L’UFFICIO DIVINO -I-

L’UFFICIO DIVINO -1-

[J.-J. Gaume, Catechismo di Perseveranza, vol IV, Torino 1881]

— Le preghiere in comune dei nostri padri nella fede ci porgono l’opportunità di parlare qui dell’Uffizio divino, vale a dire della vera preghiera in comune del Cristianesimo. Quantunque i Fedeli più non recitino l’uffizio, vi assistono però, una volta almeno nelle domeniche, e ne recitano anche una parte, per esempio il Vespro e qualche volta Compieta. La loro fede, la loro pietà, il loro rispetto per tutte le preghiere e per tutti gli usi della Chiesa non possono fare a meno di guadagnare assai allorché ne conoscano lo scopo, la ragione e il significato.

Origine dell’Uffizio divino. — Tutti gli uomini hanno pregato, e pregato in comune; ma i primi cristiani specialmente si dilettavano di adunarsi per offrire a Dio il sacrificio del labbro. Risuonavano tuttora alle loro orecchie quelle parole del divino Maestro: In qualunque luogo due o tre siano adunati in mio nome, Io sono in mezzo a loro. Perseguitati, inseguiti come pecore innocenti da lupi feroci, essi attingevano la forza e la costanza necessaria, mettendo il loro cuore, i loro voti e le loro preghiere in comune coi loro fratelli, siccome dividevano con essi le sostanze e i pericoli. – La notte come il giorno avevano certe ore determinate per attendere alla preghiera. Le Costituzioni apostoliche comandano ai fedeli di pregare alla mattina, alla terza ora, alla sesta, alla nona, la sera e a mezza notte, [Precationes fìant mane, tertia hora , sexta, nona et véspere, atque ad galli cantum. Lib. VIII, c. 54. — Purandus, lib. III, c. 41, p. 735], e san Girolamo scrivendo a una pia gentildonna intorno l’educazione della sua figlia, le dice: “Affidatela all’esperienza di una donzella di età provetta, che sia specchio di fede e di castità, che le insegni, e con l’abitudine e con l’esempio, a levarsi la notte a pregare e a cantare i salmi; la mattina, gl’inni sacri; a Terza, a Sesta, a Nona a proseguire il combattimento come un’eroina di Gesù Cristo; e verso il cader del sole ad accendere la sua fiaccola come una vergine saggia, e ad offrire il sacrificio della sera [Ad Laetam., Epist. VII, de Instit. Filiae]. – Il medesimo Santo ci assicura nelle sue epistole che il mietitore cristiano accompagnava i suoi lavori col canto de’salmi, e il vignaiuolo che potava la sua vigna ripeteva i cantici di Davide [Ad Marcell.]. I monaci dell’Egitto e della Tebaide, i solitari dell’Oriente, della Palestina e della Mesopotamia, si adunavano nei loro monasteri più volte al giorno per recitare i salmi e cantare inni in lode del Signore. – Né solo i Religiosi pregavano in tal guisa nelle diverse ore del giorno e della notte, ma in pratica sì devota erano ben anche imitati da gran parte dei fedeli. Sant’Agostino nell’istruire i l suo popolo cosi si esprime: «Miei cari fratelli, levatevi, ve ne prego, di buon’ora per attendere alle veglie; assistete specialmente agli uffizi di Terza, di Sesta e di Nona; nessuno si esenti da quest’opera santa, quando non ne sia impedito da qualche infermità, da qualche pubblico incarico, o da una grande necessità » [Serm. I . Feriae quartae, LVI de Tempere. — Vedi pure S. Basilio, Homil in Martyr. Julittam. — E così pure S. Agust., Epist., 109, etc.]. – La riunione di tutte queste preci si chiama uffìzio divino, perché è un dovere che si presta a Dio per adorarlo, placarlo, ringraziarlo e richiederlo delle sue grazie; per lo che è agevole dedurre che l’uffizio, tal quale è presso a poco oggidì, risale alla più remota antichità. Erede delle tradizioni primitive, la Chiesa lo ha stabilito sì per perpetuare quei sacri cantici di cui risuonarono e il Tempio di Gerusalemme e i gioghi del Sinai, e le spiagge del Mar rosso, e sì pure per facilitare con tal mezzo ai cristiani l’esercizio della preghiera.

Diverse ore dell’Uffizio. — E in questo proposito eziandio ci soccorre una tradizione di tremila anni. David diceva al Signore : « Io canto le vostre lodi sette volte al giorno »; e l’uffizio divino si divide in sette parti, chiamate ore, perché si recitano a sette ore diverse della notte e del giorno. Ecco il nome delle medesime: Mattutino, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro e Compieta. Questa divisione ascende alla più alta antichità. [Isid., lib. de Eccles. offic. Raban. Maur., lib. II, de Instit, cleric. Basil., lib. I de Instit, monach. Hieron., in exposit. Psal. CXVIII. Cassian., lib. III, de lnst. coenobit., c. 4. — Ci piace di riferir qui alcuni versi antichi i quali spiegano la ragione delle diverse ore dell’Uffizio, indicando i Misteri che si onorano in ciascuna delle medesime: “Matutina ligat Christum, qui crimina purgat: Prima replet sputis; causam dat Tertia mortis; Sexta cruci neetit; latus eius Nona bipertit; Vespera deponit; tumulo Completa reponit].Le Lodi che si cantano talvolta per un’ottava ora, fanno parte del mattutino, ossia dell’uffizio della notte. Laonde, come si è detto, la divisione dell’uffizio divino in sette ore, adottata dalla Chiesa, è stabilita sopra la incontrastabile autorità d’una tradizione di tremila anni. Ma in che cosa è poi fondata questa sì antica tradizione? Sopra le prodigiose armonie del numero sette con Dio, con l’uomo e col mondo.

1° Il numero sette è quello dei doni dello Spirito Santo. « L’antico serpente, dice a questo proposito san Girolamo, scacciato dal cuore umano, torna con sette demoni più malvagi di lui, e sarebbe impossibile la resistenza quando non si fosse assistiti dai sette doni dello Spirito Santo; quindi preghiamo sette volte al giorno per ottenerli [Jeron. In Job. XXXVIII] . 2° Il numero sette è il numero de’ sette peccati capitali. Per evitarli, o per liberarcene se vi siamo caduti, noi preghiamo sette volte al giorno. 3″ Tutti i bisogni spirituali o temporali del genere umano sono in numero di sette, contenuti nelle sette domande del Pater. Quindi noi preghiamo sette volte al giorno per ottenere l’obbietto di ciascuna di queste domande. 4° Il numero sette è quello dei giorni della creazione e del riposo di Dio; e noi preghiamo sette volte al giorno per rammentare quella grande settimana, che vide sorgere il mondo dal nulla, e per eccitarci nello stesso tempo a ringraziare Iddio delle diverse opere fatte in ciascun giorno, affinché facendo buon uso delle creature, noi arriviamo al santo riposo dell’eternità. I motivi di questa divisione settenaria della preghiera esistevano già da tremila anni: ed ecco il fondamento di quella venerabile tradizione, e la prova della profonda sapienza della Chiesa cattolica. – Sogni, fantasie, diranno forse gli uomini leggieri, incapaci di meditare!… Ebbene, siano sogni, se cosi vi piace; ma noi preferiamo di sognare con san Girolamo, san Basilio, sant’Agostino, Varrone, anziché vegliare in vostra compagnia. [Vedi inoltre sulle altre armonie del numero sette san Basilio, Homil. II, in Hexaem. -— Greg. Naz. Orat. XCIV, in Sanct. Pentecost. — S. Aug., de Civit. Dei, lib. II, c. 57, de Gen. ad lit. I: confr, Manich., lib. i. — Varro, lib. I. Eorum qui inscribuntur hebdomades, etc.].

Bellezza dell’Uffizio. — Per meglio mostrare l’eccellenza dell’Uffizio divino, basterà il sapere di che cosa sia composto. – È un compendio [Per questo si chiama breviario] di quanto vi ha di più bello nel più bello di tutti i libri, l’antico cioè, e il nuovo Testamento; di quanto la storia de’ Santi ci presenta di più affettuoso e di più sublime; di quante preghiere siano uscite dal cuore ardente dei più grandi intelletti, e nel tempo medesimo de’ più grandi Santi che il mondo abbia conosciuti; di quanti devoti cantici finalmente siano stati dalla fede inspirati alla cristiana pietà. Che cosa può dirsi di più? Esso racchiude per intero quegl’inni inimitabili, quelle poesie immortali del Profeta reale , in cui il cuore, lo spirito, l’immaginazione trovano sempre un oceano di bellezze senza pari, di pensieri sublimi, di sentimenti divini. Dove trovare un più bel breviario di cose più belle? Chi saprebbe insegnare una più efficace preghiera?Un monarca vuol colmare di favori la diletta sua sposa, ma ama che essa glieli dimandi: ed ecco ch’egli stesso le traccia la supplica, le indica le parole di cui desidera che si valga, poi a lei la consegna giurando solennemente di concedere quanto le ha promesso tosto ch’ella si presenterà con la supplica alla mano, sulle labbra, e nel cuore; ecco Dio, ecco la Chiesa; ecco il breviario.Oh! qual forza aver debbono sul cuore di Dio quei tre o quattrocento mila sacerdoti cattolici, che ogni giorno si presentano sette volte dinanzi al trono dello Sposo della Chiesa, per domandargli nel modo che gli è più accetto i favori da Lui stesso promessi, e di cui abbisogna questa Sposa diletta! E pensare che a ciascun’ora del giorno e della notte parecchie migliaia di preti son occupati in questa sublime funzione; che l’Oriente prega quando l’Occidente riposa, di maniera che la voce della orazione non resta giammai interrotta, non vi par forse di essere nella Gerusalemme celeste, ove i beati ripetono continuamente i l cantico dell’eternità: Santo, Santo, Santo, il Signore Dio degli eserciti? [Apoc. IV, 8]Qual fiume di benedizioni non debbe attirar sulla terra questa supplica potente Mondo ingrato! mondo reo! mondo cieco! a lei soltanto tu sei debitore della tua conservazione e puoi obliarlo? Che cosa potrei aggiungere? Tutti i secoli, tutte le nazioni, tutte le favelle si accordano con noi quando cantiamo i salmi di Davide. Mentre noi ne facciamo risuonare le volte delle nostre chiese, quelle liriche immortali sono ripetute a Roma, a Gerusalemme, a Pekino, al Messico, a Pietroburgo, al Cairo, a Costantinopoli, a Parigi, a Londra. Il tempio di Salomone, le pianure di Babilonia e di Memfi, le spiagge del Giordano, i deserti della Tebaide, le catacombe di Roma, le basiliche di Nicea, di Corinto e d’Antiochia le hanno a loro volta ascoltate. Oh! per quante bocche più pure della mia sono esse passate! Tobia nel suo letto di dolore, Giuditta nel campo d’Oloferne, Ester alla corte d’Assuero, Giuda Maccabeo alla testa dei guerrieri d’Israele le hanno ripetute; Antonio le sospirava nel deserto, Crisostomo ad Antiochia, Atanasio ad Alessandria, Agostino ad Ippona, Gregorio a Nazianzo, Bernardo a Chiaravalle, Saverio al Giappone!E dopo tanti secoli, e dopo avere espresso tanti sentimenti diversi, quei cantici inimitabili sono nuovi come al primo giorno, e come la prima volta che Davide li faceva risuonare sull’arpa profetica! E ciò nulla dice al vostro cuore? E ciò non ingrandisce le vostre idee? E ciò non vi farà comprendere tutto l’incanto di questo nome incomunicabile della Chiesa vostra madre. . . cattolica?

Mattutino. — La prima ora dell’Uffizio si chiama Mattutino, Vigilia, Notturno, ovvero Ore della mattina, perché nel tempo andato erano recitate di notte, come si pratica tuttora per Natale, e perché nei Capitoli si recitano ancora di buon mattino. Il Mattutino è diviso in tre notturni o parti, composti di tre salmi, di tre antifone, di tre lezioni, precedute da una benedizione e seguite da un responsorio. Le prime lezioni sono estratte dalla Scrittura Santa, le seconde dalle opere de’ Padri, o dalle leggende de’ Santi di cui si celebra la festa, e le terze servono di commento al Vangelo del giorno, di cui si canta qualche versetto. – E primieramente i l mattutino si divide in tre notturni. La parola Notturno significa Uffìzio della notte. Si sa come gli antichi dividessero la notte in quattro parti, di tre ore ciascuna; la prima dalle sei fino alle nove, la seconda dalle nove fino a mezza notte, la terza da mezza notte fino alle tre e la quarta dalle tre fino alle sei del mattino. Ogni parte si chiamava vigilia o fazione, e si diceva prima vigilia, seconda vigilia, ecc. Questa denominazione è presa dal linguaggio militare, poiché i soldati vegliavano o stavano in fazione tre ore per ciascuno [Vegetius, De Re militari, c. VIII. – Pari alle legioni dei Cesari, l’esercito di Gesù Cristo, la Chiesa, sempre in armi, ordina agli ecclesiastici di vegliare a vicenda a custodia del campo, specialmente in tempo di notte, perché è quello il tempo del pericolo, dicono i Padri, il tempo in cui circuisce il tentatore, il tempo del peccato [Hilar. in Psalm. CXVI1I. — Ambros., lib. VII, in Lucam]. – Laonde nei primi secoli i notturni si recitavano separatamente; il primo durante la prima vigilia, il secondo nella seconda, il terzo nella terza, e le lodi nella quarta. I fedeli vi assistevano, ma al fine di ogni notturno, erano in libertà di andare al riposo, fino al notturno seguente. Tutti per altro, sebben gracili e delicati, si facevano un obbligo d’intervenirvi. Abbiamo veduto che san Girolamo, scrivendo alla figlia de’ Paoli Emili e de’ Scipioni, le insinuava di uniformarsi all’uso di alzarsi la notte due o tre volte per cantare gl’inni ed i salmi [Noctibus, bis, terque surgendum; Ad Eustoch. epist. XXII]. – In progresso di tempo la Chiesa, avendo riguardo alla umana fralezza, concesse di recitare i tre notturni con le laudi, in una medesima vigilia della notte, i suoi disegni non vennero con ciò punto alterati. – Ella vuole, mediante ciascuna ora dell’Uffizio, onorare i principali misteri della Passione del Salvatore, darci ad ogni istante del giorno e della notte le più utili lezioni, e procurarci le grazie adattate a ciascuno de’ nostri bisogni. Svolgeremo più minutamente codesti argomenti allorquando spiegheremo ciascuna ora in particolare. – Ma intanto potrebbe chiedere qualcuno: perché mai il Mattutino, che è la prima parte dell’Ufficio, incominci alla sera? Al che risponderemmo: perché il giorno ecclesiastico incomincia la sera; uso venerabile che ci rammenta l’antichità, imperocché anche presso i Giudei il giorno incominciava la sera. Erede della Sinagoga, la Chiesa cattolica ha conservato quest’uso pieno di memorie e di misteri. – Il Mattutino si recita nella notte: 1° perché in tempo di notte furono uccisi dall’Angelo sterminatore i primogeniti degli Egiziani; avvenimento per sempre memorando, che produsse la liberazione del popolo d’Israele, antica figura della Chiesa; 2° perché in tempo di notte nacque il Liberatore del mondo; 3° perché in tempo di notte compì una parte dei misteri della sua dolorosa Passione. In memoria di questi grandi, ineffabili avvenimenti, in rendimento di grazie di quei benefici, e in espiazione delle colpe de’ Giudei e di tante altre che si commettono nella notte, la Chiesa ha voluto che i sacerdoti e i Religiosi, tutti questi angeli della preghiera, fossero in adorazione e pagassero il debito dell’universo. Non vi sembra codesta una bella idea? Com’era men bello infatti il vedere, appena la campana faceva udire i suoi rintocchi, quei sacerdoti, quei Religiosi, quei vegliardi accorrere alla Chiesa! Si sarebbe detta una schiera che dà di piglio alle armi al primo invito della tromba. – « Giunti al tempio, scriveva un veterano di Gesù Cristo, noi cadiamo a ginocchi davanti l’altare, salutiamo il nostro Condottiero, gli rinnoviamo le proteste della nostra obbedienza, e gli confessiamo che senza il suo divino soccorso ci sarebbe impossibile di sperare e di ottenere vittoria contro l’infernale nemico ». [Durandus, lib. V.]. – Incomincia l’uffizio; ma in quale maniera? Al modo con cui deve incominciare ogni opera soprannaturale, vale a dire, dalla professione della nostra debolezza. Il sacerdote traccia su le proprie labbra il segno della croce, e dice: Apritemi le labbra, o Signore, affinché la mia bocca possa cantare le vostre lodi. Ma mentre il sacerdote domanda a Dio la grazia e la facoltà di poterne esaltare demonio raddoppia gli sforzi per renderne inutile la pietà; e perciò il sacerdote stesso, appena ottenuta la chiesta licenza, tosto soggiunge, armandosi dell’usbergo della croce: Venite, o Signore, in mio aiuto; alle quali parole tutto il coro, penetrato egli pure della propria debolezza, risponde ad alta voce: Affrettatevi, o Signore, a soccorrermi. – Poscia il sacerdote soggiunge immediatamente: Sia gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo; e il coro risponde: com’era in principio, com’è adesso, e come sarà per tutti i secoli: vale a dire, sia gloria eterna al Dio dell’eternità. E perché dunque s’innalza quest’inno di gloria e di gratitudine tosto dopo il grido di angoscia? Eccone la ragione: « Non appena avrai finito d’invocarmi, io sarò teco 1 » [“Adhuc te loquente ecce adsum” Isai. LVI1I, 9], ha detto il Signore per bocca di un Profeta; sicché la Chiesa fidando interamente iella promessa del divino suo Sposo che ha assicurato di esaudirla si studia di dar gloria alla santa Trinità. Il Gloria Patri fu composto da san Girolamo, e da lui trasmesso a Papa Damaso, il quale, secondando le istanze del santo anacoreta di Betlemme, decretò che questa dossologia venisse cantata in fine dei salmi. [Alcuni pensano che il Gloria Patri abbia origine più antica, e l’attribuiscono al Concilio di Nicea]. – Dalla Pasqua fino alla Pentecoste il Gloria Patri è seguito dall’Alleluia, voce ebraica, e significa gioia, allegrezza; onde è posta dalla Chiesa in principio dei suoi Uffizi per eccitare alla letizia, servendo Iddio conforme alle istruzioni del Profeta: “Servite al Signore nell’allegrezza” [Salmo XC1X]. – In qual altro tempo può essere più contento un fanciullo, qual altra occupazione può essergli più accetta, se non è quella di cantare le lodi del padre suo? – Dopo l’Alleluia segue l’Invitatorio ossia “chiamata”. Il sacerdote non è pago di lodare da solo il nostro Dio; ma come profeta della legge nuova, come inviato dell’Altissimo sollecita i proprii fratelli a lodarlo in sua compagnia. L’invitatorio è una frase che esprime in poche parole le ragioni speciali che noi abbiamo di lodare Iddio nella festa del giorno. Cotale preghiera è seguitata da queste parole: “Venite, adoriamo”, ripetute dal coro fino a sei o sette volte; perché dopo di avere spiegato ai suoi fratelli il motivo particolare ch’essi hanno di ringraziare Iddio nella festa di quel giorno, il celebrante ne enumera loro le ragioni generali ed immutabili che si contengono nel salmo “Venite Exultemus”. Egli dice: «Venite, esultiamo nel Signore, cantiamo le lodi di Dio Salvator nostro. Corriamo a presentarci davanti a Lui coll’orazione, e coi salmi celebriamo le sue lodi ». – Il Coro: « Venite e adoriamo il Signore ». L’Uffiziante: « Imperocché il Signore è un Dio grande, è un re grande sopra tutti gli Dei. Perché l’ampiezza tutta della terra Egli tiene nella sua mano, e a Lui gli altissimi monti appartengono. Perché di lui è il mare, ed Egli lo fece, e dalle mani di Lui fu fondata l’arida terra ». Il Coro: « Venite ed adoriamo il Signore ». L’Uffiziante: « Venite, adoriamolo, e prostriamoci, e spargiamo lacrime dinanzi al Signore, di cui siamo fattura. Imperochè Egli è il Signore Dio nostro, e noi popolo dei suoi paschi e pecorelle di suo governo ». – Il Coro : « Venite ed adoriamo il Signore ». – L’Uffiziante : « Oggi se la voce di Lui udirete non vogliate indurate i vostri cuori, come nel luogo della altercazione al di della tentazione nel deserto, dove tentarono me i padri vostri e fecero prova di me e videro le opere mie ». – Il Coro : « Venite ed adoriamo il Signore ». – L’Uffiziante: « Per quarant’anni fui disgustato altamente con quella generazione, e dissi: Costoro vanno sempre errando col cuore. Ed eglino non han conosciuto le mie vie: ond’Io giurai sdegnato: Non entreranno nella mia requie». – Il Coro: « Venite e adoriamo il Signore ». – Scegliete fra tutti i poeti antichi e moderni, e poi ditemi se voi trovate qualche cosa di più bello, di più sublime, di più affettuoso che questo magnifico dialogo. Questo poetico colloquio sì efficace per infondere nell’animo il vero spirito della preghiera si termina con uno slancio di amore verso la Santissima Trinità, cioè il Gloria Patri.

Preghiera.

“O mio Dio, che siete tutto amore, vi ringrazio di aver instituito il santo giorno di Domenica: ben so che specialmente per mio benefizio questo giorno deve essere consacrato all’orazione: fatemi la grazia ch’io possa degnamente santificarlo. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo, come me stesso, per amor di Dio, e in prova di questo amore studierò attentamente lo spirito delle cerimonie della Chiesa”.

L’inno – Dopo il Gloria Patri, sospiro ardente di amore e plauso di gioia che si solleva alla santa Trinità, dopo la ripetizione dell’invitatorio, canto di allegrezza, o di mestizia secondo la natura del mistero che si commemora, segue subito l’inno, destinato a lodare Iddio, a sublimare i nostri pensieri e i nostri affetti, e a raffermare in noi i sentimenti e le virtù che deve inspirarci la festa del giorno. – Tutti perciò si alzano in piedi, tutti i cuori si accendono, tutte le voci si accordano per cantar l’inno degnamente. « Tre cose, dice sant’Agostino, formano l’essenza dell’inno: 1° la lode; 2° la lode di Dio; 3° il canto. [Aug. Ad Psalm. LXXII. — Greg. Nazianz., Carm. XV.]. – L’uso degli inni risale ai primi giorni del Cristianesimo poiché si cantavano dai padri nostri, giusta il consiglio di san Paolo, nei cenacoli e nelle catacombe [Coloss. lII, 16. — Ephes. V, 19. — Euseb., Hist., 1. II]. Primo a decretare che nell’uffizio della notte si cantassero inni fu S. Giovanni Crisostomo, nell’occasione che gli Ariani si aggiravano di notte per Costantinopoli cantando versi che contenevano le loro empie dottrine. Nell’uscire dalla chiesa i cristiani incontravano quegli eretici ed erano esposti a sentirli; onde per prolungare l’Uffizio fino a tanto che gli Ariani fossero tornati alle loro case, e anche per fortificare la fede dei cattolici, il santo Patriarca aggiunse gl’inni al Mattutino e Laudi. [Socrat., lib. VI].- AI Mattutino l’inno precede i salmi, ma li segue alle Laudi, al Vespro e alla Compieta. – Li precede a mattutino, perché il mattino appartiene ai giusti che fruiscono del gaudio di una buona coscienza, mentre la sera spetta ai penitenti il cui animo è conturbato e sente il pungolo dei rimorsi. – La gioia conduce i primi al lavoro, figurato dai salmi, come diremo fra poco: i secondi debbono giungere al contento e alla letizia per mezzo del lavoro. Gl’inni si cantano in piedi per dimostrare coll’atteggiamento del corpo che i nostri cuori debbono essere innalzati verso Dio mentre la nostra bocca ne canta le lodi. Ogni cosa pertanto nel culto esteriore ci rammenta la necessità del culto interiore; tutto sembra ripeterci quelle parole del divino Maestro: Il Padre cerca adoratori in ispirito e in verità [Giov. IV, 23].

L’antifona. — Finito l’inno, l’ufficiante intona l’antifona. Ma che cosa è l’antifona? Essa è un canto alternativo, un canto eseguito da due cori che si rispondono. L’antifona significa l’amor di Dio, e il salmo la fatica delle opere buone.L’ uffiziante intona la prima parola dell’antifona per animare il salmo, cioè la fatica, per mezzo dello spirito di carità senza del quale la fatica non serve a nulla. Cantato il salmo, tutto il coro ripiglia l’antifona per mescolare costantemente la carità alla fede, di cui le opere non sono efficaci che per mezzo della carità. Perciò queste due grandi virtù del Cristianesimo si potrebbero assomigliare in questo luogo a due sorelle occupate nel medesimo lavoro, che si sostengono e si aiutano scambievolmente. Il sacerdote che da solo intona l’antifona, ne rammenta Gesù-Cristo unico e vero fonte della carità; tutto il coro che la canta alla fine del salmo significa l’effusione della carità di Gesù Cristo in tutti i suoi membri. Il canto delle antifone risale alla più alta antichità, e deriva da un’origine sommamente rispettabile. Sant’Ignazio martire, la gloria dell’Oriente e l’eroe del secondo secolo, avendo udito gli spiriti beati cantare in coro delle antifone nella Gerusalemme celeste, fece palese la sua rivelazione, dal che venne l’usanza di cantare antifone nella Gerusalemme terrestre [Durandus, lib.V].

I salmi. — Dopo l’antifona viene il canto de’salmi, per costume introdotto da Papa Gelasio. Quei cantici divini ricordano i patimenti, le fatiche e i combattimenti di un Re perseguitato; la gioia e la felicità ch’ei raccoglie dalla protezione del cielo; mentre palesano con forza i sensi della più viva gratitudine. Sospiri profetici, essi esprimono le pene, le fatiche, i combattimenti, i trionfo e la gloria del vero David, della Chiesa sua sposa e dell’anima fedele, sua figlia diletta e sua vivente immagine. Per lo che il cristiano ascolta e ritrova nei salmi quattro voci diverse: voce di David, voce di Gesù Cristo, voce della Chiesa, voce del cristiano. – È dunque cosa evidente che i salmi rappresentano la fatica della vita, e il lavoro delle opere buone. La parola salmo significa il canto che si eseguiva sul Salterio, il quale era uno strumento da musica: Lodate il Signore sulla cetra: cantate inni a lui sul Saltero da dieci corde [Psal. XXXII, 3] . Parole misteriose indicanti che noi dobbiamo lodare Dio nell’adempiere i dieci comandamenti, e che soltanto quel cristiano che osserva la divina legge gode degnamente il Signore. – Papa Damaso ordinò che i salmi fossero cantati a due cori. Ammirabile istituzione! Non vi sembra egli di vedere i santi della terra eccitarsi alternativamente al lavoro e alla pratica delle opere buone, comunicandosi le gioie e le speranze, le lacrime e i sospiri, la gratitudine e l’amore, rinviandosi incessantemente le parole ardenti ch’essi volgono a Dio protettore del debole, sostegno dell’orfano, padre del povero, consolatore dell’afflitto e rimuneratore del Giusto? Non vi sembra inoltre di vedere l’adempimento di quel precetto del grande apostolo: Portate gli uni i pesi degli altri; e così adempirete la legge di Cristo? [Galat. VI, 2]. Non vi sembra infine di vedere quei cherubini visti dà Isaia, i quali, collocati davanti al trono di Dio, colla faccia nascosta tra le ali, esclamavano a vicenda : Santo, Santo, Santo il Signore degli eserciti; della gloria di lui è piena tutta la terra [Isai. VI, 3]. – I salmi si cantano in piedi come per esprimere l’ardore del lavoro e lo zelo del bene. Quindi è che si vedono i canonici stare semplicemente appoggiati ai loro stalli, mentre si cantano le diverse ore dell’uffizio, eccettuata Compieta. Diremo ben presto la causa di questa eccezione. – Ogni salmo è seguito dal Gloria Patri; 1° per render gloria a Dio del bene che ci ha fatto; 2° per rammentare all’uomo l’augusta Trinità dalla quale tutto deriva; e alla quale tutto deve tornare; 3° per ripetergli che la fede nella santa Trinità è il fondamento della vita cristiana; 4″ per attestare che in tutte le circostanze, e tanto nella contentezza quanto nell’afflizione, così nel lavoro come nel riposo, noi vogliamo benedire e lodare il Signore.

I versetti. — Dopo ogni notturno vengono tre lezioni, e le lezioni stesse sono precedute da versetti e benedizioni che fa di mestieri primieramente spiegare. Il versetto è una breve sentenza, un concetto vivo, un avvertimento dato per risvegliare l’attenzione. Può infatti accadere che, durante la recita o il canto de’ salmi, che qualche volta dura molto tempo, non ci lasciamo sorprendere dalla distrazione o dalla stanchezza. Il versetto dunque si canta da una voce sola, per ridestare più sicuramente, mercé una tale varietà di tono, tutti gli assistenti, e tenerli occupati di quello che segue. Che ve ne pare? Non è questo un ottimo espediente? La Chiesa nostra madre non conosceva abbastanza la umana fragilità nello stabilire questa regola? Avreste voi saputo immaginare un mezzo migliore per tener viva l’attenzione dello spirito e la divozione del cuore? Al versetto cantato con voce e tono infantile succede il Pater intonato dalla voce grave del celebrante. Si dice il Pater perché è imminente la lezione, e l’uomo abbisogna di saviezza e d’intelligenza per comprendere e per gustare le verità sante, e deve per ottenere tali doti rivolgersi e domandarle a Colui che le concede in abbondanza e senza rimproveri. Si recita il Pater a voce bassa per eccitare il raccoglimento e far osservare che noi parliamo da soli e soli con Dio, e per dimostrare da ultimo ch’Egli intende, senza l’aiuto della parola, la preghiera del nostro cuore. Arrivati a quelle parole : “Et ne nos inducas in tentationem”, « Non vogliate permettere che soccombiamo alla tentazione », il sacerdote alza la voce, per insegnare a tutti perché si recita il Pater, ed impedire al lettore e all’ascoltatore di cedere alle tentazioni del nemico durante la lettura; tentazione di vanità per l’uno, e di negligenza per l’altro.

Le Benedizioni. —Il Pater è seguito da una breve preghiera che si chiama Benedizione, la quale ha per fine di ottenere quello che abbiamo domandato per mezzo dell’orazione Domenicale, e in questa nuova preghiera noi ci rivolgiamo successivamente e per ordine a ciascuna delle tre Persone dell’augusta Trinità. – Altro non rimane adesso, fuorché di sapere chi sarà degno di leggere la parola di Dio. Uno degli assistenti si leva, e voltandosi verso l’ufficiante, che rappresenta Gesù Cristo, gli dice ad alta voce: Iube, Domne, benedicere [La parola Domne è un’abbreviatura di Domine, e risale al nono, o decimo secolo], « Ordinate, Signore, di benedire », cioè ordinate che sia annunziata la vostra parola di benedizione In questa piccola cerimonia si racchiude un avviso di somma importanza, poiché imparasi con ciò che nella Chiesa nessuno deve esercitare il ministero, quando non vi sia chiamato dall’autorità legittima. – Le vocazioni e le missioni dall’alto non sono necessarie soltanto per lo stato ecclesiastico, ma eziandio pei vari stati della civile società. Donde derivano infatti la più gran parte dei mali che ci affliggono, se non da ciò, che quasi nessun individuo è collocato al suo posto o non vuol rimanervi? Ma ripigliamo il nostro ragionamento. – A questa domanda di benedizione che è rinnovata prima d’incominciare ciascuna lezione, l’officiante risponde con preghiere capaci di muovere tutta la celeste Gerusalemme ad interporsi presso il Signore affinché la santa lettura torni proficua; talvolta egli domanda che il Signore si degni aprire il nostro cuore alla sua legge, per timore che la parola santa che siamo per ascoltare non sia come un grano, un seme che gli uccelli divorano, o che le spine soffocano, o che i passeggeri calpestano; tal altra implora che veniamo ammessi alla felicità de’ Santi di cui ci apprestiamo a leggere le virtù. Il sacerdote ci augura tutte queste cose in nome di Dio, e cosi dimostra che non a lui, uomo peccatore, appartiene di benedire, ma a quello bensì che solo è buono, solo perfetto, solo autore di ogni bene.

  1. Le Lezioni. — Destata con ciò la vigilanza, ottenuta la benedizione e implorate previamente le grazie d’intelligenza e di saviezza, incominciano le lezioni. Si compongono queste dell’antico e del nuovo Testamento, de’ commentari de’ Padri e dei Dottori e della vita del Santo di cui si celebra la festa. La Scrittura è la legge; gli scritti de’ Padri la spiegazione; la vita del Santo, l’applicazione. Qual più completa istruzione? Per meglio ascoltarle si sta seduti e in silenzio. Infatti, vi ha egli al mondo una parola che più meriti questa attitudine di raccoglimento e di rispetto? Le lezioni finiscono con queste parole: “Tu autem Domine, miserere nobis”; « Deh! o Signore, abbiate misericordia di noi ». Commovente confessione della nostra miseria! « Sì, mio Dio, dice il lettore, perdonateci gli errori che hanno potuto accompagnare questa lettura; a me i sentimenti di vanità o di negligenza di cui mi sono reso colpevole; ai miei fratelli le distrazioni e il poco fervore con cui forse hanno ascoltato i vostri divini oracoli ». – Tutti gli assistenti rispondono: “Deo gratias”; « Siano rese grazie al Signore ». – Queste parole si riferiscono alla lezione, ed eccone il senso: « Se è un dovere per l’uomo ringraziare Iddio del nutrimento corporale ch’Ei ne concede ogni giorno, quanto più sacro dev’esser l’obbligo di ringraziarlo della manna della sua parola con cui alimenta l’anima nostra! Come figli di Dio, noi ringraziamo il nostro Padre celeste del cibo spirituale che ci ha compartito ». Eccoci ammaestrati ed anche riconoscenti per la dottrina che abbiamo ricevuta. Ora qual mezzo migliore di attestare la nostra gratitudine, che quello di mettere in pratica la parola santa e d’imitare i nobili esempi che ci sono stati posti sott’occhio? A ciò tutti gli assistenti si obbligano mediante i Responsori che si recitano subito dopo la Lezione, e alternativamente dai due cori. I responsori della terza lezione finiscono col Gloria Patri, acciocché rammentiamo che tutte le nostre preghiere e tutte le opere nostre debbono riferirsi al fine supremo di tutte le cose, alla santa Trinità. Ecco come si recita o si canta il primo Notturno, cioè la prima parte del Mattutino. Nei primi secoli si diceva verso le nove della sera, nel momento in cui siamo soliti di andare al riposo; e in molte chiese era senza invitatorio, perché i ministri sacri lo recitavano da soli senza convocare il popolo. Questo primo Notturno si chiamava propriamente veglia, o vigilia, in memoria de’ pastori che custodivano le mandrie nelle vicinanze di Betlemme, la notte in cui nacque il Salvatore del mondo. Quanti misteri ci rammemora questa ora sacra! La veglia de’ pastori, il tenero addio del Salvatore agli Apostoli, la sua agonia nell’orto di Getsemani! Se abbiamo scintilla di fede, quali espansioni di cuore, quali fervorose preghiere si uniranno in questo primo Notturno alle prove di amore e al sangue della gran Vittima che ci riscattava! – Nelle chiese ove il popolo non assisteva al principio dell’uffizio, il secondo Notturno cominciava dallInvitatorio, perché tutti i fedeli, uomini e donne, vi erano convocati. E qui pure noi ci imbattiamo in una nobile tradizione, in una affettuosa armonia. Come angeli della terra, gli ecclesiastici invitavano all’adorazione del Salvatore i cristiani affidati alla loro cura, come gli angeli avevano invitati i pastori di Betlemme. Il secondo Notturno si cantava a mezza notte. Ed anche quest’ora sacra quanti misteri ci ricorda! La nascita del Salvatore, la chiamata degli angeli e l’adorazione de’ pastori, i patimenti del Salvatore davanti ai tribunali di Anna e di Caifa.- Il terzo Notturno si recitava verso le tre ore della mattina, e ciò per tre precipue ragioni: la prima, a fine di onorare il Salvatore nelle ignominie di quella notte orribile, ch’Ei passò in balìa de’ servi e dei soldati; la seconda per chieder perdono della sentenza di morte pronunziata contro di lui verso quell’ora da Caifa; la terza per espiare il rinnegamento di san Pietro. – Nelle domeniche e nelle feste si dicono tre Notturni al Mattutino; in altri tempi non ve n’è che un solo. Donde viene una tal differenza? Essa nasce dalla solennità maggiore o minore della festa. In certi giorni solenni la Chiesa dispiega agli occhi de’ propri figli tutte le sue magnifiche tradizioni, fa loro ammirare tutte le sue belle armonie, rimette sotto gli occhi nostri la storia di sessanta secoli, tutte le auguste memorie di cui è l’erede. – « Ecco, dicono i nostri Padri, la ragione di questa misteriosa distribuzione de’ nostri Mattutini solenni; i tre Notturni rammentano le tre grandi epoche dell’umanità; l’epoca Patriarcale, l’epoca Mosaica e l’epoca Cristiana. Ciascuna di queste tre epoche si divide in tre periodi; perciò in ogni Notturno vi sono tre salmi, tre antifone, tre lezioni: si direbbe quasi un poema diviso in nove canti. » – L’epoca patriarcale ha il suo primo periodo da Adamo fino a Noè; il secondo da Noè fino ad Abramo; il terzo da Abramo fino a Mose. Così pure l’epoca Mosaica ci presenta tre periodi; il primo, da Mose a David; il secondo, da David alla schiavitù di Babilonia ; il terzo, dalla schiavitù di Babilonia al Messia. – Finalmente anche l’e poca Cristiana si divide in tre periodi; il primo, che comprende la fondazione della Chiesa fatta da Nostro Signore, e il suo stabilimento operato dagli apostoli: ed è questo il periodo de’ martiri; il secondo, che abbraccia il tempo delle grandi eresie e de’ grandi campioni dell’Oriente e dell’Occidente: ed è il periodo de’ Padri della Chiesa ; il terzo, che comprende il tempo di pace, che succede all’estinzione delle grandi eresie: ed è il periodo della Chiesa regnante » [Durandus, lib. II, c.7]. Il numero tre tante volte ripetuto è un inno eloquente alle tre adorabili Persone della Trinità, come i nove salmi sono una ricordanza de’ nove cori degli angeli, e di tutte le armonie della Gerusalemme celeste, ai cantici della quale la sua giovine sorella, la Gerusalemme terrestre, invita tutti i propri figli ad accordare le loro voci; di modo che nei nostri giorni solenni si può dire che della voce del cielo e della voce della terra, si forma una sola gran voce la quale intona con esultanza: « Santo, Santo, Santo è il Dio degli eserciti; i cieli e la terra sono pieni dello splendore della sua maestà ». Qual sorgente di pensieri santi e affettuosi pei fedeli istruiti e pii! Quale miniera di sublimi inspirazioni pel poeta cristiano!

VII. Il Te Deum. — Il terzo Notturno finisce col Te Deum. Inno, preghiera, poema epico, il Te Deum è tutto ciò che si può dire, tutto ciò che si conosce di più sublime e di più maestoso in qualunque favella. Sia gloria immortale a voi, Ambrogio e Agostino, poeti inimitabili e santi illustri, che avete saputo spiegare i pensieri della vostra mente e gli affetti del vostro cuore, come i Serafini spiegherebbero i propri, se parlassero i l linguaggio de’ mortali! Il Te Deum è concepimento si perfetto e di tanta eccellenza, che i protestanti sì freddi, sì gelidi nel loro culto, sì nemici della Chiesa romana, l’hanno accuratamente conservato. – Ma perché si recita alla fine del terzo diurno? Ecco la risposta a questa domanda. Tutti i figli di Dio, sacerdoti e fedeli, hanno lodato il Signore; si sono reciprocamente stimolati alla carità, al fervore; hanno ascoltato la lettura della legge che tocca si vivamente il cuore; hanno inteso la storia de’ loro fratelli, già glorificati nel seno del comun Padre; hanno veduto delle palme e delle corone, preparate come ricompensa immortale per una fatica di breve durata: sarebbe mai possibile dopo tanti incentivi, che tutti insieme i cristiani pieni di questi pensieri, non prorompessero in azioni di grazie? Non vi stupite dunque se essi cantano il Te Deum. Il suono delle campane, che altre volte si accoppiava alle loro voci, tra una nuova dimostrazione dell’ allegrezza e dell’ardore universale, era un solenne incitamento ch’essi facevano a tutti i loro fratelli e a tutte le creature di lodare con essi un Padre sì magnifico e sì buono.

Le Lodi. — I tre Notturni costituiscono le tre prime parti del Mattutino, le Lodi la quarta. Questa divisione è stata introdotta, come dicemmo, per sanificare le quattro vigilie della notte, poiché le Lodi si recitavano anticamente, e si dovrebbero, regolarmente parlando, recitare allo spuntar del giorno. Eccone le ragioni: 1° Nostro Signore usci allo spuntare del giorno vittorioso dal sepolcro; 2° allo spuntar del giorno camminò sopra le acque e vi fece camminare san Pietro. La parola Lode significa elogio, encomio, gloria , plauso, ed è infatti, in questa parte dell’Uffizio della notte che noi celebriamo particolarmente le lodi di Dio, e lo ringraziamo : 1° della risurrezione del Salvatore, miracolo fondamentale del Cristianesimo, operato in quel momento; 2° delle grazie che il Signore ci accorda, perché, come san Pietro sulle acque, noi camminiamo durante la notte di questa vita sul mare tempestoso del mondo; 3° della creazione dell’universo di cui il comparir della luce ci offre l’immagine; 4° finalmente della cura paterna con cui Dio ha vegliato sopra di noi pel corso della notte, e della bontà con la quale ci concede un nuovo giorno. – Le Lodi come i Notturni incominciano con l’invocazione “Deus in adiutorium”, accompagnata dal segno della croce, e seguita dal Gloria Patri, dall’Alleluia e dall’apposizione dell’antifona. Alla fine di ciascun salmo si ripete il Gloria Patri per soddisfare ad un debito di gratitudine.Non abbiamo noi forse veduto che i salmi esprimono le opere buone, il lavoro cristiano? Qual cosa è dunque più giusta che ringraziare Dio da cui ogni opera buona deriva, e che merita in conseguenza d’esser lodato e ringraziato come in principio, quando creò il cielo e la terra; e attualmente, perché conserva il mondo materiale e spirituale; e sempre, perché la creazione non sussisterà giammai se non per Lui; e nei secoli de’ secoli, quando vi saranno nuovi cieli e nuova terra, e che Dio sarà tutto in tutte le cose? Alle Lodi si recitano cinque salmi, o a meglio dire quattro salmi e un cantico. Il rinnovamento dei nostri cinque sensi, vale a dire la rigenerazione di tutto il nostro essere in virtù del Cristianesimo, di cui nel corso della notte sono stati celebrati i principali misteri, è appunto la ragione misteriosa di questo numero cinque, e l’importante ammaestramento che la Chiesa ne porge al cominciare del giorno. La domenica, dopo i tre primi salmi, si canta l’inno de’ tre fanciulli nella fornace, col quale la Chiesa ha voluto rammentarci le tribolazioni de’ giusti in ogni tempo, e la loro allegrezza in mezzo alle tribolazioni, e la Provvidenza che veglia su loro. – Sembra ch’essa ci dica: « All’apparire di questo giorno ricordatevi che siete stati rigenerati in Gesù Cristo: vivete dunque santamente, vegliate su i vostri sensi, guardatevi dal contaminarli; aspri combattimenti vi aspettano, ma non temete, poiché finiranno a vostra gloria; il Signore sopra di voi; il cantico che voi recitate ve ne offre una prova ». – Il cantico è seguito dal quinto salmo, di cui è questo il senso ed il motivo del luogo che occupa. I figli della Chiesa rispondono alle promesse di vittoria che poc’anzi ha date loro: « Noi ben sappiamo, le dicono essi, che noi saremo vincitori, e per questo benediciamo il Signore e invitiamo tutte le creature del cielo e della terra ad esaltarlo in nostra compagnia ». Perciò il quinto salmo delle Lodi comincia sempre con queste parole: Lauda ovvero Laudate; « loda, lodate » e questo invito a lodare Dio s’indirizza a vicenda agli Angeli e ai Santi, a tutte le creature inanimate, alla Chiesa, alle nazioni, agli uomini di qualsiasi tribù e di qualsiasi favella. L’uomo riconoscente vuole in tal guisa che tutto ciò che esiste si unisca a lui per benedire il benefattore universale. – Il cantico de’ tre fanciulli nella fornace non è seguito dal Gloria, perché le auguste Persone della santa Trinità vi sono lodate da un capo all’altro.

Il capitolo. — Dopo l’ultima antifona segue il capitolo, parola che altro non significa fuorché piccolo capo, piccola lezione; e si compone di alcuni versetti della Scrittura, analoghi all’uffizio della giornata. Se questa lezione è più breve negli uffizi del giorno che non in quelli della notte, egli è perché le occupazioni diurne domandano il nostro tempo e la nostra presenza. Siccome il capitolo si recita ordinariamente dall’officiante, non è preceduto dall’ “Iube Domine” ossia dalla domanda di benedizione. Oltre l’ammaestramento ch’egli ci dà, il capitolo ha per oggetto di ravvivare il fervore nell’animo degli assistenti; e la Chiesa per tal modo vuol preservarli dal castigo de’ Giudei, che nauseati della manna andarono soggetti in punizione alle morsicature de serpenti. – Alle Laudi particolarmente il capitolo e mirabilmente acconcio ad infiammare il nostro coraggio, tanto nel fare il bene quanto nel combattere il demonio: talvolta vi siamo esortati a rimaner fermi nella fede, talvolta a compiere opere di misericordia, sovente ancora a rivestirci come guerrieri delle armi della luce. Allora il coro, simile ad una schiera animata dall’arringa del suo capitano, si affretta a rispondere con voce unanime: Deo gratias! « Siano grazie a Dio! Tali sono le nostre disposizioni! » E simile ad un esercito di valorosi, che solo chiede di cimentarsi contro il nemico, egli intona l’inno; l’inno, espressione del suo ardore, della sua riconoscenza, della illimitata sua fiducia in Dio, che non la chiama al combattimento, se non per condurla alla vittoria. Finito l’inno, viene il Versetto, ed è questo come un ritornello il cui scopo è di spingere al più alto grado l’entusiasmo del soldato cristiano. Si canta a una sola voce, alla quale rispondono tutte le altre: e ciò avviene non solo per fissar maggiormente l’attenzione, ma eziandio per mostrare l’unanimità di sentimento che domina in tutti i cuori. Al versetto succede l’Antifona; ed oh! quanto è ben collocata questa espressione d’amore dopo l’inno, nel quale abbiamo cantata la vittoria riportata dai Santi, nostri fratelli maggiori, e quella che speriamo riportare noi stessi! L’amore che produce l’unione produce anche la forza.

Il cantico. — Ma l’uomo è fragile, ed è talmente inclinato alla diffidenza, che la Chiesa vuole di nuovo riassicurarlo, e perciò ella pone qui il cantico, “Benedictus” « Sia benedetto il Dio d’Israele». Questo cantico contiene l’adempimento letterale di tutte le promesse che Dio ha fatte ai patriarchi e ai profeti. «Uomini di poca fede, sembra dirci la Chiesa nel farci ripetere questo cantico, perché dubitate, il Signore, per cui vi recate a combattere nel corso di questo giorno, ha Egli mancato mai a veruna delle sue promesse? interrogate i secoli; non lo vedete forse sempre lo stesso, con una mano soccorrere i suoi soldati, con l’altra coronare i vincitori? » – Cantato il Benedictus, assodata la speranza del cristiano in Dio, come àncora fissa alla spiaggia che tien fermo il vascello in mezzo alle tempeste, si rendono grazie alla santa Trinità, dicendo: Gloria Patri. Le si fa nuova protesta del nostro timore senza limiti per mezzo della ripetizione dell’antifona; finalmente Le si domanda l’adempimento di tutte le sue promesse per mezzo dell’orazione che termina l”uffizio. – Ora andate, soldati di Gesù Cristo, magione di Dio, campo d’Israele, andate al combattimento, nulla vi manca per mietere allori. Oh! se noi recitassimo queste nobili preghiere dell’uffizio con quello spirito di fede che le ha disposte, non saremmo noi dopo di esse, secondo il detto di san Crisostomo, simili a leoni spiranti fuoco, e il cui aspetto fa tremare le legioni infernali? E perché non sarebbe così? Da chi dipende l’esser forti? Da noi, unicamente da noi!

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio che abbiate istituite tante belle preghiere per mezzo delle quali siamo assicurati di ottenere tutte le grazie di cui abbisogniamo; io vi chiedo perdono della poca fede con cui ho pregato fin ora. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore, io dirò spesso come gli Apostoli: “Signore insegnatemi a pregare”.

 

7 MARZO: SAN TOMMASO D’AQUINO

In questo giorno in cui i Cattolici Romani dell’orbe cristiano festeggiano il Dottore Angelico, S. Tommaso D’Aquino, lungi dal cimentarci in lodi e panegirici di cui la nostra infima statura culturale non sarebbe capace, affidiamo la celebrazione di tale genio teologico al Santo Magistero della Chiesa, quanto mai pieno di riferimenti all’opera sua straordinaria ed insostituibile per la vita della “vera” Chiesa, in netto contrasto, anzi in diametrale opposizione alla Nouvelle Theologie [o meglio “falsa teologia”], base del satanico modernismo, sintesi di tutte le eresie, attualmente imperante. Tra le diverse bolle ed encicliche ci piace qui riportare la lettera enciclica di S.S. Pio XI “Studiorum ducem” pubblicata in occasione del seicentesimo anno della canonizzazione del Santo domenicano.

PIO XI

LETTERA ENCICLICA

STUDIORUM DUCEM

DEL SOMMO PONTEFICE AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI CHE HANNO PACE E COMUNIONE CON LA SEDE APOSTOLICA, IN OCCASIONE DEL VI CENTENARIO DELLA CANONIZZAZIONE DI SAN TOMMASO D’AQUINO

 

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Con recente Lettera Apostolica [Officiorum omnium dell’1° agosto 1922] confermammo quanto era già stato stabilito dal Diritto Canonico e ordinammo che Tommaso d’Aquino dovesse essere considerato la principale guida negli studi delle discipline superiori. – Ed avvicinandosi ora il giorno, in cui si compie il seicentesimo anno da quando egli fu ascritto nel numero dei Santi, Ci si presenta una bella occasione per inculcare maggiormente la medesima cosa nell’animo dei nostri, e dichiarare loro in che modo potranno profittare alla scuola di tanto Maestro. Poiché la vera scienza e la pietà, che di tutte le virtù è compagna, sono tra di loro mirabilmente congiunte; ed essendo Iddio la stessa verità e bontà, non basterebbe certo, per ottenere la gloria di Dio e la salvezza delle anime — scopo principale e proprio della Chiesa — che i sacri ministri fossero bene istruiti nella cognizione delle cose, se essi non fossero pure abbondantemente forniti di idonee virtù. Ora questa unione della dottrina con la pietà, della erudizione con la virtù, della verità con la carità, fu veramente singolare nel Dottore Angelico, a cui venne attribuito il distintivo del sole, poiché, mentre egli porta alle menti la luce della scienza, accende nelle volontà la fiamma della virtù. – E sembrò che Iddio, fonte d’ogni santità e sapienza, volesse mostrare in Tommaso come queste due cose si aiutino a vicenda, come cioè l’esercizio delle virtù disponga alla contemplazione della verità ed a sua volta l’accurata meditazione della verità renda più pure e perfette le stesse virtù. Perché chi vive integro e puro, e con la virtù tiene a freno le sue passioni, quasi libero da un grande impedimento, potrà elevare alle cose celesti molto più facilmente il suo spirito e meglio fissarsi nei profondi misteri della Divinità, secondo le parole dello stesso Tommaso: «Prima è la vita che la dottrina; perché la vita conduce alla scienza della verità » (1); se l’uomo avrà messo tutto il suo studio nel conoscere le cose che sono sopra la natura, per questo stesso si sentirà non poco eccitato al vivere perfetto; né una tale scienza, la cui bellezza tutto lo rapisca e a sé lo attiri, potrà mai dirsi arida ed inerte, ma attiva in grado supremo. – Sono questi gli ammaestramenti che questa solennità centenaria ci fornisce, Venerabili Fratelli; ma per renderli più manifesti, Noi pensammo di dover trattar brevemente della santità e dottrina di Tommaso d’Aquino e mostrarvi quali vantaggi possa trarre da un tale argomento sia tutto l’ordine sacerdotale, i giovani del clero specialmente, sia tutto intero il popolo cristiano. – Tutte le virtù morali furon possedute da Tommaso in altissimo grado e talmente associate e connesse, che, come vuole egli stesso, si unirono nella carità « la quale dà la forma agli atti di tutte le virtù » (2). Se poi cerchiamo le caratteristiche proprie e particolari di questa santità, ci vien fatto di trovare per prima quella virtù per cui Tommaso sembrò assomigliare alle nature angeliche, la castità, per la quale egli fu degno di esser cinto ai fianchi dagli Angeli di una mistica cintura, avendola egli conservata intatta in un pericolosissimo cimento. A purezza così esimia andò congiunto il distacco dai beni terreni e il disprezzo degli onori; e sappiamo come egli vincesse, con somma costanza, l’ostinazione dei parenti che lo volevano con tutti i mezzi trattenere nella vita agiata del secolo; e come poi, offerti a lui dal Pontefice Sommo i parimenti sacri, lo scongiurasse a non imporgli quel peso, per lui formidabile. Ma il principale distintivo della santità di Tommaso è quello che da Paolo è chiamato « il linguaggio della sapienza » (3), quell’unione cioè della duplice sapienza, acquisita ed infusa, come vengono dette; con le quali nulla meglio si accorda quanto l’umiltà, l’amore della preghiera, la carità verso Dio. – Quanto all’umiltà, che Tommaso mise a fondamento di tutte le altre sue virtù, fu manifesta dall’essersi egli posto nelle azioni della vita quotidiana, sotto l’ubbidienza di un fratello laico; né meno essa si rivela dalla lettura dei suoi scritti, dai quali spira ogni riverenza verso i Padri della Chiesa; e « siccome egli ebbe in somma venerazione gli antichi dottori, così sembrò che di tutti egli ereditasse l’intelligenza » (4). – La stessa cosa viene bene chiarita dall’aver egli impiegato, per il trionfo della verità, tutte le forze del suo divino ingegno, senza cercare per nulla la propria gloria. E così, mentre i filosofi si propongono spesso quale méta la propria fama, egli invece si studiò, nell’insegnare le sue dottrine, d’oscurare se stesso, appunto perché splendesse di per sé la luce della verità divina. Questa umiltà pertanto, congiunta alla purezza del cuore, di cui abbiamo parlato, ed alla grande assiduità nelle sante preghiere, rendeva l’animo di Tommaso docile e tenero tanto a ricevere quanto a seguire gl’impulsi e le illuminazioni dello Spirito Santo, nel che consiste la sostanza della contemplazione. E per impetrarle dall’alto, egli soleva spesso astenersi da ogni cibo, passare le intere notti in continua preghiera, e di quando in quando con l’impeto d’un’ingenua pietà appoggiare il suo capo al tabernacolo dell’augusto Sacramento, e rivolgere di continuo i suoi occhi e il suo spirito addolorato all’immagine di Gesù Crocifisso, che fu il massimo libro da cui apprese tutto quello che seppe, com’egli stesso confessò all’amico suo San Bonaventura; sicché di Tommaso poteva dirsi quello che si era detto del suo santo padre e legislatore Domenico, che non parlava se non di Dio o con Dio. – E siccome egli soleva contemplare tutto in Dio come causa prima ed ultimo fine di tutte le cose, gli fu facile seguire tanto negli insegnamenti della sua « Somma Teologica », quanto nella sua vita, l’una e l’altra sapienza, che egli stesso così definisce: « Per la sapienza acquisita mediante lo studio umano si ha il retto giudizio delle cose divine secondo l’uso perfetto della ragione. Ma ve n’è un’altra che discende dall’alto e che giudica delle cose divine per una certa connaturalità ad esse. E questa è un dono dello Spirito Santo, per cui l’uomo divien perfetto nelle divine cose, e non solo le apprende, ma in se stesso le sente ». – Accompagnata dagli altri doni dello Spirito Santo, questa sapienza derivata da Dio per infusione in Tommaso, fu in un continuo aumento al pari della carità, signora e regina di tutte le virtù. Poiché per lui fu dottrina certissima che l’amore di Dio deve in noi crescere sempre « a norma del primo precetto: ‘Amerai Iddio tuo Signore con tutto il tuo cuore’; perché tutto e perfetto sono la stessa cosa … Fine del precetto è la carità, come c’insegna l’Apostolo (6); ora nel fine non si pone misura alcuna, ma solo nelle cose che servono al fine » (7). E questa è la causa per cui la perfezione della carità cade sotto precetto; perché essa è il fine a cui tutti devono tendere secondo la loro condizione. E siccome « l’effetto proprio della carità è che l’uomo tenda a Dio unendo a lui il suo affetto, perché egli viva non più a sé ma a Dio stesso », noi vediamo come in Tommaso il divino amore, insieme con quella duplice sapienza, aumentò senza posa, fino ad ingenerare in lui il prefetto oblio di se stesso; tale che, essendogli stato detto da Gesù Crocifisso: «Tommaso, hai scritto bene di me », e domandato: «Qual premio tu desideri per l’opera tua? », Egli rispose: «Te solo, o Signore ». Ond’è che, stimolato dalla carità, s’impegnava assiduamente a favore degli altri con lo scrivere ottimi libri, coll’aiutare i fratelli nei loro lavori, e si spogliava delle stesse sue vesti per soccorrere i poveri, ed anche restituiva agli infermi la salute, come avvenne nella Basilica Vaticana, dove egli predicò nella solennità di Pasqua, allorché liberò ad un tratto da un inveterato flusso di sangue una donna che gli aveva toccato il lembo della veste. E dove mai si trovò più chiaro che nel Dottore Angelico questo « linguaggio di sapienza », mentre a lui non bastò erudire le menti degli uomini, ma con ogni studio cercò di eccitare le volontà loro a riamare un tanto amore, che è la causa di tutte le cose? « L’amore di Dio », egli afferma con frase sublime, « è quello che infonde e crea nelle cose la bontà », né mai si stanca, trattando dei varii misteri ad uno ad uno, di illustrare questa diffusione della divina bontà. «Appartiene » egli dice, « alla natura del sommo bene, che in sommo grado comunichi se stesso; e questo massimamente è fatto da Dio coll’Incarnazione » . – E nessun’altra cosa più apertamente dimostra questa potenza non meno del suo ingegno che della sua carità, quanto l’ufficio ch’egli compose dell’augusto Sacramento; e quanto amore egli avesse in tutta la vita verso l’Eucarestia, lo dichiarò nella parola che proferì morendo prima di ricevere il santo Viatico: « Io ti ricevo, prezzo della redenzione dell’anima mia, per amore del quale io studiai, vegliai e lavorai ». Dopo questo breve cenno intorno alle grandi virtù di Tommaso, sarà più agevole comprendere l’eccellenza della sua dottrina, che nella Chiesa ha un’autorità e un valore ammirabili. I nostri Predecessori la esaltarono sempre con unanimi lodi. – Alessandro IV non dubitò di scrivere a lui vivente: «Al diletto figlio Tommaso d’Aquino, uomo eccellente per nobiltà di natali e onestà di costumi, che per grazia di Dio si acquistò un vero tesoro di coscienza e dottrina». E dopo la sua morte Giovanni XXII sembrò voler canonizzare ad un tempo le sue virtù e la sua dottrina, mentre, parlando ai Cardinali in Concistoro, pronunciò quella memorabile sentenza: « Egli illuminò la Chiesa di Dio più di qualunque altro Dottore; e ricava maggior profitto chi studia per un anno solo nei libri di lui, che chi segua per tutto il corso della sua vita gl’insegnamenti degli altri ». La fama perciò della sua intelligenza e sovrumana scienza fece sì che San Pio V lo scrivesse nel numero dei Dottori e gli confermasse il titolo di Angelico. Del resto, quale fatto più chiaramente dimostra la stima che la Chiesa ha fatto sempre d’un tanto Dottore, quanto l’essere stati esposti sopra l’altare dei Padri Tridentini due soli volumi, la Scrittura e la Somma Teologica, perché potessero ispirarsi ad essi nelle loro deliberazioni? E per non riportare la serie degli innumerevoli documenti della Sede Apostolica su quest’argomento, è sempre vivo in Noi il felice ricordo del rifiorire delle dottrine dell’Aquinate per l’autorità e le premure di Leone XIII; e questo merito di così illustre nostro Precedessore è tale, come dicemmo altre volte, che da solo basterebbe a dargli gloria immortale quand’anche altre cose sapientissime egli non avesse fatto o stabilito. Seguì il suo pensiero Pio X di santa memoria, specialmente nel Motu proprio «Angelici doctoris » ove troviamo questa bella sentenza: «Dopo la morte beata del Santo Dottore, non fu tenuto nella Chiesa alcun Concilio ove egli non sia stato presente con la sua preziosa dottrina ». E più prossimo a Noi, Benedetto XV, Nostro compianto Antecessore, più d’una volta mostrò la stessa compiacenza; e a lui spetta la lode della promulgazione del Codice di Diritto Canonico, ove vengono consacrati « il metodo, la dottrina e i principii » dell’Angelico Dottore (11). E Noi, mentre facciamo eco a questo coro di lodi date a quel sublime ingegno, approviamo che egli non solo sia chiamato Angelico, ma altresì che gli sia dato il nome di Dottore Universale, mentre la Chiesa ha fatto sua la dottrina di lui, come da moltissimi documenti viene attestato. E siccome sarebbe troppo lungo esporre qui tutte le ragioni addotte dai Nostri Predecessori intorno a tale argomento, basterà che Noi dimostriamo che Tommaso scrisse animato dallo spirito soprannaturale onde viveva, e che i suoi scritti, ove sono insegnati i principii e le regole di tutte le scienze sacre, sono da giudicarsi di natura universale. – Trattando egli infatti delle cose divine nei suoi insegnamenti e nei suoi scritti, porse ai teologi un luminosissimo esempio della strettissima relazione che deve correre fra gli studi e i sentimenti dell’animo. E siccome non può dirsi che abbia esatta notizia di un lontano paese chi ne conosca anche la più minuta disposizione, se non vi avrà per alcun tempo vissuto, così nessuno potrà acquistare un’esatta cognizione di Dio con la sola diligente ricerca scientifica, se non sarà anche con Dio in perfetta unione. E a questo appunto tende tutta la teologia di San Tommaso; a condurci a vivere una vita intima con Dio. E come fanciullo a Montecassino non si stancava di domandare: « Chi è Dio? », così i libri da lui composti intorno alla creazione del mondo, intorno all’uomo, alle leggi, alle virtù e ai Sacramenti, tutti quanti trattano di Dio come autore della nostra eterna salvezza.  Perciò, disputando intorno alle cause che rendono sterili gli studi, come la curiosità, lo smodato desiderio di sapere, l’ottusità dell’ingegno, l’avversione allo sforzo ed alla perseveranza, egli non trova a tali cause altro rimedio che una gran prontezza alla fatica, rinvigorita dall’ardore della pietà, e come derivata dalla vita dello spirito. – Ed essendo i sacri studi diretti da un triplice lume: la retta ragione, la fede infusa e i doni dello Spirito Santo che perfezionano l’intelligenza, nessuno più di Lui ebbe questa luce in abbondanza, perché dopo avere in qualche ardua questione impiegato tutte le forze del suo ingegno, implorava da Dio la spiegazione delle difficoltà con i digiuni e con umilissime preghiere; e Dio soleva ascoltarlo con tanta benignità, che mandò talora gli stessi Prìncipi degli Apostoli ad ammaestrarlo. – Né fa meraviglia se, avvicinandosi alla fine della sua vita, egli raggiunse un così alto grado di contemplazione, che le cose da lui scritte non gli parevano altro che paglia, e diceva di non poter dettare più oltre; così già egli aveva fisso il pensiero nelle verità eterne da non bramare ormai più altro che di vedere Dio. Poiché questo, come Tommaso stesso insegna, è il frutto che deve principalmente cogliersi dagli studi: un grande amore di Dio e un gran desiderio delle cose eterne. – Ma mentre con il suo esempio egli c’insegna come dobbiamo comportarci negli studi di vario genere, così di ogni particolare disciplina ci dà fermi e stabili precetti. E innanzi tutto, chi meglio di lui spiegò la natura e la ragione della filosofia, le sue parti e l’importanza di ciascuna? Ecco con quanta perspicacia egli dimostra la convenienza e l’accordo delle varie membra che formano come il corpo di tale scienza: «Al sapiente » egli dice « spetta l’ordinare. E la ragione è che la sapienza è principalmente perfezione di ragione, della quale è proprio conoscere l’ordine; poiché, sebbene le virtù sensitive conoscano alcune cose in modo assoluto, l’ordine fra l’una e l’altra non lo conosce che l’intelletto e la ragione. Così, secondo i diversi ordini che la ragione considera, sono diverse le scienze. L’ordine che la ragione, considerando, produce nel proprio atto appartiene alla filosofia razionale (ossia alla Logica) che propriamente considera l’ordine delle parti del discorso fra di loro e l’ordine dei principii sia fra loro stessi, sia rispetto alle conclusioni. Alla filosofia naturale (ossia alla Fisica) spetta il considerare l’ordine delle cose che la ragione umana considera, ma non fa: e così nella filosofia stessa naturale noi comprendiamo anche la Metafisica. L’ordine delle azioni volontarie viene considerato dalla filosofia morale, che si divide in tre parti: la prima considera le operazioni dell’individuo in ordine al fine e si chiama Monastica; la seconda considera le operazioni della moltitudine domestica e si chiama Economica; la terza considera le operazioni della moltitudine civile, e si chiama Politica »(12). Tutte queste parti della filosofia sono state trattate diligentemente da Tommaso, ciascuna nel proprio modo, cominciando da quelle che sono più strettamente congiunte alla ragione umana, e gradatamente salendo alle più remote, fino a fermarsi, per ultimo, « al vertice supremo di tutte le cose ». – È fermissima dottrina del Nostro quella che riguarda il valore dell’intelligenza umana. « Il nostro intelletto naturalmente conosce l’ente e le cose che appartengono all’ente in quanto tale, e su questa cognizione si fonda la notizia dei primi principii » (14). Dottrina che distrugge fin dalle radici gli errori e le opinioni di quei recenti filosofi che negano all’intelletto la percezione dell’ente, lasciandogli solo quella delle impressioni soggettive; errori da cui segue l’agnosticismo, così vigorosamente riprovato dall’Enciclica Pascendi. – Gli argomenti con cui San Tommaso dimostra l’esistenza di Dio e che egli solo è lo « stesso Essere sussistente », sono anche oggi, come nel medioevo, le prove più valide, chiara conferma del dogma della Chiesa proclamato nel Concilio Vaticano e interpretato egregiamente da Pio X con queste parole: « Iddio, come principio e fine di tutte le cose, può conoscersi e con certezza dimostrarsi con lume naturale della ragione, per le cose fatte, ossia per le opere visibili della creazione, come dagli effetti si conosce certamente la causa » (15). E la sua metafisica, sebbene tuttora, e non di rado, acerbamente impugnata, ritiene ancora la sua forza e tutto il suo splendore, quasi oro che nessun acido può alterare; e bene aggiunge lo stesso nostro Predecessore: « Allontanarsi dall’Aquinate, specialmente in metafisica, non può essere senza un grande danno ». – La più nobile tra le umane discipline è certamente la Filosofia, ma, secondo l’ordine attuale della divina Provvidenza, non possiamo definirla al disopra delle altre perché essa non abbraccia tutto intero l’insieme delle cose. Tanto nell’inizio della « Somma contro i Gentili », quanto in quello della « Somma Teologica », il Santo Dottore descrive un altro ordine di cose superiore alla natura ed eccedente la capacità stessa della ragione, e che mai l’uomo avrebbe conosciuto, se la bontà divina non glielo avesse rivelato. È il campo dove domina la fede, e questa scienza della fede si chiama Teologia, la quale si troverà più perfetta in chi avrà cognizione più profonda dei documenti della fede, e insieme più piena e più alta facoltà di filosofare. Ora non è da dubitare che la Teologia sia stata elevata al più alto grado dall’Aquinate, avendo egli posseduto perfettamente i documenti divini della fede, e disponendo di un ingegno mirabilmente disposto a filosofare. – Perciò Tommaso, non tanto per la sua dottrina filosofica quanto per gli studi di una tal disciplina, è nelle nostre scuole il principale maestro. Nessuna parte, infatti, vi è nella Teologia in cui egli non abbia felicemente mostrato la straordinaria ricchezza della sua mente. Anzitutto egli stabilì su propri e genuini fondamenti l’Apologetica, definendo bene la distinzione che corre fra le cose della ragione e quelle della fede, tra l’ordine naturale e il soprannaturale. Perciò il sacrosanto Concilio Vaticano, allorché definì che alcune verità religiose si possono conoscere naturalmente, ma che per conoscerle tutte e senza errore bisognò per necessità morale che fossero rivelate, e che per conoscere i misteri fu assolutamente necessaria la divina rivelazione, si servì di argomenti tratti non da altri che da Tommaso, il quale vuole che chiunque si accinga alla difesa della dottrina cristiana tenga fermo questo principio: « Assentire alle verità della fede non è leggerezza, benché esse siano al disopra della ragione » (17). Egli infatti dimostra che, sebbene le cose di fede siano arcane ed oscure, pure le ragioni che inducono l’uomo alla fede sono chiare e manifeste, poiché « egli non crederebbe, se non vedesse che le cose sono da credere ».(18) Ed aggiunge altresì che la fede, lungi dall’essere un impedimento od un giogo servile imposto all’umanità, è invece da stimarsi un massimo beneficio, essendo ella in noi un « preludio della vita eterna ». – L’altra parte della Teologia che riguarda l’esposizione dei dogmi è trattata da Tommaso con ricchezza tutta speciale; e nessuno ha penetrato più a fondo o più accuratamente esposto i misteri augustissimi della fede, come quelli che appartengono alla vita intima di Dio, al segreto della predestinazione eterna, al soprannaturale governo del mondo, alla facoltà di conseguire il loro fine concessa alle creature ragionevoli, alla redenzione del genere umano operata da Gesù Cristo e continuata dalla Chiesa e dai Sacramenti: due mezzi che il Dottore Angelico chiama in certo modo « reliquie della Divina Incarnazione ». Egli stabilì inoltre una sicura dottrina teologica morale per l’orientamento di tutti gli atti umani al fine soprannaturale. Da perfetto teologo egli assegna non solo agli individui in particolare, ma anche alla società domestica e civile le norme sicure della vita: in ciò consiste la scienza economica e politica dei costumi. Così nella parte seconda della Somma Teologica sono assai eccellenti le cose che insegna intorno al regime paterno, ossia domestico, al regime legale dello Stato e della Nazione, al diritto naturale e a quello delle genti, alla pace, alla guerra, alla giustizia e al potere, alle leggi e alla loro osservanza, al dovere di provvedere sia alle private necessità, sia alla pubblica prosperità; e tutto questo tanto nell’ordine naturale, quanto nel soprannaturale. Precetti, che, se venissero inviolabilmente ed esattamente osservati in privato ed in pubblico nonché nelle mutue relazioni tra nazioni e nazioni, nient’altro ormai si richiederebbe per ottenere tra gli uomini « la pace di Cristo nel regno di Cristo » a cui tutto il mondo anela. Pertanto è molto desiderabile che sempre più si conoscano le dottrine dell’Aquinate intorno al diritto delle genti ed alle leggi che stabiliscono le relazioni dei popoli fra di loro, contenendo esse i veri fondamenti di quella che si chiama « Società delle Nazioni ». – Non ebbe in lui minor pregio la dottrina ascetica e mistica, perché, ridotta tutta l’economia morale alla ragione di virtù e di doni, stabilisce questa dottrina ed una tale economia secondo le diverse classi degli uomini, tanto di coloro che vogliono vivere secondo le regole comuni, quanto di quelli che aspirano di proposito a conseguire la perfezione cristiana del loro spirito, e ciò in un doppio genere di vita: attiva e contemplativa. Chi voglia conoscere quanto si estenda il precetto dell’amore di Dio, come crescano in noi la carità e i doni dello Spirito Santo ad essa congiunti, come tra di loro differiscano i vari stati della vita, quali lo stato di perfezione, lo stato religioso, l’apostolato, e quale sia la natura di ciascuno, o altri punti di teologia ascetica o mistica, dovrà principalmente consultare l’Angelico Dottore. – In tutte le opere che egli scrisse, ebbe somma cura di mettere a base e fondamento le Sacre Scritture. Tenendo fermo che la Scrittura in tutte e singole le sue parti è parola di Dio, egli ne esige l’interpretazione secondo le norme stesse che diedero i Nostri Predecessori Leone XIII nell’Enciclica « Providentissimus Deus » e Benedetto XV nell’altra Enciclica « Spiritus Paraclitus », e posto per principio che « lo Spirito Santo è autore principale della Sacra Scrittura… mentre l’uomo non ne fu che l’autore strumentale »(20), non permette che alcuno muova dubbi contro l’autorità storica della Bibbia; mentre dal fondamento del significato delle parole, o sia senso letterale, egli ricava le copiose ricchezze del senso spirituale, di cui suole spiegare con la massima precisione il triplice genere: l’allegorico, il tropologico e l’anagogico. – Infine, il Nostro ebbe il dono e il privilegio singolare di poter tradurre gl’insegnamenti della sua scienza in preghiere ed inni della liturgia, e divenire così il poeta e il massimo lodatore della divina Eucaristia. Poiché la Chiesa Cattolica in ogni parte del mondo e presso tutte le genti, nei riti sacri si serve e si servirà sempre, con ogni zelo, dei cantici di Tommaso, dai quali spira il sommo fervore dell’animo supplichevole, e che contengono ad un tempo l’espressione più esatta della dottrina tradizionale intorno all’augusto Sacramento, che principalmente si chiama «Mistero di fede », ripensando a questo e ricordando l’elogio già citato fatto a Tommaso da Cristo stesso, nessuno si meraviglierà se a lui è stato dato anche il titolo di Dottore Eucaristico. – Da quanto si è detto, Noi ricaviamo queste conseguenze molto opportune per la pratica. Occorre anzitutto che i giovani in particolare prendano a loro modello San Tommaso e cerchino d’imitare e seguire con ogni diligenza le grandi virtù che in lui risaltarono, soprattutto l’umiltà, che è il fondamento della vita spirituale, e la purezza. Da quest’uomo, sommo per impegno e dottrina, imparino sia a frenare ogni moto d’orgoglio del proprio animo, sia ad implorare umilmente sui loro studi l’abbondanza della luce divina. Apprendano altresì da tale maestro a fuggire instancabilmente gli allettamenti del senso, per non dover poi contemplare la sapienza con occhio ottenebrato. Questo infatti egli insegnò nella sua vita con l’esempio, e confermò col suo insegnamento: « Se uno si astiene dai piaceri corporali per attendere più liberamente alla contemplazione della verità, questo appartiene alla rettitudine della ragione » (21). Siamo per questo ammoniti dalla Sacra Scrittura: «Nell’anima malevola non entrerà la sapienza, né abiterà in un corpo venduto al peccato » (22). Perciò, se la pudicizia di Tommaso, nel pericolo estremo a cui fu esposta, fosse venuta meno, è da ritenersi che la Chiesa non avrebbe avuto il suo Angelico Dottore. E vedendo la maggioranza dei giovani, ingannati dagli allettamenti del piacere, gettare tanto presto la loro purezza e darsi ai diletti del senso, Noi, Venerabili Fratelli, con ogni premura vi raccomandiamo di propagare dovunque, e specialmente tra i seminaristi, la società della Milizia Angelica, fondata per la conservazione e la custodia della purità sotto la tutela di Tommaso, e confermiamo tutte le indulgenze pontificie di cui essa fu arricchita da Benedetto XIII e da altri Nostri Predecessori. E perché più facilmente ognuno s’induca a dare il suo nome tale a Milizia, concediamo il permesso, a coloro che ne faranno parte, di portare, invece del cingolo, una sacra medaglia appesa al collo, che porti impressa da un lato l’immagine di San Tommaso cinto dagli Angeli, e dall’altro quella della Vergine, Regina del Santissimo Rosario. – Essendo poi San Tommaso dichiarato patrono di tutte le scuole cattoliche, come colui che mirabilmente congiunse in se stesso una duplice sapienza, quella cioè che si acquista con la ragione e quella che ci viene infusa da Dio, e nel risolvere le questioni più difficili unì alle preghiere i digiuni, e ritenne l’immagine di Gesù Cristo Crocifisso come suo libro principale, la gioventù consacrata a Dio apprenda da lui come debba esercitarsi nei buoni studi per ritrarne il maggior frutto. I membri delle famiglie religiose abbiano presente come in uno specchio la vita di Tommaso, che ricusò le dignità d’ogni grado, anche altissimo, per poter vivere nell’esercizio d’una perfetta ubbidienza e morire nella santità della sua professione. Tutti i fedeli cristiani abbiano nell’Angelico Dottore un esempio della più tenera devozione verso l’augusta Regina del cielo, della quale egli recitava spesso il saluto angelico e soleva scrivere il dolce nome nelle sue pagine; ed al Dottore Eucaristico domandiamo il fervore verso il divino Sacramento. E questo conviene che chiedano sopratutto i sacerdoti. «Ogni giorno, quando l’infermità non lo impediva, Tommaso celebrava una Messa, e poi ne ascoltava un’altra del suo compagno o di altri, e spesso la serviva », come racconta il diligentissimo autore della sua vita. E chi può esprimere il fervore del suo spirito nel celebrare il santo sacrifizio, e con quanta diligenza si preparasse, e, terminatolo, quali ringraziamenti egli porgesse alla Maestà divina? – Per evitare poi gli errori che sono la prima origine di tutte le miserie della nostra età, occorre rimanere fedeli, oggi ancor più che in altri tempi, alle dottrine dell’Aquinate. Le varie opinioni e teorie dei Modernisti sono da lui vittoriosamente confutate, tanto le filosofiche, difendendo, come vedemmo, il valore e la forza dell’intelligenza umana e provando con fermissimi argomenti l’esistenza di Dio; quanto le dogmatiche, ben distinguendo l’ordine naturale dal soprannaturale e illustrando le ragioni del credere e tutti quanti i dogmi; e mostrando nella teologia che le cose credute per fede non si appoggiano sopra un’opinione, ma sulla verità e sono immutabili; nella scienza biblica dando il vero concetto della divina ispirazione; nella disciplina morale, sociale e giuridica, con lo stabilir bene i principii della giustizia sia legale e sociale, sia commutativa e distributiva, e le relazioni della giustizia stessa con la carità; nell’ascetica col dare insegnamenti sulla perfezione della vita cristiana e contrastando coloro che al suo tempo avversavano gli ordini religiosi. E contro quella emancipazione da Dio che oggi si vanta, egli afferma i diritti della prima Verità e l’autorità che ha sopra di noi Iddio supremo Signore. Da qui si rileva perché i Modernisti nessun altro dottore della Chiesa paventino quanto Tommaso d’Aquino. – Come dunque un giorno fu detto agli Egiziani, nel loro estremo bisogno di vivere, « Andate da Giuseppe » perché avessero da lui in abbondanza il frumento per alimentare il loro corpo, così ora a tutti gli affamati di verità Noi diciamo: « Andate da Tommaso » per aver da lui, che ne ha tanta abbondanza, il pascolo della sana dottrina e il nutrimento delle loro anime per la vita eterna. Che un tal cibo sia pronto e alla portata di tutti fu attestato con la santità del giuramento quando si trattò di ascrivere Tommaso nel catalogo dei Santi: «Alla scuola luminosa ed aperta di questo Dottore fiorirono moltissimi maestri religiosi e secolari per il suo modo succinto, facile, e chiaro … ed anche laici ed uomini di scarsa intelligenza desiderano avere i suoi scritti ». – Ora noi vogliamo che tutte le cose stabilite principalmente da Leone XIII e da Pio X, e da Noi stessi comandate nello scorso anno, siano attentamente e inviolabilmente osservate specialmente da coloro che nelle scuole del clero insegnano le materie superiori. Essi tengano presente che soddisferanno bene ai loro doveri e compiranno i Nostri voti se, cominciando ad amare il Dottore d’Aquino e rendendo a sé familiari i suoi scritti, comunicheranno agli alunni della propria disciplina questo ardente amore, facendosi interpreti del suo pensiero, e li renderanno capaci di eccitare negli altri un eguale ardore. – Fra i cultori di San Tommaso, quali devono essere tutti i figli della Chiesa che attendono ai buoni studi, Noi certamente vogliamo che, nei limiti di una giusta libertà, vi sia quella bella emulazione che fa progredire i buoni studi, ma desideriamo che sia il più possibile evitata quell’asprezza di contrasto che non giova alla verità e serve soltanto a rallentare i vincoli della carità. Sia adunque da tutti inviolabilmente osservato ciò che è prescritto nel Codice di Diritto Canonico: «Gli studi della filosofia razionale e della teologia, e l’istruzione degli alunni in tali discipline, siano assolutamente trattati dai professori secondo il metodo, la dottrina e i principii del Dottore Angelico, e questi siano religiosamente mantenuti » (25). Essi si regolino in modo da poterlo con tutta verità chiamare loro maestro. Ma nessuno esiga dagli altri più di quello che da tutti esige la Chiesa, maestra e madre comune; perché nelle cose in cui autori di buona fama sogliono disputare fra loro in senso diverso, essa certo non vieta che ciascuno segua la sentenza che gli sembra migliore. – Pertanto, siccome a tutta la cristianità importa che questo centenario sia degnamente celebrato, quasi che, onorando San Tommaso, si tratti non solo della gloria di lui, ma dell’autorità della Chiesa docente, è Nostro desiderio che una tale ricorrenza, dal giorno 18 luglio dell’anno che volge fino alla fine dell’anno venturo, si celebri in tutto il mondo, dovunque esistano scuole di giovani chierici; non soltanto, cioè, presso i Frati Predicatori « all’Ordine dei quali », come dice Benedetto XV, « ha da darsi lode non meno per averci dato il Dottore Angelico, che per non aver mai abbandonato d’un punto la sua dottrina » (26), ma anche presso le altre famiglie religiose e in tutti i Collegi ecclesiastici, Università e Scuole cattoliche, a cui egli fu dato per celeste Patrono. – E converrà che nel celebrare queste feste solenni la prima sia quest’alma Città, ov’egli fu per un certo tempo Maestro del Sacro Palazzo; e che nel manifestare la loro santa letizia vadano, avanti a tutti gli istituti ove si coltivano gli studi sacri, il Pontificio Collegio Angelico, ove si direbbe che Tommaso abiti come in casa sua propria, e tutti gli altri Atenei Ecclesiastici che si trovano in Roma. – E Noi, per accrescere lo splendore e il frutto di questa solennità, col Nostro potere, accordiamo:

I. che in tutte le chiese dell’Ordine dei Predicatori e in qualunque altra chiesa o cappella pubblica o dove il pubblico possa introdursi, specialmente presso i Seminari, i Collegi e le Case di educazione per la gioventù, si celebri un triduo od un ottavario od una novena, in cui possano lucrarsi le stesse indulgenze che si concedono per simili funzioni in onore di Santi o Beati;

II. che nelle chiese dei Frati e delle Suore dell’Ordine Domenicano, soltanto per le celebrazioni centenarie, durante i giorni di tali funzioni, i fedeli, confessati e comunicati possano lucrare l’Indulgenza Plenaria tante volte quante volte avranno pregato dinanzi all’altare di San Tommaso;

III. che nelle predette chiese domenicane i sacerdoti dell’Ordine ed i terziari, durante l’anno centenario, possano ogni mercoledì, o nel primo giorno libero della settimana, celebrare la Messa in onore di San Tommaso, come nella festa, recitando in essa od omettendo il Gloria e il Credo secondo il rito del giorno, e concediamo, tanto a chi celebra la Messa quanto a quelli che l’ascoltano, l’Indulgenza Plenaria alle condizioni consuete. – Si cerchi inoltre di tenere nei sacri Seminari e negli altri Istituti ecclesiastici, durante questo tempo, qualche solenne disputa filosofica o sopra altre gravi discipline, in onore del Dottore Angelico. E perché in seguito la festa di San Tommaso sia celebrata come si conviene a quella del Patrono di tutte le scuole cattoliche, Noi vogliamo che in tale giorno si faccia vacanza dalle lezioni, e che non solo in esso si celebri la Messa solenne, ma che, almeno nei Seminari e nelle Famiglie religiose, sia tenuta una delle dispute di cui abbiamo parlato. – Infine, perché sotto la guida dell’Angelico Maestro d’Aquino gli studi dei nostri alunni diano sempre maggiori frutti a gloria di Dio e a vantaggio della Chiesa, aggiungiamo a questa Lettera, con la raccomandazione di divulgarla, la formula della preghiera da lui stesso usata. A coloro che devotamente la reciteranno, Noi concediamo per ogni volta, con la Nostra autorità, l’indulgenza di sette anni e sette quarantene. – Auspice infine dei doni celesti e segno della Nostra benevolenza, Noi impartiamo di tutto cuore a voi, Venerabili Fratelli, al clero ed al popolo affidato alle vostre cure, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 29 giugno 1923, festa del Principe degli Apostoli, anno secondo del Nostro Pontificato.

 

PREGHIERA DI SAN TOMMASO

Creatore ineffabile, che dai tesori della tua sapienza hai tratto le tre gerarchie degli Angeli, le hai collocate con meraviglioso ordine sopra il cielo empireo ed hai disposto con grandissima precisione tutto l’universo; Tu, che sei celebrato come autentica Fonte della Luce e della Sapienza, e supremo Principio di ogni cosa, dégnati di infondere sulle tenebre del mio intelletto il raggio della tua chiarezza, liberandomi dalle due tenebre in cui sono nato: il peccato e l’ignoranza. – Tu, che rendi feconde le lingue degl’infanti, istruisci la mia lingua e infondi nelle mie labbra la grazia della tua benedizione. Dammi l’acutezza dell’intelligenza, la capacità della memoria, il modo e la facilità dell’apprendere, la perspicacia dell’interpretare, il dono copioso del parlare. Disponi Tu l’inizio, dirigi lo svolgimento e portami fino al compimento: Tu che sei vero Dio ed uomo, che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.