LA GRAZIA E LA GLORIA (46)

LA GRAZIA E LA GLORIA (46)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO IV

La natura della visione beatifica. L’oggetto principale e gli oggetti secondari.

1. – Cominciamo con l’oggetto principale di questa visione beata. Cosa vedremo? Ciò che Dio stesso vede in sé. Ciò che Egli è nella sua essenza, cioè l’infinita pienezza dell’Essere, la bontà, la gloria, la santità, la potenza, in una parola, la pienezza della perfezione: perché Egli è tutto questo nell’incomparabile fecondità del suo Essere, e tutto questo è in Lui verità sostanziale, vivente, universale, eterna. Ciò che Egli è nell’intimo della sua vita divina, cioè l’infinita conoscenza che da tutta l’eternità il Padre ha della propria bellezza, e questo Verbo uguale a se stesso in cui si racconta eternamente nei suoi infiniti splendori, immagine infinitamente perfetta di un Padre infinitamente perfetto; ed ancora l’amore infinito di questa bontà, fonte di ogni bontà, da cui sia il Padre che il Figlio producono l’Amore personale, lo Spirito Santo, terza e ultima Persona dell’adorabile Trinità. – Sì, questo è ciò che vedremo senza intermediari, senza distanze, senza sforzi, senza dimostrazioni, faccia a faccia, con un’intuizione modellata sull’intuizione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.  Questi grandi misteri, che nessuna intelligenza creata può concepire, e di cui non avrebbe nemmeno il minimo sospetto, se il Figlio, che è nel seno del Padre, non ce li avesse rivelati per mezzo del suo Spirito; questi misteri, dico, il mistero della natura divina, il mistero della generazione eterna del Verbo, il mistero non meno insondabile della processione dello Spirito divino, e infine il mistero di un unico Dio in tre Persone, saranno messi a nudo davanti agli occhi della nostra anima: noi vi tufferemo i nostri occhi e vedremo più di quanto non crediamo. – Non dobbiamo infatti immaginare che Dio possa mostrarsi a chi lo contempli a metà, come in frammenti. Egli è pura unità; pertanto, vederlo è vederlo tutto intero. Io posso ammirare lo splendore esterno di un palazzo, senza sapere nulla delle bellezze che contiene, perché in esso queste diverse parti sono distinte. Allo stato attuale delle mie conoscenze, io posso ancora concepire una perfezione di Dio, senza rappresentarmi le altre, ed anzi ignorandole; ma questo perché Dio, offrendosi a me solo nelle sue immagini, i concetti che io me ne formo sono necessariamente imperfetti e molteplici come esse. Ma, ancora una volta, come potrebbero i beati abitanti del cielo vedere una perfezione divina e non vedere le altre, concepire l’essenza e non contemplare allo stesso tempo ciascuna delle Persone, se queste perfezioni sono con l’essenza un’unica realtà molto semplice e molto indivisibile; e se le Persone, pur essendo distinte tra loro, sono esse stesse assolutamente identiche quanto all’essenza (Concil. Lat. IV, c. “Damnamus“)? Perciò noi vedremo Dio nella sua interezza. – Eppure, non lo vedremo totalmente, cioè non lo comprenderemo nella misura in cui è intelligibile in se stesso. La ragione che i teologi ne danno è sì manifesta che basta formularla per fugare ogni incertezza. Dio è l’Essere infinito e, poiché l’Essere e la verità vanno di pari passo, è la Verità senza limiti e senza fondo. Pertanto, Egli è infinitamente intelligibile e, di conseguenza, nessuna intelligenza infinita è in grado di conoscerlo così completamente come Egli può essere conosciuto. La luce della gloria, per quanto possa portare in alto la virtù della mente creata, non le farà mai superare i limiti essenziali imposti dalla sua natura. Solo Dio può scandagliare l’oceano di luce che è Lui stesso, fino ai suoi più profondi ed intimi recessi. Versatelo, questo oceano, in un qualsiasi altro recipiente che non sia l’immensità dell’Intelligenza divina, ed esso traboccherà da tutte le parti. Ed è per questo che gli spiriti beati saranno eternamente deliziati da una doppia ammirazione: una per l’infinita bellezza che contemplano, e l’altra per gli infiniti abissi in cui il loro sguardo si perde, e che adorano, senza mai poterli penetrare, felici di vedere le meraviglie che abbracciano, non meno felici di sapere che la bellezza che essi amano sia così infinita che solo essa può essere pienamente conosciuta e compresa.

2. – Non solo la visione delle creature beatificate non può essere, come quella di Dio, una perfetta comprensione dell’Essere infinito, ma la misura della visione non è la stessa per tutti. La gloria risponde alla grazia e la beatitudine al merito. Ciò che San Paolo ci dice sulla differenza tra i corpi glorificati è ancora più vero per gli spiriti e le anime. Tra questi ospiti dell’eterno banchetto, ci sono alcuni a cui Dio, il vero cibo delle intelligenze, si comunica più liberalmente che ad altri. Le quote di eredità sono distribuite in modo diseguale ai figli di adozione, perché portano titoli diseguali al sovrano che li dona e che si dona. Questo è ciò che Nostro Signore aveva in mente quando disse ai suoi discepoli prima di lasciarli: « Ci sono molte dimore nella casa del Padre mio » (Joan. XIV, 2). Certo, non ce n’è una che non corrisponda alla magnificenza del Padre che le ha preparate per i suoi figli; ma chi non vede che il posto che riserva agli eroi della virtù debba essere diverso, altro quel posto che attende il Cristiano in cui vede una minore somiglianza con Gesù Cristo, suo figlio primogenito. – Ora so che l’elemento principale della beatitudine, quello che determina la misura di tutte le altre, è la visione della bellezza divina. Ci sono state controversie tra i teologi sull’essenza della beatitudine. Alcuni la mettono nella visione, altri nell’amore o nel godimento, altri ancora in tutti questi atti insieme. Ma ciò che non è e non può essere discusso è che nelle Sacre Scritture, nel linguaggio della Chiesa e nel comune sentire dei fedeli, il primato spetta alla visione. Ovunque il cielo ci viene rappresentato come la città della luce (Apoc., XXI, 23; XXII, 4, 5; Is. LX, 19), e la luce si riferisce all’intelligenza che vede, prima di andare al cuore che ama e gode. « O Signore – gridano i giusti da ogni parte – mostrateci il vostro volto allo scoperto e questa sarà la nostra salvezza » In lucis regione constituasDirige in conspectu tuo viam meam… Dedisti eis lumen ut viderent te ». Offic. defunctorum. « Redemptorem tuum facie ad faciem videas, et præsens semper assistens manifestissimam beatis oculis aspicias veritatem. » Ordo commendat, animæ.). – Ciò che la Chiesa chiede per i suoi fedeli, nell’ora dell’ultimo combattimento, ciò che prega il suo Sposo di concedere loro, quando affida le loro spoglie mortali alla terra, è che, accolti nella regione della luce, possano godere della presenza del loro Redentore e contemplarlo faccia a faccia. Qual è, infine, la suprema speranza di ogni Cristiano che muore nella pace del suo Signore e nel bacio di Cristo? Vedere Dio; vederlo come è in Se stesso, vederlo come è visto da Lui, non più attraverso le ombre, ma nella manifestazione radiosa del suo splendore (1 Joan, IL, 2: 1 Cor., XII, 12; Joan, XVII, 24)? È l’amore, ne convengo, più che la conoscenza, a muoverci alla ricerca e al possesso della bontà sovrana; ma il privilegio della conoscenza è quello di renderci presente questa bontà, di averne la comprensione e, di conseguenza, di renderla veramente nostra. – Se, dunque, la beatitudine è disuguale per i figli del Padre celeste, la visione che essi hanno delle sue infinite bellezze deve avere dei gradi. Da dove può derivare questa differenza, dal momento che la stessa essenza assimila le loro menti come forma intelligibile, dal momento che la stessa Verità sovranamente unica si offre come oggetto alla loro intuizione? Di certo, non si tratta dell’intelligenza stessa. La Regina del cielo, considerata nelle sue facoltà naturali, qualsiasi perfezione il nostro amore riconosca in lei, non è paragonabile agli spiriti angelici. Eppure, chi oserebbe dire o pensare che un Angelo, anche il più sublime dei serafini, possa guardare nel seno di Dio con uno sguardo così fermo, così penetrante, così ampio come questa gloriosa Madre del Salvatore? Il genio non è né il titolo alla ricompensa eterna, né la misura in cui questa ricompensa sia proporzionata. – Le visioni dei beati sono disuguali, perché non partecipano tutti allo stesso modo all’infinita perfezione dell’intelligenza divina; in altre parole, perché la luce della gloria, principio prossimo dell’intuizione di Dio, non è infusa in loro nello stesso grado. Ora – aggiunge San Tommaso d’Aquino – la misura di questa luce non sarà la maggiore o minore virtù della natura, ma la carità. « Perché dove c’è più carità, c’è più desiderio, ed è dalla veemenza del desiderio che nasce la capacità di ricevere il bene perseguito » (S. Thom, I p., q. 12, a. 6; Gent, L. III, c. 58). – Si giungerebbe alle stesse conclusioni se si considerasse la forma intelligibile, il principio necessario dell’intuizione che mette l’anima in possesso di Dio. Infatti, se Dio vede se stesso all’infinito, perché in Lui sta la forma intellegibile che è la sua essenza, e l’intelligenza stessa sono una stessa realtà infinita, quanto più perfettamente questa stessa forma è unita allo spirito creato, tanto più completamente anche la creatura deve partecipare alla comprensione divina. Ora, come abbiamo già dimostrato, ciò che rende l’Essenza di Dio intimamente presente ad ogni creatura ragionevole, e non lo è in maniera immediatamente intelligibile che alle sole intelligenze beate, è la luce della gloria. In essa e attraverso di essa, la verità, la pienezza e la fonte di ogni verità, arriva, per così dire, alla portata del nostro raggio visivo. Pertanto, nella misura in cui questa luce diventa più intensa e brilla più intensamente, gli splendori di Dio diventeranno più intelligibili, non in sé, ma per l’infermità della nostra vista creata. – Ma è comunque possibile che, vedendo Dio nella sua totalità, non lo vediamo totalmente né ugualmente? Ciò che abbiamo appena considerato lo dimostra, anche se possiamo difficilmente immaginarlo. I teologi ed i Santi, per aiutarci a capirlo meglio, hanno cercato esempi tra le cose che, toccandoci da vicino, sono anche alla nostra portata. – Ascoltiamo dapprima i paragoni geniali di San Francesco di Sales: « Questa luce visibile del sole che è limitato e finito, è così completamente visto da tutti coloro che lo guardano, che non è mai completamente visto da nessuno, e nemmeno da tutti insieme. È così quasi come per tutti i nostri sensi: tra molti che ascoltano una musica eccellente, sebbene tutti la sentano pienamente, alcuni non la sentono così bene, né con tanto piacere come altri, a seconda che le loro orecchie siano più o meno delicate. La manna è stata assaporata da tutti coloro che l’hanno mangiata, ma in modo diverso, a seconda della diversità degli appetiti di coloro che la prendevano, e non veniva mai assaporata completamente, perché aveva più sapori diversi di quante fossero le varietà dei gusti degli Israeliti. » (S. Françoise de Sales, Trattato dell’amor di Dio, L. III, c. 13). Non contento di queste analogie, il Santo ci mostra anche i pesci del mare, « che godono della grandezza incredibile dell’oceano » senza aver mai visto tutte le sue spiagge; e gli uccelli, « che si muovono a piacimento nella vastità dell’aria, senza che nessun uccello, nemmeno l’intera razza degli uccelli, abbia mai raggiunto la suprema loro regione » (idem, Ibid.). – Questi esempi e altri dello stesso tipo hanno la loro utilità; ed è questo che mi ha spinto a trascriverli. Ma i nostri Dottori ne propongono un altro meno materiale, e di conseguenza meno lontano dalla verità sublime che si tratta di mettere in luce. Vedete – essi dicono – una di queste verità feconde e magistrali che si trovano alla base delle scienze umane. Tra coloro a cui il principio è conosciuto, che disuguaglianza nella misura dell’intelligenza che possiedono! Laddove l’occhio acuto del genio scoprirà un intero mondo di conclusioni che questa verità conteneva in germe, le menti più ordinarie difficilmente andranno oltre le prime conseguenze, se non si fermano il più delle volte alla semplice comprensione del principio. E questa è un’immagine di ciò che si vedrà nella contemplazione della verità sovranamente piena e sovranamente perfetta, oggetto comune dell’intelligenza divina e degli spiriti beati.

3. – Finora abbiamo parlato solo dell’oggetto principale della visione beatifica; ma questo non è l’unico spettacolo meraviglioso offerto ai figli di adozione. Dio, vedendo se stesso, con lo stesso sguardo eterno, vede tutte le cose in se stesso. È una formula il cui senso ci è conosciuto, perché abbiamo avuto l’occasione di dire ciò che essa esprime. E anche noi, contemplando Dio nella sua gloria, vedremo in Lui spettacoli che nessuna intelligenza può concepire: la loro origine, le loro relazioni, la loro storia, il loro progresso, la loro consumazione. Queste vie della provvidenza, così sante e così rette, ma a volte così misteriose che la nostra debolezza sarebbe tentata di scandalizzarsi, non saranno più un segreto per noi. Ciò che la natura e la grazia hanno di più profondo, ciò che le scienze sacre e profane presentano di più oscuro, tutto questo il più piccolo degli eletti, il più piccolo nel regno dei cieli, lo conoscerà senza errori, incertezze, non per ragionamento, né per dimostrazione, ma per intuizione, nella stessa luce in cui Dio la contempla e la comprende. – Ricordiamo, infatti, che la stessa essenza, l’archetipo primo di tutto ciò che non è Dio, il modello sovranamente perfetto di tutto ciò che, in qualsiasi grado, partecipa o può partecipare all’essere, è per gli eletti, come per Dio, la forma infinitamente intelligibile da cui procede la visione benedetta. Se dunque è, ad esclusione di tutte le altre immagini intellettuali, una ragione sufficiente perché nulla sfugga allo sguardo di Dio, può e deve essere anche osservata ogni proporzione, il principio che più eminentemente supplisce ad ogni somiglianza finita nelle intelligenze glorificate della visione dei beati. – Così l’ordine della nostra conoscenza sarà più felicemente invertito. Qui noi vediamo le perfezioni invisibili di Dio, attraverso l’intelligenza che ci viene data dalle sue opere visibili, che salgono dalle creature al loro Autore. « Essendo usciti dalla terra dell’esilio e diventati cittadini del cielo, non abbiamo più bisogno di questa scala. La creatura celeste ha davanti a sé, a portata di mano, ciò con cui contempla le cose divine. Essa vede il Verbo e, nel Verbo, ciò che è stato fatto per il Verbo. Non è più obbligata a mendicare alle opere la conoscenza dell’operaio. Inoltre, anche per conoscere queste opere, non scende fino ad esse; perché le vede dove si manifestano in una luce incomparabilmente più luminosa che in se stesso » (San Bernardo, de Considerat, L. V, c, 1, n. 1). Sarebbe temerario cercare di definire fino a che punto si estenda questa visione per ciascuno degli eletti, questa visione delle creature in Dio. Diciamo, prima di tutto, che è come la visione stessa di Dio. Vale a dire che il campo è tanto più vasto quanto più la luce della gloria e l’Essenza divina con essa siano penetrate nell’anima per assimilarla all’intelligenza increata. Ciò che è assolutamente certo è che nessuna creatura arriverà mai a conoscere in Dio tutto ciò che l’onnipotenza potrebbe realizzare al di fuori di Lui: infatti, sarebbe tutto un conoscere tutti gli esseri possibili in Dio e comprendere l’onnipotenza o, il che è la stessa cosa, comprendere l’infinita perfezione di Dio. Come posso infatti vedere in Dio tutte le opere che possono uscire dalle sue mani, se non ho conosciuto adeguatamente la sua potenza; e come posso conoscere adeguatamente la potenza senza avere la comprensione di tutte le perfezioni divine con le quali questa stessa potenza è identificata? – Non meno indubbio è che ciascuno degli eletti contemplerà, nella luce divina, tutte le cose esistenti che lo interessano, tutto ciò che può legittimamente desiderare di conoscere. Secondo questa regola formulata dall’Angelo della Scuola, i Santi in cielo hanno in Dio un’intuizione immediata delle preghiere che noi rivolgiamo loro, così come degli onori che rendiamo ai loro gloriosi meriti (S. Thom., 2-2, q. 83, a. 4, ad 2; Suppl. q. 72. a. 1.). La stessa regola ci obbliga a concludere che tutti gli esseri della creazione, tutti i fatti che si stanno svolgendo e si svolgeranno nella lunga serie dei secoli, tutto, dico, fino ai pensieri più fugaci e nascosti, è presente con la luce della gloria allo sguardo umano del nostro Salvatore: perché tutto, senza eccezione, si riferisce a Lui come al Re dell’universo, al Pontefice universale, al Giudice sovrano dei vivi e dei morti (Id. 3 p.), «  Nihil prohibet dicere quod post diem judicit quando gloria hominum et Angelorum erit penitus consummata, omnes beati scient omnia quae Deus scientia visionis novit; ita tamen quod non omnes omnia videant in essentia divina. Sed anima Christi ibi plane videbit omnia, sicut et nunc videt; alii autem videbunt ibi plura vel pauciora secundum gradum quo Deum cognoscent, et sic anima Christi de his quæ præ aliis videt in Verbo, alios illuminabat. ». Id. IV, D. 49, a. 5, ad 25). – Infine, è in virtù dello stesso principio che possiamo credere di essere perennemente sotto gli occhi di Maria, la nostra Madre celeste. Non è forse un desiderio molto legittimo per una madre conoscere, almeno per quanto possibile, tutti i passi, tutti i movimenti, tutti i sentimenti, tutti i bisogni dei propri figli, soprattutto quando questi sono in età più debole e in condizioni di maggior pericolo? Non insisterò ulteriormente su quest’ultima applicazione, perché l’ho sviluppata più a lungo in un’altra opera (Devozione al Sacro Cuore, L. IV, c. 4, p. 311 ss.). – Notiamo, tuttavia, quale consolazione può darci questa dottrina nel dolore causato dalla perdita di coloro che ci sono cari. Morendo nella pace del Signore, ci lasciano per un po’ di tempo; ma grazie all’estasi eterna in cui li mette la vista sempre presente del loro Dio, noi non siamo assenti dal loro pensiero, perché, secondo la misura che il nostro interesse e la piena soddisfazione dei loro desideri richiedono, ci vedono nello specchio infinitamente chiaro della luce divina (ci vedono, dico, con una visione che supera incomparabilmente in chiarezza quella che è adatta agli occhi della nostra carne, e non meno immediata di essa). E quale spettacolo in cielo per ciascuno degli eletti quando, tutto penetrato da questa luce, vi contempla la moltitudine viva e radiosa dell’esercito dei Santi, con le sue bellezze, le sue felicità e la sua gloria! Lì, se vi degnerete di ricevermi, come spero che farete per la vostra infinita misericordia, vi vedrò, o mio Salvatore Gesù, negli splendori della vostra umanità glorificata; avrò perennemente davanti allo sguardo della mia anima sia le piaghe che avete accettato per me, sia quel Cuore che risplende mille volte di più nel vostro petto di quanto non fosse un tempo per l’amata di quel Cuore divino, Margherita Maria. Là, in uno specchio infinitamente puro, vedrò anche Voi, o santa e amabilissima Vergine Maria, Madre del mio Signore e Madre mia, e sarò inebriato dalle vostre perfezioni e dalla vostra bellezza, che è seconda solo a quella di Gesù vostro Figlio. Là, tutto ciò che amo, tutto ciò che ammiro, tutto ciò che potrei desiderare per la presenza e la vista, mi verrà mostrato in una luce incomparabilmente superiore alla luminosità del nostro sole. Dopo di che, chi si stupirebbe sentire i Santi, alla vista della magnificenza che l’arte e la natura mostrano ai loro occhi, esclamare con trasporto: Oh, quanto è brutta la terra per me, quando guardo il cielo! – I santi Dottori non si stancano mai di esaltare la luminosità e l’estensione della conoscenza che Dio comunica ai suoi eletti. « Che cosa possono ignorare, se essi vedono Colui che sa tutto », chiede San Gregorio Magno parlando degli Angeli (Mor. L. II, c. 3). « Come – egli dice – si potrebbe ignorare qualcosa, se tutti vedono insieme Dio, fonte della scienza? » (Id. Hom. 34 in Evang.). « Oh, la mirabile abbondanza, dove non c’è nulla che possa dispiacere, dove si ha tutto ciò che si desidera! Sarebbe una gloria consumata se ci fosse qualcosa di nascosto per noi? Perciò la nostra conoscenza non conoscerà tenebre, e questa è la saggezza che soddisferà pienamente la curiosità dell’uomo. O sapienza, che sarà la conoscenza perfetta di tutto ciò che è in cielo e sulla terra: poiché noi ci abbevereremo della scienza di tutte le cose alla sorgente stessa della Sapienza, in ipso fonte sapientiæ rerum omnium cognitionem bibentes » (S. Bernard., serm. 16, de tripl. genere bonor., n. 7). – È un bello spettacolo che il mondo dei corpi contempla nella luce di Dio; ma è più estasiante quello che in cielo ci offrirà il mondo delle anime. Ricordo una parola di Santa Caterina da Siena: « Se noi potessimo vedere un’anima in stato di grazia, non concependo nulla di più bello, la prenderemmo per Dio stesso, e cadremmo in ginocchio per adorarla. » Bossuet dal suo canto scrive: « Chi vedesse un’anima in cui Dio è per la grazia, crederebbe di vedere Dio stesso, come si vede un secondo sole in un bel cristallo, dove è entrato, per così dire, con i suoi raggi » (Bossuet, Lett. de piété. Lett, 25). – Ora, questo spettacolo noi lo avremo in eterno davanti ai nostri occhi. Tutto sarà pienamente sotto lo sguardo di tutti. Questo è ciò che Sant’Agostino predicava al suo popolo. Allora -egli diceva – i pensieri del cuore saranno messi a nudo. « Che cosa temete? Ora nascondete i vostri pensieri, e avete paura che nessuno li conosca: forse avete in mente cose cattive, vergognose o vane. Ma là, non ci sarà nel vostro cuore null’altro che di bene, di onesto, di puro, di vero. Come quaggiù voi mostrate il vostro viso, così vorrete che la vostra coscienza sia vista. E là, miei diletti, noi ci conosceremo tutti. Pensate che là mi riconoscerete perché mi avete conosciuto qui, e che non conoscerete mio padre, perché non lo avete conosciuto? No, conoscerete tutti gli eletti di Dio. E non si conosceranno dai lineamenti dei loro volti, ma in una luce incomparabilmente più alta… Pieni di Dio, essi vedranno divinamente. Divine videbunt, quando Deo pleni erunt » (S. August, serm. 243; in dieb. paschal, 14, n. 5. San Gregorio Magno ha una parola per caratterizzare questa trasparenza universale dei beati. La Gerusalemme celeste è per lui « Civitas, clara per aurum, per Vitrum perspicua » (Moralia, L. 34, c. 15). Essi vedranno divinamente i loro fratelli nella beatitudine; vedranno anche gli infelici che l’inferno ha inghiottito per sempre nei suoi abissi e i loro tormenti? Sì, risponde Sant’Agostino; ed è in questo senso che interpreta l’ultimo versetto di Isaia: « Ogni carne adorerà davanti alla mia faccia, dice il Signore; e usciranno e vedranno i cadaveri degli uomini che hanno prevaricato contro di me ». Egli dice: « Usciranno, non con un movimento corporeo, ma con la comprensione e con la visione manifesta dei tormenti di coloro che sono fuori dalla Gerusalemme celeste. Sembrerebbe che manchi qualcosa alla perfezione della loro beatitudine e della loro gratitudine, se questo spaventoso contrasto tra loro e i reprobi non facesse sentire quanto sia grande la loro ricompensa e la misericordia che li ha salvati. » (S. August., de Civit. Dei, L. XX, c. 22; S. Thom, Supplem., q. 94, a. 1. – Leggiamo nei dialoghi di Santa Caterina da Siena, c. 42, che Nostro Signore le disse un giorno: « La vista dei dannati aumenterà il godimento della mia bontà nei giusti, perché la luce è meglio conosciuta dalle tenebre e le tenebre dalla luce». – « Ibi dum justi sine fine damnatorum cruciatus conspiciunt, in Dei laudibus crescunt; et quia et in se cernunt bonum quo remunerati sunt, et in illis supplicium quod evaserunt, erit gratiarum actio et vox laudis. »  Riccardo di S. Vittore, Explic. in Cantic. c. 10. P. L., t. 196, pp. 435, sq.).

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (8)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (8)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO III

La vita nella Chiesa

1. Il Sacrificio della Messa

Non sarebbe possibile farsi un’idea della vera vita cattolica senza capire, in qualche misura almeno, che cosa è per il Cattolico quella ch’egli chiama la Santa Messa. È assai più che una cerimonia religiosa o una pratica di pietà, è il rito per eccellenza cui egli assiste quasi fosse il centro di tutta la Religione. Se va alla S. Messa egli considera compiuto l’essenziale del suo dovere religioso; nessun’altra funzione basterebbe a surrogarla né  un numero qualsiasi di funzioni. Quanto abbiamo detto sin qui ci ha condotto a trattare questo argomento, anzi è stato difficile escluderlo da buona parte delle considerazioni già fatte. – Se studiamo la vita dei veri Cattolici, basterà osservare le loro abitudini quotidiane per convincerci che la S. Messa è il fulcro della loro fede. Non la domenica soltanto, ma ogni giorno dell’anno, in tutte le chiese aperte al pubblico, si trovano gruppi di fedeli di ogni condizione riuniti attorno all’Altare per assistere alla Messa prima di iniziare il lavoro della giornata: in qualunque paese veramente cattolico all’ora della Messa si direbbe che ogni mattina fosse domenica. E riandando al passato, troviamo che pei figli della Chiesa ciò fu caratteristico e abituale in ogni tempo, pei re nei loro palazzi, (molti dei re inglesi davan principio alla loro giornata con l’ascoltare la Messa); pei soldati nelle loro tende, ché non incominciavano a combattere senza aver assistito al Santo Sacrificio; pei ricchi nei grandi santuari; pei poveri nella chiesetta del loro villaggio; per le classi operaie nelle sedi delle loro corporazioni; anche per le università e i centri di studio. Prima della riforma la Messa era il vincolo comune della cristianità, e dopo la riforma è rimasto il vincolo di unità al disopra di ogni altro per tutto il mondo cattolico. Nelle isole Britanniche in ispecie, i Cattolici hanno ben ragione di tenere la Messa nel massimo conto perché essa rappresenta in modo particolare il loro Sacrificio. Per essa morirono a centinaia i loro antenati; quando arrivò il giorno della distruzione, i nemici sapevano che quanto più importava era precisamente la Messa, e fecero tutto il possibile per liberarsene. Il celebrare la Messa meritava la morte, quanto la semplice dichiarazione di averne il potere; innumerevoli borghesi furono multati e ridotti alla miseria per averla ascoltata, e spesso i nostri poveri furono condannati a morte per questo, e per questo solo. Ciò non va dimenticato: se per la Messa i nostri antenati sacrificarono tanto, noi pure siamo disposti a fare continui e gravi sacrifici perché essa venga perennemente celebrata e debitamente onorata. Si costruiscono chiese su chiese, pur fra tante difficoltà economiche, e non si risparmiano fatiche per abbellirle; non si considereranno mai sprecati i valori che si prodigano nei santuari dove si celebra la Messa. E perché? Non è questo il luogo adatto per una discussione teologica né per una compiuta analisi della Messa, pur essendo entrambe necessarie, per una esatta comprensione del suo valore, anche al fedele che non ha pretese di cultura. Noi ci limiteremo qui ad esporre in breve ciò che della Messa il Cattolico pensa e crede. Innanzi tutto, per render subito chiaro ciò ch’è essenziale, il Cattolico crede con l’autore dell’Epistola agli Ebrei che Nostro Signore Gesù Cristo, il Sommo Sacerdote della nuova alleanza, ha riconciliato a Dio l’uomo peccatore per mezzo del solenne Sacrificio di Sé al Padre che è nei cieli. Questo Sacrificio si compì sull’altare della croce al Calvario e fu sufficiente, più che sufficiente, ad espiare tutti i peccati di tutto il mondo. Non vi è più bisogno di altri sacrifici, il debito dell’uomo verso Dio è stato completamente cancellato. È stato pagato tutto il prezzo che poteva riconquistare all’uomo la vita di unione col suo Creatore; quel sacrificio ha reso a Dio tutto l’ossequio che la creatura gli deve. L’amore è stato interamente ricambiato; si è ristabilita l’interrotta corrente d’amore fra Dio e l’uomo. Ma il Cattolico sa pure che questo Sacrificio unico, sebbene consumato sul Calvario, si rinnova e si rinnoverà ogni giorno sull’altare, sino alla fine dei secoli. Egli crede che alla vigilia della sua passione, Cristo istituì il mezzo di commemorarlo non solo, ma di ripeterlo in modo mistico eppur reale dovunque venga predicato il suo Vangelo e diffuso il suo regno. Questa rinnovazione quotidiana del sacrificio del Calvario è il sacrificio della Messa. Come Gesù Cristo si offrì, vittima cruenta al Padre sulla croce, così Egli scende ogni giorno sui nostri altari e rinnova quella stessa offerta di Sé al Padre per le mani del sacerdote. In altre parole, la Messa è il sacrificio stesso del Calvario misticamente ma realmente rinnovato ogni giorno, nel tempo. Chi offre il Sacrificio è lo stesso Signor nostro Gesù Cristo; la vittima offerta è la medesima: come allora, così ora Egli offre se stesso, e si offre allo stesso Iddio del cielo e della terra e per lo stesso scopo. Nella Messa si adempie la profezia: “Da dove sorge il sole fin dove tramonta, il mio Nome è grande fra le genti; e in ogni luogo si sacrifica e si offre al mio nome oblazione pura; perché grande è il mio Nome in tutte le genti, dice il Signore degli eserciti. – È ovvio che bisognerebbe dire assai di più per precisare la posizione e l’importanza della Messa nella fede e nella pratica cattolica; ma i motivi della nostra fede non ci interessano qui, occupandoci noi ora soltanto del lato pratico di essa. Il Concilio di Trento mette in evidenza tre cose che spiegano abbastanza chiaramente l’influenza della Messa sul pensiero e sull’anima cattolica. La Messa, così ammaestra il Concilio riassumendo tutto l’insegnamento che l’ha preceduto, fu istituita da Nostro Signore Gesù Cristo e fu lasciata in dono quaggiù alla sua diletta sposa la Chiesa, come Sacrificio visibile che rimanesse per sempre nelle sue mani per tre scopi:

Primo, quale memoria viva e perenne di Sé.

Secondo, affinché restasse fra i suoi una rappresentazione vivente, e non solo una commemorazione, della prova massima del suo amore, il Sacrificio del Calvario.

Terzo, affinché con questo mezzo fosse assicurata, fra Lui e l’anima umana, la comunione più intima che potesse Egli stesso immaginare. – Consideriamo questi tre aspetti separatamente. In quanto al primo; all’ultima cena, quando Nostro Signore ebbe convertito con la sua parola il pane nel suo Corpo e il vino nel suo Sangue, “Fate questo in memoria di me”. E con ciò diede agli Apostoli il potere di fare quanto Egli aveva fatto, di convertire cioè il pane e il vino nel suo Corpo e nel suo Sangue. In quale senso particolare e a quale scopo particolare dobbiamo intendere quelle parole, San Paolo stesso ce lo spiega quando, ripetuto il racconto dell’istituzione della Messa, conclude: “Quante volte voi mangiate questo pane e bevete questo calice voi rammenterete l’annuncio della morte del Signore fino a che Egli venga” (I Cor. XI, 26). – Perciò la Messa doveva anzitutto essere per i suoi fedeli seguaci una commemorazione perpetua della sua passione e morte, con la presenza del vero Corpo e della vera Persona di Cristo stesso. Quando assistono alla Messa, i fedeli assistono in ispirito a quella scena del Calvario, hanno dinanzi agli occhi sopra ogni altra cosa il loro Signore crocifisso, Gesù in agonia, Gesù che compie per loro il Sacrificio supremo. – In secondo luogo, e questo è ancor più importante, la Messa è, oltre che commemorazione, rappresentazione viva del Sacrificio della croce. Così si esprime il Concilio di Trento: “In questo divino sacrificio che si svolge nella Messa, si contiene e si immola in maniera incruenta lo stesso Sacrificio che fu offerto nel sangue una volta per sempre sulla croce. È la medesima ed unica vittima, il medesimo ed unico Sommo Sacerdote, che si offre oggi per il ministero dei suoi sacerdoti dopo essersi offerto ieri sulla croce; solo la maniera dell’oblazione è diversa”. (Sessione XXII, c. 2). È lo stesso Sommo Sacerdote. Come già abbiamo veduto, il supremo Sommo Sacerdote della nuova legge, 1’unico Sacerdote nel senso più stretto, è Nostro Signore Gesù Cristo. È vero che nella Messa Egli si offre per il ministero dei Sacerdoti che sono semplici uomini, ma non poteva farsi altrimenti. E va notato, d’altronde, che da sé il Sacerdote non può far nulla; non offre sacrificio di per sé, agisce solo per libera volontà e investitura di Gesù Cristo. Il Sacerdote non è che un rappresentante, egli non fornisce che le mani e la voce per mezzo delle quali agisce Gesù Cristo suo Signore. Nella sua infinita condiscendenza, Cristo ha voluto far dipendere la sua presenza sull’altare dalla volontà e dalla parola di semplici uomini. Ma il prete non è tale che in quanto dipende da Gesù Cristo; egli non può crearsi prete da sé, né può un uomo qualsiasi conferirgli tale dignità. Nessuna autorità umana sulla terra può consacrarlo: il suo potere viene da Gesù Cristo solo, ed egli quindi non agisce che come rappresentante di Lui. D’altra parte, una volta debitamente ordinato, appena pronunciate le parole della consacrazione e compiuto l’atto della transustanziazione, sull’altare vi è Gesù Cristo che si offre al Padre, e l’oblazione fatta dal prete, e con lui dalla Chiesa universale, sebbene unita all’offerta di Gesù, è per se stessa una cosa ben distinta. Nella Messa è Gesù Cristo stesso che fa l’oblazione pel primo, il prete non la fa che “per Lui e con Lui e in Lui”, “ per ipsum, et cum ipso, et in ipso”. Come sul Calvario, così sull’altare nel Sacrificio della Messa il Sommo Sacerdote è Nostro Signore Gesù Cristo. Egli rimane pure la medesima vittima. Per effetto delle parole della consacrazione pronunciate dal Sacerdote, Nostro Signore diviene presente sull’altare, nascosto sotto il velo delle sacre specie, le apparenze del pane e del vino; è lo stesso Cristo con gli stessi affetti, le stesse aspirazioni e disposizioni che aveva sul Calvario. Si prostra in adorazione davanti al Padre, confessando la sua assoluta dipendenza da Lui in quanto uomo, implorando perdono per i peccati di tutta l’umanità, pronto a farsi ancora, se occorre “obbediente fino alla morte, e morte di croce”. –  Da quell’istante abbiamo sull’altare la stessa vittima del Calvario con le identiche disposizioni: abbiamo quindi il medesimo Sacrificio. Poiché non tanto vale il modo con cui l’atto si compie quanto l’atto stesso. Se l’immolazione cruenta del Calvario ha potere di commuoverci più della Messa, tuttavia, agli occhi di Dio, non è l’effusione del sangue quella che maggiormente conta; è piuttosto l’amore filiale con cui fu consumato il Sacrificio, è il profondo sentimento di religione che condusse il Figlio di Dio fatto uomo a compiere quel sacrificio perché la gloria del Padre fosse perfetta. Era senza dubbio necessaria una oblazione visibile, e oblazione di terribile olocausto, perché la volontà di Cristo fosse soddisfatta e il suo amore effuso in tutta la sua pienezza. Egli non si sarebbe appagato che di una immolazione sensibile proporzionata agli abissi della sua abnegazione. E naturalmente nulla meglio della completa ed assoluta immolazione del Calvario poteva esprimere questo desiderio di tutto donare a Dio Padre e all’uomo, questo amore sconfinato per entrambi, questa decisione di pagare qualunque prezzo perché essi si riconciliassero e fossero unificati. – Ma, ripetiamo, il valore massimo del Sacrificio, più che nell’effusione del sangue e nell’atrocità del tormento subito, sta nell’amore che indusse al pagamento di quel prezzo e nella religione verso il Padre, sentimenti che portarono l’oblazione al limite estremo. Ed è a questo stesso amore, a questo stesso sentimento del dovere che noi dobbiamo il mezzo mirabile con cui si perpetua il Sacrificio di Cristo, unico e identico sul Calvario e sull’altare. Lo stesso cuore con lo stesso amore per Iddio e per l’uomo, la stessa coscienza del debito di giustizia contratto verso il Padre offeso, lo stesso desiderio di darsi tutto all’uomo, rinnovano il sacrificio nell’identico spirito con cui si compì la prima volta sulla terra, come nel cielo, ove Cristo è “sempre vivo a fare intercessione per noi”, e la Messa è precisamente il miracolo della continuazione del Sacrificio di Cristo. – E da ultimo, come insegna il Concilio di Trento, la Messa è mezzo di comunione fra Gesù e l’anima umana, fra Dio e l’uomo. Forse non è questo terzo aspetto il più importante per se stesso, ma lo è per lo scopo delle nostre considerazioni. Sappiamo come negli antichi sacrifici consumare una parte della vittima simbolizzasse una comunione con questa e con Dio al quale essa era stata immolata. In questo senso, la santa Comunione è parte integrale e veramente essenziale della Messa, almeno per il Sacerdote che la celebra. E il Concilio di Trento insiste che dovrebbe esserlo anche per i fedeli che vi assistono, affinché essi pure partecipino più intimamente e più sensibilmente allo spirito e alla vita del loro Signore Gesù Cristo. Scopo infatti della SS. Eucarestia è, come già abbiamo osservato, la nostra più intima incorporazione a Lui, affinché “per Lui, in Lui e con Lui” possiamo meglio dar gloria a Dio e rimanere maggiormente uniti alle tre Persone della Santissima Trinità. – Innanzi tutto, dunque, la santa Comunione unisce e incorpora l’anima a Gesù Cristo. Per questa ragione, ci è lecito crederlo, fu istituita sotto la forma del pane e del vino. Sotto questa forma, Cristo ci nutre del suo Corpo, del suo Sangue, della sua Anima, della sua Divinità, di tutto se stesso, e la sua vita così fluisce in noi: ecco l’incorporazione. Egli ci dà il diritto di far nostro il suo cuore, dimodoché non vi è più tra noi che un cuor solo e un’anima sola, come amano ripetere San Paolo e tanti altri santi. È in verità un’unione così intima che non è facile immaginarne altra più stretta, pur continuando a rimanere noi stessi, ed è unione duratura. – “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui”. (Giov. VI. 56). È, inoltre, unione santificante che sempre più trasforma, chi si comunica, in un altro Cristo. A poco a poco, e qualche volta anche all’improvviso, si alterano i suoi pensieri e i suoi apprezzamenti, si rovescia la sua prospettiva, si sviluppa in lui una coscienza del vero e del bello che conduce a una comprensione nuova di tutte le cose. Non considera più la vita e gli avvenimenti dal punto di vista primitivo, umano e terreno, si slancia in una sfera più alta e riguarda questo mondo come se già lo avesse lasciato, e quasi inconsciamente impara a giudicare la vita dal punto di vista di Dio. Esercitandosi a osservare con gli occhi stessi di Cristo e a sentire coi sentimenti di Lui, la sua volontà sempre più si conforma a quella del Maestro. Vede e sente ch’Egli solo è la verità e la sapienza eterna, e vuole unicamente le cose ch’Egli vuole e come Egli le vuole. Facilmente, anzi spontaneamente, impara a ripetere: “Padre, sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra” e nell’adempimento di essa trova quella “pace in terra” promessa “agli uomini di buon volere”. Per una rinnovata unione e intimità con Lui, il suo cuore è sempre più staccato da tutto e da tutti; al confronto di Lui, più nulla e nessuno vale. –  E sempre meglio impara ad amare Colui che solo è degno di ogni amore; sempre più è indotto a considerare ogni cosa con gli occhi di Lui e ad amare perciò il mondo, con tutto quanto contiene, non meno ma più di prima poiché ora lo amerà con l’amore stesso di Lui, e per i motivi medesimi, e con la stessa totale abnegazione. – Così la santa Comunione completa il Sacrificio; attira l’anima del comunicando nell’anima e nel cuore della Vittima divina, e la sua vita nella vita di quella; trasforma in veri e propri olocausti anche il corpo e l’anima di chi di essa si nutre, unendoli alla Vittima per eccellenza nel suo ufficio di dar gloria a Dio, di espiare per l’umanità, di impetrare agli uomini le grazie che li innalzeranno al disopra di loro stessi. Nessuna meraviglia che San Paolo esca in una di quelle esclamazioni che solo nella dottrina dell’Eucarestia sembrano trovare la loro completa spiegazione: “Vi esorto dunque, o fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come ostia vivente, santa, gradevole a Dio, ciò che è il vostro culto ragionevole. E non conformatevi al secolo presente, ma trasformatevi col rinnovamento del vostro spirito, affinché possiate ravvisare qual è la volontà di Dio, ciò che è bene e gradevole e perfetto ”. (Rom. XII, 1, 2). – Ma nell’unire così l’uomo al suo Signore Gesù Cristo, la santa Comunione lo unisce anche alla Divinità tutta, ossia alle tre Persone della Santissima Trinità. Poiché in Gesù Cristo, 1’Unigenito di Dio e Verbo Incarnato, si trovano pure le altre due Persone: il Padre e lo Spirito Santo. Esse sono inseparabili, sono un unico Dio, vivono l’una nelle altre. Perciò quando il Figlio di Dio viene in noi, non è solo, viene col Padre, da cui è generato da tutta l’eternità e per tutta l’eternità: “Io e il Padre siamo uno”. Viene con lo Spirito Santo, che pure dall’eternità e per l’eternità procede per amore dal Padre e dal Figlio, – Incorporati a Cristo per il Battesimo, diventiamo per quell’atto figli adottivi di Dio, entriamo a far parte della sua famiglia, e nutriti del Corpo e del Sangue di Cristo, quella parentela diventa sempre più stretta e reale e quei vincoli sempre più saldi, perché non siamo più noi che viviamo, ma Egli vive in noi. Così si attua ogni giorno più, ad ogni Messa celebrata, ad ogni Comunione ricevuta, il fine della creazione, lo scopo che Dio ebbe nel fare l’uomo: una unione sempre più intima fra Dio e la creatura umana. – Ciò basta a spiegare perché il Sacrificio della Messa, con la Comunione come sua parte integrale, costituisca pel Cattolico l’atto culminante di tutto il culto, il centro della sua pietà, il fulcro di ciò ch’egli intende per religione sia nella dottrina che nella pratica, la sorgente più feconda e la riserva più ricca di vita soprannaturale. Ciò spiega perché il Cattolico consideri una vera sfortuna la perdita della Messa e perché, per difenderla, tanti siano morti sia del clero che del laicato. È un memoriale della Passione, e come tale ci porta ai piedi del Calvario a contemplarvi attraverso il tempo e lo spazio, nel dolore, nell’amore, nella vera simpatia di compagni e partecipanti, quel Signore crocifisso che ci ha amati fino a soffrire, ad agonizzare, a morire per le mani di coloro che ama e per amor loro. È una rappresentazione viva e reale del dramma del Calvario, e come tale mette fra le nostre mani tutta la virtù, tutta la grazia, tutti i meriti e i frutti del sacrificio consumato un giorno sul Golgotha. Nella Messa e per la Messa siamo uniti a Nostro Signore, l’Agnello di Dio, la vittima senza macchia, uniti a Lui anche noi, malgrado la nostra miseria e le nostre colpe, fatti capaci di glorificar Dio come merita, di ottenere il perdono dei nostri peccati, per quanto gravi, con impetrazione e riparazione nostra, capaci di implorare, con la certezza di venire ascoltati, le grazie e gli aiuti necessari alla nostra salvezza e santificazione. Poiché Gesù Cristo supplica insieme a noi con gemiti inenarrabili, e la sua preghiera non può venir respinta: lo Spirito Santo esprime i sentimenti del cuor nostro, e la sua voce è verità. – La S. Messa è una comunione intima fra noi e Gesù Cristo e, per Lui, fra noi e Dio stesso, una comunione che ci trasforma in altrettanti Cristi, che ci fa sempre più simili al divino Maestro e sempre più ci avvicina a quella perfezione del Padre che ci fu proposta a modello. Per questi motivi, e altri ancora ve ne sono, la Messa rimane la più grande fra tutte le devozioni del Cattolico, se pure è lecito darle questo nome. È il culmine della sua fede religiosa, la più efficace delle sue preghiere, quella a cui ricorre di continuo. E ha un proprio valore intrinseco, affatto indipendente da chi la celebra, come da chi l’ascolta, come dalla persona per la quale si offre, dipendente solo da Colui che è l’unico Sommo Sacerdote e l’unica vittima, lo stesso Nostro Signore Gesù Cristo. Il suo valore è oggettivo, ossia contiene realmente l’olocausto e la preghiera di Colui che si offrì una volta per tutte e di tutta la sua Chiesa universale, unita a Lui nell’offerta e nella preghiera. È un memoriale perpetuo di Lui, un perpetuo ricordo della sua presenza fra noi, con noi ancora “oggi e lo stesso per sempre”. È una perenne rinnovazione dell’unico sacrificio che fa testimonianza di quell’amore del quale neppur Lui avrebbe potuto mostrarcene uno più grande. È un patto di alleanza fra Lui e i suoi, mezzo di comunione con loro nell’amore, nel sacrificio, nella vita stessa, quale Dio solo poteva immaginare. – Così la Messa supera di gran lunga qualsiasi altra offerta, sacrificio, oblazione l’uomo possa fare da sé, qualsiasi altra forma di preghiera egli possa pronunciare. È, non ci stancheremo mai di ripeterlo, l’oblazione continuata del Calvario, non solo commemorazione e memoriale, ma, essendo identici il Sacerdote e la Vittima, è tutt’uno col Sacrificio primo del Calvario. Nella Messa il tempo e lo spazio si eliminano, gli occhi di Dio guardano attraverso il Sangue del suo Figliolo Gesù Cristo e in quel Sangue diventiamo tutti uno solo. Il cuore che fu squarciato sul Calvario è ancora aperto, è tuttora la sorgente dalla quale scendono incessantemente tutte le grazie meravigliose con cui Dio arricchisce la sua Chiesa e benedice tutto il genere umano. È il tesoro dei tesori, la perla di gran prezzo per aver la quale si dà tutto il resto e, se occorre, anche la vita. Nulla potrà ritenersi troppo bello per il luogo in cui si celebra la Messa e nulla troppo ricco per adornarlo. – La Messa ha ispirato le opere più nobili di ogni arte, ha sollevato l’umanità agli ideali più alti e le ha fatto raggiungere una unità che nessun trattato ha mai raggiunto né mai può sperare di raggiungere. Soprattutto e in primo luogo la Messa è il tesoro del Sacerdote cattolico. Si può dire che per essa egli esista e da essa riceva in cambio il suo sostentamento e insieme la sua ricompensa. Egli non vanta alcun diritto personale a quella sua alta dignità: è ciò che è, non per merito proprio, ma solo in virtù di Colui che ha detto: “Non voi mi avete scelto, ma io voi”, e che ha scelto chi ha voluto. Il Sacerdote ha ricevuto una unzione e un comando, e secondo questo comando, in virtù del potere che gli fu conferito, egli parla e agisce, non in nome proprio, ma nel nome e come strumento e voce di Gesù Cristo dal quale ricevé l’investitura. Non adopera parole proprie, ma si serve di quelle stesse di Cristo: “Questo è il mio Corpo, questo è il mio Sangue”, e in virtù di esse, come se parlasse Cristo in persona, il pane si cambia nel Corpo di Cristo, il vino nel suo Sangue, e Cristo stesso diviene presente sull’altare per l’intervento del Sacerdote. È questa la funzione prima della sua vita, e ne è anche il premio e la spiegazione sufficiente, formando il completamento del suo essere. Ed è pure la sua forza: dalla Messa e per la Messa gli viene ogni mattina l’aiuto necessario al suo compito quotidiano. Nella Messa attinge i mezzi di santificazione per sé e per gli altri, per tutte le anime che a lui si affidano. Lo zelo sacerdotale lo porta inevitabilmente ad amare la sua Messa quotidiana, allo stesso modo che l’amore di essa è garanzia sicura del suo zelo ardente per le anime. E i Cattolici riconoscono al Sacerdote il diritto a un posto privilegiato fra loro. La reverenza che hanno per lui è ben diversa da quella che hanno per chi occupa le posizioni anche più elevate: è una venerazione che sentono di dovergli per una dignità conferita a lui dall’alto, e non gliela negheranno mai, perché egli è “sacerdote in eterno”. Dovunque egli si trovi, a qualunque nazione appartenga, anche nemica, e per quanto possa apparire manchevole, egli è per i Cattolici un essere a parte, che Dio stesso ha scelto per la sua opera. Le sue mani sono state particolarmente consacrate per compiere questa speciale funzione, tutta la sua persona è ormai e per sempre diversa dalle altre. Potrà cadere e mostrarsi indegno, la debolezza umana potrà rivelarsi in lui non meno che in altri, ma per quanto grande possa essere la sua colpa e la sua vergogna, i Cattolici non potranno mai dimenticare quel ch’egli è, irrevocabilmente Sacerdote, segnato col segno indelebile che lo distinguerà, nella buona come nella cattiva sorte, per tutta l’eternità, rappresentante di Gesù Cristo stesso nella funzione più solenne del mondo. – Ed è la Messa che più di ogni altra cosa attira l’attenzione del miscredente. Egli non può passarle accanto e continuare ad ignorarla; potrà non capire, ma il suo fascino misterioso agirà facendo di lui o un amico o un nemico implacabile. È ancora la Messa che attira il peccatore ai piedi di Cristo perché la sua anima sia purificata dal sangue prezioso che vi si effonde. È la Messa che dà la forza sovrumana di resistere in ogni prova, sia interna che esterna; per essa hanno vissuto i Confessori e sono morti i Martiri, essa ha popolato di Santi i conventi e i focolari. Con l’aiuto della Messa l’infimo degli ignoranti e dei miserabili raggiunge l’apice della sua dignità umana e cristiana, come ha modo di constatare ogni giorno nel suo ministero il Sacerdote dei poveri. E d’altro canto, il più eminente fra gli uomini nella Messa apprende il dovere della sua posizione: in nessun luogo più e meglio che dinanzi all’altare di Dio gli uomini sono veramente fratelli e liberi, uniti, indipendenti e consci dei loro diritti reciproci. Per essa si rivela a tutti, piccoli e grandi, ignoranti e dotti, sciocchi e saggi, una visione nuova della vita; per essa sono tutti animati da nuovo coraggio e spinti ad accettare la verità pura anziché 1’apparenza o la convenzione o una falsa sapienza, a vivere una vita fatta di realtà più alte di quelle del mondo, una vita apparentemente semplice, in sostanza eroica. La Messa, con l’orizzonte sconfinato che ci scopre dinanzi, solleva le anime generose alle vette dell’unione mistica; in una parola, è attraverso la Messa, più che per ogni altro canale, che scorrono e si riversano sul mondo le acque salutari della Redenzione.

LA GRAZIA E LA GLORIA (45)

LA GRAZIA E LA GLORIA (45)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO III

La natura della visione beatifica. Il principio: l’essenza divina, la forma intellegibile; la luce della gloria.

1. – È attraverso la considerazione delle cose che rientrano nell’ambito della nostra conoscenza attuale che possiamo arrivare, per analogia, all’intelligenza delle realtà eterne. Perciò, per arrivare ad un’idea meno imperfetta dell’intuizione di Dio, nostra eredità e nostra gloria, diamo un’occhiata alla visione che più di tutte è alla nostra portata, cioè la visione sensibile di cui è capace il nostro occhio, intendo la visione sensibile di cui il nostro occhio è lo strumento. Cosa mi serve per vedere questo o quell’oggetto, ad esempio quest’albero? Due cose sono ugualmente necessarie: un organo vivente e la presenza luminosa dell’oggetto nell’organo. Che l’albero si riproduca attraverso la sua immagine sulla retina e si unisca all’organo; se l’organo stesso non è animato, se la facoltà di vedere si spegnein esso, non c’è visione. Non esiste nemmeno una visione con un organo perfettamente sano, con una facoltà nella pienezza della sua vita, finché l’oggetto rimanga estraneo ad esso. – Ora, ciò che abbiamo visto nella conoscenza sensibile, viene riprodotta per l’intuizione intellettuale. Datemi l’intelligenza più potente e libera nel suo esercizio, e tutto mi sarà oscuro, qualora alcun oggetto non abbia un’esistenza ideale nella mia facoltà di conoscenza. Supponiamo, invece, che un’intelligenza immersa, per così dire, nella luce, qualora manchi di una delle condizioni necessarie per entrare in azione, rimanga impotente a contemplare la verità che la penetra. Diciamo dunque in una parola, che la legge generale della conoscenza, comporta due elementi assolutamente essenziali: primo, una facoltà di conoscenza proporzionale all’oggetto; in secondo luogo, la presenza o l’unione dello stesso oggetto con la potenza che deve rappresentarlo.  Questo è ciò che l’Angelo della Scuola ha espresso molto felicemente quando dice: « Per costituire pienamente in noi il principio di ogni visione, ci deve essere la facoltà di vedere e l’unione dell’oggetto visibile con questa facoltà; infatti non c’è atto di visione senza che la cosa vista sia in qualche modo nel soggetto che la contempli » (S. Thom:; I p. q. 12, a. 2).Notiamo questa espressione generale: “in un certo modo”, quodammodo. Questo perché non tutti gli oggetti della conoscenza sono anche nel soggetto che li conosce. Io sono consapevole dei miei pensieri e dei miei giudizi: essi sono in me da se stessi e nella loro realtà. Io mi rappresento un oggetto distinto da me; che questo oggetto sia spirito o corpo, esso è in me, non con la sua sostanza, ma per l’immagine intellegibile dalla sua sostanza, per l’immagine intelligibile che me ne formo, grazie ai materiali fornitimi dalla conoscenza sensibile. – Non è possibile in questa sede spiegare nel dettaglio il complesso fenomeno della nostra attività intellettuale. Ma ciò che è importante notare è che l’oggetto, sia di per sé che per la sua somiglianza nella potenza del conoscere, svolge il ruolo di forma, in quanto la perfeziona, la completae ne determina l’operazione che deve compiere (« Effectus similatur causæ secundum formam suam. Forma intellectus ext res intellecta. Et ideo verbum quod oritur ab intellectu, est simililudo rei iulellectæ, sive sit idem quod intellectus, sive illud ». S. Thom. de Pot, q. 8, a. 1). Molto prima del Dottore Angelico, Sant’Agostino aveva esposto la stessa dottrina nella sua opera immortale sulla Trinità. « È evidente – egli scriveva – che ogni oggetto della nostra conoscenza cooperi a generare in noi la conoscenza che ne abbiamo: perché ogni conoscenza procede sia dal conoscente che dal conosciuto » (S. August., de Trinit., LIX, c. 46).È a quest’ultimo che appartiene la fecondazione dell’intelligenza, che senza di essa rimarrebbe sterile. È per questo che il grande Dottore, considerando l’intelligenza come quel tesoro di immagini che rappresentano in essa i diversi oggetti della conoscenza una volta acquisiti, la chiama una « memoria feconda »; ed è anche per questo che, parlando delle nostre idee, si usano le parole di parto dello spirito e di frutti dell’intelligenza « partus mentis, proles intelleclus » ricorrono così frequentemente nei suoi scritti. Questo, dunque, deve essere il principio successivo della nostra visione, se siamo chiamati a contemplare Dio faccia a faccia, come Lui contempla se stesso: una potenza vivente che è in grado di fissare il suo sguardo su questo sole risplendente di ogni verità, e Dio presente in questa potenza per fecondarla, attuarla e determinarla a vederlo come è in se stesso. Come avviene questa duplice elevazione dell’intelligenza creata? È questa la questione che cercheremo di risolvere, sostenuta da un lato dai dati della fede e dall’altro dalle conclusioni della sana teologia.

2. Cominciamo dalla presenza intelligibile di Dio nell’anima che deve contemplarlo nella sua gloria. Sappiamo che Dio è presente ad ogni creatura e sappiamo che, oltre a questa presenza comune, è unito in modo incomparabilmente più intimo alle anime che sono sue per la grazia e l’amore. Ma per quanto sia unito a queste creature privilegiate, non lo è in modo tale da rendersi immediatamente intelligibile per loro. Finché esse sono rivestiti della nostra mortalità, lo conoscono, ma attraverso le ombre della fede, nello specchio delle creature. – Come farà a diventare così presente in loro da essere loro intelligibile in se stesso, e perché la sua luce inaccessibile cada come un oggetto immediato davanti ai loro occhi? Basterà che Egli produca nelle profondità della mente un’immagine di se stesso, analoga a quelle che ci danno la conoscenza degli oggetti distinti dai nostri atti e da noi stessi? Questa è stata il sentimento di alcuni dottori; ma tutti i grandi maestri della scienza sacra sono unanimi nel respingere questa ipotesi. San Tommaso d’Aquino riassume in poche righe, nella Summa Theologica, le principali ragioni che lo portano a rifiutare qualsiasi fecondazione per immagine, quando si tratta della visione di Dio (Se un lettore volesse approfondire queste ragioni in tutto il loro sviluppo, potrebbe consultare S. Tommaso, 1 p., q. 12, a. 2; Supplem, q. 92, 9 a. 1; compend. Theol, 1a p. c. 105; 2° p., c. 9; de Verit. 1, ecc.). – Ecco la sostanza. Per quanto riguarda l’unione dell’oggetto con la facoltà che deve raggiungere l’essenza divina, nessuna somiglianza creata, nessuna immagine finita potrebbe bastare. La prima ragione è che nulla può essere conosciuto così com’è in sé da rappresentazioni di ordine inferiore. Così insegna giustamente Dionigi l’Areopagita nel suo trattato sui Nomi divini (Dionys: de divin, Nomin., c. 1, § 1. P. Gr., t, 3. p. 588.). Chi dirà mai che l’immagine di un corpo possa portarci alla piena conoscenza delle cose immateriali, considerate nella loro essenza? Essendo Dio incomparabilmente più elevato per natura di qualsiasi essere creato, di quanto lo sia un puro spirito al di sopra di un essere materiale, ne consegue chiaramente che nessuna similitudine creata sia in grado di rivelarci chiaramente la sua essenza. – Inoltre, questa essenza divina è l’Essere stesso: un privilegio incomunicabile a qualsiasi natura uscita dal nulla, poiché diventando puro essere sarebbe Dio. Ora, come potrebbe ciò che non è l’essere rappresentare l’Essere, non come si mostra imperfettamente a noi nelle fattezze delle creature, ma nella sua stessa sostanza, e tale come è nell’infinita purezza della sua natura? Infine, che cos’è l’Essenza divina, se non l’abisso infinito dell’Essere, un oceano senza sponde e senza fondo, che contiene in modo sovraordinato tutta la bellezza, tutta la perfezione, tutta la realtà possibile? Ora, una forma creata, per quanto perfetta la si possa immaginare, è necessariamente limitata nella sua virtù rappresentativa, poiché è limitata nel suo essere. Avrete, se volete, immagini distinte della giustizia, della sapienza e delle altre perfezioni che scaturiscono da Dio; ma una rappresentazione di questa perfezione sovrana, in cui tutti gli splendori dell’essere si identificano in un’unità molto semplice e indivisibile, nulla di creato potrà mai darla. – Se nessuna immagine può essere la forma intelligibile che rende Dio presente alla mente creata, cosa resta se non che Dio stesso si unisca alle nostre intelligenze, e che sia in esse ciò che è eminentemente per sé il principio fecondo e formale della visione beatifica? E questo è ciò che si degnerà di fare per i suoi eletti. Questa essenza, che è la pienezza della verità, penetrerà, per così dire, fin nelle più intime profondità del nostro intelletto e, attraverso questa meravigliosa unione, realizzerà pienamente la parola del profeta: « in lume tuo videbimus lumen, nella tua luce, o Dio, vedremo la tua luce » (Sal. XXXV, 10). – Allora capiremo anche il testo profondo dell’amato Apostolo: « Saremo simili a Lui, perché lo vedremo come Egli è in se stesso ». L’intelligenza, per conoscere il suo oggetto, deve assimilarsi ad esso, così che la misura dell’assimilazione sia anche la misura della perfezione della conoscenza. Vedere Dio, quindi, non in quel modo imperfetto che il nostro stato di infanzia può rivendicare, ma con un’intuizione modellata, per così dire, su quella di Dio, il che significa diventare come Lui, poiché Egli deve diventare incomparabilmente più simile, poiché deve essere Lui stesso in noi come la forma vivente ed il complemento luminoso del nostro essere intellettuale. – Non chiedetemi come si possa realizzare questa unione della luce sostanziale con l’intelligenza creata. Ci basta aver dimostrato che sia assolutamente necessario per concepire la visione che ci viene promessa. Inoltre, per quanto misteriosa possa essere in sé, la ragione non ha nulla nei suoi principi che ci obblighi a rifiutarla. Nessun’altra sostanza, è vero, anche se si tratta di uno spirito puro come quello degli Angeli, è in grado di fornire un’immagine di sé. Nessun’altra sostanza, è vero, anche se si tratta di un puro spirito come gli Angeli, può unirsi immediatamente all’intelligenza creata, in modo tale da diventare il principio determinante di una conoscenza di cui essa stessa sarebbe l’oggetto; ma altra è la condizione dell’Essenza divina, altra è la condizione della creatura. Solo quella è puramente luce e puramente verità, tutta la luce e tutta la verità, mentre la creatura partecipa alla luce ma non è Luce, partecipa alla verità ma non è la Verità, così come partecipa all’Essere e non è l’essere per essenza. Anche se, dunque, la sostanza creata è radicalmente impotente a svolgere il ruolo di forma intelligibile in qualsiasi intelligenza che non sia la sua, non ne consegue che abbiamo il diritto di attribuire la stessa impotenza alla sostanza increata: perché ciò che sarebbe un ostacolo per la prima non lo è lo più per la seconda. – Un’analogia proposta dall’Angelo della Scuola ci aiuterà forse a capire questo. Vedete – egli dice – l’anima umana: sebbene abbia una natura propria e sussista da sola, nulla le impedisce di unirsi alla materia per costituire con essa un unico e medesimo essere, un unico e medesimo principio di vita, perché è forma e nient’altro che forma. Ma il composto che risulta dall’unione non può in alcun modo diventare a sua volta l’elemento formale di un altro essere; e la causa di ciò sta nella sua materialità. Così, nell’ordine della conoscenza, può convenire a Dio, la verità pura, essere la forma ideale di uno spirito creato, per quanto questo ruolo sia incompatibile con un’essenza che non è di per sé né la verità né il centro da cui scaturisce ogni luce intellettuale (S. Thom, Gent, L. III, c. 51). – Il lettore mi sarà grato di mettergli ancora una volta davanti agli occhi l’insegnamento di S. Francesco di Sales. « Quando guardiamo una cosa – dice questo grande e santo Dottore – anche se è presente per noi, non è, non si unisce ai nostri occhi, ma invia loro solo una certa rappresentazione o immagine di sé che è chiamata specie sensibile, per mezzo della quale vediamo. E quando contempliamo qualcosa, nemmeno ciò che ascoltiamo si unisce alla nostra comprensione, se non per mezzo di un’altra rappresentazione e immagine molto delicata e spirituale che si chiama specie intelligibile. Noi vediamo e sentiamo così, tutto ciò che vediamo o sentiamo in questa vita mortale, ivi comprese le cose della fede… Ma in cielo, ah! mio Dio, qual favore! La divinità si unirà alla nostra comprensione, senza alcun tipo di intermediario o rappresentazione… O vero Dio! Quanto è dolce per la mente umana essere unita per sempre al suo oggetto sovrano, ricevendo non la sua rappresentazione, ma la sua presenza; non un’immagine o una specie, ma l’Essenza stessa della sua divina verità e maestà… in modo che la sostanza eterna serva da specie, oltre che da oggetto, alla nostra comprensione. – « Felicità infinita, Teotimo; e che non solo ci è stata promessa, ma ne abbiamo una caparra nel sacratissimo Sacramento dell’Eucaristia, il banchetto perpetuo della grazia divina, perché in esso riceviamo il sangue del Salvatore nella sua carne, e il suo sangue; il suo sangue che ci viene applicato con la sua carne, la sua sostanza attraverso la sua sostanza alla nostra bocca corporea, affinché sappiamo che Egli ci applicherà così la sua Essenza divina nel banchetto eterno della gloria. È vero che qui questo favore ci viene realmente fatto, ma sotto la copertura delle specie o apparenze sacramentali, laddove in cielo la divinità si donerà a noi allo scoperto, e noi la vedremo faccia a faccia così com’è » (S. Franç. de Sales, Traité de l’amour de Dieu, L. III, c. 11). – E ciò che è ancora più ammirevole è che l’intelligenza, una volta consumato questo matrimonio interamente spirituale con la Luce sostanziale che lo penetra, non ha più bisogno di specie intelligibili ed immagini finite per contemplare il mondo degli esseri creati, oggetto secondario della visione beata. Dio, vedendo se stesso, conosce con lo stesso atto ogni creatura distinta da sé, sia essa esistente o solo possibile. Non è questo il momento di dimostrarlo: ma se c’è un fatto certo è che la conoscenza che l’Intelligenza divina ha degli esseri creati non richiede né presuppone in essa come principio alcuna forma particolare che li rappresenti; la stessa perfetta semplicità dell’Essere divino si oppone, come una barriera insormontabile, a ciò che non sarebbe più una perfezione, ma la degradazione della sua natura (S. Thom. c. Gent., L, I, c. 51-52). – Eppure, la legge di ogni conoscenza richiede che nulla possa essere conosciuto se non è presente, per se stesso o per la sua somiglianza, nella facoltà che deve conoscerlo e concepirlo. – A chi dobbiamo chiedere la spiegazione di questo mistero? All’infinita perfezione dell’Essenza divina. Ogni essere, a parte Dio, è per sua natura un’imitazione più o meno perfetta, un’irradiazione più o meno pura di quella pienezza dell’Essere a cui tutto partecipa, tutto tranne il nulla. Ne consegue che, essendo l’Essenza divina davanti allo sguardo di Dio, non solo come l’abisso senza fondo delle perfezioni increate, ma anche come il prototipo e l’esemplare di tutta la realtà finita, Dio conosce con un solo atto e nell’esemplare tutto ciò che gli assomiglia in diversi gradi. La sua stessa essenza è dunque per Dio la forma intelligibile, infinitamente una, con la quale, contemplando se stesso nella sua gloria, vede con uno sguardo unico e sempre immutabile, e le sue infinite perfezioni, e quell’universalità di esseri che non sono, né possono essere, se non nella misura in cui lo rappresentano per qualche lato. – Queste spiegazioni ci porteranno alla comprensione di una formula che ricorre spesso nei trattati dei nostri teologi scolastici. Dio – essi dicono – vede se stesso in se stesso; quanto agli altri esseri, non li vede in se stessi, ma nella propria essenza. Ciò significa che di essi non conosce che l’essere che essi hanno in Lui? No, senza dubbio: perché Egli vede tutto ciò che sono e tutto ciò che hanno, al di fuori della loro fonte primaria, cioè al di fuori di Dio. Vedere una cosa in sé stessa vuol dire vederla nella sua specie o forma intelligibile; vederla in un’altra è anche conoscerla, ma per la forma o immagine dell’oggetto in cui è vista. Pertanto, poiché l’Essenza divina è per Dio la forma unica, in virtù della quale conosce tutto ciò che cade sotto lo sguardo della sua intelligenza, è vero dire che vede se stesso in se stesso, e che vede il resto in se stesso (S. Thom., c. Gent;: L. 1. C. 53-55: 1 p., q. 14, a. 5 e 6). – Pertanto, anche noi, vedendo Dio, la Verità sovrana, in se stesso, vedremo tutto in Lui. Perché? Perché questa stessa Essenza divina che, non essendo che una e medesima cosa con l’intelligenza di Dio, fa che essa sia l’infinita comprensione di tutta la verità, diventerà per la più ineffabile delle unioni la forma ideale della nostra stessa intelligenza; non una forma ridotta, ma una forma sussistente, archetipo e modello di ogni partecipazione creata dall’Essere infinitamente perfetto. « Così – dice l’Angelo della Scuola – nell’intelligenza creata che vede Dio si realizza la condizione di ogni conoscenza, cioè l’assimilazione del soggetto conoscente all’oggetto conosciuto. Infatti, le somiglianze delle cose preesistono nel loro archetipo, l’Essenza divina, alla quale questa intelligenza è unita. (S. Thom., 1 p., q. 12, a. 9).

3. – Dopo aver studiato come Dio si unisca all’intelligenza della sua creatura per diventare oggetto della contemplazione beatifica, ci resta da considerare questo potere stesso. Le sue forze native sono sufficienti; o se ha bisogno di qualche miglioramento, è sufficiente quello che ha ricevuto dalla fede? No, né la ragione né la fede hanno il potere di elevarci a quella visione sublime in cui Dio sarà in sé e nella sua stessa essenza la meta immediata della nostra intuizione. Ho già mostrato che su questo punto è presente la radicale impotenza della natura (L. II, c. 2.). Ho solo una parola da dire sulla fede: è che, pur aprendo davanti a noi orizzonti nuovi e radiosi, non cambia il nostro modo naturale di pensare e di concepire. Pertanto, laddove le energie naturali dell’uomo sarebbero assolutamente impotenti, l’aiuto che essa ci dà non può supplire all’incapacità della sola ragione. La fede ci fa credere e noi dobbiamo vedere ciò che crediamo. Le Sacre Scritture ci avvertono che la fede non rimane (1 Cor. XIII). Essa è la conoscenza imperfetta della via, non è la luce che ci è riservata per il termine. – Che cosa serve dunque all’intelligenza, se la virtù naturale della ragione, se la chiarezza soprannaturale della fede, non è in grado di portare i nostri occhi a queste misteriose altezze? La teologia risponde: la luce della gloria, cioè una forza intellettuale di ordine superiore, che corrisponde alla forma divina con cui lo spirito dell’uomo deve contemplare il suo Dio (S. Thom., 1 p., q. 12, a.5). Ascoltiamo ancora una volta gli insegnamenti del Maestro. « È impossibile – egli ci dice – che un essere si elevi ad operazioni superiori alle sue, se prima non riceva un supplemento di forza e di virtù. – Questa aggiunta può derivare, è vero, da un semplice aumento di intensità della sua energia primaria. Così il calore, per il fatto stesso di diventare più intenso, produce effetti sempre più violenti. Ma, osserviamo bene, questi effetti, per quanto grandi possano essere, non cambiano di natura e sono sempre dello stesso tipo. Se si vogliono ottenere effetti positivi di ordine incomparabilmente superiore, non è più solo la stessa forza, resa più intensa, che si debba applicare; è una virtù che si deve aggiungere all’energia primitiva. Nessun corpo sarà coronato da un’aureola luminosa se il sole non verrà a inondarlo con i suoi raggi. Ora, la virtù naturale dell’intelligenza è assolutamente impotente a vedere Dio faccia a faccia. Perciò essa ha bisogno di ricevere un complemento di luce intellettuale; e questo complemento deve essere di natura eminentemente superiore, poiché la ragione ultima della sua impotenza risiede nell’essenza stessa della sua virtù nativa » (S. Thom, c. Gent., L. III, c. 53; S. Franc. de Sales, Traité de l’amour de Dieu, L. III, c. 14). – Questo indispensabile complemento è ciò che i teologi hanno convenuto di chiamare luce di gloria: luce perché dissipa le nostre tenebre originarie e ci rende visibile Dio; luce di gloria perché vedere Dio è la gloria della creatura prima ancora che di Dio. – Questa prova è perentoria, ma ce ne sono altre che non di meno e certamente portano alla stessa conclusione. Ricordiamo che la visione beatifica presuppone, come elemento necessario, un’unione molto speciale dell’intelligenza con la Luce increata, principio e termine di questa visione. Ora la stessa unione, lungi dal rendere vana la luce della gloria, non può essere spiegata senza di essa. Infatti, due cose che non sono state unite non possono essere intimamente legate l’una all’altra, senza che almeno una di esse subisca un qualche cambiamento. Questo principio è abbastanza chiaro di per sé. Inoltre, l’abbiamo già utilizzato per dimostrare che la dimora dello Spirito Santo nei giusti non va senza una trasformazione soprannaturale delle anime che Egli benedice con la sua presenza. Se, dunque, nessuna intelligenza creata può aspirare alla visione di Dio, senza che l’essenza divina sia in essa come forma infinitamente intelligibile che la avvolge e la penetra, ci deve essere una modificazione da parte della creatura: perché la stabilità immutabile della natura divina si oppone a qualsiasi idea di cambiamento di cui diventerebbe oggetto. Ora, questa trasformazione dell’intelligenza umana, dove la troveremo, se la luce della gloria, invece di essere una realtà, sia solo una parola vana? – Aggiungiamo una terza ed ultima prova. L’Essenza divina è una forma intelligibile che, per sua natura, è così propria dell’intelligenza di Dio da non avere alcuna proporzione con essa: perché in Dio queste tre cose, l’intelligenza che conosce, l’oggetto che è conosciuto ed il principio formale da cui la conoscenza procede, sono una sola e medesima cosa, senza divisione o distinzione. Come potrebbe la stessa forma intelligibile diventare la forma di un’intelligenza creata, se questa intelligenza non ricevesse in sé una partecipazione più profonda e sublime dall’intelligenza a cui questa forma è naturalmente propria? Quindi, ancora una volta, è necessario, per la visione beatifica, che l’intelligenza creata sia resa ad immagine dell’intelligenza increata mediante un’assimilazione che superi in eccellenza ogni altra luce intellettuale, sia che provenga dalla natura, come la ragione, sia che provenga dalla grazia come la fede (S. Thom., Gent., vol. III, c. 53). La luce della gloria ha quindi due funzioni che si completano e si richiamano a vicenda: da un lato, è il legame necessario tra l’anima del veggente e la luce divina che la feconda; dall’altro, è una capacità aggiuntiva che dà l’attitudine necessaria a contemplare l’infinito splendore, presente in ciascuno degli eletti. Confesso che questa dottrina non è di fede in ogni dettaglio. Ciò che ogni Cattolico debba credere, perché la Chiesa, illuminata dalla rivelazione, lo ha solennemente definito, « è che l’anima umana ha bisogno della luce della gloria per elevarsi alla visione di Dio e per goderlo nella beatitudine » (Concil. Viennens. Damnat. error. Beguardorum… prop. 5). Per quanto riguarda la determinazione più esplicita e precisa di questa elevazione soprannaturale, questa è, in misura maggiore o minore, una questione di scienza teologica. Una cosa è certa: le stesse ragioni che provano l’esistenza di virtù infuse, anteriori agli atti meritori, dimostrano la necessità di una simile elevazione per l’intelligenza, ammessa alla contemplazione della bellezza eterna. Né l’analogia tra la natura e la fede, né la perfezione dello stato, richiesta per la beatitudine, ci permettono di immaginare una luce di gloria che non istituisca nell’anima alcun principio reale e permanente dell’operazione divina (S. Thom.; 2. 2., q. 175, a. 3 ad 2; de Verit., q. 20, a. 2; q. 13 ad 2 ecc.). Non credo che ci sia nulla nei Padri che ci obblighi a dubitare di queste verità. È vero che essi non parlano espressamente di questo principio creato che abbiamo chiamato luce della gloria. Questa è l’osservazione di Petau (Petav., de Theolog. dogmat., t. 1, de Deo, L. VII, c. 8, n. 3); ma bisogna riconoscere che tutti richiedono nel beato una virtù superiore alle forze naturali, come questo grande teologo concede e dimostra negli stessi testi. Che poi il nome di luce della gloria si applichi o all’Essenza divina che si unisce all’intelligenza come sua forma ideale, o alla virtù creata che rafforza l’intelligenza stessa, è una mera disputa di parole, purché si sia d’accordo sulla sostanza della dottrina. – Non mi sembra neppure che si possa attaccare la teoria di San Tommaso, di San Francesco di Sales e degli Scolastici in nome dei testi accumulati dal dotto Thomassin (Thomass. De Deo, L. V, c. 16). Secondo lui, la dottrina dei Padri si riassumerebbe in due affermazioni principali. In primo luogo, la forma intelligibile che rende visibile Dio all’anima beata è il Verbo; da qui la nota espressione: « Vedere nel Verbo ». In secondo luogo, la luce della gloria non è altro che lo Spirito Santo, che è unito molto strettamente alla mente del veggente. Così, è attraverso Dio che Dio viene visto, perché lo Spirito Santo è la potenza attraverso la quale viene visto, e il Figlio è la specie nella quale viene visto” (in un’appendice speciale sul verbo nella visione beatifica, diremo cosa si può intendere con queste parole: « vedere Dio nel Verbo »). Queste due affermazioni, dico, anche supponendo che esprimano bene il pensiero dei Padri a cui Thomassin le attribuisce, non vanno in alcun modo contro la nostra dottrina. Se ne sarà pienamente convinti, se ricordiamo i caratteri ipostatici del Figlio e dello Spirito Santo e le leggi di appropriazione. – Poiché il Figlio procede per via di intelligenza, come Verbo, e quindi come luce e verità, cosa c’è di più naturale che attribuire al Figlio ciò che è appropriato all’Essenza divina, in quanto Luce e Verità? Inoltre, che cos’è il Verbo se non l’immagine, la somiglianza, il volto, la parola, la manifestazione viva e sostanziale di Dio? Così, c’è un nuovo titolo per il ruolo di immagine e la funzione di forma ideale che la divinità ricopre nella visione beatifica, da appropriarsi a Lui, piuttosto che al Padre o allo Spirito Santo. D’altra parte, non dobbiamo forse vedere nel Principio superiore di attività che deve elevare l’intelligenza e renderla adatta alla contemplazione di Dio, la perfezione suprema e finale della creatura ragionevole, il dono per eccellenza che viene fatto all’uomo, la causa prossima della sua unione beata con Dio? Ora, se non sbaglio, è proprio questo il carattere degli effetti divini che attribuiamo singolarmente a Colui che si manifesta come il complemento della Trinità, il Dono personale, l’Unione del Padre e del Figlio, cioè allo Spirito Santo. – Leggo nel Vangelo: « Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e coloro ai quali il Figlio ha voluto rivelarlo » (Mt X, 27). E ancora: « Chi mi ama sarà amato dal Padre mio ». E ancora: « Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e Io lo amerò e mi manifesterò a lui » (Gv. XIV, 21). Bisognerà concludere che questa rivelazione che ci viene fatta dal Padre e dal Figlio, sia l’opera esclusivamente personale del Figlio unico? Niente affatto, perché leggo altrove: « Nessuno conosce ciò che è in Dio se non lo Spirito di Dio; e noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito che è di Dio, per conoscere i doni che Dio ci ha fatto » (1 Cor., II, 11-12). È sempre la stessa legge di appropriazione, attraverso la quale tutto si chiarisce e si riconcilia nell’unità armoniosa di una verità totale. – Un errore che non posso passare del tutto sotto silenzio consisterebbe nel supporre, come alcuni sembrano aver fatto in passato, che la luce della gloria sia la visione di Dio stesso, che è diventata, non so per qual influsso, la visione stessa della creatura. Chimere di menti sbagliate che non meritano di essere confutate. Perché non è forse follia lusingarsi di vedere con un atto che non sia nostro? Se non c’è altra visione che quella di Dio, diresti cento volte che essa non è comunicata; non è questo un atto in cui trovo la mia stessa vita: quindi, per quanto perfetta possa essere la visione divina, mi lascia nelle tenebre. Rispondereste che, se la visione divina non è vostra, ne avete la coscienza e che con questa coscienza entrate in possesso del suo oggetto? Si tratterebbe comunque di un’illusione manifesta: perché ciò che cade sotto l’occhio della vostra coscienza sono i vostri atti e non quelli degli altri. Chiunque volesse andare a fondo di tali teorie vi troverebbe presto il panteismo come corollario o principio; e questa ragione da sola è sufficiente perché esse siano universalmente bandite da ogni scuola e libro cattolico. Ma questo è sufficiente per parlare del principio prossimo della visione beatifica. È giunto il momento di studiarne esplicitamente l’oggetto e le operazioni.

(Vale la pena di citare il testo seguente, molto adatto a chiarire molte delle idee contenute in questo terzo capitolo. « Oportet nunc considerare et intelligere: quis sit modus videndi Deum per essentiam. In omni siquidem vision oportet ponere aliquid quo videns visum videat. Et hoc est vel essentia ipsius visi, sicut Cum Deus cognoscit seipsum, vel aliqua similitudo ejus, sicut cum homo videt lapidem. Et hoc ideo quia ex intelligente et intelligibili oportet aliquo modo fieri in intelligendo unum. Non autem potest dici quod essentia divina videatur ab aliquo intellectu creato per aliquam similitudinem…. Omnis enim similitudo divinæ essentiæ in intellectu recepta non potest habere aliquam convenientiam cum essentia divina, nisi analogice tantum. Et ideo cognitio quæ esset per talem similitudinem, non esset ipsius Dei per essentiam, sed multo imperfectior quam si cognosceretur substantia per similitudinem accidentis. Restat ergo ut illud quo intellectus creatus Deum per essentiam videt, sit essentia divina. Non auteun oportet quod ipsa essentia intellectus ipsius, quod se habeat ad ipsum ut forma. » – S. Thom. De Verit. D. 8, a. 1).

LA GRAZIA E LA GLORIA (46)

LO SCUDE DELLA FEDE (227)

LO SCUDO DELLA FEDE (227)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (1)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

PREFAZIONE

L’uomo ha bisogno di Dio ; sempre qualche cosa gli manca, che non trovano i poveri nei loro tuguri, né i ricchi nei loro palazzi, né altri in mezzo ai traffici, neppure in mezzo al trionfi. Questa cosa che manca agli uomini è Dio, che solo può soddisfarli interamente; e Dio si usa cercarlo nei templi. Per questo in ogni angolo della terra, appena si trova un gruppo di uomini, si affrettano subito di formarsi un tempio, e nel tempio rizzare un altare quasi per farsi scala in cerca di Dio: quando poi l’uomo non ne può più della vita, a riposarsi de’ suoi sogni crudeli, corre a gettarsi ginocchioni nel tempio, fissa gli occhi all’altare, e su per esso, sull’ali della preghiera cerca di sollevarsi a Dio per respirare nel suo seno il profumo di una vita migliore. Ma allora che si innalza a Dio col suo pensiero, deve sentire il suo nulla l’uomo meschino dinanzi a Lui, e da Lui riconoscere tutto, e tutto da Lui aspettare. – Anche convien confessare che sollevandosi l’animo a Dio, sente il peso della propria miseria, e dinanzi a Lui un tristo pensiero l’accompagna, che s’attraversa all’unione con Dio. E la coscienza della propria colpa, che rompe l’armonia tra il Creatore e l’opera sua, e sturba la pace che l’uomo sperava di trovare in Dio. Pur troppo tutti gli uomini di tutti i tempi si sentono rei fin dal loro nascere, e, come per istinto, pare che dicano almen confusamente: « Ecco siam concepiti in iniquità, ed in peccato ci han generati le madri nostre. » Questo lor sentimento gli uomini confessarono di provare in tutti i tempi, in tutti i luoghi con tutte le forme dei riti, manifestando in ogni religione il bisogno non solo d’onorare, ma anche di placar Dio con sacrifici. (Vedasi Roselly de Lorques. — Della morte anteriore all’uomo ecc. cap. X, dott. dell’espiazione. De-Maistre — Del sacrificio e dei sacrifizi religiosi di tutte le nazioni. Trattato storico-Critico, opera del Card. Tadini Arciv. di Genova, — Nicolas: Studi filosofici, etc). – Così la Chiesa Cattolica, che fa conoscere il dovere ed il bisogno che hanno gli uomini di placare, di adorare, ringraziare e supplicare Dio con sacrificio, e lo dà loro in man preparato, trova un’eco nel cuore degli uomini alla sua dottrina, e pare che tutte le nazioni del mondo le debbano rispondere « Voi dite bene; ci avete voi interpretati i sentimenti che noi proviamo confusi, e così provvedeste ai nostri bisogni. » Perché difatti la storia di tutti i popoli mostra che essi furono persuasi in ogni tempo di questa spaventosa verità: che si vive sotto la mano di Dio irritato, e che Egli si deve solo placare coi sacrifizi (« La caduta dell’uomo degenerato è il fondamento della Teologia di tutte le nazioni antiche. » Voltaire, Filosofia della Storia. Questio i sull’Enciclop.). Vediamo di più, che tutti i popoli del mondo, pur tra loro d’indole, di favella, di leggi e fino di colore così diversi, non solamente vennero sempre ad offrire sacrifici, ma per sacrifici offrirono quasi sempre vittime d’animali. Essi cioè essendo persuasi d’esser colpevoli, col fare le loro offerte dell’animale in sacrificio, mostrarono di credere, che si potesse mettere innanzi una vittima per pagare la pena a conto dell’anima, che ha peccato; credettero adunque sempre gli uomini, che, ad unirsi e comunicare con Dio, come richiede la loro necessità, non bastasse la preghiera e l’oblazione; ma che fosse d’uopo prima placare la giustizia Divina, e a togliere di mezzo l’ostacolo della colpa si dovesse mettere innanzi la morte del colpevole, almeno nel sacrificio rappresentata. Ora, se per la soddisfazione dovuta sì credeva potesse valere un animale sacrificato, tanto più facilmente si pensava, che potesse un uomo per un altro uomo soddisfare. Quindi in tutte le religioni furono con gran rispetto osservati quegli uomini, che si sacrificarono per aiutare la povera umanità. Ben appare da questo, che gli uomini s’accorgevano d’esser tutti insieme come una sola famiglia, che viene da una sola radice, e forma come un corpo solo; di cui le membra sono solidarie fra loro; cioè l’un può per l’altro portarne i pesi, le pene, ed offrirsi in soddisfazione alla Divinità, a cui pensavano dover riuscire soprattutto accettevole il sacrificio della verginità e dell’innocenza. Ora per procedere colla maggior chiarezza, ritorniamo a dire in breve il già detto; ed è che gli uomini sentono di dover adorar Dio, e che dinanzi a Dio sentono d’essere colpevoli, e d’aver bisogno di offrirgli sacrifizi, che credono di poter sostituire una vittima per la soddisfazione dovuta dall’anima colpevole. Le vittime difatti anticamente si chiamavano anti-psyche, parola che vuol dire vice-anima, quasi pro anima, cioè anima sostituita per un’altr’anima (Lami, Appar. Ed. Bib. I, 7). E queste verità che troviam confessate nelle religioni di tutti i popoli, ben dovettero essere già fisse nella mente umana prima di ogni istituzione di riti, perché le pratiche religiose le suppongono già, e sono ordinate a tradurre in atto e ad eseguire quanto insegnano esse; potendosi affermare che presso i diversi popoli della terra « di tante varie religioni nessuna havvene, che non abbia per iscopo la espiazione (Voltaire, Filosofia della Storia — Quest. sull’Enciclop.) per mezzo dei sacrifizi: mentre i sacrifizi praticati in tutte le religioni non furono semplici offerte fatte in ossequio alla Divinità. Perché, quando gli uomini avessero voluto fare semplici offerte, vi avrebbero recata cogli altri doni, se si vuole, anche la carne; ma la carne se l’avrebbero, noi crediamo, provveduta altrove, e coperta di fiori, profumata d’incensi, o preparata altrimenti, per venire poi con solenni funzioni a farne l’offerta: e non sarebbero venuti a sgozzar l’animale, azione per altro in se stessa tutt’altro che festosa e bella. Ma no: nei sacrifici la solennità delle funzioni sta appunto nell’immolare la vittima, che si vuole sacrificare sull’altare col versarne il sangue dinanzi a Dio. E perché questo atto, che sa di sdegno? Perché questa vendetta, questa effusione di sangue? Perché è diffuso nella coscienza de’ popoli un sentimento indeterminato di quella verità, che fu poi così chiaramente rivelata dal Cristianesimo; che per la via della carne formata ed irrorata di sangue fu trasfuso il peccato nella umanità, per la quale tutti quanti nascono dal sangue e dalla volontà della carne, non nascono più figliuoli in grazia di Dio. Si vuole adunque nel sacrificio al cospetto di Dio colpire d’anatema il mezzo per cui si trasfonde nella generazione viziata un peccato, cagione di tutte le altre colpe. Siccome gli uomini nascono di sangue peccatori, offerendosi per loro espiazione la vittima, della vittima si sparge il Sangue: perché è questo veicolo, che si vuol versare a placare Iddio, quasi per distruggere il mezzo per cui nel mondo s’introdusse il mal germe dell’iniquità: per così, col versare il sangue, procurare l’espiazione. Così tutti i culti, anche quelli che paiono non avere alcun parentado col culto nostro Divino, se penetriamo sotto alle apparenze ed alle aggiunte delle superstizioni, troviamo che vanno a confondersi nella maestà di un culto universale: e questo culto universale depurato, santificato, a cui aspira l’umanità, splende degno di Dio nella Religione Cattolica. – Colla scienza di questa verità gli uomini inferociti per brutali passioni, furono traboccati nei più grandi eccessi da diaboliche superstizioni. Si vorrebbe poter negare: ma la storia l’attesta in troppi luoghi, che gli uomini furono spinti a sacrificar gli uomini, ed a mangiar le carni « Si vuol sangue, » pareva che lor gridasse un tremenda voce misteriosa; e correvano a scannare in sacrificio prima i colpevoli, che si guardavano come sacri allo sdegno della Divinità; (quindi il sacrificare i rei si diceva espiare, cioè dissacrare, il che vuol dire sciogliere il voto dell’offerta col dare a Dio ciò che gli era sacro; poi si sacrificavano i nemici, poi gli stranieri; perché, quando non vi è carità, si trovano mille titoli per tener come nemici i nostri simili. Noi conserviamo ancor una parola per significare la materia di che si prepara il sacrificio, che noi chiamiamo Ostia. Questa parola viene dalla parola latina hostis, e hostis significa nemico ed anche straniero. V’era adunque ben poca differenza tra i nemici, e gli stranieri, quando si trattava di scannarli in sacrificio. Ora noi Cattolici, quando prendiamo in mano quel po’ di pane candidissimo che chiamiamo Ostia, siamo in obbligo di confessare che la Religione Cattolica colle idee ha ben mutati i costumi! Noi adesso sentiamo ribrezzo e spavento a quegli orrori. Bene sta: ma per carità! non dimentichiamoci che noi siamo nati in seno alla Chiesa Cattolica, pietosa madre, che alla nostra culla ci parlò d’amore di Dio e ci fece sorridere coll’immagine di un Dio Bambino innamorato di patire per noi. Del resto, se domandassimo un poco ai poveri Missionari, che nell’Asia, nell’Oceania, nell’Africa affrontano i furori della superstizione, ci risponderebbero, che ancora ai di nostri nelle Polinesie. Nel Tonchino, ed altrove si squartano i Missionari, e da loro agonizzanti si strappa il cuor dal petto, e si mangian le viscere palpitanti innanzi agl’idoli (V. Annali Prop. Della Fede). Non dimentichiamoci che nel 1793 nella nazione più incivilita del mondo si abolì il sacrificio di Gesù Cristo, e si rovesciarono gli altari, ma subito fu inondata di sangue umano; non dimentichiamo quegli orrori!…. ed altri che avverrebbero… Credono adunque tutti, che senza effusione di sangue non si fa remissione. Ci vuol sangue! Ecco la persuasione universale. E qual sangue? Eh! non potevano gli uomini immaginarsi di qual sangue avessero bisogno. Veramente noi Cristiani, entrati la prima volta nell’America, abbiam trovato, che gli Americani si credevano obbligati a preparîfr fino ventimila teste da sacrificar sugli altari delle orribili loro divinità (Cong. De la Nueva Espana 3, 3), e serbavano a tal fine i nemici, e quando mancavano, facevano guerra apposta per far prigionieri da farne carne, e quando si mancava anche di questi, tagliavano la testa fino ai proprii figli (Lettere Americane de’ Carli). Ma quando, invece di vedere quei feroci sacrificanti con furore di demonio diguazzare nel sangue, gli Americani videro la prima volta il sacerdote cattolico mite, compunto  confidente in Dio, alzar fra le mani teneramente adorando la Santa Ostia, consacrata sopra i fedeli che prostesi a terra picchiavansi il petto con umiltà; allora quei poveri Americani avranno chiesto « che volesse dire quel rito, e che fosse ciò, che al ciel si alzava: » e i Cattolici avranno risposto: Questa è l’offerta del Figliuol di Dio, che paga per tutti i mostri peccati. » Oh si! quei Catecumeni, abbracciandosi fra loro per consolazione, e le madri baciando con largo sospiro i lor bambini, avranno esclamato « Sia Benedetto il Grande Spirito, che non si scanneranno più sugli altari i nostri figli. » Ah! ripariamo noi adunque la nostra povera umanità intorno all’Altare, e, tenendoci attaccati ad esso, mostriamo al cielo il tremendo Mistero in quell’Ostia pacifica, Corpo e Sangue di Gesù Cristo, che riconcilia gli uomini con Dio, pel cui mezzo il Sangue di Dio, mischiandosi col sangue degli uomini, oltre al salvarci le anime risparmia ben anche di molto sangue umano. Noi abbracciati con Gesù sulla Croce gridiamo pure: tutto è consumato, consummatum est! Sì, veramente a questo grido dalla croce, e dall’Altare il velo del tempio si squarcia, i secreti del Santuario ben addentro son conosciuti. Dio ha mostrato in una maniera degna di Sé ciò che il genere umano, senza ben intendere, confessava; cioè che gli uomini creati per adorare l’Eterno, radicalmente tutti peccatori, sarebbero tutti perduti; e che a salvarli ci voleva sangue, e sangue innocente, Sangue Divino. Così Dio ha pur manifestato i segreti della sua Divinità; ed ecco in qual modo ci proviamo di esporre qualche idea della sua ineffabile manifestazione. In principio Dio, Essere infinito, creava l’universo come per isfogo della sua bontà, e, contemplando poi le opere sue, vedendole buone, pure non poteva essere soddisfatto, finché lo sguardo suo, per dir così, non s’incontrasse fra le creature in due occhi che collo sguardo al cielo cercassero di Lui. Allora Dio lasciava scorrere un piccolo raggio della sua luce divina sopra l’argilla più perfettamente organizzata, ed accendeva il lume dell’intelletto umano, spirandovi sopra un soffio della sua bocca; e die’ principio a quel movimenti d’affetti nel cuor dell’uomo, che sono come tanti slanci, per cui l’anima nostra irrequieta sopra la terra non trova più pace fino che non salga a beatitudine in seno a Dio. Così era creato l’uomo ad immagine di Dio. Quando, avendo Adamo prevaricato, e reso sé e tutti i suoi posteri eternamente infelici, il Verbo di Dio contemplò la sua immagine, che è quest’anima umana, caduta in basso dopo il peccato; ne senti una vivissima compassione, e per la sua carità infinita, quasi un bisogno di aiutarla a risorgere, a ritornare a sé; affinché questa luce della ragione umana non andasse come luce fosforica errando terra a terra mischiata al fango, volle pertanto vivificarla della potenza del suo raggio divino, per farla riflettere divinamente: vivida verso il suo Principio. Quindi il Figliuol divino, per abbassarsi a sorreggere l’umanità, e a salvarla, discese Egli stesso Lume di lume, Dio di Dio. Per iscaldare dei raggi di sua Divinità l’umana natura, unì la sua Divinità alla natura umana: incarnandosi nell’umanità, l’umanità fu assunta in Dio così da essere una Persona in due nature, l’Uomo-Dio, il Verbo Divino Figliuolo di Dio e Figliuol di Maria, Gesù Cristo Salvatore nostro. – Ora quest’Uomo-Dio, comprendendo appieno Dio in tutto l’esser suo, colla sua mente divina ben conobbe quanto Iddio merita d’esser conosciuto, adorato, amato e ringraziato, perché fonte inesauribile di ogni bontà: ben conobbe quale immensa offerta gli è dovuta in ricognizione di Lui, a cui tutto si deve! Dall’altra parte vedeva essere Iddio orribilmente sconosciuto ed offeso dagli uomini, e, trovandosi anche Egli fratello degli uomini, porzione dell’umanità, membro solidario di questo gran corpo, che trovava reo dinanzi a Dio, dovette sentir bisogno di tutta adoperare la ricchezza della sua divina umanità, Per far di se stesso per tutti la grande offerta, che si voleva per adorare Dio, ringraziarlo, rendergli soddisfazione come si merita. Se qui ci fosse permesso tradurre in forma umana i pensieri dell’Uomo-Dio, vorremmo dire che Gesù Cristo avrà dovuto esclamare in tutta la sua vita: « Ah! dove è una vittima degna del mio Padre Iddio? Lungi dall’Altare di Dio vittime di fungo… Ecco vengo Io, o Padre… Io son ben fortunato che voi m’abbiate datò un corpo da offrirvi degno di Voi: Io vengo, io vengo ad offerirvelo. » Corpus autem aptasti mihi. une mihi: ecce venio (Ps, XXXIX e Hebr. X). Quindi come sulla Croce, qui sugli Altari, in tutte le Messe Gesù Cristo cade a nulla dinanzi a Dio per adorarlo, si getta ai piedi del Suo trono per ringraziarlo: e, mostrando il suo Corpo consacrato sotto la Specie di pane, ed il suo Sangue consacrato sotto la Specie di vino, e così sacramentalmente, il Sangue diviso dal Corpo, sta davanti a Dio sotto le forme di agnello svenato, e trova in cielo la Reden- zione. (S. Cip. ad Heb. IX, 12). Così adunque sarà soddisfatto e contento Gesù? No, no: il Divin Figliuolo è uno coll’Essenziale bontà, e la bontà tende a sfogarsi comunicando il bene a chi n’ha bisogno. –  Fatto mediatore tra Dio e gli uomini, Ei guarda gli uomini suoi fratelli, e li vedo affamati di bene, e bisognosi al tutto di Dio. Quindi sull’altare sacrificaridosi a Dio, la sua bontà non è contenta appieno, se agli uo- mini non si comunica in modo infinito; e per l’amor suo, vorremmo dire, che non ha pace, finché non li ravvicini, e non li riassorba in Dio. Ecco in vero, che, quando si andava a sacrificare sulla croce, parve che sentisse troppo forte i legami, che lo strin-gevano al suoi poveri fratelli; e in sull’andare al Calvario dona agli uomini nella San- tissima Eucaristia il suo Corpo, il suo Sangue da offrirsi a Dio per loro nella santa Messa, e da riceversi nella santa Comunione. Ah! quando il Padre Divino ci donò il suo Figlio, e il Figlio, sacrificandosi al Padre, ci donò Se stesso; e lo Spirito Santo cooperò al mistero dell’amor infinito, noi siamo veramente divenuti padroni dei tesori della Divinità, avendo acquistato diritto a tutti i doni divini — ommia nobis donavit — Replichiamo ancora: sì veramente qui tutto è consumato! Perché Dio ha palesato il Mistero della sua Divinità: poiché nel Sacrificio della S. Messa noi possiamo dire, che abbiam conosciuto la grandezza, la bontà, la giustizia di Dio, e sopra esse vediamo trionfare la sua misericordia; e grandezza, bontà, giustizia, misericordia infinita sono attributi essenziali di Dio: abbiam dunque veduto la gloria di Dio nell’Unigenito del Padre pieno di grazia e di verità. – Grazie, eterne grazie a Dio!

LA GRAZIA E LA GLORIA (44)

LA GRAZIA E LA GLORIA (44)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO II

La visione beatifica, considerata quanto alla sua esistenza.

1. Fatta per la verità, l’intelligenza umana, ridotta alle sue forze naturali, ha la vista ben corta. È vero che la fede, questa luce della vita presente per i figli adottivi di Dio, apre davanti ai loro occhi orizzonti magnifici, dove nessun occhio umano saprebbe giungere. È la fede che ci ha rivelato i misteri di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, che sono nascosti nelle profondità dell’eternità; essa ci ha anche mostrato il Dio fatto uomo che conversava tra noi e ci ha detto: Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. – Senza la fede non conoscerei né i Sacramenti, poiché a ciascuno di essi si applica, nella sua misura, ciò che la Chiesa afferma soprattutto del più sublime di tutti, la divina Eucaristia: mysterium fidei – mistero della fede; né gli alti destinati a cui è piaciuto alla bontà divina chiamare la sua creatura gracile e colpevole, né tutti i grandi doveri che questa vocazione così gratuita ci impone. Cosa devo dire? La fede, nella condizione attuale del genere umano, gli conferisce il potere di conoscere prontamente, con ferma certezza e senza alcuna mescolanza di errore, quelle verità divine che di per sé appartengono al dominio naturale della ragione (Concilio Vaticano De Fide Cath., c. 2). È quindi a ragione che il Sacramento che lo infonde nelle nostre anime, il Battesimo nel nome della Trinità, è chiamato Sacramento di illuminazione, che i battezzati sono gli illuminati, i figli della luce e del giorno, e che il loro ingresso nella Chiesa è salutato come il passaggio dalle tenebre alla luce miracolosa di Cristo (Ebr.-VI. 4; I Tess., V, 5; 1.Joan., I, 7; I Pet., I, 6). – Ma infine, per quanto grande sia lo splendore con cui la fede ci circonda, non è questo lo splendore del sole, e nemmeno la sua alba. Che cos’è allora? « Una lampada che brilla in un luogo oscuro, fino a quando il giorno comincia ad apparire e la stella del mattino sorge splendente nel suo cuore » (II Pt. I, 6, ecc.). La consumazione finale del figlio di Dio sarà di vedere ciò che crede; passare dalle ombre al Sole, dalla conoscenza imperfetta al pieno possesso della verità, contemplata faccia a faccia in Dio, la luce per essenza e la Fonte di ogni luce. – Per procedere con ordine, stabiliamo innanzitutto l’esistenza della visione intuitiva; in seguito diremo, per quanto la nostra debolezza lo consenta, quali siano la sua natura e le sue proprietà. È di fede che questo grande destino sarà il nostro. A parte le prove esplicite che raccoglieremo presto, sia nella rivelazione evangelica (Rom. V; Joan. I, 7; I Pet. I, 19), sia nella Tradizione della Chiesa, ci basterebbe sapere ciò che Dio ha già fatto in noi con la sua grazia, per intuire con certezza ciò che un giorno farà per noi nel regno della sua gloria. – Che cos’è la grazia? La vita eterna nel suo principio. Che questa vita divina si sviluppi e fiorisca, ne diventi la vita gloriosa come è in Dio, una vita che scorre senza fine nella contemplazione amorosa della bellezza divina. Cos’altro è la grazia? Una partecipazione alla natura stessa di Dio. Chi non vede che la partecipazione alla natura porta direttamente alla partecipazione agli atti, e di conseguenza all’operazione propria di Dio, cioè all’intuizione dell’essenza divina? – Cosa fa la grazia in noi? Ci rende figli adottivi di Dio, suoi eredi; fratelli, membri, collaboratori di Gesù Cristo: tanti titoli, per chi li sa capire, di questa visione benedetta. La grazia e la gloria sono così strettamente legate l’una all’altra che San Tommaso ha potuto dire in tutta verità che esse « appartengono allo stesso genere: perché la grazia non è che solo l’inizio della gloria in noi » (San Tommaso, 2-2, q. 24, a. 3 ad 2); e che il catechismo del Concilio di Trento chiama la gloria « la grazia nel suo stato di compimento e perfezione » (Catechismo del Concilio di Trento, de Orat. dom. p. IV). Questo è ciò che Origene voleva esprimere quando disse all’uomo giusto, che portava l’immagine dell’uomo celeste: « Tu sei un cielo e andrai in cielo. Cœlum es et in cœlum ibis » (Orig. In Hier. hom. 8, n. 2. P. Gr., t.13, p. 340). – Ma lasciamo qui le induzioni e prestiamo l’orecchio agli oracoli, dove la visione di Dio ci viene espressamente e direttamente affermata. « Chi mi ama – ha detto Gesù Cristo – sarà amato dal Padre mio e Io lo amerò e mi manifesterò a lui » (Giovanni, XIV, 21). Altrove, per confermare la sua raccomandazione di rispettare i piccoli e i bambini, dà questa motivazione: « perché i loro Angeli vedono senza posa la faccia del Padre che è nei cieli » (Mt XVIII, 10). Ora, come Egli stesso afferma, saremo in cielo come gli Angeli di Dio (Matth., XXII, 30). Dobbiamo ricordare ancora una volta la beatitudine promessa alla purezza di cuore, quella beatitudine che non è altro, nella sua perfezione, che la vista di Dio? (Mt. V) Finora abbiamo ascoltato il Maestro. I suoi discepoli non parlano in modo diverso da Lui. « Ora – dice San Paolo – noi conosciamo imperfettamente, profetizziamo imperfettamente. Ma quando verrà ciò che è perfetto, allora ogni imperfezione scomparirà… Attualmente vediamo Dio come in uno specchio, in un enigma, in immagini oscure; ma allora lo conoscerò come Io stesso sono da Lui conosciuto » (Cor. XIII, 10-12), cioè immediatamente e per intuizione. Lo stesso insegnamento ci è dato dall’evangelista San Giovanni: « Miei diletti, ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo un giorno non è ancora apparso. Sappiamo che nel giorno in cui Dio si manifesterà nella sua gloria, saremo simili a Lui, perché lo vedremo come Egli è in se stesso » (I Giovanni III, 2), e non più solo come si mostra a noi attraverso le sue opere o alla pallida luce della fede. – Meditiamo su queste ultime parole dell’Apostolo: « Saremo simili a Lui, perché lo vedremo », per ora la somiglianza soprannaturale non è completa. Uno schizzo più o meno fedele non è ancora la perfezione del ritratto. La nube che copre il volto di Dio deve scomparire e la luce eterna che ci colpisce, per così dire, in volto, deve completare l’immagine di Dio in noi per sempre. « Come una nuvola che il Sole penetra con i suoi raggi diventa tutta luminosa, tutta brillante e si vede in essa un oro, una brillantezza; così la nostra anima esposta a Dio, mentre la penetra, è penetrata da Lui, e noi diventiamo degli dei guardando attentamente la divinità, secondo le parole di san Gregorio di Nazianzo: Un Dio unito agli dei » (Bossuet).

2. – L’evidenza di questa verità nella rivelazione è così grande che la Santa Chiesa non ha mai avuto bisogno di stabilirla con definizioni esplicite. Io so che i Padri e i Pontefici hanno più volte difeso il nostro dogma dagli attacchi dell’eresia; ma in verità i novatori, lungi dal negare la visione immediata di Dio, l’hanno rivendicata, al contrario, come un privilegio della natura. Lo testimoniano gli Anomei del IV secolo, che sostenevano di vedere e comprendere Dio come Egli vede e comprende se stesso; lo testimoniano anche i beghini del Medioevo, condannati da Clemente V al Concilio ecumenico di Vienne (Clemente, L. V, tit. 3 de hæret., c. 3, prop. 5). Una definizione più importante, dal punto di vista che qui ci interessa, è quella che giunse, nel 1336, a porre fine ad una controversia in cui l’eresia non aveva alcuna parte. Alcuni teologi, fuorviati da una falsa interpretazione di alcuni testi scritturali, ritenevano che gli eletti, per godere della visione di Dio, dovessero attendere il giudizio generale e la risurrezione dei morti. Un papa, Giovanni XXII, in qualità di dottore particolare, ha addirittura difeso, se non la certezza, almeno la probabilità di questo parere. Non è il caso di fare la storia di una controversia che è stata piuttosto vivace per alcuni anni, ma la decisione finale deve essere citata, almeno in parte, perché esprime molto chiaramente la fede della Chiesa su questo argomento: è di Papa Benedetto XII. « Definiamo in virtù dell’autorità apostolica che, dalla morte e passione di Nostro Signore e, secondo l’ordine ordinario della divina provvidenza, le anime di tutti i Santi… purché abbiano compiuto la loro purificazione…… vedono l’Essenza divina; che esse la vedono con una visione intuitiva e facciale, in modo che questa Essenza divina si manifesti loro immediatamente, chiaramente, apertamente, senza che nessuna creatura si interponga come oggetto tra i loro occhi e Dio. Definiamo, inoltre, che dalla stessa visione nasce il godimento dell’Essenza divina, e che questo godimento e questa visione rendono le stesse anime veramente felici, nel seno della vita e del riposo eterno… Infine: Noi definiamo che la visione intuitiva e facciale con il godimento, una volta iniziata per essi, continuerà senza fine o intermittenza fino all’ultimo giudizio e oltre, durante l’eternità » (Benedetto XII, Cost. “Benedictus Deus“, 4. cal. Febr. 1336). – Il Concilio di Firenze, dove fu ristabilita, per un tempo purtroppo troppo breve, la riunione dei Greci con la Chiesa romana, Madre e Maestra delle Chiese, definì ancora una volta che « le anime dei giusti, sia quelle che non hanno contratto alcuna macchia di peccato dopo il Battesimo, sia quelle che avendola contratta se ne sono lavata, sia quando abitavano nel corpo, sia quando l’hanno lasciato, entrano senza indugio in cielo, e lì vedono Dio chiaramente e come Egli è, nell’unità della sua natura e nella Trinità delle Persone; non con la stessa perfezione, ma secondo la diversità dei meriti. » (Conc. Fiorentino. Decreto. Unionis Græcor. in Bulla Eugen IV, « Lætentur cœli »). – Il lettore avrà sicuramente fatto un’osservazione confrontando questi due testi: laddove Benedetto XII parla solo della visione dell’Essenza divina, i Padri di Firenze fanno esplicita menzione della Trinità. Questa differenza di linguaggio è stata motivata da qualche errore generato da un periodo all’altro? La storia non lo dice.  Del resto, in una forma leggermente diversa, si tratta sempre della stessa dottrina. Quale adoratore della Trinità potrebbe convincersi che sia possibile contemplare l’Essenza di Dio in sé, senza vedere il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo insieme? – « Forse – si chiedeva Sant’Agostino – saremo felici della vista del Padre senza godere della vista del Figlio? Ascoltate Cristo: Chi vede me vede il Padre mio (Gv. XIV, 9). Infatti, quando vediamo l’unico Dio, vediamo contemporaneamente il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo » (S. August., Enarr. in Psalm LXXXI, n. 9). Se per un’ineffabile immanenza il Padre è nel Figlio, e il Figlio nel Padre, e il Figlio nello Spirito Santo, e lo Spirito Santo in entrambi; se tutti e tre, pur restando distinti, sono una sola cosa, una sola e medesima luce, una e medesima infinita Verità; infinitamente se questa stessa unica e semplicissima Essenza è davvero il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, come parlano i Padri e i Concili, vedere intuitivamente una Persona senza vedere le altre, contemplare l’essenza senza contemplare le Persone, cosa sarebbe se non vedere e non vedere? È vero che, allo stato imperfetto della nostra conoscenza, queste astrazioni non siano impossibili; e Dio può essere conosciuto nella sua unità, senza la conoscenza e la fede della Trinità. Ma perché? Perché non godiamo della visione facciale; perché la nostra conoscenza è improntata alle molte immagini di Dio, diffuse da Lui nella creazione. – Sì, credo che se sarò fedele al mio Dio, lo contemplerò nella terra dei vivi. Lo vedrò nella sua natura e nelle sue Persone, faccia a faccia, senza intermediari, senza oscurità, senza veli. Questa professione di fede, posta per così dire alla base, mi permette di studiare con umile sottomissione il come di ciò che credo. È una fede in cerca di intelligenza: « Fides quærens intellectus », una ricerca che la Chiesa non condanna, quando è umile; che approva e persino incoraggia, mentre la indirizza affinché non si allontani dai sentieri della verità.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (7)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (7)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO II

LA VITA IN GESÙ CRISTO

3. La Comunione dei Santi.

Abbiamo già accennato al posto che occupano i Santi, la Chiesa trionfante, nel Corpo mistico di Cristo, ma la devozione verso di loro e specie verso Colei che la Chiesa teneramente invoca Regina di tutti i Santi, è così spiccatamente cattolica che, a costo di ripeterci, ci sembra questo il momento adatto per parlarne più diffusamente. Il Cattolico sa benissimo che vi è un solo Dio e un unico mediatore, Cristo Gesù. “Poiché uno è Iddio, uno anche il mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo, colui che diede se stesso prezzo di riscatto per tutti, testimonianza fatta nel suo proprio tempo” (I Tim. II, 5, 6). Tuttavia, egli crede che, nella sua sapienza e bontà, Dio si è compiaciuto di darci altri protettori intercessori, modelli della nostra stessa natura, che sono o almeno sembrano in un certo senso più vicini a noi, a motivo appunto di questa loro parentela umana con noi. Dio si è servito di ogni mezzo per attirarci più vicino a Sé, non esclusa la stessa natura per la quale tutti gli uomini son fratelli. – Ecco i Santi, membri dello stesso Corpo mistico al quale apparteniamo noi, che, vivendo quaggiù in condizioni simili alle nostre, hanno riprodotto in loro stessi i lineamenti e le perfezioni di Gesù Cristo, hanno messo in pratica il suo insegnamento e sono perciò diventati nostro esemplare e nostra ispirazione pur rimanendo nostri fratelli. Nell’osservare le loro opere a servizio di Dio e degli uomini siamo portati a chiederci: “Perché non potremmo ancor noi fare altrettanto?” Li pensiamo nel paradiso ch’è il loro premio e sappiamo che l’amore non può morire: ne concludiamo, e la Sacra Scrittura lo conferma, che dal loro posto accanto al trono di Dio essi ci ascoltano e ci soccorrono; anzi, crediamo che Dio mostra di approvare la nostra devozione accordandoci non di rado, per loro intercessione, speciali favori. Noi li onoriamo per quello che sono e per l’onore che la loro vita ha reso a Dio e all’umanità. Parliamo loro come si parla ad amici, li preghiamo di aiutarci come il povero può ricorrere al ricco che ama e in cui ha fiducia, come il viandante sperduto domanda una guida a chi ha già esplorato la sua stessa strada. Inoltre, nell’onorare i Santi, noi sappiamo di onorare maggiormente Iddio poiché, dopo tutto, è l’immagine di Lui che in essi onoriamo. Li onoriamo proprio perché e per i motivi medesimi per cui Dio li ha onorati e nella maniera stessa in cui crediamo Egli desideri di vederci onorare quelli che l’hanno servito fedelmente e che hanno meritato il suo amore e la sua approvazione. Quando imploriamo la loro intercessione, è a Dio stesso che si rivolge la nostra supplica, poiché a loro, fratelli privilegiati, noi non chiediamo che di pregare con noi ai piedi del Padre comune. Quando ci proponiamo di imitarli, è Gesù Cristo riflesso in loro che ci proponiamo a modello. « Siate miei imitatori — diceva arditamente San Paolo ai suoi neofiti — come io lo sono di Cristo ». Essi ci servono di stimolo, come accade di tutti i grandi che ci hanno preceduto. “Un fratello aiutato da un fratello è come una città forte”. Li preghiamo di mostrarci in qual modo possiamo, come loro, riprodurre Gesù Cristo in noi. Ben lungi dall’ostacolare il nostro culto verso Dio o verso il Verbo Incarnato, la devozione ai Santi non fa che avvicinarci sempre più ad entrambi, come i secoli hanno dimostrato; essa completa e consolida il nostro culto. Vicini a loro, siamo in compagnia di Colui ch’essi hanno amato più di chiunque altro: nessuno ha mai avuto vera divozione per i più degni seguaci di Cristo senza desiderare ardentemente di seguir Lui com’essi fecero. E nutriamo fiducia che, in compenso, i Santi del cielo s’interessino a noi. Se essi sono i nostri fratelli, noi siamo i loro; se noi abbiamo affetto per loro, quello stesso affetto potenziato dalla loro presente unione con Dio deve render noi molto cari e vicini al loro cuore. Stando i Santi intorno al trono di Dio, adesso che la loro battaglia è finita e la vittoria assicurata, la loro voce non può che esser potente su Colui pel quale essi hanno vissuto e pel quale son morti: perciò noi li invochiamo e ne imploriamo l’aiuto guardando al cielo coi nostri poveri occhi miopi, fiduciosi che le nostre suppliche saranno benevolmente accolte. Noi viviamo nelle tenebre, cercando a tastoni la via; vediamo come in uno specchio, e specchio di fattura umana; sappiamo bene che “occhio non vide, né orecchio udì, né a cuor d’uomo fu dato d’intendere ciò che Dio preparò a quelli che lo amano”, ma facciamo il poco che è in nostro potere. E quelli che vedono “faccia a faccia”, dopo essere ancor loro passati per questa valle di lacrime, non vorranno adesso, nel guardar verso di noi, rifiutarci compassione ed affetto. Quando alla nostra volta morremo, abbiamo fiducia ch’essi vorranno accoglierci in loro compagnia, anche perché abbiamo amato ed onorato la loro memoria e ci siamo gloriati di loro come di quelli fra i nostri che il Re si è compiaciuto di premiare. – Ma fra le creature che vivono il trionfo della santità una ve n’è che nel culto cattolico occupa un posto di eccezione, e questa vogliamo considerare con tutte le sue prerogative. La Beata Vergine Maria, la Madre terrena di Cristo Figlio di Dio, il Verbo Incarnato, deve essenzialmente a quella maternità la sua posizione affatto unica. Il giorno dell’Incarnazione Maria, la Vergine di Nazaret, divenne la vera Madre di Dio sceso in terra: essa diede del proprio corpo per formare quello di Lui, del proprio sangue per generarne la vita umana. Se non avesse altri titoli alla nostra venerazione e devozione, questo solo basterebbe. Ma la storia dell’Incarnazione va oltre ancora: ogni parola del racconto è piena di significato, e la Chiesa Cattolica ne è vissuta in ogni tempo. Maria è salutata con rispetto da un Angelo, e con parole che senz’altro la pongono al disopra di ogni creatura. Prima che il messaggio sia comunicato essa è salutata “piena di grazia”; “il Signore è con lei” in una maniera tutta particolare ed essa è “benedetta fra le donne”. A nessun’altra creatura fu reso un simile onore, attraverso tutte le generazioni da Adamo ai giorni nostri. E quando il messaggio è pronunciato, esso annuncia la nascita non di un figlio semplicemente, ma di un Salvatore, di un Redentore atteso e sospirato dalle nazioni. Ecco la natura della maternità di Maria. “Concepirai nel tuo seno e darai alla luce un figlio a cui porrai nome Gesù. Questi sarà grande e sarà chiamato Figliuolo dell’Altissimo; il Signore Iddio gli darà il trono di Davide suo padre ed egli regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe” (Luca, I, 31, 32). È l’annuncio dell’avvento del Messia aspettato, e Maria lo sapeva bene. Eppure, perché la promessa si compisse, occorreva il suo libero consenso; il disegno di Dio per la redenzione del mondo doveva dipendere dal “fiat” della Vergine di Nazaret. Liberamente essa lo diede, e all’istante si iniziò l’opera della Redenzione: Dio volle che il mondo intero avesse a ringraziare la giovane Vergine del “si” che pronunciò. “Ecco l’ancella del Signore; si faccia di me secondo la tua parola”. – Fu un atto di dedizione completa che molto le costò, come lo prova la sua domanda all’Angelo; e Maria sapeva pure che cosa implicasse per il futuro essere associata a Colui che doveva redimere il mondo. Pochi giorni dopo fece una profezia che si è meravigliosamente avverata: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore, perché Egli ha rivolto i suoi sguardi sulla bassezza della sua ancella e così da questo momento tutte le nazioni mi chiameranno beata”. (Luca I, 46, 48). – Così, Maria occupa un posto unico: Madre del nostro Signore Gesù Cristo Redentore del mondo, in virtù del suo “fiat” associata, come nessun’altra creatura poteva esserlo, all’opera di Lui, novella Eva, Madre della vita nuova in perfetto contrasto con la prima Eva. Nessuna meraviglia che Iddio abbia in anticipo benedetto quell’anima, ornandola come nessun’altra mai fin dall’istante del suo concepimento. Di più, pel solo fatto di essere vera Madre di Cristo, il Figlio di Dio, Maria veniva immediatamente a trovarsi rispetto alla SS. Trinità in una posizione nuova che trascendeva quella di ogni altra creatura. Era la diletta, la eletta dal Padre, sua collaboratrice personale nell’opera dell’Incarnazione. Era la Madre dell’Unigenito Figlio di Dio, con tutto il diritto naturale di una madre al suo rispetto, al suo amore e, in terra, perfino alla sua obbedienza. Anzi, per quella intimità che unisce il figlio alla madre, essa aveva anche il diritto di condividere in tutto la sua sorte: le gioie di Lui eran gioie sue, e così pure i dolori; e quando venne la vittoria finale chi poté più di Lei parteciparvi? Inoltre, Ella era, in un modo affatto intimo e suo proprio, tempio vivo dello Spirito Santo come l’Angelo aveva predetto: “Lo Spirito Santo scenderà in te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra? (Luca I, 35). Era il suo santuario di elezione, la sua sposa; con Lui e in obbedienza a Lui, eppur nondimeno per spontanea e completa sua cooperazione, avrebbe adempiuto alla sua missione di Madre di Cristo e Madre degli uomini generandoli tutti in Dio. Né si pensi che questo sia solo un titolo vago e poetico. Maria ha un particolare diritto a esser chiamata Madre del genere umano, come noi abbiamo diritto di chiamarla così. Abbiamo visto in altra parte di questo stesso capitolo l’importanza e il significato di quel Corpo mistico di cui Gesù Cristo è il capo. Maria, essendo Madre di Lui, Madre di quel principio vitale che ha dato vita a tutto il Corpo mistico, è pure Madre di tutto quel corpo. In un senso reale sebbene mistico le membra vive di quel corpo posson considerarla loro madre; la Madre di Gesù Cristo secondo la carne diventa Madre secondo lo spirito di tutte le sue membra. E quasi a confermare e sanzionare personalmente questa interpretazione, quasi a incoraggiare i suoi discepoli a portarla alla sua conseguenza logica, Nostro Signore Gesù Cristo volle che ci rimanesse il ricordo di un episodio memorabile svoltosi sul Calvario. Nell’istante in cui, con la sua morte, stava per compiersi l’opera della Redenzione, in cui, secondo le leggi di natura, il cuore della Madre avrebbe dovuto spezzarsi con l’ultimo battito del cuore del Figlio ed Ella quindi avrebbe dovuto morire con Lui, Cristo sostò a contemplarla. Le mostrò il suo diletto discepolo Giovanni e le affidò in lui il resto dell’umanità dicendo: “Donna, ecco tuo figlio”. Con quel dono veniva a sostituire Giovanni a se stesso nel cuore della Madre. Volle che la tenerezza materna di Maria trovasse uno sbocco nel discepolo prediletto. “Ogni volta che avete fatto ciò al minimo fra questi miei lo avete fatto a me”. Similmente mostrò Maria a Giovanni e gli ordinò di esser per Lei un figlio, in vece sua. “Ecco tua Madre” disse; e “Da quel momento egli la prese con sé”. Da quel momento e in virtù di quella raccomandazione, ogni devoto discepolo del Figlio ha accolto la Madre nel proprio cuore. – È questa l’interpretazione autentica del racconto di San Giovanni. È giunta sino a noi, tramandata nei secoli fin dal tempo di Origene e prima ancora, e gli storici non si stancano di ripeterci le felici conseguenze che ne derivarono alla cristianità, la liberazione della donna e il rispetto assicuratole, la sconfitta della brutalità dei barbari, la fondazione e lo sviluppo della cavalleria, la stima della castità e con essa di tutta la legge morale, e anche la gioia e la speranza offerte ai poveri e agli oppressi. – In questi due titoli, Madre di Dio e Madre del genere umano, si fonda tutta la devozione del Cattolico alla Beata Vergine Maria. Essa è la seconda Eva come Cristo è il secondo Adamo; come la caduta avvenne per colpa di una donna, per una donna si compì la riparazione. Ella rimane unica; unita così al Figlio di Dio, Ella è immacolata, esente — come nessuno — da macchia di peccato, e Dio si compiace di onorarla come Madre; come Madre gli piace ch’Ella venga onorata da noi, e in qualità di Figlio si degna di accordarle ciò ch’Ella chiede, quando lo supplica a favore dei suoi innumerevoli figli. Il Cattolico deve farsi violenza per non dire di più. Ama Maria con una tenerezza di figlio; pensa. a Lei e ne canta le lodi con cuore di fanciullo. Fin dai suoi primissimi anni il nome di Lei è sulle sue labbra; Ella è sempre stata l’ispirazione della sua arte e della sua letteratura; tutto ciò che di più bello è nel Cristianesimo è venuto da Lei. E oggi anche il tugurio più misero e l’infimo strato della nostra vantata civiltà trovano l’unico sollievo e l’unica luce loro nella devozione alla Madonna. – È giusto dire che la miglior riprova di una religione sta nell’aiuto ch’essa fornisce ai poveri. Sotto quest’aspetto, quante delle nostre moderne architetture di sofismi si riducono al nulla! Ma così non è della Chiesa Cattolica: essa è dovunque per eccellenza la religione del povero. “Pauperes evangelizantur”; e questo è particolarmente vero della devozione alla Madonna. – L’ultimo anno della guerra mondiale, nel mese di maggio, in uno dei quartieri più poveri di una grande città nostra, una povera donna era inginocchiata dinanzi a una statua della Vergine. Suo figlio, l’unico suo sostegno, era al fronte. Con le lagrime agli occhi essa esclamava: “Madre di Dio, sii buona col mio figliolo, e io sarò buona col tuo!”. Non aggiungeremo che questo: più si apprezza e si ama il Figlio, più si apprezza e si ama la Madre, e l’esperienza ce lo dimostra chiaramente. Così, quanto più si ama la Madre, tanto più aumenterà la devozione per il Figlio, poiché è innanzi tutto a motivo di Lui che si onora Lei.

LA GRAZIA E LA GLORIA (43)

LA GRAZIA E LA GLORIA (43)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO PRIMO

Nozioni preliminari. Come l’adozione abbia solo in cielo il suo ultimo compimento.

Finora abbiamo studiato i figli adottivi di Dio nella loro intima natura e nella loro crescita. È giunto il momento di considerarli nella loro perfezione finale. Ora, è necessario sottolineare che, approcciandoci a queste considerazioni sulla gloria, non usciamo dal nostro argomento, cioè l’adozione dei figli. Il Battesimo ci ha conferito questo privilegio quando, dandoci la grazia con l’effusione dello Spirito Santo, ci ha incorporato a Gesù Cristo. Quando siamo usciti dalle acque rigeneranti, eravamo figli di Dio; eppure, in un senso molto reale, non lo eravamo, poiché anche dopo questo bagno vivificante ci è stato raccomandato di diventare: ut ſilii sitis Patris vestri (Matth. V, 45). Santificati da una vita cristiana, uniti nella divina Eucaristia da legami sempre più stretti con il Figlio di Dio, trasformati in Lui in modo che il Padre non possa né guardarci senza avere il suo Cristo in noi, né guardarlo senza vedere noi in Lui, nulla sembri più mancare alla verità della nostra adozione. No, questa filiazione, per quanto reale in sé, non è ancora completa. La prova di ciò si manifesta nelle Scritture e nei loro autorevoli commentari. « Avete ricevuto lo Spirito di adozione di figli in cui gridiamo: Abba, Padre; e lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio » (Rom. VIII, 15, 16). La dottrina di San Paolo è ben riconosciuta. Un’adozione fondata su un’affermazione così precisa potrebbe lasciare qualche dubbio? Ma ascoltate il seguito: « La creatura è nell’attesa: aspetta la rivelazione dei figli di Dio. Infatti, soggetta come è alla vanità, non volontariamente, ma a causa di colui che l’ha sottoposta, spera che lei stessa, come creatura, sarà liberata dalla corruzione, per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio. » – Forse non si tratta qui che d’una restaurazione di natura materiale, degradata come la stessa natura umana, in punizione per il peccato. Si potrebbe crederlo se l’Apostolo non continuasse in questi termini: « Sappiamo che ogni creatura geme fino a quest’ora e si affanna nelle doglie del parto. E non solo, ma pure noi stessi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo, aspettando l’adozione dei figli di Dio, la redenzione dei nostri corpi. In effetti, noi siamo stati salvati, ma solo nella speranza, anche se siamo stati salvati dall’acqua della rigenerazione » (Tt. III, 5); la nostra adozione totale rimane nella speranza come la salvezza stessa. – Inoltre, Gesù Cristo ci assicura che questa rigenerazione che ci viene così spesso proposta come effetto proprio dei battezzati, sia ancora da farsi. Ecco come si esprime, parlando della ricompensa promessa a coloro che hanno lasciato tutto per seguirlo: « In verità vi dico, voi che mi avete seguito, nel tempo della rigenerazione, quando il Figlio dell’uomo siederà sul trono della sua gloria, anche voi sarete su dodici troni, che rappresentano le dodici tribù d’Israele » (Mt XIX, 27, 28). – E non è solo sull’adozione e sulla rigenerazione che troviamo affermazioni apparentemente contraddittorie, ma anche, e forse più insistentemente, sui principi che le costituiscono e sugli effetti che ne derivano. Era incorporato a Cristo, questo Apostolo delle genti che ha chiesto la dissoluzione del suo corpo per essere con Cristo? (Fil. I, 22)? Sono uniti a Dio, coloro che, secondo lo stesso Apostolo, attaccati a dei corpi mortali, « camminano lontano dal Signore » (II Cor. V, 6). Che altro dire: un’anima, per quanto la si ritenga pura, è in senso completo un tempio vivente dello Spirito Santo, quando deve implorare la Sua venuta? I doni che costituiscono il figlio di Dio hanno raggiunto la loro misura definitiva, quando lo stesso Spirito è ancora in lui sotto forma di « pegno e deposito »? (II Cor., V, 5; Efes., I, 14).  La grazia, questo seme di Dio, ha attecchito, come dovrebbe, in un cuore che lotta dolorosamente contro il peccato, che a volte vi soccombe, sebbene lo Spirito Santo ci assicuri che chi la possiede « non pecca »? (I Joan. III, 9). Infine, per riassumere tutto in una parola, possediamo noi l’eredità dei figli, noi a cui il Padre appare ancora attraverso dei veli? Pertanto, è necessaria una conclusione: il figlio di Dio non ha ancora raggiunto la sua perfezione finale, non è completo. Il Complemento Supremo manca all’opera (Da notare qui una bella nota di S. Bernardo sulle prime parole dell’orazione domenicale: Pater noster qui es in coelis. « Fidelis sermo cujus ipsa primordis et divinæ adoptioniset terrenæ peregrinationes admoneant: ut hoc scientes quod, quamdiu non sumus in cœlo, peregrinamur a Domino, gemamus intra nosmetipsos, adoptiones filiorum expectantes, præsentiam utique Patris » Serm. De Aquæd. N. 1). Qual complemento, questo è ciò che ora dobbiamo spiegare!

2. – Ma, prima di entrare nel merito, voglio ricordare una bella dottrina di sant’Agostino che conferma quanto abbiamo detto innanzi.  I pelagiani, non contenti di pretendere che l’uomo nasca senza peccato originale, insistevano anche sul fatto che potesse arrivare sulla terra a quella perfezione di giustizia che esclude ogni colpa, anche minima. A supporto di quest’altra eresia, ricorrevano proprio al testo di San Giovanni a cui si è appena accennato. « Chi è nato da Dio non pecca, perché è nato da Dio ». – A questa incredibile pretesa, rinnovata ai nostri giorni dai fanatici del protestantesimo, il grande Dottore rispodeva: « Si ingannano coloro che non considerano che l’uomo sia figlio adottivo di Dio, nella misura che possiede la novità dello spirito, cioè è rinnovato nell’uomo interiore, ad immagine di Colui che lo ha creato » (Colos III, 10). Ora, uscire dalle acque battesimali non significa aver deposto tutte le infermità del vecchio uomo. Il rinnovamento inizia con la remissione dei peccati, con il gusto per le cose spirituali in coloro che già le possiedono. Tutto il resto è più o meno nella speranza, fino al pieno rinnovamento che avverrà con la risurrezione dei morti. Ecco perché Nostro Signore dà a questa il nome di rigenerazione, non perché sia una rigenerazione simile a quella che avviene nel Battesimo, ma perché completerà nel corpo ciò che è già iniziato nello spirito. Nel giorno della rigenerazione – egli dice – quando il Figlio dell’uomo siederà sul trono della sua maestà, anche voi siederete su dodici troni, a giudicare le dodici tribù d’Israele. – « Se infatti il frutto attuale del Battesimo, oltre alla piena e completa remissione dei peccati, fosse ancora un passaggio completo e perfetto alla novità eterna dell’uomo, non dico nel Corpo, troppo evidentemente dominato dall’antica corruzione; ma nell’anima, nell’uomo interiore, l’Apostolo non direbbe: … Anche se il nostro uomo esteriore tende alla rovina, l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno (II Cor. IV, 16). Certamente, chi si rinnova continuamente giorno per giorno, non è del tutto nuovo; e nella misura in cui non si rinnova, appartiene alla vetustà: figlio del secolo per l’obsolescenza che rimane; figlio di Dio per la novità di cui è rivestito… Ecco perché l’Apostolo dice in un altro luogo: … sappiamo che ogni creatura geme e soffre come nel travaglio del parto. E anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo in noi stessi, aspettando l’adozione a figli di Dio, la liberazione del nostro corpo, ed infatti siamo ancora salvati solo nella speranza (Rom. VIII, 22, 24)… Dunque la piena adozione dei figli sarà consumata dalla liberazione del nostro corpo. – « È vero, noi abbiamo ora le primizie dello Spirito, ed ecco perché noi siamo realmente figli di Dio, ma per il resto, laddove siamo salvati e rinnovati solo nella speranza, non siamo ancora né salvati né rinnovati, siamo anche figli di Dio nella speranza, e di fatto figli del secolo. Perciò, man mano che avanziamo in questa giustizia e in questo rinnovamento che ci rende figli di Dio, noi non possiamo peccare; ma dal momento che siamo figli del secolo, noi possiamo ancora peccare, fino al giorno in cui non sarà avvenuta la trasformazione. E così si accordano queste due verità apparentemente inconciliabili: chi è nato da Dio non pecca; e: … se diciamo di non avere peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi (1 Giovanni I, 10; III, 2). « Così verrà anche il giorno in cui ciò che resta in noi del figlio della carne e del secolo, sarà pienamente consumato nel giorno in cui sarà perfetto ciò che è del figlio di Dio, rinnovato nello spirito. Perciò lo stesso Giovanni dice altrove: « Miei diletti, ora siamo figli di Dio ma ciò che saremo non è ancora manifesto ». Che cosa significano queste parole: noi siamo e noi saremo, se non che noi siamo in speranza e che noi saremo nella realtà? Infatti aggiunge: « Sappiamo che nel giorno della sua manifestazione saremo simili a Lui, perché lo vedremo come Egli è in se stesso » (1 Giovanni III, 2); ora, dunque, le primizie dello Spirito hanno abbozzato la somiglianza; ma la dissomiglianza rimane ancora nei resti della nostra vetustà. Figli di Dio per rigenerazione spirituale e nella misura della nostra somiglianza, non possiamo peccare; figli della carne e del mondo nella proporzione della nostra dissomiglianza, se ci lusinghiamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi; e questo, fino al giorno benedetto in cui, avendo l’adozione preso possesso di tutto il nostro essere, il peccatore svanirà a tal punto in noi (Sal. XXXVI, 10), che si cercherà il suo posto e non lo si troverà più » (S. August, de Peccat. merit. et remiss., L. II, n. 9 e 10). Questo testo è molto lungo, lo confesso, ma contiene una spiegazione così chiara di ciò che manca ai giusti della terra per essere nella pienezza della loro adozione, che non ho pensato di poterlo omettere, e nemmeno abbreviare. – Possiamo quindi distinguere tre gradi nella filiazione adottiva. Nella prima c’è l’adozione che spettava ai giusti che erano soggetti alla legge mosaica e, più in generale, a tutti i Santi che vivevano prima della Redenzione attraverso Gesù Cristo, Nostro Signore: adozione vera, ma iniziale, le cui principali imperfezioni abbiamo descritto altrove (L. IV, c. 6). Al secondo grado, c’è la filiazione più completa, appannaggio dei fedeli che appartengono alla legge del Vangelo. Nel terzo e supremo grado, troviamo la filiazione che non è più della terra ma del cielo. I figli di adozione, nella misura in cui facevano parte dell’Antico Testamento, erano per quelli della legge di grazia in rapporto di un servitore rispetto al figlio di casa (Galati IV, 5, 6, 24, 27; Romani VIII, 15 ss.). I figli, che camminano ancora sulla via, ma governati e vivificati dalla nuova Economia, sono rispetto agli abitanti gloriosi della patria, quello che un bambino appena uscito dalle fasce, è nei confronti dell’uomo perfetto. (I Cor. XIII, 12, 13). Non basta aver dimostrato la necessità di un complemento per la consumazione finale dei figli adottivi di Dio. Ci resta da dire quali perfezioni comporti; e poiché il figlio di Dio che siamo è sia spirituale che corporale, tratteremo in seguito le perfezioni che gli sono promesse e che lo attendono da questo duplice punto di vista.

LA GRAZIA E LA GLORIA (44)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (6)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (6)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO II

LA VITA IN GESÙ CRISTO

2. – Applicazione.

Accettata questa dottrina come una verità viva, è logico ch’essa influisca su tutta la nostra concezione della vita. Vero è che abbiamo esposto un ideale, e non a tutti è dato di realizzare l’ideale; tuttavia, anche per l’essere più meschino che pure ancora crede la luce è lì che splende e gli illumina il cammino. Quando tutto intorno è grigio e desolato egli trova anche sulla terra uno scopo alla vita, ed è cosa assai più preziosa di quanto di meglio il mondo possa mai offrire. In grazia di questo ideale tutte le cose di quaggiù acquistan nuovo valore e nuove proporzioni, e il mondo stesso appare in una prospettiva affatto diversa. E s’illuminano di luce nuova gli articoli della fede cristiana che alcuni credono di avvilire chiamandoli dogmi, e la ragione trova un altro punto di partenza, maggiori argomenti e orizzonti nuovi che da sé sola non avrebbe mai potuto scoprire. –  Prendiamo ad esempio un punto fra i tanti: che cosa intende il cattolico per vita sacramentale. Per chi crede nella presenza di Gesù Cristo i sacramenti sono assai più di quanto appare dal loro rito esteriore. Sono l’innesto nel corpo, sono le articolazioni delle membra, sono le vene per le quali il sangue di Cristo circola in ogni parte dell’organismo. Siccome Egli stesso li ha istituiti e ha conferito loro efficacia, per essi si inizia il movimento di quella vita che la loro azione successiva alimenta ed accresce. Così, l’importanza del Battesimo determina in certo modo quella dei sacramenti che lo seguono. Per virtù sua propria, secondo la promessa di Cristo e senza alcun merito nostro, esso ci inserisce nel corpo e nella vita di Lui, e l’azione degli altri sacramenti, indipendentemente da noi, per virtù propria accresce in noi quella medesima vita. Ciò è vero soprattutto della Santa Eucarestia, quello che il Cattolico devotamente chiama il Santissimo Sacramento e che è il cibo per la vita dell’anima. Ma la vita ch’esso viene ad alimentare altro non è che la vita di Cristo presente in noi, e quella non può esser nutrita se non dal Cristo vivo che viene a noi. Non occorrono incitamenti al cattolico perché sia devoto dell’Eucaristia. È la sua gloria, il pegno  dell’amore di Dio, l’alimento quotidiano di quella sua vita soprannaturale che gli è assai più cara della stessa vita materiale. È la visita dall’amico per eccellenza che penetra nel suo cuore, o meglio, lo attira in un Cuore che ama come nessun altro sa amare. Come potrebbe il Cattolico non desiderare ardentemente che anche altri conoscano questa Via, questa Verità, questa Vita e di essa come lui si glorino? –  Ma non sono i sacramenti l’unico mezzo con cui si accresce in noi la vita di Cristo. Ogni atto meritorio che compiamo, dopo essere stati per il Battesimo uniti a Cristo, ci ottiene un aumento di vita divina e ci unisce a Lui ancor più intimamente. E così è soprattutto se viviamo, ci muoviamo, operiamo in unione con Lui, quando ci lasciamo guidare da Lui, quando aspettiamo da Lui l’impulso vitale che ci occorre, quando lo invitiamo a vivere in noi e a operare per mezzo nostro, non secondo la nostra ma secondo la sua volontà. Allora noi siamo davvero membra sue, tralci della vite resi fecondi dalla sua stessa linfa vitale. Quando la sua volontà si compie in noi e per noi, allora Egli vive davvero in noi in modo reale, e noi lo esperimentiamo sempre meglio, a ciascun atto che compiamo in unione con Lui. “Colui che dimora in me e nel quale io dimoro porta abbondanti frutti”. (Giov. XV, 5). Questo è quindi pel Cattolico nella vita pratica, come conseguenza della abitazione di Cristo in lui, il secondo ideale che si sforza di raggiungere. E proponendosi di coltivare sempre più la sua unione col Cristo vivo, egli sa di perseguire lo scopo essenziale della sua esistenza. Darà a Dio la lode, la reverenza, il servizio che gli deve, e con ciò farà in questo mondo e nell’altro l’essere perfetto che Dio vuole egli sia. Non lascerà passare nessuna giornata senza offrirla al suo Dio in unione a Cristo che vive in lui. Nell’alzarsi al mattino vorrà subito unirsi a Cristo e con Lui offrirsi al Padre per fare la sua volontà. “Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra” è l’offerta mattutina di ogni vero Cristiano. E nel resto della sua preghiera il Cristo gli sarà ancora modello e ispirazione. Se fa meditazione, cerca una guida nel suo Maestro, studia la verità e la virtù e gli ideali di tutta l’umanità come in Lui si manifestano, a Lui chiede luce per poter vedere il meglio e forza per eseguirlo. E se vuole di più, la santa Messa è ogni giorno a sua disposizione. Assistervi quotidianamente non è per lui una singolarità né un eccesso di devozione: è cosa naturale per chi crede che Gesù Cristo suo Signore è morto per lui, che la sua immolazione si rinnova ogni giorno sull’altare e che, inginocchiato dinanzi alla croce che lo sovrasta, egli può meglio associarsi a quel sacrificio d’amore e ottenere il perdono dei suoi peccati e la grazia e la provvidenza di Dio per sé e per tutti. Né egli si contenta della Messa quotidiana. Sa che gli è possibile, se vuole, anche la Comunione quotidiana; e si contano a migliaia, grazie a Dio, anche solo in Inghilterra, coloro che di tale possibilità approfittano. Così iniziano la giornata con la Comunione, cantando il loro Magnificat, e rinnovano col loro Signore e Maestro quel patto di unione che vorranno mantenere ad ogni costo. Nella Comunione si svolge la prima conversazione della loro giornata con Colui il cui orecchio è sempre disposto ad ascoltarli, e gli espongono i loro bisogni non solo, ma anche quelli di tutti gli uomini, della Chiesa intera. E si partono dall’altare con una luce nuova negli occhi, e nel cuore quella calma, quella pace che il mondo non può dare né può togliere. – Come potrà un giorno iniziato così essere un giorno sprecato o soltanto futile? Come potrà una nazione, in cui ciò si verifichi quotidianamente, non essere benedetta agli occhi di Dio e degli uomini? Così vorrà dunque il Cattolico fervente dar principio alla sua giornata, se non sempre di fatto almeno in ispirito, e quand’anche la pratica della Messa e Comunione quotidiana non gli sia abituale né  possibile, per lo meno non la troverà strana negli altri. E così preparato, si avvierà al lavoro. Anche l’umile contadino può sapere non solo che Cristo fu Egli operaio, ma ch’Egli stesso oggi lavora in lui. Può rammentare a se stesso che nell’attendere a qualsiasi occupazione egli fatica in unione con Cristo quale membro attivo del corpo di Lui, per il bene di tutti. Può mangiare, bere, riposare, sapendo che anche Cristo conobbe e soddisfece la fame, la sete. la stanchezza, e prese il necessario riposo qualche volta in luogo deserto e appartato, qualche volta presso i suoi amici; e quanto fece allora fa adesso in coloro che sono membra attive del suo corpo. Durante il giorno possiamo vedere in ogni Chiesa e ad ogni ora, quasi dappertutto e come cosa naturale, il Cattolico che entra a visitare il suo grande amico per intrattenersi con Lui sia pur brevi istanti e rinnovare con Lui l’intesa reciproca. Le parole: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed oppressi e io vi ristorerò” hanno per lui un significato pratico nella vita d’ogni giorno; e nell’ora del bisogno non dimentica Colui che “può salvare perfettamente coloro che per via di Lui si accostano a Dio, sempre essendo da poter intercedere in loro favore. “Ebr. VII, 25). –  E se l’unione con Cristo determina ed orienta così l’anima e l’atteggiamento dei Cattolici per quel che riguarda il ritmo ordinario della vita privata, altrettanto farà dei loro rapporti col prossimo. Anche senza rendersene conto esplicitamente, il Cattolico non potrà mai dimenticare che Nostro Signore Gesù Cristo vive in tutti gli uomini o almeno desidera di vivervi, e che tutti come lui sono chiamati a esser membri di quel Corpo mistico che è Cristo al quale egli appartiene. Da questo pensiero fa derivare la propria concezione dell’autorità e il proprio atteggiamento verso di essa. Non dimentica che per legittima autorità il Maestro disse: « Chi ascolta voi ascolta me, e chi disprezza voi disprezza me » (Luca X, 16) e che anche di un’autorità indegna della sua fiducia poté dire: “Sulla cattedra di Mosè stan seduti gli Scribi e i Farisei. Fate dunque e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non imitate le loro opere » (Matt. XXIII, 3). Perciò, quando obbedisce a un padrone legittimo che gli comanda un qualsiasi atto lecito, egli sa di obbedire a Cristo stesso; ma se il comando impone cosa illecita, e viene a violare una legge più alta, allora egli resisterà anche a costo della vita. Il Cattolico sa pure che per la pratica dell’obbedienza egli si fa più simile a Colui la vita del quale si può sintetizzare in questa semplice affermazione: “stava loro soggetto” e del quale si può raccontare la storia con queste altre parole: “fatto obbediente fino alla morte”. Analogamente, per quel che riguarda i suoi simili, egli sostiene e segue un principio che non è nuovo ma che, in sostanza ha trasformato il mondo e ha fondato la nostra civiltà e al quale oggi ci richiamiamo davanti alla instabilità di tutte le basi della nostra società. “In verità vi dico, tutte le volte che avete fatto qualche cosa a uno di questi minimi tra i miei fratelli l’avete fatto a me», (Matt. XXV, 40). – Non dimentichiamo che, come già abbiamo osservato, in questa espressione ripetuta sotto varie forme dal fondatore del Cristianesimo, sta la chiave di tutta la nostra interpretazione della vita sociale. Il Cattolico ha imparato attraverso i secoli a riconoscere nel minimo dei fratelli il suo Signore e Maestro, il suo Cristo, a servir Lui in loro, ad amarli come ama se stesso, anzi di più, ad amarli com’egli è amato da Cristo. Ricorda San Paolo che intercede per Onesimo, lo schiavo fuggitivo, presso il padrone di lui Filemone, e trova facile, anzi più che naturale, accettar la dottrina che fra gli uomini non c’è né schiavo né padrone. Il padrone stesso addolcirà il suo comando nel ricordare che il suo servo è per lui come Cristo Signor nostro “colui che serve”. Non potrà più l’eguale proporsi di superare o di schiacciare il suo eguale, perché esso è per lui al posto di Cristo. Con questi principî il Cristianesimo è sempre stato una religione di aiuto reciproco, e il presente lo attesta dovunque non meno del passato. Se il Cristianesimo, se la Chiesa Cattolica si sviluppa, la carità in azione progredirà di pari passo; soffocatela, e la carità andrà decadendo. È una realtà che il governo inglese conosce bene e di cui si vale in paesi nei quali senza l’aiuto della Chiesa poco o nulla potrebbe fare. – E guardando oltre l’ambito del Cristianesimo, considerando in patria o all’estero coloro pei quali Cristo è nulla, il vero seguace di Cristo sa che non per questo essi sono esclusi dall’incommensurabile amore di Lui. Per quanto colpevoli siano, per quanto lo disprezzino e l’oltraggino, pure proprio per essi Cristo implorò: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Sebbene essi lo sfuggano, convinti — perché così fu loro insegnato — che Cristo sia un falso maestro, una minaccia alla loro libertà e ai loro diritti, un prevaricatore da doversi evitare e combattere e possibilmente sconfiggere con tutti i suoi seguaci, pure Egli li insegue col suo amore e non li lascerà finché vivranno. Cristo vorrebbe incorporare a Sé anche loro, vorrebbe accogliere ancor loro nel suo ovile. “Ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche quelle bisogna che io conduca”. Nei riguardi loro il vero discepolo di Cristo vorrà pensare e comportarsi come Lui, e come Lui adoperarsi a loro vantaggio. Sa che Cristo, Re di tutte le creature, il cui regno ricopre la terra intera, i cui diritti sono assoluti, chiede anche in questo la collaborazione dell’uomo, per restaurare in Sé tutte le cose e riunire tutti quanti in Sé; e il Cattolico si offrirà a questo nobile compito con la preghiera, con la parola, con l’azione, con l’esempio e, se chiamato, anche con la dedizione di tutto se stesso. Credendo tutto ciò che crede di Cristo e del suo Corpo mistico e desiderando di condurvi tutti gli uomini, ogni Cattolico, se sincero e coerente, deve di necessità essere apostolo. “La vostra luce risplenda dinanzi agli uomini in modo tale che, vedendo le vostre opere buone, dian gloria al Padre vostro che è nei cieli”. (Matt. V, 16). E da ultimo, con Gesù Cristo è entrato nel mondo anche nei rapporti coi nostri nemici uno spirito affatto nuovo. Aristotile, come risulta dalla sua Etica, aveva dell’uomo un alto concetto, ma di fronte all’ingiuria e all’insulto non sapeva concepire altra nobiltà che nella giustizia quale egli l’intendeva e nella vendetta.  Anche il Vecchio Testamento domandava “occhio per occhio, dente per dente”. Gesù Cristo propone un’altra misura. « Avete sentito che è stato detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Io invece dico a voi: “Amate i vostri. nemici, fate del bene a chi vi odia, e pregate per quelli che vi perseguitano e vi calunniano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli il quale fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se voi amate coloro che vi amano, qual ricompensa meritate? Non fanno forse altrettanto anche i pubblicani? E se voi salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno forse altrettanto anche i Gentili? Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli » (Matt. V, 43, 48). – Fu e rimane ancor oggi lezione difficile per la natura umana, ma appunto per questo forse Cristo non si stancò di ripeterla. E col tempo l’uomo ha compreso. Fu l’ultima lezione che gli Apostoli riuscirono ad afferrare, sebbene impartita loro fin dal principio, e una volta assimilata fu la lezione più importante che dovettero insegnare agli altri. In ciò solo il mondo ha trovato una nuova luce e una nuova vita “per Gesù Cristo”. “E lapidarono Stefano mentr’egli invocava Gesù e diceva: “Signore Gesù, ricevi lo spirito mio”. Poi, caduto ginocchioni, gridò a gran voce: “Signore, non imputar loro questo peccato”. E, detto questo, “si addormentò nel Signore”. (Atti VII, 58, 59). – San Paolo e San Pietro non si scostano da questa lezione. “Non lasciarti vincer dal male, ma vinci nel bene il male ». (Rom, XII, 21). “Poichè è una grazia se per riguardo a Dio uno sopporta molestie soffrendo ingiustamente. Infatti, quale gloria c’è quando si soffre perché si è peccato e si è puniti? Ma se vi tocca patire quando fate del bene, e voi lo sopportate pazientemente, codesta è grazia presso Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo ha sofferto per noi, lasciando a voi l’esempio, affinché seguiate le sue orme. Egli non fece mai peccato e mai sul labbro di lui fu trovato inganno. Maledetto, non malediceva; soffrendo, non minacciava, anzi si rimetteva nelle mani di chi ingiustamente lo giudicava. Egli stesso ha portato i nostri peccati sul suo corpo, sul legno, affinché morti al peccato viviamo per la giustizia, risanati dalle sue piaghe. Infatti, eravate come pecore erranti, ma ora siete ritornati al pastore e vescovo delle anime vostre”. (I Pietr. II, 19, 25). E tutto ciò San Paolo riassume nella sua definizione pratica e indimenticabile della carità cristiana, superiore a quante ne siano state date prima di lui: “La carità è longanime, è benigna; la carità non ha invidia, non agisce invano, non si gonfia, non è ambiziosa, non è egoista, non si irrita, non pensa il male, non si compiace dell’ingiustizia, ma gode della verità; soffre ogni cosa, ogni cosa crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non mai vien meno”. (I Cor. XIII, 4, 8). Ecco quello che possiamo chiamare il programma d’azione del Cattolico il quale considera la sua fede né più né meno come l’incorporazione al Corpo mistico di Cristo nostro Signore. La sua vita è la vita di Cristo stesso. “Per me vivere è Cristo e morire è un guadagno”. (Filipp. I, 21). Il suo ideale è riprodurre Cristo, farlo vivere in sé. “Vivo, non più io, ma vive in me Cristo”. (Gal. II, 20). Avendo coscienza di questa incorporazione, e della propria dignità di vero figlio adottivo di Dio che ne è la conseguenza, nulla è difficile. Egli ha nuove prospettive, ormai: il suo orizzonte si allarga oltre i confini di questo mondo. Ogni cosa di quaggiù perde valore in se stessa e solo conserva quello di mezzo ad un fine più alto, di mezzo con cui dar prova di amore e di fedeltà al Signore. Perché questo amore si sviluppi deve necessariamente esercitarsi, e trova il suo oggetto nel prossimo che Cristo pure ama. Così ogni relazione coi nostri simili assume un significato nuovo. Amarli come membri del Corpo di Cristo è amar Cristo stesso, render loro servigio è renderlo a Lui, e noi sappiamo benissimo che ne saremo ripagati il centuplo con un aumento di amore, qualunque sia quaggiù il nostro destino visibile. – E amar Dio e il prossimo così, ecco l’adempimento della legge, ecco la perfezione dell’uomo anche secondo i canoni di questo mondo. Non è questo l’ideale di tutti, ché anzi, ad alcuni, potrà apparire strano ed irrealizzabile, ma precisamente questo fu insegnato da Colui che è la stessa verità e che nel magistero di essa non ha eguali né simili; è l’ideale che per diciannove secoli milioni di anime hanno vissuto e che ancor oggi differenzia la civiltà cristiana da tutte le altre. Milioni di anime lo vivon tuttora, e anche a coloro che trovano la sua perfezione troppo alta per creature imperfette quali noi siamo, a noi stessi, quest’ideale appare come luce radiosa se pur lontana, avvicinarsi alla quale è indice sicuro di progresso, ideale superiore ad ogni altro che mai sia stato immaginato per noi e per tutto il genere umano. Quando dunque io mi chiedo che cosa è la mia Chiesa, mi sento subito come assorbito in un centro più grande, come una pietra nell’edificio, come il ramo nel suo albero, come il membro nel corpo. La mia Chiesa rappresenta per me assai più di quanto io non rappresenti a me stesso; essa ha più di me pienezza di vita, e io non vivo che come parte di lei. Tanto è vero che i suoi pensieri e i suoi ideali sono i miei, la meta ch’essa si propone diventa la mia meta; in senso proprio e per me affatto naturale, io vivo, ma non più io: essa vive in me. Come la mia mano non si considera minimamente, ma considera soltanto me cui essa appartiene, non avendo alcuna vita di per sé ma solo quella che le viene dalla mia persona viva, così io come Cattolico posso non considerarmi affatto, ma solo considerare il corpo al quale appartengo e vivere non per mio conto, ma solo in quanto attingo vita da lui che vive indipendentemente da me e che in me fa scorrere il suo principio vitale. Nella Chiesa io vivo e mi muovo e ho l’esser mio; e tutto ciò è diventato così naturale per me che non posso più pensarmi, isolato, che come un atomo sperduto, membro distaccato e inanimato nel quale non è vera vita. La mia vita è la sua, il mio essere è il suo, ad essa vanno il mio amore e il mio servizio, allo stesso modo che a me spetta tutta la docilità, tutto il servizio della mia mano. Essa è l’organismo vivo. io non sono che uno dei suoi organi; essa il corpo, io solo un membro; essa è il tutto vivente, io solo una Parte; essa la sposa di Cristo, io null’altro che uno dei suoi lineamenti. E io posso venerare così la mia Chiesa e aderire a lei così, perché so che il suo spirito è lo spirito di Cristo stesso. Egli abita in lei come nel suo proprio Corpo; essa è risorta con Lui dalla tomba e perciò non può più morire: la morte non ha più su di lei alcun potere. Con essa e per essa, e perciò “in Cristo Gesù” sono anch’io risorto da morte, sono ripieno del suo spirito, sono non più l’io naturale e inanimato, ma un membro di Lui, e quando il mio corpo morrà, allora conoscerò che cosa è vivere. Ora vedo come in uno specchio e in maniera oscura, allora vedrò a faccia a faccia. Egli è il capo vivo e reale di questo corpo vivo e reale, e io sono membro, parte di quel medesimo corpo che è il corpo di Cristo, — tanto la Chiesa Cattolica è viva, feconda e intimamente unita ai suoi veri membri, tanto, per essa, ì suoi membri sono uniti a Cristo nostro Signore.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (7)

LA GRAZIA E LA GLORIA (42)

LA GRAZIA E LA GLORIA (42)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VIII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. — I SACREMENTI, E SPECIALMENTE L’EUCARISTIA, SECONDO MEZZO DI CRESCITA.

CAPITOLO IV

In cui si mostra come l’Eucaristia, per la natura stessa del suo frutto, sia l’agente più efficace della nostra crescita spirituale, e in qual misura la operi.

1. – Non è senza un disegno che io abbia sviluppato così a lungo, forse troppo a lungo se ci atteniamo alle apparenze, i principali effetti della Santa Eucaristia. Era necessario esporli, per così dire, davanti agli occhi del lettore per mostrare che esso è, in modo eccellente per i figli di Dio, il Sacramento della crescita. Partiamo dal presupposto che, per ricevere questo nutrimento divino con frutto, bisogna avere regolarmente la grazia di Dio nel cuore (Un gran numero di teologi di ogni scuola, e dei più gravi, insegnano che, in alcuni casi particolari, si può, accostandosi alla sacra mensa con una colpa mortale che non sarebbe stata né accusata né perdonata, non solo non è peccare, – cosa su cui tutti sono d’accordo – ma anche si riceve la Comunione con frutto. Ma perché ciò avvenga, sono assolutamente necessarie due condizioni. In primo luogo, il colpevole non deve essere consapevole del suo peccato, perché se ne fosse consapevole dovrebbe innanzitutto presentarsi al Sacerdote per ricevere l’assoluzione. In secondo luogo, nel cuore non deve esserci nulla che si opponga al recupero della grazia, e di conseguenza nessun attaccamento al peccato commesso, poiché senza pentimento e senza un proposito è impossibile riconciliarsi con Dio. Quando queste due condizioni sono soddisfatte, l’Eucaristia produce i suoi effetti di grazia, cosicché chi l’ha ricevuta da peccatore torna ad essere quello che in buona fede avrebbe dovuto essere: un figlio e un amico di Dio. Essi sostengono questa opinione con autorità così forti e ragioni così convincenti che non ho alcuna esitazione ad essere del loro avviso). Prenderla consapevolmente e volontariamente con una di quelle colpe che ci renderebbero sacrileghi nemici di Dio, sarebbe un attacco sacrilego al corpo e al sangue di Gesù Cristo. Le ragioni di ciò, per non parlare del costante insegnamento della Chiesa, sono evidenti e numerose. Ricevere la Comunione significa mangiare. E mangiare è l’atto di un essere vivente. Vivete della vita spirituale e divina, prendete questo pane della vita, mangiatelo: è per voi, è vostro. Ma se voi siete morti, che diritto avete di avvicinarvi ad una tavola imbandita solo per i vivi, e che potere avete di ricevere e assimilare il suo cibo celeste? – Ricevere la Comunione significa agire da amico. Ascoltate coloro che la Sapienza chiama al banchetto: « Amici miei, mangiate e bevete, inebriatevi, miei diletti » (Cant. V., 1). Chi sono coloro che Gesù Cristo ha invitato per la prima volta al banchetto dell’Eucaristia? Gli Apostoli ai quali aveva appena detto: « Voi siete miei amici, ed è con questo nome che voglio chiamarvi » (Gv. XV, 14-15); gli Apostoli ai quali Egli aveva lavato i piedi, per insegnare loro la purezza di cuore che chiede ai suoi commensali. Il figliol prodigo che torna dai suoi lunghi errori non si siede al banchetto preparato per celebrare la gioia del suo ritorno, se non prima di aver ricevuto il bacio paterno ed aver scambiato la sua sordida veste con quella che indossava prima. Ricevere la Comunione significa prendere, sotto le sfumature appropriate al nostro stato di prova, il cibo divino, oggetto e fonte della beatitudine eterna. Ora alla cena beata delle nozze dell’Agnello non ci sarà posto per « cani, avvelenatori, fornicatori, assassini, idolatri, per chiunque ami e pratichi la menzogna » (Apoc. XXI, 8; XXII, 15). – Infine, ricevere la Comunione significa affermare che si appartiene a Cristo; diciamo di più, che si è, in una certa misura, Cristo stesso. « I fedeli conoscono il corpo di Cristo, se essi non dimenticano di essere del Corpo del Cristo. I fedeli conoscono il corpo di Cristo, se non trascurano di essere del corpo di Cristo. Che diventino il corpo di Cristo, se pretendono di vivere dello Spirito di Cristo: perché nulla vive dello Spirito di Cristo, se non il corpo di Cristo » (S. August., Tract. XXXVII in Joan. N. 13). Così parla Sant’Agostino. E altrove: « Chi mangia a questa tavola è tenuto ad essere ciò che viene a mangiare » (Sant’Agostino nel Salmo XLVIII, Serm. 1 n. 3). È per farci comprendere questa bella dottrina che il Salvatore, prima di dare il suo corpo ai suoi discepoli, se ne è nutrito per primo; e che, prima di distribuire il suo calice, vi intinse le sue divine labbra. Il corpo e il sangue di Gesù Cristo, che appartengono solo a Lui, abbiamo il diritto di prenderli solo a condizione di essere incorporati alla sua Persona mistica. Che cos’è il Cristiano che fa la Comunione? Un dio che si nutre di Dio (anche Giovanni Crisostomo parla della Comunione del Salvatore). La ragione che egli adduce, sebbene diversa, non ne è però contraria. « Egli non voleva che gli Apostoli lo sentissero dire: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue; mangiate e bevete, e che fossero perciò turbati e pensassero: E che, mangeremo della carne e berremo del sangue? Perciò Egli stesso fu il primo a compiere ciò che li esortava a fare. Affinché potessero partecipare ai misteri con animo tranquillo, Egli stesso bevve il proprio sangue » – Homil. 82, al. 83 in Matth, n. 1. P. Gr., t. 5, p. 58, 79).

2. – Qual conclusione dobbiamo trarre da questo? Lo stesso che stiamo perseguendo dall’inizio della nostra meditazione sulla Santa Eucaristia. Poiché l’Eucaristia presuppone tutto ciò che fa lo stato di grazia e che tuttavia essa produce, ed è per questo che viene istituita non per introdurla nell’anima, ma per darle sviluppo e crescita. Quelle cose grandi e sublimi che si trovano nel profondo di ogni anima fedele, la grazia santificante, la carità con il suo corteo di virtù, l’unione più intima con Dio, l’immagine del Figlio eterno del Padre, la vita soprannaturale, in una parola: tutto questo, dico, attende dall’Eucarestia il suo complemento e la sua pienezza. Spetta all’Eucaristia farci passare con un continuo progresso dalle debolezze e dalle imperfezioni dell’infanzia spirituale alla maturità dei figli di adozione. Questa è la sua funzione propria, il suo privilegio e, per così dire, il suo destino, in quell’insieme incomparabile di mezzi di santificazione che sono chiamati i Sacramenti della Nuova Alleanza. – La teologia non si accontenta di affermarlo, fondandosi sulla Sacra Scrittura, sui Padri e sui Concili. Per rendere più evidente questa verità per contrasto, confronta il frutto del sacramento dell’altare con quello degli altri sacramenti. Questo frutto differisce dall’effetto del Battesimo: infatti il Battesimo ha come fine diretto non quello di farci crescere nella grazia, ma di darci una nascita spirituale, né quello di stringere i legami che ci incorporano a Cristo, ma di crearli. Non dico che se il catecumeno è già giustificato dalla carità perfetta, il Battesimo non operi in lui l’aumento della grazia in proporzione alla sua disposizione; affermo solo che il motivo determinante dell’istituzione del Battesimo non è stato quello di farne un sacramento di crescita ma di rigenerazione. Ecco perché nessuno può diventare figlio di Dio, per quanto perfetta sia la sua disposizione, senza aver fatto almeno il voto del Battesimo, e come il Battesimo stesso sia necessario per entrare nella partecipazione dei beni affidati alla nostra madre, la Santa Chiesa. San Tommaso riassume questa dottrina in poche parole: « La ricezione del Battesimo è necessaria per iniziare la vita spirituale; l’Eucaristia, per perfezionarla e consumarla. » – Sembrerebbe, a prima vista, che il contrasto non sia più lo stesso, quando si confronta la Confermazione e l’Eucaristia insieme. L’effetto della Confermazione non è forse come il passaggio dall’infanzia spirituale alla maturità dell’uomo fatto? È questa che, prendendo il bambino appena nato dalle acque del Battesimo, gli infonde quel vigore che si addice al soldato della fede. Quel che fa il progresso dell’età nell’ordine della natura per la formazione dell’essere umano la Confermazione lo fa nell’ordine soprannaturale per la perfezione del nostro essere di grazia. Attraverso di essa noi raggiungiamo lo sviluppo della forza e della vita che contraddistingue la maggiore età. Questo bambino di pochi anni, una volta cresimato, non è più un bambino nella sua anima e davanti a Dio: è un uomo (vir), ufficialmente arruolato nell’esercito di Cristo e consacrato a combattere le battaglie della fede. Questo, se non mi sbaglio, è il frutto proprio della Confermazione. – Ma per quanto possa sembrare simile a quella prodotta dalla Comunione, c’è comunque una grande differenza tra la crescita di cui i due sacramenti sono il principio. Infatti, dice San Tommaso d’Aquino, « la Confermazione aumenta la grazia in noi, in modo da rafforzarci contro i nemici esterni di Cristo; mentre nell’Eucaristia, l’aumento della grazia e della vita spirituale tende a rendere l’uomo perfetto in se stesso mediante un’unione sempre più stretta con Dio » (S. Thom. 3. P.; 4. 79, a. 1, ad 1.). E questa differenza si rivela anche nel modo di ricevere i due sacramenti. La Cresima viene data una sola volta, come il Battesimo, perché non si tende all’infinito verso la virilità. L’Eucaristia, invece, può essere l’alimento di tutti i giorni intimo tra l’uomo e la bontà divina, che può essere interrotta solo alla fine del cammino, cioè alla morte. Di per sé questi effetti non hanno limiti oltre i quali non possano essere perfezionati o estesi. – Passate in rassegna tutti gli altri sacramenti e non ne troverete uno che sia solo e direttamente un principio di crescita e che tenda a questo come a un fine proprio. Il sacramento della Penitenza restituisce la grazia o la aumenta, ma a scopo di riparazione: è il rimedio divinamente istituito per richiamare in vita i morti spirituali e per perdonare le colpe ai colpevoli. Essa presuppone il peccato nel Cristiano; così che chi, per un privilegio specialissimo, non ha macchiato con alcuna colpa il candore immacolato del suo Battesimo, pur potendo crescere nella grazia, non potrebbe chiedere la perfezione nella Penitenza. Non più di questa, l’Unzione dei morenti non è ordinata direttamente alla crescita dell’uomo interiore. Dio ce l’ha data come rimedio supremo contro le infermità e la debilità spirituale, gli sfortunati resti del peccato. Ma, poiché è la grazia a fortificarci contro queste debolezze, essa ce la conferisce e attraverso di essa rimette il peccato, se nulla si oppone al perdono (S. Thom. Q. 30, a.2). Da ciò risulta evidente che l’effetto dell’Estrema Unzione è ben diverso da quello dell’Eucaristia. – Finora ho parlato solo di quei sacramenti che riguardano il bene individuale dei Cristiani; ma ciò che ho detto di essi si applica ai due Sacramenti che per loro natura riguardano la vita sociale, i Sacramenti dell’Ordine e del Matrimonio. Quest’ultimo, infatti, riversa su di loro la grazia, affinché la loro alleanza sia fedele e santa, ad immagine dell’unione di Gesù Cristo con la sua Chiesa; e il primo, consacrando a Dio i suoi ministri, li santifica, affinché essi possano esercitare degnamente le funzioni sacre in mezzo al suo popolo. – Il Santo Concilio di Firenze, nel suo Decreto per gli Armeni, stabilisce con grande chiarezza questa differenza di effetto tra il Sacramento del corpo del Signore e gli altri sacramenti. « L’effetto dell’Eucaristia –  esso afferma – quello che produce nell’anima di chi la riceve degnamente è l’unione dell’uomo con Cristo. E poiché è la grazia che incorpora l’anima a Cristo e la unisce alle sue membra, questo Sacramento accresce in noi la grazia ed apporta un aumento di virtù » (Decreto pro Armenis, in Bulla Eugen. IV “Exultate Deo“). – Riassumiamo tutto questo insegnamento in un brano di un grande teologo e servo di Dio, padre Francis Suarez. « Il Sacramento dell’Eucaristia – egli ci dice – ha nei suoi effetti un carattere essenzialmente proprio. Gli altri non vanno solo e direttamente a nutrire la carità, per crescere nell’anima e unirci più strettamente a Gesù Cristo. Ma ognuna di essi ha un proprio fine speciale, per il quale conferisce un aiuto particolare con un aumento della grazia. Quanto a questo Sacramento, esso è ordinato di per sé a completare l’unione dei fedeli con Cristo e il Corpo di Cristo « (Suarez, de Euchar., D. 63, S. 1). – San Bonaventura aveva scritto con meno parole, un pensiero simile: « Questo Sacramento è quello dell’unione; di conseguenza il suo effetto primario è quello di unire, non producendo la prima unione, ma stringendo l’unione già fatta » (S. Bonav. in IV. D. 12, a. . a. 2). Pertanto, crescere in Gesù Cristo per grazia, per carità, per una sempre maggiore somiglianza di affetti, di operazioni, di vita soprannaturale, questa è la parola finale dell’Eucaristia. – E questa crescita dei figli di Dio non si ferma all’anima: come abbiamo visto, anche il corpo partecipa ai frutti del Sacramento. Ogni comunione le infonderà quindi un germe più potente di risurrezione: attraverso ognuna di esse diventerà più duttile e docile ai movimenti della grazia, e parteciperà di più, almeno in linea di principio, a quello stato beato che la attende nella gloria. E questo è ciò di cui Dio si è compiaciuto di darci segni e testimonianze nelle meraviglie che talvolta mostra ai corpi dei santi: luminosità, profumi celestiali, preservazione dalla corruzione della tomba, per non parlare delle altre ben note. E questo è di per sé una vera crescita per il corpo, poiché tutto ciò tende per sua natura ad assimilarlo al Corpo glorificato dell’uomo perfetto, Gesù Cristo Nostro Signore.

3. In che misura e secondo quali leggi l’Eucaristia produce questa crescita? Certamente, se guardiamo solo alla potenza del principio da cui emana, l’incremento spirituale proveniente dall’Eucaristia dovrebbe essere infinito, poiché la causa immediata e diretta è Gesù Cristo stesso in persona. Ma non dobbiamo dimenticare che questa causa è libera, e che l’alimento eucaristico non agisce per principio cieco ma per volontà. Come Dio, nel creare il mondo, pur essendo l’Onnipotente, ha saputo confinare le sue opere entro i limiti determinati dalla sua infinita bontà, così sa anche definire i limiti della sua volontà. Sa anche come definire la misura della grazia che deve rispondere ad ogni Comunione della sua sacra carne. Ci basti pensare che la Sua liberalità supera di gran lunga le nostre deboli concezioni. – Una cosa, però, che ci è estremamente utile sapere è che questo Agente divino produce i suoi effetti in noi in proporzione alle disposizioni che ci preparano a riceverli. Cosa facciamo quando andiamo a sederci alla sacra mensa? Portiamo il nostro cuore ad essa, come un recipiente immerso in una sorgente traboccante d’acqua. Più è grande la sua capacità, più sarà riempita con l’acqua vivificante che è il dono dell’Eucaristia. Ora, cosa determina nella nostra anima la prossima capacità di ricevere la grazia del Sacramento? La disposizione che Gesù Cristo Nostro Signore vi trova; diciamo meglio, che vi produce con la nostra cooperazione. – Conosciamo già la disposizione assolutamente indispensabile. « Innocentiam ad altare apportate; portate l’innocenza all’altare », diceva Sant’Agostino ai fedeli del suo tempo; e la Chiesa, allo stesso tempo, ripeteva per bocca dei suoi ministri: « Sancta sanctis, ai santi le cose sante ». Ma oltre a questa disposizione generale che purifica il vaso, ve ne sono altre che lo dilatano: e tra queste disposizioni la più eccellente e la più efficace è l’amore della carità. È la carità che ha fatto dire a San Paolo, scrivendo ai fedeli di Corinto: « Per voi la nostra bocca si è aperta ed il nostro cuore si è dilatato. Non siete allo stretto in noi »  (1 Cor. VI. 11). Che questa santa carità, dunque, venga ad allargarsi riscaldandola con i suoi fuochi e moltiplichi, per così dire, la capacità che il Dio dell’Eucaristia vuole riempire con la sua grazia. – Questa prerogativa della tua carità è dovuta alla natura stessa delle cose: esso è il sacramento dell’amore, perché nasce, per così dire, dall’eccesso di amore, e perché va con tutto il suo peso all’amore perfetto. Come ricevere l’Eucaristia in modo più fruttuoso se non con l’amore? Senza dubbio, l’amore è al fondo di ogni anima che si accosta ad essa con la necessaria preparazione: perché dove c’è la grazia santificante, c’è la carità, suo inseparabile accompagnamento. – Ma l’amore di cui parlo come la disposizione più eccellente non è un amore addormentato nell’anima. È un amore che si risveglia all’avvicinarsi del Diletto, che risponde ai suoi atti con degli atti: un amore vivo, che agisce e parla. « E lo Spirito e la Sposa dicono: “Venite”. E chi ascolta dica a sua volta: Venite, venite, Signore Gesù. E chi ha sete venga, e chi vuole riceva gratuitamente l’acqua della vita » (Ap., XXII, 17, 20). È un amore che si estende da Gesù ai fratelli di Gesù, che soffoca ogni avversione e dissipa ogni ira: perché Gesù viene a noi con tutto il suo Corpo; non entra nelle anime mutilate, e chi avesse solo indifferenza per le sue membra, si lusingherebbe invano di essere tutto amore per Lui. – Ma qual è questo amore che rende migliore e più fruttuosa la preparazione a ricevere l’Eucaristia? È una domanda di grande importanza, perché è proprio perché non ne conoscono, o almeno perché troppo spesso ne dimenticano la risposta esatta che tante anime confondono o si illudono nel giudicare le loro disposizioni. Ora, questa risposta io la trovo nella contemplazione di ciò che mi viene dato quando faccio la Comunione. Gesù Cristo è ora nel seno della gloria, impassibile, immortale nel suo corpo, come lo è nella sua anima. Così la carne che ricevo, è una carne glorificata che non soffre né può soffrire; come quella che è uscita trionfalmente dal sepolcro il giorno della risurrezione. Eppure, non è in questa forma e in questa gloria, anche se temperata per occhi mortali, che Gesù Cristo me la dà. « Questo è il mio corpo dato, spezzato per voi; questo è il mio sangue versato », ci dice il Salvatore nella persona dei suoi discepoli. – Le specie eucaristiche mi mostrano sia il corpo che il sangue nello stato indicato dalle parole del Maestro, cioè nello stato di vittima immolata. Non che la doppia formula consacratoria lo richieda, la vera separazione del corpo e del sangue di Gesù Cristo, avvenuta sul Calvario.  Ma ciò che non richiede o fa per l’essere fisico del Salvatore, lo richiede e lo fa per il suo essere sacramentale. In altre parole, Gesù Cristo, in virtù di queste formule divine, riveste per noi, sotto i simboli che lo manifestano, l’intero aspetto esteriore di una vittima: è infatti solo la sua carne che esse uniscono alle specie del pane, solo il suo sangue che esse pongono sotto gli accidenti visibili del vino. Se il corpo non è separato dal sangue, né il sangue dal corpo, la ragione di ciò va ricercata non nel significato delle parole sacramentali, ma nell’unione inseparabile stabilita tra loro dalla vita immortale del Salvatore. È questo che rende la Consacrazione un Sacrificio commemorativo dell’immolazione cruenta nella Passione. – Così « il Cristo, immolato una sola volta nella sua propria natura, viene immolato ogni giorno per il popolo nel Sacramento del suo corpo e del suo sangue divino » (S. August., ep. 99, n. 9. Cfr. Bossuet, Exposition de la doct. § 14; Explicat. De la messe, § 17). Questo è ciò che sentiamo nella stessa voce in tutte le Liturgie della santa Chiesa, anche quelle stesse che, separate da noi da scismi ed eresie, delle comunioni hanno conservato l’uso. Ovunque e sempre si parla del Sacrificio presente e perpetuo, dell’ostia propiziatoria, dell’agnello sgozzato, dell’immolazione che avviene sotto gli occhi dei fedeli, di Cristo che viene offerto, come se stesse ancora compiendo in se stesso l’opera di Dio.: « offertur, quasi recipiens passionem ». – Questa idea è così familiare nel Cristianesimo che si ritrova naturalmente anche nello stile epistolare: ne è testimonianza la conclusione di una lettera scritta da san Gregorio di Nazianzo al suo amico, il Vescovo Anfiloco: « O santissimo adoratore di Dio, non mancate di pregare o intercedere per noi, quando con la parola attirate la Parola eterna, quando, usando la vostra voce come una spada, separate con una sezione incruenta il corpo ed il sangue del Signore » (« O Dei cultor sanctissime, ne cuncteris orare et legatione fungi pro nobis, quando verbo Verbum attrahis, quando incruenta sectione secas corpus et sanguinem dominicum, vocem adhibens pro gladio ». – S. Gregorio Nazareno, 171, ad Amphil. P. Gr., vol. 37, p. 279). – Ecco, dunque, Gesù Cristo disteso sull’altare e rivestito dei sacri segni di una vittima sempre viva e sempre sacrificante; eccolo, dico, ed è in questo stato che mi viene presentato da mangiare, che lo ricevo e che devo assimilarlo nel riceverlo. – Posso, dopo questo, non capire il carattere dell’amore che mi dispone a mangiare questo Agnello di Dio, e dell’amore che sarà l’effetto naturale di tale cibo. Posso capire che i beati abitanti del cielo si nutrano del mio Salvatore nell’eccitazione di un amore piacevole: lo possiedono senza veli e nella sua gloria. Ma l’amore che ci si addice è quello che corrisponde allo stato di nostra ostia, un amore modellato su Colui che ce lo ha donato nell’Ultima Cena; un amore che si arrende, che è l’unico che può dirsi un amore per il Signore. È un amore che si dona, che si offre, che non si sottrae alla sofferenza e vive di rinuncia e sacrificio. E quanto più di questo amore portiamo al banchetto divino, tanto più la nostra anima sarà pronta a infiammarsi al contatto con la sacra carne del Salvatore; tanto più abbondanti saranno i frutti di grazia che speriamo dall’Eucaristia. – Quindi non è tanto il numero quanto il fervore delle Comunioni a far progredire la santità. Qual è l’effetto santificante di mille Comunioni di un’anima tiepida, rispetto a una sola comunione eucaristica della Vergine, Madre di Dio! Il corpo del suo Figlio unigenito che Lei ha ricevuto, lo ricevono pure queste anime e la sua virtù sacramentale non varia. Da dove deriva allora la differenza? Dalla preparazione d’amore. – Avremmo meditato solo in modo molto imperfetto su ciò che l’Eucaristia è per la crescita spirituale dei figli di Dio, se ci limitassimo all’effetto presente che essa produce. Ricordiamo che si tratta, secondo il pensiero dei Padri, di quel carbone ardente di cui parla Isaia (S. J. Damasc., de Fid. Orth, L. IV: c, 141). Il fuoco che essa accende non è quindi un fuoco che si spegne quando cessa la presenza sacramentale. La carità che ha vivificato nell’anima tende a crescere, a diffondersi. Essa moltiplica le sue azioni ed è necessario che estenda la sua influenza salutare su tutta la vita, tutte le opere, tutti i movimenti del fedele. –  A questo punto, le due cause principali del nostro sviluppo si uniscono per darsi un aiuto potente e reciproco. Infatti, da un lato, la cooperazione che diamo alla grazia è una disposizione tanto più perfetta per ricevere i frutti del Sacramento, in quanto più meritoria in sé; e dall’altro, il Sacramento per i frutti che porta, contribuisce direttamente a rendere le nostre opere buone non solo più numerose, ma soprattutto più meritorie, poiché sviluppa in noi il regno e l’azione della carità. – Da tutta questa dottrina sull’Eucaristia, emerge una grande e preziosa conclusione per la nostra vita spirituale: è della massima importanza che noi veniamo a questo banchetto celeste il più spesso possibile e, ancor più, di prepararci con scrupolosa applicazione a mangiare il cibo divino che l’amore vi serve all’amore. Non diamo retta a quei moralisti disperanti che respingono dalla santa mensa, o che ammettono solo a rarissimi intervalli chi non è grande in grazia e carità. In passato la Chiesa dava il corpo del Signore ai bambini piccoli. Lo offre ancora a coloro che sono piccoli e deboli, non per età ma per virtù. Per loro, se hanno un umile senso della loro infermità, se vengono con cuore sincero a cercare nell’Eucaristia ciò che manchi alla loro anima, il Sacramento diventerà l’alimento della grande “cibus grandium“, perché produrrà il suo effetto proprio e diretto, la crescita nel Cristo. Lo dirò dunque? All’estremo rigorismo che in passato faceva della Comunione, soprattutto di quella frequente, il premio di un’eminente perfezione, succede talvolta ai nostri giorni una facilità davvero eccessiva da parte di alcuni direttori d’anime. Li vediamo permettere quasi indistintamente alle persone che governano di venire a sedersi alla sacra mensa spesso, persino ogni giorno; e non solo lo permettono, ma addirittura li esortano a farlo. Eppure, nessun serio emendamento nella vita; nessuno sforzo nemmeno per superare se stessi e avanzare nella virtù. Cercate la preparazione del cuore per un mistero così grande, e troverete il più delle volte solo mollezza, divagazioni ostinate, lo stesso attaccamento alle cose vane, le stesse abitudini irregolari e gli stessi difetti caramente trattenuti nel fondo del cuore. Si arriva per consuetudine, per moda, sotto l’impulso di non so qual segreta vanità. Si tratta davvero di una risposta ai disegni del Salvatore e di « mettere alla prova se stesso », come chiede l’Apostolo? – Lungi da me sottolineare che queste Comunioni siano sacrileghe. So che c’è una sola disposizione assolutamente necessaria, lo stato di grazia, e la presumo nelle anime tiepide e codarde di cui parlo. Né affermo che non ne traggano un aumento di grazia, almeno abituale. Ma ciò che mi sembra indubbio è che ci sarebbe un vantaggio generale per le anime di questo tipo, se il permesso di ricevere la divina Eucaristia fosse saggiamente misurato per loro. – Avvicinandosi ad essa con maggiore riverenza, un umile pentimento, il raccoglimento e la santa avidità, troverebbero in un’unica Comunione ciò che non avrebbero ricevuto in tutte quelle di cui sono stati privati. Imparerebbero anche che la vita spirituale si nutre meno di pratiche facili che di sforzi generosi a cui ci prepara la grazia del Sacramento. Finalmente, per dire tutto in una parola, invece di vegetare miseramente, sempre deboli e quasi sterili nelle opere sante, pur mangiando il pane della vita, presto forse usciranno da questa deplorevole inerzia e si rinnoveranno nello spirito del fervore. Da quel momento in poi, potranno prendere parte al cibo celeste e, poiché nulla paralizzerà la virtù di questo cibo divino, si ammirerà in esso una crescita sempre nuova con una meravigliosa fecondità (Cfr. Bourdaloue. Essai d’Octave du S. Sacrament, 5° giorno. Sermone sulla comunione frequente).

LO SCUDO DELLA FEDE (226)

MEDITAZIO LO SCUDO DELLA FEDE (226)

MEDITAZIONI AI POPOLI (XIII)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE XIV

Il Santissimo Sacramento (2)

“Ascoltate: Se mentre voi siete qui raccolti, proprio in questo istante giungesse uomo a tutta carriera sulla porta della Chiesa, e gridasse in terrore: Il tale è qui fra voi?… — ciascuno di noi al sentirsi chiamar col nome balzerebbe innanzi rispondendo: sì, sono io qui…. e che è mai? — Il vostro padre, o la vostra madre… la persona insomma che avete più cara al mondo, venuta è or ora da lontano paese per consolarvi del suo amore… ma ahi! là sopra via ve l’ha assalito un vostro nemico, e percosso sul capo! L’ha ferito nelle mani: cadde squarciato orribilmente nel petto; ed ora per terra col cuor caldo che sanguina ancora… — Oh buon Dio!… ci mancherebbe la vita, se il dolore infuocato non ci slanciasse a cercare quella cara persona… Ma se si spalancasse la porta, ohimé! e ci venissero a deporre quella cara vita trafitta qui in mezzo di noi!… Dite: io, voi, che faremmo? Buttatici sopra quel corpo, vorremmo… ah, ci treman le viscere al solo pensarvi!… Deh, figlioli miei, è proprio qui Gesù: ma affinché niente ci turbi la tenerezza, e per non lasciarci egli che consolazioni a godere, è qui con quelle piaghe aperte si, però son gloriose; è qui con quel Cuor che fa sangue; però in fiamme d’amore che vuol travolgerci in beatitudine seco. Per noi qui è cielo, ed un sovrabbondare di gaudio più che celeste, perché qui è il nostro Gesù… (Imit. Di G. C., lib. 4). Infelice chi non l’amò mai! E noi? E noi, come lo trattiamo? e come lo dobbiamo trattare? – Come lo dovremmo trattare? Risponderò?… Come debbe volere il cuor nostro, e come vuole il Cuor di Gesù, il quale sta qui nel Sacramento, appunto come per fare un’unione di vita con Lui in paradiso. Ma dirò prima che mi compunge alle lacrime un pensiero confondere!… Eh pensare che sono mille ottocento e più anni che Gesù la dura in questo mistero d’amore!… Fa male al cuore il ricordare che se ne ebbe da soffrir delle crude da’ suoi nemici …. e i più atroci insulti di quei crudeli inveleniti di rabbia proprio il Sacramento del suo amore … Ma egli soffre; e questo ancor più amaro per lui torna, che Egli soffre la villana indifferenza e l’ingrata dimenticanza, in cui lo lasciano anche i fedeli suoi che non sono cattivi. Pure Egli continua a soffrire, perché ha i suoi secreti interessi tenerissimi colle anime, le quali l’intendono per bene. Sì, soffre tutto e sta sempre qui, perché ha cuori che hanno bisogno che riceva le suppliche, le confidenze, gli sfoghi cuore a cuore delle anime, le quali, disingannate dal mondo cercano un po’ di pace in seno al Padre della bontà. Ma voi ricordatevelo a conforto come Egli non lascia andare perduto un sospiro, un gemito, non una sola parola, ma si riceve tutto nel Cuore e vi prepara per tutti una grazia. Soffre tutto tutto, e resta sempre qui, perché poi alla fine, quando ci troveremo nella paura della morte, e sopra il baratro dell’eternità cogli occhi sbarrati metteremo un grido di raccapriccio a chiamar aiuto, egli correrà nel santissimo Viatico, si siederà sulle sponde del nostro letto, ci stenderà la sua mano sul cuore; e quando ahi! lotteremo colla morte in gelido sudore, in quell’ansia tremenda, ci scalderà coi suoi palpiti divini il nostro povero petto. Oh Gesù mio, noi nell’ultimo anelito dell’agonia spireremo l’anima, e allora… Deh silenzio, silenzio!… parla Gesù: figliuol del mio sangue, ti porto ecco io stesso in braccio al Padre nostro in paradiso! ubi ego sum… (Jo. XVII, 24). Mio Gesù! si inaridisca fin d’ora la mia lingua sul labbro se lasciasse mai di parlare di Voi nel Santissimo Sacramento. Deh facciamo dunque di rispondere d’amore a tanto suo amore divino; e vediamo ora come lo dobbiamo trattare qui sempre in mezzo di noi. – Ma io son troppo povero di cuore non so più che dirvi. Guardo come estatico la Chiesa, quasi la città santa nuova caduta dal cielo, in cui noi facciamo a coro cogli angioli appresso di Dio come essi in paradiso fanno, fortunati domestici di Gesù: contemplo nel santuario una porzione di quella terra nuova preparata pei predestinati a vita eterna, e qui caduta, nel mondo del tempo a maniera di nuovo paradiso terrestre; e l’albero della vita in mezzo, cioè il santissimo Sacramento, che alimenta nei fedeli la vita intima iniziale dell’immortale beatitudine. Ma qui, miei fratelli, che faremo noi?… All’altare, all’altare dov’è il nostro Gesù. Oh santa Madre Chiesa, che vivi in terra palpitando sul Cuore di Gesù nel Sacramento, quanto è grande la tenerezza tua, che può infondere la vita fino nelle morte cose, e scuotendo i freddi metalli delle campane, con essi sospiri, piangi, preghi e chiami tanto sovente i tuoi figliuoli, cui vorresti avere sempre a Lui intorno. Eh! ti sentiamo quando suoni! Sull’ali dei venti, colle onde sonore tu ci vieni a cercare da Per tutto, e con ogni tocco di campana ci comunichi un palpito del tuo cuore per farci teco viver d’amore col nostro Gesù. Per questo, miei fratelli, non appena comincia a ridere coll’aurora la luce del giorno, Ella si affretta a sorprenderci tra il sonno e la veglia, rompendo il silenzio coll’argentino tintinni la campanella dell’Ave Maria, a fine di chiederci il primo vergine pensiero da offrire a Luì, che qui vigila sempre amoroso. Su su dunque, o figliuoli, allo squillo dell’Ave Maria diamo la mano alla Madonna; ché la benedetta! anch’Ella ha qui il suo cuore, perché il Verbo Figliuolo di Dio suo Sangue restò sempre ad abitare tra noi. Ave Maria… benedicta tu … et Verbum caro factum est a habitavit in nobis. A mezzo giorno fermatevi un e, posate a terra la croce dei vostri travagli; che la Chiesa vi viene ad abbracciare nel petto per farvi dire: Ave Maria: o Maria, a quest’ora voi incontraste il vostro Figliuolo sul Calvario, l’abbracciaste sotto la croce, e restaste tutta bagnata di Sangue. Deh! Confortateci sotto le nostre croci, e pregate Gesù qui tra noi, affinché ci piova del suo Sangue sui travagli di questa povera vita. — Alla sera poi sull’Ave Maria ritiratevi come in famiglia intorno a Maria, e confidatele piangendo le mancanze del giorno. Ella è Madre, ed alle madri sì possono dire fino alle più abbiette nostre miserie: e pregatela che vi metta a dormire col Cuore di Gesù in una Comunione spirituale. Dormite allora sicuri; ché, se la morte credesse sorprendervi, oh la sorpresa vostra con Gesù finirebbe in paradiso: Ad gloriam perducamur; per Christum Dominum nostrum… Ma non sentite che le campane suonano a gioia? È la Chiesa che ci annuncia giubilante come l’Amor suo Divino esce fuori in Sacramento a guisa di un principe ben amato, il quale viene fuori dall’appartamento per gettarsi in braccio al suo caro popolo. Ricchi e poveri, a gara a gara in processione festeggiatelo in mezzo di voi, portatevelocorteggiandolo per le vostre contrade, mostrategli iluoghi delle più care vostre affezioni, dei vostri patimenti. Ma la campana ancora pare che sospiri tante volte alla mattina. Egli è per avvisarvi proprio in quest’ora che Gesù nella Messa va sull’altare a trattare insiem col Padre col Cuore suo aperto i vostri interessi. Se non potete andarvi a Lui in queste occasioni, confortatevi, ché resta qui sempre in mezzo di noi; e noi possiamo almeno anche da lontano, come la santa Sposa dei cantici tra le gelosie della sua casa, mandargli mille volte al dì i nostri sospiri. Sì si, o Gesù Cristo, il nostro cuore in ogni luogo vi arderà sempre davanti come il turibolo dell’incenso arde i profumi, come arde continuamente quella lampadella di lato all’altare. Lampada fortunata, io t’invidio, perché, posata davanti a Gesù, sfavilli per l’onor suo, e nel tremolio della tua fiammetta sembri consumarti palpitando come il mio cuore. Deh, com’io ardo di desiderio di consumarmi come tu fai! Mi possa io consumare in santo amore col diletto nostro di paradiso Gesù, nel fare il bene per tutta la vita col cuore in lui! Questa lampada, o fratelli, vi ricordi di mandare delle giaculatorie da qualunque luogo voi siate a Gesù, sempre in mezzo di noi, vero tesoro dei nostri cuori. – Noi crediamo fermamente che Gesù è proprio qui. Dunque tutta la vita cristiana sta qui, cercar di unirci a Gesù nel Sacramento e far tutto il bene con Lui. Io sono la vite, dice Gesù, con bontà divina, e voi i tralci; e i tralci allora sì fanno vivi e producono i grappoli del liquor prezioso, quando sono colla vite uniti. — Dunque dobbiamo essere in Gesù come sono colla radice i germogli. Gesù è dunque la vita, è il Cuore della Chiesa. No, non abbiamo paura noi che la nostra Madre Chiesa ci possa mancare. Quando pure non ce l’assicurasse l’infallibile promessa divina, solo perché Gesù ci dice: « Io son qui con voi per sempre, » noi non ne temiamo la morte, perché è con Gesù, il Verbo Creatore, il quale mantiene la vita in tutte le creature; e con Gesù si vive la vita eterna. Come poi noi nella vita umana, quando ci s’ammortisce un membro nella nostra persona, cerchiamo cogli stimoli per mezzo del sangue di riammetterlo in comunicazione col cuore, perché riabbiasi alla vita; così la Chiesa, quando si risente di umanità, e par che le si affievolisca la vita, ed alcune membra le vengon meno e le si distaccano dal corpo suo, ella si scuote: colla disciplina, colle pratiche della pietà, e coi Sacramenti rimette i suoi figli in comunicazione viva viva con Gesù Cristo. Allora le sue membra rivivono, ed essa si ristora, si rinnovella sempre a gioventù eterna. Al tempo del furore del protestantesimo le si straziavano le membra d’intorno: i suoi nemici gridavano: « Riforma! riforma! E a colpi di scure distruggevano culto, Sacramenti, altari, la Messa, tutto mettendo a pezzi fino il Crocifisso. Allora la Chiesa si raccolse nel Concilio di Trento intorno a Gesù nel santissimo Sacramento, richiamò i fedeli ad adorarlo, nobilitò i modi di onorarlo, animò tutti a vivere in maniera da riceverlo in tutte le Messe; e disse che lo desidererebbe sì: optaret; e così fu ristorata. Essa allora alla riforma della distruzione contrappose la riforma della carità nelle opere sante; e quindi, riscaldati a questo focolare di vita divina, che è l’altare, sorsero quegli operatori di miracoli di divozione e di carità, che furono s. Carlo Borromeo, s. Filippo, s. Luigi, s. Gaetano, s. Vincenzo, e poi santa Teresa di Gesù e cento altre anime santissime, spettacolo al mondo caro e agli angioli (Questi pensieri seguenti si vollero aggiungere per accennare quanto debba influire in tutta la vita cristiana il dogma della Presenza Reale. No, finché non si farà dell’educazione, delle pratiche di pietà, di tutta la vita insomma delle persone che si vogliono salvare, centro Gesù Cristo col Cuore aperto qui con noi nel Sacramento, e non si piglieranno da Lui le inspirazioni, e a Lui non si dirigerà l’insieme della vita cristiana si otterrà ben poco e con molta perdita di tempo, e di profitto delle anime. Questo il sommo Pontefice raccomanda in tante occasioni; e noi non ne abbiamo fatto un argomento di particolare meditazione, perché a tale scopo sono dirette tutte le scritture nostre, massime quella che ha per titolo: La Madre Chiesa nelle sue relazioni con Dio e coi suoi figliuoli. Se siamo lunghi, si perdoni: è perché il cuore non finirebbe mai.). Eh converrebbe avere il cuore di sant’Alfonso Maria per saper comprendere quante generose risoluzioni si pigliano, quanti generosi proponimenti si fanno coi cuori sul Cuor di Gesù! Si può dire che le anime buone tutti i dì a gara intorno al Sacramento in contemplando il Corpo santissimo con santo entusiasmo gli bacian le Piaghe per dirgli a furia di baci: Gesù Cristo!!! lasciate fare a noi che ve le medicheremo per bene!… e sopra ciascuna Piaga mettono una promessa d’un’opera di carità, un fior di virtù, un profumo di sacrifici sempre nuovi. – Quanti sacerdoti che, innamorati di Gesù, come san Giovanni sul petto riposando di Lui, metton la bocca al suo Costato nella santa Messa e quindi discendendo dall’altare nell’estasi d’un’anima innamorata dappertutto travedono l’amato Gesù. Gesù mirano nei bimbi; e lasciateli fare che nei catechismi, nelle confessioni ve li abbracceranno per formare di loro il regno de’ cieli: Gesù raffigurano nelle anime devote, e le voglion tutte condurre al tanto amato Gesù: Gesù negli infermi: Gesù in tutti i più miserabili; e. si battono, si direbbe, petto a petto coll’umane sciagure a fine di porre al coperto dei loro colpi quei cari che sono membra di Gesù Cristo. Se poi nelle pesti trionfa la morte, e l’inferno fa calcolo di poter tanti ingoiare, ed eglino si slanciano ardimentosi a strappar via le anime figliuole del Sangue di Gesù Cristo, come soldati in attacco rianimati dalla presenza, e dalla parola che Gesù dice al loro cuore dal Sacramento. Cadranno forse morti tra gli appestati, ma partiranno colle loro anime salve in paradiso portando seco le anime dei morienti da loro assistiti. – Eh lasciateli andare a sfidare le tempeste dei mari, a cimentarsi coi feroci delle orde selvagge, ne andasse la vita! Son là da tre mila proprio ai nostri di nell’America e nell’Oceania, fra gli orsi bianchi del polo, forse a farsi mangiar vivi, ma al tutto vogliono sposare le anime a Gesù in Sacramento. Il mondo che si arrovella nella cerchia dell’amor proprio a fabbricarsi comodità, quando vede i sacerdoti uscire fuori dell’orbita di quella loro ragione, li chiama pazzi. Li chiami pur tali: ma, signori miei, la loro è pazzia sublime che inspira l’eroismo nel sacrificio tutte mattine sull’altare con Gesù: è pazzia epidemica la quale si attacca al contatto di Gesù. Ma ve? che, fatta la Comunione, discendono dall’altare ardite tante figliuole, formate alla purità di Maria Vergine, all’amor di Maria Madre e, al coraggio di Maria Addolorata; e corrono appresso di Lei, come le buone Marie, fin sul Calvario per medicar le piaghe all’umanità più abbandonata. Sono le monache dei vari Ordini della Carità le quali si han sentito a dire da Gesù ricevuto nel loro petto: andate; quel che fate ai miserabili più meschini, lo fate a me stesso. – Vi hanno poi dei cuori così delicati come sono certe pianticelle che si pascolano sol volentieri di rugiada; e la Chiesa le coltiva queste pianticelle, quasi in orti chiusi nei monasteri dove sì espandono come gigli nel candor della vita intorno a Gesù. Benedette voi, o monache sante, che nelle vostre clausure fate sentire intorno a Gesù in terra il cantico delle nozze eterne, che gli cantano le vergini celesti in paradiso! E benedette voi, Sacramentine! Come la colomba escita fuori dell’arca in quel diluvio di immondezze sorvolava, e vedendo cadaveri, belletta e ributti dell’acque in marciume dappertutto, non sapeva dove posar il piede color di rosa senza lordarlo, quindi batteva l’ali immacolate e volava volava intorno all’arca pigolando e gemendo, finché il salvatore Noè non aperse la finestrina e se la raccolse in seno, non altrimenti voi non sapendo far posata sopra questa povera terra gemeste intorno alla tenda del vostro Amore. Gesù ve l’apri, vi si espose in mezzo a voi col Cuore aperto; e voi, espandendovi innanzi coi cantici dell’amore, il dì e la notte gli fate provare nel Sacramento, che Egli non s’ingannò che vi sarebbero dei cuori in terra capaci di amarlo indivisibili come sì ama in cielo. Col cuor sulle labbra noi vi ringraziamo, perché ci fate la bella carità di farvi interpreti dei nostri poveri cuori. Qui nell’Eucaristia è il tesoro dei nostri cuori; è qui dunque il centro della vita cristiana. – Genitori, il vostro matrimonio è gran Sacramento, perché esprime questo sposalizio di Gesù colla sua Chiesa in terra: deh portate i figli, di cui vi feconda la sua benedizione, ancor bambini a bamboleggiare col Bambino Gesù. La pietà cristiana sa che i bambini se la intendono con Lui Bambino; ond’ella volle far dipingere, ed ama vagheggiare il san Giovannino con Lui sulle ginocchia alla Madre di tutte le grazie. Crescerannovi intorno alla santa Mensa ridenti come le olivette queste care speranze. Volete poi grandicelli bellamente educarli al sant’amore di Dio ed al vostro affetto? Portateli tutte le mattine alla chiesa, e, palpitando voi d’amor con Gesù sui figliuoli delle viscere vostre che vi tenete davanti, fate con loro unione di intima vita con Gesù. Assuefateli nelle vostre case a tenersi con Lui, a guardarlo come un Compagnetto il quale abita nella stessa contrada, il quale dal suo Tabernacoletto sta in mezzo nelle vostre famiglie.. Egli sarà come se il vedessero crescer con loro, e lavorar come garzoncin di bottega con Giuseppe e Maria, tanto quasi da mettergli nel grembiule i loro lavorietti, i loro piaceri e tutti i sacrifici, ché ne han tanti da fare anch’essi avvegnaché piccini. Ma più di tutto assuefateli a prepararsi, come alla più cara festa, a ricevere Gesù nella Comunione. L’innocenza ed il cuore amoroso dei fanciulletti è la più bella disposizione alla Comunione. E perché aspettare tanto a far loro ricevere il Signore, mentre i fiorelli in sullo sbucciare sono il più bell’ornamento intorno all’altare suo Santo? – Signori maestri, a voi rivolgo questa solenne parola. Voi, pigliando a coltivare la gioventù delle famiglie cattoliche, vi assumete una terribile responsabilità, che non è già una morta parola come è quella delle carte degli umani statuti, ma è un obbligo da renderne conto all’inesorabile Esattore della giustizia eterna. Voi dovete educare i giovani a vita proba; e proba, disingannatevi, non è la nostra vita, se non é cristiana; e non è cristiana la vita senza di Gesù Cristo. Signori maestri, voi tradite le famiglie, tradite voi stessi, tradite i giovani se non li menate alla Comunione con Gesù Cristo nei Sacramenti; tradite la vostra missione, dice il grande Agostino (Tract. 45 in Io. post. Ini.), se lasciate che per ignoranza non conoscano, o per superbia disprezzino chi li indirizza, chi li sostiene, chi li conduce al loro fine, che è Gesù Cristo. Dotti, anche a voi da Gesù Cristo scendono le più sublimi ispirazioni. Fu il Santissimo Sacramento che rifulse come mistico sole in petto a quell’uom più dotto del mondo, che fu s. Tommaso. Egli lasciò un dolcissimo monumento del suo genio nell’officio della SS. Eucaristia. Amò, amò in un modo indicibile Gesù Sacramento; a lui sciolse l’ultimo cantico dell’amore nell’interpretare la Cantica: palpitò come sposa divina, e, nello sciogliere quel cantico volò al suo Diletto in paradiso. – Artisti, fino a voi io discendo, o meglio mi slancio ad elevarmi col vostro genio. Ma se Michelangelo potente ad erigere il Panteon della grandezza romana fin fra le nubi, è per innalzarlo in cupola in San Pietro sul tabernacolo di Gesù Cristo. Ma Leonardo nella Cena trasfuse quella maestosa, immensa bontà di Dio sul volto al Salvatore, è perché lo dipinse in atto di dar tutto Se stesso in Comunione. Ma se Tiziano mostrò nella gran Vergine Maria la purità e l’amor divinizzati, e se Rafaello trasfigurò Gesù in quel mar di beatitudine, è per esprimere come l’umanità si ha da immergere in Dio. E dove mai, in terra, o fratelli, l’umanità si può immergere in Dio se non nel Sacramento?… O figliuoli degli uomini, perché brancicando le vanità della terra vi andate a perdere?… Finite una volta d’ingannarvi: supremo Bene dell’umanità è Dio. Venite adunque a Gesù che col darvi Se stesso vi unisce a Dio in Comunione. – Si, Gesù si dà a noi in Comunione. Contempliamo con quanto amore diede Se stesso a fine di esser dentro di noi ricevuto; e facciamo di comprendere nel modo più possibile quanto tesoro di bontà vi sia in questo abisso d’amore, che è la Comunione. Ah io vi confesso, che nella foga dei troppi affetti mi si affollano le idee! Io resto confuso, e sento che con lingua d’uomo, ma neppure di angelo potrebbe dir degnamente di tanto amore divino. La povera mia parola finisce in un sospiro… Eh! Sarà meglio contemplare Gesù come racconta nella semplicità divina il santo Vangelo. – Stava Gesù in mezzo ai discepoli in quella notte in cui disponeva nel suo amore ogni cosa per andare domani a morire per noi. Che istante solenne e troppo tenero per un padre il quale dir dovesse: Dimani io voglio andare, o cari figliuoli, a morire per voi!… Ma e che tento io mai coll’amor di un tenero padre terreno misurare l’amor di Gesù? Adoriamo! è in Lui, nel più bel Cuore d’uòmo la onnipotenza dell’amor di un Dio! Profondità di mistero, che accresce la beatitudine a contemplarlo dentro fino in paradiso! Meditiamo l’amore divino con cui si diede a noi nell’istituire il santissimo Sacramento. Dio è carità, Deus charitas est (Jo. II, 16), e carità è l’essenziale bontà, la quale sente il bisogno di dare del suo bene a tutte le creature; e ne dà tanto all’insettuccio anche più minuto, al più piccol germoglio di pianticella, e tanto fino al granellino di polvere, quanto son così capaci di riceverne. A versare poi la ricchezza di tutta la sua bontà Dio creò noi uomini con un cuor così vasto, che quando bene v’entrasse tutto, fosse pur l’universo, gli farebbe sempre sentire il vuoto maggiore; poiché noi siamo capaci di posseder Dio! E Dio per abbassarsi a noi si fece uomo, assunse l’umana natura, le comunicò la pienezza della Divinità, la mise seco in comunicazione di Vita; e così Dio fatto uomo è Gesù Cristo. Dio così umanato si trovò con noi uomini in relazione nuova, in relazione di fratello, in relazione di sangue; ché Dio è carne della nostra carne: Verbum caro factum. Laonde in Gesù l’uomo è personificato con Dio. Quindi l’Uomo-Dio sente in sé il suo Corpo attivo dell’onnipotente attività di Dio, sente che il suo Sangue è fonte inesauribile saliente a vita eterna, com’è fonte di tutta vita Iddio istesso, sente il suo Corpo, il Sangue divino che sono espansivi e comunicabili, com’è espansiva, e comunicabile la bontà di Dio. –  Venuto in terra, per unire in Sé gli uomini con Dio, nell’ultimo istante non poté più soffrire ritegno, e si diede tutto a noi Dio-Uomo in questo amplesso che è la Comunione, mistero d’amore divino, fine di tutti i misteri: cum dilexisset suos, in finem dilexit eos (Jo. XIII, 1). Deh deh, che fa Egli?… La ragione, il cuor si annientino davanti all’operazione divina!… Piglia in mano il pane, lo benedice, e: « Prendete, questo è il mio CORPO …. Poi: questo è il mio SANGUE… » Pietro dal carattere ardente si dovette trovar per terra esterrefatto, ed avrà esclamato: O Signor mio Dio, che fate? Mai no, chè noi siamo peccatori: Exi a me, quia homo peccator sum, Do mine (Luc. V, 8). Giovanni dall’amor tenerissimo slanciato si sarà ad abbracciarlo nel petto e: Signore, no, non fate; Gesù mio buono, non vi date agli uomini: han troppo poco cuore per Voi!… Tutti gli Apostoli in ginocchio allargargli le braccia, e coi cuori trepidante ripetergli: Signore, non siamo degni, noi!… non siamo degni!… Ma Gesù: Taci, Pietro! lascia fare. Giovanni! pigliate animo, amici… ricevetemi! Mettetemi nel vostro cuore; mi sarà cara questa dimora.. Signore! non sapendo più dire vi adoriamo confusi. Ma tant’è: rapito in santo entusiasmo, coll’arditezza dell’amore, audace interprete dei più segreti misteri, con una lingua da innamorato, lasciate pur che io balbetti in qualche espansione. E seabbiamo contemplato con quanto amore Gesù diedeSe stesso ad essere ricevuto nella Comunione, portiamo l’amoroso ardimento fino a meditare ben dentro perché ci si dia nella Comunione in cibo.Oh le fiamme del Cuor di Gesù mandano in questo abisso di Amore una mistica luce, che ci pare,..pare che ne faccia comprendere ben qualche cosa.  Ecco insomma: noi veniamo da Dio; Dio ci vuolseco beati, e chi ci ha da portare a Lui è questoSignor Dio nostro Gesù. Noi meschini ci troviamptroppo lontani e indegni di Dio: troppo più grande è Dio; e noi proprio nulla, noi. Eppure Dioci fece per sé: fecisti nos ad te. Troppo poi altosi è il cielo, e noi troppo in basso sprofondati nell’abissodelle nostre miserie: ma questo abisso inGesù è scomparso. In Gesù i due termini, Dio el’uomo, sono uniti in una sola Persona; Dio assunsela carne: Verbum caro factum est (Jo. I, 14); umanacarne resta assorbita dalla Divinità… e 1’Uom-Dioresta di noi.Fermatevi ora un istante a pensare come l’anima nostra colla potenza della sua vita per mezzo del corpo attinge le materiali cose, ne fa suo cibo; e così assorbe il cibo materiale nel vortice dell’animalità, lo assimila a se stesso, lo diffonde in tutta la sua persona, lo fa diventare personale. Sicché quel cibo diventa porzione del corpo animale, e vive nell’anima della sua vita, partecipa, direi, a’ suoi pensieri, a’ suoi affetti, brilla con lei lieto, con lei triste impallidisce. Per simil guisa Gesù Cristo nella Comunione si mette in relazione personale per mezzo del suo Corpo con esso noi: piglia la sua carne come inzuppata (deh deh perdonate la espressione alla parola umana troppo meschina per cose tanto divine!), la sua Carne piglia come imbevuta del balsamo ristoratore e vivificante della Divinità, la trasfonde dentro di noi per santificare colla sua Divinità, col Corpo e coll’Anima sua divina l’anima nostra e il corpo nostro. Perocché l’uomo è anima e corpo; e con questa unione Egli è bella immagine di Dio-Uomo. E come Gesù Dio si comunica alle anime nostre coll’effusione della grazia, così Gesù Uomo Divino si trasfonde col suo Corpo, e col suo Sangue nel nostro corpo, e nel nostro sangue, quando si fa nostro cibo spirituale; ci compenetra tanto, da doverci dir sue membra, da tenerci in rispetto santo; di modo che contaminare le nostre persone, è un contaminare ahi! Le membra di Gesù Cristo. Siamo diventati corpo del suo Corpo, sangue del suo Sangue, partecipi della natura di Dio, capaci anche col corpo di esser immersi nella beatitudine della vita eterna, come ce lo assicura quell’amabile sua bocca divina: qui manducat meam Carnem et bibit meum Sanguinem,vivet in æternum (Jo. VI, 55, 57). Che diremo? noi esclameremocon una parola da non si poter tradurre per benecol linguaggio umano: « Dii estis! (Ps. LXXXI, 6 – Jo. X, 34): siamo invita di Dio! » Come dice Dionisio, diventiamo deificati: participes divinæ naturæ. perché siamo degni di esser amati da Dio, gli attiriamo il Cuore così, da volerci seco persempre. Poiché l’amore vuole l’unione; e l’amore èsempre con persone fra le quali sì sia stabilita unacerta quale equazione per una qualche somiglianza odi età o di condizioni, od almeno di affezioni che s’incontrano.Ora per mezzo di Gesù tra noi e Dio esisterelazione di vero amore nel Sacramento; essendonoi elevati fino a Dio in Gesù, ‘gli siam tanto carie troppo preziosi, poiché ci siamo uniti anche colcorpo a Lui.Provate un poco voi unire dell’oro in grande abbondanzacon poco piombo: quando i due metalli sianofusi insieme, il piombo muta il suo valore da nulla, ecoll’oro è computato prezioso anche il piombo. Noici eleviamo più in su, perché ci richiama la parola stessadel Salvator nostro. Uniti che siamo in Gesù, noiattiriamo lo sguardo di Dio: Iddio Padre guarda innoi la sua sostanziale Immagine del Figliuolo, e vedeil Sangue divino dentro di noi; col suo Amor Sostanzialelo Spirito Santo si abbassa in noi, ci abbraccia,in noi dimora, e vuol sommergerci nella beatitudinesua… ad eum veniemus et mansionem apud eum faciemus (Jo. XIV, 23).Ancora ancora (e se siamo arditi, o Signore, ci fatali il troppo grande amore vostro). Noi vogliamodire di voi, santissimo Iddio, come di un padre edi una madre. I genitori guardano nella loro proleil proprio loro sangue, ravvisano in essi l’un dell’altrola propria immagine e una porzione di loro;di che vogliono dare ai figli di ogni lor bene, esospirano di averli seco felici. In tale maniera sospira Gesù che nessun si perda: O Padre, questi,che mi avete dati, li voglio meco dove son io, ubi ego sum (Jo. XII, 26), nel celestiale gaudio della nostra Divinità.Così il Sacramento resta pegno di vitaeterna.Per potere meglio ciò comprendere, considerateuna madre (poiché noi crediamo che Dio nel formareil cuor della madre guardasse al proprio Cuore). Èda vedere la madre quando si delizia col bimbo suo.In quei cari vezzi, in quelle innocenti delizie guardacon tutta l’anima negli occhi del bimbo, amor suo:se lo stringe al cuore, lo bacia; poi torna a riguardarlo,e sel ribacia più infervorata, quasi volesse labuona per la bocca versare l’anima nel suo bambino,e col cuore nel cuore compenetrarlo, e darglitutto il suo bene. Ma ella trova quel corpicciuol chele si attraversa, e l’impedisce; ed ella in baciarlovorrebbe come assorbirsi quel corpicciuol delle visceresue, e con un cotal amoroso furore quasi mangiarseloa furia di baci, inviscerarsi quella caravita come porzion della sua. Ora la madre nonpuò mettersi dentro del petto il suo bambino. Ebbene,quello che non può, e vorrebbe pur fare lamadre colla potenza del suo amore, lo può Gesùcoll’onnipotenza dell’amor divino. E li sull’altarenella santa Messa, pacifica il Padre colle sue Piaghe,e col suo Cuore squarciato; e dopo essersi sacrificatotutto per noi, cerca noi tutti d’intorno; ètutto nostro, vuol darsi tutto a noi… A Lui dunque,a Lui! ché Egli trovò modo di darci sotto le speciesminuzzate del pane e del vino il suo Corpo e ilsuo Sangue a fine di penetrarsi nella nostra personasotto specie le quali in noi si dileguano. Pertal maniera diventa nostro cibo la sua Carne sposataalla Divinità. Apri adunque, dice Gesù col Sacramento, apri, o diletto mio, ché io sto per entrare! allarga il tuo cuore, dammi te stesso, come Io a te mi dono. Così entra nella nostra persona il suo Corpo e il suo Sangue e si mischiano col corpo e col sangue nostro! Egli scende ad abbracciar l’anima nel più intimo centro della vita umana; ed allora la nostra persona umana sì tocca, si bacia la sua Persona divina, e in lei si unisce. Dio è nell’uomo, l’uomo in Dio, tanto ché con san Paolo può dire il fortunato fedele: vivo io; ma no, non son già io che vivo, ma vive in me Gesù Cristo. Deh, corriamogli in braccio! Per questo la vita dei Santi è un sospiro d’amore a Gesù, ed un continuo a Lui anelare; ond’ei non sanno altrimenti quietare ed empiere la propria fame se non hanno con dolcezza infinita e spirituale avidità preso il santissimo Corpo. Ed oh, quanto Gesù si compiace di abbandonarsi a loro che l’amano così! Santo Stanislao Kostka: « Signore, vi voglio! Sospirava d’in mezzo a quel gentame che non permettevano lo ricevesse: Signore, vi voglio! E Gesù adorato appare a lui personalmente a dargli il suo santissimo Corpo. S. Luigi Gonzaga non può più mai, mai il cuore, il pensiero e la persona sua disgiungere da Gesù; e: se io debbo, gli dice, per poco dimenticarvi, allontanatevi Voi da me!… ah no, che io non posso! … — Sorgete, o padre, gridava santa Caterina da Siena, prevenendo l’aurora alla porta del Beato Raimondo: sorgete a comunicarmi, o che io muoio per volar con Gesù! — S. Giuseppe da Copertino che fa mai? Ammirate! fa la Comunione spirituale; ma vola col corpo in aria verso al Ciborio dov’è personalmente Gesù. E l’innamorato s. Filippo Neri riceve Gesù, e in tal enfasi di gaudio il cuore gli batte sì forte, che trovando troppo angusto il petto all’amore divino, gli solleva due coste. Oh sentite una vocina di bimba che piange: ma, Gesù mio, a me, a me!… È la beata Imelda la quale grida di mezzo alla chiesa, in vedendo Gesù in mano al sacerdote che comunicava. Le monache a lei: taci, bambina, lo riceverai quando sarai ammessa. Ella non sente, e grida più forte: Gesù mio, vi voglio! Gesù mio, vi voglio! e Gesù parte di mano dal sacerdote, vola a lei. Lo riceve la bimba, palpita, palpita di quell’amore, di cui non si vive in terra, e vola subito in paradiso. Che bella morte improvvisa in quella prima Comunione in seno a Gesù! E fino là morto sul feretro in mezzo della chiesa s. Pasquale di Bailon alla elevazione della Messa solleva la testa, guarda l’Ostia santissima, e a Lei si inchina sì che direste che il suo corpo morto si vivificasse ancora della vita di cui già l’anima beata viveva in Dio. – Miei fratelli, e noi e noi che facciamo? Deh, non mi ricordate i villani rifiuti all’invito del Signore del Vangelo; ché troppo mi fa male al cuore sentire a dirgli: ho una creatura che amo, ho campi, ho bestie da curarmene troppo più che non del vostro convito. Sento le fiamme al volto al pensare a quegli sciagurati… Lo riceveremo noi, sì, lo riceveremo tutti i dì, lo riceveremo a tutte ore nella Comunione spirituale, e vivremo in modo da poterlo sempre ricevere, stimando con sant’Ambrogio essere per noi troppo pauroso castigo della Comunione Santissima esser privati. Su su, d’ogni condizione fedeli, facciamo una lega, corriamo ad ascriverci alla santa crociata, diventiam tutti, ché ci vien concesso, cavalieri di onore, e portiamo sulla nostra bandiera: — Viva Gesù nel Sacramento, — A lui sia tutta sacra la nostra vita; corriamo, a Lui; corriamo dove è tutto il nostro cuore, e vegliamo di e notte intorno al Re del nostro amore… – A questo fine di non lasciare Gesù Cristo in mezzo a noi da noi abbandonato si va stabilendo la cara società che è chiamata col bel nome di Guardia d’onore. In essa gli ascritti d’ogni condizione si recano all’ora stabilita, d’accordo fra loro, per far la guardia al SS. Sacramento; ed è bello il vedere come s’ingegnano di surrogarsi l’un l’altro nelle ore concertate. Oh l’amor verace e vivo sa pure trovar tempo, inventare industrie ed adoperare argomenti, per fare che il Diletto divino Gesù nelle nostre chiese abbia sempre un cuor umano che palpiti d’amore per Lui a nome di tutti i fedeli! Nelle parrocchie, dove è istituita siffatta Guardia d’onore, a qualunque ora voi entriate nelle chiese, vi accorgete se vi è il Santissimo, più che dalle fiamme delle lampadelle o dei ceri, dai cuori dei fedeli che gli palpitano intorno a fargli la guardia. O Maria, quanto sarete contenta voi che quei buoni vi accompagnino là dove deve essere il vostro cuore. Signori, viva Dio! La pietà e l’amor di Gesù non sono spenti nei fedeli. Lo prova oggi questo fatto che l’amore è come potenza elettrica latente…. Su via adunque, su via, uomini di gran Cuore, date le scosse, e scintillerà una luce vivace d’amor celeste dappertutto. Voi vi commovete? Aveva dunque ragione di dirvi io in sul principio, che solo per vedervi ricevere tutti Gesù mi trovo già consolato. Egli è perché vi amo d’amor di madre! Figliuoli del nostro Sangue di Gesù, che in tutti scalda la nostra vita, stendete le mani verso Maria, tra le sue braccia ponetevi al sicuro, riparandovi nel Cuor di Gesù: Vita vestra abscondita cum Christo (Colos. III, 3). Come sta il bimbo in grembo alla mamma; e come quando il bambino balzato dalle sue ginocchia si allontana per poco, e sentendo rumor che lo spaventi, ed egli torna correndo subito ancor alla mamma; così fate voi ad ogni principio di tentazione: ad ogni pensiero cattivo correte subito col cuor a Gesù nel Sacramento, sempre col grido: — Gesù e Maria. — E siccome se mai entrasse in casa un tale che minacciasse di metter le mani sul bambino, egli balza prestamente in seno alla madre, le nasconde dentro nel petto la sua testolina, e allora non ha più paura! Anche noi, anche noi adoperiamo così: nelle tentazioni più forti, rifuggiamoci nel Costato aperto di Gesù, stringendoci al suo Cuore in una Comunione spirituale: La tentazione continua? e noi sempre in Comunione spirituale con Gesù. Sfidiamo in Gesù i demoni; e quanto più saranno, e continui negli attacchi, noi più vivamente attaccati a Gesù, farem cum tentatione proventum (Cor. X, 13). Ieri, oggi, sempre in eterno in Gesù: con lui in combattimento, con lui in agonia e con lui finalmente in gloria nella beatitudine in paradiso; perché la Comunione è il pegno della vita eterna.