MEDITAZIONI SOPRA IL PECCATO

MEDITAZIONI SOPRA IL PECCATO

– Opportunissime per ogni tempo,

ma specialmente per ben disporsi alla Confessione.-

[e per ottenere la grazia della CONTRIZIONE]

[sac. G. Riva: Manuale di Filotea, XXX ediz. Milano 1888 – impr.]

Meditazione I

L’OFFESA, L’OFFESO E L’OFFENSORE!

I. Qual è l’Offesa che il peccato fa a DIO. Che col peccato mortale l’uomo faccia ingiuria a Dio, Lo disprezzi, gli faccia un torto, è una verità incontestabile, dacché nelle Scritture si dice che il peccatore si infuria contro Dio, Lo strapazza, arriva a calpestarlo. Né giova il dire, io non pecco per disprar Dio, ma solo per pigliarmi quella soddisfazione; perché conviene avvertire che vi sono due sorta di dispregi: uno espresso e diretto: l’altro indiretto ed interpretativo. Non si tiene forse strapazzato un padre quando il suo figlio contravviene ai suoi ordini? Ingiuriato un principe quando i suoi sudditi non si curano delle sue intimazioni? Intendetela dunque bene: Quando peccate, voi disonorate Dio, ve lo dice S. Paolo nella lettera ai Romani — “Per prævaricationem legis Deus insonora”. Se non Lo disprezzate colla intenzione, Lo disprezzate col fatto, non obbedendo alla sua legge, non temendo la sua giustizia, non amando la sua bontà; non avendo riguardo alla sua immensità che vede il vostro peccato, alla sua santità che lo odia, alla sua onnipotenza che può punirvene ad ogni istante. Quindi Egli se ne disgusta sì altamente che, se potesse morire un Dio eterno, un solo peccato mortale gli darebbe la morte. Oh il gran torto che si fa a Dio ogni qualvolta si pecca! Siccome poi il torto è più o meno grave secondo che maggiore o minore è la differenza che passa tra l’offensore e l’Offeso, così a ben comprendere la gravezza del peccato, conviene considerare attentamente Chi è che col peccato vien offeso, e chi è l’offensore.

II. Chi è l’Offeso. — Figuratevi col pensiero una bellezza così sorprendente che rapisca i cuori col solo farsi vedere, sicché sia più stimabile veder lei per un momento, che godere per molti secoli tutti i diletti della terra, una maestà in ossequio della quale valga più il patir ogni strazio, che regnar in tutto il mondo: una bontà cui offendere, anche col solo pensiero, sia maggior male che se si annichilassero i cieli, si distruggesse l’universo. E poi riflettete che Dio è infinitamente maggiore di quanto vi siete ideato. Pensate pure più e più perfezioni; raddoppiatele e moltiplicatele con aritmetica proporzione quante sono le stelle del cielo, gli atomi dell’aria, le gocce dell’acqua, e poi sappiate che tutta questa grandezza in confronto a Dio è infinitamente meno di quello che sarebbe un vermiciattolo paragonato a tutto il mondo. Chi mai potrà ben comprendere che voglia dire essere stato in tutti i tempi, occupare tutti i luoghi, sapere tutte le verità, possedere tutte le perfezioni, potere quanto si vuole, essere inaccessibile ad ogni male e godere ogni bene? Eppure questo Signore, fonte ed origine di tutto, che solo a vederlo vi farebbe eternamente beato, è quello che voi conculcaste col peccato mortale; e non ne inorridite? A meglio svegliare in voi così necessario inorridimento, considerate chi è quegli che fa fa tanta ingiuria ad un Signore sì grande.

III. Chi è l’Offensore. — In quanto al corpo egli è un niente vestito di fango. Pochi anni sono non eravate: in breve sarete mangiato dai vermi; e quel che avanza si ridurrà in cenere. Ora questa poca polvere ha ardito pigliarsela contro Dio? Che cosa siete voi in quanto all’anima? Concepito in peccato originale, non prima aveste l’essere che foste nemico di Dio, schiavo del demonio, spogliato della grazia, sbandito eternamente dal cielo. La vostra eredità è una somma ignoranza di mente, una strana malizia di volontà, fiacchezza per far il bene, insaziabile concupiscenza per operare tutto il male.A questa funestissima eredità avete aggiunto del proprio tanti peccati attuali, tanti mali abiti, altrettanti debiti colla divina giustizia, per cui siete nel demerito d’ogni aiuto. Che, se volete conoscervi anche meglio, instituite il seguente paragone: Chi siete voi confrontato con tutti gli uomini del mondo, con tutti quelli che sono stati, con tutti quelli che sono adesso, con tutti quelli che saranno sino alla fine dei secoli? Che cosa siete paragonandovi a tutti gli Angioli, non che a tutte le creature possibili? Chi vi riconoscerebbe in sì vasta moltitudine? Chi terrebbe conto di voi. Or, se non siete altro che un nulla avanti a tanto numero di creature, pensate che cosa siete innanzi a Dio, al cospetto del quale, questo numero, quantunque grandissimo, è proprio come se non fosse?Che dite adesso della vostra temerità nel prendervela contro di Dio? Non avete forse ragione di stupirvi assai più che se vedeste una formica a prendersela contro un leone?

AFFETTI DI PENTIMENTO.

Chi mai avrebbe creduto che un verme vilissimo della terra, come son’io, potesse aver l’ardimento di strapazzare un Dio così grande, così buono, così potente, qual siete voi, che non potrà mai essere abbastanza adorato, temuto ed amato? Eppure io vi strapazzato tante volte coi miei peccati, e con tanta temerità, come se voi non voleste, o non mi poteste subito castigare. Voi siete mio Creatore ed io non ho voluto sottomettermi a voi come vostra creatura; ero vostro figlio e vi ho sconosciuto, disonorato, trattato da nemico e non da padre: voi siete stato mio Salvatore sulla croce: ed io senza pietà vi ho nuovamente crocifisso colle mie colpe: prevenuto dalla vostra grazia, ricolmo dei vostri beni, non me ne sono prevaluto che per oltraggiar Voi e perdere me. Ma se io ho fatto da quel che sono, da creatura meschina, piena di tenebre e di malizia, voi fate da quello che siete, cioè da quel Dio grande e onnipotente che contiene ogni bene. Io mi pento con tutto il cuore d’avervi offeso, e per amor vostro detesto un sì gran male sopra ogni cosa detestabile e bramo una contrizione simile al mare per la profondità, per l’estensione, per l’amarezza, onde risarcire in qualche parte col mio dolore l’onore che vi ho tolto con il mio peccato. Beato me se io avessi eletto ogni male prima che determinarmi a disgustar Voi, sommo bene! Ma se sono stato così stolto per lo passato, non voglio più esserlo per l’avvenire, mentre sono resolutissimo col vostro aiuto di non tornare ad offendervi. Voi, o Signore, che adoperaste tanto la vostra pazienza in sopportarmi, adoperate ora altrettanto la vostra potenza in assistermi; sicché in ogni luogo, in ogni tempo vi ami, vi obbedisca, come richiede la vostra infinita grandezza, e come merita la vostra infinita bontà.

Meditazione II.

IL TEMPO, IL LUOGO E I MEZZI CON CUI SI PECCA.

I Il tempo. — L’offendere un innocente meritevole di ogni rispetto, è sempre un gran male; ma offenderlo dopo avergli giurato fedeltà ed amore, dopo essere stato da lui beneficato, e mentre continua a beneficarci, è tale enormità che non si saprebbe con quali termini qualificare. Ora questa enormità è quella di cui si fa reo il cristiano, quando col peccato offende Iddio, perché lo offende dopo che, col Battesimo, Dio lo rese suo figliuolo; dopo aver saputo per fede che Gesù è morto sulla Croce, affine di distruggere il peccato; dopo essere stato per i meriti del suo sangue rimesso nella sua grazia; dopo averGli promesso tante volte fedeltà inalterabile nei santi sacramenti; e lo offende nell’atto stesso in cui Egli lo conserva, e lo provvede di tutto il bisognevole, lo fa servire da tutte le creature inferiori, lo fa sostenere dai principi della sua corte, quali sono gli Angeli, lo preserva da tanti pericoli, gli risparmia tanti castighi, gli tiene apparecchiato il divino suo corpo nella Eucaristia, tiene a sua disposizione tutti i tesori della sua grazia in questa vita e tutte le delizie della sua gloria nell’altra. Ah questo è proprio un lacerare quel seno che ci dà vita; è una ingratitudine, una crudeltà a cui non arrivano le stesse fiere

II. Il luogo. — Il peccato è ben anche un eccesso di temerità; perché non può esser commettere che al cospetto di Dio, il quale da per tutto si trova, ed ha sempre gli occhi aperti sopra di noi. Peccando dunque, voi avete conculcato la legge al cospetto dello stesso legislatore; a vista del vostro Giudice vi siete burlato dei suoi castighi; davanti al vostro Redentore vi siete messo sotto i piedi il suo sangue: in faccia della sua infinita maestà vi siete fatto schiavo d’un suo ribelle, il demonio, e tentaste, se fosse stato possibile, di toglierGli la corona dal capo. Faceste dunque davanti a Dio ciò che non ardireste giammai di fare davanti ad una persona del mondo meritevole di qualche riguardo.

III. I mezzi. — Che cosa adoperaste voi per peccare se non gli stessi benefici di Dio. Cioè quelle potenze dell’anima, quei sensi del corpo, quei beni di fortuna che Dio vi accordò per procurare la vostra santificazione e la sua gloria? Vi diede un intelletto capace di conoscere la prima verità, e voi lo usaste in cercar nuovi mezzi per offender il donatore. Vi diede una volontà capace di amare il sommo Bene, e voi, spregiata la fonte di vita eterna, andaste ad abbeverarvi alla fossa fangosa e puzzolente delle vostre disordinate passioni. Che più? Non solo abusaste delle creature contro Dio, ma abusaste ancora del Creatore medesimo contro Lui, prendendo anzi a peccare dal conoscere per esperienza che Egli è buono e misericordioso, appresta i rimedi al peccato, e differisce il castigo per dar luogo alla penitenza. Oh cosa spaventevole! Non basta all’uomo di tradir Dio con volgergli contro le sue creature; vuole pur anco che Dio medesimo concorra all’orribile Deicidio.

AFFETTI DI PENTIMENTO.

Dio di infinita misericordia, io non ho mai conosciuto così bene che la vostra clemenza eccede ogni termine, quanto adesso che siete arrivato a tollerar me così sconoscente, così ingrato a tanti vostri favori. Oh pazienza inaudita! Oh pietà indicibile! Qual principe della terra avrebbe sopportato un solo degli strapazzi che io ho fatto a Voi, senza sterminarmi dal mondo? Confesso la verità: la considerazione di condotta sì amabile e misericordiosa, qual fu la vostra verso di me, mi fa più vivamente compungere dei miei peccati, e non posso fare a meno di detestarli col dolore più vivo e più sincero. Ah! mio Signore, son risoluto; prima mi si apra sotto ai piedi la terra, che mai più tornare ad offendervi. Quand’anche fossi certissimo che niun castigo avessi a temere per le mie colpe, pure vorrei sempre abborrirle, sempre astenermene, se non altro per non essere ingrato un’altra volta alla vostra infinita bontà. Intanto per liberarmi da quella di cui mi trovo gravato, datemi grazia di accusarle con ogni sincerità al ministro delle vostre misericordie, e di condurmi con lui in maniera da pentirmene perfettamente riconciliato con Voi.

Meditazione III

IL PECCATO IN SÉ, NEGLI EFFETTI E NEI CASTIGHI.

I In se stesso. — Quando Mose intimò al Faraone l’ordine di Dio di lasciar in libertà il suo popolo, il Faraone rispose: “Chi è questo Signore perché io debba ubbidirlo? Io non lo conosco, nè mi indurrò mai a fare ciò ch’ei comanda”. Un atto cosi temerario è rinnovato da ogni uomo, quando acconsente al peccato. La coscienza gli intima come Mosè di non prendersi quel piacere, perché è da Dio proibito: ed egli risponde col fatto: io non mi curo di Dio, voglio fare a mio modo. Né solo ricusa di obbedirgli, ma gli volge dispettosamente le spalle; ricusa di portare il suo giogo; protesta di noi volerlo servire. Questa condotta affligge il cuore di Dio e lo affligge in maniera che, se non fosse immortale, lo farebbe morire, cagionandogli una tristezza infinita. E come no, se col peccato l’uomo dichiara col fatto di non fare alcun conto del sommo bene, dei tanti benefici da Lui ricevuti, dei tanti titoli che lo legano al suo servizio, al suo amore, e a Lui preferisce il suo più grande nemico qual è il demonio? E ciò, non già per procurarsi qualche grande vantaggio, ma per prendersi una brutale soddisfazione, che, appena provata, svanisce e non lascia dietro di sé che l’inquietudine ed il rimorso.

II Nei suoi effetti. — Che cosa fa la morte al nostro corpo? Lo priva tutto ad un tratto della vita, della bellezza, della forza e d’ogni altro bene. Altrettanto fa il peccato mortale alla nostr’anima: perché prima di tutto la priva di Dio il Quale è vita dell’anima più che non è l’anima vita del corpo. In secondo luogo lo priva della grazia divina, ch’è il più bell’ornamento dell’anima: quindi quell’anima che per la grazia era similissima agli Angioli, diventa in un momento bruttissima come un vero demonio. In terzo luogo mortifica tutte le opere buone adunate in stato di grazia: avesse acquistato i meriti di tutti i Santi, e quelli ancora di Maria Santissima, non gli gioverebbero più a nulla quando avesse a morire in tale stato; ed invece dell’eterna ricompensa pel bene operato, non riceverebbe che la sentenza di eterna dannazione per il male posteriormente commesso. In quarto luogo lo priva di tutti i meriti che potrebbe acquistare colle sue opere buone, dacché queste per se stesse sono morte, cioè non più ricompensabili con la gloria eterna, dacché manca loro il principio del merito, ch’è l’unione con Dio per mezzo della sua grazia. Quindi l’anima in tale stato con tutta ragione si paragona ad un tralcio staccato dalla sua vite, e perciò impossibilitato a produr frutti; mancando dell’umor vitale che esso ritraeva dal tronco con cui faceva un solo corpo.

III. Nei suoi Castighi. — Dalla severità della pena inflitta da un giudice imparziale e sempre inclinato alla misericordia, si argomenta con tutta ragione la gravità del delitto. Che concetto adunque dobbiamo noi formarci del peccato mortale, se Dio, che è la stessa bontà per essenza, lo punisce coi castighi più severi? Consideriamone soltanto i più conosciuti: lucifero l’Angelo il più bello, il più eminente del Paradiso. Eppure, appena ardì sollevarsi contro Dio, Dio stesso lo spogliò d’ogni bellezza, lo cacciò per sempre dal cielo, e lo precipitò nell’inferno con tutti i compagni della sua ribellione, che pur formavano un esercito immenso, e costituivano una gran parte del corteggio del divin trono. Adamo non fece altro che arrendersi a mangiare il frutto che gli era stato da Dio proibito. Eppure non appena contravvenne al divin comando che si trovò spogliato d’ogni dono soprannaturale e gratuito, cacciato per sempre dal giardino d’ogni delizia, condannato con tutta la sua discendenza a pascersi di miserie in tutto il tempo della sua vita e poi a diventare nel corpo preda dei vermi per mezzo della morte. Il mondo al tempo di Noè era presso a poco come al presente: eppure quando ardì di familiarizzarsi col peccato, Iddio fece perir nel Diluvio tutte quelle centinaia di milioni di uomini che allora abitavano la terra, a riserva della famiglia di Noè che, per avere perseverato nella giustizia, fu salva nell’arca. Le cinque città della Pentapoli furono distrutte dal fuoco, quando i suoi abitanti lordaronsi dì ciò che forma l’abominazione di Dio; e da quell’incendio non andò salvo che Loth con la sua famiglia che si era conservata innocente. Le miserie che tuttavia travagliano il mondo, le guerre, le pestilenze, le carestie che cosi spesso lo desolano, non sono altro che castighi del peccato. Il divino Unigenito, incarnatosi per nostra salute, non vestì che apparenze del peccato, per operar la salvezza di tutti gli uomini. Eppure l’eterno Padre, che pur Lo dichiarò l’oggetto delle sue compiacenze, Lo assoggettò a tante ignominie, a tanti dolori, e ad una morte così tormentosa, che di più non avrebbe potuto fare se Gesù fosse stato il peccato in persona. Se non che i castighi del peccato in questa vita non sono che un’ombra di quelli che la divina Giustizia gli tiene preparati nell’altra. Una fornace di fuoco al cui confronto il nostro fuoco non è che un dipinto, e in cui si soffrono tutti i mali senza alcuna mescolanza di bene e senza alcuna speranza che abbiano una qualche volta a finire, ecco la stanza preparata per coloro che muoiono col peccato mortale sull’anima. Considerate bene tutto questo; poi dite, se vi dà l’animo, che il peccato non è poi quel gran male che vi si predica, e che Dio cerca troppo coll’imporci l’obbligo di accusarcene con sincerità e con vero pentimento nella sacramental Confessione per liberarcene.

AFFETTI DI PENTIMENTO.

Conosco, o mio Dio, il gran male che ho fatto col violare la vostra legge, ordinata al mio vero bene, per secondare i miei capricci, che mi hanno procurato il maggior dei mali, privandomi della vostra presenza, e della vostra amicizia, spogliandomi di tutto quello che poteva trovarsi di buono dentro di me, ed esponendomi a tutti i rigori della vostra giustizia così nella vita presente, siccome ancora nella futura. Detesto adunque con tutto il cuore, e confesso la mia iniquità al vostro divino cospetto, e la confesso alla presenza di tutti i vostri Santi che vi sono stati così fedeli, alla presenza della SS. Vergine, di cui ho crocifisso il Figliuolo, alla presenza dei Principi della vostra corte celeste, S. Michele, S. Giovanni Battista, S. Pietro, e S. Paolo, che tanti esempi mi hanno lasciato dì esattezza e di fervore nell’adempire i vostri santi voleri. Mi riconosco pertanto pieno di colpe gravissime ed inescusabili, e le detesto sopra ogni male, non tanto per il gran danno che hanno recato all’anima mia, quanto perché dispiacciono a Voi, mio sommo ed unico Bene, protestando che non vorrei mai averle commesse, e ciò solo per risparmiare il gran disgusto che ho dato a Voi. Voi potete ogni cosa; mostrate ora la forza del vostro braccio col distrugger affatto i miei peccati, e col cambiare il mio cuore in maniera che d’ora innanzi io vi ami tanto quanto finora vi ho offeso. Di questa grazia siano presso Voi Avvocati la stessa SS.. Vergine e tutti quanti gli Eletti, affinché imitandoli nell’obbedire alla vostra santa legge, sia fatto degno di esser loro compagno nel godervi per sempre in Paradiso.