LO SCUDO DELLA FEDE (95)

-Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (6)

CAPO VI.

Si prova che il mondo né fu lavoro del caso, né poteva essere.

I. Le fiere, quanto sono più stolide a dar nei lacci, tanto sono più salde a volerli rompere dappoiché vi sono incappate. Ma che? con ciò non fanno altro che strignerli di vantaggio, e non se ne avveggono. Mirate se non è ciò quel che avviene degli ateisti. Danno in falsità strabocchevoli, e per uscirne, sempre poi s’intrigano più: stretti però da maggiori difficoltà, perché vorrebbero scuotere le minori. – Veggendo essi dunque, non potersi da loro senza stoltizia negar che il mondo sia fatto; sia fatto, dicono, ma chi però ci necessita a riconoscere altro fabbro che il caso? Con ciò si salva, che non abbia l’esser dal nulla. Con ciò si salva, che non abbia l’esser da sé. E con ciò salvasi, che né anche abbia l’essere da alcun Dio; mentre il caso è bastevole a fare il tutto.

I.

II. Ed ecco (chi ‘l crederebbe)? ecco che vago di mantenere il credito a questo cieco esce fino in campo un Democrito, tanto pazzo, che rideva sempre, e solo in ciò savio, se arrivava anche a ridere di se stesso. Io non mi dolgo tanto di lui, quanto di chi gli die titolo di filosofo, mentre non si meritava né anche quel di poeta, fingendo egli non pure l’inveriosimile ad essere intervenuto, ma fino l’impossibile a intervenire. Si divisava costui, che prima di questo mondo sino ab eterno, non vi fosse altro, che un infinito popolo di corpicciuoli volanti, ma sì piccini, che a schierare mille di loro potrebbe facilmente servir di piazza la minuta punta di un ago. Questo numero senza numero di corpuzzi, quanto impercettibili nella mole, tanto impareggiabili nella forza, aggirandosi casualmente, or qua, or là, per immensi spazi dopo un corso d’infinite combinazioni spropositate, finalmente abbatteronsi a dar nel segno: perché concorrendo accidentalmente a congiungersi in modo bello, formarono questa fabbrica sì stupenda, chiamata mondo. Ed eccovi i materiali di tanta

macchina, gli atomi; eccovi i lavoranti, il moto; eccovi l’ingegnere , il caso. Parve ridicoloso ad un Aristotile ( L . 2 . phys. c. 6. et 9) l’affaticarsi in mostrare che il mondo non fu operazione fortuita, ma intesa dalla natura, cioè da un’arte sommamente avveduta ne’ suoi lavori: onde sarebbe più spediente trattar Democrito come lo trattarono i suoi cittadini, i quali invece di mettersi a rifiutare con le risposte de’ saggi queste sciocchezze di lui, diedero anzi a curar lui stesso ad Ippocrate con l’elleboro, come si curano i matti. Nondimeno, perché le larve trovano spesso più passionati amatori, di quelli che ne ritrovi la verità, mi farò lecito, a vostro preservamento, di avvilir la ragione fino a tal uso di riprovare i deliri.

II.

III. Ditemi dunque, se voi date loro adito nel cuor vostro: chi fè questi corpuscoli, chi gli schiuse, e sotto qual macina si stritolò questa farina volatile, di cui sono impastate tutte le cose? Si fecero forse gli atomi da se stessi? Se così è, operarono dunque prima che fossero e comunicarono l’essere a se medesimi innanzi di possederlo. Furono prodotti da qualche cagione estrinseca? Ma da quale? Converrà pure confessare una volta, malgrado vostro, questo fattore sovrano, cioè questo fattore, che non sia fatto: e converrà prostrarsi al trono di lui, dopo di avere follemente tentato di atterrarlo con queste baliste di nebbia (L’atomo, quale lo intende il fisico, non gode di una vera e reale esistenza in natura, essendoché egli ammette la divisibilità della materia all’infinito, epperò l’atomo, essendo indivisibile (come suona l’etimologia stessa del vocabolo, ma oggi abbiamo pure le particelle subatomiche, i protoni, i neutroni, gli elettroni, i muoni, leptoni, i quanta etc. etc. … che guazzabuglio!) non è materia. Come adunque potranno gli atomi aver dato origine ai corpi della natura, secondo le pretese di Democrito e dei materialisti?).

IV. No, ripiglia Democrito, timoroso che voi qui vi diate per vinto; sono increati questi atomi, sono eterni, ed hanno da se medesimi tutto l’essere. Adunque a questi minimi corpicciuoli, che appena sono, competerà, per sentenza degli ateisti, il più bel fregio che inghirlandi la fronte di un Dio regnante, che è il non conoscere cagione alcuna di sé, e il dovere solamente a sé la sua essenza, la sua esistenza; cosa, che, come abbiamo veduto, non può competere neppure all’istesso universo. – Questo sarebbe annullare un Dio per introdurre, lui per dir, tanti Dei, quanti sono quei corpuzzi di cui si forma la macchina mondiale. Senzaché, quale occupazione ebbero mai questi atomi sì felici per tutta l’eternità? Sono iti sempre vagando? Dunque avranno fatte altre volte in questo gran teatro altre congiunzioni, altre comparse, altre scene ammirabilissime, ed avranno intrecciandosi fatti nascere verisimilmente altri mondi, poscia iti in fumo. Hanno dunque sempre posato a guisa di languidi? Ma chi die’ loro pertanto la prima mossa? qual tamburo, qual tromba risvegliò quell’esercito addormentato? quale fu il sergente che lo ripartì a schiere a schiere? e quale il capitano che il precedette in così belle ordinanze? L’esperienza dimostraci che i corpi

non viventi non sono capaci di produrre da sé fuor che un moto solo: dalla circonferenza al centro, se sono gravi, e dal centro alla circonferenza, se hanno qualche principio di leggerezza (Bella osservazione contro la generazione spontanea.). Qual motore adunque fu quello che loro impresse quei movimenti sì vari, senza cui non poteva risultare tanta diversità di manifatture? dacché, non differendo gli atomi l’un dall’altro, senonché nella figura, non possono avere in sé quelle inclinazioni sì opposte che vi vorrebbero ad accozzarsi in sì differenti miscugli. Basilio imperadore di Oriente, avendo in una battaglia disfatti i Bulgari, usò con quindicimila di loro prigioni di guerra questa insolita crudeltà di cavarne a ciascuno gli occhi. Ma che? a tanta crudeltà mescolò questa lieve misericordia, di lasciare ad ogni cento di loro uno con un sol occhio, che servisse agli altri di guida nel ricondursi alla patria (Tursell. Epit.). Non così al certo Democrito e i suoi seguaci. Questi, molto più crudi, ad un esercito innumerabile di atomi per sé ciechi, non assegnano neppure una guida sola veggente, che gl’indirizzi, ma vogliono che a tante falangi immense di ciechi faccia la scorta nei viaggi un più cieco di tutti loro; la faccia il caso. Ecco però che vuol dire essere ateista! Vuol dire, non credere una verità sommamente bella, per credere infinite menzogne ridicolose. E voi prezzerete una sì misera libertà, quale han questi, dal vincolo della fede? Veramente sono essi liberi, non vel niego: ma liberi, come resta un vascello in mare, quando scosse le gomene, con cui l’ancora il tenea fermo, non altro può conseguire fra le tempeste, che rompere al primo scoglio. Veggiamo però se la ragione fosse bastante a rimetterli in miglior senno.

III.

V. Ma prima di ogni altra cosa, conviene che tra noi stabiliscasi unitamente ciò che sia caso, perché da ciò si vedrà se mai sia stato possibile che egli fosse l’ingegnere dell’universo. Caso non è altro che una cagione accidentale di qualche effetto, il quale avviene di rado; e quando avviene, è sempre fuori di ciò che dall’operante intendevasi, o antivedevasi (Arist. 1. 1. phys. c. 7). Eccone pronto l’esempio. Avicenna, medico illustre, dopo avere più anni letti e riletti tutti i volumi di sottilità metafisiche, noti a lui, determinò di abbandonare lo studio di detta scienza, tanto gli parve superiore alla propria capacità. Quando giunto un dì su la piazza per sue faccende, vi trovò un rivendugliolo, che dava libri vecchi a prezzo vilissimo. Allettato da tanta facilità, diede Avicenna tre giuli, ed ebbe per essi un volume insigne, di cui non aveva contezza, che era la filosofia commentata da Albumasarre. Lessela, e quindi ricavò tanta luce, che a divenir metafisico sublimissimo non ebbe bisogno più di altro direttore (Theat. Vet. v. 21. 1. 4). Questo incontro sì favorevole è caso, perché rarissimo, non solendo avvenire comunemente, che dal portarsi ad una piazza procedano tali acquisti: ed è caso perché impensato, mentre Avicenna non andava alla piazza per comperare de’ libri, vi andava per comperarsi da desinare. Or quale mai di queste due condizioni voi mi addurrete nella costituzione dell’universo, por dimostrarmi che sia prodotto dal caso? E quivi non vediamo risultare un effetto, cui la natura non abbia posto il suo mezzo per ottenerlo, e mezzo diretto. E quivi non vediamo che da tal mezzo risulti quell’effetto una volta o un’altra: vediamo che ne risulta ordinariamente. Se però queste non sono opere d’arte, quali saranno? Piuttosto su i due principii, pur ora da me additativi, come su due salde basi, abbiamo ad innalzar tali macchine contra il caso, che cada giù sprofondato. Comincisi dalla prima

(Il vocabolo caso è negazione di intelligenza e di ordine, o sinonimo di ignoranza per parte nostra, giacché noi lo adoperiamo tuttavolta che non ci riesce di conoscere la cagione di un avvenimento. Il pronunciare adunque, che l’universo è opera del caso, è un dire un bel nulla, è un coprire con un vocabolo la nostra ignoranza, giacché in sostanza si viene ad affermare sol questo, che noi ignoriamo l’origine dell’universo. Imperò il fatalismo non è una dottrina, ma una negazione).

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.