi discepoli di Dio, suo Padre, e dire di Lui: Padre nostro. Ha detto: o il Padre mio o il Padre vostro. Il Padre nostro è quanto non ha da nessuna parte detto; è una verità così indiscutibile che in una data circostanza in cui doveva esprimere sia la sua relazione con il Padre che la loro, ha detto: Salgo al mio Dio e al vostro Dio; Padre mio e Padre vostro. Vedete: unisce ma distingue; distingue ma non separa. Vuole che siamo uno in Lui; ma vuole essere uno con suo Padre » (S. Aug. Tr. XXI in Joan, n. 3). – O gloria incomparabile del Primogenito! Oh, la stupefacente elevazione della famiglia umana, rigenerata in Cristo! È veramente essa che può dire in tutta verità: « Ipsius enim et genus sumus » (Atti XVII, 28-29). Sì, io sono della razza di Dio e porto sul volto della mia anima il carattere di una così alta fratellanza. Vedendomi, il Padre può contemplare in me le sembianze del suo Unico, e di conseguenza versare su questa povera creatura un fiume dell’oceano d’amore in cui avvolge il Figlio della sua dilezione.

2. – Finora non abbiamo affatto considerato Gesù Cristo se non nella eterna filiazione senza dare alcuna speciale attenzione alla sua santa umanità. Quanto più intimo e dolce diventa questo carattere di fratellanza quando contempliamo in Gesù Cristo il Figlio di Dio diventato Figlio dell’uomo attraverso l’incarnazione. È a questa considerazione che il grande Apostolo ci invita all’inizio della sua epistola agli Ebrei. Ascoltiamolo per la nostra più grande consolazione: « Dunque – egli dice – poiché i figli sono stati partecipi della carne e del sangue, Egli stesso ne è stato allo stesso modo partecipe, affinché con la sua morte distruggesse colui che aveva il dominio della morte, cioè il diavolo, e liberasse coloro che la paura della morte aveva sottomesso per tutta la vita alla schiavitù. Poiché Egli non discende dagli Angeli, ma dal seme di Abramo; perciò doveva essere in tutto e per tutto come i suoi fratelli… » (Hebr. II, 14-17). Aveva già detto qualche riga prima: « Era opportuno che Colui attraverso il quale e per il quale tutte le cose sono, che voleva condurre molti figli alla gloria, consumasse con la sofferenza l’Autore della loro salvezza. Perché Colui che santifica e coloro che sono santificati discendono tutti da uno solo; perciò non si vergogna di chiamarli fratelli » (Ibid., II, 10. 11). Eccolo, questo primogenito, questo primogenito della famiglia dei Santi, che si offre a noi sotto un nuovo aspetto. Io ero suo fratello, perché sono il figlio adottivo di Dio; Egli diventa mio fratello in modo nuovo, poiché è disposto ad assumere la mia carne e a discendere come me dallo stesso padre mortale. Il maggiore della famiglia di Dio diventa il maggiore della famiglia umana; di conseguenza, è il fratello degli uomini, come non lo è degli Angeli, non solo perché gli Angeli non sono stati rigenerati nel suo sangue, ma anche perché, dando loro una parte della sua natura divina, non si è rivestito della loro natura angelica. Così siamo fratelli a Lui in modo intimo; e gli siamo anche fratelli in un modo più dolce ed amorevole. Che gioia è per noi vederlo come un piccolo bambino, avvolto in fasce e portato nel grembo di sua Madre; sentirlo, incoraggiato da Lei, balbettare le sue prime parole; contemplarlo infine come uno di noi, provato come siamo in tutto tranne che nel peccato (Hebr., II, 17-18; IV, 15)! Egli ha un cuore per amare e per compatire le mie pene; vedo le sue braccia aperte per stringermi al suo petto. Quando guardo questa natura divina in Lui, alla quale partecipo per il dono della grazia, non dimentico che sono entrato con Lui per adozione nella società del Padre (I Giovanni I, 3). Ma proprio questa grandezza, che è la mia gloria, mi ispira non so qual timore. O Gesù, come avete indovinato bene ciò di cui la mia debolezza aveva bisogno per darmi fiducia e attirarmi tra le vostre braccia fraterne, quando, senza deporre la forma di Dio, vi siete annientato fino a prendere la mia forma, quella di schiavo (Fil. II, 6-7). Tanto più che non vi è bastato scegliere una Madre della nostra razza e del nostro sangue. Per un prodigio di bontà ineguagliabile, ci avete dato questa Madre, benedetta tra tutte le donne, per essere nostra Madre. Voi eravate il primogenito del Padre in mezzo ai figli d’adozione: Voi siete diventato il primogenito della Vergine, e noi siamo dopo di Voi e attraverso di Voi i figli di Maria. Lo confesso, e darei tutto il mio sangue per sostenerlo, Ella è la Madre di Dio; ma ripeto con un cuore solo, Ella è anche mia Madre. Perciò, o Gesù, siamo doppiamente fratelli, e Voi siete doppiamente il mio primogenito! Come potrei non amarvi, così vicino a Voi, così pieno delle vostre misericordie, cullato, per così dire, con Voi, nelle braccia e nel seno di una Madre comune, e che Madre! – Sento intorno a me parlare di fratellanza universale. Dio sa cosa ci sia nel cuore di tanti Apostoli che lo predicano, e come pratichino la dottrina che talvolta insegnano così tumultuosamente. Quello che so, quello che non può essere messo in dubbio da un Cristiano, è che la vera fratellanza, quella che ci onora, quella che non conosce invidia né cambiamento, quella, in una parola, che può rendere tutti i cuori un solo cuore, tutte le anime un’anima sola, è la fratellanza in Cristo. Un solo Padre, una sola Madre, un solo Fratello, il primogenito di entrambi, che ci avvolge nello stesso amore e ci riunirà un giorno, eredi della stessa gloria, allo stesso banchetto eterno: cosa serve di più per avere un popolo di fratelli?

CAPITOLO IV

Dei rapporti tra i figli adottivi e la Seconda Persona. Nostra incorporazione nel Cristo. Conseguenze dogmatiche e pratiche.

1. – Essendo fratelli di Gesù Cristo, poiché figli dello stesso Padre in cielo, possiamo aspettarci un’unione più stretta con Lui? La ragione, nella sua ignoranza di misteri così profondi, risponderebbe di no. Ma appartiene alla fede rivelarci un legame ancora più intimo tra il Figlio per natura ed i figli per adozione, e mostrarci così la mirabile eccellenza della nostra filiazione divina. Dio, dunque, nella sua infinita condiscendenza per gli uomini, si degnò di incorporarli nel suo Unico, oggetto eterno della sua compiacenza, per includerci con Lui in uno stesso amore paterno. « Io in loro e Tu in me, affinché si consumino in uno solo; e il mondo sappia che Tu mi hai mandato e che li ami come hai amato me » (Gv., XVII, 23). Di Lui e di noi ha fatto un solo corpo, di cui suo Figlio è il capo e noi le membra. È l’Apostolo che lo afferma per noi: « Per quanto numerosi – egli dice – siamo in Cristo Gesù un solo corpo, e tutti membra gli uni degli altri » (Rom. XII, 5, Of. S. Leon. M. Serm. in Nativ., D. 3 C. 5). Gesù Cristo, capo e testa dei Cristiani, ma chi vi ci pensa seriamente? Chi comprende l’importanza e la realtà di questa incorporazione in Cristo? Non pensiamo che meditare su questo nuovo mistero ci allontani dal nostro soggetto principale, cioè il beneficio dell’adozione divina. S. Paolo, parlando del Sacramento del Battesimo, usa un’espressione ben rimarchevole: « In Lui (Gesù Cristo) noi siamo stati battezzati » (Gal. III, 27). Tra i significati che si possono trovare in questo testo, voglio conservarne qui solo uno, perché si presta meravigliosamente alla presente questione. Siamo stati battezzati in Cristo, dice; e quindi, poiché il Battesimo è la rigenerazione spirituale che ci rende figli di Dio, noi siamo nati alla vita divina nel Cristo. Perciò, se volete trovare il battezzato, il nuovo figlio di Dio, uscito vivo e puro dalle acque del Battesimo, non cercatelo fuori di Cristo: perché è in Lui, vivificato dal suo Spirito, carne della sua carne, osso del suo osso, parte integrante del suo Corpo mistico. Questa è una magnifica e toccante dottrina che San Paolo ha spiegato divinamente sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Chiedetegli il perché di Apostoli, profeti, evangelisti, pastori e insegnanti? « Perché lavorino per la perfezione dei Santi, per l’opera del ministero, per l’edificazione del Corpo di Gesù Cristo » (Ef., IV, 11, 12). E quando finirà questa grande opera? « Quando saremo giunti all’unità della stessa fede e conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, alla misura dell’età della pienezza di Cristo  » (Ibid., 13). In altre parole, quando il Corpo di Cristo, attraverso l’adesione e lo sviluppo di tutti i suoi membri, avrà la pienezza dell’uomo perfetto che deve raggiungere, in virtù delle preordinazioni paterne. Fino ad allora il corpo di Cristo è incompiuto; è un corpo in formazione. « Io vi genero di nuovo, figlioli miei, finché il Cristo sia formato in voi » (Gal., IV, 19), scrive ancora San Paolo ai Galati. È la stessa idea che esprimeva ai fedeli di Efeso. Il corpo naturale di Cristo è da tempo pienamente sviluppato. Per lui, non c’è nessun altro cambiamento, nessuna crescita, nessun perfezionamento possibile, da quando è uscito dalla tomba vivo e glorioso. Ma quest’altro Corpo, che il Figlio unigenito sta modellando nel seno della Chiesa, Sposa immacolata del suo Spirito, è più nobile nella sua sostanza, più vasto nella sua estensione; questo Corpo, per il quale si è degnato di rivestirsi del primo, deve essere l’opera dei secoli. Cristo è formato e cresce in noi; noi cresciamo nel Cristo (I. Pet., I, 2), e si può dire in un senso molto vero della crescita soprannaturale che avviene nell’unione delle membra con il Capo, che è come un accrescimento di Dio, del Dio incarnato, incrementum Dei (Col., II, 19). Per coloro che conoscono le sacre Scritture, queste considerazioni, così gloriose per noi, non avranno nulla di straordinario o di forzato. Se noi camminiamo nelle vie divine, se siamo saldi nella fede, vivi nell’amore, è nel Cristo (Ibid., 6, 7); e viceversa; è Lui che soffre è Lui che si perseguita in noi (Atti, V).

2. – Nessuno, dopo l’Apostolo San Paolo, ha sviluppato così frequentemente e così eloquentemente questa dottrina come Sant’Agostino in quasi tutte le sue opere. Tra centinaia di testi, permettetemi di scegliere il suo commento a queste parole di Nostro Signore in S. Giovanni, per la ragione che è originale e meno conosciuto di altri: « Il Padre ama il Figlio, e gli mostra tutto ciò che fa, e gli mostrerà opere ancora più grandi, perché siate in ammirazione » (Gv. V., 20). « Ascoltiamolo come Fratello dopo averlo ascoltato come Creatore: Fratello, perché è nato dalla Vergine Maria; Creatore prima di Abramo, prima di Adamo, prima della terra, prima del cielo, prima di tutte le cose corporee e spirituali… Se, dunque, sappiamo che Colui che ci parla è sia Dio che uomo, distinguiamo tra le parole del Dio e quelle dell’uomo: perché a volte ci dice ciò che è appropriato alla maestà divina, e a volte ciò che è appropriato alla bassezza umana. È grande Colui che si è fatto così piccolo perché noi potessimo elevarci dalla nostra piccolezza alla sua grandezza. – « Che cosa dice Egli allora? Il Padre mio mi mostrerà cose più grandi, in modo che voi siate in ammirazione. Deve dunque mostrarli a noi, non a se stesso, poiché aggiunge: sarete in ammirazione. Ma perché allora dice: Il Padre mostrerà al Figlio, invece di dire: … vi mostrerà? Perché noi siamo le membra del Figlio, e ciò che le membra apprendono, lo impara Egli stesso in un certo senso (È dalla stessa idea che certi Padri pensavano di poter rispondere agli eretici che si basavano su due passi del Vangelo per negare a Nostro Signore una conoscenza perfetta, la scienza divina. Se cresceva in se stesso, dicevano; se ignorava il giorno del giudizio finale, è perché questa crescita ed ignoranza non si addicono a Lui, ma ai membri del suo corpo mistico – Marco, XIII, 42; Luca, I, 52 – non ho bisogno di dire che questa soluzione non sia comune, e che i Padri ce ne abbiano date di più soddisfacenti). Egli soffre in noi; perché non dovrebbe apprendere in noi? Ma chi ci dimostra che soffre in noi? La voce dal cielo: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Ricordiamoci che nell’ultimo giorno, dopo che come Giudice avrà posto i giusti alla sua destra e i peccatori alla sua sinistra, dirà: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete il regno; perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare… E quando risponderanno: Ma, Signore, quando ti abbiamo visto affamato, egli dirà loro: Quello che avete dato a uno di questi più piccoli, lo avete dato a me. « Allora interroghiamolo anche noi per domandargli: Signore, quando avete imparato Voi, il Maestro universale? E sentiremo la risposta nella nostra fede: Quando uno dei miei piccoli impara, Io stesso imparo in lui. Allora congratuliamoci con noi stessi, offriamo azioni di grazie: noi siamo diventati non solo Cristiani, ma il Cristo. Capite, fratelli miei, la grazia di Dio su di noi? Ammiriamo e gioiamo: siamo diventati il Cristo! Lui è il capo; noi siamo le membra; l’uomo intero: Lui e noi. Christus facti sumus. Si enim caput ille, nos membra; totus homo, ille et nos. Questo è ciò che dice l’Apostolo Paolo: Finché non raggiungiamo lo stato dell’uomo perfetto, la misura dell’età della pienezza di Cristo… La pienezza di Cristo è dunque il Capo e le membra. Cos’è la testa e quali sono le membra? Cristo e la Chiesa. Una pretesa scioccamente orgogliosa, se Egli stesso non si fosse degnato di prometterci questa gloria, quando per bocca dello stesso Apostolo disse: Voi siete il corpo di Cristo e le sue membra (I Cor., XII, 27). – « Quindi ciò che il Padre mostra alle membra di Cristo, lo mostra al Cristo stesso. Grande meraviglia, ma tuttavia reale: si mostra al Cristo ciò che Cristo sapeva, e gli viene mostrato dal Cristo, perché è la Testa che mostra alle membra » (S. Aug. Tract. XXI in Joan, n. 8-9. 1). Non sto esaminando se il commento sull’interpretazione delle parole del Salvatore non sia un po’ sottile. Ciò che certamente non è sottile sono i principii proposti dal grande Vescovo, e così felicemente espressi. Non è raro sentire dalle labbra dei nostri oratori la nota formula: Christianus alter Christus; il Cristiano è un altro Cristo. – Senza guardare se la lettera di questa affermazione si trovi in un monumento autorizzato della Tradizione, mi sembra che sia meno forte e meno vera dell’altra affermazione fatta in precedenza da Sant’Agostino: « Noi siamo diventati non solo Cristiani, ma il Cristo. Perché questa preferenza? Perché c’è un solo Cristo, e quindi portare il nome di Cristo non significa essere nient’altro che Lui, entrare cioè nel suo Corpo ed essere parte delle sue membra. – Non trovo espressioni meno forti in un altro Dottore della Chiesa: Sant’Anselmo di Canterbury. « Quanto è grande, dunque, l’eccellenza del Cristiano, dal momento che può fare tali progressi in Cristo da portare il suo Nome! E questo fu il pensiero di quel fedele dispensatore della famiglia di Dio che disse: Noi Cristiani siamo tutti un solo Cristo in Cristo. E quale meraviglia, visto che Egli è il capo e noi il corpo; insieme marito e moglie; marito in se stesso, moglie nelle anime sante che Egli unisce con l’eterno vincolo dell’amore » (S. Anselmo, L. Medit, et Orat. Med., 1, n° 6). Inoltre, la comunicazione degli idiomi che la fede ci obbliga ad ammettere in Gesù Cristo Nostro Signore, come conseguenza necessaria dell’unione ipostatica tra il Verbo e la sua carne, la ritrovo in una certa misura nell’unione del Dio fatto uomo con il suo Corpo mistico. E prima di tutto, secondo la testimonianza delle Sacre Lettere, tutti i suoi misteri ci appartengono: misteri dolorosi, misteri gioiosi, misteri gloriosi. Se muore e viene sepolto, siamo stati battezzati con Lui (Rom., VI 2; Col., II, 12); se risorge, sale in cielo, siede alla destra del Padre suo, siamo chiamati alla vita, usciamo dal sepolcro, siamo elevati al cielo con Lui (Ef., I, 5-6). E d’altra parte, Egli completa con le nostre sofferenze ciò che manca alla sua passione (Col., I, 24); in noi persegue la totalità della sua eredità; i nostri dolori sono i suoi dolori; le nostre gioie, le sue gioie. Quando siamo perseguitati, è Lui stesso il perseguitato; il bene che ci viene fatto per causa sua, è Lui stesso che lo riceve (Atti IX, 4-5; ecc.). Egli è – dicono i Padri – qui in basso e su in alto: in alto col capo coronato dai raggi della gloria; qui in basso, con le sue membra che ancora si trascinano lungo i rudi sentieri della vita mortale. E noi stessi siamo sia della terra che del cielo, anche più ancora di questi e di quelli; perché sebbene noi membra siamo attaccati per un certo tempo alla terra, il nostro cuore e soprattutto la nostra testa, cioè la parte migliore e più nobile del Corpo a cui apparteniamo, è in cielo. È l’unione della Testa e delle membra che fa questo nell’unità dello stesso Corpo, il Cristo totale.

3. – Abbiamo spiegato a sufficienza il fatto della nostra incorporazione. Cerchiamo di spiegarne la natura; e, per farlo con maggior sicurezza di dottrina, prendiamo ancora una volta come guida San Tommaso d’Aquino (cfr. S. Thom., 3 p., q. 8, a. I, seq.; III D. 13, q. 2, ecc.). Dire di Nostro Signore che Egli sia il capo e che noi siamo le membra, non è solo affermare la sua sovrana regalità. Ne ho la prova nei testi stessi della Sacra Scrittura che ce lo presentano in questa veste. « Dio – dice l’Apostolo – ha messo tutte le cose sotto i suoi piedi, tutto ciò che ha un nome in cielo e sulla terra. Questo è il privilegio della sua regalità. Ascoltate ciò che segue: « E gli ha dato di essere il Capo di tutta la Chiesa, che è il suo corpo » (Ef., I, 21, 22). Così tutto è soggetto al suo potere, senza nemmeno escludere i demoni con i loro complici e le loro vittime; ma solo per la Chiesa Egli è un capo oltre che un re. Questo perché la testa, nel senso stretto della metafora, esprime un’intima influenza da parte del capo, e da parte dei membri una salutare dipendenza che non si trova nella nozione di padrone, e nemmeno in quella di re. Inoltre, in quale lingua si è mai detto che i sudditi siano i membri del loro sovrano, e che ognuno di loro abbia il principe per capo? Sarebbe, è vero, manifestamente infantile immaginare, tra Nostro Signore e il Suo corpo, un’unione in tutto e per tutto simile a quella che lega le varie parti del corpo umano al capo. Nessuno ignora, a meno che non sia cieco in materia di fede, che non ci sia identità di persona né unità di natura tra Gesù Cristo e noi; e di conseguenza, che noi non siamo e non possiamo essere un corpo fisico e materiale di cui Gesù Cristo è il capo. Ma, d’altra parte, sarebbe troppo poco vedere in questo, solo un’unione morale, come lo sono tra gli uomini le unioni basate sui diritti ed i doveri reciproci, e il perseguimento dello stesso fine sotto un’autorità comune. Ed è per questo che la Chiesa non è solo il corpo morale di Gesù Cristo; è chiamata il suo Corpo mistico, affinché la singolarità stessa del nome ci avverta che questo corpo e la relazione in cui si trova con il capo non hanno equivalenti né tra gli esseri materiali né tra i composti dell’ordine morale a noi noti. A questa prima osservazione ne aggiungo una seconda, ugualmente necessaria per la comprensione della dottrina da sviluppare. È che non si tratta di una semplice appropriazione. Ciò che affermiamo del Dio fatto uomo chiamandolo nostro capo è esclusivamente proprio, nel senso in cui parliamo, della seconda Persona, poiché, essendosi rivestito della nostra carne, solo Lui ha in proprio ciò che gli è proprio nella carne. – Fatte queste osservazioni preliminari, studiamo le relazioni della testa con il corpo e le membra in un essere vivente, poiché la verità che stiamo meditando ci viene offerta sotto questa analogia. La testa si distingue dalle altre membra per tre proprietà principali. Primato della posizione; perché è la testa che nell’organismo umano si eleva sopra tutto il corpo e lo domina con tutta la sua altezza. Primato dell’attività vitale: solo essa possiede la sensibilità in tutta la sua pienezza. Sotto di essa non trovo altro senso che quello del tatto, mentre essa li concentra tutti senza che ne manchi uno. È il primato dell’influenza: è, infatti, attraverso i fasci nervosi di cui è il centro e il punto di partenza, che riversa, come attraverso tanti canali, movimento e sensibilità in ognuna delle altre parti del nostro organismo. E queste sono anche le tre qualità principali che fanno di Gesù Cristo il nostro capo, o meglio, la nostra testa. A Lui spetta il primato dell’elevazione e della grandezza; perché, se ha come noi la natura umana, questa stessa natura non è il primato nell’ordine della vita soprannaturale, poiché tutti i tesori di sapienza e di santità, tutti i doni dello Spirito Santo, tutti i tipi e le forme di grazia che possono fluire dal seno di Dio su una natura creata, sono uniti in Lui in una pienezza ineffabile e quasi infinita. A Lui appartiene il primato dell’influenza: nell’ordine soprannaturale, tutto emana da Lui. Qualunque beneficio la bontà divina conceda alle anime e ai corpi, e con qualunque nome lo si voglia chiamare, riconciliazione, remissione dei peccati, potere di fare opere degne del cielo, glorificazione finale, non ce n’è uno che non sia il prezzo dei suoi meriti, nessuno che non dipenda molto dalla sua influenza necessaria (Gv. XV, 4-6): tanto che, se il vincolo che ci lega a Lui si spezzasse del tutto, cadremmo avvizziti e morti, come un ramo separato dal tronco che lo nutre e lo vivifica » (S. Thom. in ep. ad Col, c. 1, lect. 3. Cfr. 1 p., q. 8, tot. Cum II. paral.). – Aggiungiamo, per completezza, che questa relazione delle membra con il capo comporta gradi di perfezione molto diversi, secondo la misura delle grazie e la condizione attuale delle persone che le ricevono. Senza menzionare quegli sfortunati che sono eternamente tagliati fuori dal Corpo di Cristo, così da morire nell’impenitenza finale, ci sono alcuni che sono uniti a Gesù Cristo, il loro capo, solo in potenza e per destinazione: sto parlando di coloro che nessun legame, nemmeno quello della fede, unisce al Capo divino. In altri, come i peccatori che credono e sperano, ma non hanno ancora ricevuto la grazia santificante e la carità attraverso la giustificazione, l’unione è ancora solo in abbozzo. Per essere perfetti, sii ha bisogno del nodo sacro dell’amore divino. La coesione del capo con le membra, dei Cristiani con il Cristo, avrà la sua suprema perfezione solo nella gloria, perché è solo lì che il capo influenza in ogni membro tutta la perfezione della vita soprannaturale, e che le membra sono unite al loro Capo da legami eternamente indissolubili.

4. – I teologi si chiedono se si possa dire che gli Angeli abbiano come capo Gesù Cristo, così come gli uomini. La risposta non può essere messa in dubbio. «  In Gesù Cristo – dice l’Apostolo – abita tutta la Divinità corporalmente, e voi siete riempiti in Lui, che è il capo (la testa) di ogni potenza e principato », cioè, manifestamente, delle Gerarchie angeliche  (Col. II, 9-10). All’inizio della sua epistola agli Efesini, San Paolo ci ricorda ancora più magnificamente la stessa idea, quando dice che Dio « si è proposto di ricapitolare nel suo Cristo ciò che è in cielo e ciò che è sulla terra », cioè gli Angeli e gli uomini (Ef., 1, 10). La Vulgata, è vero, usa la parola ripristinare; ma per rendere la piena forza del termine greco ἀυακεφαλαιῲσασθαι (=auakefalaiosastai), è con ricapitolare che deve essere tradotto. Ora cos’è ricapitolare, se non riportare allo stesso capo (caput), e riunire sotto lo stesso principio ciò che prima era sparso e diviso. – Così Gesù Cristo Nostro Signore è il Capo adorato, sotto il quale la terra e il cielo, l’Angelo e l’uomo, uniti nella comunione dello stesso Corpo mistico, compongono in vari modi la Chiesa universale di Cristo. « Voi lo sapete – dice S. Agostino su questo argomento – voi lo confessate che il nostro Capo è Cristo, e noi siamo il corpo di questo Capo. Ma la saremmo noi soli, ad esclusione di coloro che ci hanno preceduto? Tutti i giusti, fin dall’inizio del mondo, hanno avuto Gesù Cristo come Capo. Noi crediamo che sia venuto; loro credevano che un giorno sarebbe venuto. La fede che ci giustifica li ha guariti. Egli è dunque il Capo di tutta la città santa, di quella Gerusalemme che nel suo vasto seno deve includere tutti i fedeli, dal principio del mondo fino alla fine dei secoli, e non solo gli uomini, ma tutte le legioni e gli eserciti degli Angeli. E così ci sarà una sola città sotto un solo Re, un solo impero con un solo Imperatore, in pace nella salvezza eterna, lodando Dio senza fine, e senza fine beato » (S. Aug., serm, 3 in ps. XXXVI, n° 4; cfr. de Catech. Rud., c. 19, n° 33). Anche se gli spiriti angelici appartengono come noi al Corpo mistico di Gesù Cristo, bisogna ammettere che non hanno lo stesso diritto che abbiamo noi di proclamarlo loro Capo. Una delle ragioni è che solo noi siamo uniti a Lui in una comunità di natura, poiché Egli è uomo come noi. Quindi l’analogia non può avere per gli spiriti puri tutta la verità che ha per noi, grazie a questa somiglianza che ci è propria. Una seconda ragione, non meno forte secondo me, anche se molti teologi la contraddicono, è fondata sulla disuguaglianza di influenza esercitata dal Verbo fatto carne, sugli Angeli e sugli uomini. Per quanto ci riguarda, tutto quello che possiamo avere di buono nell’ordine della grazia e in quello della gloria, lo abbiamo da Gesù Cristo. Tale non sarebbe la condizione degli spiriti angelici, secondo la testimonianza di San Tommaso (S. Thom, III. D. 13, q. 2, a. 2) e dei teologi che sono più strettamente legati alla sua dottrina. Gli Angeli non ricevettero né la sostanza della loro grazia né quella della loro gloria dal Dio fatto uomo, perché la loro santificazione non entrò, allo stesso modo della nostra, nel consiglio eterno che ci diede l’incarnazione del Verbo. « Porgete l’orecchio al Vangelo. Il Figlio dell’Uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perito. Se l’uomo non fosse morto, il Figlio dell’uomo non sarebbe venuto nel mondo » (S. Aug., serm. 174). Questo è ciò che dice costantemente Sant’Agostino, e non conosco nessun Padre greco o latino che, sullo stesso argomento, non fosse in pieno accordo con lui. Gli stessi la cui testimonianza è talvolta citata a sostegno dell’opinione contraria, sono anche in accordo con lui. S. Atanasio e S. Cirillo di Alessandria, per esempio, vi si rivoltano contro, quando, invece di tagliare questo o quel frammento dai loro testi, li riportano nella loro interezza. Il sentimento opposto si presta senza dubbio a magnifici sviluppi oratori, e questa è forse una delle cause principali della sua fortuna. Ma se si crede con il Dottore Angelico che nelle questioni in cui tutto dipende dalla libera volontà di Dio, è alla sola rivelazione di Dio che bisogna chiedere le soluzioni, difficilmente si esiterà a non schierarsi con la sua opinione, cioè con quella dei Padri e dei Dottori più antichi. – Ora, per tornare al nostro argomento, insegnare che la salvezza degli uomini o, il che equivale alla stessa cosa, la gloria di Dio realizzata nella nostra salvezza, è l’unico motivo determinante dell’incarnazione, è affermare in modo equivalente che la beatitudine e la santità degli Angeli non sono di Gesù Cristo, (Ciò che diciamo della grazia degli Angeli deve essere inteso allo stesso modo della giustizia originale con cui piacque a Dio di arricchire il nostro primo padre al momento della sua creazione: giustizia che avrebbe dovuto essere nostra fin dal primo momento della nostra vita, se la colpa originale non avesse invertito questo primo ordine della provvidenza. Da qui la distinzione così spesso fatta tra la grazia di Dio e la grazia di Cristo: vale a dire, tra la grazia concessa fin dall’inizio al genere umano nel suo insieme, e la grazia di riparazione meritata dalla passione del Salvatore). Questo, tuttavia, non porta alla conclusione che Gesù Cristo non sia il capo (caput) degli Angeli: poiché Egli conserva su di loro il primato di dignità, potenza e pienezza (Hebr. I, 4-7). Il primato stesso dell’influenza non è sterile nei loro confronti. Riuniti, annessi a noi sotto il suo impero onnipotente, principi della corte del re Gesù, partecipano al fulgore che scaturisce dal suo trono; decimati un tempo dalla rivolta di lucifero, vedono per mezzo di Lui la ricostituzione delle loro falangi; gloriosi ministri dei suoi disegni di salvezza degli uomini, ricevono da Lui comunicazioni, direi confidenze speciali, che sono una nuova luce per la loro intelligenza (Hebr. I, 7, 14); e, per dire tutto in una parola, Gesù Cristo nella sua umanità diventa la loro beatitudine accidentale. « Gli Angeli – diceva Bossuet parlando della Chiesa – sono i ministri della sua salvezza; e attraverso la Chiesa si fa il reclutamento delle loro legioni desolate dalla diserzione di satana e dei suoi complici. In questa assunzione, non siamo tanto noi che siamo incorporati agli Angeli, quanto gli Angeli che confluiscono nella nostra unità, a causa di Gesù Cristo nostro Capo comune, più nostro che loro » (Bossuet. Lettera a una giovane donna di Metz). – Può sorprendere che parlando, come ho fatto, degli elementi che costituiscono il Corpo di Cristo, e della vita che circola dal capo alle membra, non abbia detto nulla dello Spirito Santo, lo Spirito del Figlio, anima e cuore di questo Corpo mistico. La mia scusa è che sarebbe stato necessario sviluppare qui troppo a lungo considerazioni che troveranno il loro posto naturale nei capitoli seguenti. Ciò che diremo allora basterà pienamente a farci capire quale sia il ruolo dello Spirito santificatore e vivificatore nel corpo e nelle membra (cfr. inf. L. VI, c. 6).

5. – Conclusioni dogmatiche. Questa incorporazione del Cristiano in Gesù Cristo è così considerevole che San Paolo e i Padri non hanno temuto nel definirla come uno dei fondamenti più solidi della nostra fede. Infatti – così argomenta l’Apostolo – se non c’è risurrezione, se dunque abbiamo speranza in Gesù Cristo solo per questa vita, siamo i più miserabili di tutti gli uomini. Perché? Perché se i morti non risorgono, nemmeno Gesù Cristo è risorto. E se Gesù Cristo non è risorto, la predicazione apostolica è vana, e così la nostra fede: siamo ancora nei nostri peccati. Ma qual è il fondamento di una connessione così necessaria tra la risurrezione dei morti e quella di Gesù Cristo, che la negazione della seconda comporti il rifiuto della prima? È, in una parola – risponde S. Paolo – che i « nostri corpi sono le membra di Cristo » (I Cor. VI, 14, 15). Non vedremo questa mostruosità di una testa vivente coronata di gloria con membri, incorporati in questa testa, che sono l’eterna preda della decadenza e dei vermi. Non proseguirò oltre questa prima conclusione, perché dovremo riprenderla quando ci occuperemo della resurrezione finale. – Una seconda conclusione, non meno dogmatica né meno certa, è la necessità di appartenere alla Chiesa per ottenere la salvezza eterna. « Voi mi chiedete –  scrive Bossuet – che cosa sia la Chiesa? La Chiesa è Gesù Cristo diffuso e comunicato; è Gesù Cristo nella sua interezza, è Gesù Cristo uomo perfetto, Gesù Cristo nella sua pienezza » (Bossuet, Lettera a una giovane donna di Metz.). Egli aveva imparato questa risposta da San Paolo, che la dà, direi quasi a sazietà, nelle sue lettere. « Dio – dice questo Apostolo – ha messo tutte le cose sotto i piedi di Cristo e lo ha posto come capo (caput, capo) di tutta la Chiesa, che è il suo corpo e la sua pienezza » (Ef., II, 22-23). La Chiesa è il corpo e noi le membra: « Perché come il corpo è uno solo e ha molte membra, e le membra del corpo, pur essendo molte, sono un solo corpo, così è Cristo » (I Cor., XII, 12). Su questo San Giovanni Crisostomo fa la seguente osservazione: « Sembrerebbe che si sarebbe dovuto dire: Così è la Chiesa »; e l’Apostolo, invece della parola Chiesa, usa la parola “Cristo”. È come se dicesse: « Così è il corpo di Cristo, che è la Chiesa » (S. Giovanna Crisostomo in I Cor., hom. 30, n. 1). S. Agostino nelle sue Regole per l’interpretazione delle Scritture, nell’articolo: “del Signore e del suo corpo“, dà conto del modo di parlare che S. Paolo usa in questo luogo. Ricordando – dice – che per capo e corpo, Cristo e la Chiesa, la Scrittura intende una sola e medesima persona, non turbiamoci quando passa dal capo al corpo o dal corpo al capo: discerniamo ciò che sia appropriato al Capo, cioè a Cristo, e ciò che sia appropriato al corpo, cioè alla Chiesa » (S. Aug. de Doct. Christ, L. I, c. 31). Da questa relazione tra Cristo e la Chiesa, il Capo e il corpo, segue chiaramente che nessuno è incorporato a Cristo se non è incorporato alla Chiesa. Può un membro di Cristo essere separato dal corpo di Cristo? Ecco perché il Battesimo, rendendoci membri di Gesù Cristo, ci rende anche membri della Chiesa. Se è vero che la Chiesa ci genera come suoi figli quando ci battezza, questa nascita è unica in quanto la madre conserva nel suo seno i figli che vi forma. Lasciare il suo grembo non sarebbe andare nella luce per respirare liberamente, ma nelle tenebre per morirci. Così l’unigenito Figlio di Dio, concepito da tutta l’eternità nel Padre, rimane eternamente nel seno dello stesso Padre – Unigenitus qui est in sinu Patris (Joan. I, 18), – e la sua venuta nel mondo, facendolo uno di noi nella nostra natura umana, non lo strappa per un momento da queste profondità divine. – Coloro che, per la sfortuna della loro nascita o per qualsiasi altra ragione, ricevono il Battesimo esternamente al di fuori della Chiesa, nascono in essa e per mezzo di essa, e rimangono uniti ad essa come membri del corpo, nella misura in cui sono uniti a Gesù Cristo stesso: tanto è vero che una incorporazione non va senza l’altra, o, per parlare più precisamente, che c’è una sola e medesima incorporazione. Sostenere dopo questo che si possa essere salvati senza appartenere alla Chiesa è sostenere che si può essere un membro di Cristo senza appartenere al suo Corpo, o che si possa vivere la vita di Cristo e partecipare un giorno alla sua felicità e gloria senza averlo avuto per Capo: due proposizioni ugualmente insostenibili. – E non ditemi che ci sono Santi in cielo che non hanno mai conosciuto né la Chiesa né il suo Battesimo. La stessa Chiesa da cui traggo questo assioma: “fuori della Chiesa non c’è salvezza”, mi insegna anche che, per essere interiormente nella Chiesa, non sia sempre indispensabile essere esteriormente parte della Chiesa. Questa madre ha dei figli secondo lo spirito, che il suo Sposo divino le dà senza che essa li riceva nelle sue braccia di carne, e dei quali potrà dire in cuor suo, il giorno delle grandi manifestazioni: “Quis genuit mihi istos? ego sterilis et non pariens… et istos quis enutrivit? (Isa. XLIX, 21). Qui ci sono figli che sono miei. Pensavo di essere sterile per loro. Chi me li ha dati, chi me li ha nutriti? Lo Spirito Santo che, operando nelle loro anime al di fuori dei mezzi ordinari che avrebbero usato, se li avessero conosciuti, li mette invisibilmente nel seno della Chiesa, e similmente li inserisce nel Corpo di Cristo. – Una terza conseguenza della nostra incorporazione è la molteplicità delle grazie, dei doni e dei ministeri che Dio distribuisce tra i membri della Chiesa militante. Un corpo in cui tutte le parti fossero uguali, in cui tutte avessero le stesse funzioni e lo stesso fine, non potrebbe che essere una massa informe e senza vita. La bellezza armoniosa del mondo fisico non è forse dovuta alla diversità degli esseri che lo compongono? E si può concepire un corpo vivente in cui tutti i membri si distinguano solo per la loro posizione nello spazio? Non ci sarebbe nessun ordine, nessuna armonia; nessun organismo e nemmeno bellezza, perché non ci sarebbe unità nella varietà. Era dunque Dio, l’artista infinitamente perfetto, di cui la Chiesa, il Corpo di Cristo suo Figlio, è l’opera più meravigliosa dopo Cristo stesso, a seminare in essa a profusione i diversi tipi di doni e usi soprannaturali? Ha fatto Egli questo? Leggete la risposta in S. Paolo (1 Cor. XII, tot.), e ditemi se fosse stato possibile fare una distribuzione più abbondante, o descriverla in termini migliori. Ecco le grazie gratuite, cioè le prerogative che vanno meno direttamente alla santificazione personale del soggetto che all’utilità di tutto il corpo: il dono della profezia, il dono delle lingue, il dono delle guarigioni miracolose, il discernimento degli spiriti, e il resto che si vede nel testo indicato dall’Apostolo. Qui, invece, ci sono le funzioni gerarchiche: diaconi, semplici pastori, Vescovi, in una parola, tutto il Ministero sacro. Infine, ci sono le disuguaglianze nella grazia, cioè nella santità. Sebbene sia volontà di Dio che tutti diventiamo Santi (1 Tess., IV, 3), non è meno vero che Egli non dispensi uniformemente i tesori della Sua grazia. « La causa di questa diversità – dice San Tommaso (San Tommaso, 1. 2, q. 112, a. 4) – si trova in parte nell’uomo: infatti, secondo che egli si prepari più o meno perfettamente alla grazia (santificante), la riceve anche in misura maggiore o minore. Tuttavia, non è nella creatura che dobbiamo cercare la prima ragione della disuguaglianza: perché la preparazione alla grazia viene dall’uomo solo nella misura in cui il suo libero arbitrio sia esso stesso preparato da Dio. Bisogna dunque risalire a Dio per arrivare alla causa suprema di questa diversità; a Dio che dispensa i tesori della sua grazia in modo disuguale, affinché proprio da questa gradazione derivi la bellezza e la perfezione della sua Chiesa. Ed è per questo che l’Apostolo, dopo aver detto che la grazia sia stata data a ciascuno di noi secondo la misura del dono di Cristo (Ef. IV, 7), conclude la sua enumerazione delle varie grazie in questo modo: « per la consumazione dei santi, per l’edificazione del corpo di Cristo » (Ib., 12). A chiunque mi chiedesse perché, in questa disuguaglianza provvidenziale, uno riceva meno, l’altro più, quando entrambi sono ugualmente capaci di ricevere i doni di Dio, ed ugualmente privi del diritto di esigerli, leggerei la risposta data da San Paolo a una domanda simile: « Quanto sono profondi i tesori della sapienza e della conoscenza di Dio, quanto sono incomprensibili i suoi giudizi e imperscrutabili le sue vie! Perché chi ha conosciuto il proposito del Signore e chi è stato il suo consigliere? » (Rom., XI, 33-34,2). Ci basti sapere che per tutti questi gradi di grazia, di ministeri, di santità, di virtù, concessi alle sue membra, Gesù Cristo si completa nel suo Corpo mistico che è la Chiesa (Ef., I, 23). Lasciamo il resto all’Autore di tutti i doni, e non siamo così sciocchi da discutere le opere di Dio (Rom. IX, 20).

6. – È tempo di passare dall’insegnamento dottrinale alle conseguenze pratiche. Il primo di questi è una lezione di carità reciproca. Membri di uno stesso corpo, uniti sotto lo stesso Capo, chiamati per vocazione alla stessa speranza, con quale sollecitudine non dobbiamo sforzarci in ogni cosa e in ogni luogo di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace? (Ef. IV, 2-5). Fomentare la discordia, non soffrire con chi soffra né gioire con chi gioisca, disprezzare le membra meno onorevoli agli occhi del mondo, negare l’onore o la legittima subordinazione ai più eccelsi, sarebbe introdurre il disordine nel Corpo organico di Cristo, disturbare la sua divina armonia, e renderci indegni di occupare il posto che ci è dato (1 Cor., XII, 21, e seguenti; Rom., XII, 4-20; Col, III, 14-46). S. Agostino, nelle sue lotte contro lo scisma dei donatisti, che al suo tempo desolò l’Africa, non conosce motivo più potente per combattere le divisioni e riportare i dissidenti all’unità che questa dottrina: La Chiesa è il corpo e Gesù Cristo il Capo. Chi separa i fedeli dalla Chiesa, non strappa la veste inconsuntile del Salvatore, ma il suo Corpo mistico. Questo è un crimine più enorme dello stesso omicidio, perché l’autore dello scisma versa il sangue delle anime, strappando le membra di Cristo e gettandole al nemico di Cristo (Sant’Agostino, passim). – Un’altra conclusione, più generale e non meno importante, ci è suggerita, o meglio, energicamente e frequentemente inculcata, da San Paolo. Questo pensiero: io sono un membro di Gesù Cristo, vi ritorna sempre nuovo, sia che voglia distoglierci da ogni azione malvagia, sia che voglia esortarci alle più alte virtù. « Non sapete – ci dice nella persona dei Corinzi – che le vostre membra sono le membra di Cristo? Ecché, io prenderei le membra di Cristo per farne strumenti dei più vergognosi piaceri? » (Cor., VI, 45.). E ancora: « Non sapete che le vostre membra (essendo del corpo di Gesù Cristo) sono il tempio dello Spirito Santo che è in voi? Perciò glorificate e portate Dio nel vostro corpo » (bid., 19-20), come Gesù Cristo lo ha glorificato nel suo. Un tempo, quando eravate della razza del diavolo, davate queste membra al peccato come strumenti di iniquità; ora che siete vivi nel Cristo vivente, offrite queste stesse membra a Lui come strumenti di giustizia (Rom. VI, 13). I vostri corpi sono le membra di Cristo, quindi mortificatele (Col. III, 5), e nella vostra carne compite ciò che manca alle sofferenze di Cristo (Col. I, 24). Non che la passione del Salvatore sia di troppo poco valore per la redenzione del mondo, né che abbia bisogno di essere completata, ma perché, se non manca nulla in Lui che è il Capo, finché non abbiamo sofferto, manca qualcosa in noi che siamo le membra. « Impletæ erant omnes passiones, sed in capite: restabant adhuc Christi passiones in corpore. Vos autem estis corpus Christi et membra », dice S. Agostino su questo passo (S. Aug. Enarr. in psalm. LXXXVI, n. 5). « Vi scongiuro dunque – fratelli miei – di offrire i vostri corpi come un’ostia vivente, santa e gradita a Dio » (S. Anselmo. L. Medit. et orat. med., 1, n. 5,). Questi sono i pensieri forti e salutari che l’Apostolo delle genti ha nutrito e che vuole che seguiamo sul suo esempio. Essi hanno trovato la loro eco nel cuore dei grandi Cristiani e nei racconti dei Padri e dei maestri di vita spirituale. Se solo Dio può sapere tutto ciò che il sentimento della nostra incorporazione in Gesù Cristo ha fatto nascere in virtù meravigliose, le opere ascetiche ci mostrano chiaramente quanto i loro autori l’abbiano sempre considerato molto efficace per elevare le anime e rafforzare i cuori.  « Voi, voi siete il corpo stesso di Cristo, è l’Apostolo S. Paolo che ce lo dichiara – scrive Sant’Anselmo nelle sue Meditazioni – quindi conservate sia questo corpo che queste membra con tutto l’onore loro dovuto. I vostri occhi sono gli occhi di Cristo: volgerete gli occhi di Cristo, che è la verità, alla vanità, alle sciocchezze e alle menzogne? Le vostre labbra sono le labbra di Gesù Cristo: le aprirete, non dico solo per parole cattive o calunniose, ma anche a discorsi inutili, a conversazioni frivole, queste labbra dedicate al servizio del vostro Dio e all’edificazione dei vostri fratelli? Con quanta vigilanza e riverenza dobbiamo governare tutti i nostri sensi e tutte le membra del nostro corpo, poiché il Signore stesso presiede come capo alla loro azione! ».

LA GRAZIA E LA GLORIA (26)

LO SCUDO DELLA FEDE (220)

LO SCUDO DELLA FEDE (220)

MEDITAZIONI AI POPOLI (VIII)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE VIII.

L’inferno

« Signore, credete voi all’inferno?… » disse ad un missionario un cotale che, vantandosi incredulo, voleva mostrar lo intrepido col ridere delle più terribili verità della Religione. E l’uom pio e colto a lui: Si veramente, vi credo io; ma debbo aggiungervi che lo credete anche voi: poiché questa smania di combattere la credenza dell’inferno dimostra che voi l’avete fitta nel fondo dell’anima, e appunto vi sforzate di combattere il pensiero dell’inferno, perché nol potete cacciare di cuore. Ché, o signore, non si combatte contro ciò che non sì crede neppur per sogno; ma si combatte un pensiero che ci sta dinanzi come un nemico: l’inferno è là, vi par di sentirlo intronare anche da lontano; e voi vorreste cercar di ripararvene, almen col negarlo, Vani sforzi o Signore: l’inferno sta. – Siccome però ad ogni modo quello che più ci importa, non è tanto il crederlo, quanto il non aver da provarlo col precipitarvi disperatamente, fermiamoci qui a far bene il nostro conto. Poniamo qui quasi sulla bilancia noi due ciascuno dalla parte della nostra coscienza, a maniera di contrappeso, gli argomenti che fanno inclinare me a credere per evitarlo; voi, a non crederlo e a cimentarvi di trovarvi poi dentro dannato senza averlo creduto. Adunque io credo e metto da parte mia le mie ragioni sulla bilancia. Con me credono anche le nazioni di tutte le falsi religioni eziandio più contrarie alla Religione nostra Santissima. Giobbe in oriente, lontano dal popolo fedele degli ebrei ripete la parola primitiva di tutta la più remota antichità la credenza di una terra di miserie, di tenebre e di orrore eterno nella vita futura. Gl’Indiani credono il Naraka, l’inferno cioè dalle tre porte, in cui si pagano i delitti, la concupiscenza, la collera, l’avarizia. I Cinesi credono che le anime dei tristi diventino demoni. Gli Egiziani credono ai loro Mani dell’altra vita. 1 Greci ed i Romani ammettono il Tartaro sede di pianti e disperazione. E poi meraviglia! entra Colombo nel mondo nuovo, e sente un vecchio Cacico, il quale con sua meraviglia, gli dice in faccia nettamente che una via conduce i cattivi all’inferno. E noi sappiamo come i Peruviani, i Virginiani ed altri ammettono un luogo di supplizio per tutti i malvagi; e in fine come i Maomettani abbiano fede nella esistenza dell’inferno, come noi Cristiani (Codice Sacro o Parallelo di tutte le religioni, per Anot de Maiziéros. — Roselly, Cristo al cospetto del secolo). Tutti questi popoli, siccome credono con me all’inferno, così io li metto colle loro ragioni sulla bilancia dalla parte mia. Ora voi mettete con voi quelle poche teste degli scapati che non vorrebbero credere all’inferno. Da qual parte penderà la bilancia?… Aspettate…; ché io ho da mettere dalla parte mia tutte le ragioni che fecero credere l’inferno ai più grandi filosofi, agli uomini più dotti del mondo. Basti ricordarvi fra gli antichissimi il più saggio, Socrate, il quale muore asserendo l’immortalità e quindi confessando il premio e i castighi eterni. Dal maestro non si scosta Platone, che assevera come la morte fa vedere da qual parte stanno i prudenti e da qual parte gli stolti, e come muoiono i malvagi e restano precipitati all’inferno, luogo terribile! (Delle leggi, lib. xt). Cicerone il più dotto dei Romani scrive lui non avere paura di esser deriso nell’eternità da quelle teste piccine che non vi credono. Metto con me le due forse più belle teste di uomini che siano esistite: io dico s. Agostino, sempre in aspre penitenze con gemiti, per scampar dall’inferno; e s. Tommaso, che scrisse tanti libri, per mostrare a tutti di salvarsi da quella orrenda disperazione. Metto i moderni filosofi; e di loro i più dotti: Leibnizio, che disputò tanto sulla religione, ma ammise sempre come certissimo l’inferno: Malebranche e Bacone, Newton e Keplero. Vi aggiungo Bossuet il più grande genio del suo secolo, e Pascal il talento più bello; e infine Gioberti il più audace in altre opinioni, ma nelle sue maggiori opere, credente anch’esso nell’inferno; e Rosmini di Gioberti più potente pensatore, che scrisse esercizi e raccomandò tanto di meditare l’inferno. Signore, ho nominato grandi menti d’uomini, e per me vi confesso sulla mia coscienza che colla povera mia persona pesano quelle tante teste di dotti, molto più che non pesiate voi, e con voi i pochi che sbadatamente e senza ragione negan l’inferno; e sento che col peso del vostro no, non mi potete trascinare con voi a negarlo. Ma aspettate ancora, perché io metto con me quasi trecento milioni di Cattolici credenti l’inferno, con cinquanta milioni di scismatici che si staccarono dalla soggezione del Papa, ma stanno col Papa nella credenza dell’inferno: vi aggiungo il mille e mille milioni d’innumerabili Cattolici di tutti i secoli passati, che non sognarono mai di dubitare dell’inferno: e i troppi eretici di tutti i tempi, Ariani, Nestoriani, Macedoniani, Eutichiani, Pelagiani, e tutti i protestanti nelle loro sette divisi, che tutti tagliuzzarono, straziarono pur troppo la Fede cattolica; ma tutti conservarono intiera la credenza delle pene eterne nell’inferno. Signore mio, chi avrà più ragioni d’uomini che pesino dalla sua parte: io o voi ?… Oh ma aspettate: ancora! (Poiché siete voi che mi avete domandato, ed io debbo darvi intiera la mia risposta). Metto ancor con grande mia consolazione da parte mia e a credere con me i milioni di Martiri, che sfidarono le più orrende morti, per salvarsi dall’inferno: l’immenso popolo di penitenti che si castigarono terribilmente qui in terra. per non essere puniti in inferno; e l’immenso esercito de’ fervorosi Santi, che tormentarono la loro carne innocente per non aver a provar i tormenti dell’inferno: metto poi il gran numero di buona gente, che tutti si conservano onesti e buoni a fine di evitare l’inferno. E, mentre tutti questi fanno traboccar la bilancia da parte mia a farmelo credere, su su a voi, signore. Mettetevi voi colla vostra testa a contrappeso contro tutto questo immenso numero d’uomini che credono l’inferno. Perdonate; ma voi pesate un po’ poco! Cercatevi pure di porre con esso voi tutti coloro che ridono dell’inferno e in fin fine troverete chì?… Troverete i ladri che rubano a man larga, troverete i truffatori delle famiglie, troverete gl’imbestiati nei vizi, la feccia d’ogni ribalderia; e quando voi (che non credo) voleste gittar sulla bilancia dalla parte vostra tutta quella accozzaglia di malvagi, vorreste fare il torto a me di tirarmi con quel gentame, e di farmi affiatare con una bordaglia sprofondata in tutti i delitti?… No no, ché io starò sempre in compagnia di tutti i Cattolici fermo col mondo universo a credere l’inferno; santa credenza, la quale mantiene probi tanti in terra e manda tanti santi a popolare il paradiso. Allora l’incredulo collo scherzo dello stolto: eh via! esclama, che nessuno è mai venuto di là a dirci che ha provato l’inferno. E l’uom di Dio di rimando: appunto appunto io lo crederei più certamente eziandio per questo; perché, se anche un solo fosse di là venuto, potrei esser tentato a dubitare della verità di quella Parola, che ci assicura esservi l’inferno, e che ci assicura egualmente che chi va là dannato, non ne esce più mai. Ma, signor mio, ditemi per fede vostra: è poi egli vero che non venne mai nessuno dal mondo dell’eterna verità ad assicurarci che vi é l’inferno?… Viva Dio! e non venne Gesù Cristo, il quale diede tante prove di esser venuto dal cielo, e da diciotto secoli le continua a dare? Non ha egli milioni di testimoni che diedero la vita, a fine di assicurarci che Gesù dice sempre la verità? Non sono forse ormai due mila anni che tutti coloro, i quali negano la parola di Gesù, sono trovati essi bugiardi e vanno tutti perduti? Ma i suoi miracoli ma i miracoli di coloro che credettero a Gesù, ma le loro virtù, ma gli studii, le scienze, la storia, ma tutto che vi ha di buono e di ben fatto nel mondo per Gesù, non prova forse che Gesù non inganna nessuno? Ebbene Gesù con quella sua bocca di verità assicura, che i morti in peccato, maledetti discendono nel fuoco eterno! Ah! se Gesù Cristo mette Egli stesso sulla bilancia la sua Parola dalla parte mia, io non posso non gridare sdegnato Miserabile a voi : che non credete! Io vi cerco quanto pesate in contrappeso contro di Gesù Cristo… Eh che non vi trovo più!… Siete sfumato a nulla :… no, no, non pesate affatto più niente. Ond’io mi getto ululante in terrore in braccio a Gesù il quale rivelandoci l’inferno, vi sta, direi, crocifisso sulla bocca colle braccia larghe per salvarci in Paradiso, col grido — Adveniat regnum tuum… libera nos a malo! Salvator benedetto, dall’orlo dell’inferno portateci in Paradiso! Eppure, signor caro, io vorrei discendere al vostro cuore. Ora ditemi voi sulla. vostra coscienza sentite ancora: vi sono tante ragioni da poter provarci che certamente non vi sia l’inferno! No voi, no tutti gl’increduli con voi, no tutti insieme non lo potrete provare mai. Dunque, al tutto al tutto se non volete credere, dovete per forza, dovete almeno dubitare che vi sia! Orribil cosa il dubitare di ciò che affatto importa più di Sapere! Grazie a Dio! credendo noi, siam decisamente risolti di salvarci in paradiso; e intanto io, voi, tutti moriremo fra poco: ma se voi morite dubitando, e poi vi trovate nell’inferno… ohimé! ohimé!… fate… fate una troppo cattiva giornata!… Pensatevi bene!… tremenda giornata, che comincerà per voi l’eterna disperazione dell’inferno!… Guai! guai! a chi l’avrà da provare prima di crederlo. — Veh quibus prius experienda sunt, quam credenda (Eusebio, Emiss.). – Ora io lascerò gl’increduli, piangendo per loro. Mi consolo con voi, fratelli: noi spireremo (ho fiducia) nel Costato di Gesù nel Sacramento, intorno a cui stiamo tutti raccolti; e il giorno della beata nostra morte sarà il giorno senza tramonto della beatitudine eterna con Dio. Buon Gesù, Signor della giustizia e della misericordia, noi col cuore impaurito sul vostro amatissimo Cuore mediteremo in prima l’inferno, col fuoco dell’ira della giustizia divina: poi mediteremo nell’inferno la disperazione di aver perduto il paradiso e Dio per le miserie dei nostri peccati: infine vi mediteremo la disperazione dell’eternità. O Maria Santissima, Voi che vedete noi poveri vostri figliuoli qui sospesi sopra l’abisso d’inferno, teneteci voi tra le vostre braccia, fin tanto che… ah sì, sì, non ci abbiate messi salvi in paradiso! Eh, coraggio, o fratelli! Quando pur vi spaventassi, me lo dovete perdonare; anzi, mi dovete voler bene, come si vuol bene alla madre, allorché porta proprio sul focolare il bambino arditello colla faccetta fin sopra il fuoco; poi gli fa stendere la manina fino rasente alla fiamma, e quando il bambino mette lo strido: Ah, mamma, abbrucia!… la mamma sel porta via baciandogli la mano, e gli dice. coi baci: Bambolo delle mie viscere, sta lontano dal fuoco!… Per simil guisa l’inferno sarà per noi un castigo, che il Signore ci minaccia da padre, per non avere a darcelo da giudice; e stando noi stretti per terrore insieme sopra di esso, io vi bacerò sul cuore a tutti, gridandovi: figliuoli, figliuoli miei, al paradiso, al paradiso! Cader nell’inferno vuol dire cadere nelle mani della giustizia di Dio per la tremenda vendetta. Quanto è orrenda cosa cadere nelle mani della giustizia divina! Udite: Nei primi tempi gli uomini, quasi fosser giganti da sfidare lo sdegno di Dio, con atri delitti provocavano la sua vendetta. Dio guardò il mondo nell’atto del suo sdegno, e mandò il diluvio universale ad affogar quella carne di peccato infangata; tanto che il mondo fu ridotto ad un ammasso di cadaveri nel fango. Altra volta l’orrida puzza di carnalità in osceni delitti Sali fino al firmamento, e provocò ancora la giustizia di Dio. Lo sdegno di Dio fece piovere fuoco sugli impuri; sterminò le cinque città, e sprofondò la Pentapoli in un tetro lago, che tuona furente ancora tra le sue rive abbruciate sopra l’onde nere; quanto è tremenda la vendetta della giustizia di Dio! E si che sulla terra non cadono che alcune stille della vendetta di Dio: Stillabit furor Domini. Ora, che mai sarà nell’inferno, dove in ispirito di tempesta si rovescia, come rovinoso torrente di zolfo, il fuoco del furore di Dio? Ignis et sulphur et spiritus procellarum (Ps. XVI, 8 ); ignis furoris Dei? (Ez. XXII, 21). Questo fuoco del furore di Dio investe le anime sciagurate, le compenetra tutte, e, diremo, le sostiene come il corpo le sosteneva nella vita umana; e con esse s’identifica, quasi loro formasse proprio una persona di fuoco. È troppo terribile questo pensiero! Noi qui non possiamo fermarci una idea adeguata di quei tormenti che debbono essere infiniti; poiché i dolori della vita nostra qui non possono essere senza misura. I dolori che soffriamo nel nostro corpo sono limitati dalla stessa poca forza, che hanno le parti del corpo di resistere alle impressioni dolorose, quando queste siano, per esempio, da un colpo di pesante martello, da tagliente lama di coltello, o da un carbone ardente disorganizzate, guastate, disciolte affatto. Allora cessa il dolore. Spiegherò il pensiero con un fatto. Muzio Scevola, quando il re Porsena assediava Roma, penetrato nel campo di lui fin dentro nella sua tenda per isbarazzarsi di quel nemico, piantò uno stile nel petto al suo segretario, scambiandolo pel re al suo più splendido adornamento. Arrestato e tradotto davanti al re Porsena, lì per essere condannato, Muzio Scevola, a fine di spaventare il re con coraggio disperato, guata non lungi un braciere di carbone in vampa; con fremito di rabbia stringe il pugno levandolo contro di lui, e steso il braccio, lo mette dentro ai carboni imperterrito. Ahi! crepano i carboni, si disciolgono gemendo le carni, stridono le ossa, bollono le midolle, s’innalza negro fumo a coprir quell’orrore!… Il re stesso, sceso di trono, pieno di ribrezzo strappa via il suo assassino da quell’orrido patimento. Anche noi fremiamo a tale spettacolo di martirio!….. Per me vi direi: contemplatelo con tranquillità, perché quel sì crudo dolore finisce in poco. Di fatto, abbruciata la mano, il dolore non si sente più. Ma nell’inferno il fuoco tormentatore è sposato all’anima immediatamente, e compenetrato nella sua essenza così, che avvampa ella col fuoco istesso unificata. Come quando essendo una massa di ferro gittata dentro una fornace nel furor del suo incendio vediamo che il fuoco la investe e se l’assorbe, e con vibranti ignicoli la penetra tutta, sicché il ferro diventa rosso, concentra in se medesimo e condensa la forza del fuoco, e avvampa tanto da diventare più rovente che gli stessi carboni ardenti, quasi fosse il loro ardore da esso raccolto e condensato in potenza maggiore; non altrimenti nell’inferno il fuoco essendo coll’anima incorporato, e dall’anima come vivificato, fa provare all’anima dolore tanto grande, quanto è grande dell’anima la capacità. Ora l’anima ha una capacità quanto al nostro pensiero smisurata; e lo proviamo noi che si possono sentire tanti nuovi svariati dolori, quante da tutti i nervi scossi pegli urti sul corpo si posson nell’anima suscitare sensazioni dolorose. E se il corpo nostro resistesse contro ciò che gli s’infigge e gli fa male, né venisse mai consumato, il dolore crescerebbe senza limiti, durando sempre finché dura il corpo per tal maniera maltrattato. Ora fino l’antico Galeno osservava che nel solo cervello siamo capaci di sentire più di mille dolori a cagione dei nervi, che in lui si condensano. Povero quell’antichissimo dotto! Egli non conosceva come i nervi si distinguono a migliaia, ben più sottili di una sottilissima rete, i quali avviluppano il corpo nostro, s’intrecciano incarnati nei muscoli; anzi sono essi che formano insomma l’insieme del corpo nostro sensibile. Dunque a mille a mille può l’uomo sentire i dolori, come a mille a mille sono diversi i modi dei movimenti sconcertati di ciascun suo nervo; e debbe quindi sentire l’anima nostra acutissimi i dolori, finché il dolore stesso non consumi i nervi. Pensate ora voi, se vi dolesse un dente di quello spasimo di dolore atroce, che per poco fa impazzire nel furore il povero sofferente, e se nell’istesso istante tutti i denti vi dolessero di quell’atrocità, che si sente sotto la tenaglia; atrocità che cresce tanto, e crescerebbe sempre, finché non restasse estirpato; se poi, mentre il povero sofferente spasima forsennato così, un altro tormentatore crudelissimo nell’istesso momento gli piantasse i chiodetti sotto le unghie; e in quel punto un altro gli conficcasse punte di ferro roventi nelle pupille, e gli si lacerassero le viscere e tutte le carni in tutta la vita…. Ah! Dio buono! salvatelo voi da quel mare sconvolto di tanti tormenti atroci, da far disperare il pensiero….. Aiutiamoci noi in quest’orrore con un’immagine. A Roma, nella chiesa di S. Stefano, detta La rotonda, gira un colonnato di dentro; tra tutte quelle colonne in cerchio sotto gli archi, nello sfondato di altrettante cappelle, stanno dipinti a vivissimi tratti i più spaventosi martirii che si fecero soffrire ai Santi. Chi si pone nel centro, e in quegli orrori gira lo sguardo atterrito, sente un brivido di spavento alla vita! Difatti, se voi da quel punto da cui guardandovi intorno vedeste qui i martiri schiacciati sotto due macigni, in modo che loro escano gli occhi dalle orbite e le viscere dal ventre; là appresso vedeste strappare con tenaglie i denti e le unghie, mentre si versa loro in bocca il piombo liquefatto, che viene fuor giù per terra colle intestina in ceneri; e più là nei petti squarciati divorare le belve le carni dei palpitanti in agonia… Ah! non andiam più oltre; ci fa troppo ribrezzo, e rifugge il pensiero da quegli orrori!… Eppure fate ragione, dice s. Giovanni Grisostomo, che e ferro e fuoco e belve non sono neppure un’ombra che valga ad esprimere quel fuoco tormentatore: Pone ferrum, ignem et bestias; attamen umbra non sunt ad illa tormenta (Hom. 34, 28 Mat.); per poco dobbiamo pensare che, come fa intendere s. Tommaso, se si presentassero tutti questi tormenti da soffrire ai dannati, si getterebbero con furore in quegli spasmi, e sì parrebbe loro in essi di riposare. Eh,signori, sprofondatevi in quella disperazione, come se vi foste già precipitati, per non precipitarvi mai, mai! E chi di noi potrà abitare incatenato in quel fuoco divoratore, senza mai consumarsi? Quis poterit de nobis habitare cum igne devorante? (Is. XXXIII, 11). Noi!… che metteremmo un mondo sossopra per levarci un incomoduccio? Voi, a cui manca l’animo al sentimento di un dolore, che continui? Voi, o delicate, che se un pulcino in pigolio di duolo vi morisse sulla palma della mano, ah vi farebbe svenire del cuore? Noi doverla durare in quel fuoco, che abbrucia fino il pensiero, e fa cadere atterrita l’immaginazione? E riflettiamo, o fratelli, che quel fuoco scruta le anime, perché è fuoco della giustizia e del giudizio di Dio: Igne iudicii (Job., XX, 18), e fa scontare ad uno ad uno i nostri peccati; che quel fuoco sa distinguere chi più peccò da chi peccò meno, e che al senso che più peccò più atroce applica il tormento!… Oh vada nell’ebbrezza della passione, per continuare ad ingolfarsi sempre più nel peccato, vada a dire lo spensierato: un peccato più, peccato meno, posto che mi danno, è l’istesso. Tristo a te, sciagurato! Che dici tu mai?… Un peccato di più importa un inferno di tormenti di più. In quello scontare così atrocemente ad uno ad uno tutti i peccati, il dannato dovrà percuotersi il capo, mordersi le mani al tremendo rimorso di essersi dannato per ciascuna propria colpa: Luet, quæ fecit omnia. Poniamoci ora a meditare la disperazione di aver perduto Dio e il paradiso per le miserie dei nostri peccati; e, per comprenderla alquanto, immaginiamo un’anima sopra morte nell’ultimo anelito dell’agonia. Tremendo istante! tutte le cose del mondo le sono sfuggite d’intorno; in silenzio di morte, in pauroso tenebrore spira l’anima; e dal limite del tempo si trova balzata nel mondo della eternità, in peccato mortale!… Ahi!… piomba in inferno!… Al lampo del vero svelato l’anima conosce Dio in se stesso… Oh che paradiso è mai Dio! Ella si slancia a Lui che è il sommo Bene; ella non può stare senza di Lui; ma Dio la ributta. Chiama, e (S. Agost. Seom. ad arem.) nessun le risponde; grida, e nessuno l’ascolta; agogna furiosamente di sommergersi nella beatitudine di Dio, e viene sprofondata nell’abisso della disperazione tra tutti i mali; smania furente, vuol essere felice in cielo, e si trova inabissata in un mar di fuoco nell’inferno; s’allarga nella capacità di posseder tutto Dio, e si trova compenetrata da tutti gli spasimi dentro del fuoco. Orrenda posizione! L’anima misura allora tutta, per tutta l’eternità, la disperazione di aver perduto il paradiso e Dio. Perdere Iddio è così già una pena infinita, al tutto, quanto è infinito Iddio, dice sant’Agostino (De Civ. Dei, c. 28). Perdere Iddio ?!… vuol dire perdere il sommo Bene necessario; vuol dire essere decaduto dal possedimento di tutti i beni; e, perdutane ogni speranza, trovarsi nell’orrida certezza di non aver che tutti i mali. Almeno qui, anche quando viviamo in mezzo dei mali, che ci tormentano molto, la sola speranza di aver poi un po’ di bene, ci fa respirare alquanto; e questo pensiero lusinga la povera nostra immaginazione. Dall’altra parte il sommo Bene, restando qui per noi ancora. velato, come dice s. Paolo, non ci strascina colla foga della necessità a cercarcelo in Dio particolarmente. Eppure anche costaggiù sulla terra, quando Dio si svela in grazia ad alcun’anima privilegiata, rapisce quest’anima a sé sommo Bene; così, che il sol pensiero di poterlo perdere ancora, la fa fremere terribilmente. S. Giovanni Grisostomo con quel suo genio sublime, con quel suo cuor così grande, elevatosi insino a Dio, da Dio poi si abbassava col pensiero nell’inferno; e di là balzava via fremente, correndo come forsennato per la sua casa colle grida: Ohimé!… Alle sue grida accorrono atterriti i suoi famigliari: O padre, gridando, che è mai che vi fa spasimare crudelmente così?… Oh Dio, oh Dio, ei ripeteva in singhiozzi a loro, io posso perdermi ancora; posso dannarmi, lontano da Dio, perduto per sempre?! Ohiméè!… ohimé!… S. Francesco Borgia, che tutte le sere (proprio tutte le sere, o miei cari fratelli), faceva un’ora di meditazione sopra l’inferno, un dì, addentratosi profondamente col pensiero in quella terribile disperazione, sentì tal tremito in tutta la vita, e si dibatté sì fortemente che faceva muovere il solaio della celletta in cui meditava, gemendo acutamente: povero me! chi mi salva?… Accorrono i religiosi, per soccorrerlo: O padre, gli dimandano tutti solleciti, o padre, che mai vi sentite? come possiamo aiutarvi? E il Santo in tale fremito di convulsioni: M’avete da domandare che mal mi sento? io sento l’orrore di poter perdere Iddio! Oh Madre mia, Maria; io muoio, se penso che posso perdere Iddio!… Deh pensiamo là (quando, conosciuto che lo avremo, ci sforzerà la necessità di immergerci nella beatitudine divina), se ci dovessimo dibattere nella disperazione di avere perduto il paradiso di Dio, per restar dannati in inferno! L’anima dopo il giudizio anche col corpo dannata, con quegli occhi di fuoco su a cercar la luce del cielo, e non vedere che truce bagliore di inferno!….. Di là da quell’abisso a slanciarsi colle braccia allargate, come il cuore, nel mare della beatitudine celeste; e sprofondarsi nel fuoco eterno!… Essa entra in furore contro se stessa! Si strappa colle mani roventi gli occhi; ma gli occhi vedon tuttora! si rode con denti infocati le carni e le ossa; ma rinascono ognora! si tuffa furiosamente per cercare la morte; ma vive sempre ancora di quell’orrenda vita, che la terribile parola di Dio chiama la morte eterna!… Sciagurato! Te l’aveva pur detto il predicatore, che in quell’occasion di peccato!…. dal fianco di quell’orribile creatura saresti….. Ah, ripete il dannato: sono pur troppo precipitato nell’inferno! — Tristo! ti correva pure appresso il buon Parroco, e ti gemeva dietro, e ti richiamava piangendo a far la Pasqua; perché se tu morivi senza Sacramenti!… e il dannato risponde a quella voce in sé stesso: orrenda quella mia morte! così son caduto in inferno! — Infelicissimo! Ti stringeva nel petto il Confessore supplicandoti a calde lagrime di cessare per carità da quel mal abito di continuo peccato!… di troncare di un colpo quella catena!… — eh no, urla il dannato, non cessai il peccato, e la catena m’ha strascinato in inferno! — Te lo dicevano i Sacerdoti più illuminati e gli uomini di virtù più soda: che se morivi scomunicato!… ahi son morto, ripete mordendosi nel cuore di quell’orrida morte e son dannato in inferno! Maledetti quegli amici, quei giornali del partito del proprio interesse, gli empii per mestiere, che mi han fatto perder la fede! Ah… il maledetto son io; sì, son io, che ho voluto dannarmi! E che mi valse quella roba mal acquistata! Quei piaceri che passarono via più rapidi della folgore!… Per aver gustato quegli assaggi di dolcezze, che ora mi fan tanto schifo e ribrezzo, son dannato per l’eternità: Gustans gustavi paululum mellis, et ecce morior!.. Gemeva così nell’ansia sopra morte il buon Gionata. Udite il fatto: Questo guerriero ispirato attaccò di notte i Filistei, che gli fuggivan davanti alla rotta, e li batteva inseguendoli. Allora il re Saulle, suo padre, spinge tutto l’esercito a compiere quella vittoria. Era il momento di coglierla, se si battevano ancora in sul terminare della gloriosa giornata. Saulle fa suonare le trombe, a rinfocar la battaglia col grido « vittoria, vittoria a momenti!… Pena la morte a chi gustasse cibo prima che l’abbiam compiuta. » Gionata alla testa de’ suoi prodi nel furor del combattimento batte i Filistei inseguendoli dentro un bosco; e tutto bagnato di sudore, com’era, e di sangue, in quella foga vede dal cavo di un albero un favo stillare fresco e limpido miele. Si risente allora, che l’abbruciava la sete; vi stende la spada, e con una goccia di miele sulla punta bagnasi il labbro trafelante in quello ardore; e continua a battersi ancor più rinfocato. Compiuta la vittoria, si suonano le trombe a raccolta; e sono i capitani adunati innanzi alla tenda reale a render conto ciascuno della loro fazione eseguita. Ma oh! si trova che Gionata avea assaggiato quel po’ di miele contro il divieto! Al tutto al tutto fu forza al padre condannarlo alla morte!… Ebbene, la storia dice che, quando gli sgherri gli serravano le manette ai polsi, quel guerriero, terrore dei Filistei, tremava tutto, e, piangendo come una femminella, gemeva: o povero me! Deh fossi morto nel fervor della mischia al varco; dove i Filistei mi appuntavano le picche a petto; ed io mi slanciai sopra, e li ho schiacciati! fossi caduto quando, duellando nello scontro del duce nemico, mi vibrava quel bravo così ben misurati colpi, io sarei caduto col brando alla. mano e colla gloria in fronte di chi muore per la patria e la Religione; invece infelicissimo! gustai una goccia di miele vietato, e vado a morire per questo: Gustans gustavi paululum mellis, et ecce morior!… » Il pensiero di morire di morte disonorata per così poca cosa l’aveva così fattamente abbattuto, da non potersi più riavere! Buon per lui, che il popolo alza le grida in tuttol’esercito « grazia al duce nostro Gionata, a cui dobbiamo la grande vittoria! » e fu deliberato. Ma il dannato è là col rimorso di aver perduto il paradiso e Dio per le brutte miserie dei suoi peccati! « Maledetto a me, urla quel re o capitano famoso per le sue vittorie, io portai sulla fronte altéra un alloro bagnato di tanto sangue cristiano; ma la corona mi è caduta per terra appassita alla morte, e mi trovo col capo giù fitto nel fuoco! Maledetta a me, stride la signora della gran vanità, tra i sorrisi e le moine de’ galanti, gustai il dolce di quel ballar svergognato; passò in un istante quell’aura che mi accarezzava fuggendo, e mi trovo dannata coi demoni per sempre! Disgraziati noi, dicono tanti, gustammo brutti piaceri; no, che non li gustammo! passaron via nell’assaggiarli, come la folgore passa scoppiando; è una goccia di miele schifoso che svaporò sulla punta delle labbra; ecco. che per quei peccati ci siamo dannati: Gustans gustavi paululum mellis, et ecce morior!… A questo pensiero il dannato smania in rabbioso furore contro se stesso, morde nel proprio petto, squarcia le proprie viscere, cerca nella propria coscienza il verme che lo rode del rimorso di essersi voluto egli stesso dannare, e stringe tra lebranche roventi il cuore, per strozzare quel verme. Ma l’Evangelo grida tremendo: Vermis eorum non moritur; ma il verme del rimorso non muore, lo tormenta nella più disperata eternità! Ah via ancora, o fratelli, ripigliate con me coraggio in questa meditazione; e col sentimento vivo vivo di quell’immensità di dolori, col dolored’aver perduto il paradiso, col rimorso straziante d’aver comprato coi peccati l’inferno, immergiamoci col pensiero nella disperata eternità dell’inferno. Inferno di tormenti!… disperazione per tutta la eternità!… che paurosi pensieri!… sempre dannati in quella atrocità di spasimi?!… Il sempre opprime il nostro pensiero così, che, fin ancheun piacere che s’immaginasse durarci per sempre, ci soffocherebbe l’animo. Difatti, immaginatevi, dopo una lunga fatica, di riposarvi con piacere sopra un letticciuolo, come di rose in un gabinetto brillante d’oro e di splendidi specchi infiorati di gemme, in cui vi fosse dato godere d’ogni lautezza;tutto ridesse d’intorno a voi. In quella pace, mentrevoi godete col pensier vostro, se vi piombasse sul cuor la sentenza: siete condannati a restar lì per sempre!… Per sempre? Tutto il bello svanisce d’intorno, splendor d’oro, di specchi, di gemme efiori, tutto vi si impallidisce d’innanzi, vi angusti il letto, tutto s’annegra e vi mette in cupa malinconia; perché quel piacere ha da durare per sempre. Pensare poi che un acuto spasimo dovesse durar per sempre, ci fa tremare il cuore. Provate, quando siete nella smania per un atroce dolore di denti, a pensare: se durasse per sempre; andremo in terrore per troppa pressura d’affanno. – Per fermare qui il vostro pensiero che rifugge da tale immaginazione, sentite un fatto, di cui si hanno tanti testimoni e fino popoli intieri accorsi allo spettacolo che videro, a dispetto della difficoltà di credere miracolo tanto straordinario. S. Simeone Stilita, per fuggir dall’inferno, elevato sempre al pensiero del paradiso, si condannò a viver sempre sul capitello di un’alta colonna in mezzo al deserto, esposto al sole, ai venti, alle tempeste. Là sempre col cuore al cielo anelando, si vide comparire davanti un carro di fuoco, ed un, che angelo pareva, lo invitasse a montar sul carro, per portarlo al paradiso. Simeone in quell’ardore che vel rapiva, alza il piede facendosi il segno della santa croce… La visione disparve… E Simeone tutto sdegno contro se stesso: « Ah peccator disgraziato, esclama; pretendevi dunque di volar in paradiso sopra un carro di fuoco? Ben ti darò io la penitenza!…» Si condannò a restar sempre col piede a mezz’aria, in atto di montare sul carro per tanti giorni, che gli venne a marcire la coscia! Che patimento! Oh miei cari! pensiam piuttosto nell’inferno, disperazione di restare là ad abbruciare nel fuoco per sempre!… Il sempre dell’eternità non è possibile di potercelo immaginare…….. Deh pensate qui ad un infelicissimo che sia condannato a subire la morte fra pochi giorni. Egli là sul giaciglio in fondo della secreta, col capo sulle ginocchia, i capelli tirati su gli occhi tra le pugna che rode….. Conta i giorni… dimani l’ultimo dì… orribile quest’ultima notte!… Batte la mezzanotte; quel colpo dell’ora è un colpo di folgore che lo percuote… a sei ore, muggisce tra i denti, sono strozzato!… Gli si annegra il pensiero, in quella tetraggine gli balena sugli occhi la scure che gli è vibrata… sente il colpo… no… è il colpo del fatale martello che batte già un’ora… poi due ore… poi tre!… Balza in piedi, per fuggir dall’ultima ora, che gli rapisce la sua esistenza! di due passi concitati, si contorce, si serra tutto in se stesso coi denti sulle pugna serrate fino alla gola. Guata cogli occhi orribilmente sbarrati, quasi avesse la morte alla strozza!… batte i piedi in atto feroce e sta… origlia… Oh! rumor di gente?! Son gli sgherri già sotto al finestrino che preparano l’esecuzione!.., Oh! il cigolio di un carro? E il carro che viene per portarlo al patibolo!… No, no, non vuol morire!….. vaneggia, frenetico fugge col pensier dalla morte, che lo divora; ma col pensiero sale il patibolo!… ritira dalla scure il collo!… ahi gente il colpo!… Si salva ancora! ma trucemente guata, come se vedesse ai piedi la propria testa rotolar sul palco, fissa cogli occhi di fuoco negli occhi spalancati del capo tronco!… Là, respiriamo, fratelli, ché la sua morte fu un colpo, che appena sentito era passato! Dunque la sua morte fu un mal da niente. Oh, voi rispondete: ma restò morto per sempre… A noi, a noi, fratelli miei, sta già spalancato sotto i piedi l’inferno! ogni anno è un’ora veloce che ci rapisce la vita. Non corriamo, no; son i battiti del cuore che ci precipitano alla morte. E l’agonia, tutte le cose intorno a noi rovinan via confusamente, già c’ingoia l’eternità! Ah, se l’eternità sarà per noi l’inferno!… Che terribile momento al primo piombar nell’inferno!… in quella disperazione è impossibile che regga l’anima, e cerca buttarsi fuori… Oh è la notte d’inferno!… Qual notte?… La prima notte nell’eternità dell’inferno! Guata a destra ed a sinistra con uno sguardo, che è un fulmine, vuol misurar l’orbita della giustizia eterna; ma non l’arriva!… Si butta sopra i secoli, che immagina, si accavalcan davanti sconvolti; ma la travolge perdutamente il vortice dell’eternità. Come il povero naufrago, quando da un colpo di mare in tempesta spezzata la nave, si sprofonda nell’abisso dell’acqua; egli si slancia nel mare. Un’ondata gli irrompe nel petto; ei d’uno slancio la sorpassa; un’altr’onda lo sommerge alla gola; ed ei sbuffando la rompe. Altre onde lo investono ai fianchi; ei spezza l’una e getta l’altra in isbieco di dietro snervata. Quando ruggendo sopra esse un flutto più rabbioso gli si infrange sul capo e l’ingoia. É sommerso!… no, ancor appar là, che a fieri colpi battendosi si sostiene sopr’acqua, e sul dorso del flutto maggiore s’alza impettito e guata!… A un’onda vede appresso altre onde; dall’uno e dall’altro fianco sempre onde appresso ad altre onde, e guarda indietro, non vede che onde, e lontano lontano le onde che crestate di bianco si confondon coll’altro orizzonte sul negro cielo in bufera! Disperatamente si dibatte! Ma si sprofonda snervato; pur si batte ancor dentro l’abisso, mentre resta affogato! Così il dannato nel mar di fuoco si batte furente cogli anni che egli così immagina nel baratro dell’eternità. Ho da restar qui, dice urlando, un anno! Che disperazione, un anno d’inferno! Col pensiero furente lo passa. E poi ancor dieci anni! Ei li divora con tutta la rabbia. Poi cento anni, e trangugia tutta la disperazione di cento anni d’inferno! Poi mille anni e mille mille anni! ne prova tutta la disperazione dei mille anni! Adoperate adesso le solite immagini creando col pensiero tanti mila anni, quante sono le foglie di tutte le piante; tanti mila anni, quante le goccioline di tutti i mari; tanti mila anni, quanti i granelli di sabbia di tutta la terra. E il dannato travolto in quei milioni di anni del tremendo vortice dell’eternità, vi ripiomba in fondo, e in ogni momento sente tutto il peso della disperazione di tutta l’eternità. L’eternità pesa tutta su un solo momento: Æternitas tota in uno puncto, dice s. Agostino. L’inferno sta massimamente qui; con tutti i mali la disperazione sotto il pendolo dell’eternità che batte sempre!… non mai!… sempre dannato! né fine mai… Sempre in quel fuoco, né cessa mai! Miei fratelli, sempre in inferno! trasvoliamo veloci sopra mille e mille anni e sempre mille anni che non cessano mai. Sempre! non mai! mi si annegra l’immaginazione! cade il pensiero sprofondato in troppo terrore; e sopra l’abisso d’inferno, ahi ahi sudo freddo alla vita! Ah, che il mio pensiero si perde!… Corro furioso tra voi, miei figliuoli, urlando « correte in braccio a Gesù per salvarvi dall’inferno! » Racconterovvi un fatto qual lo raccontano alcuni storici. L’imperatore Zenone aveva una bellissima sposa, Adriana, che amava tanto; ma, dicono, l’imperatrice era bella come un angelo, cattiva, perversa come un demonio; la perfida tramava di perderlo. I principi di corte, scoperta la trama, avvisavano del tradimento l’imperatore. Zenone inorridì all’avviso; ma ritornando alla reggia si vede davanti l’imperatrice nello splendore della sua bellezza; e svanito lo spavento: è tanto bella, esclama, è impossibile che sia cattiva. Va, t’affida, perché è bella! Gli amici più fedeli, penetrati mel gabinetto, assalgono al cuore Zenone: Imperatore, vi giuriamo, l’imperatrice vi perde; in lega col generale vostro nemico ormai vi circonda Costantinopoli coll’esercito in rivolta!… Imperatore, forse fra pochi giorni voi perdete coll’impero la vita! — L’imperatore spaventato ritorna ad Adriana; e al guardarla nelle attrattive più lusinghiere: noiosi, esclama, quei troppo zelanti amici! L’è tanto bella, è impossibile che sia cattiva. Va là! va là!… Un giorno, mentre sì adorava dinanzi la tanto cara imperatrice; ecco oh! salta fuori dal cortinaggio del trono un sicario, che gli si slancia col pugnale alla vita! L’imperatore mano alla spada; ma due braccia di ferro gli serran le braccia di dietro! L’imperatore fa di gridare: all’armi! Ma una mano gli chiude la bocca e lo stringe alla strozza; e tutti intorno tanti assassini ad afferrarlo. E l’imperatrice? Eh, svolta via e dispare!… Stretto tra quei feroci vede guizzarsi sugli occhi uno stile, e glielo piantan dentro nella pupilla d’un occhio! E glielo cavano crudelmente a bell’agio. L’imperatore in orrido fremito guizza come un lampo guatando con l’altro occhio insanguinato… ah, si vede drizzar la punta dello stile nell’altr’occhio, che gli viene con crudo strazio cavato! Sente abbavagliare la bocca; stringersi di corde tutto d’intorno, al collo un capestro; e d’un urto è buttato per terra. Povero imperatore! con una corda al collo lo strascinan fuori dalla reggia giù per lo scalone battendo sui gradini la testa. Strascinato fino al pianerottolo, nello svolto aspetta il colpo di morte. Ma lo strascinano ancora giù dall’una all’altra scala fino (s’accorge anch’esso alla fredda atmosfera) nei sotterranei! Buttato là in fondo, sente smover coi ferri un gran sasso che copriva il sepolcro secreto. Ed egli in quell’angoscia tremenda si dice in cuore: preparan già il sepolcro da mettermi dentro… Quando sentesi sollevare da terra… egli aspetta il colpo… Ma, oh gli si taglian tutto d’intorno le corde! Egli mette un grido, allargando le braccia, ahi piomba dentro al sepolcro!… Sente la lapide che piomba a chiuder la tomba « son sepolto vivo!….. » esclama… E gira in quell’orrore le braccia! tocca cadaveri che s’infrangono sotto le mani! Fa un passo… si sprofonda dentro di essi! risalta contro il sasso sopra la testa; e ricade nel putridume! cerca le pareti tastando intorno intorno, vi si getta contro per arrampicarvisi, e ricade! S’arrampica su per l’altra parte e ripiomba! Si slancia ancor più furioso a salir su quei muri; si urta colle mani e col petto su, giù battendosi contro essi; ma ricade senza speranza! Affrante cerca ancora sforzarsi!… Deh, deh non mi domandate come fu trovato alcuni mesi dopo! Aveva alle mani le palme consunte fatte bianche ossicine, le vesti consumate sul petto e le costole spolpate dal tanto batter su contro il muro!… Oh Dio! quanti tormenti là!… Miei fratelli, vi spaventa troppo all’immaginarvelo?… Io pure son tutto atterrito!… Ma calmiamoci; sono tormenti da poco, perché ben presto dovette morire!… Però, intanto quanti spasimi in quella disperazione per quel poco tempo!… Ma deh deh, se morendo siam noi sepolti in inferno!… Deh, fate a voi dunque la carità di mettervi in salvo… Uditeci, uditeci; noi vi gridiam pure forte; noi atterriti vi spaventiamo… Oh quanto vi piangiamo appresso per avvertirvi che con quella persona, con quella vita, con quei furti coperti, con quella roba scomunicata… voi, ancor per poco, e siete traditi in inferno. Voi dite pur anche talvolta col yostro buon cuore « il povero padre che ci avvisa ha ragione! » Ma poi tornate in quell’osteria, in quella casa la sola vista della persona solita vi fa uscire di capo; e volendo fermarvi in mezzo a quel tradimento, per poco che non ci diciate:… tristi di preti! e perché ci gridate tanto appresso? — Perché?… perché non vogliamo lasciarvi dannare! Intanto vi sorprende come un assassino la morte; già vi strozza, tutte le cose più care vi vanno in dileguo, s’annegra la vista: siete nell’ansia dell’agonia… aspettate il colpo… la morte vi percuote… vi slanciate nell’eternità… in peccato mortale!… siete dannati in inferno per sempre… Salvatevi, salvatevi; siete ancora a tempo!… L’inferno! miei fratelli, ci è dunque spalancato l’inferno; e noi vi pendiamo sopra! Ora diceva san Tommaso: io non so comprendere come si possa credere l’inferno, ed essere in peccato mortale, e quindi sentirsi urtare a piombarvi dentro continuamente; e sì possa intanto dormire tranquillo una lunga notte sull’orlo dell’inferno, senza cercare subito per ispavento di rimettersi in grazia di Dio. Vi è l’inferno, è verità di Dio; e un peccato mortale può precipitar l’uom nell’inferno! Dunque dal primo peccato mortale, dite tutti in voi stessi, che io avessi da tanti anni commesso, potrei essere per tanti anni disperato nell’inferno! E se fossi da tanti anni in quella disperazione! e mi apparisse, ìl che non può essere mai, un Angelo nell’inferno; e mi invitasse ad uscire da quella dannazione, per ritornare nel mondo qui, e cercare di salvarmi in paradiso; con qual furore non mi slancerei fuori d’inferno, per incamminarmi a tutta possa sulla via del paradiso?!… con qual diligenza non vorrei frenare la lingua, mortificare gli occhi, castigare la carne, che mi volesse strascinar nell’inferno? Ricevere i sacramenti per santificarmi pel paradiso?… Al tutto al tutto, griderei sempre, voglio assicurarmi il paradiso. Se poi appena fuori dall’inferno, incontrassi sopra via quella maledetta persona, che mi fece cader nell’inferno, vorrei urlare infuocato: Va, va lontano da me, brutto demonio; che mi avevi tradito e traboccato in inferno!… io ho provato l’inferno! Se appena fuori d’inferno, passando lungo la strada vedessi la porta dell’osteria o di quella casa, in cui la cattiva occasione mi fece andare dannato: ecco, ecco, griderei con tutto furore, quell’orrenda bocca d’inferno! Eh, come fuggirei alla larga da essa lontano! Perché ho provato l’inferno!… Se mi venissero incontro gli amici da buon tempo, che mi hanno fatto perder l’innocenza, mi hanno fatto perder la fede, mi menarono in quella via di peccato, per cui sono già andato a dannarmi; per poco che io non mi slancerei per… « Là via via, o maledetti! io starò più volentieri nel fuoco che in compagnia di voi! Perché ho provato l’inferno! Tanto, se l’avessi provato per giustizia di Dio! Ed ora perché non lo trovai per sua grande misericordia, sto tranquillo; anzi, ballo allegramente e come cogli occhi bendati sull’orlo dell’inferno; lì per cadervi ad ogni piè sospinto! Anzi orribile tracotanza! provoco lo sdegno di Dio a cacciarmi dentro coi miei peccati sulla coscienza, qui sopra quel fuoco, che già mi assale per divorarmi vivo? – Vi è l’inferno, verità di Dio! un peccato può precipitar l’uom all’inferno. Dunque quando si ha un peccato mortale sull’anima, ad ogni momento si può di un colpo essere precipitato giù nell’inferno… Voi sapete come le vipere stanno d’inverno accovacciate sotto le radici di rovi, assiderate dal gelo. Fate di tirare fuori di sotto la ceppaia la vipera, e raccoglietevela in mano. Che bella bestiolina è mai la vipera! Contemplatela sulla vostra mano; arrotondata nella propria vita, si tien protetta sotto in mezzo la sua testina, si passa sopra la coda a legarsi; che bel gruppo grazioso!… Ma voi a me: padre, che dite mai? la vipera è così bella?… eh fa ribrezzo solo al pensarla. — Ma io vi rispondo: questo, miei cari, è un pregiudizio. Se voi la contemplate per bene vi debbe comparire amabile, più che io non vi dica. La vipera ha un bel grigiolino lungo la vita che gradatamente si sfuma sotto la gola cangiantesi in colore di rosa sanguigno… è una grazia a vederla; accarezzatela… Eh via, non perdete l’opera in queste belle parole; non farete mai che la vipera non ci faccia ribrezzo. Vi replico, è un pregiudizio. Fate di vincerlo, e nel coricarvi stanotte mettetevi sul petto la viperina… È vero che, se si ridestasse, vi darebbe col morso la morte; fidatevi pure, è fitto inverno, non si ridesta sì tosto; potete tenervela forse ancor un mese addormentata sul petto… — Ah perdonatemi! Se con questa viva immaginazione vi addormentate, voi trasognate stanotte; e vi parrà nel sonno sentirvela sul petto contrarsi e vermicolare in sussulto e lasciarvi cader giù al fianco la coda. Allunga il collo… serpeggia mollemente sul petto… scorre giù alla vita… ahi che mi morde!… stridete svegliandovi atterrito; e colla mano tastate sul letto ad assicurarvi tremando che un sogno sia sì veramente. Ah vi mette tanto orrore dormir colla vipera addormentata sul petto; e dormite poi col peccato e fino in sul dormire ve l’accarezzate e lo suscitate a ridestarsi, affinché quasi vi sorprenda tra il sonno e la veglia tranquilli, anche che possiate morir in quell’ora!… Ma, se vi si dà il colpo di morte?… Dio santissimo! nella morte piombate in inferno! Verità di Dio! grida qui s. Leonardo, si può essere in peccato mortale addormentato nel più stupido sonno; e sentir il colpo di morte improvvisa… ed aprire gli occhi e trovarsi all’improvviso sepolto coi demoni nell’inferno per tutta l’eternità! Pensatevi sopra… è un pensiero che vale una predica… Dunque, ogni movimento del cuore che pur batte sempre, coll’ultima sua battuta in peccato vi piomba in inferno!… Dunque, può un sospiro cominciare sul letto e finir nell’inferno!… Ma oh, se io tremo, come una madre, che qualche spensierato non mi si precipiti in perdizione!… Ecco Perché vi trattai come la madre. Quando la buona vede il bimbo suo spensieratello saltellare sul parapetto del pozzo e colla mano agitare sull’acqua la catenella! Essa forse grida per ispavento? no; lo farebbe scivolare dal sasso! ma va adagino alla larga al pozzo di dietro e sporge un occhio alla svolta del muro, allarga le braccia, e… fa un salto alla vita. Ahi che cado! stride il bimbo! Ma la madre l’ha stretto sul seno, e se lo porta via; e gli dice coi baci tremando: sta lontano sempre dal pozzo! Anch’io mi slancio tra le vostre braccia atterrito, vi grido: fuggite, fuggite dall’inferno… su via con me, vi voglio tutti in paradiso. Verità di Dio! Ma se vi è l’inferno che minaccia ingoiarvi; ci aspetta però anche il paradiso. Deh deh, vorrei gridarvi intenerito alle lagrime da non ne poter più; perché vorrà qualcuno andar sempre su quella strada sulla quale può sprofondarsi nell’abisso d’inferno? Sentite; se potessi vorrei fare con voi, come fece s. Ignazio. Un suo amico tutte notti, passando sopra un ponte attraverso alla Senna in Parigi, andava in casa d’occasion di peccato. Né per pregar che facesse il Santo, di non andar più là, di dove poteva precipitar tutte notti nell’inferno, non ne fu niente. Il Santo, che avrebbe per salvarlo data la vita, nell’ardenza del suo amore, va ed aspetta di notte sotto il ponte della Senna; e vedendo che passava il povero giovane, rompe egli il ghiaccio del fiume, e si getta nell’acqua stridendo coi denti ohiméè!… ohimé!… Ascolta il giovane e corre giù ad aiutare chi mai fosse caduto, e vede… una testa a fior di ghiaccio… Corre, guarda! Oh chi mai?!… Oh Ignazio mio, sei caduto così! e si voleva gettar nell’acqua a cavarlo… Ed Ignazio: Va va, troppo a me così caro, ma disgraziato amico! va a peccare; io starò qui per gridare a Dio nel mio dolore di non lasciarti cadere nell’inferno! — Il giovane esterrefatto: Ignazio mio!… ti giuro che fuggendo da quel pericolo, mi salverò! E fu salvo! Io vorrei farlo per voi; chiedetemi che volete, per farvi fermare sulla via all’inferno! Ma poi potete anche voi, fratelli… si, la potete fare da voi questa prova, che s. Alfonso chiama la prova del senso. Quando siete terribilmente tentati, immaginatevi di essere lì per precipitar nell’inferno… anzi di essere precipitati!… mettete la mano anche sulla fiamma della lucerna, ferma lì, ahi abbrucia… Ancor ferma li; quando la fiammella in isventolio vi lambe sotto… ahi che abbrucia troppo!… — In quel bruciore della fiamma che appena sfiora la mano, dite: Anima mia, anima mia, e tu ti vuoi precipitarmi nel fuoco d’inferno!… Oh se il pensiero è tutto nel fuoco d’inferno!… scappiam via! scappiamo via a salvarci. Ma se vi è l’inferno, verità di Dio! vi è pure per noi aperto il paradiso!… Questo pensiero fermò tanti che sulla strada dell’inferno andavano a perdersi strascinati dai loro peccati, e si salvarono ancora. Questo pensiero spinse tanti a lasciare il mondo e farsi religiosi, a non dar mai indietro innanzi a qualunque difficoltà. Essi fecero ragione alla propria coscienza così, e dissero nel loro cuore: in mezzo a questo nonnulla di cose di mondo, anima mia, dove corri?… Corro sopra una via in mezzo a continui agguati: dopo l’uno un altro pericolo; mi son scavati sotto tanti trabocchetti… posso precipitarvi, e, quando men lo penso, trovarmi nell’inferno… e voi, mio Dio, mi mostrate davanti una strada più sicura!… Convertirmi e anche farmi religioso (eh non è più il tempo! mi si grida…) -Alto là, vi darò io in sulla voce; finché vi è l’inferno e il paradiso, è sempre il tempo di metterci sulla via più diritta pel paradiso!….. Questo pensiero popolò il deserto di penitenti; questo pensiero fece correre tante anime timidette a ripararsi nei monasteri… questo pensiero riempì il paradiso di Santi… Questo pensiero mi trasporta qui qui sopra la bocca dell’inferno; ma trovo sull’abisso spalancato che vuole ingoiarci, Gesù Crocifisso che ce lo chiude colla propria vita, che allarga le braccia per portarci nel Sacramento in paradiso. Date indietro, salvatevi; ché per andare all’inferno avete da calpestar Gesù Cristo, avete da insultar la Madre Chiesa; avete da mandare a male il Sangue di Gesù, non ricevendo o ricevendo male i Sacramenti. Vi butto Gesù dinanzi: montategli sul petto, per andar all’inferno calpestatelo sotto de’ piedi col maltrattarlo, coll’odiarlo, coll’offenderlo nella vostra vita cristiana… No no, nol farete; dovete salvarvi tutti in paradiso.

LA GRAZIA E LA GLORIA (24)

LA GRAZIA E LA GLORIA (24)

Del R. P. J.-B. TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO V

LA FILIAZIONE ADOTTIVA CONSIDERATA NELLA SUA RELAZIONE CON CIASCUNA DELLE PERSONE DIVINE.

LA RELAZIONE CON IL PADRE E IL FIGLIO.

CAPITOLO II

La relazione dei figli adottivi con la seconda Persona. Il Figlio eterno, esemplare della nostra filiazione.

1. – Se siamo, per legittima appropriazione, figli adottivi del Padre, appartiene al Figlio essere l’esemplare e l’archetipo su cui siamo formati come figli di Dio. Non che non portiamo in noi l’immagine di tutta la Trinità, poiché è la Trinità che parla quando Dio dice in principio: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza. Immagine e somiglianza non solo nell’ordine della natura, ma anche nell’ordine della grazia. Degli dei divinizzati devono avere in loro il carattere della divinità, comune alle tre Persone. Ma, quando guardo questi dei deificati sotto il loro titolo e nella loro qualità di figli di Dio, la legge di appropriazione esige che la ragione del prototipo e del primo modello sia la singolare prerogativa di Colui che è il Figlio per natura. Così, niente è più frequente nei nostri Libri santi e nei Padri che l’idea dell’esemplarità particolarmente affermata di questo Unico. « Quelli – dice San Paolo – che Egli ha conosciuto con la sua prescienza, li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del suo Figlio, affinché egli stesso fosse il primogenito tra molti fratelli » (Rom., VIII, 29). So che i Padri greci intendevano con il nome di immagine lo Spirito Santo; ma, come vedremo più avanti, ciò era per giungere per una via diversa alla stessa idea dei loro fratelli occidentali. (Cfr. S, Thom. 3 p:, q. 23, a.2, ad 3.). – Quando siamo generati, quando cresciamo nella vita divina, è Cristo, il Figlio di Dio, che si riproduce e cresce nelle nostre anime. « Figlioli miei, che io genero di nuovo fino a che il Cristo sia formato in voi » (Gal. IV, 19), scrive San Paolo ai fedeli della Galazia. È per questo che tutta l’opera della nostra perfezione spirituale, che inizia nel Battesimo con la nascita e che non si completa fino alla maturità dell’uomo perfetto, tende a rivestirci di Cristo. Se vogliamo che il Padre ci riconosca come suoi figli, assumiamo i tratti, i modi e, nel nostro piccolo, l’essere stesso del Figlio amato. – Voglio far sentire qui la voce eloquente di San Giovanni Crisostomo. Nel suo commento all’epistola ai Galati, egli è giunto alle parole: « Voi siete tutti figli di Dio mediante la fede in Gesù Cristo » (Gal. III, 26). « Per la fede – riprende il grande oratore – e non per la legge ». E poiché questa è una cosa grande e veramente ammirevole, l’Apostolo spiega il modo in cui essi diventano figli di Dio. «Tutti voi – egli dice – che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo » (Ibid. 27). Perché non dire: « Tutti voi che siete stati battezzati in Cristo siete nati da Dio »? Ecco, sembra, ciò che conveniva per dimostrare la loro filiazione divina. Ma egli preferisce esporla in termini di un’altezza veramente vertiginosa… In effetti, se Cristo è il Figlio di Dio, e voi vi siete rivestiti di Cristo, avendo il Figlio in voi ed essendo trasformati in Lui per somiglianza, siete in un certo senso usciti dalla vostra specie, e la sua parentela con il Padre è diventata vostra. « Non c’è più giudeo o gentile, schiavo o libero, maschio o femmina; non siete voi tutti che uno in Cristo Gesù. » –  « Vedete l’anima insaziabile di questo Apostolo. Dopo aver detto: Voi tutti siete diventati figli di Dio per mezzo della fede, si fermerà lì? No. Egli cerca espressioni per affermare ancora più fortemente la nostra unione con Cristo. Quindi aggiunge: Vi siete rivestiti di Cristo; e questo non gli basta ancora: va ancora oltre l’unione. Voi siete tutti uno in Cristo, cioè avete tutti in voi una stessa forma, uno stesso tipo, la forma e il tipo di Cristo. Quali parole maggiormente capaci di incutere il rispetto e precipitare nello stupore? Colui che finora era un pagano, un giudeo, uno schiavo, questo stesso si avanza portando la forma e il tipo, non di un Angelo o di un Arcangelo, ma del Signore di tutte le cose: egli è la copia vivente di Cristo » (S. J. Chrysost. in ep. ad Gal, P. Gr., t. 61, p. 656). – Le stesse idee, con una sfumatura leggermente diversa, si trovano negli scritti di San Cirillo di Alessandria. Per la comprensione del santo Dottore è necessario sapere che dove il testo della Vulgata legge: « Io ti ho formato, tu sei il mio servo Israele » (Is, XLIV, 21), lui legge: « Io ti ho formato figlio mio ». Dopo aver descritto la formazione naturale dell’uomo e quella formazione superiore che dobbiamo alla scienza pratica delle leggi divine e allo splendore delle virtù, continua in questi termini: « Ognuno di noi è formato in Cristo, ad immagine di Cristo, per la partecipazione dello Spirito Santo. Infatti, il divino Paolo scrive ai Galati: Figlioli miei (e gli altri di cui abbiamo parlato prima). Ora è lo Spirito Santo che forma il Cristo in noi quando attraverso la santificazione e la giustizia ci conferisce una forma divina. Così il carattere della sostanza di Dio Padre risplende nelle nostre anime (Ebr. I, 3), attraverso lo Spirito la cui virtù santificante ci rifà su questo modello. Ecco perché il santissimo Paolo dice: Non conformatevi a questo mondo, ma riformatevi nella novità della vostra mente, per provare quanto sia buona, gradita e perfetta la volontà di Dio (Rom. XII, 2). I Giudei hanno un velo sul loro cuore, ma noi, guardando la gloria del Signore a viso scoperto, siamo trasformati nella stessa immagine, da chiarezza in chiarezza, come dallo Spirito del Signore (II Cor. III, 18). E così siamo formati in figli di Dio » (S. Gyril. Alex. In Is., L. IV. P. Gr., t. 70, p. 956). Ove si vede che se lo Spirito Santo è l’artigiano della nostra formazione, l’esemplare e l’archetipo su cui siamo formati, è il carattere della sostanza di Dio Padre, cioè suo Figlio. – Secondo questo testo e altri simili, mi rappresento il Figlio eterno di Dio che, volendo fare di noi la copia vivente della sua bellezza divina, trasmette la sua immagine allo Spirito Santo perché la riproduca nelle nostre anime. Per meglio dire, è lo Spirito Santo che mi appare come un artista onnipotente, che incide i suoi tratti nel mio cuore, e così mi rende simile al Figlio: poiché Egli è per sua essenza l’immagine naturale del Figlio. E Dio Padre, poiché vede allora risplendere sul volto della nostra anima i tratti divini del suo Figlio diletto, ci ama d’ora in poi come degli altri figli, e ci riempie di una gloria infinitamente superiore alla nostra condizione terrena (S. Cyril. d’Alex. Hom. Pasch. 10. P. Gr., t. 76, p 618.). Questo è un modo di concepire che è peculiare di molti dei Padri greci, e si fonda sull’interpretazione che essi hanno fatto delle parole dell’Apostolo: « Quelli che Egli ha conosciuto nella sua prescienza, li ha predestinati a diventare conformi all’immagine del Figlio suo (Rom. VIII, 29); poiché qui l’immagine è per loro lo Spirito Santo. Non che confondano le proprietà delle Persone. Come i latini, insegnano secondo l’Apostolo che appartiene solo alla seconda Persona di essere « lo splendore della gloria di Dio, la gloria della sua sostanza, lo specchio infinitamente puro della sua maestà » (Hebr., 1, 3; Sap., VII, 26,); ma, supposta questa dottrina, lo Spirito di verità non è meno l’immagine naturale del Figlio, cioè l’immagine del Figlio quanto alla natura, poiché la natura che ne riceve, è la natura propria del Figlio. Non avevo ragione di dire che questi medesimi Padri, anche se sembrano allontanarsi qui dai loro fratelli occidentali, arrivano con loro alla stessa conclusione?

2. – In accordo sulla conclusione dogmatica, essi lo sono anche sulle conseguenze morali. Siete stati costituititi figli a somiglianza del Figlio unigenito, e la sua filiazione naturale è la copia della vostra filiazione adottiva. Quindi il complemento atteso deve rispondere a queste origini. Pertanto, tutte le vostre azioni, il vostro pensiero, la vostra volontà deve essere modellata sul suo agire, sulla sua volontà e sul suo pensiero. Sbalorditi e come stupefatti al pensiero di una parentela così alta, e di un archetipo così sproporzionato alla nostra nullità, ci chiedevamo cosa fare per esserne degni, cosa fare per non esserne estromessi? E questo Figlio, primogenito del Padre, è venuto a noi; è diventato uomo come noi, uno di noi, con la nostra natura, la nostra carne, le nostre debolezze e i nostri mali; e ci ha detto: Io, il Figlio per natura, il Figlio infinitamente perfetto di un Padre infinitamente perfetto, sono diventato come uno di voi. Guardate e fate quello che vi ho dato nella mia umanità. Rivestiti di me come di una veste più adatta alla debolezza, più conforme alla tua misura (Rom. XIII, 14). Non ti chiedo di creare mondi, né di estendere i cieli, né di porre dei limiti al mare affinché non possa superarli nella sua massima furia (Prov. VIII, 27 e seguenti); queste sono opere di potenza che sono proprie di me come Dio. Ma io ho obbedito a mio Padre, ero povero, umile, mite di cuore, paziente fino all’eccesso; ma non rifuggivo da nessun sacrificio quando si trattava di amare gli uomini e il Padre mio del cielo. È così che l’esemplare divino parla al nostro cuore. È anche, in accordo con questi alti pensieri, che Gregorio di Nazianzo vuole che resistiamo al nemico delle nostre anime: « Se il diavolo vi attacca –  dice questo Padre – se vi mostra, come ha fatto con Gesù Cristo, il fasto delle ricchezze e della grandezza per ottenere la vostra adorazione, disprezzatelo come un miserabile. Armati del segno della croce, rispondetegli: Anch’io sono l’immagine di Dio e l’orgoglio non mi ha fatto cadere dall’alto della gloria come ha fatto cadere te. Sono rivestito di Cristo; attraverso il Battesimo Cristo è diventato mia proprietà. Sta a te adorarmi, Tu me ipse adora (S. Gregor. Naz., orat. 40, n. 10. P. Gr., t: 36, p. 370).

3. – È importante per la comprensione di queste alte verità esprimere, con tutta la precisione possibile, come la filiazione adottiva differisca da quella naturale, anche se quest’ultima è l’archetipo della prima. Se ne differenzia perché il Padre comunica al Figlio per natura la sua stessa sostanza, in una perfetta identità di essere e perfezione, e noi la riceviamo solo nella sua somiglianza accidentale e per partecipazione. Essa se ne differenzia, perché è dell’essenza stessa del Padre produrre un Figlio che sia con Lui della stessa natura (Gv. 1,18), uguale e co-eterno al Padre; tanto che entrambi non sarebbero né Persone né Dio, se uno non fosse Padre e l’altro Figlio. La condizione dei figli adottivi è ben diversa; così come l’atto che li rende figli. Se si toglie l’adozione, Dio non è meno Dio, non meno perfetto, non meno Padre, e io non sono meno creatura, non meno uomo. – Si differenzia perché è per via d’intelligenza che il Padre genera naturalmente il suo Verbo, mentre il figlio d’adozione procede da Lui per libera scelta del suo amore. Essa se ne differenzia, perché è la filiazione naturale che è il principio della filiazione di grazia. Perciò i Padri, quando vogliono provare che Gesù Cristo, Nostro Signore, è veramente il Figlio di Dio per natura, il Figlio Dio di un Dio Padre, ce lo mostrano nelle Sacre Scritture come autore e consumatore della nostra adozione. Se ne differenzia, perché il termine di generazione naturale, essendo Dio, rimane in Dio, nel seno misterioso del Padre (Gv. I, 1, 18), mentre il termine di adozione, come tutta la creazione, è in quanto all’essere distinto e separato da Dio. Infine, se ne differenzia, perché la nascita del Figlio eterno di Dio precede nell’ordine, non dico di durata, ma di natura, la processione dello Spirito Santo; mentre la filiazione adottiva, anche se fosse al di sopra delle leggi del tempo, presupporrebbe comunque lo Spirito Santo, poiché il suo principio è l’amore.

4. – Addentriamoci ulteriormente in questa materia per comprendere meglio la sua portata dottrinale. Ora, ecco la questione che si pone davanti a noi. Abbiamo il diritto di dire che Gesù Cristo, considerato nelle perfezioni e negli atti della sua natura umana, è il prototipo e l’esemplare della nostra filiazione adottiva, o, che equivale alla stessa cosa, della nostra somiglianza soprannaturale con Dio? Qui il sì e il no sono ugualmente veri, a seconda del punto di vista che si considera. No, in primo luogo: perché la grazia, questa natura soprannaturale che è la forma dei figli adottivi, non ha che nella natura divina la sua sede originale, il suo primo principio e il suo perfetto esempio. No: perché la nostra figliolanza della grazia non può trovare il suo modello che nella figliolanza della natura, poiché Cristo non è in nessun senso il figlio adottivo del Padre. E tuttavia possiamo rispondere, sì, in un senso che, anche se meno rigoroso, non è meno indiscutibile. Il Figlio di Dio, considerato come uomo, è l’esemplare della nostra filiazione adottiva, se guardiamo il modo in cui l’abbiamo ricevuta. Questa è la bella dottrina che Sant’Agostino sviluppa magnificamente nei suoi libri contro il pelagianesimo. Egli dimostra che la grazia è grazia, cioè, non proviene né dal merito né dalle esigenze della natura. « Uno splendido esempio di predestinazione e di grazia – dice il grande dottore – è il Salvatore stesso, il mediatore di Dio e degli uomini, l’uomo Cristo Gesù. Dove sono infatti le opere, dove sono i meriti con cui la natura umana che è in Lui, ha pagato il beneficio che ha fatto dell’uomo un Dio? Rispondete, ve ne prego: questa natura, innalzata dal Verbo all’unità della sua Persona e divenuta la natura dell’unico Figlio di Dio, come ha meritato questo incomparabile onore? Quali atti l’hanno preparata a questa unione? Cosa ha fatto, cosa ha creduto, cosa ha chiesto per ottenere una dignità così ineffabile? Che essa appaia nel nostro Capo e nostra testa come la fonte stessa da cui la grazia fluisce a ciascuna delle sue membra, secondo la misura propria di ciascuna di esse. La grazia che, all’inizio della sua fede, fa di ogni uomo un Cristiano, è la grazia che, nel primo momento della sua esistenza, ha fatto di quest’uomo il Cristo (S. Aug., de Prædest. ss, c. 14, n. 30-31). Allo stesso ordine di idee è legata un’osservazione che ricorre frequentemente nei Padri e nei Dottori. Se il Figlio, considerato come Dio, procede eternamente dal Padre e nient’altro che dal Padre, lo stesso non vale per il mistero di grazia che ce lo ha dato come uomo; poiché è dallo Spirito Santo che è stato concepito nel grembo della Vergine immacolata. Così noi, figli adottivi di Dio, siamo generati alla vita divina dallo stesso Spirito: perché non è la natura che ci consente di essere figli, ma la libera e graziosa volontà di Dio, il suo amore. Perciò, poiché la grazia che risplende in Cristo Gesù è una luce che manifesta la nostra, Egli è in questo senso l’esemplare della nostra adozione. Negare questo, con il pretesto che il Dio-Uomo non è come noi, che in virtù di questa grazia, è un figlio di adozione, sarebbe dimenticare che la copia, per essere tale, non deve essere in tutto conforme al suo originale: basta che gli assomigli in qualche aspetto (Thom, p. 3, q. 24, a 3, in. corp. et ad 3.). Consideriamo di nuovo questa vita divina di cui la grazia è il principio in noi. Da dove viene? Dal seno di Dio, senza dubbio, la fonte della luce divina, di cui è solo un riflesso. Ma questa fonte divina si è riversata prima di tutto sull’anima di Cristo, Nostro Signore, con una pienezza incomparabile, ed è da questa pienezza che è fluita sulle nostre anime (Joan. I, 16). Così ci hanno predicato gli Apostoli. « Egli ci ha predestinati – dice San Paolo – all’adozione di figli per mezzo di Gesù Cristo, secondo il proposito della sua volontà, a lode e gloria della sua grazia, che ci ha donato nel suo amato Figlio, redenti come siamo, perdonati e restaurati in Cristo » (Efesini I, 5, ss.). Concludiamo, dunque, che se Cristo nella sua umanità è solo una copia in rapporto all’Archetipo Sovrano, è una causa esemplare rispetto a noi, subordinata senza dubbio, ma molto verace. – Causa esemplare, ho detto, non solo perché ci offre nella sua Persona il modello perfetto delle virtù che dobbiamo imitare per vivere come figli di Dio, ma anche perché tutti i nostri doni soprannaturali hanno come principio prossimo la sua grazia principale e il suo merito. Da questo punto di vista, che differenza tra Gesù Cristo Nostro Signore e i santi che ci vengono proposti come modelli! Quando S. Paolo scriveva ai fedeli di Corinto: « Io vi ho generato in Cristo Gesù attraverso il Vangelo. Vi prego dunque di essere miei imitatori, come io lo sono di Cristo » (I Cor. IV, 16), non era tanto di imitatori che cercava per se stesso quanto di Cristo, che viveva in lui. Se i Santi hanno diritto alla nostra imitazione, è perché portano in sé l’immagine dell’Uomo celeste, il nuovo Adamo (I Cor. XV, 49), e si offrono a noi come delle apparizioni del Salvatore tra gli uomini. Ognuno di loro riflette a suo modo un aspetto della perfezione ideale che è solo in Gesù Cristo nella sua totalità; ma la sua gloria è confessare che ciò che possiede di essa, lo ha da Lui. Modello, dunque, ma perché è prima di tutto una copia del grande Modello; un modello e non una causa esemplare, perché appartiene solo a Gesù Cristo essere allo stesso tempo l’ideale e la causa della santità.

LA GRAZIA E LA GLORIA (25)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (22)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (22)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO NONO (2)

Elevazione alla Trinità

(Commento)

2 – Pacifica l’anima mia.

Un aspetto nuovo di questa preghiera ci fa penetrare nella sua maniera tutta propria e personale di concepire la vita interiore. Non già che essa abbia scoperto una dottrina inedita del Cristianesimo, ma perché ha saputo compenetrare il significato profondo della parola di Gesù: « Il regno di Dio è dentro di voi ». E suor Elisabetta ha proprio avuto da Dio la grazia di ricondurre le anime su questo punto, al puro Vangelo. Non si può forse dire di lei quello che essa scriveva della Vergine, modello della sua vita interiore: « In lei, tutto si svolge di dentro »? Fu proprio la sua grazia particolare, quella di vivere nel fondo dell’anima sua le ricchezze trinitarie del suo Battesimo e di invitare le anime a questo ritorno alle veraci sorgenti della vita divina. « Rendila tuo cielo ». L’anima stabilita nella pace e liberata dal suo « io » diviene il teatro delle meraviglie della grazia e, per il Signore, un vero cielo, una dimora cara, un luogo di riposo. Notiamo l’elevatezza di questa vita di intimità con le Persone divine. Qui, le mire ordinarie sono capovolte. La maggior parte delle anime aspirano all’unione con Dio per il desiderio, lodevole del resto, di divenire sante; ma pensano poi al perché supremo di ogni santità: la gioia di Dio e la sua maggior gloria? Esse tendono a Dio con tutte le loro brame, ma senza giungere però a dimenticarsi interamente. Quanti pericoli latenti sotto questo metodo di spiritualità che si potrebbe chiamare: dell’« io » santificato! Qui, al contrario, risplende il primato di Dio. L’anima è un tempio vivo in cui la Trinità santa riceve senza posa un culto di adorazione, di ringraziamento, di lode e di amore. Le Persone divine gioiscono una dell’Altra nell’intimo di quest’anima in cui insieme abitano, in cui il Padre genera il Figlio, il Padre e il Figlio spirano uno stesso Amore. L’anima diviene un cielo per il suo Dio. Più tardi, suor Elisabetta della Trinità, contemplando questa bontà divina che trova le sue delizie ad abitare tra i figli degli uomini, descriverà così l’ufficio di una lode di gloria: « Un’anima che permette all’Essere divino di saziare in lei il Suo bisogno di comunicare tutto ciò che Egli è, e tutto ciò che Egli ha ». « Che io non ti lasci mai solo ». Ecco la collaborazione personale, necessaria: « Essere lì, interamente presente. ben desta nella fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata all’azione creatrice ». Veramente, Dio non è mai solo: né in Se stesso, né nelle anime; e questa società trinitaria gli basta. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo vivono insieme « adesso come in principio e per i secoli dei secoli », trovando nel più intimo della loro Essenza, in un’amicizia perfetta, luce e amore e gioia, in grado infinito. Dio non è dunque mai solo, e la teologia trinitaria nota giustamente che, a rigor di termine, è proibito e pericoloso definire Dio: solitario. Questa vita di Dio « dentro di Sé » è talmente la gioia del nostro Dio, che se — supponendo l’impossibile. — questa pluralità delle Persone non esistesse in seno alla vita trinitaria, anche in mezzo ad una moltitudine infinita di uomini e di Angeli chiamati a partecipare, per grazia, alla sua vita intima, Egli rimarrebbe sempre l’Eterno Solitario, un po’ come una creatura dotata di intelligenza e di volontà, si aggirerebbe solitaria in un giardino, malgrado la presenza di innumerevoli piante e animali » (Cfr. il testo così profondo di san Tommaso; 1° q. 31, a. 3; ad 1). – Per sovrabbondanza di pura bontà e per « eccesso di amore », Dio ha voluto trovare le sue delizie tra i figli degli uomini. Lo abbiamo visto, proprio Lui, in mezzo alla sua creazione: Il Verbo si è fatto carne ed ha abitato fra noi. E noi siamo nel numero di quei privilegiati ai quali fu concesso di divenire i « figli di Dio », in comunione del « Verbo », predestinati a vivere « in intima unione con Lui ». « In società », in intima unione: questa parola di san Giovanni, così cara a suor Elisabetta della Trinità, ci spiega il senso profondo della sua preghiera: « Che io non ti lasci mai solo ». « Ma che tutta io vi sia…». La sua ascetica e la sua mistica consistevano appunto nel serbarsi libera e interamente distaccata da tutto, per vivere nel fondo dell’anima sua, « alla presenza del Dio vivo ». «Vigile e attiva nella mia fede ». « Una Carmelitana è un’anima di fede ». La serva di Dio ritornava spesso, nella sua vita intima, a questa prima virtù teologale: « Il programma del mio ritiro sarà di starmene, con fede e amore, sotto l’unzione di Dio». « Essere desta e attiva nella fede » significa andare più in là delle formule che racchiudono le verità da credere: significa abitare in Dio. « Tutta immersa nell’adorazione… ». È sempre lo stesso atteggiamento essenzialmente adorante di fronte a Dio. « Tutta abbandonata alla tua azione creatrice… ». Suor Elisabetta della Trinità fu una di quelle anime che si danno senza riserva all’azione dello Spirito, convinte che la vita spirituale consiste meno nel moltiplicare gli sforzi personali, che nel lasciarsi prendere da Dio. La sua cura costante e sempre più intensa, fu di « credere all’Amore », di lasciarsi trasformare dall’Amore. Ed è importantissimo, alla sua scuola, essere profondamente convinti che ogni iniziativa di santità viene prima di tutto da Dio e rivela in prima linea una realizzazione della sua grazia, cioè del suo gratuito amore. Il carattere proprio dell’amore di Dio verso di noi non è forse di essere Amore creatore? Lasciarsi amare, dunque, è lasciare che Dio agisca nel nostro intimo, lasciare che crei in noi tutte le meraviglie di grazia e di gloria. – Suor Elisabetta della Trinità aveva compreso la risposta da dare a questo Amore che non chiede che di potere agire in noi: « Abbandonarsi pienamente alla Sua azione creatrice ».

3 – O amato mio Cristo.

Ed ecco la via che conduce alla Trinità: il Cristo. Sembra apparire d’un tratto; in realtà, è al centro della preghiera di suor Elisabetta della Trinità come è al centro della sua vita. « O amato mio Cristo! ». Quando si tratta di Lui, non c’è più che da amare, « amare fino a morirne ». Aveva già scritto nel suo diario di fanciulla: « Vorrei farlo conoscere, farlo amare in tutto il mondo ». Da allora, sono passati cinque anni, anni di intimità quotidiana, di vita di sposa del Cristo. La sua devozione a Cristo va diritta all’essenziale: al « Crocifisso per amore », a Colui che, nella veglia della sua professione, le aveva detto di essersela scelta per tutta una vita di silenzio e di amore. Suor Elisabetta si era donata: « Vorrei essere una sposa per il tuo cuore » e, « in quella mattina, la più bella della sua vita », era divenuta sposa del Cristo, fino alla morte. Ormai, Cristo sarà l’unica sua vita. « Coprirti di gloria… ». « Mulier gloria viri » (I ai Corinti, XI-7.). Come una fedele sposa, si dedica, con sempre maggiore intensità, a « zelare il Suo onore ». Dio non le ha ancora rivelata la sua vocazione suprema di « Lode di gloria », ma già ve la incammina. Verrà poi un giorno in cui questo anelito accentrerà tutto, nell’anima sua, per la gloria della Trinità e per quella del suo Cristo. « Ma io sento la mia impotenza… ». È incoraggiante il pensiero che i Santi sentivano la loro debolezza, come noi. E Gesù stesso non ha voluto anch’Egli accettare il soccorso dell’Angelo dell’agonia, e l’aiuto di un Cireneo? Di fronte ad un ideale sovrumano, i Santi non indietreggiavano; sapevano chiamare in loro aiuto il Forte, Colui la cui virtù segreta è con noi sempre, pronta a purificarci, a salvarci, a divinizzarci, a trasformarci in Lui. « Egli è sempre attivo, sempre operante nell’anima nostra. Lasciamoci formare da Lui. Che Egli sia l’anima della nostra anima, la vita della nostra vita, sì che possiamo dire con san Paolo: « Per me, vivere è Cristo » (Lettera alla signora A… – 9 novembre 1902). Le loro miserie, le loro infermità, invece di sorprenderli o di arrestarli, li gettano in Dio e in Gesù Cristo. Ascoltate questo crescendo sublime della confidenza dei Santi: « Rivestimi di Te, unificami a tutti i movimenti dell’anima tua ». Poi le parole si accumulano, premono, incalzano, per esprimere un sentimento che trabocca, incontenibile: « Ti prego, sommergimi, pervadimi, sostituisciti a me…; la mia vita non sia che un riflesso della tua vita. Vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore!… ». La trasformazione in Cristo è completa, il motto scolpito sul « bel Crocifisso della sua professione » è realizzato: « Non sono più o che vivo; Cristo vive in me. Jam non ego, vivit vero in me Christus ».

4 – O Verbo eterno!

Il volto Cristo conduce agli splendori del Verbo. È uno dei temi familiari agli autori mistici; ogni vera devozione a Gesù Cristo si rivolge principalmente alla sua divinità: l’umanità non è che la via. Anche a questo punto, ci troviamo in piena linea tradizionale, perfettamente equilibrata. Dopo essersi soffermata nelle piaghe redentrici del « Crocifisso per amore », con un colpo d’ala, si slancia fino al Verbo: « O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la vita ad ascoltarti ». Che cosa importano all’anima che ha incontrato il Verbo, tutte le meraviglie della natura e della grazia? Queste creature non sono Lui ed « è Lui, Lui che noi cerchiamo ». I cieli che ci narrano la sua gloria, non lo celano però anch’essi ai nostri sguardi? « Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la vita ad ascoltarti »; Tu mi racconterai tutti i segreti racchiusi nel seno del Padre, il mistero dei Tre nell’Unità. «Voglio rendermi docilissima, per imparare tutto da Te ». La serva di Dio ci rivela ora quale sia la sorgente dei suoi lumi più sublimi: è la scuola di Dio. Raramente si trova un’anima che meno di lei sia stata desiderosa di libri: si è nutrita soltanto di qualche raro libro di spiritualità: il Cantico spirituale, la Viva fiamma del suo Padre san Giovanni della Croce « che penetrò così addentro nella divinità », e le Epistole di san Paolo. Lei stessa confidava sommessamente alla sua Priora: « Ciò che Egli mi insegna, è ineffabile ». E la Madre Germana, da parte sua, ne era perfettamente convinta: suor Elisabetta della Trinità fu soprattutto la discepola e l’ascoltatrice del Verbo. « Poi, nelle notti dello spirito, nella desolazione, nella impotenza… ». Si ritrova, qui, il sentiero del « nulla » che conduce al vertice del monte Carmelo. L’anima contemplativa, l’anima Carmelitana in particolare, è chiamata a conoscere le lunghe e dolorose purificazioni delle « notti » oscure, prima di raggiungere l’unione divina: dopo aver lasciato tutto per Cristo, sentirlo scomparire… non per un giorno o per qualche mese, ma per lunghi anni, per tutta una vita forse…, e nonostante, rimanere fedele, senza mai indietreggiare, senza lamentarsi mai. Una grande esperienza vissuta si cela in queste brevi parole: Le anime di orazione non cerchino Dio per il sentiero delle consolazioni, ma nella nudità della fede e nello spogliamento assoluto; e qui rimangono, fedeli « in tutte le notti, tutte le desolazioni, tutte le impotenze ». «Voglio fissarti sempre, e starmene sotto il tuo grande splendore ». Suor Elisabetta della Trinità aveva gustato anch’essa, nelle prime ore della sua ascesa per le vie mistiche, le gioie inebrianti della presenza di Dio. Ma ben presto, e a lungo, dovrà cercare il suo Dio nella pura fede. « Dopo queste estasi, questi sublimi rapimenti nei quali l’anima dimentica tutto il resto e non vede che il suo Dio, come par dura e penosa l’orazione ordinaria e quanta fatica ci vuole per raccogliere le proprie potenze! Come costa e come sembra difficile! ». Eppure, non è davvero il momento di lasciare la vita di orazione. È l’ora benedetta che conduce all’unione trasformante, nel silenzio della notte. Dunque, più che mai, « guardarlo fissamente, sempre », e « rimanere in pace sotto la grande luce » della notte oscura e transluminosa. Lasciarsi sempre più passivamente attirare dal Verbo: « O mio Astro adorato, affascinami, perché io non possa più sottrarmi alla tua irradiazione ». Come la farfalla, che io sia abbagliata e vinta dal fulgore della tua luce. « Spirito d’amore… ». Essere, nel seno della Trinità, l’Amore Personale del Padre e del Figlio: ecco tutto il mistero dello Spirito Santo, vero « Spirito d’Amore », nel quale Dio ama Sé ed ama tutto l’universo. La natura più intima di questa Persona divina, uguale al Padre e al Figlio da cui procede, è di essere il loro Amore sostanziale e coeterno in una stessa vita a Tre. – La serva di Dio, anche qui, non fa che appoggiarsi sopra un dato fondamentale del dogma Trinitario, il più profondo per l’anima contemplativa che vorrebbe vivere già sulla terra di questo mistero, il mistero di un Dio che è personalmente l’Amore. Ma ciò a cui essa mira è di un ordine più pratico. La sua preghiera non è una elevazione sulla vita trinitaria, ma il movimento di una anima contemplativa che trova, in questo mistero della Trinità, « il suo Tutto, la sua Beatitudine, la infinita Solitudine in cui si perde ». Lo Spirito d’Amore è invocato per la sua azione santificatrice nelle anime che cercano l’unione con Dio. « O Fuoco consumante, Spirito di Amore, discendi in me perché si faccia nell’anima mia quasi un’incarnazione del Verbo ». Ha già supplicato Cristo di immedesimarla con la Sua Anima, di sostituirsi a lei affinché la sua vita non sia che un’irradiazione della vita di Lui; poi, nella sua invocazione al Padre e in quella allo Spirito Santo, ritorna sullo stesso pensiero, perché il desiderio della sua trasformazione in Cristo è veramente il punto centrico di questa preghiera essenzialmente trinitaria. E nulla rivela con maggior evidenza a qual punto Gesù si era sostituito alla sua vita propria. « Si faccia nell’anima mia quasi un’incarnazione del Verbo ». Espressione audace, che bisogna comprendere bene; « quasi » un’incarnazione. Non si tratta di un desiderio da prender troppo alla lettera e che sarebbe un assurdo; ma è il linguaggio di un’anima innamorata di Cristo che vagheggia di divenire un altro Lui stesso. « Che io gli sia un prolungamento di umanità in cui Egli possa rinnovare il Suo mistero ». Formula luminosa che rischiara tutto. La spiega lei stessa tre giorni dopo, scrivendo ad un giovane sacerdote: « Che io sia per Lui un prolungamento di umanità, cioè che Egli possa perpetuare in me la sua vita di riparazione, di sacrificio, di lode e di adorazione… Gli ho chiesto di venire in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore ».

***

« E Tu, o Padre! ». Ed ora, si rivolge al Padre, Principio della divinità. È Padre: ed è questo tutto il suo mistero, il suo carattere proprio, in seno ai Tre. È il Principio senza principio, da cui deriva, come da propria sorgente infinitamente feconda, tutta la vita trinitaria « al di dentro ». E sarà la suprema luce del « faccia a faccia », scoprire in Lui, come nella sua origine eterna, tutto il mistero dei Tre nell’Unità. Ma non si tratta di questo direttamente, nell’ora di grazia in cui suor Elisabetta ha composta la sua preghiera. Alla presenza di questa divina Paternità, ella vede soprattutto il suo niente. « O Padre, chinati verso la tua povera, piccola creatura! ». E, ricordando il mistero della Vergine della Incarnazione, la Vergine sua prediletta, soggiunge: « Coprila della tua ombra », cioè: proteggila. E infine l’anima sua, ritornando sempre a Cristo, al suo centro, implora: « Non vedere in essa che il Diletto in cui hai poste tutte le tue compiacenze ».

5- O miei Tre.

La preghiera volge all’epilogo. Un ultimo slancio la solleva verso i « Tre » ai quali suor Elisabetta ha consacrata tutta la sua vita: « O miei Tre, mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità in cui mi perdo, o mi abbandono a Voi come una preda; seppellitevi in me perché io mi seppellisca in Voi, in attesa di venire a contemplare nella Vostra luce, l’abisso delle vostre grandezze ».

La preghiera dell’inizio è esaudita: non ritrova più vestigio in sé.

L’anima è transumanata in Dio.

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (23)

LA GRAZIA E LA GLORIA (23)

LA GRAZIA E LA GLORIA (23)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO V

LA FILIAZIONE ADOTTIVA CONSIDERATA NELLA SUA RELAZIONE CON CIASCUNA DELLE PERSONE DIVINE.

LA RELAZIONE CON IL PADRE E IL FIGLIO.

CAPITOLO PRIMO

Sulla relazione dei figli adottivi con Dio Padre; e come l’adozione divina sia adatta solo alle creature intelligenti, ad esclusione del Figlio per natura.

1. Abbiamo cercato di capire, per quanto possibile, come e perché tutta la Trinità abiti nei figli adottivi; con quali legami sia unita ad essi, facendo di ciascuno dei giusti un santuario vivente, un cielo più splendido e santo dei cieli materiali, e come il paradiso della Trinità. Entriamo ancora una volta in queste profondità misteriose per contemplare con più calma le relazioni singolari in cui la grazia ci pone con ciascuna delle Persone divine. – È una verità indiscutibile che l’adozione che fa passare gli uomini dallo stato di servi e schiavi alla dignità di figli di Dio, è beneficio comune di tutta la Trinità. Ed ecco la prova che ne dà il Dottore Angelico (S. Thom., 3 p., q. 23, a. 2.). « C’è questa differenza tra il figlio adottivo di Dio e il Figlio per natura: che quest’ultimo non è fatto ma generato, mentre il figlio adottivo è fatto, secondo le parole di San Giovanni: Ha dato loro il potere di diventare figli di Dio (Gv. I, 12). Se talvolta la Scrittura parla di generazione per il figlio adottivo, si tratta di una generazione puramente spirituale, di grazia, e non di natura, ed è in questo senso che è detto nell’Epistola cattolica di San Giacomo: Egli ci ha generati volontariamente, per mezzo della sua parola di verità (Jac., 1, 18.). Ora, sebbene l’atto di generare sia proprio della Persona del Padre, quello di produrre un effetto nella creatura è opera comune della Trinità tutta: perché dove la natura è una, ci deve essere una sola virtù, una sola anche nell’operazione. Per questo il Signore ha detto in San Giovanni: « Tutto quello che fa il Padre, lo fa anche il Figlio » (Gv. V, 19). Tuttavia, Dio stesso e la sua Chiesa ci insegnano a dare il Nome di Padre soprattutto alla prima Persona. « Andate a dire ai miei fratelli: Ecco, io salgo al Padre mio e Padre vostro » ( Giov., XX: 17,3). Ora, il Padre di Cristo, nostro Padre, è la prima Persona della Santa Trinità, fonte e principio delle altre due. Altrove ci viene detto: « Noi sappiamo che tutte le cose concorrono al bene di coloro che amano Dio; di coloro che, secondo il suo decreto, sono chiamati alla santità (cioè all’adozione). Poiché coloro che ha conosciuto, li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, affinché Egli sia il primogenito tra molti fratelli » (Rom., VIII, 28-30.). Qui vediamo di nuovo la doppia paternità della natura e della grazia affermata nella stessa Persona. Infine, questo è il significato della formula usata dagli Apostoli di Gesù Cristo all’inizio della maggior parte delle loro lettere: « Grazia a voi e pace da Dio nostro Padre e da Gesù Cristo nostro Signore. Benedetto sia il Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (Ef, I, 2.5; Gal, 1, 3-4, ecc. I Pet, 1, 3; II Joan, 1, 3). Infatti, il Padre di cui ci augurano la grazia e che dobbiamo benedire, il Padre nostro, si distingue dal Figlio Nostro Signore e dal Padre suo. Ed è per questo che la Chiesa, nelle preghiere liturgiche che rivolge direttamente alla prima Persona attraverso suo Figlio, Gesù Cristo Nostro Signore, mette così costantemente il nome di Padre sulle nostre labbra. E non è solo il Figlio che si distingue dal Padre, nostro Padre. Lo Spirito Santo, sebbene abbia, come vedremo, la sua parte necessaria nell’adozione dei figli di Dio, ed è eccellentemente lo Spirito di adozione, il pegno e la garanzia dell’eredità etera, preparata per i figli, tuttavia non riceve da noi il nome di Padre, per quanto sia considerato come una Persona distinta e come lo Spirito Santo. Lui stesso non l’ha mai preso nelle nostre Sacre Scritture, e la Chiesa, nelle sue invocazioni e nei suoi inni, non è solita mescolarlo con i titoli particolari che gli dà (il veni, Pater pauperum non è appena un’eccezione). – Tuttavia, come ha detto sopra San Tommaso, l’opera di adozione non è proprietà di nessuno ad esclusione degli altri. La natura a cui partecipo per diventare figlio adottivo è comune a tutte e tre le Persone; comune è l’azione che infonde la grazia e la conserva in me; comune è l’azione che mi rende figlio adottivo. La natura alla quale partecipo per diventare figlio adottivo è comune alle tre Persone; comune è l’azione che infonde la grazia e la conserva in me; e in questa somiglianza soprannaturale che distingue il figlio dal servo e dallo schiavo, il Figlio e lo Spirito Santo si riconoscono non meno del Padre. Il « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza » è tanto vero nell’ordine della grazia quanto in quello della natura. Come si può risolvere questo enigma? Con la dottrina dell’appropriazione, la teologia risponde! Poiché questa espressione può offrire solo un significato molto vago a coloro che non hanno familiarità con il linguaggio tecnico della scienza sacra, alcune spiegazioni saranno tanto più utili, in quanto dovremo fare appello a questa nozione più di una volta. Appropriarsi è attribuire specialmente ad una delle Persone della Trinità ciò che nella sua natura è comune a tutte e tre. Pertanto, l’appropriazione non riguarda mai caratteri esclusivamente personali. Se dico del Figlio che è generato dalla Sapienza, dello Spirito Santo che è il Dono del Padre e del Figlio, non mi approprio di questi nomi: sono loro propri, così come il titolo di Figlio e Spirito Santo. Né c’è appropriazione quando, parlando di questa o quella Persona divina, si afferma semplicemente di Essa un attributo, una funzione che si trova in altri luoghi della Scrittura affermata anche degli altri; tranne forse in certi casi di cui sarebbe inutile fare qui menzione. E questo è quello che volevo dire quando ho detto « attribuire specialmente ». Se dico della creazione che sia opera della potenza del Padre, della sapienza del Figlio e della bontà dello Spirito Santo, questa è l’appropriazione. Infatti, sebbene queste tre perfezioni siano comuni, non mi sarebbe permesso invertire l’ordine dei termini, attribuendo al Padre la sapienza, al Figlio la bontà, allo Spirito Santo la potenza. – Le appropriazioni, lungi dal nuocere alla vera comprensione della Trinità, la facilitano e la illuminano. Le vestigia o immagini delle Persone divine che le creature ci offrono, ci aiutano a concepire meglio i caratteri ipostatici che le distinguono; e, per non uscire da me, il mio pensiero mi rimanda al Verbo eterno, e il mio amore all’Amore personale, cioè allo Spirito Santo. Così, dalle perfezioni e operazioni comuni che la mia ragione può cogliere, mi innalzo a nozioni meno fluttuanti e più chiare del mistero che la fede mi ha fatto intravedere attraverso i suoi veli. Questo è lo scopo delle appropriazioni; ma è anche quello che deve esserne la Legge. – Affinché l’appropriazione ci sia utile, è necessario che ci sia un particolare rapporto di somiglianza, una speciale analogia tra le Operazioni appropriate all’una o all’altra Persona e la Proprietà distintiva della stessa Persona (S. Thom, 1 p. q. 39, a, 7 e 8; Leone XIII, Encycl., Divinum illud munus (1897). Percorrete tutte le appropriazioni contenute nella Scrittura o nei santi Dottori, e ovunque vedrete che poggiano su questo necessario fondamento: « Da ciò proviene – dice San Bonaventura – che dove nulla ricorda in alcun modo l’ordine e l’origine delle Persone, non è possibile alcuna appropriazione » (San Bonaventura, I, D. 34, q. 3.): perché invece di essere un aiuto per raggiungere il fine perseguito, diventerebbe un ostacolo. – Una volta poste queste premesse, si offre la soluzione che stavamo cercando. E questa soluzione l’ho ricevuta da San Tommaso. « L’atto di adottare – ci dice, – è universalmente appropriato a tutta la Trinità, poiché una è la sua operazione come una è la sua essenza. Tuttavia, può essere appropriato soprattutto al Padre, poiché questo atto è manifestamente in più stretto rapporto di similitudine con il carattere personale del Padre » (S. Thom., III, D. 10, q- 2, a. 1, sol. 2.). Quale analogia si può trovare tra la paternità dell’adozione e i titoli del Verbo di Dio, Figlio unico, dello Spirito Santo, l’Amore personale, che sono proprietà di altre Persone? Certamente nessuno. Questo è sufficiente, dunque, per avere il diritto di riservare, secondo la legge di appropriazione, il Nome di Padre dei figli adottivi a Colui che nell’augusta Trinità porta eternamente il dolce e glorioso nome di Padre. – Secondo la testimonianza dei Padri, una delle ragioni principali per cui piacque a Dio di operare il mistero dell’Incarnazione nella Persona del Figlio piuttosto che in quella del Padre, anche se quest’ultimo poteva ugualmente unirsi ipostaticamente alla nostra natura, risiede nella convenienza dei Nomi. Se il Padre si fosse fatto uomo nel grembo benedetto della Vergine, sarebbe stato padre e figlio; padre come Dio, figlio come uomo. Quindi non so quale confusione sia possibile nei nomi e nei titoli. È per una ragione simile che chiamiamo singolarmente nostro Padre proprio Colui che nella Trinità porta esclusivamente questo Nome divino. Quando mi considero come suo figlio, mi ricordo più facilmente di questa Paternità superiore che lo distingue dalla seconda Persona e, attraverso di Lui, dalla terza; e concepisco anche con meno difficoltà come abbia potuto essere adottato, poiché Colui che mi adotta come suo figlio si presenta a me in tutto lo splendore di una fecondità eterna ed infinita.

2. – Senza voler ritornare su ciò che abbiamo già scritto sulla nostra adozione, dobbiamo però risolvere una doppia questione che è molto strettamente legata ad essa per essere totalmente scartata. Si chiede quindi, in primo luogo, se la relazione di figlio adottivo con Dio Padre sia così propria degli esseri dotati di intelligenza, e che nessun’altra creatura al di sotto di loro possa condividerne la gloria. Per quanto la cosa possa sembrare incredibile, ci sono state alcune menti sottili all’eccesso che un tempo ammettevano la possibilità di una tale comunicazione. Tali opinioni meritano solo il silenzio; e non le avrei richiamato qui da un oblio fin troppo legittimo, se non mi fosse sembrato che fornissero materia per un utile chiarimento. Ecco, in sostanza, la ragione fondamentale su cui hanno costruito la loro strana ipotesi. Il principio interiore dell’adozione, dicevano, non è altro che la grazia, cioè una qualità puramente accidentale, con la sostanza come soggetto e supporto. Chi potrebbe dunque impedire a Dio Onnipotente di infondere una realtà simile in sostanze meno nobili della nostra, e renderle così partecipi della nostra figliolanza? Senza dubbio esse proverrebbero da un livello inferiore; ma non sappiamo che tutto risponde alla chiamata di Dio, la materia come lo spirito, il nulla come ciò che è? Questo può essere un argomento specioso, ma è un argomento che decade di fronte ad una semplice osservazione. Sì, senza dubbio, la grazia è un accidente; ma questa qualità, la cui funzione propria è di assimilarci al Figlio per natura, non può avere altro soggetto che una sostanza ragionevole, e Dio stesso, con la sua onnipotenza, non la produrrà mai in una natura dove non c’è né ragione né intelligenza, perché la sua potenza non arriva fino all’impossibile. Crederei più facilmente che Dio possa formare un essere intelligente e libero da una pietra che rimane una pietra, che ammettere che Dio abbia il potere di elevare una creatura puramente sensibile alla dignità di un figlio adottato. È perché dovrebbe dare all’uno la ragione, e all’altro, con la ragione, la grazia?  « Tu dici che la natura umana sia buona e meriti l’aiuto di una tale grazia; e io sarei volentieri d’accordo, se questo volesse semplicemente dire che è una natura ragionevole. Sappilo bene, la grazia di Dio non è data né alle pietre, né al legno, né alle bestie: ciò che rende l’anima capace di riceverla è che essa è l’immagine di Dio. » Così parlava S. Agostino, il grande difensore della grazia, a Giuliano di Eclano, discepolo e continuatore di Pelagio (S. Agostino, L. IV, c. Giuliano, c. 3). Cos’è la grazia? Una partecipazione della natura propria di Dio, e quindi un principio che, depositato da Dio nelle anime dei figli che adotta, li rende idonei a possedere l’eredità celeste. È dunque un principio di conoscenza e di amore, poiché Dio stesso si possiede con la conoscenza e con l’amore. Ma non dobbiamo immaginare questo principio soprannaturale come una facoltà completa. Esso trasforma l’anima ragionevole, eleva i suoi poteri ad altezze sconosciute, ma non sostituisce né l’una né gli altri. I nostri poteri naturali non contano nulla nella produzione di atti soprannaturali. Se la grazia santificante e le virtù, suo corteo regale, richiedono la sostanza e le sue potenze native a supporto, le richiedono anche per l’azione: perché il principio completo dell’operazione non è né la grazia né la natura da sola, ma la natura trasformata, vivificata dalla grazia, in una parola, la natura ragionevole divinizzata. Non ego, sed gratia Dei mecum (I Cor., XV, 10,). – Di conseguenza, la grazia che sarebbe in qualsiasi altra sostanza una sostanza spirituale, così come l’erede di Dio che non fosse un essere ragionevole, sono entrambi un non senso. Non importa che la grazia sia un accidente; perché ogni accidente non è adatto ad ogni sostanza, a ciascuno le forme e le qualità che gli sono proprie. Non si possono dare al puro spirito le qualità dei corpi, come l’estensione o la densità; come potrebbe un essere corporeo ricevere forme appartenenti per la loro essenza all’ordine degli spiriti? Concludiamo, dunque, che se tutte le creature ragionevoli non sono adottate dal Padre, poiché non tutte hanno accettato il beneficio della grazia, Egli non può adottare nessuno che non abbia prima dotato del carattere del suo Verbo, l’intellettualità.

3. – La relazione di figli di adozione, che è impossibile trovare al di sotto della creatura ragionevole, non si troverebbe forse al di sopra di essa, cioè nella Persona di Gesù Cristo Nostro Signore, il Verbo fatto carne? Questa è la seconda domanda che dobbiamo esaminare. Sembrerebbe, a prima vista, che essa debba essere risolta con la conferma. Infatti, questo Cristo, figlio di Maria, esiste, come noi, solo per libera volontà del Padre, e questa è la conseguenza naturale dell’unione ipostatica (S. Thom, 3 p., q. 2, a: 12). Egli ha nella sua anima umana quella grazia che ci rende figli: più perfetta, più abbondante, poiché la possiede in pienezza, allo stato di fonte, ma fondamentalmente creata come la nostra. Se dunque la grazia santificante è la forma della nostra adozione, perché il nostro Signore, considerato come uomo, non dovrebbe essere per questo un figlio adottivo del Padre, il primo nella famiglia dell’adozione, come è il primo nel possesso della grazia? – Io lo so, e ogni Cattolico mi risponderà: Gesù Cristo è un uomo, ma quest’uomo è Dio; di conseguenza, poiché l’uomo e Dio si identificano in Lui nell’unità di una stessa Persona, Dio non può essere figlio secondo natura se l’uomo non è come Lui. Così la beata Vergine, avendo generato l’uomo nel suo casto grembo, è diventata veramente e realmente la Madre di Dio; così il Padre, comunicando da tutta l’eternità la sua natura a Colui che porta nel suo seno, è anche il Padre dell’uomo, quando questi ha assunto la nostra natura. La ragione è sempre la stessa: l’unità della Persona, in virtù della quale Dio è uomo e l’uomo è Dio. Con questi principi i Padri, all’inizio del IX secolo, hanno confuso gli eretici che vedevano in Cristo Gesù solo un figlio adottivo come noi, più grande, è vero, perché è il primogenito, ma nella sua filiazione, della nostra stessa natura. Pur professando questo dogma essenziale della nostra fede, chi può vietarci di dire che il Figlio di Dio fatto uomo è al Padre in un doppio rapporto: Figlio secondo natura, poiché ha ricevuto per generazione la divinità del Padre; Figlio per adozione, poiché ha ricevuto per infusione, nella sua natura creata, la grazia, la forma dell’adottato? Certamente, non oserei dare l’infame marchio di eretico a chi pensasse e insegnasse questo. Oltre al fatto che la Santa Chiesa non ha mai condannato direttamente l’opinione che ho appena riportato, chi può vedere per quale profonda differenza differisce dall’errore così giustamente condannato negli Adozionisti, poiché ammette, accanto alla filiazione adottiva e nell’unità della stessa Persona, la filiazione naturale che essi rifiutarono a Cristo Gesù. – Ma, fatta questa riserva, sostengo, appoggiata sull’affermazione unanime dei più grandi maestri, che il titolo di adottivo è esclusivamente proprio delle creature pure, e che non può, in nessuna misura e per qualsiasi motivo, diventare l’attributo del Verbo considerato nella sua carne. Gesù Cristo è il Figlio per natura e può essere solo quello. I Padri, quindi, nella loro lotta contro gli eretici, hanno ripetutamente protestato contro qualsiasi idea di adozione quando si tratti del Figlio eterno di Dio. Ora, tra le ragioni che hanno dato, ce n’è una in particolare che, ripresa dai teologi della Scuola, è di per sé una dimostrazione irrefutabile. È che l’adozione, per sua natura ed essenza, è incompatibile con la filiazione naturale nell’adottato. Chi, poi, ha mai parlato di adottare, non una persona estranea per nascita, ma il proprio figlio, il figlio del proprio grembo, o di portare nella casa familiare per libera scelta uno che, per natura, è già lì? (c’era, è vero, nella legislazione romana un caso molto eccezionale in cui un uomo, privato del suo potere di padre, poteva adottare il proprio figlio: ma, per quanto riguarda Dio, il caso sarebbe una chimera assurda). Questa prova assolutamente invincibile si è tentato di attenuarla, ed ecco con quali sottigliezze. Perché, si chiede, il titolo di “adottivo” dovrebbe essere inconciliabile in Nostro Signore Gesù Cristo con la filiazione della natura, dato che vediamo tanti altri attributi, non meno incompatibili in apparenza, allearsi in Lui, nonostante l’unità della sua Persona? Impassibile, soffre; immortale, muore; immutabile per essenza, è come noi soggetto al cambiamento. La diversità delle nature è sufficiente a spiegare questi opposti. Così diremmo che è Figlio per natura e Figlio per adozione, ma da punti di vista diversi: Figlio per natura in virtù della sua generazione eterna, Figlio per adozione in virtù della grazia che lo santifica nella sua umanità. – Questo ragionamento non regge all’esame. Sì, Gesù Cristo può essere allo stesso tempo impassibile e passibile, immortale e mortale, immutabile e mutevole, perché queste attribuzioni sono appropriate prima di tutto alle nature e, solo attraverso esse, alla Persona che le contiene nella sua unità indivisibile. Questo non è più il caso della filiazione, perché è immediatamente e direttamente un attributo della sola Persona. Quando mi dite che Gesù Cristo è sia immortale che mortale, posso ascoltarvi senza difficoltà, perché capisco che avendo due nature, una che è la vita stessa, l’altra soggetta alla mortalità, Egli può allo stesso tempo morire nella prima e vivere nella seconda (“Mortificatus quidem carne, vivens autem Spiritu“, i. e. divinitate, – I Petr., III, 18). Ma, ancora una volta, la filiazione si afferma della Persona e non della natura. Si è mai detto di una natura umana o divina che è nata, che è un figlio o una figlia? Perciò, affermare della Persona di Gesù Cristo che Egli è il Figlio naturale di Dio è dire equivalentemente che non è un figlio estraneo per natura, e ricevuto per grazia; e viceversa, dire che è un Figlio adottivo è negare allo stesso tempo che Egli sia il Figlio di Dio per natura, e di conseguenza negare che Egli sia Dio. I pochi teologi che, come Durand o Scoto, non hanno visto questa conseguenza, possono essere scusati nel loro errore; ma dopo i chiarimenti che la questione ha ricevuto, sarebbe per lo meno avventato seguirli. – Inoltre, non dobbiamo credere che la grazia santificante e le virtù che la accompagnano, poiché non sono in Gesù Cristo il principio e il fondamento dell’adozione, siano qualità senza frutto e senza scopo. Dio non voglia! L’unione personale della natura umana con il Verbo ne conferisce la natura di un Dio; ma formalmente da sola non la divinizza nel suo essere naturale; non le dà quell’elevazione delle facoltà che le rende capaci di produrre connaturalmente atti al di sopra della natura, atti, in una parola, che sono il merito nella via, la gloria nella patria. Questa deiformità, l’anima di Gesù Cristo l’ha dalla grazia, e questa perfezione d’azione, dalle virtù infuse, compagne e seguaci inseparabili della stessa grazia (S. Thom., 3 p., q. 7, a. 1, cum parallel., c, g. de Verit., q. 29, a. 1, ad 1).

4. – Volete sapere ora quale incomparabile onore è per voi avere Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo, come vostro padre, e con quale rendimento di grazie un tale beneficio debba essere ripagato? Ascoltate San Pietro Crisologo che commenta le prime parole dell’orazione domenicale. « La parola che sto per dire con incredibile timore, che voi stessi non ascolterete e non ripeterete con terrore, fa sì che gli Angeli siano terrorizzati e le Virtù in un santo spavento. Il cielo non può capirlo, né il sole penetrarlo, né la terra può sostenerlo; in una parola, è al di sopra di tutte le creature. Paolo, dopo aver contemplato invisibilmente questo mistero, ce lo rivela senza rivelarcelo, quando esclama: Ciò che occhio non ha visto, ciò che orecchio non ha udito, ciò che non è entrato nel cuore dell’uomo, ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano, Dio ce lo ha rivelato per mezzo dello Spirito Santo… (1 Cor. II, 9-10 ), « Padre nostro che siete nei cieli. » Questo è ciò che avevo paura di dire; questo è ciò che la condizione servile delle nature celesti, come quella delle nature terrene, ci proibirebbe persino di sospettare; che si stabilisca improvvisamente tra il cielo e la terra, tra la carne e Dio, un commercio così stretto che Dio diventi uomo, e l’uomo Dio; il Signore uno schiavo, e lo schiavo un figlio; in una parola, che la natura umana e la divinità siano unite in modo ineffabile dal legame di una parentela eterna. Una relazione così meravigliosa che la creatura non sa cosa dovrebbe ammirare di più: che Dio sia sceso fino alla nostra bassezza o che ci abbia innalzato all’eccellenza della sua divinità. « Padre nostro che siete nei cieli. Non siete stupiti? Dal seno di Dio Padre, Cristo chiama una creatura con il nome di madre; e l’uomo, dal seno della Chiesa sua madre, chiama Dio suo Padre. « Padre nostro che siete nei cieli. Vedi, o uomo, a quali altezze ti ha portato subitamente la grazia, a quali altezze ti ha portato la natura celeste; tu abiti nella carne e sulla terra, e dici, come se non fossi né dell’una né dell’altra: « Padre nostro che siete nei cieli. Spetta dunque a colui che si crede e si confessa figlio di un tale Padre, corrispondere a questa nascita con la sua vita, a questa paternità con i suoi costumi; che attesti con i suoi pensieri e le sue azioni ciò che ha ricevuto dalla natura divina » (S. Petr. Chrysol, serm. 72, in orat. dom. P. L., vol. 52, p. 404. – « Era – dice Bourdaloue a questo proposito – un errore dei pagani, un errore tanto grossolano quanto presuntuoso, immaginare di essere figli degli dei, perché mettevano i loro antenati tra gli dei. Ma questo errore, anche se grossolano, come osserva Agostino, non mancò di ispirar loro sentimenti elevati: perché fu da questo che, confidando nella grandezza e nella presunta divinità della loro origine, intrapresero cose difficili ed eroiche con maggiore audacia, le portarono a termine con maggiore risoluzione, e le portarono a termine con maggiore felicità: Et sic animus, divinæ stirpis fiduciam gerens, res magnas præsumebat audacius, agebat vehementius, el implebat ipsa felicitate securius. Non sembra che tra le tenebre del paganesimo ci fosse già qualche raggio o inizio di Cristianesimo; e non sembra che la Provvidenza, che sa trarre profitto dal male stesso, si stesse servendo degli errori degli uomini per preparare il mondo alla vera religione? » (2° Sermone sull’Annunciazione della Vergine, 3 punto).

LA GRAZIA E LA GLORIA (24)

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (21)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (21)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO NONO (1)

Elevazione alla Trinità

(Commento)

« O miei Tre, mio Tutto, mia Beatitudine,

Solitudine infinita, Immensità

in cui mi perdo… ».

O mio Dio, Trinità che adoro…

Guardare un’anima che prega, è sorprenderla nel momento della sua maggiore intimità con Dio, come il Sacerdote all’altare. L’orazione è la sintesi di un’anima: quale la preghiera, tale la vita. Tutto il genio dottrinale di un san Tommaso d’Aquino rifulge nel suo « Ufficio del santissimo Sacramento ». Lo stesso Verbo Incarnato non si sottrae a questa legge della nostra psicologia umana; e la sua « preghiera sacerdotale » è la suprema rivelazione del suo Cuore: Cuore di Cristo. Nulla manifesta meglio il suo amore per il Padre e la sua carità redentrice per i fratelli, quanto il movimento circolare di quest’Anima che parla al Padre della sua gloria e della consumazione di tutti nell’Unità: vi è tutto il suo mistero di « Cristo ». Così è della preghiera dei Santi. Suor Elisabetta della Trinità non ha scritto, come la santa Madre Teresa, un trattato sull’orazione; ma la sublime preghiera: « O mio Dio, Trinità che adoro… », ci dà la testimonianza più ricca sulla maniera tutta Carmelitana di concepire la vita di orazione: una comunione incessante con la Trinità. « La preghiera non consiste in una determinata quantità di orazioni vocali che ci si impone di recitare ogni giorno; ma in un’elevazione dell’anima a Dio, attraverso tutte le cose, la quale ci stabilisce in una specie di comunione continua con la Trinità Santa, semplicemente facendo tutto sotto il suo sguardo » (Lettera a G. de G… – Febbraio 1905.). Composta d’un sol getto, senza la minima correzione, in un giorno in cui tutto il Carmelo rinnovava i voti, questa preghiera è la sintesi della vita interiore di suor Elisabetta. I tratti essenziali della sua anima vi si ritrovano perfettamente delineati: la grande devozione della sua vita: la Trinità — la forma propria della sua vita di orazione: l’adorazione — la sua tenerezza appassionata per il Cristo « amato fino a morirne, amato sulla croce — infine lo slancio irresistibile verso i « Tre », « sua beatitudine, suo tutto, solitudine infinita in cui l’anima si smarrisce ». Non vi è nominata la Madonna, ma Essa c’è, lo si sente dalla stessa data autografa: novembre 1904, festa della Presentazione. Vi manca soltanto — e questo è da notare — l’eco dell’ascesa suprema: gli ampi orizzonti della sua vita di « lode di gloria » le sono ancora ignoti. Di fronte ad una tale preghiera, una delle più belle del Cristianesimo, abbiamo esitato a lungo, prima di arrischiarci ad un commento, provando qualche cosa di simile all’imbarazzo che deve provare l’esegeta o il teologo in presenza della preghiera sacerdotale di Cristo. Tutti gli umani commenti esegetici o teologici, per quanto sublimi siano, dispereranno per sempre di poter giungere ad esprimere la semplicità tutta divina dell’ultima preghiera di Gesù per l’unità: « Ut unum sint…» (S. Giov. XVII, 21). Ma abbiamo pensato alle tante anime contemplative per le quali questa elevazione alla Trinità è divenuta una delle preghiere più care, e costituisce tutto un programma di vita interiore in cui trovano il segreto dell’oblio di sé. Una Carmelitana ci scriveva: « Ognuna di queste parole mi introduce nell’orazione; è una preghiera che raccoglie la mia anima quanto i più sublimi trattati di mistica ». Avendo studiato molto da vicino, e per degli anni, quest’anima privilegiata, forse il commento che intraprendiamo sarà di qualche utilità per farne penetrare il senso vero e così profondo. Senza volere imporre al movimento di quest’anima essenzialmente contemplativa delle divisioni troppo rigide, mi sembra che si potrebbero distinguere in questa preghiera cinque aspetti principali:

1° – Un primo slancio spontaneo dell’anima verso quella Trinità che è divenuta il tutto della sua vita: « O mio Dio, Trinità che adoro… ».

2° – La descrizione del clima spirituale in cui si muove la sua vita contemplativa al centro dell’anima, in una atmosfera di pace immutabile: «Pacifica l’anima mia… ».

3° – Un movimento di tenerezza appassionata verso il suo Cristo « amato fino a morirne ». Le parole si incalzano, esprimendo, nel ritmo accelerato, l’impeto dei sentimenti un’anima il cui ideale ardentemente vagheggiato è di essere immedesimata con tutti i movimenti dell’anima di Cristo: « O mio Cristo adorato… ».

4° – Poi l’invocazione subitanea e successiva a ciascuna delle Tre Persone divine verso le quali è protesa la sua vita: « O Verbo eterno… O Fuoco divorante… E tu, o Padre… ». Si indugia soprattutto nel Verbo, più accessibile per la Sua Incarnazione ai nostri occhi di carne, con l’anima affascinata da questo « Verbo eterno, Parola del suo Dio ». Lo « Spirito d’amore» pure è invocato, ma perché compia in lei quasi una incarnazione del Verbo, ed essa sia per Lui un prolungamento di umanità nella quale il Padre possa ritrovare il volto di Cristo « in cui ha posto tutte le sue compiacenze ». Cristo è veramente al centro di questa sua preghiera, come tutta la sua vita.

5° – Un grido finale con cui si compie questa invocazione alla Trinità. Il tema dell’inizio: « O mio Dio, Trinità che adoro…» viene ripreso dalla sua anima di artista, ma ripreso con uno sviluppo ampio, con un largo movimento ritmico che trasporta definitivamente l’anima negli abissi della Trinità: « O miei Tre…, io mi abbandono a Voi come una preda!… ».

I.- O mio Dio, Trinità che adoro.

« O mio Dio! ». L’anima sua va dritta, non alle perfezioni divine, ma all’essenza, sorgente di tutti gli attributi; a Dio stesso. « Trinità! ». Non il Dio dei filosofi e dei sapienti, ma il Dio dei Cristiani e dei mistici: Padre, Verbo, Amore. Altre anime saranno più particolarmente attirate verso il Padre, come una santa Caterina da Siena, per esempio; o verso il Figlio quali una santa Geltrude, una santa Margherita Maria; oppure verso lo Spirito Santo; e la Chiesa le legittima tutte, queste forme di preghiera, poiché anch’Essa, nella sua liturgia, si rivolge ora al Padre, ora al Figlio, ora allo Spirito Santo. Il culto è indirizzato alle Persone che, nella Trinità, rimangono infinitamente distinte. Un san Tommaso d’Aquino poi, da vero teologo, rivolgerà particolarmente la sua devozione alla « Trinità nell’unità », raccogliendo in una formula sintetica tutta l’essenza del mistero. Suor Elisabetta della Trinità non è tanto colpita da questo aspetto intimo del mistero in se stesso, quanto invece occupata a scoprirvi il termine beato ed esplicito della sua vita di unione: « La Trinità: ecco la nostra dimora, la nostra cara intimità, la casa paterna donde non dobbiamo uscire mai » («Il paradiso sulla terra » – 1° orazione.). Bisognava sentire con quale accento di tenerezza, premendo le mani sul cuore come su di una presenza amata, ella parlava dei suoi « Tre! »: « Amo tanto questo mistero! È un abisso nel quale mi perdo ». « Che adoro!…». L’adorazione è la forma propria di questa vita di adorazione. Essa ama l’atteggiamento dei beati nella Città eterna, descritto negli ultimi capitoli dell’Apocalisse: « Si prostrano e adorano, gettando palme dinanzi al trono dell’Agnello ». Con questa forma principalmente adoratrice della vita di orazione, quanto siamo lontani da quella moltitudine di anime mendicanti che sembrano non accostarsi a Dio che con la mano tesa per ricevere! Da vera contemplativa che possiede il senso di Dio, ella, prima di tutto, gli rende omaggio in ragione delle di Lui perfezioni senza limite o, secondo la sua formula prediletta, « a causa di Lui stesso ». La sua anima religiosa si esprime con tutta naturalezza nell’atteggiamento che è il più fondamentale dinanzi a Dio: l’adorazione. La preghiera di supplica considera l’indigenza bisognosa di aiuto, il ringraziamento serba uno sguardo sui benefici ricevuti, l’espiazione è unita al ricordo dei peccati commessi; soltanto l’adorazione contempla Dio in se stesso, nell’eccellenza increata della sua Essenza e delle sue Persone. Dinanzi alla gloria del suo Dio, l’anima dimentica tutto: « L’adorazione è l’estasi dell’amore annientato dalla bellezza, dalla forza, dalla grandezza immensa dell’oggetto amato » (Ultimo ritiro – VIII giorno.). « Aiutami a dimenticarmi interamente». Il grande ostacolo della Carmelitana e di ogni anima contemplativa in generale, è il proprio io. « L’amor proprio non muore che un quarto d’ora dopo di noi », diceva sorridendo san Francesco di Sales, e i Santi hanno sferrato le loro più tremende battaglie contro se stessi per la distruzione di questo « io » così tenace. Del resto, non deve meravigliarci che persista così ostinatamente anche nelle grandi anime, anche in quelle da Dio predilette, fino al giorno in cui piaccia al Maestro, per una grazia tutta gratuita, di liberarle per sempre. Suor Elisabetta della Trinità, che Dio aveva destinato per vocazione speciale ad essere modello e patrona delle anime interiori, doveva imparare con la propria esperienza quale sia il grande scoglio di queste anime che Dio vuole profondamente raccolte in se stesse, per vivervi di Lui solo. La sua vita spirituale, per lungo tempo, fu ingombrata dal suo povero « io ». Ne soffriva. Ma nulla riusciva a liberarla. Questa liberazione sovrana dell’anima non può essere che il trionfo della grazia e uno degli effetti supremi dei doni dello Spirito Santo. Non a caso, dunque, ma sotto l’impulso di un pensiero che sempre l’assilla nell’intimo, ella, fin dalla seconda frase di questa preghiera sublime, ricade sopra di sé, ultimo gemito di un « io » che non tarderà a morire; « Aiutami a dimenticarmi interamente ». Tre giorni dopo la composizione di questa preghiera, tornava sullo stesso pensiero: « I Santi, quelli sì, avevano capito la vera scienza; la scienza che ci fa uscir da tutto e principalmente da noi medesimi, per slanciarsi in Dio e non farci vivere che di Lui » (Lettera alla signora A… – 24 novembre 1904). « Interamente…» . Comprendiamolo bene: « dimenticarsi interamente ». Non essere arrestati più da niente nello slancio verso Dio, né dagli avvenimenti esteriori, né dalle vicissitudini interiori… Suor Elisabetta della Trinità mira alto: si tratta di giungere a quella trasformazione in Cristo, che san Paolo esprime con formula ardita: « Non vivo più io, ma Cristo vive in me ». Quale oblio di sé, richiede! Quale morte! Il grande santo scriveva ai Colossesi: «Voi siete morti, e la vostra vita è nascosta con Gesù Cristo in Dio ». Ecco la condizione: bisogna essere morti. Altrimenti, si può essere nascosti in Dio ogni tanto, ma non si vive abitualmente in questo Essere divino; perché la sensibilità e tutto il resto vengono a ricondurci fuori. L’anima non è tutta intera in Dio » (Ultimo ritiro – VI giorno). E ancora: « Mi sono isolata, separata, spogliata di tutto e di me stessa, tanto nell’ordine naturale che nell’ordine soprannaturale, anche riguardo ai doni di Dio; perché un’anima che non sia morta a se stessa, libera del proprio io, sarà per forza, in certi momenti, banale e umana; e ciò non è degno di una figlia di Dio, di una sposa di Cristo, di un tempio. dello Spirito Santo » (Ultimo ritiro – X giorno.).  – « Aiutami! ». Questa sovrana liberazione, nei Santi, è il trionfo supremo della grazia sulla natura. E suor Elisabetta della Trinità implora umilmente: « Aiutami! ». Noi sappiamo che Dio esaudì la preghiera della sua umile serva. Un anno dopo, poteva scrivere ad un’amica: « Vi pare che sia tanto difficile dimenticarsi? Se sapeste … invece, come è semplice! Ve ne confiderò il segreto, il mio segreto: pensate a quel Dio che abita in voi e di cui voi siete tempio. Ce lo dice san Paolo, possiamo dunque crederlo. A poco a poco, l’anima comprende che porta in sé un piccolo cielo dove il Dio d’amore ha stabilito il suo soggiorno, e si abitua a vivere nella sua dolce compagnia. Allora respira in un’atmosfera quasi divina; anzi, non è sulla terra che col corpo, e l’anima sua abita in Colui che è l’Immutabile. Ed eccone anche il metodo: non certo guardando e riguardando la nostra miseria, saremo purificate, ma guardando Colui che è la stessa purezza e santità » (Lettera alla signora A… – 24 novembre 1905.). « Per fissarmi in Te…». L’anima interamente sciolta da se stessa e giunta sulle purissime vette della montagna del Carmelo, entra definitivamente nel ciclo della vita Trinitaria: è stabilita in Dio. Questa intimità con Dio era divenuta così familiare a suor Elisabetta della Trinità, che le sembrava Egli stesse per comparire, da un momento all’altro, nel giro degli ampi chiostri: «Dio in me e io in Lui, oh! è la mia vita ». « Immobile e quieta, come se l’anima mia già fosse nell’eternità ». È uno dei frutti di questa spiritualità contemplativa; rapire l’anima alle sue preoccupazioni meschine ed a se stessa per fissarla in un’atmosfera di eternità. Ogni anima cristiana non dovrebbe considerarsi in esilio sulla terra? poiché la grazia del Battesimo ha deposto in lei il germe di quella esistenza immutabile, ed essa già vive per mezzo della fede, nella luce del Verbo. C’è una parola, nel Credo, ineffabilmente profonda, che esprime bene l’atteggiamento fondamentale di ogni anima di fede di fronte a questo mondo che passa: « Exspecto, attendo la vita eterna ». (Questo presentimento di eternità diveniva sempre più dominante, nell’anima della serva di Dio, a mano a mano che gli anni passavano. L’anima sua abitava già tutta quanta nell’al di là, invisibile, ma tanto vicino. Negli ultimi mesi, si udiva mormorare: « Egli non mi parla più che di eternità ». « Immobile e in pace… ». La pace occupa un posto di capitale importanza in questa dottrina spirituale; suor Elisabetta vi ritorna per tre volte nella sua breve preghiera: « Immobile e in pace come se la mia anima già fosse nell’eternità ». — « Che nulla possa turbare la mia pace ». — « Pacifica l’anima mia ». Questa pace che supera ogni senso non viene dalla terra, ma ha la sua origine in un attributo divino: « Nulla possa farmi uscire da Te, o mio Immutabile ». Sant’Agostino ce ne ha lasciato una definizione celebre: « Pax est tranquillitas ordinis: la tranquillità dell’ordine ». La pace spirituale è un’armonia delle potenze dell’unità, è la fusione dei loro sforzi verso un unico fine. Ha per principio Dio amato in tutto e al di sopra di tutto. I teologi lo sanno che la pace è uno degli effetti interiori della carità; sanno che in una anima tutta ordinata a Dio, regna la pace. Suor Elisabetta della Trinità ce ne ha dato delle spiegazioni conformi: « È fare l’unità in tutto il proprio essere per mezzo del silenzio interiore; è raccogliere tutte le proprie potenze per occuparle nel solo esercizio dell’amore » (Ultimo ritiro – II giorno.). « Se i miei desideri, i miei timori, le mie gioie o i miei dolori, se tutti i movimenti che derivano da queste quattro passioni non sono perfettamente ordinati a Dio, vi sarà del rumore in me e io non avrò la pace. Occorre dunque la quiete, il sonno delle potenze, l’unità dell’essere » (Ultimo ritiro – X giorno.). Allora, l’anima non ha più da temere i contatti esterni né le difficoltà interiori » (Ultimo ritiro – II giorno.), poiché « essendosi, la sua volontà, perduta nella volontà di Dio, le sue inclinazioni, le sue facoltà, non si muovon più che in questo amore e per questo amore» (« Il paradiso sulla terra » – 7° orazione.). « Le cose, lungi dall’esserle un ostacolo, non fanno che radicarla più profondamente nell’amore del suo Maestro » (Ultimo ritiro – VIII giorno). Nell’unità delle potenze tutte per Cristo vigilate e custodite, regna la pace immutabile. « Che ad ogni istante io mi immerga sempre più nelle profondità del tuo mistero ». Si rivela, in questa invocazione, l’anima ardente della santa Carmelitana, il suo desiderio di realizzare ogni giorno di più il perché fondamentale di ogni vita religiosa: tendere alla perfezione. Questa preoccupazione amorosa del più perfetto, che santa Teresa aveva fatto oggetto di un voto speciale, si ritrova nella sua figliola ad un grado eminente. È — perché non confessarlo? — l’impressione dominante che risulta in noi dai molti anni di contatto con suor Elisabetta della Trinità, è la rapidità, continuamente accelerata, del suo slancio verso Dio. Una Carmelitana di Digione che era con lei in grande intimità e della quale la serva di Dio diceva: « Noi siamo come le due parti di un’unica dimora », ci ha dichiarato che soprattutto la fine della sua vita durante gli ultimi otto mesi di infermeria fu un’ascesa ammirabile: « Non riuscivamo più a seguirla ». Ed ecco, allora, farsi per noi più luminosa questa frase che esprime così bene la sua avidità di perfezione sovrana: « Che, ad ogni istante, io mi immerga sempre più nella profondità del tuo mistero ». Era fermamente convinta che « ogni minuto ci è dato perché ci radichiamo sempre meglio in Dio, perché più viva sia la somiglianza col nostro divino Modello, più intima l’unione ». E il suo pensiero non cambierà. Nel ritiro che, come un testamento, compose per la sua sorella, riprenderà lo stesso pensiero, e con più ricca concisione, definendo la vita spirituale « una vita eterna incominciata, e in continuo progresso ».

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (22)

LA GRAZIA E LA GLORIA (22)

LA GRAZIA E LA GLORIA (22)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO IV.

L’ABITAZIONE SINGOLARE DI DIO NELL’ANIMA DEI SUOI FIGLI ADOTTIVI. IL FATTO E LA NATURA DI QUESTA ABITAZIONE

CAPITOLO VI.

Due corollari da trarre dai capitoli precedenti; immanenza reciproca tra i figli adottivi e Dio loro Padre; realtà dell’adozione per i giusti vissuti prima di Gesù Cristo.

.I. – La fede ci insegna che il Padre e il suo Figlio unigenito, pur conservando la loro distinzione personale, siano tuttavia uno nell’altro. « Non credete che io sono nel Padre e il Padre in me? » (Joan. XIV, 10-11) Questa è l’immanenza misteriosa espressa tra i teologi con la parola Circuminsessione: il Figlio nel Padre, il Padre nel Figlio, l’uno e l’altro nello Spirito Santo, e lo Spirito Santo in entrambi. Lungi da noi l’interpretazione bassa e volgare che farebbe riposare il dogma di questa immanenza reciproca sull’immensità delle Persone divine. È nel doppio articolo della nostra fede, l’unità della natura divina e la distinzione delle ipostasi, che dobbiamo cercarne la ragione fondamentale. « Io e il Padre mio siamo uno », cioè una sola e medesima cosa (Gv. X, 30). Si veda la distinzione tra il Padre e il Figlio: “Io e il Padre mio“; ma vedi anche l’unità della natura: “noi siamo uno; unum sumus“. Da qui questa conclusione che il Salvatore ha tratto nella continuazione dello stesso discorso: « Il Padre è in me e Io sono nel Padre mio » (id. X, 38). Diciamo meglio: non è una conclusione, ma la stessa verità che Egli afferma in termini diversi: tanto è manifesto che l’unità di natura nel Padre e nel Figlio non si possa spiegare senza la loro reciproca immanenza, e che la stessa immanenza richieda questa stessa unità. – Ecco perché i Padri del IV secolo, nelle loro controversie con gli ariani, provarono la consustanzialità del Figlio con il Padre con queste parole del Maestro: Io sono nel Padre e il Padre è in me. « Dio – diceva il grande Vescovo di Poitiers, Sant’Ilario – Dio non è in una natura estranea alla sua; Egli abita nel suo Figlio, il Figlio generato dal suo seno: Dio in Dio, perché Dio è da Dio » (« Non enim Deus in diversæ atque alienæ a se naturæ habitaculo est, sed in suo atque a se genito manet: Deus in Deo, quia ex Deo Deus est ». – S. Hilar. de Trinit. L V n-40). Da tutta l’eternità, il Padre comunica la sua natura al Figlio, e la sua natura è nel Figlio; o piuttosto è il Figlio, come è inseparabilmente il Padre. La natura del Padre nel Figlio e la natura del Figlio nel Padre, cos’altro è se non il Figlio nel Padre e il Padre nel Figlio, poiché entrambi sono identici alla loro natura? – Dal mistero di immanenza che è in Dio, scendiamo al mistero di immanenza che dobbiamo considerare nella creatura divinizzata dalla grazia. « Chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui. » » (I Joan. IV, 16) (Anche qui, non ci appelleremo all’immensità dell’universo per avere l’intuizione di parole così divine e consolanti. Questo sarebbe, ancora una volta, sminuire il mistero; infatti, l’Apostolo S. Giovanni non affermerebbe del giusto ciò che è universalmente appropriato per ogni creatura. Ancor meno attribuiremo a non so quale ſusione di nature l’esistenza reciproca di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio: poiché immaginare solo una tale mescolanza, sarebbe follia, insegnarla sarebbe blasfemia. Cosa dovremmo fare allora? Ricordarci che Dio per grazia fa entrare i suoi figli adottivi nella partecipazione della sua stessa natura. Se l’Essere soprannaturale che Egli infonde nelle loro anime non è certo la sua stessa natura, è almeno però la più alta espressione creata di essa: tant’è che basta a costituire dei figli che portino l’immagine del Padre celeste, che vivano della Sua vita, dèi da Dio. Perciò, in quanto sono figli, la natura divina e Dio con la sua natura è in loro; e viceversa, essi stessi sono in Dio, poiché la natura di cui partecipano è la natura di Dio. « Filippo – disse Gesù – chi vede me vede il Padre. Come dici allora: mostraci il Padre? Non credete voi che Io sia nel Padre e il Padre in me?… Il Padre, che è in me, compie Egli stesso le opere ». (Joan. XIV, 9-19). Queste parole del Figlio unigenito, l’uomo giusto, figlio di adozione, soprattutto colui in cui le opere corrispondono alla nascita, può, in una certa proporzione, applicarle a se stesso, non certo per glorificare se stesso, ma per esaltare Colui che fa cose così grandi in lui. Chi mi vede conosce Dio, mio Padre, perché io sono uno specchio in cui brilla il volto divino, un ritratto di se stesso che Lui solo ha fatto in me, comunicandomi la sua grazia. Chi vede Dio vede me, se non nella mia individualità, almeno nell’ideale divino che ha contemplato e che si è degnato di riprodurre in me. E quando opero come figlio di Dio, quando non sono io che vivo, ma Gesù Cristo che vive in me, è Lui stesso dentro la mia anima che compie le opere per mezzo del Suo Spirito divino. – Mi si potrebbe forse obiettare che questo ragionamento cerchi di dimostrare che ogni padre è nel figlio e ogni figlio nel padre; la sostanza dell’uno non è più distinta dalla sostanza dell’altro di quanto la grazia, la natura partecipata, sia distinta dalla natura increata da cui deriva. Non voglio tanto meno contraddire questo fatto, poiché l’uso universale qui testimonia la voce del sangue. Quale padre c’è che non si senta ravvivato in suo figlio; e quale figlio c’è che non si senta onorato o ferito in suo padre? Confesso anche che, dal punto di vista della comunità di natura, l’unione di un padre mortale con suo figlio prevalga sull’unione dell’uomo giusto con il suo Dio. Ma, d’altra parte, quest’ultima unione si presenta con un privilegio incomparabile. Nell’ordine della natura, niente è più transitorio nel suo atto, che la comunicazione da parte di un padre a suo figlio della sua stessa sostanza. Ma quando si tratta del Padre che è Dio, l’azione generativa con la quale Egli procrea i figli adottivi, essendo sovranamente intima, è anche sovranamente permanente da parte di Dio, poiché solo il peccato può fermarne gli effetti. – I Padri, per darcene un’idea, la paragonano all’impressione di un sigillo su di una cera essenzialmente morbida. Se si vuole che la figura che si forma su questa cera a sua somiglianza rimanga lì, non si deve togliere il sigillo. È così – essi dicono – che Dio fa i figli che adotta a sua immagine, ma con la differenza che la cera e il sigillo si toccano solo in superficie, mentre Dio penetra e fa penetrare con sé nella cera la sua impronta viva e attiva, come il sigillo divino di cui è la copia. – « Mettimi come un sigillo sul tuo cuore », dice lo sposo alla sposa nel Cantico (Cant. VIII, 6). Cosa voleva egli? Perfezionare la somiglianza e l’unione con un’applicazione sempre più intima di sé. E questo, mi sembra, sia il significato profondo rivelatoci da San Paolo nei testi in cui ci presenta come sigillati (signati = segnati con un sigillo) da Dio nello Spirito Santo (II Cor. 1-22; Ef. I, 13; 1V, 30). – Non vedete Dio doppiamente immanente in noi? Immanente attraverso la grazia creata, l’immagine vivente della sua natura. Immanente per la sua stessa natura, cioè per la grazia increata, poiché l’una è inseparabile dall’altra, come l’impronta del sigillo che la forma e la conserva. Egli segue la partecipazione della sua natura con la sua essenza; la segue con il suo amore: infatti, secondo la bella parola di S. Dionigi l’Areopagita: « Amor divinus est extasim ſaciens, l’amore di Dio è estatico » (S. Dionigi. Ar. de div. Nom, 6. IV, § 13), come se Dio, in forza di questo amore, uscisse in qualche modo da se stesso verso l’oggetto delle sue compiacenze divine e si donasse a lui. – Abbiamo detto a lungo su quali basi e in che modo abbiamo Dio in noi. Anche se abbiamo avuto occasione di mostrare più di una volta come siamo in Lui, è ancora necessario mettere questa verità in una luce maggiore. Non c’è bisogno di lunghe considerazioni o di nuovi principi. Ripercorriamo semplicemente nella nostra mente ciò che Dio fa per i suoi figli e come li ami. « Dio non è lontano da ciascuno di noi, perché in Lui abbiamo vita, movimento ed essere » (Act. XVII, 28-28). – L’Apostolo, quando parlava così, si poneva soprattutto dal punto di vista dell’ordine naturale. Quanto più vere appariranno queste stesse parole se applicate all’ordine della grazia! – Sì, siamo in Dio: perché in quest’ordine Dio, Dio solo, non solo è la prima causa efficiente dei suoi doni, ma non c’è, né può esserci, nessun’altra causa principale con Lui. Se Egli si degna di impiegare le creature nell’opera della nostra santificazione, è come degli strumenti che da soli non hanno alcuna proporzione con l’effetto da produrre. Noi siamo in Dio: perché in quest’ordine Egli ci avvolge da ogni parte e nella nostra interezza, sostanza, facoltà spirituali, corpo medesimo; ci avvolge, io dico, e mille e mille altri con noi, nell’unità della stessa famiglia adottiva. Noi siamo in Dio, immersi e riscaldati nel suo cuore, perché Egli ci ama come suoi figli adottivi, come amici, come altri se stesso, fatti a sua immagine, generati dal suo seno paterno e vivi della sua vita. Noi siamo in Dio; perché se l’Apostolo San Paolo, nel suo amore per i fedeli di Corinto, poteva scrivere loro: « Vi porto nel mio cuore, in vita e in morte: o Corinzi il mio cuore si è dilatato per ricevervi » (II Cor., VIII, 3; VI, 11-12.), come potremmo essere allo stretto nel cuore del nostro grande Dio? Noi siamo in Dio: poiché Egli ci circonda con la sua potenza per proteggerci; con la sua infinita saggezza per dirigerci; con la sua misericordiosa bontà per inondarci di ineffabili benefici, mentre aspettiamo che ci porti nella sua eterna beatitudine che è Lui stesso, “intra in gaudium Domini tui“. (Matt. XXV. 23). Noi siamo in Dio: infatti, se lo amiamo come figli, questo amore ci condurrà naturalmente a Lui, poiché l’amore è estatico, cioè lega intimamente al suo oggetto sia i pensieri che i cuori di coloro che possiede (S. Thom. 1. 2, q. 28, a. 2 e. 3). – Questa mutua immanenza dei figli adottivi in Dio loro Padre, e del Padre nei figli, è il benedetto frutto millenario della preghiera del Figlio unigenito: « Come tu, Padre mio, sei in me e io in te, siano essi consumati in uno » (Gv. XVII. 21-23). E ancora: « Padre mio, voglio che là dove sono Io, siano con me anche quelli che Tu mi hai dato, perché vedano la gloria che Tu mi hai dato » (Ibib. 24). Ora, la dimora del Figlio è il seno del Padre (Gv. I, 18). – San Bernardo è ammirevole quando parla dell’immanenza reciproca che nasce dall’amore di Dio per la sua creatura e della creatura per il suo Dio. Dopo aver ricordato il famoso testo in cui Nostro Signore dice ai Giudei: « Io e il Padre mio siamo una cosa sola (unum) » (Gv. X, 30), continua in questi termini: « Poiché il Padre è nel Figlio e il Figlio nel Padre » nulla manca alla loro unità; essi sono veramente e perfettamente uno. L’anima, dunque, per la quale è bene aderire al Signore (Ps. LXXII, 28), non si lusinghi di essere perfettamente unita a Lui, finché non abbia sentito che inabiti in essa e che essa stessa abita in Lui. Non che essa sia allora una cosa sola con Dio, come il Padre e il Figlio sono una cosa sola, sebbene aderire a Dio sia essere un solo spirito con Lui (1 Cor. VI. 17). Questo l’ho letto, ma quello non l’ho mai letto. Io non parlo di me stesso, che non sono niente; ma nessuno in cielo o in terra, a meno che non sia un pazzo, oserebbe applicare a se stesso questa parola del Figlio unigenito: Io e il Padre siamo una cosa sola. – Eppure io, uomo fatto di polvere e di cenere, basandomi sull’autorità della Scrittura, non temo di dichiararmi un solo spirito con Dio; sì, lo dirò, se per segni certi so di aderire a Dio, come uno di quelli che, per la carità, dimorano in Dio e in cui Dio dimora… perché è di questa unione che sta scritto: « Chi aderisce a Dio è un solo spirito con Dio. » Che dunque? Il Figlio unigenito dice: « Io sono nel Padre e il Padre è in me » (Gv. XIV, 11), e noi siamo uno; e l’uomo a sua volta dice: « Io sono in Dio e Dio è in me, e noi siamo un solo spirito » (I Cor. VI, 17). – San Bernardo spiega poi magistralmente ciò che distingue la doppia immanenza: l’una fondata sull’unità della natura, l’altra sulla comunione delle volontà e dei cuori. Continua, parlando della seconda: « unione felice, se l’hai sperimentata, nulla, se la confronti con la prima. Lo sapeva per esperienza, colui che gridava: « È bene per me aderire a Dio » (Salmo, LXXII. 28). Sì, è buono, che si aderisca a Lui con tutto il cuore. Chi allora aderisce perfettamente a Dio? Colui che, dimorando in Dio, perché è amato da Dio, attira Dio in sé con un amore reciproco. Perciò, poiché l’uomo e Dio sono in ogni modo attaccati l’uno all’altro; poiché un amore reciproco e il più intimo, li fa passare, per così dire, l’uno nel grembo dell’altro, come si può dubitare che Dio sia nell’uomo e l’uomo in Dio?» (« Quis est qui perfecte adhæret Deo, nisi qui in Deo manens, tanquam dilectus à Deo, Deum nihilominus in se traxit vicissim diligendo. Ergo eum undique inhærent sibi homo et Deus, inhærent autem undique intima mutuaque dilectione, inviscerali alterutrum sibi, per hoc Deum in homine, et hominem in Deo esse haud dubie dixerim. » – S. Bernard. serm,. 71 in Cant. n. 6, 10.).

2. – Dalle considerazioni precedenti emerge una conclusione molto importante: non si può ammettere come assolutamente vera l’opinione che farebbe della missione dello Spirito Santo, o, il che equivale alla stessa cosa, della dimora della Trinità nelle anime, e di conseguenza dell’adozione, il privilegio esclusivo del Nuovo Testamento. Perché o dobbiamo negare la grazia santificante ai giusti che hanno preceduto la consacrazione della nuova legge con la morte del Salvatore, o questi giusti erano essi stessi i templi viventi dello Spirito Santo. È impossibile sfuggire a questo dilemma: perché questa dimora divina è essenzialmente legata al possesso della grazia. Come non c’è e non può esserci alcuna dimora soprannaturale della Trinità in un’anima, se non nella grazia e attraverso la grazia, così la stessa grazia presuppone assolutamente la presenza sostanziale di Dio, sia come suo principio efficiente, sia come termine a cui questa grazia unisce chi la possiede. Non c’è bisogno di ritornare su affermazioni pienamente dimostrate negli ultimi capitoli (L. IV, c. 3 in fine). Inoltre, non ci mancherebbero testimonianze esplicite, se avessimo bisogno di ricorrere ad esse, per rafforzare la nostra conclusione. Ecco, come esempio, un testo di Sant’Agostino che cito tanto più volentieri perché è esso stesso basato sull’autorità delle Scritture. Il grande Vescovo chiede quale significato si debba dare a queste parole dell’evangelista: « Lo Spirito Santo non era ancora stato dato, perché Gesù non era ancora entrato nella sua gloria ». – Cosa intendere con queste parole, se non che ci sarebbe stata, dopo la glorificazione di Cristo, una missione dello Spirito Santo, come quella che non aveva avuto luogo fino ad allora? Certo, lo Spirito Santo era già venuto, ma non in questo modo. Se non fosse stato dato fino a quel momento, che cos’è Colui che ha riempito i Profeti e li ha ispirati con oracoli divini? Non fu forse detto di Giovanni il Battista: « Egli sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre »? Non era forse Zaccaria, suo padre, anche lui pieno di Spirito Santo? Vogliamo negare questo Spirito divino a Maria, quando parla profeticamente del Figlio del suo grembo; a quei due santi vecchi, Anna e Simeone, quando riconoscono la grandezza del Cristo bambino? Non vedo cosa possa essere addotto per invalidare queste testimonianze della Scrittura. Il testo evangelico non ci permette di rispondere che si parli solo dell’operazione dello Spirito Santo per questi giusti, mentre poi a Pentecoste si fece presente con la sua propria sostanza. Come allora – egli continua – lo Spirito non è stato ancora dato, perché Gesù non era ancora glorificato? Perché questo dono o missione dello Spirito Santo doveva avere, nell’avvento promesso, una proprietà mai vista prima. Da nessuna parte, infatti, si legge che gli uomini, alla discesa dello Spirito Santo in loro, parlarono in lingue a loro sconosciute fino ad allora, come si vide nel giorno di Pentecoste » (S. Agostino de Trinit., L. 1, n°29; Cf. S. Leone M., Serm. de Pent. 3, a.1) Così, per S. Agostino la differenza non va cercata nella venuta dello Spirito Santo stesso, ma nella natura dei doni che lo accompagnano e lo manifestano. – Anche se l’opinione che ho riportato è inammissibile in sé, dobbiamo tuttavia riconoscere, dal punto di vista che ci occupa, una doppia prerogativa per la nuova Alleanza. È, prima di tutto, una verità del tutto indubbia che la inabitazione di Dio nelle anime e la missione dello Spirito Santo appartengano al Nuovo Testamento e non all’Antico, se consideriamo l’uno e l’altro in ciò che sono esclusivamente propri. L’antica Legge, da sola, era impotente a produrre la santità interiore che è la prerogativa e la norma dei figli di Dio. Essa generava per la servitù, in servitutem generans; e la sua missione pedagogica era di condurre gli uomini alla legge della grazia, a Cristo, (Galat., III, 24 – VI. 24 « Quamvis nec lex per Moysen data potuerit a quoquam homine regnum mortis auferre, erant amen et legis tempore homines Dei, non sub lege terrente, convincente, puniente, sed Sub gratia delectante, sanaute, tiberante. rant qui dicerent : côr mundum crea in me, Deus, et Spiritum rectum innova in visceribus meis, et Spiritu principali confirma me, et Spiritum sanctux tuum ne auferas à me… Neque enim qui nobis ista fideli dilectione prophetare potuerunt, eorum ipsi participes non fuerant.….. et illi per gratiam D. N. Jesu Christi Salvi facti Sunt, non per legem Moysi, per qua non sanatio sed cognitio facta est peccati. Nunc autem sine lege justitia Dei manifestata est. Si ergo nunc manifestata est, etiam tunc erat, sed occulta ». S. August., de Pecc. orig. cont. Pelag., n. 29). Se essi parteciparono, come noi, alla filiazione divina, è perché il Sangue della nuova alleanza che doveva scorrere un giorno, sul Calvario, si rifletteva in qualche modo sui credenti delle età precedenti per renderli, in anticipo, altrettanti Cristiani (August, Retract. I, c. 13). – Inoltre, per quanto abbondante possa essere stata l’effusione della grazia e dello Spirito Santo in alcuni dei giusti, poiché tuttavia, il prezzo della salvezza nostra non era ancora stato pagato; poiché Dio stava elargendo, come a credito, i benefici soprannaturali che dovevano essere acquistati dal sangue del Redentore; poiché  i nostri Sacramenti, queste fontane della grazia, non la versavano a fiotti; in una parola, poiché l’economia dei figli non aveva ancora sostituito quella degli schiavi della Legge, Dio versava comunemente la sua grazia con più parsimonia nei cuori. Ora, poiché l’inabitazione divina è commisurata alla grazia, ne consegue naturalmente anche che l’unione dello Spirito Santo con le anime dovesse essere, in generale, più rara e meno perfetta di quanto sia diventata sotto la nuova Legge. C’è ancora un’altra causa di inferiorità per i tempi che precedettero il Sacrificio cruento compiuto sul Calvario e la fondazione della Chiesa. È che la dimora di Dio nelle anime si presenta nel Cristianesimo con caratteristiche sconosciute ai tempi antichi. Da tempo immemorabile, l’uomo in stato di grazia è il tempio di Dio; ma chi può dire quanto più nobile e sacro sia diventato questo tempio da quando l’eterno Figlio di Dio ne abbia fatto la dedicazione con l’attuale aspersione del suo sangue divino? – Voi avete in voi la carità: siete per questo stesso fatto un tempio, e questo vi è comune con tutti i giusti; ma di quale maestà, di quali privilegi non si arricchisce questo tempio, incorporato com’è dal Battesimo nel tempio vivente che è l’umanità di Cristo; consacrato dall’olio santo nella Cresima; santificato nell’Eucaristia dalla carne stessa di Cristo, di cui diventa il tabernacolo; dedicato dall’Ordine a funzioni così sublimi che sarebbero l’invidia degli Angeli? – Ecco il tempio della nuova Alleanza, e la singolare dignità che ci autorizza a dire che la grazia dell’inabitazione divina è, in una maniera ed in una misura speciale, per i Santi e per il tempo della legge di Cristo, sebbene nella sostanza essa appartenga a tutti i Santi come a tutti i tempi (Cfr. Franzelin, de Deo trino, thes. 48; S, Thom. 1. p, q. 43, to. 6 ad 1; I D. 15, q. 5 a. 2.). Ora, quello che abbiamo detto sulla grazia e sul tempio deve essere inteso per adozione, poiché la qualità dei figli è proporzionata allo splendore dell’una e all’abbondanza dell’altra (Pur essendo in verità figli di Dio, aspettiamo l’adozione – Rom. VIII, 23 -, perché gemiamo in esilio, lontani dalla dimora e dall’eredità del Padre. Come noi non siamo ancora figli se paragonati ai beati abitanti del cielo, così i giusti vissuti prima di Cristo, per i quali il cielo era chiuso, possono essere chiamati servi e non figli, se paragonati a noi). – Tutta questa dottrina potrebbe essere confermata dall’autorità di mille testimonianze oltre a quelle già riportate (Cfr. ad esempio S. Leon. M., Serm. di Pent. 2, c. 3; 3, c. 1. S. Thom. 1 p. q. 95 a, 1, ad 2). Ma ne voglio aggiungere solo una, quella di Leone XIII, nella sua lettera Enciclica sullo Spirito Santo, dove è esposto con mirabile chiarezza. (« È verissimo che anche nei giusti vissuti prima di Cristo vi fu lo Spirito Santo con la grazia, come leggiamo dei profeti, di Zaccaria, del Battista, di Simeone e di Anna, giacché non fu nella pentecoste che lo Spirito Santo incominciò ad abitare nei Santi la prima volta, in quel dì accrebbe i suoi doni, mostrandosi più ricco, più effuso. (Leo M.. hom. 3 de Pentec.).Erano sì figli di Dio anch’essi, ma rimanevano ancora nella condizione di servi, perché anche il figlio « non differisce dal servo, finché è sotto tutela » (Gal. IV,1-2); e poi mentre quelli furono giustificati in previsione dei meriti di Cristo, dopo la sua venuta molto più abbondante è stata la diffusione dello Spirito Santo nelle anime, come avviene che la mercé vince in prezzo la caparra e la verità supera immensamente la figura. La qual cosa è espressa da san Giovanni là dove dice: « Non era ancora stato dato lo Spirito Santo, perché Gesù non era stato ancora glorificato » (Gv. VII, 39); ma non appena Cristo, “ascendendo al cielo”, ebbe preso possesso del suo regno, conquistato con tanti patimenti, subito ne « dischiuse con divina munificenza i tesori, spargendo sugli uomini i doni dello Spirito Santo » (Ef. IV, 8); non già che prima non fosse stato mandato lo Spirito Santo, ma certo non era stato donato come fu dopo la glorificazione di Cristo. La natura umana è essenzialmente serva di Dio: “La creatura è serva, noi per natura siamo servi di Dio“;anzi, infetta dall’antico peccato, la nostra natura cadde tanto in basso che noi divenimmo odiosi a Dio: « Eravamo per natura figli d’ira » (Ef. II, 3). E non vi era forza che bastasse a rialzarci da tanta caduta, a riscattarci dall’eterna rovina. Ma quel Dio, che ci aveva creati, si mosse a pietà, e per mezzo del suo Unigenito sollevava l’uomo ad un grado di nobiltà maggiore di quella donde era precipitato. (Aug. De. Trinit., L. IV, x. 20) » Encycl. Leonis XIII, Divinum illud munus 1897).

LA GRAZIA E LA GLORIA (23)