DOMENICA IX DOPO PENTECOSTE (2021)

DOMENICA IX DOPO PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B.; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

La liturgia di questo giorno insiste sui castighi terribili che la giustizia di Dio infliggerà a quelli che avranno rinnegato Cristo. Morranno tutti e nessuno entrerà nel regno dei cieli. Coloro invece che in mezzo a tutte le avversità di questa vita saranno rimasti fedeli a Gesù, saranno un giorno strappati alle mani dei loro nemici ed entreranno al suo seguito nel cielo, ove Egli entrò nel giorno della sua Ascensione, che la Chiesa ha celebrato nel Tempo Pasquale. Questi pensieri sulla giustizia divina sono conformi, in questa IX Domenica dopo Pentecoste, colla lettura che la liturgia fa della storia del profeta Elia nel Breviario. – Dopo la morte di Salomone, le dodici tribù di Israele si divisero in due grandi regni: quello di Giuda e quello d’Israele. Il primo formatosi con le due tribù di Giuda e di Beniamino, ebbe per capitale Gerusalemme: il secondo si compose di dieci tribù con capitale Sichem, poi Samaria. A questo secondo regno appartenne il profeta Elia, che abitava il deserto di Galaad in Samaria. Uomo virtuoso e austero, vestiva una tunica di peli di cammello con ai fianchi una cintura di cuoio: « pieno di zelo per il Dio degli eserciti », uscì tre volte dal deserto per minacciare Achab, VII re di Israele, e la regina Iezabele, che avevano trascinato il popolo all’idolatria; per mandare a morte i 450 profeti di Baal che confuse sul Monte Carmelo; e per annunciare al re, impossessatosi della vigna di Naboth, che sarebbe stato ucciso, e alla regina, che era stata il cattivo genio di Achab, che il suo sangue sarebbe scorso ove era scorso il sangue di Naboth e i cani avrebbero divorate le sue carni. Per tutti questi motivi, Elia fu perseguitato dagli Israeliti, da Achab e da lezabele e dovette fuggire sul monte Horeb per scampare alla morte. Quando più tardi Ochozia, figlio di Achab, divenne re, Elia gli fece dire di non consultare Belzebù, il dio di Accaron, come aveva intenzione, ma il Dio d’Israele. Ochozia allora gli mandò un capitano con cinquanta soldati per indurlo a scendere dalla montagna e rendergli conto delle sue parole. Elia rispose al capitano: « Se io sono un uomo di Dio, scenda dal cielo un fuoco che divori te e i tuoi cinquanta », E scese il fuoco e divorò lui e i suoi cinquanta uomini » (Breviario). Più tardi, Elia andò verso il Giordano con Eliseo e allorché ebbero attraversato il fiume, un carro di fuoco con cavalli di fuoco separò l’uno dall’altro ed Elia sali al cielo in un turbine. Eliseo allora si rivestì del mantello che Elia aveva lasciato cadere e ricevette doppiamente il suo spirito. E tutti i discepoli di Elia dissero: «lo spirito di Elia si è posato su Eliseo ». E mentre Eliseo andava verso Bethel, alcuni ragazzi lo schernirono dicendo: « Sali, sali, calvo! ». Ed Eliseo li maledisse nel nome di Dio che essi offendevano: due orsi uscirono dalla foresta e sbranarono 42 di quei fanciulli. — Per tutta la sua vita Elia, con la sua parola di  fuoco, difese i diritti di Dio. Più tardi Giovanni Battista, « pieno dello Spirito e della virtù di Elia », si presentò vestito come lui ed abitante come lui nel deserto, e difese allo stesso modo gli stessi diritti di Dio, annunziando la separazione che farà Cristo venturo della paglia dal buon grano »: raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia in un fuoco che non si estinguerà. –   « Elia, dice S. Agostino, rappresenta il Salvatore e Signore nostro. Come infatti Elia soffrì persecuzioni da parte dei Giudei; nostro Signore, il vero Elia, fu rigettato e disprezzato dal medesimo popolo. Elia lasciò il paese suo; Cristo abbandonò la sinagoga e accolse i Gentili (2° Nott.). « Dio liberò Elia dai suoi nemici elevandolo al cielo, Dio innalzò Cristo in mezzo ai suoi nemici e lo fece salire il giorno dell’Ascensione in cielo ». « Liberami, o Signore dai miei nemici, dice l’Alleluia, e allontanami da quelli che insorgono contro di me ». Elia, trasportato in un carro di fuoco è, secondo i Padri, la figura di Cristo, che sale al Cielo. Il Graduale è il versetto del Salmo VIII, che la liturgia usa nel giorno dell’Ascensione: «Signore, Dio nostro, come è ammirevole il tuo nome su tutta la terra: poiché la tua magnificenza si solleva al di sopra dei cieli. » E l’Introito aggiunge:« Ecco che Dio viene in mio aiuto e che il Signore accoglie la mia anima. Oh, Dio! salvami nel tuo nome e liberami nella tua potenza ». Questo trionfo di Gesù su quelli che lo odiano, figurato da quello di Elia su coloro che lo disprezzano, sarà anche il nostro se «non tenteremo Cristo», cioè se eviteremo l’idolatria, l’impurità, la mormorazione» (Ep.) rimanendo fedeli alla grazia. Poiché « se Gesù continua a immolarsi sui nostri altari per applicarci i frutti della sua redenzione » (Secr.), e se « mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue,  noi dimoriamo in Lui e Lui in noi » (Com.), si è perché, « uniti a Lui », (Postcom.), osserviamo fedelmente i suoi comandamenti, che sono più dolci del miele » (Off.). S. Paolo ci dice infatti che « Dio, il quale è fedele, non permetterà che noi siamo tentati al di sopra delle nostre forze, ma con la tentazione ci darà anche il mezzo di uscirne affinché possiamo perseverare » (Ep.). Supplichiamo dunque il Signore d’accogliere benignamente le preghiere che noi gli indirizziamo e di fare in modo che gli chiediamo solo quanto gli sia gradito, affinché ci possa sempre esaudire (Oraz.). – Ma la Giustizia divina non si accontenta di proteggere il giusto contro i suoi nemici e di ricompensarlo per la sua fedeltà; essa punisce anche quelli che fanno il male. Elia minacciò il regno di Israele infedele e fece cadere il fuoco dal cielo sui suoi nemici (Brev.); « Gli Israeliti, che tentarono Iddio con le loro mormorazioni, perirono per mezzo dei serpenti di fuoco » (Ep.), e Gerusalemme sulla quale Gesù pianse, minacciandole castighi perché lo respingeva, fu distrutta dalla guerra e dall’incendio (Vang.). « Ventitremila Ebrei perirono in un sol giorno per la loro idolatria, e molti furono colpiti a morte dall’Angelo sterminatore per le loro mormorazioni ». Ma tutti questi avvenimenti, spiega S. Paolo, furono permessi da Dio, e narrati per servire di nostro ammaestramento » (Ep.). Più di un milione di Giudei perirono nella distruzione di Gerusalemme, perché avevano rifiutato il Messia e il Vangelo (Vedi I Domenica dell’Avvento e XXIV dopo Pentecoste). Gesù ha sempre paragonata questa fine tragica alle catastrofi che segneranno la fine del mondo, quando Dio verrà a giudicare il mondo col fuoco. Allora il Giudice divino opererà la separazioni dei buoni dai cattivi e mentre ricompenserà i primi, allontanerà dal regno di Dio tutti quelli che lo avranno rinnegato per la loro incredulità e i loro peccati, come cacciò dal Tempio, che è la figura della Chiesa terrestre e celeste, tutti i venditori che avevano trasformato la casa di Dio in una spelonca di ladri (Vang.). « Il male ricada sui miei avversari, chiede il Salmista e, fedele alle tue promesse, distruggili, o Dio, mio protettore! » (Intr.). Allora, infatti il tempo della misericordia sarà passato e non vi sarà più che quello della giustizia ». « Frattanto colui che crede di essere in alto guardi di non cadere!», dice l’Apostolo (Ep.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LIII: 6-7.
Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine.

[Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’anima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]


Ps LIII: 3
Deus, in nómine tuo salvum me fac: et in virtúte tua libera me.

[O Dio, salvami nel tuo nome: e liberami per la tua potenza.]


Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine.

[Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’ànima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]

Oratio

Orémus.
Páteant aures misericórdiæ tuæ, Dómine, précibus supplicántium: et, ut peténtibus desideráta concédas; fac eos quæ tibi sunt plácita, postuláre.

[Porgi pietoso orecchio, o Signore, alle preghiere di chi Ti supplica, e, al fine di poter concedere loro quanto desiderano, fa che Ti chiedano quanto Ti piace.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.
1 Cor X: 6-13
Fatres: Non simus concupiscéntes malórum, sicut et illi concupiérunt. Neque idolólatræ efficiámini, sicut quidam ex ipsis: quemádmodum scriptum est: Sedit pópulus manducáre et bíbere, et surrexérunt lúdere. Neque fornicémur, sicut quidam ex ipsis fornicáti sunt, et cecidérunt una die vigínti tria mília. Neque tentémus Christum, sicut quidam eórum tentavérunt, et a serpéntibus periérunt. Neque murmuravéritis, sicut quidam eórum murmuravérunt, et periérunt ab exterminatóre. Hæc autem ómnia in figúra contingébant illis: scripta sunt autem ad correptiónem nostram, in quos fines sæculórum devenérunt. Itaque qui se exístimat stare, vídeat ne cadat. Tentátio vos non apprehéndat, nisi humána: fidélis autem Deus est, qui non patiétur vos tentári supra id, quod potéstis, sed fáciet étiam cum tentatióne provéntum, ut póssitis sustinére.

[“Fratelli: Non desideriamo cose cattive, come le desiderarono quelli. Non diventate idolatri, come furono alcuni di loro, secondo sta scritto: «Il popolo si sedette a mangiare e bere; poi si alzarono a tripudiare. Né fornichiamo, come fornicarono alcuni di loro, e caddero in un giorno 23 mila. Né tentiamo Cristo come lo tentarono alcuni di loro, e furono uccisi dai serpenti. Né mormorate come mormorarono alcuni di loro, ed ebbero morte dallo sterminatore. Or tutte queste cose accadevano loro in figura, e sono state scritte per ammaestramento di noi, che viviamo alla fine dei tempi. Colui, pertanto che si crede di stare in piedi, badi di non cadere. Nessuna tentazione vi ha sorpreso se non umana. Dio, poi, che è fedele, non permetterà che siate tentati sopra le vostre forze: ma con la tentazione preparerà anche lo scampo, dandovi il potere di sostenerla”.]

IL TIMOR DI DIO

Essere Cristiani non vuol dire essere esenti dalla vigilanza, e da una attenta vigilanza. Nell’Epistola della Domenica di Settuagesima abbiam visto come l’Apostolo per incoraggiare i Corinti alla perseveranza, oltre il proprio esempio, portò l’esempio dei Giudei, i quali, quantunque usciti in gran numero dall’Egitto, dopo aver ricevuto grandi benefici dal Signore, solamente in numero di due poterono entrare nella terra promessa. L’Epistola di quest’oggi continua quel brano. Vi sono enumerate alcune prevaricazioni dei Giudei ed i castighi, che ne seguirono, e si esortano i Corinti a non imitarne l’esempio; poiché quanto avvenne agli Israeliti sarà figura di quanto avverrà a noi Cristiani, se abuseremo delle grazie del Signore. – E noi non abuseremo certamente delle grazie del Signore, se avremo il timor di Dio, il quale:

1 Ci fa evitare il peccato,

2 Ci rende diffidenti di noi,

3 Ci lascia calmi e fiduciosi in Dio, durante le prove.

Graduale 

Ps VIII: 2
Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in universa terra!

[Signore, Signore nostro, quanto ammirabile è il tuo nome su tutta la terra!]


V. Quóniam eleváta est magnificéntia tua super cœlos. Allelúja, allelúja

[Poiché la tua magnificenza sorpassa i cieli. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps LVIII: 2
Alleluja, Alleluja

Eripe me de inimícis meis, Deus meus: et ab insurgéntibus in me líbera me. Allelúja.

 [Allontànami dai miei nemici, o mio Dio: e liberami da coloro che insorgono contro di me. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntiasancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIX: 41-47
“In illo témpore: Cum appropinquáret Jesus Jerúsalem, videns civitátem, flevit super illam, dicens: Quia si cognovísses et tu, et quidem in hac die tua, quæ ad pacem tibi, nunc autem abscóndita sunt ab óculis tuis. Quia vénient dies in te: et circúmdabunt te inimíci tui vallo, et circúmdabunt te: et coangustábunt te úndique: et ad terram prostérnent te, et fílios tuos, qui in te sunt, et non relínquent in te lápidem super lápidem: eo quod non cognóveris tempus visitatiónis tuæ. Et ingréssus in templum, coepit ejícere vendéntes in illo et eméntes, dicens illis: Scriptum est: Quia domus mea domus oratiónis est. Vos autem fecístis illam speluncam latrónum. Et erat docens cotídie in templo”.

[“In quel tempo avvicinandosi Gesù a Gerusalemme, rimirandola, pianse sopra di lei, e disse: Oh? se conoscessi anche tu, e in questo tuo giorno, quello che importa al tuo bene! ma ora questo è a’ tuoi occhi celato. Conciossiachè verrà per te il tempo, quando i tuoi nemici ti circonderanno di trincea, e ti serreranno all’intorno, e ti stringeranno per ogni parte. E ti cacceranno per terra te e i tuoi figliuoli con te, e non lasceranno in te pietra sopra pietra; perché non hai conosciuto il tempo della visita a te fatta. Ed entrato nel tempio, cominciò a scacciare coloro che in esso vendevano e comperavano, dicendo loro: Sta scritto: La casa mia è casa di orazione; e voi l’avete cangiata in spelonca di ladri. E insegnava ogni giorno nel tempio”.

Omelia

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Le lagrime di Gesù Cristo.

Videns Jesus oivitatem, flevit super illam.

(Luc. XIX, 41).

Gesù Cristo, entrando nella città di Gerusalemme pianse su di essa, dicendo: “Se almeno conoscessi le grazie che ti ho portato, e ne volessi approfittare, potresti ricevere ancora il tuo perdono: ma la tua cecità è giunta a tale eccesso, che tutte queste grazie non serviranno che a renderti ostinata e a perderti: tu hai ucciso i profeti, e fatto morire i servi di Dio; ed ora stai per mettere il colmo ai tuoi delitti facendo morire il Figlio stesso di Dio. „ Ecco, F. M., ciò che strappava lagrime a Gesù Cristo in grande abbondanza, mentre si avvicinava a quella città. Ahimè! Egli considerava in tutte queste sventure, la perdita di tante anime, ben più colpevoli dei Giudei, perché più di questi favoriti di tante grazie. Davvero, F. M., ciò che lo commosse così vivamente fu il pensiero che, non ostante i meriti della sua passione e morte sufficienti per redimere mille mondi più grandi del nostro, il maggior numero degli uomini andrebbe perduto. – Sì, F. M., Egli prevedeva coloro che disprezzerebbero le sue grazie, non servendosene che in proprio danno. E chi di noi, F. M., non trepiderà pensando sinceramente a condurre l’anima propria al cielo? Non siamo noi di quel numero? Non è per noi che Gesù Cristo disse piangendo: “Ah! purtroppo, se il mio sangue e la mia morte non servono alla vostra salvezza, accenderanno la collera del Padre mio su di voi per tutta l’eternità? „ Un Dio tradito!… un’anima dannata!… un cielo rifiutato! … Possibile che a tante sciagure rimaniamo insensibili? … È possibile, F. M., che, malgrado quanto ha fatto Gesù Cristo per salvare le anime nostre, siamo così insensibili alla loro perdita? … Ma per togliervi, F. M., da tale insensibilità, vi mostrerò:

1° che cos’è un’anima;

2° quanto ha costato a Gesù Cristo;

3° quanto fa il demonio per condurla a perdizione.

I. — Ah! F. M., se avessimo la fortuna di conoscere il valore dell’anima nostra, con qual cura la custodiremmo? Ahimè! non lo comprenderemo mai abbastanza! Voler mostrarvi, F. M., la grandezza del valore di un’anima è impossibile per un mortale: Dio solo conosco tutte le bellezze, le perfezioni delle quali l’ha ornata. Vi dirò solamente che tutto quanto Dio ha creato, il cielo, la terra e tutto ciò che vi a contenuto, tutto queste meraviglie furon create in suo favore. Il nostro catechismo ci dà la più bella prova possibile della grandezza dell’anima. Quando si domanda ad un fanciullo: che cosa intendi quando dici che l’anima dell’uomo è uno spirito creato ad immagine di Dio? Quest’anima, ci risponde il fanciullo, al pari di Dio ha la potenza di conoscere, di amare e di determinarsi liberamente in tutte le sue azioni. Ecco, F. M., il più bell’elogio che possiamo fare delle doti, colle quali Dio abbellì l’anima nostra, creata dalle tre Persone della Ss. Trinità, ed a loro somiglianza. Uno spirito, al par di Dio, immortale, capace di conoscere le bellezze e le perfezioni tutte di Dio, quanto è possibile ad una creatura: uno spirito, che è l’oggetto delle compiacenze delle tre divine Persone; uno spirito, che può glorificar Dio in tutte le sue azioni; uno spirito, la cui occupazione sarà di cantar le lodi di Dio per tutti i secoli; uno spirito, che risplenderà della felicità di Dio medesimo; uno spirito, che ha una tal libertà nelle sue azioni da poter donare la sua amicizia, l’amor suo a chi meglio gli pare; che può non amare Dio, od amarlo: ma che, se è tanto fortunato di volgere il suo amore a Dio, non obbedisce più esso a Dio, sebbene Dio stesso fa quanto vuole questo spirito (Voluntatem timentium se faciet Ps. CXLIV. 19) e sembra compiacersi di farlo. Potrei anche dire che dal principio del mondo non trovate un’anima che, essendosi data a Dio senza restrizioni, Dio le abbia rifiutato alcuna cosa da lei desiderata. Vediamo che Dio ci ha creato con tali desideri, che nulla è capace di soddisfarli. Presentate ad un’anima tutte le ricchezze ed i tesori del mondo, niente di ciò potrà accontentarla; avendola Iddio creata per sé, non vi è che Lui solo capace di riempire tutti i vasti suoi desideri. Sì, F. M., l’anima nostra può amar Dio; ed è questa la più grande di tutte le felicità! Amandolo abbiamo tutti i beni ed i piaceri che possiamo desiderare sulla terra ed in cielo (Ps. LXXII, 25). Possiamo anche servirlo; cioè glorificarlo in ogni azione della nostra vita. Anche dalle minime cose che facciamo Dio viene glorificato, se le facciamo coll’intenzione di piacergli. La nostra occupazione, mentre siamo sulla terra, nulla ha di differente da quella degli Angeli in cielo; l’unica differenza è che noi vediamo questi beni solo cogli occhi della fede.  L’anima nostra è così nobile, ornata di tante belle qualità che il buon Dio non volle affidarla che ad un principe della corte celeste. L’anima nostra è così preziosa agli occhi di Dio stesso, che in tutta la sua sapienza, non trovò altro cibo degno di lei che il suo Corpo adorabile, di cui vuole che essa faccia il suo nutrimento quotidiano: e altra bevanda che il Sangue suo prezioso. ” Sì, F. M., abbiamo un’anima che Dio stima tanto, ci dice S. Ambrogio, che, fosse stata pur sola nel mondo, Egli non avrebbe creduto di far troppo morendo per essa; e se, creandola, non avesse creato il cielo, il buon Dio lo avrebbe creato apposta per essa, anche se fosse sola nel mondo.„ Come disse Egli un giorno a S. Teresa: “Mi sei tanto cara, così Gesù Cristo, che se non vi fosse il cielo, ne creerei uno apposta per te. „ —“O corpo mio, esclama S. Bernardo, quanto sei fortunato di albergare un’anima adorna di tante belle qualità! Un Dio, sebbene infinito, la fa oggetto di sue compiacenze!„ Sì, F. M., l’anima nostra è destinata a passar tutta l’eternità in grembo a Dio stesso. Dico tutto in una parola: l’anima nostra è alcunché di così grande, di così prezioso, che Dio solo la supera. Un giorno il buon Dio fece vedere un’anima a S. Caterina. La trovò così bella, che esclamò: “O mio Dio, se la fede non mi insegnasse che v’è un Dio solo, crederei che questa sia una divinità; no, mio Dio, non mi meraviglio più che Voi siate morto per l’anima che è sì bella!„ Sì, F. M., l’anima nostra nella vita futura sarà eterna quanto Dio stesso. No, no, non andiamo oltre: ci perdiamo in questo abisso di grandezza. Dopo questo, F. M., vi lascio pensare se dobbiamo meravigliarci che Dio, il quale ne conosce così bene il valore, pianga tanto amaramente la perdita di un’anima. Ahimè! F. M., il buon Dio è così sensibile alla perdita di un’anima che l’ha pianta prima di aver gli occhi per piangere: adoperò gli occhi dei suoi profeti per piangere la perdita delle anime nostre. Lo vediamo in modo evidente nel profeta Amos: “Essendomi ritirato nell’oscurità, dice il profeta, considerando lo spaventoso numero di delitti che il popolo di Dio commette ogni giorno, vedendo che la collera di Dio era pronta a piombargli addosso, e che l’inferno apriva le sue fauci per inghiottirlo, adunatili insieme, ed io stesso tutto tremante, dissi loro piangendo amaramente: “Figli miei, sapete qual è la mia occupazione, notte e giorno? Ahimè! mi rappresento vivamente tutti i vostri peccati, nell’amarezza del mio cuore. Se dopo… oppresso dalla fatica, mi assopisco, subito mi sveglio di soprassalto, con gli occhi bagnati di lagrime ed il cuore spezzato dal dolore gridando: Mio Dio, mio Dio, non vi saranno anime in Israele che non vi offendono? Quando mi riempio la mente di questa triste e lagrimevole idea, ne parlo  al Signore, ne gemo amaramente alla sua santa presenza, dicendogli: Mio Dio, qual mezzo debbo usare per ottener loro grazia? Ecco che cosa mi rispose il Signore: Profeta, se vuoi ottenere il perdono di questo popolo ingrato, va, corri per le vie e per le pubbliche piazze: falle risuonare dei gemiti più amari: entra nelle botteghe dei mercanti e degli artigiani; va nei luoghi dove si amministra la giustizia: ascendi nelle magioni dei grandi e nei gabinetti dei giudici: di’ a tutti quanti troverai dentro e fuori della città: “Guai a voi! ah! guai a voi, che avete peccato contro il Signore!„ Non basta; chiama in tuo soccorso quanti sono capaci di piangere, affinché aggiungano le loro lagrime alle tue, ed i vostri gemiti e le vostre grida siano così spaventose da gettare la costernazione in tutti i cuori: affinché abbandonino i loro peccati e li piangano sino alla tomba: affinché comprendano quanto mi è dolorosa la perdita delle anime loro. „ – Il Profeta Geremia, F. M., va ancor più oltre. Per farci intendere quanto la perdita di un’anima è dolorosa per Iddio, ascoltatelo in un momento in cui è dominato dallo spirito del Signore: “Ah! mio Dio, ah! mio Dio, che diverrò? m’avete dato la cura d’un popolo ribelle, d’una nazione ingrata, che non vuole ascoltarvi, né sottomettersi ai vostri ordini; ahimè! che farò io? qual partito prenderò? Ecco ciò che il Signore mi rispose: “Per mostrar loro quanto Io soffra per la perdita dell’anima loro, afferra i tuoi capelli, strappali dalla testa, gettali lontano, perché il peccato di questo popolo m’ha costretto ad abbandonarlo, ed il mio furore è piombato su di esso.„ Quando la collera del Signore è accesa pel peccato nel cuore, è la più terribile malattia: “Ma, Signore, gli disse il Profeta, che farò io per impegnarvi a distogliere il vostro sguardo di collera dal popolo vostro? — Vestiti di un sacco, mi disse il Signore, mettiti la cenere sulla testa e piangi senza tregua e con tanta abbondanza che le lagrime coprano il tuo volto; e piangi tanto amaramente che i tuoi peccati vengano soffocati nelle tue lagrime.„ (Ger. VII, 29). Comprendete, F. M., quanto affligga il buon Dio la perdita delle nostre anime? Vedete quanto siamo sventurati, perdendo un’anima, che Dio ama tanto che non avendo ancora gli occhi per piangere, adopera quelli dei Profeti per versar lagrime amare sulla sua rovina! Il Signore ci dice per bocca del Profeta Gioele: “Piangete la perdita delle anime come uno sposo novello, il quale ha perduto la sposa che doveva essere tutta la sua consolazione, ed è ridotto ad ogni sorta di sventure!„ (Gioel. I, 8) S. Bernardo ci dice che tre cose sono capaci di farci piangere: ma ve n’è una sola che possa render meritorie le lagrime nostre, cioè quando piangiamo i peccati nostri o dei nostri fratelli: tutte le altre non sono che lagrime profane o colpevoli, o almeno infruttuose. Piangere la perdita d’una lite ingiusta, la morte d’un figlio; lagrime inutili. Piangere la privazione d’un piacere carnale; lagrime peccaminose. Piangere una lunga malattia; lagrime infruttuose ed inutili. Ma, piangere la morte spirituale dell’anima propria, la lontananza di Dio, la perdita del cielo: “O lagrime preziose, ci dice questo gran Santo; ma quanto siete rare!„ E perché, F. M., se non perché non sentite la grandezza della disgrazia vostra nel tempo e nella eternità? Ahimè, F. M.! è il timore di questa perdita che ha spopolato il mondo, per riempire di tanti Cristiani i deserti ed i monasteri: costoro comprendevano assai meglio di noi che se perdiamo l’anima nostra tutto è perduto; e che essa doveva essere di gran valore, se Dio stesso ne faceva tanto conto. Sì, F. M., i Santi hanno sofferto tanto per conservare l’anima loro pel cielo! La storia ce ne fornisce esempi senza numero: eccone uno, F. M.: se non abbiamo il coraggio di imitarlo, potremo almeno ammirarlo per benedirne il buon Dio. Leggiamo nella vita di S. Giovanni Calibita (Vita dei Padri del deserto, t. IX, P. 279), nato a Costantinopoli, che incominciò dalla sua infanzia a comprendere il nulla delle cose umane, ed a sentire un gusto grande per la solitudine. Un religioso d’un vicino monastero passando da Costantinopoli per andar in pellegrinaggio a Gerusalemme, alloggiò in casa de’ parenti di lui, che ricevevano i pellegrini con molto piacere. Il fanciullo domandò qual era la vita che si conduceva nel monastero. Sentito il racconto della vita santa e penitente dei religiosi, il piacere che si provava separati dal mondo per non aver altro commercio che con Dio solo, egli ne fu così commosso, e concepì un tal desiderio di abbandonare il mondo per partecipare a tale felicità, che non poteva più vedersi nel mondo. Disse a’ suoi parenti di non pensar più a fargli una posizione, perché Dio lo chiamava a finire i suoi giorni nel ritiro. I parenti tentarono, se era possibile, di fargli cambiar proposito: tutto inutile; domandò loro per sola eredità il libro dei santi Vangeli, che fu il suo unico tesoro. Ma per liberarsi dalle insistenze continue dei genitori, e per darsi tutto al buon Dio, abbandonò la casa, ed andò a presentarsi alla porta d’un monastero, chiedendo d’esservi ricevuto. I parenti mandarono a cercarlo da ogni parte. Non potendo trovarlo, si abbandonarono alle lagrime più amare. Il santo giovane passò sei anni in quel ritiro praticando tutte le virtù e penitenze che il suo amore per il buon Dio poté ispirargli. Dopo questo tempo gli venne il pensiero d’andar a visitare i parenti suoi, sperando che il buon Dio gli accorderebbe la stessa grazia che ebbe S. Alessio, il quale passò venti anni presso i suoi senza che alcuno lo conoscesse. Appena uscito dal monastero, trovato un povero cambiò l’abito con lui per rendersi ancor più irriconoscibile: d’altra parte le sue austerità così grandi ed una grave malattia l’avevano estremamente sfigurato. Vista da lontano la casa dei suoi genitori, si inginocchiò per domandare a Dio di guidarlo nella sua impresa. Essendo la porta già chiusa perché era notte, rimase fino a giorno là presso. Al mattino i domestici, vedutolo, ne ebbero compassione e gli permisero d’entrare in una piccola stanza per ritirarvisi. Dio solo conobbe quanto ebbe a soffrire, vedendo i suoi genitori ad ogni istante che passavano davanti a lui, e piangevano amaramente la perdita del figlio che era tutta la loro consolazione. Il padre suo, assai caritatevole, di tratto in tratto mandavagli di che nutrirsi: ma la madre non poteva avvicinarglisi senza sentirsi il cuore ribellarsi, tanto trovava ributtante quel povero. Se la sua carità non le avesse fatto vincere tal ripugnanza, l’avrebbe scacciato di casa. Sempre immersa nella tristezza, sempre piangente: e ciò davanti a colui che non poteva essere insensibile a quanto formava il più grande dei tormenti di sua madre… Il buon Santo passò tre anni in quella triste condizione, solo occupato nella preghiera e nel digiuno, spinto fino all’eccesso: piangeva continuamente. Quando il buon Dio gli fece conoscere essere vicina la sua fine, pregò il maggiordomo di suggerire alla padrona la carità di venire a vederlo, perché desiderava ardentemente di parlarle. Ricevuta tale ambasciata, ella ne parve seccata, sebbene solita a visitare spesso gli ammalati: provava tal ripugnanza di visitare costui, che dovette farsi grande violenza per andare sino all’entrata del luogo dove egli trovavasi. Il morente la ringraziò di tutte le cure che aveva avuto per un miserabile sconosciuto, e l’assicurò che pregherebbe sempre il Signore per lei, affinché la ricompensasse di quanto aveva fatto a suo favore. Le domandò ancora la grazia di incaricarsi della sua sepoltura. Dopo che glielo ebbe promesso, le donò il libro dei santi Evangeli, assai ben rilegato. Ella fu sorpresa di vedere che un povero possedeva un libro così ben rilegato: allora si risovvenne di quello già dato al figlio perduto. Rinnovandosi il suo dolore, si mise a versar lagrime copiose. Accorso il padre a quel pianto rumoroso, ed esaminato il libro, riconobbe che era quello del loro figlio. Egli domandò cosa fosse avvenuto di lui. Il Santo che non aveva più che un soffio di vita, disse loro sospirando e piangendo: “Questo è il libro che mi avete dato dieci anni fa: io sono quel figlio che tanto cercaste e pel quale tanto avete pianto. „ A queste parole, quasi svennero, vedendo il loro caro figlio cercato tanto lontano, e che era così vicino: sembrava loro di non poter più vivere. Ma nell’istante che lo stringevano tra le braccia, egli alzò le mani e gli occhi al cielo e rese a Dio la sua anima bella, che per conservarsi nell’innocenza aveva fatto tanti sacrifici, penitenze e sparso tante lagrime. Ecco, F. M., ciò che possiamo dire: questo Cristiano aveva la fortuna di conoscere la grandezza dell’anima sua, e la cura che doveva averne. Ecco, F. M., un Cristiano che ha glorificato Iddio in tutti gli atti della sua vita: ecco un’anima che ora brilla di gloria in cielo, e benedice il buon Dio d’averle dato la grazia di vincere il mondo, la carne, il sangue. Ah! sono pur fortunate queste morti anche agli occhi del mondo!

II. — In secondo luogo, ho detto che per conoscere il valore dell’anima nostra ci basta considerare quanto Gesù Cristo ha fatto per essa. Chi di noi, F. M., potrà comprendere quanta stima fa il buon Dio dell’anima nostra, giacché Egli ha fatto quanto era possibile ad un Dio per rendere felice una creatura? Per sentirsi più spinto ad amarla, la volle creare a sua immagine e somiglianza: perché contemplandola vedesse se stesso. Perciò vediamo che Egli dà all’anima i nomi più teneri e più capaci di manifestare un amore spinto sino all’eccesso. La chiama sua figlia, sorella, diletta, sposa, amica, colomba. (Cant. II, 10; IV, 9; etc., etc.). Ma non basta: l’amore si mostra assai meglio coi fatti che colle parole. Vedete la sua premura di abbandonare il cielo per prendere un corpo simile al nostro; sposando la nostra natura, Egli ha assunto tutte le nostre infermità, tranne il peccato; o piuttosto ha voluto caricarsi della giustizia che il Padre suo domandava da noi. Vedete il suo annientamento nel mistero dell’Incarnazione: vedete la sua povertà: per noi nasce in una stalla: vedete le lagrime che spargeva su quella paglia, dove pianse in anticipazione i nostri peccati: vedete quel sangue che scorre sotto il coltello della circoncisione: vedetelo fuggire in Egitto come un colpevole: vedete quell’umiltà e quella sottomissione a’ suoi genitori: vedetelo nel giardino dogli Ulivi, che geme, prega e sparge lagrime di sangue: vedetelo, preso, legato, incatenato, gettato a terra, percosso con calci e bastoni dalle sue creature: osservatelo attaccato alla colonna, tutto insanguinato: il suo corpo ha ricevuto troppe percosse, il sangue scorre per modo che anche i carnefici ne sono coperti: vedete la corona di spine che trapassa quel capo sacrosanto; vedetelo portare la croce al Calvario: quanti sono i passi che muove altrettante le cadute: vedetelo inchiodato sulla croce, ove Egli stesso vi si stende senza lasciar uscire dalla bocca una sola parola di lamento. Vedete le lacrime d’amore sparse morendo, e mescolantisi col suo Sangue adorabile! Questo è veramente un amore degno d’un Dio, che è amore! Così davvero, F. M., Egli mostra la stima che fa di un’anima! Non basta questo per farci comprendere quanto essa valga e la cura che dobbiamo averne? Ah! F. M., se avessimo la ventura, una volta sola nella vita, di comprendere la bellezza ed il valore dell’anima nostra, non saremmo pronti come Gesù Cristo, a far tutti i sacrifici per conservarla? Oh! quanto un’anima è bella, è preziosa agli occhi stessi di Dio! Come mai può darsi che ne facciamo così poco conto, e la trattiamo più duramente del più vile animale? Che deve pensare quest’anima, la quale conosce la propria bellezza e tutte le sue splendide doti, vedendosi trascinata nelle brutture del peccato? Ah! F. M., quando la avvoltoliamo nelle acque di quelle infami voluttà, sentiamo noi quale orrore deve essa provare di sé medesima l’anima, a cui Dio solo è superiore? Mio Dio, è possibile che sì poca cura ci prendiamo di tale bellezza? Vedete, F. M., cosa diviene un’anima che ha la disgrazia di cadere nel peccato. In grazia di Dio la si prenderebbe per una divinità: ma nel peccato!… Il Signore un giorno mostrò ad un Profeta un’anima in peccato: ed egli ci dice che era simile ad una carogna, trascinata otto giorni per una strada sotto la sferza del sole. Ah! possiamo ben dire, F. M., col profeta Geremia: “È caduta la grande Babilonia, è divenuta il nido dei demoni. „ (Apoc. XVIII, 2; Jer. LI, 8) Oh! come è bella un’anima, quando ha la fortuna di possedere la grazia del suo Dio! No, no, Dio solo può conoscerne tutto il pregio e tutto il valore! Quindi, vedete come Dio ha istituito una Religione per renderla felice quaggiù, aspettando di farla un giorno godere d’una più grande felicità nell’altra vita. Perché, F. M., ha istituito tutti i Sacramenti? Non è per guarirla, quando ha la sventura di essere ferita dal peccato, e per fortificarla nelle sue battaglie? Vedete a quanti oltraggi s’è esposto Gesù Cristo per essa! Quanto spesso si violano i suoi Comandamenti! quante volte vengono profanati i suoi Sacramenti, quanti sacrilegi nel riceverli! Eppur, no, F. M., sebbene Gesù Cristo sappia tutti gli insulti che vi riceverà, l’amore per le anime nostre non ha potuto arrestarlo dirò meglio, F. M.: Gesù Cristo ha tanto amato, o piuttosto ama tanto l’anima nostra, che, se occorresse, morirebbe una seconda volta. Vedete la sua sollecitudine in soccorrerci nelle nostre pene e nei nostri dolori: vedete le sue cure per coloro che vogliono amarlo: vedete tutte quelle schiere di Santi che ha nutrito in modo miracoloso. Ah! F. M., se avessimo una volta la fortuna di ben comprendere che cos’è un’anima e come Dio… come Egli l’ama, e vuol ricompensarla per tutta l’eternità, noi faremmo come i Santi: né i beni, né i piaceri, né la morte sarebbero capaci di farcela vendere al demonio. Vedete tutte quelle schiere di martiri e i tormenti sopportati per non perderla: vedeteli montar sui patiboli, e darsi in mano ai carnefici con gioia incredibile … Ne abbiamo un bell’esempio in S. Cristina, vergine e martire. Questa martire illustre era toscana. Il padre suo, governatore, ne divenne egli stesso il carnefice. Causa della sua collera, fu l’aver la figliuola tolti via tutti gli idoli che egli adorava in casa; riducendoli in pezzi per farne elemosina ai poveri Cristiani. Per questo atto il padre ebbe un tale accesso di furore che la diede sull’istante in mano ai carnefici, i quali per suo ordine la flagellarono crudelmente e la tormentarono con ferocia inaudita. Il suo povero corpo era ormai tutto sanguinante e il padre ordinò si prendessero uncini di ferro per straziarglielo maggiormente. Giunsero tant’oltre, che le si vedeva gran parte delle ossa in quasi tutte le membra del corpo: ma, un dolore sì cocente non abbatté il suo coraggio né turbò la calma dell’anima sua; ella raccolse, senza tremare, la propria carne dilaniata e la presentò al padre. Un atto così sorprendente, invece di toccare il cuore di quel barbaro padre, non servì che ad irritarlo ancor più: la fece gettare in una prigione orribile, carica di catene: la ricoperse di maledizioni, dicendole che ben altri tormenti le erano preparati: ma la santa figliuola, che aveva appena dieci anni, non ne fu spaventata. Infatti, pochi giorni dopo, il padre la fece uscire di prigione, ed attaccare ad una ruota uncinata alquanto sollevata da terra e tutta cosparsa d’olio, con sotto accesovi gran fuoco, affinché, girando la ruota, il corpo della piccola innocente soffrisse un doppio supplizio. Ma un grande miracolo ne impedì l’effetto: il fuoco rispettò la purezza della vergine Cristina, e non fece alcun danno al suo corpo; mentre invece si voltò contro gli idolatri, e ne abbruciò un numero grandissimo. Il padre, vedendo tali prodigi, scoppiava di dispetto. Non potendo soffrire tale sconfitta, senza vendicarsene come l’odio gli ispirava, ricondusse la figlia in prigione: ma non vi restò senza chi la soccorresse: un Angelo discese nella sua cella per consolarla, e ad un tempo guarì tutte le sue piaghe, ridandole nuove forze. Il padre snaturato, saputo il miracolo, stabilì di ordinare un ultimo sforzo. Comandò al carnefice di attaccarle una pietra al collo, e precipitarla nel lago. Ma il buon Dio che aveva saputo preservarla dalle fiamme, seppe anche salvarla dalle acque: il medesimo Angelo che l’aveva soccorsa in prigione, la soccorse sulle acque e la fece tranquillamente tornare alla riva, dove fu trovata più sana di prima. Il padre, vedendo che tutto quanto ordinava per farla soffrire non riusciva a nulla, ne ebbe tale rammarico che morì di rabbia. Dione, suo successore nel governo, gli succedette anche nella ferocia: credette fosse dover suo vendicare la morte del padre, di cui credeva fosse causa la figlia. Inventò mille sorta di tormenti contro quella vergine innocente: ma il più crudele fu l’immergerla in una vasca piena di olio bollente misto a pece. La santa giovane, che Dio compiacevasi proteggere in faccia ed a confusione dei suoi tiranni, con un sol segno di croce fece perder la forza a tutta quella materia, e usando una santa facezia, disse loro che l’avevano messa in una culla, come un bambino appena battezzato. Quei detestabili ministri di satana furono indignati di vedere che una fanciulla di dieci anni trionfava di tutti i loro sforzi, e dimenticando il rispetto dovuto al pudore ed alla modestia di quella vergine, le tagliarono i capelli, la spogliarono degli abiti, ed in tale stato la trascinarono in un tempio di idoli per forzarla a presentare incenso al demonio: ma alla sua entrata nel tempio, l’idolo cadde in pezzi, ed il tiranno morì sull’istante. Gli idolatri, testimoni del fatto, si convertirono quasi tutti, in numero di tremila. La santa giovane passò in mano d’un altro carnefice, chiamato Giustino. Il tiranno, stimando suo dovere vendicar la vergogna e la morte del suo predecessore, provò ancora su di essa quanto il furore poté ispirargli: cominciò a gettarla in una fornace ardente, perché vi rimanesse incenerita: ma il buon Dio, con un nuovo miracolo, permise che le fiamme non le facessero alcun male; e la vergine vi stette cinque giorni senza nulla soffrirne. Allora gli uomini, trovandosi esauriti nella loro malizia, ricorsero al demonio, e si rivolsero ad un mago che gettò gran numero di orribili serpenti nella sua prigione, pensando che sarebbe morta di veleno: ma tale consiglio diabolico non servì che a far risplendere maggiormente la gloria della vergine, facendola trionfare degli animali, dopo aver trionfato della rabbia degli uomini. Le si tagliò la lingua: ma si faceva udire anche meglio, e cantava con più forza le lodi del Dio che adorava. Da ultimo, non sapendo più che fare, il carnefice la fece attaccare ad un palo, dove il suo corpo fu trafitto da frecce, finché l’anima sua se ne separò per andar a godere la presenza di Dio che aveva così ben meritata. Ditemi, F. M., questa giovinetta non comprendeva la grandezza ed il valore dell’anima? Non era penetrata di quanto doveva fare per conservarla, a costo dei beni, dei piaceri, della sua vita stessa? Ah! F. M., se avessimo una buona volta compreso che 1’anima nostra vale la stima che Dio stesso ne fa, potremmo lasciarla perire come facciamo? No, no, F. M., non meravigliamoci più di tante lagrime versate da Gesù Cristo sulla perdita dell’anima nostra. Ma, penserete voi, su che cosa adunque ha tanto pianto Gesù Cristo? — Ahimè! ha pianto sul nostro orgoglio, vedendo che non cerchiamo che gli onori e la stima del mondo, invece di pensar solo ad umiliarci alla vista di ciò che un Dio ha subito per innalzarci: ha pianto sui nostri odii e sulle nostre vendette, mentre egli muore pe’ suoi nemici: ha pianto sui nostri vizi vergognosi di impurità, vedendo come questo peccato disonora l’anima nostra e la immerge in un fango immondo e putrido. Ahimè, F. M.! Egli ha pianto sui nostri peccati. Voleva salvarci tutti e renderci felici; non voleva che anime sì belle, sue creature, andassero perdute, disonorate, schiave del demonio, mentre sono dotate di tante belle doti, e destinate a sì grande felicità.

III. — S. Agostino ci dice: “Volete sapere che cosa vale l’anima vostra? Andate, domandatelo al demonio; egli ve lo dirà. Il demonio stima tanto un’anima che quando pur vivessimo quattro mila anni, se dopo quattro mila anni di tentazioni riuscisse di guadagnarci, non gli rincrescerebbe affatto.„ Questo Santo che aveva provato le tentazioni del demonio in un modo particolare, ci dice che la nostra vita è una tentazione continua. Il demonio stesso disse un giorno per bocca di un ossesso, che finché fossevi un uomo sulla terra lo avrebbe tentato. Perché, disse, non posso soffrire che i Cristiani dopo tanti peccati possano sperar ancora il cielo che io ho perduto in un solo momento senza poterlo più riguadagnare. Ma, ahimè! non sentiamo noi stessi che in quasi tutte le nostre azioni siamo tentati, ora dall’orgoglio, dalla vanità, dalla buona opinione che pensiamo si avrà di noi, ora dalla gelosia, dall’odio, dalla vendetta! Altre volte il demonio non viene a presentarci le immagini più vergognose ed impure? Vedete nelle nostre preghiere: egli distrae il nostro spirito da una parte e dall’altra: non ci sembra quasi d’essere in uno stato quando ci troviamo alla santa presenza di Dio? E, assai più, non troverete un santo che non sia stato tentato dopo Adamo, chi in un modo, chi in un altro; ed i più gran Santi lo furono di più. Se nostro Signore è stato tentato, è per mostrarci che dobbiamo esserlo ancor noi: bisogna adunque assolutamente aspettarcelo. Se mi domandate la causa delle nostre tentazioni, vi dirò che è la bellezza ed il valore dell’anima nostra, che il demonio stima ed ama tanto che acconsentirebbe a soffrire due inferni, occorrendo, se con ciò potesse trascinare l’anima nostra all’inferno. Non dobbiamo cessar mai di vegliare su di noi stessi, per timore che il demonio ci inganni quando meno ce l’aspettiamo. S. Francesco ci dice che un giorno il buon Dio gli fece vedere il modo col quale il demonio tentava i suoi religiosi, soprattutto contro la purità. Gli mise innanzi una schiera innumerevole di demoni i quali non facevan altro che tirar frecce contro i religiosi: le une ritornavano con violenza contro i demoni stessi che le avevano scagliate; ed allora questi fuggivano gettando urla spaventevoli: le altre rimbalzavano su quelli contro i quali erano state gettate, cadendo ai loro piedi senza fare alcun male; altre entravano sino a tutta l’asta, ed infine li trapassavano da parte a parte. Bisogna servirci per scacciarli, come ci dice sant’Antonio, delle medesime armi; quando ci tenta di orgoglio, dobbiamo subito umiliarci ed abbassarci davanti a Dio: se vuol tentarci contro la santa virtù della purità, dobbiam cercare di mortificare il nostro corpo e tutti i nostri sensi, ed essere ancor più vigilanti su di noi stessi. Se vuol tentarci col disgusto nella preghiera, bisogna pregare di più e con maggior attenzione: e più il demonio ci dirà di lasciarla, più dobbiamo aumentare il numero delle nostre orazioni. Le tentazioni più da temere sono quelle che non conosciamo. S. Gregorio ci dice che era vi un religioso, che per un po’ era stato buono: gli venne poi un gran desiderio di uscire dal monastero e ritornare nel mondo perché, diceva egli, il buon Dio non lo voleva più nel monastero. Il suo superiore gli disse: “Amico mio, è il demonio che così vi tenta, indispettito che possiate salvar  l’anima vostra; combattetelo.„ Ma no, l’altro credé sempre che la cosa fosse com’egli pensava. Il santo gli permise di andarsene: ma mentre questi usciva, egli si pose in ginocchio per domandare al buon Dio di far conoscere a quel povero religioso che era precisamente il demonio che voleva perderlo. Appena messo il piede sulla soglia della porta per uscire, vide un grosso dragone che gli si gettò addosso. “Ah! esclamò, Fratelli miei, soccorso! ecco un dragone che mi vuol divorare.„ Infatti i religiosi accorsi al rumore, lo trovarono steso in terra, svenuto: lo portarono nel monastero, ed egli riconobbe che era il demonio che lo tentava, e che si struggeva di rabbia perché il suo superiore aveva pregato per lui, impedendogli di farlo suo. Ahimè! F. M., dobbiamo temere di non conoscere le nostre tentazioni! E non le conosceremo mai se non lo domandiamo a Dio. Che cosa dobbiamo, M. F., concludere, da ciò? che l’anima nostra è qualche cosa di ben grande agli occhi dei demoni, poiché sono tanto solleciti di non lasciarsi sfuggire una sola occasione di tentarci, per perderci e trascinarci nella loro rovina. Ma ora che abbiamo visto, F. M., che l’anima nostra è alcunché di grande, che Dio l’ama, che ha sofferto tanto per salvarla, e quali beni le prepara nell’altra vita: ora che abbiamo visto tutte le insidie ed astuzie del demonio per rovinarla, che cosa, F. M., ne pensiamo? quale stima ne facciamo? quale cura ne abbiamo? Abbiamo mai, F. M., meditato sulla grandezza dell’anima nostra, e sulla sollecitudine che ne dobbiamo avere? Che cosa facciamo, F. M., di quest’anima che ha tanto costato a Gesù Cristo? Ahimè! se dovessimo confessare che l’abbiamo soltanto per renderla infelice e farla soffrire! La stimiamo meno delle nostre bestie più vili: se queste sono in stalla, diamo loro da mangiare: abbiamo cura di aprire e chiudere le porte, temendo che i ladri ce le rubino: se ammalate, cerchiamo il veterinario che le guarisca: siamo afflitti, assai spesso, vedendole soffrire. Facciamo altrettanto per l’anima nostra, F. M.? Abbiamo cura di nutrirla colla grazia, colla frequenza ai Sacramenti? Abbiamo cura di ben chiudere le porte, per timore che i ladri ce la rubino? Ahimè! F. M., diciamolo a nostra vergogna: la lasciamo perire di miseria: la lasciamo assalire dai nemici, le nostre passioni: lasciamo tutte le porte aperte: viene il demonio dell’orgoglio, lo lasciamo entrare, ferire, straziare l’anima nostra: viene quello dell’impurità, entra, insozza, corrompe la povera anima nostra. “Ah! povera anima, ci dice S. Agostino, come sei stimata cosa da poco. Un orgoglioso ti vende per un pensiero di orgoglio, un avaro per un po’ di terra, un ubbriacone per un bicchier di vino, un vendicativo per un pensiero di vendetta!„ E davvero, F. M., dove sono le nostre buone orazioni, le Comunioni, le preghiere ben fatte, le Messe ben ascoltate, la rassegnazione alla volontà di Dio nelle afflizioni, la carità pei nemici? È possibile, F. M., che facciamo sì poco caso di un’anima tanto bella, che Dio ha amato più di se stesso, poiché è morto per salvarla? Ahimè, amiamo il mondo ed i piaceri del mondo: e quanto si riferisce alla gloria di Dio od alla salvezza dell’anima nostra ci annoia, ci disgusta: mormoriamo, quando bisogna occuparsene. Ahimè! qual rimorso avremo un giorno!… Il mondo sembra darci qualche piacere: ma non inganniamoci. Ascoltate che cosa ci dice S. Giovanni Crisostomo: vedrete come è più fortunato chi cerca conservare l’anima sua di chi cerca solo i piaceri e lascia da parte l’anima. “Mentre dormivo, racconta questo gran Santo, ebbi un sogno straordinario, che, svegliatomi, mi presentò tanti soggetti di riflessioni davanti a Dio. Vidi un luogo delizioso, una valle incantevole, dove la natura aveva raccolto tutte le sue bellezze, tutte le ricchezze e tutti i piaceri capaci di rallegrare un mortale. Mi meravigliò, in mezzo a quella valle di delizie, un uomo dall’aspetto triste, dal viso alterato, dallo spirito preoccupato: il suo atteggiamento tradiva l’agitazione dell’animo: ora stava immobile, con lo sguardo fisso a terra; ora camminava a lunghi passi con aria smarrita: poi, arrestatosi improvvisamente, mandava profondi sospiri, e s’immergeva in tetra melanconia, come se fosse vicino alla disperazione. Osservando attentamente, scopersi che quella valle di delizie terminava ad un precipizio pauroso, ad una voragine immensa, dove una forza arcana sembrava trascinarlo. Quell’uomo era agitato, malgrado tante delizie, perché con tale vista non poteva gustare un sol momento di gioia e di pace. Ma spingendo più lontano i miei sguardi, vidi un altro luogo tutto differente, un vallone oscuro e triste, montagne scoscese, deserti sterili: solo la desolazione sembrava abitar quel luogo, e nessun fogliame, nessuna verzura; rovi e spine: tutto ispirava tristezza, e una specie di orrore. La mia sorpresa giunse al colmo quando scorsi in questa valle un uomo pallido, macilento, estenuato, eppure con un viso sereno, un portamento tranquillo ed un’aria contenta: nonostante le apparenze desolanti, tutto annunciava un uomo che ha la pace dell’anima: ma spingendo i miei sguardi ancor più lontano, distinsi al termine di quella valle di miserie e di quel pauroso deserto, un luogo delizioso, un sito incantevole, dove scoprivasi ogni sorta di bellezze. L’uomo teneva fisso sempre l’occhio a quel termine, non lo perdeva mai di vista: camminava con coraggio, passando attraverso i rovi, dove spesso si pungeva: ma le sue ferite sembravano rinnovargli le forze. Meravigliato di ciò, domandai perché l’uno era così triste in quel luogo di piaceri, e l’altro così contento in un luogo di miserie. Allora sentii una voce che mi disse: Questi due uomini che vedi sono l’immagine di coloro che sono o interamente attaccati al mondo, o sinceramente consacrati al servizio di Dio. Il mondo, mi disse quella voce, presenta ai suoi seguaci prima i beni, i piaceri, almeno in apparenza; essi vi si abbandonano come insensati: ma bentosto riconoscono che non trovarono quanto credevano. La cosa più triste e desolante è che a capo di questa valle vi è una voragine, dove vanno a precipitare tutti coloro che camminano per questa via che sembra tanto dilettevole. L’altro uomo al contrario, mi disse la voce, dimostra l’opposto: nel servizio di Dio, prima vi sono prove e dolori, si abita in una valle di lagrime: bisogna mortificarsi, farsi violenza, privarsi delle dolcezze della vita, passare i giorni nelle angustie. Ma si resta animati dalla vista e dalla speranza d’un avvenire per sempre felice: è la sorte riservata all’uomo che trovavasi nella valle triste: ed il pensiero della felicità che gli  spetta lo conforta e lo sostiene nelle sue lotte. Tutto diviene consolante per lui, l’anima sua gusta già i beni promessi, che l’attendono, e dei quali godrà presto. „ Si può trovare, F. M., un’immagine più naturale di questa, per farci comprendere la differenza tra chi nella sua vita cerca solo di piacere a Dio, salvare l’anima propria, e chi mette da parte Dio e l’anima per correre dietro ad alcuni piaceri, che, senza offrire nulla di consolante né di perfetto, ci conducono in un precipizio, cioè nella voragine infernale (Est via qua videtur humìni justa: novìssima autem ejus deducunt ad mortem. Risus dolore miscebitur, et extrema gaudii luctus occupat (Prov.XIV, 12, 13). Fortunato, carissimi, chi seguirà questa strada, dove vi sono pene, ma di breve durata, e che al suo termine conduce ad un luogo felice, al possesso di Dio! È la fortuna che vi auguro ….

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XVIII: 9-12
Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulcióra super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea.

[La legge del Signore è retta e rallegra i cuori, i suoi giudizii sono piú dolci del miele e del favo: e il servo li custodisce.]

Secreta

Concéde nobis, quǽsumus, Dómine, hæc digne frequentáre mystéria: quia, quóties hujus hóstiæ commemorátio celebrátur, opus nostræ redemptiónis exercétur.

[Concedici, o Signore, Te ne preghiamo, di frequentare degnamente questi misteri, perché quante volte si celebra la commemorazione di questo sacrificio, altrettante si compie l’opera della nostra redenzione.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann VI: 57
Qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in eo, dicit Dóminus.

[Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me, ed io in lui, dice il Signore.]

Postcommunio

Orémus.
Tui nobis, quǽsumus, Dómine, commúnio sacraménti, et purificatiónem cónferat, et tríbuat unitátem.

[O Signore, Te ne preghiamo, la partecipazione del tuo sacramento serva a purificarci e a creare in noi un’unione perfetta.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “LE LACRIME DI GESÙ CRISTO”

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Le lagrime di Gesù Cristo.

Videns Jesus oivitatem, flevit super illam.

(Luc. XIX, 41).

Gesù Cristo, entrando nella città di Gerusalemme pianse su di essa, dicendo: “Se almeno conoscessi le grazie che ti ho portato, e ne volessi approfittare, potresti ricevere ancora il tuo perdono: ma la tua cecità è giunta a tale eccesso, che tutte queste grazie non serviranno che a renderti ostinata e a perderti: tu hai ucciso i profeti, e fatto morire i servi di Dio; ed ora stai per mettere il colmo ai tuoi delitti facendo morire il Figlio stesso di Dio. „ Ecco, F. M., ciò che strappava lagrime a Gesù Cristo in grande abbondanza, mentre si avvicinava a quella città. Ahimè! Egli considerava in tutte queste sventure, la perdita di tante anime, ben più colpevoli dei Giudei, perché più di questi favoriti di tante grazie. Davvero, F. M., ciò che lo commosse così vivamente fu il pensiero che, non ostante i meriti della sua passione e morte sufficienti per redimere mille mondi più grandi del nostro, il maggior numero degli uomini andrebbe perduto. – Sì, F. M., Egli prevedeva coloro che disprezzerebbero le sue grazie, non servendosene che in proprio danno. E chi di noi, F. M., non trepiderà pensando sinceramente a condurre l’anima propria al cielo? Non siamo noi di quel numero? Non è per noi che Gesù Cristo disse piangendo: “Ah! purtroppo, se il mio sangue e la mia morte non servono alla vostra salvezza, accenderanno la collera del Padre mio su di voi per tutta l’eternità? „ Un Dio tradito!… un’anima dannata!… un cielo rifiutato! … Possibile che a tante sciagure rimaniamo insensibili? … È possibile, F. M., che, malgrado quanto ha fatto Gesù Cristo per salvare le anime nostre, siamo così insensibili alla loro perdita? … Ma per togliervi, F. M., da tale insensibilità, vi mostrerò:

1° che cos’è un’anima;

2° quanto ha costato a Gesù Cristo;

3° quanto fa il demonio per condurla a perdizione.

I. — Ah! F. M., se avessimo la fortuna di conoscere il valore dell’anima nostra, con qual cura la custodiremmo? Ahimè! non lo comprenderemo mai abbastanza! Voler mostrarvi, F. M., la grandezza del valore di un’anima è impossibile per un mortale: Dio solo conosco tutte le bellezze, le perfezioni delle quali l’ha ornata. Vi dirò solamente che tutto quanto Dio ha creato, il cielo, la terra e tutto ciò che vi a contenuto, tutto queste meraviglie furon create in suo favore. Il nostro catechismo ci dà la più bella prova possibile della grandezza dell’anima. Quando si domanda ad un fanciullo: che cosa intendi quando dici che l’anima dell’uomo è uno spirito creato ad immagine di Dio? Quest’anima, ci risponde il fanciullo, al pari di Dio ha la potenza di conoscere, di amare e di determinarsi liberamente in tutte le sue azioni. Ecco, F. M., il più bell’elogio che possiamo fare delle doti, colle quali Dio abbellì l’anima nostra, creata dalle tre Persone della Ss. Trinità, ed a loro somiglianza. Uno spirito, al par di Dio, immortale, capace di conoscere le bellezze e le perfezioni tutte di Dio, quanto è possibile ad una creatura: uno spirito, che è l’oggetto delle compiacenze delle tre divine Persone; uno spirito, che può glorificar Dio in tutte le sue azioni; uno spirito, la cui occupazione sarà di cantar le lodi di Dio per tutti i secoli; uno spirito, che risplenderà della felicità di Dio medesimo; uno spirito, che ha una tal libertà nelle sue azioni da poter donare la sua amicizia, l’amor suo a chi meglio gli pare; che può non amare Dio, od amarlo: ma che, se è tanto fortunato di volgere il suo amore a Dio, non obbedisce più esso a Dio, sebbene Dio stesso fa quanto vuole questo spirito (Voluntatem timentium se faciet Ps. CXLIV. 19) e sembra compiacersi di farlo. Potrei anche dire che dal principio del mondo non trovate un’anima che, essendosi data a Dio senza restrizioni, Dio le abbia rifiutato alcuna cosa da lei desiderata. Vediamo che Dio ci ha creato con tali desideri, che nulla è capace di soddisfarli. Presentate ad un’anima tutte le ricchezze ed i tesori del mondo, niente di ciò potrà accontentarla; avendola Iddio creata per sé, non vi è che Lui solo capace di riempire tutti i vasti suoi desideri. Sì, P. M., l’anima nostra può amar Dio; ed è questa la più grande di tutte le felicità! Amandolo abbiamo tutti i beni ed i piaceri che possiamo desiderare sulla terra ed in cielo (Ps. LXXII, 25).Possiamo anche servirlo; cioè glorificarlo in ogni azione della nostra vita. Anche dalle minime cose che facciamo Dio viene glorificato, se le facciamo coll’intenzione di piacergli. La nostra occupazione, mentre siamo sulla terra, nulla ha di differente da quella degli Angeli in cielo; l’unica differenza è che noi vediamo questi beni solo cogli occhi della fede.  L’anima nostra è così nobile, ornata di tante belle qualità che il buon Dio non volle affidarla che ad un principe della corte celeste. L’anima nostra è così preziosa agli occhi di Dio stesso, che in tutta la sua sapienza, non trovò altro cibo degno di lei che il suo Corpo adorabile, di cui vuole che essa faccia il suo nutrimento quotidiano: e altra bevanda che il Sangue suo prezioso. ” Sì, F. M., abbiamo un’anima che Dio stima tanto, ci dice S. Ambrogio, che, fosse stata pur sola nel mondo, egli non avrebbe creduto di far troppo morendo per essa; e se, creandola, non avesse creato il cielo, il buon Dio lo avrebbe creato apposta per essa, anche se fosse sola nel mondo.„ Come disse Egli un giorno a S. Teresa: “Mi sei tanto cara, così Gesù Cristo, che se non vi fosse il cielo, ne creerei uno apposta per te. „ —“O corpo mio, esclama S. Bernardo, quanto sei fortunato di albergare un’anima adorna di tante belle qualità! Un Dio, sebbene infinito, la fa oggetto di sue compiacenze!„ Sì, F. M., l’anima nostra è destinata a passar tutta l’eternità in grembo a Dio stesso. Dico tutto in una parola: l’anima nostra è alcunché di così grande, di così prezioso, che Dio solo la supera. Un giorno il buon Dio fece vedere un’anima a S. Caterina. La trovò così bella, che esclamò: “O mio Dio, se la fede non mi insegnasse che v’è un Dio solo, crederei che questa sia una divinità; no, mio Dio, non mi meraviglio più che voi siate morto per l’anima che è sì bella!„ Sì, F. M., l’anima nostra nella vita futura sarà eterna quanto Dio stesso. No, no, non andiamo oltre: ci perdiamo in questo abisso di grandezza. Dopo questo, F. M., vi lascio pensare se dobbiamo meravigliarci che Dio, il quale ne conosce così bene il valore, pianga tanto amaramente la perdita di un’anima. Ahimè! F. M., il buon Dio è così sensibile alla perdita di un’anima che l’ha pianta prima di aver gli occhi per piangere: adoperò gli occhi dei suoi profeti per piangere la perdita delle anime nostre. Lo vediamo in modo evidente nel profeta Amos: “Essendomi ritirato nell’oscurità, dice il profeta, considerando lo spaventoso numero di delitti che il popolo di Dio commette ogni giorno, vedendo che la collera di Dio era pronta a piombargli addosso, e che l’inferno apriva le sue fauci per inghiottirlo, adunatili insieme, ed io stesso tutto tremante, dissi loro piangendo amaramente: “Figli miei, sapete qual è la mia occupazione, notte e giorno? Ahimè! mi rappresento vivamente tutti i vostri peccati, nell’amarezza del mio cuore. Se dopo… oppresso dalla fatica, mi assopisco, subito mi sveglio di soprassalto, con gli occhi bagnati di lagrime ed il cuore spezzato dal dolore gridando: Mio Dio, mio Dio, non vi saranno anime in Israele che non vi offendono? Quando mi riempio la mente di questa triste e lagrimevole idea, ne parlo   al Signore, ne gemo amaramente alla sua santa presenza, dicendogli: Mio Dio, qual mezzo debbo usare per ottener loro grazia? Ecco che cosa mi rispose il Signore: Profeta, se vuoi ottenere il perdono di questo popolo ingrato, va, corri per le vie e per le pubbliche piazze: falle risuonare dei gemiti più amari: entra nelle botteghe dei mercanti e degli artigiani; va nei luoghi dove si amministra la giustizia: ascendi nelle magioni dei grandi e nei gabinetti dei giudici: di’ a tutti quanti troverai dentro e fuori della città: “Guai a voi! ah! guai a voi, che avete peccato contro il Signore!„ Non basta; chiama in tuo soccorso quanti sono capaci di piangere, affinché aggiungano le loro lagrime alle tue, ed i vostri gemiti e le vostre grida siano così spaventose da gettare la costernazione in tutti i cuori: affinché abbandonino i loro peccati e li piangano sino alla tomba: affinché comprendano quanto mi è dolorosa la perdita delle anime loro. „ – Il profeta Geremia, F. M., va ancor più oltre. Per farci intendere quanto la perdita di un’anima è dolorosa per Iddio, ascoltatelo in un momento in cui è dominato dallo spirito del Signore: “Ah! mio Dio, ah! mio Dio, che diverrò? m’avete dato la cura d’un popolo ribelle, d’una nazione ingrata, che non vuole ascoltarvi, né sottomettersi ai vostri ordini; ahimè! che farò io? qual partito prenderò? Ecco ciò che il Signore mi rispose: “Per mostrar loro quanto io soffra per la perdita dell’anima loro, afferra i tuoi capelli, strappali dalla testa, gettali lontano, perché il peccato di questo popolo m’ha costretto ad abbandonarlo, ed il mio furore è piombato su di esso.„ Quando la collera del Signore è accesa pel peccato nel cuore, è la più terribile malattia: “Ma, Signore, gli disse il profeta, che farò io per impegnarvi a distogliere il vostro sguardo di collera dal popolo vostro? — Vestiti di un sacco, mi disse il Signore, mettiti la cenere sulla testa e piangi senza tregua e con tanta abbondanza che le lagrime coprano il tuo volto; e piangi tanto amaramente che i tuoi peccati vengano soffocati nelle tue lagrime.„ (Ger. VII, 29). Comprendete, F. M.. quanto affligga il buon Dio la perdita delle nostre anime? Vedete quanto siamo sventurati, perdendo un’anima, che Dio ama tanto che non avendo ancora gli occhi per piangere, adopera quelli dei profeti per versar lagrime amare sulla sua rovina! Il Signore ci dice per bocca del profeta Gioele: “Piangete la perdita delle anime come uno sposo novello, il quale ha perduto la sposa che doveva essere tutta la sua consolazione, ed è ridotto ad ogni sorta di sventure!„ (Gioel. I, 8) S. Bernardo ci dice che tre cose sono capaci di farci piangere: ma ve n’è una sola che possa render meritorie le lagrime nostre, cioè quando piangiamo i peccati nostri o dei nostri fratelli: tutte le altre non sono che lagrime profane o colpevoli, o almeno infruttuose. Piangere la perdita d’una lite ingiusta, la morte d’un figlio; lagrime inutili. Piangere la privazione d’un piacere carnale; lagrime peccaminose. Piangere una lunga malattia; lagrime infruttuose ed inutili. Ma, piangere la morte spirituale dell’anima propria, la lontananza di Dio, la perdita del cielo: “O lagrime preziose, ci dice questo gran Santo; ma quanto siete rare!„ E perché, F. M., se non perché non sentite la grandezza della disgrazia vostra nel tempo e nella eternità? Ahimè, F. M.! è il timore di questa perdita che ha spopolato il mondo, per riempire di tanti Cristiani i deserti ed i monasteri: costoro comprendevano assai meglio di noi che se perdiamo l’anima nostra tutto è perduto; e, che essa doveva essere di gran valore, se Dio stesso ne faceva tanto conto. Sì, F. M., i santi hanno sofferto tanto per conservare l’anima loro pel cielo! La storia ce ne fornisce esempi senza numero: eccone uno, F. M.: se non abbiamo il coraggio di imitarlo, potremo almeno ammirarlo per benedirne il buon Dio. Leggiamo nella vita di S. Giovanni Calibita (Vita dei Padri del deserto, t. IX, P. 279), nato a Costantinopoli, che incominciò dalla sua infanzia a comprendere il nulla delle cose umane, ed a sentire un gusto grande per la solitudine. Un religioso d’un vicino monastero passando da Costantinopoli per andar in pellegrinaggio a Gerusalemme, alloggiò in casa de’ parenti di lui, che ricevevano i pellegrini con molto piacere. Il fanciullo domandò qual era la vita che si conduceva nel monastero. Sentito il racconto della vita santa e penitente dei religiosi, il piacere che si provava separati dal mondo per non aver altro commercio che con Dio solo, egli ne fu così commosso, e concepì un tal desiderio di abbandonare il mondo per partecipare a tale felicità, che non poteva più vedersi nel mondo. Disse a’ suoi parenti di non pensar più a fargli una posizione, perché Dio lo chiamava a finire i suoi giorni nel ritiro. I parenti tentarono, se era possibile, di fargli cambiar proposito: tutto inutile; domandò loro per sola eredità il libro dei santi Vangeli, che fu il suo unico tesoro. Ma per liberarsi dalle insistenze continue dei genitori, e per darsi tutto al buon Dio, abbandonò la casa, ed andò a presentarsi alla porta d’un monastero, chiedendo d’esservi ricevuto. I parenti mandarono a cercarlo da ogni parte. Non potendo trovarlo, si abbandonarono alle lagrime più amare. Il santo giovane passò sei anni in quel ritiro praticando tutte le virtù e penitenze che il suo amore per il buon Dio poté ispirargli. Dopo questo tempo gli venne il pensiero d’andar a visitare i parenti suoi, sperando che il buon Dio gli accorderebbe la stessa grazia che ebbe S. Alessio, il quale passò venti anni presso i suoi senza che alcuno lo conoscesse. Appena uscito dal monastero, trovato un povero cambiò l’abito con lui per rendersi ancor più irriconoscibile: d’altra parte le sue austerità così grandi ed una grave malattia l’avevano estremamente sfigurato. Vista da lontano la casa dei suoi genitori, si inginocchiò per domandare a Dio di guidarlo nella sua impresa. Essendo la porta già chiusa perché era notte, rimase fino a giorno là presso. Al mattino i domestici, vedutolo, ne ebbero compassione e gli permisero d’entrare in una piccola stanza per ritirarvisi. Dio solo conobbe quanto ebbe a soffrire, vedendo i suoi genitori ad ogni istante che passavano davanti a lui, e piangevano amaramente la perdita del figlio che era tutta la loro consolazione. Il padre suo, assai caritatevole, di tratto in tratto mandavagli di che nutrirsi: ma la madre non poteva avvicinarglisi senza sentirsi il cuore ribellarsi, tanto trovava ributtante quel povero. Se la sua carità non le avesse fatto vincere tal ripugnanza, l’avrebbe scacciato di casa. Sempre immersa nella tristezza, sempre piangente: e ciò davanti a colui che non poteva essere insensibile a quanto formava il più grande dei tormenti di sua madre… Il buon santo passò tre anni in quella triste condizione, solo occupato nella preghiera e nel digiuno, spinto fino all’eccesso: piangeva continuamente. Quando il buon Dio gli fece conoscere essere vicina la sua fine, pregò il maggiordomo di suggerire alla padrona la carità di venire a vederlo, perché desiderava ardentemente di parlarle. Ricevuta tale ambasciata, ella ne parve seccata, sebbene solita a visitare spesso gli ammalati: provava tal ripugnanza di visitare costui, che dovette farsi grande violenza per andare sino all’entrata del luogo dove egli trovavasi. Il morente la ringraziò di tutte le cure che aveva avuto per un miserabile sconosciuto, e l’assicurò che pregherebbe sempre il Signore per lei, affinché la ricompensasse di quanto aveva fatto a suo favore. Le domandò ancora la grazia di incaricarsi della sua sepoltura. Dopo che glielo ebbe promesso, le donò il libro dei santi Evangeli, assai ben rilegato. Ella fu sorpresa di vedere che un povero possedeva un libro così ben rilegato: allora si risovvenne di quello già dato al figlio perduto. Rinnovandosi il suo dolore, si mise a versar lagrime copiose. Accorso il padre a quel pianto rumoroso, ed esaminato il libro, riconobbe che era quello del loro figlio. Egli domandò cosa fosse avvenuto di lui. Il santo che non aveva più che un soffio di vita, disse loro sospirando e piangendo: “Questo è il libro che mi avete dato dieci anni fa: io sono quel figlio che tanto cercaste e pel quale tanto avete pianto. „ A queste parole, quasi svennero, vedendo il loro caro figlio cercato tanto lontano, e che era così vicino: sembrava loro di non poter più vivere. Ma nell’istante che lo stringevano tra le braccia, egli alzò le mani e gli occhi al cielo e rese a Dio la sua anima bella, che per conservarsi nell’innocenza aveva fatto tanti sacrifici, penitenze e sparso tante lagrime. Ecco, F. M., ciò che possiamo dire: questo Cristiano aveva la fortuna di conoscere la grandezza dell’anima sua, e la cura che doveva averne. Ecco, F. M., un Cristiano che ha glorificato Iddio in tutti gli atti della sua vita: ecco un’anima che ora brilla di gloria in cielo, e benedice il buon Dio d’averle dato la grazia di vincere il mondo, la carne, il sangue. Ah! sono pur fortunate queste morti anche agli occhi del mondo!

II. — In secondo luogo, ho detto che per conoscere il valore dell’anima nostra ci basta considerare quanto Gesù Cristo ha fatto per essa. Chi di noi, F. M., potrà comprendere quanta stima fa il buon Dio dell’anima nostra, giacché Egli ha fatto quanto era possibile ad un Dio per rendere felice una creatura? Per sentirsi più spinto ad amarla, la volle creare a sua immagine e somiglianza: perché contemplandola vedesse so stesso. Perciò vediamo che Egli dà all’anima i nomi più teneri e più capaci di manifestare un amore spinto sino all’eccesso. L a chiama sua figlia, sorella, diletta, sposa, amica, colomba. (Cant. II, 10; IV, 9; e, etc.). Ma non basta: l’amore si mostra assai meglio coi fatti che colle parole. Vedete la sua premura di abbandonare il cielo per prendere un corpo simile al nostro; sposando la nostra natura, Egli ha assunto tutte le nostre informità, tranne il peccato; o piuttosto ha voluto caricarsi della giustizia che il Padre suo domandava da noi. Vedete il suo annientamento nel mistero dell’Incarnazione: vedete la sua povertà: per noi nasce in una stalla: vedete le lagrime che spargeva su quella paglia, dove pianse in anticipazione i nostri peccati: vedete quel sangue che scorre sotto il coltello della circoncisione: vedetelo fuggire in Egitto come un colpevole: vedete quell’umiltà e quella sottomissione a’ suoi genitori: vedetelo nel giardino dogli Ulivi, che geme, prega e sparge lagrime di sangue: vedetelo, preso, legato, incatenato, gettato a terra, percosso con calci e bastoni dalle sue creature: osservatelo attaccato alla colonna, tutto insanguinato: il suo corpo ha ricevuto troppe percosse, il sangue scorre per modo che anche i carnefici ne sono coperti: vedete la corona di spine che trapassa quel capo sacrosanto; vedetelo portare la croce al Calvario: quanti sono i passi che muove altrettante le cadute: vedetelo inchiodato sulla croce, ove Egli stesso vi si stende senza lasciar uscire dalla bocca una sola parola di lamento. Vedete le lacrime d’amore sparse morendo, e mescolantisi col suo Sangue adorabile! Questo è veramente un amore degno d’un Dio, che è amore! Così davvero, F. M., Egli mostra la stima che fa di un’anima! Non basta questo per farei comprendere quanto essa valga e la cura che dobbiamo averne? Ah! F. M., se avessimo la ventura, una volta sola nella vita, di comprendere la bellezza ed il valore dell’anima nostra, non saremmo pronti come Gesù Cristo, a far tutti i sacrifici per conservarla? Oh! quanto un’anima è bella, è preziosa agli occhi stessi di Dio! Come mai può darsi che ne facciamo così poco conto, e la trattiamo più duramente del più vile animale? Che deve pensare quest’anima, la quale conosce la propria bellezza e tutte le sue splendide doti, vedendosi trascinata nelle brutture del peccato? Ah! F. M., quando la avvoltoliamo nelle acque di quelle infami voluttà, sentiamo noi quale orrore deve essa provare di sé medesima l’anima, a cui Dio solo è superiore? Mio Dio, è possibile che sì poca cura ci prendiamo di tale bellezza? Vedete, F . M., cosa diviene un’anima che ha la disgrazia di cadere nel peccato. In grazia di Dio la si prenderebbe per una divinità: ma nel peccato!… Il Signore un giorno mostrò ad un profeta un’anima in peccato: ed egli ci dice che era simile ad una carogna, trascinata otto giorni per una strada sotto la sferza del sole. Ah! possiamo ben dire, F . M., col profeta Geremia: “È caduta la grande Babilonia, è divenuta il nido dei demoni. „ (Apoc. XVIII, 2; Jer. LI, 8) Oh! come è bella un’anima, quando ha la fortuna di possedere la grazia del suo Dio! No, no, Dio solo può conoscerne tutto il pregio e tutto il valore! Quindi, vedete come Dio ha istituito una religione per renderla felice quaggiù, aspettando di farla un giorno godere d’una più grande felicità nell’altra vita. Perché, F. M., ha istituito tutti i Sacramenti? Non è per guarirla, quando ha la sventura di essere ferita dal peccato, e per fortificarla nelle sue battaglie? Vedete a quanti oltraggi s’è esposto Gesù Cristo per essa! Quanto spesso si violano i suoi Comandamenti! quante volte vengono profanati i suoi Sacramenti, quanti sacrilegi nel riceverli! Eppur, no, F. M., sebbene Gesù Cristo sappia tutti gli insulti che vi riceverà, l’amore per le anime nostre non ha potuto arrestarlo dirò meglio, F. M.: Gesù Cristo ha tanto amato, o piuttosto ama tanto l’anima nostra, che, se occorresse, morirebbe una seconda volta. Vedete la sua sollecitudine in soccorrerci nelle nostre pene e nei nostri dolori: vedete le sue cure per coloro che vogliono amarlo: vedete tutte quelle schiere di santi che ha nutrito in modo miracoloso. Ah! F. M., se avessimo una volta la fortuna di ben comprendere che cos’è un’anima e come Dio… come Egli l’ama, e vuol ricompensarla per tutta l’eternità, noi faremmo come i santi: né i beni, né i piaceri, né la morte sarebbero capaci di farcela vendere al demonio. Vedete tutte quelle schiere di martiri e i tormenti sopportati per non perderla: vedeteli montar sui patiboli, e darsi in mano ai carnefici con gioia in credibile … Ne abbiamo un bell’esempio in S. Cristina, vergine e martire. Questa martire illustre era toscana. Il padre suo, governatore, ne divenne egli stesso il carnefice. Causa della sua collera, fu l’aver la figliuola tolti via tutti gli idoli che egli adorava in casa; riducendoli in pezzi per farne elemosina ai poveri cristiani. Per questo atto il padre ebbe un tale accesso di furore che la diede sull’istante in mano ai carnefici, i quali per suo ordine la flagellarono crudelmente e la tormentarono con ferocia inaudita. Il suo povero corpo era ormai tutto sanguinante e il padre ordinò si prendessero uncini di ferro per straziarglielo maggiormente. Giunsero tant’oltre, che le si vedeva gran parte delle ossa in quasi tutte le membra del corpo: ma, un dolore sì cocente non abbatté il suo coraggio né turbò la calma dell’anima sua; ella raccolse, senza tremare, la propria carne dilaniata e la presentò al padre. Un atto così sorprendente, invece di toccare il cuore di quel barbaro padre, non servì che ad irritarlo ancor più: la fece gettare in una prigione orribile, carica di catene: la ricoperse di maledizioni, dicendole che ben altri tormenti le erano preparati: ma la santa figliuola, che aveva appena dieci anni, non ne fu spaventata. Infatti, pochi giorni dopo, il padre la fece uscire di prigione, ed attaccare ad una ruota uncinata alquanto sollevata da terra e tutta cosparsa d’olio, con sotto accesovi gran fuoco, affinché, girando la ruota, il corpo della piccola innocente soffrisse un doppio supplizio. Ma un grande miracolo ne impedì l’effetto: il fuoco rispettò la purezza della vergine Cristina, e non fece alcun danno al suo corpo; mentre invece si voltò contro gli idolatri, e ne abbruciò un numero grandissimo. Il padre, vedendo tali prodigi, scoppiava di dispetto. Non potendo soffrire tale sconfitta, senza vendicarsene come l’odio gli ispirava, ricondusse la figlia in prigione: ma non vi restò senza chi la soccorresse: un angelo discese nella sua cella per consolarla, e ad un tempo guarì tutte le sue piaghe, ridandole nuove forze. Il padre snaturato, saputo il miracolo, stabilì di ordinare un ultimo sforzo. Comandò al carnefice di attaccarle una pietra al collo, e precipitarla nel lago. Ma il buon Dio che aveva saputo preservarla dalle fiamme, seppe anche salvarla dalle acque: il medesimo Angelo che l’aveva soccorsa in prigione, la soccorse sulle acque e la fece tranquillamente tornare alla riva, dove fu trovata più sana di prima. Il padre, vedendo che tutto quanto ordinava per farla soffrire non riusciva a nulla, ne ebbe tale rammarico che morì di rabbia. Dione, suo successore nel governo, gli succedette anche nella ferocia: credette fosse dover suo vendicare la morte del padre, di cui credeva fosse causa la figlia. Inventò mille sorta di tormenti contro quella vergine innocente: ma il più crudele fu l’immergerla in una vasca piena di olio bollente misto a pece. La santa giovane, che Dio compiacevasi proteggere in faccia ed a confusione dei suoi tiranni, con un sol segno di croce fece perder la forza a tutta quella materia, e usando una santa facezia, disse loro che l’avevano messa in una culla, come un bambino appena battezzato. Quei detestabili ministri di satana furono indignati di vedere che una fanciulla di dieci anni trionfava di tutti i loro sforzi, e dimenticando il rispetto dovuto al pudore ed alla modestia di quella vergine, le tagliarono i capelli, la spogliarono degli abiti, ed in tale stato la trascinarono in un tempio di idoli per forzarla a presentare incenso al demonio: ma alla sua entrata nel tempio, l’idolo cadde in pezzi, ed il tiranno morì sull’istante. Gli idolatri, testimoni del fatto, si convertirono quasi tutti, in numero di tremila. La santa giovane passò in mano d’un altro carnefice, chiamato Giustino. Il tiranno, stimando suo dovere vendicar la vergogna e la morte del suo predecessore, provò ancora su di essa quanto il furore poté ispirargli: cominciò a gettarla in una fornace ardente, perché vi rimanesse incenerita: ma il buon Dio, con un nuovo miracolo, permise che le fiamme non le facessero alcun male; e la vergine vi stette cinque giorni senza nulla soffrirne. Allora gli uomini, trovandosi esauriti nella loro malizia, ricorsero al demonio, e si rivolsero ad un mago che gettò gran numero di orribili serpenti nella sua prigione, pensando che sarebbe morta di veleno: ma tale consiglio diabolico non servì che a far risplendere maggiormente la gloria della vergine, facendola trionfare degli animali, dopo aver trionfato della rabbia degli uomini. Le si tagliò la lingua: ma si faceva udire anche meglio, e cantava con più forza le lodi del Dio che adorava. Da ultimo, non sapendo più che fare, il carnefice la fece attaccare ad un palo, dove il suo corpo fu trafitto da frecce, finché l’anima sua se ne separò per andar a godere la presenza di Dio che aveva così ben meritata. Ditemi, F. M., questa giovinetta non comprendeva la grandezza ed il valore dell’anima? Non era penetrata di quanto doveva fare per conservarla, a costo dei beni, dei piaceri, della sua vita stessa? Ah! F. M., se avessimo una buona volta compreso che 1’anima nostra vale la stima che Dio stesso ne fa, potremmo lasciarla perire come facciamo? No, no, F. M., non meravigliamoci più di tante lagrime versate da Gesù Cristo sulla perdita dell’anima nostra. Ma, penserete voi, su che cosa adunque ha tanto pianto Gesù Cristo? — Ahimè! ha pianto sul nostro orgoglio, vedendo che non cerchiamo che gli onori e la stima del mondo, invece di pensar solo ad umiliarci alla vista di ciò che un Dio ha subito per innalzarci: ha pianto sui nostri odii e sulle nostre vendette, mentre egli muore pe’ suoi nemici: ha pianto sui nostri vizi vergognosi di impurità, vedendo come questo peccato disonora l’anima nostra e la immerge in un fango immondo e putrido. Ahimè, F. M.! ha pianto sui nostri peccati. Voleva salvarci tutti e renderci felici; non voleva che anime sì belle, sue creature, andassero perdute, disonorate, schiave del demonio, mentre sono dotate di tante belle doti, e destinate a sì grande felicità.

III. — S. Agostino ci dice “Volete sapere che cosa vale l’anima vostra? Andate, domandatelo al demonio; egli ve lo dirà. Il demonio stima tanto un’anima che quando pur vivessimo quattro mila anni, se dopo quattro mila anni di tentazioni riuscisse di guadagnarci, non gli rincrescerebbe affatto.„ Questo santo che aveva provato le tentazioni del demonio in un modo particolare, ci dice che la nostra vita è una tentazione continua. Il demonio stesso disse un giorno per bocca di un ossesso, che finché fossevi un uomo sulla terra lo avrebbe tentato. Perché, disse, non posso soffrire che i cristiani dopo tanti peccati possano sperar ancora il cielo che io ho perduto in un solo momento senza poterlo più riguadagnare. Ma, ahimè! non sentiamo noi stessi che in quasi tutte le nostre azioni siamo tentati, ora dall’orgoglio, dalla vanità, dalla buona opinione che pensiamo si avrà di noi, ora dalla gelosia, dall’odio, dalla vendetta! Altre volte il demonio non viene a presentarci le immagini più vergognose ed impure? Vedete nelle nostre preghiere: egli distrae il nostro spirito da una parte e dall’altra: non ci sembra quasi d’essere in uno stato quando ci troviamo alla santa presenza di Dio? E, assai più, non troverete un santo che non sia stato tentato dopo Adamo, chi in un modo, chi in un altro; ed i più gran santi lo furono di più. Se nostro Signore è stato tentato, è per mostrarci che dobbiamo esserlo ancor noi: bisogna adunque assolutamente aspettarcelo. Se mi domandate la causa delle nostre tentazioni, vi dirò che è la bellezza ed il valore dell’anima nostra, che il demonio stima ed ama tanto che acconsentirebbe a soffrire due inferni, occorrendo, se con ciò potesse trascinare l’anima nostra all’inferno. Non dobbiamo cessar mai di vegliare su di noi stessi, per timore che il demonio ci inganni quando meno ce l’aspettiamo. S. Francesco ci dice che un giorno il buon Dio gli fece vedere il modo col quale il demonio tentava i suoi religiosi, soprattutto contro la purità. Gli mise innanzi una schiera innumerevole di demoni i quali non facevan altroché tirar frecce contro i religiosi: le une ritornavano con violenza contro i demoni stessi che le avevano scagliate; ed allora questi fuggivano gettando urla spaventevoli: le altre rimbalzavano su quelli contro i quali erano state gettate, cadendo ai loro piedi senza fare alcun male; altre entravano sino a tutta l’asta, ed infine li trapassavano da parte a parte. Bisogna servirci per scacciarli, come ci dice sant’Antonio, delle medesime armi; quando ci tenta di orgoglio, dobbiamo subito umiliarci ed abbassarci davanti a Dio: se vuol tentarci contro la santa virtù della purità, dobbiam cercare di mortificare il nostro corpo e tutti i nostri sensi, ed essere ancor più vigilanti su di noi stessi. Se vuol tentarci col disgusto nella preghiera, bisogna pregare di più e con maggior attenzione: e più il demonio ci dirà di lasciarla, più dobbiamo aumentare il numero delle nostre orazioni. Le tentazioni più da temere sono quelle che non conosciamo. S. Gregorio ci dice che era vi un religioso, che per un po’ era stato buono: gli venne poi un gran desiderio di uscire dal monastero e ritornare nel mondo perché, diceva egli, il buon Dio non lo voleva più nel monastero. Il suo superiore gli disse: “Amico mio, è il demonio che così vi tenta, indispettito che possiate salvar  l’anima vostra; combattetelo.„ Ma no, l’altro credé sempre che la cosa fosse com’egli pensava. Il santo gli permise di andarsene: ma mentre questi usciva, egli si pose in ginocchio per domandare al buon Dio di far conoscere a quel povero religioso che era precisamente il demonio che voleva perderlo. Appena messo il piede sulla soglia della porta per uscire, vide un grosso dragone che gli si gettò addosso. “Ah! esclamò, Fratelli miei, soccorso! ecco un dragone che mi vuol divorare.„ Infatti i religiosi accorsi al rumore, lo trovarono steso in terra, svenuto: lo portarono nel monastero, ed egli riconobbe che era il demonio che lo tentava, e che si struggeva di rabbia perché il suo superiore aveva pregato per lui, impedendogli di farlo suo. Ahimè! F. M., dobbiamo temere di non conoscere le nostre tentazioni! E non le conosceremo mai se non lo domandiamo a Dio. Che cosa dobbiamo, M. F., concludere, da ciò? che l’anima nostra è qualche cosa di ben grande agli occhi dei demoni, poiché sono tanto solleciti di non lasciarsi sfuggire una sola occasione di tentarci, per perderci e trascinarci nella loro rovina. Ma ora che abbiamo visto, F. M., che l’anima nostra è alcunché di grande, che Dio l ‘ama, che ha sofferto tanto per salvarla, e quali beni le prepara nell’altra vita: ora che abbiamo visto tutte le insidie ed astuzie del demonio per rovinarla, che cosa, F. M., ne pensiamo? quale stima ne facciamo? quale cura ne abbiamo? Abbiamo mai, F. M., meditato sulla grandezza dell’anima nostra, e sulla sollecitudine che ne dobbiamo avere? Che cosa facciamo, F. M., di quest’anima che ha tanto costato a Gesù Cristo? Ahimè! se dovessimo confessare che l’abbiamo soltanto per renderla infelice e farla soffrire! La stimiamo meno delle nostre bestie più vili: se queste sono in stalla, diamo loro da mangiare: abbiamo cura di aprire e chiudere le porte, temendo che i ladri ce le rubino: se ammalate, cerchiamo il veterinario che le guarisca: siamo afflitti, assai spesso, vedendole soffrire. Facciamo altrettanto per l’anima nostra, F. M.? Abbiamo cura di nutrirla colla grazia, colla frequenza ai Sacramenti? Abbiamo cura di ben chiudere le porte, per timore che i ladri ce la rubino? Ahimè! F. M., diciamolo a nostra vergogna: la lasciamo perire di miseria: la lasciamo assalire dai nemici, le nostre passioni: lasciamo tutte le porte aperte: viene il demonio dell’orgoglio, lo lasciamo entrare, ferire, straziare l’anima nostra: viene quello dell’impurità, entra, insozza, corrompe la povera anima nostra. “Ah! povera anima, ci dice S. Agostino, come sei stimata cosa da poco. Un orgoglioso ti vende per un pensiero di orgoglio, un avaro per un po’ di terra, un ubbriacone per un bicchier di vino, un vendicativo per un pensiero di vendetta!„ E davvero, F. M., dove sono le nostre buone orazioni, le comunioni, le preghiere ben fatte, le Messe ben ascoltate, la rassegnazione alla volontà di Dio nelle afflizioni, la carità pei nemici? E possibile, F. M., che facciamo sì poco caso di un’anima tanto bella, che Dio ha amato più di se stesso, poiché è morto per salvarla? Ahimè, amiamo il mondo ed i piaceri del mondo: e quanto si riferisce alla gloria di Dio od alla salvezza dell’anima nostra ci annoia, ci disgusta: mormoriamo, quando bisogna occuparsene. Ahimè! qual rimorso avremo un giorno!… Il mondo sembra darci qualche piacere: ma non inganniamoci. Ascoltate che cosa ci dice S. Giovanni Crisostomo: vedrete come è più fortunato chi cerca conservare l’anima sua di chi cerca solo i piaceri e lascia da parte l’anima. “Mentre dormivo, racconta questo gran santo, ebbi un sogno straordinario, che, svegliatomi, mi presentò tanti soggetti di riflessioni davanti a Dio. Vidi un luogo delizioso, una valle incantevole, dove la natura aveva raccolto tutte le sue bellezze, tutte le ricchezze e tutti i piaceri capaci di rallegrare un mortale. Mi meravigliò, in mezzo a quella valle di delizie, un uomo dall’aspetto triste, dal viso alterato, dallo spirito preoccupato: il suo atteggiamento tradiva l’agitazione dell’animo: ora stava immobile, con lo sguardo fisso a terra; ora camminava a lunghi passi con aria smarrita: poi, arrestatosi improvvisamente, mandava profondi sospiri, e s’immergeva in tetra melanconia, come se fosse vicino alla disperazione. Osservando attentamente, scopersi che quella valle di delizie terminava ad un precipizio pauroso, ad una voragine immensa, dove una forza arcana sembrava trascinarlo. Quell’uomo era agitato, malgrado tante delizie, perché con tale vista non poteva gustare un sol momento di gioia e di pace. Ma spingendo più lontano i miei sguardi, vidi un altro luogo tutto differente, un vallone oscuro e triste, montagne scoscese, deserti sterili: solo la desolazione sembrava abitar quel luogo, e nessun fogliame, nessuna verzura; rovi e spine: tutto ispirava tristezza, e una specie di orrore. La mia sorpresa giunse al colmo quando scorsi in questa valle un uomo pallido, macilento, estenuato, eppure con un viso sereno, u n portamento tranquillo ed un’aria contenta: nonostante le apparenze desolanti, tutto annunciava un uomo che ha la pace dell’anima: ma spingendo i miei sguardi ancor più lontano, distinsi al termine di quella valle di miserie e di quel pauroso deserto, un luogo delizioso, un sito incantevole, dove scoprivasi ogni sorta di bellezze. L’uomo teneva fisso sempre l’occhio a quel termine, non lo perdeva mai di vista: camminava con coraggio, passando attraverso i rovi, dove spesso si pungeva: ma le sue ferite sembravano rinnovargli le forze. Meravigliato di ciò, domandai perché l’uno era così triste in quel luogo di piaceri, e l’altro così contento in un luogo di miserie. Allora sentii una voce che mi disse: Questi due uomini che vedi sono l’immagine di coloro che sono o interamente attaccati al mondo, o sinceramente consacrati al servizio di Dio. Il mondo, mi disse quella voce, presenta ai suoi seguaci prima i beni, i piaceri, almeno in apparenza; essi vi si abbandonano come insensati: ma bentosto riconoscono che non trovarono quanto credevano. La cosa più triste e desolante è che a capo di questa valle vi è una voragine, dove vanno a precipitare tutti coloro che camminano per questa via che sembra tanto dilettevole. L’altro uomo al contrario, mi disse la voce, dimostra l’opposto: nel servizio di Dio, prima vi sono prove e dolori, si abita in una valle di lagrime: bisogna mortificarsi, farsi violenza, privarsi delle dolcezze della vita, passare i giorni nelle angustie. Ma si resta animati dalla vista e dalla speranza d’un avvenire per sempre felice: è la sorte riservata all’uomo che trovava si nella valle triste: ed il pensiero della felicità che gli  spetta lo conforta e lo sostiene nelle sue lotte. Tutto diviene consolante per lui, l’anima sua gusta già i beni promessi, che l’attendono, e dei quali godrà presto. „ Si può trovare, F. M., un’immagine più naturale di questa, per farci comprendere la differenza tra chi nella sua vita cerca solo di piacere a Dio, salvare l’anima propria, e chi mette da parte Dio e l’anima per correre dietro ad alcuni piaceri, che, senza offrire nulla di consolante né di perfetto, ci conducono in un precipizio, cioè nella voragine infernale (Est via qua videtur humìni justa: novìssima autem ejus deducunt ad mortem. Risus dolore miscebitur, et extrema gaudii luctus occupat (Prov.XIV, 12, 13). Fortunato, carissimi, chi seguirà questa strada, dove vi sono pene, ma di breve durata, e che al suo termine conduce ad un luogo felice, al possesso di Dio! È la fortuna ….

LO SCUDO DELLA FEDE (166)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (II)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

II. — La Provvidenza.

D. Tu spesso adoperi l’uno per l’altro questi due vocaboli: Dio, e la Provvidenza; è forse perché, secondo te, il compito provvidenziale è essenziale a Dio?

R. Esso è talmente essenziale che, senza la Provvidenza, si domanda se sarebbe ancora utile parlare di Dio.

D. Qual è la sua nozione precisa? Tu senza dubbio chiami provvidenza il governo divino.

R. In digrosso, sì; ma passa una differenza. Il governo divino rappresenta piuttosto l’esecutivo, la provvidenza il legislativo, nel regime eterno. Dio è provvido, in ciò che i destini universali e particolari hanno da Lui il loro orientamento e la loro forma, e per conseguenza, il concetto di quest’ordine, di questi destini, è incluso nell’oggetto dell’Intelligenza prima.

D. Ciò suppone che Dio conosca tutto.

R. difatti conosce tutto, ma come la conoscenza di qualsiasi cosa potrebbe sfuggire a Dio, che è la causa di tutto l’essere, e che ha causato tutto per via d’intelletto?

D. Certamente Dio conosce tutto, ma in generale?

R. La cognizione di Dio all’opposto è eminentemente particolare e precisa; conosce tutto nei minimi particolari, fino all’intimo degli esseri e dei cuori. E come giudicare altrimenti senza fare di Dio un uomo ingrandito, un cervello astratto, invece della Causa suprema? Le generalità non sono che nozioni; Colui che conosce solo queste non conosce veramente quello che esse comprendono, e per questo il Dio dei deisti, così contegnoso e così sicuro di sé, non è che un fantoccio intellettuale. La scienza creatrice si deve estendere e si estende appunto sopra l’essere, sopra la realtà dell’essere in tutte le sue manifestazioni,

D. In questo caso, Dio non conoscerà punto l’avvenire, che non esiste.

R. Anche l’avvenire è compreso nell’essere; esso fa parte della creazione totale, che include il tempo come include lo spazio, o una qualsiasi qualificazione del creato.

D. Nondimeno l’avvenire non è presente, e come conoscere presentemente quello che non è presente?

R. Possiamo noi stessi ciò fare in un certo caso, ed è quando l’avvenire ci è presente nella sua causa. Io so che il sole sorgerà domani, perché la causa che lo ricondurrà sul nostro orizzonte è già in opera, perché la vedo operare, e prevedo facilmente a qual punto dell’opera sua sarà essa domani mattina. Ma non so ciò che deciderai domani, tu, essere libero, perché ciò non è determinato da una natura delle cose che io possa decifrare oggi, perché per giunta ciò non è determinato da te stesso. Domani farai quello che vorrai. Ma questa impossibilità in cui io mi trovo di conoscere l’avvenire non dipende che da una sola cosa, ed è che la mia cognizione è nel tempo, come gli oggetti ai quali essa si rivolge. La mia mente funziona oggi, tu opererai domani: non vi è coincidenza; l’incontro non ha luogo tra la mente e il fatto. Ma se la mia mente fosse fuori del tempo, se comprendesse il tempo, io vedrei che cosa faresti domani come vedo quello che fai oggi; non ci sarebbe alcuna differenza. Ora tal è il caso di Dio. Dio non è nel tempo; la sua cognizione non è successiva; al pari del suo essere, essa non si svolge punto, e perciò vede l’opera sua tutta quanta con un semplice sguardo, con uno sguardo eterno.

D. Tuttavia Iddio dura, e non si dice eterno se non perché dura sempre?

R. Niente affatto; se Dio è eterno, è perché non dura punto. Se dici che dura, aggiungi subito: Egli dura tutta la sua durata a un tempo. L’eternità non è una durata infinitamente lunga, è una durata senza lunghezza; non è una successione infinita d’istanti, ma un unico istante ricco di una vita senza termine, d’una vita senza vicissitudini, senza divenire.

D. Così il tempo non esiste per Dio, e se esiste per noi è indubbiamente in ragione di una illusione soggettiva?

R. Il tempo non è un’illusione, ma è una realtà creata, e che perciò non può imporre le sue condizioni al Creatore. Dio è affatto indipendente da esso. Dio vede l’opera sua davanti a sé con la sua durata, come la vede con gli altri suoi caratteri; la vede col suo passato, col suo presente e col suo avvenire, come si vede un oggetto con la sua lunghezza, con la sua larghezza e con la sua profondità. Presente, passato e futuro appariscono a Lui, se si può usare questa parola, a modo di presente, senza essere per questo qualificati presenti.

D. Parlando così, non si prende forse qualche cosa dalle teorie di Einstein, per il quale il tempo è come una quarta dimensione delle cose?

R. Propriamente parlando, no; ma è certo che un partigiano della relatività è ben preparato a comprendere quello che io spiego, poiché egli dice con Eddington: «Secondo il punto di vista della teoria della relatività, gli avvenimenti non si producono; ma sono al loro posto, e noi li ritroviamo seguendo la nostra linea di universo , oppure con Cunningham « La storia intera di un sistema di avvenimenti fisici si spiega sotto i nostri occhi come una entità priva di cambiamento ».

D. Ma il compito della Provvidenza non richiede solamente la cognizione, ma suppone anche che questa cognizione faccia legge, dunque c’è in Dio una volontà, e una volontà sovrana?

R. Infatti, Dio è volontà, e come la sua scienza comprende tutto, così la sua volontà si applica a tutto, ed è sempre ubbidita, poiché, come tu dici, è la legge delle cose. Se certe cose, come i nostri atti peccaminosi, sembra che si allontanino dalla volontà di Dio, è senza dubbio perché lo vogliamo noi; ma è anche perché Dio lo vuole in un certo modo, cioè lo permette. – La sua volontà che cede provvisoriamente, nel disegno temporale, riforma più avanti, per mezzo del pentimento efficace o del castigo, la sua trama infrangibile, e, nell’eternità, non ha cambiato nulla di ciò che, eternamente, Dio ha concepito.

D. Dio è dunque onnipotente. Ma questa onnipotenza rassomiglia assai all’arbitrario.

R. L’onnipotenza di Dio non è per nulla arbitraria; essa è fedele e giusta; è amante e misericordiosa. Dio dà a ciascuna creatura quello che le è dovuto, secondo la sua natura e il suo posto nell’insieme; Egli sovviene alle miserie degli esseri, dopo averli sollevati dal nulla, miseria suprema. E li ama; perché nessun altro motivo che l’amore lo può inclinare ad agire, a dare, a reggere, visto che Lui stesso non ha bisogno di niente e operando non acquista niente, a tal segno che S. Tommaso dice di Lui: « Egli solo è liberale; perché la stessa generosità, negli uomini, è destinata ad arricchire loro stessi della miglior ricchezza ». –  « È cosa più beata dare che ricevere, disse il Signore Gesù ». Ma Dio porta in se stesso la sua felicità.

D. Attrezzato in tal modo, se così posso dire, il tuo Dio ha di che essere provvido; ma l’esercizio del suo compito si presta a molte difficoltà. Perché, insomma, in questa concezione, tutti gli elementi si trovano fissati, preordinati nello stesso tempo che previsti, e non è più possibile che nessuno sfugga in quanto appunto ciascuno è sottomesso alla provvidenza, e Dio non può sfuggire a se stesso.

R. È veramente quello che noi pretendiamo.

D. Ma se tutto è fissato, anticipatamente (si può dire, poiché secondo te Dio non è nel tempo); se tutto è scritto; se il libro eterno porta i nostri destini e quelli della natura nei suoi fasti, e se, in questo libro, non è ammessa alcuna cancellatura, alcuna traccia di derogazione per minima che sia, che cosa diventano la libertà e il caso? a che servono le stesse necessità, come le chiamano, della natura, e come sì può spiegare il male?

R. Abbiamo qui infatti problemi difficili, e non saranno soverchie tutte le nostre riflessioni per recarvi un po’ di luce.

D. Parliamo anzitutto delle necessità naturali. Non sono esse un fatto? Non è forse necessario che vi sia alla tale data un’eclisse, alla tal altra un passaggio di cometa, alla tal altra un’eruzione vulcanica, una tempesta, un cataclisma o una riforma e, in conseguenza, miriadi di effetti? Ora, se queste cose son necessarie, non si ha bisogno di Dio per reggerle. La vera provvidenza a questo riguardo, sono le leggi del mondo.

R. Si direbbe un errore impossibile a sradicare il voler vedere un’opposizione tra l’idea di necessità e quella di provvidenza. Eppure, che illusione! Il necessario che non è Dio stesso non deve forse dar ragione della sua necessità? Le conclusioni geometriche sono tutte necessarie; tuttavia, si dimostrano; per dimostrarle si risale ad antecedenti, e da antecedenti in antecedenti, se si spingesse la cosa sino a fondo, si risalirebbe fino alla Verità eterna. Così le necessità naturali che noi avviciniamo risalgono ad altre, queste altre ad altre ancora, fino a una Necessità prima, quella cosciente e necessaria in se stessa, ma libera verso tutto il resto, ed è Iddio. Noi ritorniamo così alla prova di Dio. Riguardo a Dio e alla provvidenza di Dio, le necessità naturali non sono che esecutrici, Così dev’essere certamente, poiché esse sono cieche e fanno un’opera intelligente; poiché sono determinate, ciascuna, a qualche cosa di preciso e compiono un disegno. Alla loro azione nel reale, vi è obbligo di supporre un antecedente ideale, una preconcezione, una prima costituzione dei fatti e dell’ordine di evoluzione che essi vogliono. E inoltre, essendo l’azione di Dio universalmente creatrice, la sua provvidenza, a dispetto degli agenti di esecuzione che essa si dà, è in realtà sempre immediata; i risultati devono essere ad essa attribuiti anzitutto. Con ciò, le leggi conservano tutto il loro impero, il necessario rimane quello che è, necessario; ma esso è tale per via di Dio.

D. Sia pure. Ma vi è il caso, vi è la libertà, e vi è il male.

R. Procediamo con pazienza e con ordine. Prima il caso. Noi non abbiamo voglia di eliminare il caso. Vi sono dei Cristiani che vi si credono tenuti per allontanarsi dal paganesimo, e per onorare Dio; ma è un’illusione. Il caso è un fatto, come la necessità, sulla quale esso si basa. La pioggia cade necessariamente; l’erba germoglia necessariamente; il caso lì non ha impero; ma che una pioggia sovrabbondante faccia marcire l’erba, è un caso, perché nessuna forza naturale tendeva per se stessa a questo risultato. Come vedi, il caso e la necessità sono solidali, e nello stesso modo che la necessità non sostituisce Dio, così neppure il caso lo elimina. Tutti e due sono suoi figli: tutti e due sono suoi servi; con tutti e due Egli eseguisce la sua provvidenza.

D. Ciò pare contradittorio. Quello che è previsto e predeterminato non potrebbe essere fortuito?

R. E se è previsto come fortuito? Se è predeterminato ad essere fortuito?

D. Ciò; dico, è contradittorio.

E. T’inganni; ma riconosco che la tua illusione è affatto naturale. Noi ragioniamo da uomini, pur parlando di Dio. Conveniamo tuttavia che il suo caso non è punto simile al nostro, ed è unico, perché si tratta del Creatore. Essere creatore è porre tutto; tutto, dico, senza eccezione, per conseguenza con tutti i caratteri di questo tutto, necessità e contingenza comprese. Quasi nessuno scorge quest’ultima condizione; ma mettiti la testa fra le mani, e cerca di pensare al Primo Essere. Il Primo Essere è sopra all’essere universale, poiché Egli lo crea. Il Primo Essere non è un essere nel senso umano della parola, ma un Super-Essere. Esso, dunque, non è neppure una causa nel senso umano della parola, ma una Super-Causa, e ne segue che la sua azione non ricongiunge le azioni create, non si compone con esse, non le sostiene né le contradice nel loro ordine stesso; queste azioni create restano dunque quello che sono, contingenti, se sono contingenti, necessarie se sono necessarie. Eppure Dio le pone, senza di che esse non sarebbero né contingenti né necessarie, perché non sarebbero affatto.

D. Un esempio chiarirebbe la cosa.

R. Supponiamo che Dio crei tutto a un tratto, davanti a noi, una fabbrica di tessitura in cui vi fosse un tessitore seduto davanti al suo-telaio e facesse della tela. È Dio che ha creato quell’insieme: egli dunque risponde di tutto, fino ai minimi particolari. Ecco dunque i muri, ecco l’uomo, ecco il telaio, ecco la tela che si fa, la tela che è fatta: tutto è di Dio, tutto si deve finalmente riferire a Dio. Ma ciò impedisce forse che quest’uomo lavori con tutta tranquillità, subisca certe necessità del suo lavoro, e anche certi casi, ai quali dovrà mettere ordine, se può? Tutto ciò cammina come se non vi fosse Dio. Forse l’uomo non sa che egli viene da Dio (è il caso degli atei). Forse non ci pensa punto (è ben sovente il caso nostro). Ma se non vi fosse Dio non vi sarebbe niente. È Lui che pone tutto. Ma ponendo tutto, non intralcia niente, perché la sua azione non viene ad inserirsi nella trama dei fatti e a farvi una parte dello stesso ordine di quello della necessità o del caso. Il suo compito è diverso,

D. In che consiste esso?

R. Esso è Creatore, vale a dire costituisce tutte le differenze che noi osserviamo tra le cose che chiamiamo necessarie o fortuite. Egli le costituisce, dunque non le distrugge; e che Egli crei del caso nell’interno dell’opera sua, ciò parimenti non impedisce al caso di essere caso più di quello che creare del necessario gl’impedisca di esser necessario.

D. Applicheresti questa dottrina alla libertà?

R. Sì, assolutamente. La mia fabbrica di tuttora, che Dio ha creata con tutti i pezzi insieme col suo tessitore e col suo telaio, contiene una libertà all’opera. Il tessitore lavora liberamente, così liberamente come se non vi fosse Dio, dicevo. Tuttavia Dio lo crea in tutti i suoi istanti, in tutti gli stadi del suo pensiero, in tutte le tappe della sua volontà, in tutti i momenti de’ suoi atti e in tutti i loro effetti, poiché la creazione è una cosa fuori del tempo, e avvolge il tempo tutto quanto, lo pone tutto quanto, con tutto ciò che esso racchiude. Perché questo toglierebbe qualcosa alla libertà? Ciò, all’opposto, costituisce la libertà, fornendole, in grazia di Dio Creatore, la sua ragione totale.

D. Comprendo male questa totalità.

R. L’uomo esiste appunto perché Dio lo crea, è uomo appunto perché Dio lo fa uomo; l’uomo è libero appunto perché Dio lo fa libero; usa della sua libertà appunto perché Dio lo crea facente uso della sua libertà; usa della sua libertà in tal senso, appunto perché Dio lo crea, attualmente, facente uso della sua libertà in tal senso.

D. Ma allora egli non è libero!

R. È libero come egli è, poiché per lui, in questo momento, essere è essere libero.

D. E Dio è causa anche di questo?

R. Dio è causa di tutto ciò che è. Senza Dio e senza l’azione di Dio, senza la sua azione totale; poiché tutto l’essere gli appartiene, niente di tutto ciò che noi qui notiamo sarebbe scritto, né la libertà, né il resto. Per lui tutto questo è, e tutto questo è ciò che è, la libertà come il resto. La libertà è dunque libera, anche sotto l’azione di Dio, la quale, del resto, non è veramente un’azione nel senso umano della parola, ma una super-azione, nello stesso modo che Dio è una Super-Causa, essendo un Super-Essere.

D. Il fatto del caso sì trova tutto qui?

R. L’errore testé rilevato a proposito del caso prende qui questa forma speciale di confondere le condizioni del funzionamento psicologico con la condizione trascendente che l’azione creatrice importa. Psicologicamente, l’uomo è libero tanto quanto se Dio non esistesse o non agisse, bisogna dirlo incessantemente. L’azione di Dio non è un elemento dell’azione umana, o che si aggiunga a questa azione, o che si componga con essa. Dio non interviene, nel senso in cui intervenire significherebbe che l’influsso di Dio venga a inserirsi nel nostro, e perciò a modificarlo o ad abolirlo. Dio crea, e la creazione non pone nel creato altro che una relazione di dipendenza. Questa dipendenza è totale; ma lascia quello che dipende tal quale esso è, libero se è libero, e quindi non incatenato. Insomma, non si tratta che di questo: il creato è creato; non è l’increato; l’essere derivato non è l’Essere primo; il mondo o l’uomo non sono Dio.

D. Io ti aspetto davanti al male.

R. Ne parlerò umilmente. Qui il mistero ci avvolge più che mai, ed è anche più che mai angosciante, poiché è un mistero morale, un mistero che mette in causa i nostri destini, e, quello che è anche più grave, e grave anche per noi, la santità di Dio.

D. Il primo male che io oppongo alla provvidenza è l’invisibilità della sua azione. Qui non sì ha da dire, tutto avviene come se non vi fosse Dio.

R. Un Cristiano non può non reputare offensive tali parole. Egli ti dirà con Joad: « Avrai dunque sempre occhi per non vedere, popolo ingrato!… ». Tutta la serie dei fatti evangelici, dei fatti biblici, tanti altri fatti che non si possono mettere in dubbio provano sovrabbondantemente le gesta di Dio. Ma questi sono avvenimenti straordinari. Vi ritorneremo sopra. Io dico che nella stessa vita quotidiana, un Cristiano non ti ammetterebbe che la provvidenza sia invisibile. La provvidenza è una sapienza, e le vie della sapienza sono spesso oscure; «le opere del Signore sono stupende, dice la Bibbia, e la sua azione tra gli uomini è nascosta ». Dio si mostra in tutte le cose come uno che agisce veramente in tutte le cose, e non vuole essere veduto; si può sempre contestare: è la parte dell’infedele; ma spesso le cose sono tali che non lo si deve fare: è la parte del fedele credente.

D. In realtà, non giudichi così in forza di confidenza?

R. Sì, per motivi di confidenza, e questa confidenza è giustificata in tante maniere che noi non pensiamo a difendercene; ma anche per esperienza, quando l’esperienza è attenta e seguita. Quanti tesori di certezza s’incontrano in questa via, quando ci si avanza con occhio e cuore aperto! Ogni uomo ha trovato Dio sul suo cammino, per poco che egli abbia posto mente a certi incidenti e coincidenze di avvenimenti, a certe affinità prestabilite d’un fatto, d’un concorso di fatti col proprio destino individuale, in cui vengono a inserirsi come dei pezzi di un meccanismo, o come una replica impressionante nel corso d’un dialogo in apparenza indipendente. L’azione della provvidenza è generalmente di questa forma, e appunto per questo la certezza sperimentale che ne hanno i credenti è incomunicabile agli altri. Ma nemmeno a Dio preme di convincere coloro a cui non preme di essere convinti.

D. Lasciamo questo; è il piccolo lato delle cose. Io perdono volentieri a una provvidenza invisibile; ma non potrei perdonare a una provvidenza causa del male, onde preferisco dire con Sthendhal, in faccia all’universo e alla vita tali quali mi appariscono: « La sola scusa di Dio è che Egli non esiste ».

R. Tu bestemmi con soverchia prontezza, e per giunta ti esprimi scorrettamente. Dio non è affatto causa del male, per l’eccellente ragione che il male, propriamente parlando, non ha causa. Il male non è cosa positiva, è una mancanza, e a questo riguardo, si può approvare la divertente espressione di Nietzsche: « Il diavolo non è che l’oziosità di Dio ».

D. Intanto il male si vede.

R. Si vede come l’ombra delle figure sullo schermo del cinematografo. L’ombra disegna tanto, quanto la luce; tuttavia non è niente; è l’assenza della luce. Così il male qualifica gli esseri e specialmente le anime, ma non è niente in se stesso; è l’assenza del bene.

D. Tuttavia il dolore

R. È un funzionamento imperfetto che l’anima nostra percepisce.

D. Il peccato

R. È una attività felice sopra un punto, quello che tenta il peccatore, ma che la ragione abbandona. Un vizio non è che una virtù mal collocata.

D. Sottoscrivi tu realmente quest’ultima formula?

R. S. Tommaso d’Aquino, poco amico del paradosso, sottoscrive questo: «Il male è un certo bene, come il falso è un certo vero ». Tu intendi che si tratta del male in quanto all’essere. Il male non ha altro essere che l’essere stesso del bene; esso non è affatto in se stesso.

D. Ammettiamo che il male non è affatto; nondimeno vi è il male.

R. Vi è il male e io non nego il problema che il male presenta.

D. Vi è di che invalidare tutte le tue prove di Dio; perché il Sommo bene e il male sono incompatibili.

R. Negare Dio a cagione del male è un espediente molto strano; perché l’argomento del negatore si rivolge contro di lui. Che cosa si rimprovera alla vita e alla natura? Dei difetti. Ma i difetti che si rilevano così nell’opera della Provvidenza suppongono la Provvidenza. Non si rileverebbero dei difetti in ciò che non presentasse nessun ordine, e se vi è un ordine, bisogna necessariamente che vi sia un Ordinatore. Si rimprovera forse a un mucchio di sabbia il disordine de’ suoi elementi? Si rimprovera il disordine a un cronometro, a una macchina utensile, a un organismo vivente, quando si guastano. Ora nello stesso modo si rimproverano alla natura i suoi scarti e i suoi mostri, alla vita le sue sventure e le sue colpe. Ciò avviene dunque perché la natura e la vita seguono un ordine, hanno una finalità, ubbidiscono a un pensiero. È dunque perché  sono rette da una Provvidenza.

D. Una Provvidenza in fallo?

R. Se la Provvidenza è in fallo, essa esiste, e se esiste, non è in fallo, siano noi che non sappiamo vedere abbastanza lontano.

D. Non senti la potenza di convincimento di questa sentenza: Vi è il male, dunque Dio non è?

R. Io le oppongo quest’altra: Vi è il bene, dunque Dio è.

D. Allora questo si equilibra, e non si sa di più.

R. Scusami, Il peso della seconda proposizione supera infinitamente quello della prima; perché anzitutto il bene domina, senza di che il mondo perirebbe, come un organismo affetto da malattia mortale. In secondo luogo, è certo che il bene, qualunque sia la sua dose, non si spiega senza Dio, e non è certo che il male non si spieghi con Dio. Agostino sfugge dicendo: «Dio non permetterebbe il male, se Egli non fosse così potente e così buono da farne uscire il bene ».

D. È una scappatoia, lo dici tu stesso.

R. È un atto di fede, e l’atto di fede è qui un obbligo logico, tanto quanto il fatto di un cuore consenziente. L’ordine generale del mondo ci sfugge: dunque ci manca ogni base logica per decidere direttamente se si tratti di un mostro piuttosto che di un sublime tenebroso. Ma la necessità di Dio non ci sfugge punto. Se Dio è, Egli è perfetto. Se è perfetto, l’opera sua, nel totale, è buona, ed ecco espulso il mostro. In altre parole, il male non c’invita a negare Dio se non quando noi lo giudichiamo senza Dio. Se vi è un Dio onnipotente e buono, il male cambia faccia; può bensì includere ancora un mistero, ma non più uno scandalo; questo disaccordo è sicurissimo di ritrovare il suo ordine, questa dissonanza la sua soluzione. Ora vi è bene ed ordine sufficiente per provare Dio, per poco che il male abbia soluzione possibile, e chi oserebbe dire che esso non ne abbia affatto?

D. Io, forse.

E. Che presunzione! Un giudizio sulla Provvidenza non appartiene che all’eternità. È proprio l’eternità che decide della contesa delle cose. Si possono fare due pitture del mondo: l’una magnifica e l’altra spaventosa. La sapienza non sta forse nel dire: Quello che io vedo di bene m’insegna a fidarmi del Creatore per il male che non comprendo? Sia per me il mio segreto! dice il Signore in Isaia; sia per me il mio segreto! e chi, per punirlo di questo segreto, vorrà accusarlo di falso contro quella espressione della sua gioia creatrice: « Dio vide tutte le cose che aveva fatto, ed erano grandemente buone »? In fondo, il mistero morale che aleggia sopra il mondo può condurci a Dio così come il mistero fisico. È « la presenza di un Dio che si nasconde », ci direbbe Pascal, e questa evidenza del male nel cuore di un’armonia meravigliosa, non è forse l’indizio d’un calcolo profondo, d’un volere superiore ai nostri motivi riguardanti ciò che è parziale e immediato, di una potenza così alta che ha il potere di trasformare il male e di fare di tutti i nostri lamenti un cantico?

D. Tu ragioni in generale; ma veniamo ai fatti. Vedi la natura: quante deviazioni, quanti indietreggiamenti, quante stragi, quante vite sacrificate, quanti germi che non maturano!

R. Che cosa obietteresti a chi ti rispondesse: Lo scopo di Dio qui è la germinazione stessa, questa prodigalità di vita, segno della sua infinita ricchezza e della sua onnipotenza?

D. Tu vedi un segno di Dio in questo universo sconvolto?

R. Il segno di Dio non sono gli sconvolgimenti, ma quella potente aspirazione verso l’essere, quell’eroismo costruttivo che non si arresta mai. La natura sale all’essere; ricomincia senza posa il suo sforzo; rinnova senza posa il suo slancio; quando la dicono crudele, è perché non si sa vedere a qual punto è innocente. Essa è la stessa innocenza. Si slancia verso la vita, ecco tutto. Gli esseri che essa anima non hanno parzialità; lavorano per la vita contro se stessi così come contro gli altri; basta solo vedere le api, le formiche, le termiti, i castori…, e sovente, gli uomini. Ciò che vuole essere prende la sua materia dove la trova, e a questo effetto distrugge (per costruire); fa soffrire (per crescere ed espandersi); fa morire (per vivere). Ma, in tutto questo, di voluto non vi è che la vita, l’essere, e l’immensa aspirazione a essere. Ecco l’immagine di Dio. « Il male, dice Paolo Claudel, è nel mondo come uno schiavo che fa salire l’acqua ». Il male, che in se stesso è una caduta, è non di meno, per la vita dell’universo, un mirabile stimolante; esso la fa rimbalzare sotto lo sforzo del bene. « Ogni cosa, serive Enrico Bergson, nel movimento che la sua forma registra, manifesta la generosità infinita d’un principio che si dà ». Questo giudizio è più serio che la sortita di Stendhal.

D. Tu dimentichi la sofferenza di tante creature innocenti, che le riuscite della natura non consoleranno punto.

R. Intendi di parlare degli animali?

D. Di essi prima.

R. Io confesso di non avere qui soluzione che mi soddisfaccia. Ma tu confessa che ciò non ci riguarda affatto. La psicologia animale ci sfugge; il destino animale non ci è rivelato. Sarebbe un grave errore credere che la bestia soffra come noi, specialmente che essa reagisca come noi alla sofferenza; si può pensare che ad onta di passeggeri dolori, le bestie sono felici. Tuttavia soffrono. Con quale occhio Dio le vede? Quale sistema di compensazioni ha Egli concepito per il passero che cade dal tetto in ragione delle leggi che Egli pone? Tali compensazioni sono richieste dalla sorte reale dei viventi inferiori e si trovano nella loro stessa costituzione, nelle reazioni di cui essi sono il soggetto? Ecco quello che non sappiamo.

D. Ma che sarà, se, dalla creazione inferiore, noi passiamo all’umanità!

R. Tutto all’opposto! La Provvidenza qui è facile a difendere, e dolce a vendicare.

D. Faresti tu un quadro idillico della vita?

R. Niente affatto; io constato all’opposto che il dolore e il peccato vi tengono un posto centrale; ma un centro si sposta fra estremi, qui tra un cominciamento e una fine. Il cominciamento è felice, ed è la nascita; se anche la fine è felice, tutto sarà bene, e noi potremo pronunziare l’Amen dell’Apocalisse, a lode del Padre supremo.

D. Chi ti dice che la fine sarà felice?

R. Ciò dipende da noi; mi riservo di fartelo vedere.

D. Ad ogni modo vi è il cammino.

R. Bisogna confessare che la Provvidenza è una terribile benefattrice; essa non è sentimentale; non è romantica; nondimeno è una benefattrice. Ameremmo noi che essa fosse vinta, e noi con lei, da troppa sensibilità? Essa pensa all’opera sua; pensa a noi stessi, e procede con tutta l’energia che ci vuole, simile in ciò a tanti uomini che non raccolgono che le nostre lodi. Quante verghe nelle mani dei genitori! quanti pensi inflitti dal maestro di scuola! quanti veleni nelle vetrine del farmacista! Quante pinze e coltelli nella sala del chirurgo! Quanti strumenti di tortura nel laboratorio dell’ortopedico?

D. Che cosa significano questi esempi?

R. Per comprendere il chirurgo, il farmacista o l’ortopedico, bisogna sapere il pregio della salute; per accettare il penso e le verghe, bisogna pensare all’educazione; per dire di sì alla Provvidenza, ai suoi rigori e al suo mistero, bisogna ricordare la vita eterna, e in essa, sotto forme che ci sfuggono, ricordare il rovescio di tutti i nostri valori di vita.

D. E se non si crede alla vita eterna?

R. Allora, oso dire che si ha il diritto di non credere neppure nella Provvidenza; queste due verità sono legate insieme; ma la seconda, essendo certissima, deve servire a confermarci la prima, avanti che il dubbio sulla prima venga a indebolire o a invalidare la seconda. « Le prove che concludono sono qualche cosa di positivo, dice Pascal; e le difficoltà sono semplici negazioni, che provengono dal non vedere tutto ».

D. Come non dubitare davanti alla sventura?

R. Noi dimentichiamo che un male non è mai se non la cessazione di un bene. Per il male, noi accusiamo Dio; per il bene, noi ci contentiamo del silenzio, o di nuove esigenze, o dell’abuso. Crederemmo facilmente alla Provvidenza, se gli avvenimenti favorissero sempre i nostri desideri.

D. Si può ritorcere l’argomento, e dire: Se tu credi così facilmente alla Provvidenza, è certamente perché gli avvenimenti non contradicono troppo è tuoi desideri.

R. Chi sa! Ma supponiamo questo. Allora dirò che questa situazione pacifica è forse la miglior condizione per giudicare il caso. Si ricusa un giudice troppo interessato; si teme che si appassioni e non sia più equo. Parliamo chiaro: per essere contenti della Provvidenza o solo per crederci, vorremmo che essa fosse per noi come un distributore automatico, in cui non ci fosse da mettere moneta.

D. Io chiederei solo quello che tu chiami una situazione pacifica.

R. Non è forse questo, a dispetto dei nostri lamenti, il caso nostro più frequente? Il caso stesso si estenderebbe molto lontano, se sapessimo contribuirvi con un po’ di pazienza. Gusta il nobile linguaggio del grande Arnauld, che dice a Dio: « I mali di questo mondo spaventano quando si guardano da lontano, ci si adatta quando ci si trova, e la tua grazia rende tutto sopportabile ».

D. « Sopportabile », è dunque abbastanza per Dio?

R. È abbastanza per questo tempo. Se questo mondo fosse sufficiente, non vi sarebbe ragione perché ve ne fosse un altro. Se la nostra destinazione ha delle tappe, non bisogna domandare alla prima di rappresentare tutto il nostro bene perfetto. Del resto cessiamo di accusare Dio; la sua incarnazione dolorosa ci proverà che le sue ragioni di permettere il male sono senza dubbio potenti, e che l’indifferenza non c’entra per nulla, poiché, non credendo di potere eliminare il patire, Egli lo condivide; non credendo di dovere scacciare il male morale, ne fa la sorgente dei più alti valori, ne’ suoi figli coraggiosi. Dio non paventa la sua pena più che la nostra, se così posso dire, né la nostra più che la sua; Egli mira allo scopo; i mezzi più atti fissano la sua scelta; le condizioni del compito lo trovano fermo, e quando, ciecamente, la sua materia vivente gli resiste, Egli taglia senza paura, in mezzo alle grida.

D. Tu supponi sempre che il dolore giovi.

R. Esso non è fatto se non per questo, e dipende da noi, con Dio, che esso faccia la parte sua, come in un apparecchio fumivoro il fumo si cambia in fuoco. Dio vuole che il dolore provochi in noi un’aspirazione, non una depressione; un progresso, e non una caduta. Egli ci ha messi in questo mondo per provarci, formarci, e ci si prova e ci si forma certamente mediante la gioia, che però esige una felice padronanza di se stesso; ma la prova nel senso triste della parola è inoltre spesso necessaria. Prova, misura delle forze, controllo del buon volere, esperienza di ciò che noi vagliamo con la mira di farci valere di più: non è forse questo lo stato normale di un essere che fa il suo tirocinio, come sempre stiamo facendo quaggiù? Quanto più studio le persone felici, scrive il Lacordaire, tanto più sono spaventato della loro incapacità divina. Noi siamo fatti per il divino, per la salita dalla materia verso lo Spirito, e lo spirito è una fiamma che il sacrifizio della sua cera esalta, e le resistenze della sua cera possono spegnere. Se Dio è spirito e ci ha fatti per lo spirito, che meraviglia se anche la bontà di Dio sia dell’ordine dello spirito, e che Dio bruci tutto il resto, quando è necessario per il bene dello spirito?

D. Ci si tratta come dei colpevoli.

È. Non abbiamo noi niente da espiare? « Con quale facilità perdoniamo a noi le nostre colpe, dice Bossuet, quando la fortuna ce le perdona! ». Se la fortuna, questa ancella di Dio, ci usa qualche rigore, non sarà un benefizio? Bisogna espiare per sé; bisogna espiare anche per gli altri; Cristo ha espiato per tutti, e tutte le croci del mondo, Calvario infinito, si stringono attorno alla sua; infatti, come ci dichiara S. Paolo, alla Passione di Cristo manca qualcosa, finché per solidarietà fraterna, in Lui, gli uni per gli altri, noi non compiamo il laborioso e sublime riscatto.

D. Bisogna espiare, dici tu; ma ciò è affatto negativo, e la vita è accrescimento. Non bisogna forse essere in possesso di tutte le proprie forze, per meritare?

R. Si merita con ogni azione retta; ma il dolore accettato per amore è la più alta occasione di merito e di lavoro che questa vita ci possa presentare. È il lavoro del Calvario. Il pagano, quando soffre, crede volentieri che il suo Dio l’abbandoni; il Cristiano invece, ricordandosi del Calvario, pensa che il suo Dio è più vicino a lui, che il suo Dio lo trascina: per la mano, per la nuca, per i capelli, che importa? Egli riconosce il suo divin Maestro dalla sua spietata dolcezza. Egli consente perché crede; non prova più violenza, perché ama. Sopra la croce, come Gesù, con Gesù stesso, egli si sente sulla via del cielo.

D. Questi sentimenti sono frequenti tra voi?

R. Sono troppo rari; ma quel che è ben certo si è che sono il pacificamento e la semplificazione di tutta la vita.

D. Il tutto è di vedere.

R. In questo dominio quello che si vede abbaglia; quello che illumina è appunto quello che non si vede.

D. Tremo nondimeno per la responsabilità del tuo Dio.

R. Quando avremo soppresso da questo mondo la dose di male di cui siamo noi stessi responsabili, saremo in una migliore condizione per domandare dei conti a Dio. Ma non ci penseremo più.

D. Io ritorno alla filosofia generale del caso, e vorrei, riguardo al male, tutto l’insieme delle tue vedute.

R. Ecco, liberamente interpretata, la tesi di S. Tommaso. Il male non è qualche cosa che Dio abbia fatto, e che avrebbe dunque potuto dispensarsi dal fare. Il male è una deficienza; è un’imperfezione di ciò che è. Un uomo dovrebbe camminare diritto; ma la sua gamba è corta: egli zoppica. Dovrebbe operare bene; ma una passione lo trascina: egli devia. Che cosa ci vorrebbe per evitare questo doppio male, per evitarlo immancabilmente? Bisognerebbe che l’uomo fosse perfetto, fisicamente e moralmente. E bisognerebbe per giunta che non potesse essere sloggiato da questa perfezione né per assalti esterni, né per se stesso. Si domanda così, senza saperlo, un universo molto strano, assai diverso da quello che noi vediamo. A costituirlo nella nostra mente, urteremmo costantemente in impossibilità, e alla fine dei fini, se spingessimo sino a fondo la prova, ci troveremmo di fronte a un’impossibilità suprema, che è questa: Un universo perfetto è impossibile.

D. Perché ciò?

R. L’universo si stabilisce discendendo, a partire da Dio, la scala che noi risaliamo per andare incontro al primo Principio. L’universo si stabilisce per derivazione, per digradazione a partire dal Sommo Bene, in virtù di partecipazioni graduali, ciascuna delle quali esprime Dio a suo modo, ciascuna delle quali è dunque buona, ma necessariamente deficiente; il perfetto non si realizza due volte. Che se ciascuna cosa è imperfetta, l’universo è necessariamente imperfetto. Dunque esso è, in una misura qualunque, il soggetto del male. Potremmo soltanto domandarci che cosa è che ha determinato la misura, e se questa misura era tale che il Creatore la volesse alla bella prima. Noi vedremo questo. Ad ogni modo, ne segue che il mondo sia cattivo? No. Dalla diversità delle nature e dalla loro imperfezione nascono degli urti che si possono chiamare mali in se stessi, ma che sono nondimeno il prezzo di un bene. Questo bene è l’ordine; è la varietà dei beni singolari, sono le gradazioni, gli scambi; è la vita della natura, ed è la vita umana co’ suoi mali senza numero, con le sue onte, co’ suoi difetti, ma anché co’ suoi splendori. Sarebbe meglio che tutto questo non fosse punto? Affinché la pecora non fosse mangiata dal leone, sarebbe meglio che non vi fossero né pecore né leoni, o unicamerite delle pecore, o unicamente dei leoni? Ma il bene che rappresenta il leone e il bene che rappresenta la pecora, sono due beni preziosi, e che non sono commutabili. Ciascuno è unico, insostituibile dall’altro e da nessun altro. Di modo che sopprimere il male, qui, sarebbe impoverire l’essere, impoverire l’universo. E così avviene di tutto il resto. Vi sono dei ladri; vi sono dei dissoluti; vi sono dei manigoldi. Ma se non vi fossero dei manigoldi, non vi sarebbero parimenti dei generosi martiri. Se non vi fossero dei dissoluti e dei ladri, non vi sarebbe, nell’insieme né libertà del male, né difficoltà del bene, e allora non vi sarebbe parimenti occasione di vittoria, né possibilità di conquista nell’ordine morale. L’indolenza può stimare che ciò sarebbe meglio; ma gli eserciti non si organizzano per i codardi né le scuole per i gamberi, né i salotti per gli sciocchi. La natura è una lotta, anche la vita; ma alla fine Dio premia il trionfo, e, tra le creature ragionevoli, vi sarà associato colui che l’avrà seriamente voluto.

D. Strana alternativa! Sî crederebbe di vedere Dio e satana

che lottano a parità di forza.

R. Il bene ha più forza in bene che il male in male. Il primo ha più valore di quel che conta il secondo. Non vi è forse maggiore utilità, dice S. Tommaso, a far sì che la casa sia salda e salga in alto, di quel che si abbia noia a scavare nella terra le sue fondamenta? Molte cose sono sepolte nell’opera di Dio; ma quest’opera sale. Il male è male; ma che possa esservi del male è un bene. Tutto dipende dal risultato, e chi può dire che esso sia cattivo, che sia insufficiente? Chi oserebbe dire: Signore, non valeva la pena! Il vostro universo ha cagionato troppe rovine; la vostra umanità ha conosciuto troppi orrori; noi non vogliamo sottoscrivere per voi un’opera simile; come l’empio del Salmo, noi preferiamo dire nel nostro cuore: Non vi è Dio!… È meglio, non è vero? confessare, come Giobbe dopo la riprensione dell’Eterno: Ho parlato senza intelligenza delle meraviglie che sono a me superiori e che ignoro; perciò condanno me stesso e’ mi pento, nella polvere e nella cenere.