LE BEATITUDINI EVANGELICHE (-1B-)

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (1B)

[A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]

CAPO PRIMO

Beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum cœlorum

[Beati i poveri di spirito perché di essi è il Regno dei Cieli]

II

LIBERI SONO I POVERI COME GLI UCCELLI

Anche qui « poveri » sono, non quelli che si trovano sprovvisti di beni, ma tutti coloro i quali, se privi si tengono esenti da invidie, se provvisti si tengono indipendenti e sciolti da ogni oggetto terreno e sono del tutto pronti a disfarsene come la Provvidenza mostri di volere. Veramente liberi sono questi poveri. Essi non subiscono nessuna soggezione da parte di codesti averi. Non fanno loro gola. Non li attirano. Non ne sognano. Neppure allorché essi abbiano nell’animo di condurre a termine opere di utilità del prossimo e occorra il denaro. Si trovano in una condizione di piena indipendenza dalle cose esterne. Ne sanno usare e sanno farne a meno. Sciolti come uccelli, volano su cose e vicende, e nessun vischio le avvince. Neppure ne subiscono alcun fascino, poiché ne hanno visto e conoscono con l’utilità anche il peso e il disagio. Il loro cuore è esente dall’intorpidimento, che le preoccupazioni materiali inducono persino negli spiriti più agili. Certamente non gustano questa benedetta libertà quelli che, essendo privi dei mezzi di fortuna agognati, si tormentano della loro sorte. Né hanno nulla della gelosia con cui altri guardano le altrui comodità e ricchezze. Neppure assomigliano a chi, per una volontà di rinuncia orgogliosa, vede la tavola imbandita e s’allontana dichiarando la propria superiorità: subendone la cupidigia. La libertà evangelica, più che di rinuncia, sa di conquista. San Francesco non ebbe gesti di disprezzo, non tolse via lo sguardo con dispetto dal sottile fascino del possesso ma volò verso la sua indipendenza lieto, del tutto agile, di fronte ai legami di una soggezione fastidiosa e seccante. Non è questo lo stato dell’uomo comune, di certo. L’esempio di alcuni Santi non è per tutti. Esso nondimeno ha un alto valore di monito e di richiamo. Ci dice chiaro come siano saggi soltanto coloro che sanno mirare all’intimo delle cose, e a possedere questo piuttosto che l’esterno. La proprietà esterna disturba pensieri e determinazioni; l’interna, vale a dire il possesso di noi medesimi, ci porta verso il vasto cielo della libertà dello spirito.

LA LIBERTA’

Occorre fare un’osservazione. La rinuncia di San Francesco e di chiunque lo imiti, sia pure nella comune vita di famiglia, e non abbandonando nessuno dei suoi impegni, raggiunge questa interiore proprietà e libertà. Non ha il fine di arrivare ad altro possesso di maggior prezzo. Ecco un uomo, che si spoglia delle sue vesti, si getta nel fiume per trarne un oggetto prezioso. Un altro impiega in un rischio tutta la sua sostanza, nella speranza che gli serva a guadagnare assai più di quello che sacrifica rinunciandovi. Costoro non hanno rapporto con la disposizione d’animo, che intendo presentare. Questa intende semplicemente disfarsi d’un impaccio. Se mai chi vuole vivere il consiglio evangelico ha di mira la conquista della vita eterna con un passo più spedito e con un risultato più sicuro. Ma anche in tale caso intende dirigersi con assoluto distacco e per amore di esso. Egli è convinto così di provvedere al proprio interesse e consapevole del valore della conquista raggiunta con la libertà dello spirito. E lo vorrebbe altresì nella ipotesi che la sua risoluzione non gli servisse per il fine supremo, soltanto per il pregio con cui esso gli si presenta. Un padre o una madre di famiglia può apprezzare questo stato d’animo e anche viverne. Non sembri assurdo. Procuri di dare al suo lavoro, per le comuni necessità, il valore di un mezzo imprescindibile e giusto; tenga lungi dal cuore l’avida brama d’una prosperità, la quale in sé è inceppante, cagione di noie e tale da dissipare lo spirito al di là d’ogni sollecitudine sana e atta a facilitare il raggiungimento dei fini della vita. «È certo, che la sola virtù è il sommo bene, scrive sant’Ambrogio, e essa sola è bastevole al frutto della vita beata. La felicità non si consegue con i beni esteriori o del corpo, ma con la sola virtù, mediante la quale s’acquista la vita eterna. Poiché la vita beata è il frutto delle cose presenti e la vita eterna è la speranza delle future. « Nondimeno molti pensano impossibile la vita beata in questo corpo infermo e tanto fragile, nel quale bisogna affannarsi, dolersi, piangere, sopportar malattie. Ma io non dico che la vita beata consiste in una certa allegrezza del corpo e non nell’altezza della sapienza, nella soavità della coscienza e nella altezza della virtù. Infatti felicità è non star con le passioni, ma vincerle e non lasciarsi sopraffare dalla perturbazione del dolore temporale ». (De Off., II, 5). Ed ecco una bella pagina di Ozanam sul concetto di povertà nel Cristianesimo e nel paganesimo: « Nei tempi antichi i poveri erano stati cacciati sotto i piedi; il genio antico li guardava come colpiti dalla riprovazione divina. Ancora ai tempi di sant’Ambrogio i pagani e i cattivi Cristiani solevano dire: Non ci diamo pensiero di far elemosina a persone che Dio ha maledette, poiché le lascia nella penuria e nell’indigenza. Conveniva cominciare con l’onorare la povertà, il che fece dandole il primo posto in chiesa e nelle comunità dei Cristiani. Lo dice san Giovanni Crisostomo: — Come le fonti sono disposte in vicinanza dei luoghi di preghiera per l’abluzione delle mani, che dobbiamo tendere al cielo, così i poveri furono dai nostri predecessori collocati vicino alla porta delle chiese per purificare le nostre mani con la beneficenza, prima d’innalzarle al Signore. — I poveri, più che rispettati erano ritenuti necessari. Ed ecco la gran parola, spesso incompresa e più spesso bestemmiata: — Ci saranno sempre poveri. — Non fu detto che ci saranno sempre ricchi, ma che era necessario che ci fossero sempre poveri, e, in mancanza di povertà forzata, ci fosse la povertà volontaria; che ci fossero istituti nei quali ciascuno facesse volontaria abnegazione della proprietà personale. Ecco come la povertà veniva prendendo il posto che era segnato nell’economia divina; essa diventava il perno della società dei Cristiani ».

LO SBOCCO DELL’AMORE

Sicché è si lecito affermare, che la elemosina, che ora vien quasi malfamata da chi ignora i l cuore umano e gli umani bisogni, non è tanto un dovere, quanto il diritto del Cristiano. Poiché questi è ben lungi dall’umiliare i poveri con i controlli, le inchieste burocratiche, le lunghe attese ufficiali, ma dà senza orgoglio per amore di Dio ein penitenza dei propri peccati. Ci fu un tempo quando si parlava di Gesù Signore e di san Francesco come di due epigoni del comunismo. Ma l’equivoco appariva chiaro a chiunque fosse Cristiano informato. Questa dottrina era un mezzo per appropriarsi dei beni terreni, non per liberarsene. Era la risultante d’una avidità, che passava i confini del puro lamento per la ingiustizia e arrivava a odiare chi n’era esente e a tentare la strada di sostituirlo nel godimento di beni non guadagnati legittimamente. Gesù invece predicò il contrario. Disse : « Non vincolate i vostri desideri a codeste cose passeggere e ingannatrici; non permettete che un quadrato di terra o una borsa d’oro vi assorba talmente il pensiero da non concedervi pace; siate liberi da tutto ciò, conquistate la vita eterna ». – Chi ha responsabilità di famiglia o comunque è tenuto a vivere non nella solitudine, ma in società, deve curare i mezzi di sussistenza di sé edei suoi, ma nondimeno non deve tendere con ansia tutte le sue facoltà verso il possesso di ciò che non corrisponde ai profondi e veri bisogni della vita umana. Gli avidi sono degni di commiserazione e non meritevoli d’invidia. Bisogna predicare ai poveri effettivi, che spezzino anche i l vincolo spirituale verso gli averi e facciano sì, che la loro libertà sia pienamente raggiunta. Bisogna ricordare ai ricchi di diventare poveri in spirito, di acquistare lo spirito della povertà. Così una madre di famiglia è in grado di far balenare alla coscienza dei suoi figli la bellezza del consiglio evangelico, senza timore di sospingerli alla trascuratezza dei loro futuri doveri di lavoro e di responsabilità. Per soddisfare ai doveri comuni della vita, non occorre la schiavitù, né la soggezione alla materia. Tutto è possibile provvedere con piena libertà e indipendenza di spirito. È la condizione di tanta tranquillità e di tanta pace. I figli saranno ben grati per averne conosciuta la bellezza e la via d’arrivo e canteranno le lodi dei loro cari per tutta l a vita, poiché avrebbero battuto il torturante sentiero dell’avidità e invece per loro merito han potuto salire quello libero e solare che conduce alla libertà e al vero benessere.

III

LE GARANZIE DELL’INDIGENTE IL RICCO LADRO

Rifletti alle preoccupazioni del ricco del Vangelo, Egli, prevedendo un raccolto assai abbondante, s’avvide di non avere abbastanza capacità di granai e di cantine. Non soltanto non si trovava soddisfatto d’aver molta merce da gettare in mercato, ma intendeva conservarla più che gli riuscisse, per cavarne un utile più alto allorché il bisogno del pubblico fosse maggiormente cresciuto. Pensa e ripensa, decide di abbattere e ricostruire con criteri più previdenti. L’avarizia, senza che s’avverta, giunge persino a corrompere il giudizio e induce all’ingiustizia. Si ricordi Aman, che voleva impossessarsi della vigna di Nabot. Ne ha una vera passione: e alla ripulsa rispettosa del legittimo proprietario si sente venir meno dalla rabbia. Non mangia, non dorme. Finché la moglie suggerisce l’astuzia che doveva coprire il furto. Anche nelle minori vicende della giornata l’avidità tende a misconoscere la giustizia e a giustificare la frode, commettendo il male contro il diritto del prossimo. In un ufficio, maneggiando le minuscole cose che servono, l’avarizia acceca e sospinge alla sottrazione dell’altrui. L’istinto di appropriarsi della roba d’altri riesce a stimolare ad indelicatezze puerili, ma che sono sintomo di una vera corruzione del criterio del giusto e dell’ingiusto. Chi è povero in spirito sorride ad ogni forma di tentazione d’avarizia, poiché, non ha presa su lui, né può allentare il gusto della libertà di cui gode. Sente il valore della serenità che gli viene da questa indipendenza dalla concupiscenza del possesso, né intende rinunciarvi. Sa che ogni avere è dolore, che ogni possesso è decesso. San Paolo dice l’avarizia, « simulacrorum servitus — schiavitù degli idoli » (Col., III, 5). E di forma speciale. La maggiore battaglia del Signore fu contro l’avarizia dei capi del popolo; il tema principe dei sermoni popolari di San Francesco fu il distacco dalla passione della roba; i Santi senza distinzione offrono al mondo l’esempio della libertà assoluta dell’animo, pur maneggiando sovente molti beni. È proprio chiaro che la santità si tiene in una posizione opposta a quella dell’uomo preoccupato di ammassare. E poiché essi sono anche gli esemplari della letizia e dello spirito sorridente dobbiamo dedurne, che l’avarizia generalmente opprima e soffochi il cuore dell’uomo. È pertanto una passione riprovevole anche per una considerazione esclusivamente umana.

LOTTE SENZA FINE

Non è per causa degli averi, forse, che accadono i maggiori urti fra individui e fra i popoli? Quando un individuo comincia a riflettere, che il suo vicino ha questo e quest’altro e che egli ne è privo, studia il modo come entrarne in possesso lui pure; considera le diverse possibilità; pesa i vari sforzi, che offrono qualche speranza; si decide infine ad affrontare anche quelli meno leciti o del tutto ingiusti. Entra in lui come una suggestione, e vede ogni cosa sotto il prisma di quel sogno, di quello stimolo, di quella passione. Finché si persuade di poterla legittimamente soddisfare. Né è detto, che decisa la questione, tutto sia pacificato. Nell’altro permane il senso dell’umiliazione edella disdetta. Bisogna pensare alla rivincita. Per tal modo vi son famiglie che si fan divorare dalla pubblica amministrazione della giustizia ogni avere. È al contrario chiarissimo, che la intelligenza, la parsimonia, la tenacia del lavoro conducono al benessere assai meglio e con maggiore vantaggio. Soprattutto con onore e vera gloria. La Provvidenza ha distribuito i beni di natura con prodigalità, ma anche con criteri tali da indurre gli uomini a riconoscere una certa interdipendenza fra loro. Chi difetta d’un genere lo potrà trovare presso altri dietro lo scambio di ciò che possiede. Non è forse provvido anche questo bisogno, che tutti urge gli uni verso gli altri, affinché tutti sentano il dovere di ricorrere ai propri simili senza odio, senza avidità?

COMPOSTEZZA DI DESIDERI

I doni di Dio vengono per tal modo valutati secondo verità. Come non riconoscere la volontà del Signore, che vuole l’armonia fra tutti eil rispetto dei particolari diritti? Dio tutela il carattere dell’individuo edel popolo. Lo favorisce ebenedice. L’uomo che esce, per sola cupidigia, dall’ordine fissato dalla natura e che ambisce di valicare le linee di confine segnate dalle capacità congenite, sovente si trova privo delle energie, delle luci, degli accorgimenti necessari alla riuscita. È quindi la povertà in spirito la condizione più propria per arrivare alle mete naturali. Le quali tendono sempre ad elevarsi, ma nell’armonia delle circostanze e delle condizioni. Qui sta il privilegio delle coscienze ordinate e degli spiriti prudenti. E vivono « beati », vale a dire sereni e placati dentro se stessi. Le loro intraprese si svolgono senza le gravi scosse dell’ambizione, senza i contrasti della gelosia. Non turbano la boria d’alcuno. Hanno un tono così spontaneo e schietto, che — a meno di temperamenti malvagi — lavorano circondati dal riconoscimento o almeno dal rispetto. Come non assalgono alcuno, così da nessuno vengono assaliti. E filano tranquilli per la loro ascesa, guadagnando tempo e lavorando in pace, con tanto maggiore successo. – Don Bosco ebbe in alto grado la povertà in spirito eppure fu assai tormentato e turbato nello svolgimento della sua mirabile attività. Ma questo non veniva da invidia o gelosia; si temeva da spiriti miopi per i riflessi politici della sua azione popolare giovanile. Infatti non mancarono le dimostrazioni della violenza politica di chi vedeva nel santo sacerdote una minaccia contro le istituzioni. Ma la sua condizione spirituale, che lo teneva in una perfetta libertà di movimento, costituiva la sua forza; sicché o in un verso o nell’altro egli trovò modo di perseverare o di vincere.  Nessun vincolo o peso lo costrinse a tener in conto gli interessi materiali. La libertà lo fece agile e gli diede la vittoria. Ha verificato in pieno la povertà e s’è conquistato « il Regno de’ cieli » sin da quaggiù. Quale efficacia di bene nell’ambito stesso della Gerarchia ecclesiastica! La sua santità fu riconosciuta ancor vivo e la sua abilità nel condurre gli affari fu messa a profitto dalla fiducia dei Papi.

IV

I GODIMENTI DEI POVERI DI SPIRITO

BENI SCONOSCIUTI

Nella rinuncia, che è base della vita ascetica, sta un merito indubbio. È intanto una dimostrazione ben chiara dell’amore di Colui per il quale la rinuncia vien concepita e fatta. Se la morte è il medesimo segno di amore, l’accettazione d’una astinenza per amore è una prova sicura di esso. Quando si parla di rinuncia occorre tener presente che in essa vengono comprese tutte le cose le quali alla vita esteriore ci legano e ce ne fanno schiavi. Si considera « ricco » nel senso del Vangelo anche colui che ambisce gli onori, la vanità, i titoli onorifici e i primi posti. – È una umiliazione vedere gli uomini d’ogni grado e classe affannarsi per fregiarsi di segni convenzionali e di dati colori alle vesti, per cui la esistenza loro assomiglia ad una « fiera delle vanità ». È vero, che si intende onorare il grado non la persona… Ma che bella opportunità per la mamma avveduta, di far rilevare il poco conto da fare di codeste forme di angusta visione. Esse di solito nella realtà sono in proporzione inversa del merito. Sta bene: lo spirito di distacco, che agli inizi può essere frutto di superamento della naturale inclinazione alle cose di quaggiù, in seguito diventa senso di sollievo e di liberazione; sicché non pesa la rinuncia, ma soddisfa e piace la agilità e levità che rappresentano un vero godimento dell’animo. In tali condizioni non si avverte nessun sacrificio, ma si entra nel vestibolo della piena libertà dei figli di Dio. Il quale poi riconosce l’amore e premia. E il premio nella linea stessa della volontà del fedele è un accostarsi tranquillo e calmo alla realtà sostanziale della vita. Lo spirito libero di seduzioni inferiori riacquista una giovinezza nuova nella sensibilità e nel gusto. Vede la stessa natura con occhio puro e la interpreta. L’occhio che suggeriva al divino Maestro quelle similitudini pregne di bellezza e di significazione. Nella sua visione della natura era la freschezza dell’occhio vergine, che scorge l’opera del Signore, il dono all’umanità, il simbolo delle cose del Cielo. I prati ondeggianti delle colline di Galilea gli servivano come tappeti per la folla avida della sua parola; i laghi erano il quadro pieno di leggiadria delle sue ammonizioni e dei suoi significativi prodigi; i campi lavorati gli suggerivano cento brevi racconti di padroni e di servi, di coloni e di disoccupati, di fedeli agricoltori e di ignavi pronti a sfruttare chi offrisse loro il modo di provvedersi senza travaglio la vita. E le messi dicevano al suo animo tante cose dell’anima, del lavoro spirituale, del raccolto al termine della esistenza di quaggiù; suggerivano la proporzione con cui produce una volontà bene saldata al dovere e decisa di raggiungere il massimo profitto dalla fatica e dal sacrificio per Dio. Gli uccelli dell’aria gli suggerivano l’immagine del ladro dell’anima, ma anche quella della rapidità della vita presente e della cura con cui dobbiamo procurarci i beni, che hanno valore nell’altra.

CANTI DI LETIZIA

I Santi, che vissero nelle forme più prossime a quelle del Signore Gesù, ebbero essi pure questa verginità di visione e seppero esprimerla e viverla. San Francesco sta al primo posto. Ma anche l’aria della sua prima comunità dovette avere questo profumo di spontaneità e di godimento dei doni naturali di Dio. Che cosa dice l’Inno alle creature? Da quale atmosfera spirituale esso è sbocciato, se non da questa vista giusta delle semplici e caste bellezze di cui il Signore ha arricchito la sua opera fisica a servizio dell’uomo? Ciascuna di queste espressioni della sua bontà deve cantare le lodi del Creatore. E Francesco ne dice l’invito. Laudato si, mi Signore. Ogni opera di lui ha una voce, ha un profumo, un suono con cui viene esaltato l’essere da cui ebbe origine. Una simile concezione della esistenza terrena non nasce certo da una dilezione interessata e da un padrone cupido; ma soltanto dalla intuizione immediata e delicata della funzione delle cose, che Dio ci mise paternamente intorno. E sono, si noti, i beni di tutti. Quanto più un Cristiano è spoglio di beni personali, a cui dedicare le proprie attenzioni esclusive e gelose, e meglio sa penetrare il valore di esse, come offerta di Dio alla sua povertà e al suo diritto di godere. – Da questa visione della natura vengono i migliori « Fioretti ». Dove il gusto dell’uva che viene incoraggiato nel bisognoso di cura e il pasto di pane e di acqua attinta alla sorgente viva, accanto alla quale stanno seduti giocondamente Francesco e Masseo, sono i documenti d’una letizia mai gustata dagli schiavi della gola, quali sono comunemente coloro che possiedono. « E vedendo San Francesco, che li pezzi del pane di frate Masseo erano più belli e più grandi che li suoi, fece grandissima allegrezza e disse così — O frate Masseo, noi non siamo degni di così gran tesoro; e ripetendo queste parole più volte, rispose frate Masseo: — Padre come si può chiamare tesoro dove è tanta povertà e mancamento di quelle cose che bisognano? Qui non è tovaglia, né coltello, né tagliere, né scodelle, né mensa, né fanti, né fancelle. — Disse San Francesco — E questo è quello che io reputo grande tesoro, ove non è cosa veruna apparecchiata per industria umana; ma ciò che ci è, si è apparecchiata dalla provvidenza divina, siccome si vede manifestamente nel pane accattato, nella mensa della pietra così bella e nella fonte così chiara; e però io voglio che preghiamo Iddio, che il tesoro della santa povertà così nobile, il quale ha per servitore Iddio, ci faccia amare con tutto il cuore ». Questa pagina dei « Fioretti » è davvero efficace. Il piacere di cui parlammo dianzi vi è espresso in forme plastiche e con parole splendenti. È come un ritornare del gusto allo stato primitivo. Èun rinverdire della sensibilità alle sue esperienze più ingenue, è superare le abitudini esigenti della saturazione e quindi arrivare alla semplicità primitiva e schietta.

ECCO IL PIACERE

La capacità d’ammirare è segno d’intelligenza e di valore morale. Più l’animo si sveglia alle scintille di bellezza e di bontà, distribuite da Dio nelle sue creature, più gli dimostra di non subire l’influsso delle gelosie e delle invidie, che fanno piccolo il cuore. Chi è del tutto sano dal lato morale ha uno spirito che possiamo dire ecumenico, universale. È degno delle compiacenze divine e segna un alto livello di nobiltà del sentimento. Questa attitudine è opposta allo stato d’animo angusto di colui che, avendo goduta la terra, è ormai nauseato e stanco e nessuna cosa piùlo allieta. Così son certi ragazzi viziati dai genitori senza criterio educativo, che tutto hanno concesso e ad ogni richiesta hanno ceduto. Per questo motivo il povero, colui che non fu secondato, ma contrariato nella sua giovinezza e lungo tutta la sua strada brutta e deserta, se mantiene la castità dei desideri, arriva a quella ingenuità e purità, che consentono le più intime gioie dello spirito. Nella famiglia cristiana il culto della semplicità dei desideri educa e prepara il tono giusto della vita. I figli imparano a dominare le voglie disordinate e ad amare i modesti piaceri della virtù. Sono questi che rendono l’esistenza amabile e serena e che mantengono all’uomo il tono consapevole dei beni di Dio. Gustano la passeggiata tra il verde, apprezzano la conversazione ilare, amano la lettura onesta, si allietano all’osservazione d’un panorama luminoso, ricercano il gioco senza complicazione e lo scherzo innocente, tributano la lode senza accentuazioni adulatorie, fanno sacrificio per il lavoro normale e per il dovere che corrisponde alla propria condizione. Tutto questo complesso di cose che respirano la pace, che danno la serenità, che incoraggiano nei giorni grigi, che rasserenano nelle ore del dolore e stimolano a perseverare fiduciosi sulla propria strada, mostra la bontà del Signore e consola delle pene inevitabili. «Beati» si dicono pertanto costoro i quali hanno scoperto, sotto la cenere delle miserie e delle deviazioni morali, il fuoco sacro, che scalda gli spiriti sacri a Dio.

V.

LO SPIRITO DI POVERTÀ COME FATTORE EDUCATIVO

VASTO RAGGIO D’AZIONE

Ad osservare queste stupende espressioni del Divino Salvatore, qualcuno può sentirsi indotto a concludere, che non vi siano lì motivi veramente utili alla formazione spirituale dei figlioli in famiglia e dei discepoli nella scuola. E per verità la forma ostentatamente paradossale le fa apparire più atte a svegliare uno stato di esaltazione mistica che non a indicare una strada piana e possibile alla totalità degli uomini. – Ma l’apparenza non corrisponde alla realtà. Tutte le difficoltà opposte all’applicazione delle « beatitudini » sono agevolmente eliminate da osservazioni perspicue e definitive. La parola del Signore non è divisibile. Ci sono i comandamenti e i consigli è vero, ma questa distinzione di graduatoria è ben lungi dal rappresentare differenza di sostanza nel suo insegnamento. Nessun esoterismo nelle sue parole. Tutti i suoi seguaci sono tenuti a conoscere tutta la sua dottrina e ad osservarla. Tutti, si deve intendere, secondo le proprie vocazioni e condizioni. Ma veniamo alle difficoltà. Si dice che lo spirito di povertà e di distacco sta bene in quegli individui, i quali, lasciato il mondo, vivono nella solitudine o sotto una regola che a tutto provvede. Ed è una obiezione, che ha un suo motivo solo apparente di giustezza. È principalmente per coloro che fuggono anche il precetto; ma, se questo è inteso nella sua compiutezza e nello splendore della sua forma a tutti viene imposto, sia pure in misura diminuita e in forme, se mai, interiori. Poiché l’attacco è schiavitù; e i seguaci di Cristo sono figli della libertà, alla quale Egli li ha generati. L’attacco è prostituzione dell’uomo alla materia, mentre Cristo ha sollevato l’uomo alle promesse eterne per una vita soprannaturale. L’attacco è sorgente di mali stimoli e incitamenti al peccato, siano essi il piacere, l’orgoglio, l’avarizia, mentre noi siamo chiamati al superamento di codeste passioni, madri di rovina e di disperazione.

MAGGIOR RENDIMENTO

Come può l’uomo, svincolato dall’amore al denaro, amare il lavoro sino a farlo oggetto di tutti i desideri e termine di ogni sforzo? Questa obiezione contiene due difficoltà, da noi considerate a parte. Che il distacco spirituale dall’oro renda indolente l’uomo e diminuisca il suo rendimento sul lavoro, non è vero. Dal lato spirituale il Cristiano — ed è in esso che noi osserviamo il fenomeno — sa di dover lavorare e produrre per la volontà di Dio. Il lavoro è dovere. Ha annesso è vero il piacere del guadagno e del benessere, che lo fa utile e immediatamente efficace sulla vita; e sta bene. Dio ci accarezza sempre così: un dovere e un piacere, perché gli è ben nota la nostra fragilità. In questo piacere, poi, non v’è nulla di riprovevole. È nella legge della vita, che noi si debba lavorare per provvederci quanto occorre alla esistenza fisica e spirituale. Un ragionamento come questo appare chiaro anche al ragazzo, al quale la madre o l’educatrice si volge. Lavora, perché Dio vuole così. Da principio il lavoro ebbe un senso di condanna e di castigo del peccato; ma quando il Verbo di Dio si fece uomo e lavorò fra noi, da allora il lavoro assunse il significato di un gradito dovere, per mezzo del quale, pur guadagnandoci la vita, secondiamo quell’esempio preclaro e stimoliamo le naturali abitudini, producendo e somministrando ai prossimi i frutti dell’ingegno e della forza ricevuti dal Creatore. Quest’altra è una soddisfazione, che sospinge la volontà e la fa alacre e preziosa a tutta la compagine umana. – Volontà di Dio e utile dell’uomo. Sono due ordini di stimoli i quali non esigono affatto l’avidità, ma piuttosto la superano. Ai giovanetti è facile inculcare il lavoro per codesti fini superiori. Ma è anche agevole mostrarlo come fonte di un guadagno ben prezioso per la vita dello spirito. Il servizio del corpo e delle necessità materiali appare chiaro. Ma quello compiuto a servizio delle necessità del cuore, che sente lo stimolo verso il soccorso del prossimo, ha alcune sue radici nella buona educazione e la favorisce. Non è forse di comune uso, la carità al povero incontrato per la strada? Non è questo un efficace modo di sviluppo del sentimento e una rappresentazione concreta delle capacità di ognuno a sovvenire l’indigente, il disgraziato, il fratello colpito da una sventura che esiga soccorso in denaro? Perché non rivelare ai piccoli le condizioni lagrimevoli e commoventi di certi compagni di scuola, che non sono circondati dalle carezze della Provvidenza e non trovano intorno a sé la solidarietà di aiuto e la simpatia, che medica le ferite e raddolcisce gli spasimi? Un cuore giovanile indirizzato su questa via non fallirà nella sua esperienza e saprà trovare dentro di sé gli efficaci sostegni concessi dalla stessa natura il di delle non desiderabili sorprese, che lo studio, il lavoro, le vicende della famiglia, i contatti con i compagni, e lo svegliarsi improvviso di sentimenti in contrasto, sono in grado di provocare.

NASCE L’UOMO D’AZIONE BENEFICA

Vi sono istituzioni da sostenere, iniziative provvide da appoggiare con l’azione e i mezzi di fortuna. Se il giovine sa di possedere secondo il principio evangelico, e di essere perciò depositario di beni, che devono essere considerati come propri del povero, non ne abuserà per il capriccio personale, ma saprà studiarne una destinazione, che apparisca degna di un depositario consapevole e sensibile alla voce dell’alto e della retta e cristiana coscienza. Nel lavoro e nel guadagno i giovani trovano uno stimolo valido, un appoggio chiaro e nobile, un incitamento diuturno ed elevante. Sanno di entrare per tal modo dentro un congegno la cui forza motrice nasce nel cuore stesso di Dio e avvertono nella fatica e nei suoi frutti un sapore divino. Strumenti di Dio Padre sentono di diventare così volontà destinate a potenziare le intenzioni di misericordia del Signore. Le madri e le educatrici non troveranno difficile indugiare dentro questo solco di bontà e scaldarvi i germi di bellezza per la vita avvenire dei loro cari. Dilatare i loro cuori nel respiro d’una generosità attiva e vasta, è creare in essi una tendenza aderente al precetto divino e spegnere i fomiti della passione. Splendono i cuori materni nella visione della generosità dei loro piccoli e sono incoraggiati dalla pronta risposta dell’istintivo entusiasmo di essi per la virtù, che apparisce frutto della diretta azione, del sacrificio pronto, della rinuncia risoluta. – « Beati i poveri in spirito ». Da codesta povertà non è a dire quanta ricchezza potrà emanare, quale generosità sgorgare. Ed esse, le buone mamme cristiane, ne saranno il primo oggetto. Beate esse, perché avranno usato della loro autorità secondo il comandamento divino; beate per avere sotto gli occhi, commosse e colme di intimo gaudio, l’espressione vivente della fatica e del sacrificio compiuto. Ma quella dei figli sarà una « beatitudine » ineffabile e perenne, poiché tutta la vita e nell’aldilà essi benediranno l’opera saggia della madre, dalla quale hanno imparato ad essere liberi e sciolti da vincoli terreni di passioni e di ansie, per raggiungere una condizione tanto sicura dal lato materiale quanto onorevole da quello dello spirito. L’agire infatti secondo la volontà di Dio è operare con vasto cuore ad attuare il comandamento della indipendenza, della libertà, della collaborazione all’azione della sua Provvidenza paterna.

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (-1A-)

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (1A)

[A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]

RICERCA DELLA FELICITÁ

Non vuoi tu essere felice e subito, oggi? Ogni uomo vive con questo miraggio. Vi dirige ogni sua energia, ogni agilità d’intelletto, vigore di cuore e di membra, se occorra. Osserva il facchino del porto, che solleva e trasporta pesi; osserva l’uomo di studio, che vigila le ore piccole della notte. E anche il malato, disteso e immobile sul suo letto d’ospedale, mentre il medico lo studia con nello sguardo la certezza della sua prossima fine, ha nell’ansia dell’occhio errante, nell’occhio affogato nelle lagrime di una affranta debolezza, la speranza della guarigione e alfine del benessere. È una dolorosa passione, che invade tutti i cuori e che può essere sanata soltanto dalla fede. Con questa impariamo ad aver fiducia in Dio e ci abbandoniamo a Lui, provvido Padre, che ci ama tanto. Allora lo stimolo della felicità, benché non abbia raggiunto la meta, si sente in parte appagato, poiché in Dio sappiamo essere ogni bene e che un giorno, non mai molto remoto, ci verrà dato in libero possesso. « Beatus vir cuius est nomen Domini spes ipsius— beato l’uomo che pone la sua speranza nel nome del Signore » (Sal. XLIX, 5). Ogni altra cosa fa fallimento. Tutto è illusione, apparenza, inganno. Ogni giorno incontriamo cuori delusi, anime sconsolate, che avevano riposto le loro speranze in oggetti incapaci di servire al fine. Eppure l’esperienza della ricerca in una nuova direzione vuol essere ogni dì ripresa. Tanto è il fascino, che, sopra noi miseri, esercita il mondo. – Ho ascoltato una giovinetta, la quale pareva abbattuta dal fulmine. Il ritratto della desolazione. Aveva amato con molta ingenuità, chi non era degno di essa. S’era lasciata godere. Un caldo sogno l’aveva accompagnata per mesi. La coscienza non la rimproverava di nulla, perché le pareva, che l’amore giustificasse tutto. Ma lui si annoiò della sua totale condiscendenza e l’abbandonò. Come avrebbe potuto medicare una così lacerante ferita? La povera giovane smaniava e diceva di non poter credere alla realtà. Così, allorché uno corre perdutamente verso la vanità. Si carica di gingilli. Ostenta ricchezze d’abiti; la pelliccia rappresenta il cielo raggiunto e la dolcezza più ambita dello spirito vano. Ma poi s’avvede come molti altri s’abbiglino con raffinatezza; e la singolarità, su cui soprattutto puntava, sfuma. Tutto diventa banale, comune, senza interesse. La figura esterna stanca, anche se graziosa. Ve n’ha molte di persone graziose e a volerle osservare tutte, si smarrisce il sapore della stessa grazia. L’insipido che cosa vale poi? Le frasi, che tu cogli sulle labbra dei gaudenti di tutte le età e d’ogni condizione, sono atte a sfiduciare uno spirito appena sensato. È scetticismo, e tu invece agogni il bene reale. La sazietà li ha delusi. Ogni esperienza ha tolto dal loro animo qualcosa e li ha abbandonati come esausti e disseccati: Che se non hanno raggiunto ancora la misura; se nutrono tuttavia qualche capacità di piacere e possibilità di godimento, tu in essi avverti la incertezza e lo sforzo per sostenersi, mentre sotto sentono il vuoto. « Et mundus transiit et concupiscentia ejus— e il mondo passa e la sua concupiscenza » (1 Joan. II, 17). Non si trovano che animi irritati, sorpresi, disperati fra coloro che hanno riposto la loro fiducia in esso. E questo veleno contamina tutta la loro esistenza; quella della famiglia, che è tradita; quella del lavoro, che non produce; quella del cuore, che ha smarrito la capacità d’amare. Lo sconforto li fascia e li soffoca. Gesù al contrario, non ci illude con attraimenti inconsulti; ci dice chiaro il nostro dovere e la nostra sorte. Non patteggia con le teorie correnti. Neppure con le nostre passioni. Ci tratta con lealtà: né freddezza o indifferenza, ma neppure illusioni o accarezzamenti. Per questo bisogna credergli; dargli affidamento; far conto delle sue parole come di quelle di uno che ci ama con totale amore. Se lo ascolti così, presto ti sarà dato di penetrare la bellezza della sua amicizia. È tal cosa che descriverla non è possibile; farne l’esperimento e gustarla, sì. Quanti intorno a noi credono in Dio, hanno fiducia nel suo Figlio Gesù e si trovano bene! La fame di conforto tanto viva nella nostra natura, in essi viene bene soddisfatta dai frutti dell’intimità con Cristo. Per citare un esempio, ecco le parole di una giovine trappista, che languì per diversi anni e poi morì, offrendo la vita fresca e olezzante per l’unità nella Chiesa di tutti i suoi figli separati: « Mi affido a lui, e basta. Il Signore sa quello che fa… Non è mai troppo quello che si fa per il Signore … Non chiedo consolazioni; non sono necessarie. Si può vivere senza consolazioni; la grazia di Dio supplisce a tutto». (Suor Maria Gabriella della Trappa di Grottaferrata).

ANELITO BENEDETTO

Ma anche fuori per il mondo, per nostra buona sorte, vi sono anime anelanti a glorificare il Signore e che in questo trovano tutta la loro felicità. Sono le colonne del Regno di Dio. Come esse si affidano a Dio, così Dio, per tutti i suoi piani di benedizione, si affida a loro e le fa suoi intermediatari, suoi messaggeri, suoi pazienti, talvolta anche suoi crocifissi. Poiché coloro che sono di Dio, imitano nella propria vocazione la missione del suo divin Figlio. Per essi è questa la maggiore beatitudine. Se non in tale grado, la nostra dedizione al Signore deve essere nondimeno piena. « Chi non ha rinunciato a se stesso, scrive il ven. Padre Antonio Chevrier, è sempre in agitazione per lagnarsi e cercare consolazioni e soddisfazioni essendo sempre nella noia, nel turbamento, nell’irrequietezza. Questi turbamenti, queste irrequietezze non sono in fondo che delle inezie presto dissipate da un solo pensiero di fede e d’amor di Dio, d’umiltà; ma poiché in quelle anime non v’è né fede, né umiltà, né amor di Dio, né forza di azione, allora esse non possono sopportar nulla, e quelle inezie sono montagne per loro; onde trovano insopportabili cose di cui altri non farebbe caso; tutto ciò deriva dall’amor di sé. Come sono infelici quelle anime, che si ricercano continuamente, che non si occupano che di se stesse! Che vita intollerabile per sé e per gli altri e per chi le dirige e governa! ». – Basterebbe prendere in considerazione con serietà quanto sino fallaci le parole degli uomini, per aderire con tutta l’anima a quelle del Signore e comporre la propria vita in serenità piena e felice. Quanto è deplorevole la condizione di chi si affida al mondo, altrettanto sicura e consolante è quella di chi si abbandona a Dio. La nostra felicità non può trovarsi che nella linea della volontà di Lui. Occorre pertanto che ci gettiamo ai suoi piedi e che gli facciamo una accorata e decisa dichiarazione di fedeltà. Sia essa come un impegno solenne nei riguardi della nostra vita avvenire, per renderla feconda e utile alla casa alla famiglia, al gruppo sociale del quale facciamo parte. « Salvaci, o Signore! L’avidità della beatitudine mondana mi ha vuotato il cuore. Voglio la tua, quella dei tuoi santi, che abbandonarono le strade dell’errore per seguirti. Da qui dove sono, dalla mia condizione comune, intendo vivere con te, per te. Le mie beatitudini siano d’ora innanzi le tue. Le mediterò con l’intento di farne il nutrimento della mia vita, per conformarvi tutto il mio giudizio, il mio pensiero, la mia attività ». – Quando un’anima è interiore, sa vivere raccolta in sé e mantenere il dominio delle sue passioni, diventa l’ammirazione degli Angeli. In tale condizione, unendo le nostre azioni a quelle di N. S. Gesù, noi le facciamo partecipi del valore loro proprio, sicché divengono come divinizzate. Non ti pare, che così valga la pena di vivere? Capovolto il giudizio del mondo circa la vita nostra, le beatitudini diventano davvero il nostro Vangelo. Non temiamo più le tribolazioni; ordiniamo le nostre aspirazioni nel senso loro; miriamo a possedere il tesoro più prezioso che mente possa mai concepire; e tutto diventa lieve e facile, tollerabile e consolante. «.Beati qui ad cænam Agni vocati sunt — beati quelli che sono invitati alla cena dell’Agnello » (Mt. XXII,3).

Beati pauperes spiritu: quoniam ipsorum est regnum cælorum.

 Beati mites: quoniam ipsi possidebunt terram.

 Beati qui lugent: quoniam ipsi consolabuntur.

 Beati qui esuriunt et sitiunt justitiam: quoniam ipsi saturabuntur.

Beati misericordes: quoniam ipsi misericordiam consequentur.

 Beati mundo corde: quoniam ipsi Deum videbunt.

Beati pacifici: quoniam filii Dei vocabuntur.

Beati qui persecutionem patiuntur propter justitiam: quoniam ipsorum est regnum cælorum.

[Matt. V, 3-11]

CAPO PRIMO

Beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum cœlorum

I.

LA SCHIAVITÙ DEL RICCO

Quando parliamo di ricco nel senso evangelico, si pensa a colui il quale ha lasciato penetrare nell’intimo suo l’attacco alle cose terrene di qualunque sorta: averi, ambizioni, desideri, passioni e amori illeciti. Chi guarda la terra con l’occhio avido e insistente è il ricco di cui parla il Signore. Per vero il possesso di qualunque bene legittimo, con un animo sereno e libero, così che non tema d’esserne spogliato, con quel timore che accascia e abbatte, non è ricco nel senso riprovato; è semplicemente uno al quale la Provvidenza ha affidato dei beni, di cui egli cerca di fare l’uso giusto e doveroso. Non fu rimproverato Nicodemo per la sua posizione elevata nel Sinedrio, vale a dire nel consesso sociale più alto che il popolo d’Israele avesse. Né il Centurione romano, che a Gesù ricorreva per il figlio malato, fu fatta colpa della distinzione in cui trovavasi dal lato sociale. Neppure il ricco Epulone della parabola fu redarguito perché possedeva ricchezze, ma invece per il malo uso che ne faceva, banchettando senza fine e trascurando la miseria dei bisognosi di cui aveva un esemplare tanto interessante alla porta della sua casa. Dobbiamo riconoscere piuttosto, che le ricchezze sono un dono di Dio, che consente ai ricchi di sentimento cristiano di compiere un bene notevole in questa vita e di conquistarsi dell’altro bene per sé in quella definitiva ed eterna. – Il ricco è pertanto lo spirito, che, avendo lasciato aderire la volontà ai comodi e alle avidità delle cose terrene, si trova in una vera condizione di indigenza. Difetta di ogni elevatezza morale. Eccolo: il ricco è affetto dalla miopia dell’avarizia. Non vede che il suo oro e con gli occhi e con l’animo. Le sue sollecitudini sono per l’aumento di quel possesso, che lo tiene schiavo. Crescere la quantità d’oro o di godimento o di soddisfazione è l’unico suo sogno. Aderisce alla terra con tutte le sue facoltà. Si chiude nell’angusto mondo che gli sta davanti, con le sue spregevoli preoccupazioni. Misconosce ogni funzione nobile alla propria vita. Le sue giornate vengono spese miseramente. Le stesse attitudini naturali in tal modo sono prostituite nel loro oggetto e sviate nelle loro finalità naturali. Così che l’animo dell’avaro diviene via via più chiuso e mortificato in quel suo tenebroso mondo di desideri e di appetiti, che lo fanno termine di pietà per ognuno. Pietà non scompagnata da condanna e da riprovazione.

LO SCHIAVO

Il ricco apparisce altresì schiavo dei suoi bassi istinti. È la sua una schiavitù vergognosa e infamante. Avrebbe l’ali delle naturali tendenze verso le cose elevate e sante; avrebbe, oltre a ciò, le capacità materiali per dedicarsi ad opere di bene per sé e per i suoi prossimi, forse in vaste proporzioni; avrebbe tanti doni di Dio da mettere a profitto per la società, che gli sta intorno nella esposizione dei propri bisogni, sempre grandi, delle frodi e degli inganni, ed eccolo inetto, non appena a fare, ma altresì a sentire un palpito di carità, un fremito di fraternità, che lo determini a quei gesti generosi che sono atti ad aureolare un uomo ed una intera vita. Sicché tutta la sua esistenza si rivela come un documento di povertà e di miseria. Non dunque vita deve dirsi, ma esistenza appena. E come sarà giudicato da Dio, chi, anziché vivere e produrre, si lascia condurre per le strade di questo mondo avvinto al guinzaglio dell’avarizia? Come può uno spirito siffattamente immiserito, privo di slanci, assente da ogni forma di attività produttiva e generosa, sana e efficace in favore del prossimo, sprecare le sue energie e i suoi talenti a dispetto dei forti richiami della coscienza? Indubbiamente, nel periodo di tentazione e in quello successivo di adattamento a codesto scemo disordine di esistenza morale, deve avere subito i violenti e provvidi attacchi del rimorso; avrà forse anche alquanto reagito e resistito. Ma in seguito, deposte le armi e iniziato definitivamente il suo mortifero stato di coscienza, un silenzio, appena turbato da fitte di protesta, e una sorta di sonno lo avvolse e lo tenne. Eppure fuori di lui la vita si svolge attiva e rapida, costruttiva e feconda; ma la sua sensibilità è attutita dalla consuetudine, addormentata dal sopore che viene dalla passione accontentata.

AVIDITÀ COLPEVOLE

Questa schiavitù spirituale non di rado induce anche ad appropriarsi i beni altrui. Il furto è conseguenza naturale dell’amore disordinato. La intelligenza dell’avaro, essendo tesa di continuo verso il possesso, vela come per istinto il diritto altrui per scorgere soltanto il proprio e con facilità e desidera e si appropria quanto suo non è. Se si ascolta la lezione del demonio, non sarà difficile seguirlo sulla china dell’indebito possesso, giacché egli « fur est et ladro — è essenzialmente ladro » (Joan., XI). Fra i derubati, ecco che sono in primo posto i poveri, gli operai, i dipendenti, coloro i quali meno hanno mezzi di difesa e che, perciò, diventano la preda degli avidi, la cui coscienza s’è sfibrata e fatta insensibile. Colpe sempre maggiori si accumulano sulla coscienza dell’avaro. Brutture non sospettate ed impensate entrano nell’ambito d’un’anima, che conobbe le delicatezze della carità del Signore e dei Santi. E tutto quasi nella insensibilità. La durezza di cuore si rassoda e affronta qualsiasi delitto contro il prossimo e contro se stesso. L’avaro è un cieco, un illuso, un maniaco, un folle. Giustifica le decisioni più illecite con una tranquillità che stupisce. E sa talvolta conciliare il disordine morale con le pratiche di pietà religiosa, senza grandi rimorsi. – Come è possibile vivere così col cuore in contrasto con la legge di amore? L’uomo si adatta agevolmente a tutte le condizioni. Ma non manca per buona sorte mai la voce divina della coscienza, che tien desto, sia pure in tono fievole, il senso vigile del comandamento di Dio. – Quando il Signore Gesù affermò « beati i poveri in spirito », dichiarò insieme la penosa miseria dei « ricchi »; ricchi anche se privi d’ogni bene terreno. Ma a questi prigionieri della mala tendenza affermata e secondata, che tormenta come uno stimolo acuto, che non lascia requie e sospinge alla disperazione e alla rovina morale, non va la pietà del Signore, bensì il biasimo e la condanna. Vedi la famiglia dell’avaro? I suoi beni sono come sotto sequestro. La moglie non ne può disporre che in una misura ridotta; e i figli sovente da piccoli sono educati in modo insufficiente e sproporzionato alla condizione e ai mezzi; da grandi, sono tenuti volutamente legati alla catena, senza poter disporre di quanto avrebbero diritto di avere a fine di formarsi una condizione sociale dignitosa e crescono con il rancore nell’animo; né è raro vedere delle figliole, che non sono in grado di andare a marito, perché il padre per non aprire la borsa, non lascia libero il passo. Famiglie disgraziate; ma meritevole di riprovazione senza misura colui il quale, venduta l’anima al demonio dell’avarizia, semina intorno a sé la desolazione e tante ragioni di dolore.

3 LUGLIO: SAN LEONE II PAPA

SAN LEONE II, PAPA E CONFESSORE

L’onore della Santa Sede.

Il Papa san Leone II ebbe un regno brevissimo: dal 682 al 683; tuttavia la Provvidenza gli aveva addossato la grande responsabilità di approvare gli atti del VI Concilio ecumenico che condannava la memoria di uno dei suoi predecessori, il Papa Onorio, morto da circa mezzo secolo. Si comprende come ciò sia avvenuto solo per motivi gravissimi: questi erano infatti tali che il santo Papa non indietreggiò davanti al suo penoso compito. Ne andava di mezzo l’onore stesso della Santa Sede, e su un punto al quale esso è particolarmente sensibile: la sua infallibilità dottrinale. San Leone II approvò il concilio che aveva rilevato un grande mancamento nella vigilanza di Onorio e lo aveva condannato per aver lasciato libero corso a un’eresia sottile e capziosa che era sfuggita alla sua censura.

L’Eresia monotelita.

Questa eresia era nata dal falso zelo d’un patriarca di Costantinopoli, Sergio. Egli aveva riconquistato alla vera fede i monofisiti, molto numerosi in Oriente, i quali volevano vedere una sola natura nel Verbo Incarnato, negando in tal modo che Egli fosse vero uomo e insieme vero Dio. Sergio pensò, verso il 620, di far sottoscrivere loro una formula che affermava le due nature, ma che autorizzava la fede all’unità di volontà in nostro Signore. Era questa la nuova eresia, il monotelismo o dottrina dell’unica volontà, che negando l’esistenza di una volontà umana in Cristo distruggeva l’integrità della sua natura umana e di conseguenza riportava a galla il monofisismo che si voleva combattere.

L’inavvertenza di Onorio.

Questa eresia trovò presto dei potenti avversari in due monaci: san Massimo di Costantinopoli, che subirà in martirio insieme con il Papa san Martino I per la difesa della fede; e san Sofronio, che diventerà poco dopo patriarca di Gerusalemme. Disgraziatamente, i patriarchi di Antiochia e di Alessandria sostennero Sergio; e solo l’autorità di Roma poteva arrestare il progresso dell’eresia. Ma in quella battaglia in cui il Sommo Pontefice avrebbe dovuto trovarsi in prima fila. Papa Onorio venne meno. Sergio l’aveva abilmente sedotto. Gli aveva presentato la sua formula come perfettamente conforme alla dottrina delle due nature, e d’altronde particolarmente adatta a riconciliare i monofisiti. Onorio, fino allora estraneo alle discussioni che dividevano gli Orientali, era mal preparato a trattare tale questione dal punto di vista dottrinale. Egli vide soltanto il fine da raggiungere: il ritorno dei dissidenti. Dette fiducia a Sergio, lo incoraggiò nel tuo tentativo, e gli inviò una lettera di approvazione redatta dal suo segretario Giovanni, lettera piena di equivoci. Vi si affermava che il Verbo Incarnato opera divinamente le cose divine e umanamente le cose umane; ma vi si diceva pure che non avrebbero potuto esservi in Cristo volontà di senso diverso o contrario. Il Papa senza dubbio non si poneva dal punto di vista della composizione delle due nature di Cristo, ma solo delle sue virtù morali, e intendeva così manifestare la sua perfetta obbedienza. Tuttavia, ritenendo alcune delle riprovevoli espressioni di Sergio, sembrava approvarle. Poco dopo, san Sofronio pubblicò a questo riguardo la sua prima lettera sinodale. Quel magnifico trattato di teologia illuminò Onorio il quale si affrettò a scrivere egli stesso a Sergio una seconda lettera in cui, senza ritrattare i suoi incoraggiamenti ad agire per la riconciliazione degli eretici, fissava nettamente il limite delle concessioni da farsi. Ma il male era fatto, e Sergio, appoggiato dall’Imperatore stesso, aveva già abusato della libertà concessa dalla prima lettera del Papa.

La condanna di Onorio.

Cosicché, cinquant’anni dopo, in seguito al trionfo dell’ortodossia, il VI Concilio ecumenico tenutosi a Costantinopoli nel 680-681, dopo aver condannato l’eresia monotelita, scomunicava Sergio e i suoi seguaci, fra i quali ritenne di poter annoverare anche Onorio. Era un andare troppo oltre: bisognava pur fare una distinzione. E quando il Papa san Leone II ricevette gli atti del Concilio, li sanzionò solo dopo aver specificato la colpa di Onorio, che non bisogna confondere con gli eretici. « Invece di purificare questa Chiesa apostolica – egli scrive – ha permesso che l’Immacolata fosse contaminata da un tradimento profano » (Héfèle-Leclercq, Hist. des Cons., III, 514). Questo severo giudizio non è mai stato revocato da alcun Papa. Del resto, fin dall’inizio l’errore di Onorio fu considerato come una colpa personale che non implicava affatto l’autorità della Santa Sede (L. Bréhier, in Storia della Chiesa di Pliche e Martin, V, 190). Ma un Papa, anche quando non parla ex cathedra e come dottore infallibile, reca tuttavia immense responsabilità nel suo insegnamento ordinario. Onorio non è stato eretico, anzi è stato anche tenuto in grande onore dai Papi san Martino e sant’Agatone. La Chiesa d’Occidente è stata governata da lui con saggezza. Ma il VI Concilio ecumenico ha messo in evidenza che in Oriente egli era venuto meno al suo compito. E san Leone II rese giustizia.

Vita. – San Leone II, siciliano d’origine, fu eletto papa nel 681, ma fu consacrato solo dopo l’accettazione dell’imperatore nell’agosto del 682. Il suo Pontificato ebbe termine meno d’un anno dopo, essendo morto nel luglio del 683. Era molto versato nelle lettere e amante della musica. Riedificò la chiesa di San Giorgio al Velabro e dedicò a san Paolo una chiesa che arricchì di reliquie tratte dalle Catacombe. Era dottore, predicatore, amico della povertà e dei poveri. Sostenne i diritti della Sede di Roma contro le pretese di quella di Ravenna, la città in cui risiedeva l’imperatore. Sanzionò infine gli atti del VI Concilio ecumenico. Fu sepolto in San Pietro.

Cristo, vero Dio e vero Uomo.

O glorioso Pontefice, tu hai avuto il privilegio di completare la confessione apostolica, dando il suo ultimo sviluppo alla testimonianza resa da Pietro a quel Figlio del Dio vivo che era insieme figlio dell’uomo. Tu eri degno di portare a termine l’opera dei concili di Nicea, di Efeso e di Calcedonia, che avevano rivendicato nell’Emmanuele la divinità consustanziale al Padre, l’unità di Persona che faceva di Maria la sua vera Madre, e quella dualità delle nature senza la quale Egli non sarebbe stato nostro fratello. Ora satana, che sui primi due punti si era facilmente lasciato battere, attaccava rabbiosamente il terzo: poiché nel giorno della grande battaglia che lo scacciò dal cielo, la sua ribellione era consistita nel rifiuto di adorare Dio sotto la forma umana; costretto dalla Chiesa a piegare il ginocchio, la sua rabbia avrebbe voluto almeno che quel Dio non avesse preso dall’uomo se non una natura incompleta. Che il Verbo sia carne, ma che non abbia in questa carne altro impulso, altre energie se non quelle della divinità stessa: e quella natura inerte, privata della volontà, non sarà più l’umanità, anche se dovesse conservarne tutto il resto; e lucifero, nel suo orgoglio, sarà meno umiliato. L’uomo infatti, oggetto della sua ira infernale, non avrà più in comune con il Verbo divino se non una Vana apparenza. Grazie a te, o san Leone II, grazie in nome di tutta l’umanità! Per tuo mezzo, al cospetto del cielo, della terra e dell’inferno, viene autenticamente promulgato l’incomparabile privilegio che stabilisce, senza restrizioni di sorta, la nostra natura alla destra del Padre, nel più alto dei cieli; per tuo mezzo la Vergine schiaccia il capo dell’odioso serpente.

Preghiera per i Sommi Pontefici.

Ma quale tattica in questa campagna di satana! Quale plauso nell’abisso allorché un giorno il rappresentante di Colui che è la luce apparve complice delle potenze delle tenebre per recare la notte! Previeni, o Leone, il ripetersi di situazioni così penose! Mantieni il Pastore al disopra della zona delle malefiche brume che si levano dalla terra; conserva nel gregge quella preghiera che deve salire continuamente a Dio per lui dalla Chiesa (Atti XII, 5): e Pietro, foss’anche sepolto nel profondo delle più oscure prigioni (come avviene  oggi per Papa Gregorio XVIII – ndr.-), non cesserà di contemplare il puro splendore del Sole di giustizia; e l’intero corpo della santa Chiesa si troverà nella luce. Il corpo infatti – dice Gesù – è rischiarato dall’occhio: se l’occhio è semplice, tutto il corpo risplende (Mt. VI, 22).

Il Magistero infallibile.

Ammaestrati da te sul valore del beneficio che il Signore ha elargito al mondo quando lo stabilì sull’insegnamento infallibile dei successori di Pietro, conosciamo ora la forza della roccia che sostiene la Chiesa; sappiamo che le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa (ibid. XVI, 18). Mai infatti lo sforzo di quelle potenze dell’abisso andò tanto oltre come nella funesta crisi alla quale tu ponesti termine. Del resto, il loro successo, per quanto doloroso, non andava contro le promesse divine: non già al silenzio di Pietro, ma al suo insegnamento è stata promessa l’immancabile assistenza dello Spirito di verità. O piissimo Pontefice, ottienici, insieme a quella rettitudine della fede, il celeste entusiasmo che occorre per celebrare Pietro e l’Uomo-Dio nell’unità che Gesù stesso ha stabilita fra loro. La sacra Liturgia ti fu grandemente debitrice: facci gustare sempre più la manna nascosta che essa racchiude; possano i nostri cuori e le nostre voci interpretare degnamente le sacre melodie!

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Preghiamo soprattutto oggi per la peste dei gallicani fallibilisti pseudo- tradizionalisti, che facendo di Papa Onorio una loro falsa bandiera, trovano spazio per diffondere le loro eresie ed il loro scisma formale dal Vicario di Cristo impedito ed eclissato, appoggiando materialmente gli antipapi usurpanti della kazaro-massoneria … chi vi ha convinti di impunità, razza di vipere, pensate di finire nel “pleroma-ensof” kabalistico e non temete l’inferno ove ben presto finirete … convertitevi finché siete in  tempo, tornate all’unità con il Vicario di Cristo e salverete l’anima vostra dal fuoco eterno. Et IPSA CONTERET…

SALMI BIBLICI: “QUARE FREMUERUNT GENTES …” (II)

Salmo 2: QUARE FREMUERUNT GENTES

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ouLES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS , Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS

LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR

13, RUE DELAMMIE,1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878. f ODON,

Evêque de Soissons et Laon

SALMO II

[1] Quare fremuerunt gentes, et populi meditati sunt inania?

[2] Astiterunt reges terræ, et principes convenerunt in unum adversus Dominum, et adversus Christum ejus.

[3] Dirumpamus vincula eorum, et projiciamus a nobis jugum ipsorum.

[4] Qui habitat in caelis irridebit eos, et Dominus subsannabit eos.

[5] Tunc loquetur ad eos in ira sua, et in furore suo conturbabit eos.

[6] Ego autem constitutus sum rex ab eo super Sion, montem sanctum ejus, praedicans praeceptum ejus.

[7] Dominus dixit ad me: Filius meus es tu; ego hodie genui te.

[8] Postula a me, et dabo tibi gentes haereditatem tuam, et possessionem tuam terminos terræ.

[9] Reges eos in virga ferrea, et tamquam vas figuli confringes eos.

[10] Et nunc, reges, intelligite; erudimini, qui judicatis terram.

[11] Servite Domino in timore, et exsultate ei cum tremore.

[12] Apprehendite disciplinam, nequando irascatur Dominus, et pereatis de via justa.

[13] Cum exarserit in brevi ira ejus, beati omnes qui confidunt in eo.

SALMO II.

Profezia del regno di Cristo, provata dagli Apostoli, Atti c. IV e agli Ebrei c. 1.

[Vecchio Testamento – Secondo la Volgata

Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI, Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

1. Per qual ragione fremon le genti, e i popoli macchinano dei vani disegni?

2. Si sono levati su i re della terra, e i principi si son collegati insieme contro il Signore e contro il suo Cristo.

3. Rompiamo i loro lacci, e rigettiam lungi da noi il loro giogo.

4. Coìui che nei cieli risiede, si burlerà di costoro, e il Signore gli schernirà.

5. Allora egli parlerà ad essi nella sua indignazione, e nel suo furore gli atterrirà.

6. Ma io da lui sono stato costituito re sopra Sionne, (sopra) il monte santo di lui, affine di annunziare i suoi precetti.

7. Il Signore disse a me: Tu sei mio figliuolo; io oggi ti ho generato. (1)

8. Chiedimi, e io ti darò in tuo retaggio le genti, e in tuo dominio gli ultimi confini del mondo.

9. Governerai coloro con scettro di ferro, e gli stritolerai come un vaso di creta.

10. Adesso adunque voi, o regi, imparate; ravvedetevi voi che siete giudici della terra.

11. Servite a lui nel timore, e in lui con tremore esultate.

12. Abbracciate la buona dottrina, affinché non abbia il Signore a sdegnarsi, e voi vi perdiate, smarrita la via della giustizia. (2)

13. Allorché subitamente l’ira di lui divamperà, beati tutti coloro che si confidano in lui.

(1) Si tratta qui primariamente della generazione eterna del Verbo nell’eternità, che non ha né passato né futuro “aggiornata” ad oggi. Queste parole possono anche applicarsi, secondo un gran numero di Padri, a tutte le manifestazioni nel tempo di questa generazione eterna: alla nascita di Gesù-Cristo, al suo Battesimo, ma soprattutto alla sua Resurrezione ed al suo Sacerdozio (Act. XIII, 33).

(2) non possiamo passare sotto silenzio il senso che dà il testo ebraico a questo versetto: “abbracciate o adorate il Figlio per paura che non si irriti e non vi frantumi”. La parola ebraica “nascaq” significa adorare, quando si indirizza a Dio. Perché era con il baciare che in Oriente si rendeva omaggio ai re.

Sommario analitico

Il Re-profeta in questo salmo, considerando la Passione, la Resurrezione ed il trionfo di Gesù-Cristo, dipinge come un quadro (se ne veda l’applicazione fatta dagli Apostoli e dai primi Cristiani (Atti IV, 25 e 26, etc.):

I— Gli sforzi dei nemici di Gesù-Cristo.

1) Dei popoli. – (a) I fremiti delle nazioni (1); (b) i vani complotti dei Giudei (2).

2) Dei re e dei principi che si sono radunati per spezzare i legami e scrollarsi dal giogo che Dio ed il suo Cristo volevano loro imporre (3).

II- Il Padre di Gesù-Cristo che:

1° si ride dei loro vani sforzi (4);

2° parla loro nella sua collera (5).

III – Gesù-Cristo stesso:

1° Re che domina su tutta la Chiesa; 2° legislatore che sanziona le legge del Vangelo (6); 3° Figlio di Dio coronato di gloria nella sua triplice generazione (7); 4° erede e maestro del mondo intero (8); 5° pastore vigilante, dominante costantemente le proprie truppe con una verga di ferro; 6° giudice severo che schiaccia e distrugge i ribelli (9).

IV – I soggetti al Cristo, cioè i re ed i giudici che Egli esorta:

1° ad aprire la loro intelligenza a questi grandi insegnamenti che Dio da loro (10); 2° a sottomettere la loro volontà con un sentimento di timore misto a gioia (11); 3° ad aggiungere a questi sentimenti la pratica delle buone opere, per evitare la collera di Dio quando il tempo è prossimo (12, 13).

Spiegazioni e Considerazioni

I. – 1, 3.

ff. 1, 3. – La domanda che fa il Re-Profeta, che inizia questo salmo, si è posta in tutti i tempi a tutti gli spiriti considerantesi attentamente come i destinatari della Religione di Gesù-Cristo e della sua Chiesa nella loro marcia attraverso i secoli. Il Cristianesimo portava al mondo la Religione più pura, più sublime, l’unica vera, e dal suo apparire sollevò una repulsione quasi universale, una coalizione che racchiudeva in sé interi popoli ed i cui re, alla loro testa, si proponevano nientemeno che l’annientamento del nome di Gesù-Cristo. È questo lo spettacolo che il Re-Profeta ha davanti agli occhi quando lancia questo grido di stupore: “Perché le nazioni fremono? Perché i popoli vanno meditando vani complotti? I re della terra si sono sollevati, i principi si sono coalizzati contro il Signore e contro il suo Cristo”. Egli vede le nazioni in tumulto, frementi come i flutti del mare in burrasca, i cui fremiti precorrono la tempesta; egli vede i re, i principi, i filosofi ed i governanti riuniti in una vasta cospirazione, dichiarare una guerra abilmente premeditata e furiosamente condotta contro la Chiesa Cattolica; egli intende queste negazioni audaci, queste dottrine brutalmente empie, queste grida di morte al Cristianesimo ed all’idea stessa di Dio, queste urla di bestie feroci di cui ascoltiamo l’eco sinistra, ed egli si chiede la ragione di questi fremiti e di questi complotti. – la parola “perché” vuol dire invano. In effetti essi non hanno affatto compiuto ciò che volevano, che era annientare Dio ed il suo Cristo (S. Agos.). – il Re-Profeta si serve del termine “fremere” per illustrare le loro violenze, ed è vero il dire che il mare non ha questi fremiti così terribili, i leoni dei ruggiti così formidabili, l’odio furioso e tutte le passioni scatenate contro Dio, il suo Cristo e la sua Chiesa. – Qui sono rappresentati tre tipi di nemici: i popoli, i saggi ed i falsi dotti con questa parola: “essi hanno meditato”, i re ed i principi. I popoli per i quali il Cristianesimo ha fatto tanto, si sono resi mille volte lo strumento selvaggio dell’odio e del furore dei principi e dei saggi della terra. – I saggi stessi, i sapienti, i dotti del popolo, sono spesso entrati in questa vasta cospirazione contro Dio e la Chiesa di Gesù-Cristo. Davide ci dice che essi hanno “meditato vani complotti”. Cosa pretendono in effetti? Combattere Dio, di cui Gesù-Cristo è così manifestamente l’Inviato? Progetto insensato! Non c’è, dice lo Spirito-Santo con la bocca del saggio, “né saggezza, né prudenza, né consiglio contro il Signore” (Prov. XXI, 30). – Ma sono soprattutto i re, i principi, i governanti che, nel corso dei secoli cristiani, hanno rotto con clamore i legami della rivelazione divina, e rigettato lontano da essi il giogo della fede. Ed io dicevo: “… forse sono dei poveri, degli insensati, ignoranti la via del Signore ed i giudizi del loro Dio. Io andrò dunque verso i principi dei popoli e parlerò loro, perché sono essi che devono conoscere la via del Signore e gli ordini del loro Dio. Ma io ho trovato che essi hanno cospirato tutti insieme con molto ardire per scrollarsi il giogo del Signore e rompere i loro legami. (Jerem. V, 4,5). È da li infatti che sono partiti gli attacchi più ostili ed il colpi più perseveranti”. – Colpisce l’applicazione fatta dagli Apostoli e dai Discepoli assemblati, di questo oracolo del Re-Profeta a Gesù-Cristo, quando i capi della sinagoga, che avrebbero voluto agire contro san Pietro e San Giovanni, dopo il miracolo che essi avevano operato, furono costretti a rilasciarli. “ Signore – gridarono con voce unanime – voi che avete fatto il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che esiste, e che avete detto per mezzo dello Spirito Santo, ispirando il vostro servo David: perché le nazioni fremono, ed i popoli meditano vani complotti? I re della terra si sono sollevati, ed i principi si sono radunati contro i Signore e contro il suo Cristo. E veramente Erode e Ponzio Pilato si sono assemblati in questa città, ed i gentili e i popoli d’Israele contro il vostro Santo, il vostro Figlio Gesù, consacrato dalla vostra unzione, per fare ciò che il vostro braccio ed il vostro consiglio hanno deciso di fare” (Act. IV, 24, 28). – Tre sono le cause segrete di questo odio aperto, di questa ostilità dichiarata: – 1° i misteri che Dio propone all’accettazione dell’intelligenza dell’uomo; – ° le leggi che regolano i suoi costumi e mettono un freno alle sue passioni violente, – 3° i giudizi di questo sovrano Legislatore stabiliti sul monte Sion non solo per annunziare i precetti di Dio, ma per giudicare gli uomini che Egli ha creato capaci di una buona o cattiva scelta. – Lotta contro Dio e contro il suo Cristo: qui non si tratta solo del beffardo scetticismo o del dubbio del secolo scorso, è passato il tempo in cui l’incredulità si arrestava alle timide conclusioni del deismo, della credenza in Dio; ora essa giunge in un solo tratto alle negazioni più radicali. Non si tratta più della negazione di questo o quel dogma del simbolo cristiano, ma la cospirazione odiosa di tutte le negazioni tiunite, è la negazione di Dio e di tutti i suoi divini attributi, della sua potenza, della sua santità, della sua giustizia, della sua provvidenza; è la negazione di Gesù-Cristo e di tutti i misteri che Egli ha operato come Salvatore e come Redentore del genere umano, negazioni che non sono più, come per il passato, fatte da un certo numero di individui più temerari, ma che hanno preso la proporzione di un crimine collettivo, di una iniquità che si può definire nazionale, universale. “Spezziamo i loro lacci”: ecco il vero motivo di questa congiura. Essi non vogliono né dei legami della Fede per l’intelligenza, né gioghi dei Comandamenti per la volontà. Questi legami pertanto sono quelli dei quali Dio diceva per mezzo dei profeti: “io li legherò con lacci che catturano gli uomini, con i lacci dell’amore” (Osea, XI, 4). È il giogo che Nostro Signore proclamava dolce e leggero. Questo giogo, questi legami, dice Sant’Ago-stino, non sono un peso di cui Egli ci carica, ma delle ali che ci aiutano a volare. Gli uccelli hanno pure il peso delle loro ali; essi le portano, e le ali li portano a loro volta: “Portant illas et portantur” (Serm. XXIV. Sur les par. de l’Ap.). – È così che sono giunti a bandire Dio dalla vita privata, dalla vita pubblica e sociale, ad escluderLo dal focolare domestico e dal santuario ove si fanno leggi per una specie di ateismo sociale. Essi lo hanno impietosamente cacciato dalle loro costituzioni, dal loro governo, dalle loro leggi, dalle loro istituzioni. – “E contro il suo Cristo”: il Cristo qui è posto sullo stesso rango del Signore stesso, perché Essi impongono dei legami ed un giogo comune. La rivolta dunque, che sia rivolta verso l’Uno o l’Altro, costituisce un attentato sempre uguale, perché oltraggia due Maestri uguali per la loro natura e per la loro dignità.

II. — 4, 5.

ff. 4, 5. La minaccia di castigo non è meno eclatante della constatazione dell’insuccesso. Questo ridere dell’Altissimo, questa derisione del suo disprezzo, questa parola della sua collera, questo sconcerto causato dal suo furore, non sono come i segni e come saetta di una tempesta che sta per esplodere sulla testa dei colpevoli? Dio si beffa e ride dei loro sforzi: 1° nel momento stesso in cui essi si rivoltano contro di Lui; – 2) nell’ora della loro morte: “Avete trascurato ogni mio consiglio e la mia esortazione non avete accolto; anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura” (Prov. I, 25-26). – 3° Il giorno del giudizio finale: “Vedranno e disprezzeranno, ma il Signore li deriderà. Infine diventeranno un cadavere spregevole, oggetto di scherno fra i morti per sempre” (Sap. IV, 18-19). – l’empio presagisce questo trionfo di Dio, sembra ascoltare il ghigno sinistro del ridere vendicativo di Dio nel suo ultimo giorno; da qui il raddoppiarsi del suo odio, da lì questi fremiti, queste meditazioni, queste ricerche di empietà e di scandali, questa raccapricciante idea di voler annientare questo Dio del Quale ha infinitamente timore, più di quanto egli stesso non confessi a se stesso le rappresaglie ed il trionfo (Doublet, Psaumes, Etudes). – “Colui che abita nel cielo riderà di loro, il Signore se ne farà beffe”. Cosa abbiamo visto e cosa vedremo ancora? O canzonatura della Provvidenza! O meravigliose rappresaglie di Dio sui nemici! Noi abbiamo visto le tre cose sottolineate dal salmista: i popoli fremere; dietro di loro i corruttori dei popoli meditare vani complotti; con essi ed i loro complici, i re ed i governatori legarsi insieme. La Chiesa in questo secolo, sotto i nostri occhi, ha subito questo triplice attacco. Il genio del male, l’odio contro gli insegnamenti e l’inflessibile morale della Chiesa, si è incarnato in qualche caporione astuto che ha tramato i complotti. E cosa meditano essi nelle loro logge massoniche, nelle loro riunioni segrete, nei loro oscuri meandri? La liceità universale, la spudoratezza assoluta, l’emancipazione dell’individuo, della famiglia, della società, e, sotto il nome di morale indipendente, il ribaltamento di ogni ordine, di ogni morale, di tutti i doveri, di ogni virtù. Poiché il Dogma cattolico illumina le coscienze e mette in luce le loro follie, essi hanno giurato il rovesciamento del Dogma cattolico. Poiché la morale di Gesù-Cristo è il solo rifugio della virtù contro gli abusi, ci si è ripromesso l’annientamento della morale di Gesù-Cristo. – Poiché un popolo illuminato da questo Dogma e formato a questa morale sarebbe inadatto per quest’opera di rovina, occorre corrompere il popolo ed insegnargli a fremere contro Dio e contro il suo Cristo. – Poiché sotto un governo cristiano questa corruzione del popolo è impossibile, diventa indispensabile separare violentemente i governi dalla Chiesa e rendere la legge atea. Tutto questo è fatto … Gli scaltri meditano, i re ed i principi si sollevano e fanno lega comune, il popolo freme ed urla per strada. – “Colui che abita nei cieli si riderà di essi; Dio li giudicherà” tutti, gli uni dopo gli altri. Il potere che ha avuto l’empia vigliaccheria di dirigere contro la Chiesa i furori della folla, e che ha creduto con abile diversivo di proteggere la propria esistenza, questo potere cade ben presto sotto i colpi di un popolo in delirio. Questo stesso popolo maledetto, che si irrita per il giogo di Dio e si consegna agli impostori che ne abusano, va incontro alla più dura ed avvilente schiavitù. Infine questi stessi impostori, ben presto smascherati ed esposti al disprezzo di tutti, sono cacciati ignominiosamente e subiscono ancora più ignominiosamente la dittatura del primo venuto. Tutto a terra è rovinato questo edificio di perfidia, di menzogna, di odio; solo la Chiesa regge e Dio trionfa nell’alto dei Cieli (Duoblet, Psaumes étudiés en vue de la Préd.).

ff. 6, 7. Tale è la costituzione divina ed imprescrittibile che nulla potrà ribaltare. Né contro il trono di Dio, che è stabilito nel più alto dei cieli, né contro il trono del suo Figlio che è stato posto sulla montagna di Sion, cioè al centro della Chiesa, alcun attentato prevarrà mai. Invano le nazioni sono state in fremito ed i popoli meditato complotti, invano i re della terra si sono armati ed i principi hanno fatto lega contro Dio e contro il suo Cristo, ripromettendosi di rompere i lacci e di scrollarsi dal loro giogo. Colui che domina tutte le imprese umane e dall’alto dei cieli domina la terra, Dio riderà di essi, ed il Signore, cioè il Dio fatto uomo, si farà beffe. – Intendete, dice Sant’Ilario (Tract., in Ps. II): essi hanno portato i loro sforzi audaci contro la doppia Persona del Padre celeste, e di suo Figlio incarnato, ed ecco che si sono esposti alla derisione dell’Uno e dell’Altro. Essi non avranno ragione né dell’Onnipotente assiso nella sua gloria, né del Cristo presente nella sua Chiesa; e derisi là in alto, lo saranno pure qui in basso (Mgr. Pie, T. VII, 538). – Dopo che Dio ha riso dei suoi contraddittori facendo trionfare la sua opera nonstante le loro contrapposizioni e per mezzo anche dei suoi contradditori, se la resistenza continua, se l’odio è ostinato, allora riecheggia il tuono della sua voce, la minaccia della sua vendetta, e se questo solenne avvertimento non è ascoltato, Egli passa dalle minacce ai fatti, offusca, sconcerta, rintrona, strappa, sradica questi nemici insolenti (Mgr, Pie).

III. — 6, 9.

ff 6. Ma nel pensiero di Dio, importa soprattutto che si sappia bene che il rigore annunziato dai suoi corrucci sono destinati a punire gli oltraggi fatti al Cristo, il suo Verbo, la sua immagine, il suo supremo Amore; ecco dunque il Cristo che, entrando sulla scena nella seconda parte di questo salmo, viene ad affermare da una parte i suoi titoli rispetto al mondo, e dall’altro il suo diritto a folgorare chiunque osasse misconoscerLo (Mgr. Plaintier, Enseign et consol., p. 173). – Quattro grandi questioni sono risolte da questo glorioso inno ai futuri destini del Cristo: – 1° Questo Cristo sarà il re dell’universo? – Senza alcun dubbio, poiché da se stesso dichiara che il Signore Lo stabilirà Re su Sion, la montagna santa, e questo per promulgare i precetti di Colui dal Quale deriverà la sua sovranità. – Il Nome di Gesù è un nome di Re, e questo significa una monarchia legittima ed assoluta. Monarchia universale, essa racchiude tutti gli esseri che derivano ugualmente dall’onnipotenza divina. – Due regni diversi, di cui è detto nelle sante Lettere: uno di rigore e di durata, come riportato al versetto 9 di questo salmo; l’altro di dolcezza e di gioia che lo stesso salmista descrive nel salmo XLIV (vedi Bossuet, 2° Serm. Sur la Circ. II. P). – 2° A qual titolo il Cristo è re? Per diritto di natura e di nascita, poiché il Signore che lo nomina solennemente suo Figlio, Lo genera in questo giorno che non comincia e non finisce mai, cioè nella gloria di una generazione eterna e pertanto divina. – Perché Dio non avrebbe un Figlio? Perché questa natura beata mancherebbe di questa perfetta fecondità che dà alle sue creature? “Io, che faccio partorire gli altri, non potrei partorire Io stesso? (Isaia LXVI, 9). – Un Dio può venire da un Dio? Un Dio può avere l’essere da un altro che non sia Se stesso? Si, se Dio è suo Figlio. Ripugna ad un Dio venire da un altro come Creatore che lo tira fuori dal niente, ma non ripugna ad un Dio venire da un altro come da un Padre che lo genera dalla propria sostanza (Bossuet, Elévat.). – Tre generazioni: la generazione eterna, la nascita temporale e la Resurrezione! Nella prima Egli è uguale a Dio suo Padre; nella seconda, Egli è abbassato un po’ al disotto degli Angeli; nella terza è elevato al di sopra di essi. – Gesù-Cristo vero legislatore, e non soltanto promulgatore della legge, come Re, come Giudice sovrano, come gran Sacerdote.

ff. 8. – 3° È sicuro che questo principe, Figlio eternamente generato dall’Altissimo, regnerà? Sugli individui solo o sull’insieme delle nazioni? Non soltanto le anime isolate Gli saranno date come patrimonio, ma anche i popoli, come tali, formeranno la la sua eredità e diventeranno, da un capo all’altro della terra, un possesso del quale sarà maestro nel disporli come Egli intenderà (Mgr. Plantier). Dio ha voluto che suo Figlio Gesù-Cristo Gli domandasse il possesso di questa magnifica eredità, perché entrava nel consiglio di Dio che la conversione dei Gentili non fosse dovuta che alle sue preghiere, di modo che il disegno di Dio era che Egli ci riscattasse con la sua morte, entrando così nella sua gloria (Suarez, III, p. 9; XXI, Disp. 45.). – Ed in effetti, dice San Paolo, Dio L’ha fatto erede di tutte le cose, Lui per il quale ha creato i secoli (Hebr. I,2). Colui che viene dall’alto è al disopra di tutto; a Gesù è riservato di possedere tutte le nazioni in eredità. Egli le possiede, lo vediamo. Dopo essere stato elevato sulla croce, Egli ha attirato tutto a Sé (Fénélon, Serm. Epiph.). – Tutti gli altri sovrani, benché grande sia la loro potenza, quantunque numerosi siano i loro soggetti, hanno trovato un limite al loro impero … Ma per Gesù-Cristo, il suo Nome ed il suo reame si estendono dappertutto, dappertutto si creda in Lui, Egli riceve gli omaggi di tutte le nazioni, dappertutto Egli regna, dappertutto Lo si adora; Egli è il Re sovrano, il Giudice supremo di tutti gli uomini indistintamente, Egli è il loro Signore ed il loro Dio (Tertull. Contra Jud.). Alcun tempo, alcun luogo, alcuno stato, alcuna condizione di vita non appartiene a Gesù-Cristo. – Gesù-Cristo è proclamato il Maestro universale delle anime, e perché ne sia il Maestro universale, occorre che sia il Maestro unico nel mondo. Conseguenza della verità assoluta della fede: la verità e la verità sola è la regina legittima del mondo e delle anime.- 4° Se le nazioni rifiutano di riconoscere l’autorità del Cristo, di obbedire alle sue leggi, in quale modo Egli avrà il diritto di trattarle? Il suo scettro allora si cambierà in verga di ferro, il suo corruccio, giustamente irritato dalla loro ribellione, sarà libero di trattarli come un vaso di argilla, ed è in effetti a questi eccessi lamentevoli che li ridurrà la sua vendetta. – Regalità del Cristo; diritto di esercitare, in virtù di questa sovranità divina, un’autorità pubblica e sociale tra i popoli; potenza e risoluzione di abbatterli, ed all’occorrenza di annientarli se essi osano sfuggire alla disciplina che sarà loro imposta, ecco tre cose espresse con radiosa evidenza in questo salmo e nelle profezie lontane dell’Antico Testamento (Mgr. Plantier, Ens. Et Consol.).

ff. 9. Lo scettro che è stato posto in mano a Cristo, ancorché sia principalmente lo scettro della dottrina e dell’amore, è nondimeno lo scettro della potenza e della forza. Che dico? È lo scettro della forza perché è lo scettro della dottrina. “Tu li reggerai con verga di ferro”. Ebbene sì, questa verga pastorale, che è naturalmente dolce e benigna, è portante il ferro, perché i principi che fanno la regola del governo divino sono dei princìpi inflessibili, come la Verità, immutabile come la giustizia, indistruttibile come Dio stesso. (S. Ilar.). E se succede che i princìpi siano perseverantemente misconosciuti e violati, che le direttive dottrinali, i comportamenti dell’Amore siano opinatamente e criminalmente respinti, allora la verga del Pastore diviene la verga terribile dell’abbattimento, ed in colpo solo distrugge il vaso che non ha voluto lasciarsi rifondere e riformare … Le nazioni sono come l’argilla nelle sue mani, e se ne cambia la forma primitiva, è per dargliene una migliore. Così farà a riguardo di queste nazioni che Egli ha chiesto ed ottenuto in eredità. (Mgr. Pie). Voi le governerete con una verga di ferro, cioè eliminerete in esse le cupidigie terrene, i desideri fangosi dell’uomo vecchio e tutto ciò che è improntato e sporcato dal caprone del peccato; o se essi resistono, infrangerete i loro crimini con i supplizi eterni (S. Agost.). – I re ed i grandi della terra, inorgogliti ed accecati dalla loro potenza, dimenticano facilmente che essi sono uomini. Essi immaginano che non hanno nulla da temere perché sono al di sopra di tutto. Ma al contrario è quella stessa elevazione che deve inondarli di terrore, perché infine essi saranno giudicati con maggior rigore degli altri; i potenti saranno tormentati potentemente, e Dio nella sua collera li distruggerà come un vaso d’argilla. – Quando i popoli stessi, acquistati dal suo Sangue e consegnati al suo dominio da suo Padre, dimenticano cosa sono e cosa Gli devono; quando, rifiutando di chiamarlo con il suo nome vero e divino, la loro empietà non Lo chiama più se non con un nome che L’abbassa e Lo oltraggia; quando, in luogo di onorarlo come Figlio di Dio, uguale a Colui che Lo ha generato, essi non Lo onorano se non come figlio del “nulla”, questa ingiuria è ai suoi occhi, al di là di qualche elogio di cui lo si circonda, il crimine più grave di cui essi possano macchiarsi; null’altro solleva di più l’indignazione nella sua anima; nulla sollecita di più il suo braccio ad abbattersi …. a far decidere Gesù-Cristo a farci sentire la sua verga di ferro, ed a metterci in condizione di essere come un vaso d’argilla. (Mgr. Plantier, Sur les Calam. Publiq.). – Questa verga di ferro che non piace, è la verità di Gesù-Cristo, che è la regola inflessibile sulla quale la volontà del peccatore deve riformarsi, e che non deve mai conformarsi alla volontà corrotta dell’uomo. – Gesù-Cristo associerà un giorno i suoi fedeli servitori a questa terribile potenza di cui farà sentire i temibili colpi ai suoi nemici. “Chiunque – Egli dice – avrà vinto e perseverato fino alla fine nelle opere che Io ho raccomandato, gli darò la potenza sulle nazioni; essi le governeranno con scettro di ferro, e saranno distrutti da lui come un vaso d’argilla, secondo il potere che ho ricevuto dal Padre mio (Apoc. II, 26-28).

IV. — 10-13.

“Ed ora, o re, comprendete; istruitevi, giudici della terra”. – Quanto è necessario che Dio parli Egli stesso ai re ed ai grandi con la voce degli avvenimenti e che li istruisca dunque sui loro doveri, perché spesso gli uomini non osano nemmeno parlarne. – Noi viviamo in un periodo di tempo in cui gli anni si succedono, non cessando di dare ai re ed ai capi dei popoli queste grandi e terribili lezioni, ove mai l’Altissimo, con lo strepitio dei troni abbattuti e degli imperi rovesciati, non abbia fatto intendere spesso queste parole: “ed ora, o re, comprendete; istruitevi voi che giudicate la terra.” – Pertanto questo possesso degli imperi e questa eredità di tutti i popoli che il Padre affida al Figlio, è la verità che i popoli comprendono meno, è la lezione che i governi respingono con la più stupida incredulità. Dove sono le nostre intelligenze contemporanee che ammettono il regno di Dio in mezzo ai popoli, e la sua potenza negli affari della politica umana? Forse Dio permetterà di governare la natura e gli accorderà qualche parte di autorità e di diritto nella condotta degli individui: ma i popoli, ma gli imperi, ma le rivoluzioni umane e le vaste sovversioni delle nazioni, chi diffida dal veder planare un’autorità superiore? (Doublet, Psaumes, I, 31). – “Ed ora”, come diceva il salmista: ora che Dio stesso, in una rivelazione misteriosa, vi fa apprendere che la missione del Cristo è quella di dominare e reggere tutti i popoli, ora che le tracce di questa dominazione segnano la storia intera, ora che la verga di ferro è passata per tutte le generazioni con i castighi e le stragi, che le rovine si sono aggiunte alle rovine, che le catastrofi ed i crolli delle potenze persecutrici sono senza numero …. , ora comprendete con salutare terrore che dovete ispirarvi ad una così invincibile potenza e così operare inevitabili arresti, comprendete quali doveri dovete osservare, quali peccati vi perdono, quale condotta è a voi richiesta (Doublet, III, 310). – Tre doveri verso la Chiesa: – 1° Osservare e difendere la verità. La verità sola fa vivere uno Stato. L’errore lo stravolge, ne dissecca le vive forze, ne disgrega e disunisce tutte le membra, e finalmente lo conduce a lotte intestine, a profondi turbamenti, alla perdita di sicurezza, ove si esaurisce il suo vigore, ove la salvezza stessa è messa in gioco. Nella nostra epoca di affossamento morale e di indifferentismo, questi grandi princìpi non sono più conosciuti, e tale è lo spessore del velo che copre gli occhi, che l’abbandono delle credenze che fanno la vita di un popolo è considerato oggi come la più preziosa e la più sacra delle conquiste dell’era moderna. Che i fatti fuoriescono dalle dottrine, come i frutti dal fiore proprio: ecco ciò che chiaramente hanno compreso tutti i secoli, e che rimane a noi interamente nascosto … – 2° l’emanazione di buone leggi che non siano in opposizione al dogma, la morale, la disciplina della Chiesa Cattolica, secondo il dovere racchiuso, dice san Tommaso, in queste parole: “servite il Signore”. Un re – egli dice – come pure un uomo privato, serve Dio vivendo cristianamente; come re, emanando leggi contro tutto ciò che oltraggia la giustizia di Dio. – 3° il terzo dovere dello Stato, il più essenziale ed ora il più misconosciuto, è così espresso dal salmista: “Apprehendite disciplinam”, è accettare l’autorità disciplinare della Chiesa. La Chiesa ha una disciplina da imporre: Essa è pari a Dio, si indirizza alle anime, guida le generazioni verso i loro destini eterni, insegna al mondo i suoi doveri, è incaricata di segnalare e punire le colpe, ha come speciale missione di reprimere i vizi e di contenere le passioni di tutti nel dovere: tale è questa disciplina per il re, come per i soggetti, che devono fedelmente sopportare. La Chiesa non intende assorbire lo Stato, ma lo Stato non può, al pari dell’individuo, sottrarsi ai suoi insegnamenti, alle leggi, alle reprimende, alle censure della Chiesa (Doublet, II, 344). – “Servite il Signore con il timore, e con tremore esultate”! La Religione è un sentimento composto da gioia e timore: essa ispira il terrore all’uomo, perché è peccatore; essa gli ispira la gioia, perché spera nella remissione dei peccati; essa gli ispira il terrore, perché Dio è giusto, e gioia perché è buono. Bisogna che l’uomo tremi e che sia così preso da paura quando sente in lui le cattive inclinazioni; ma occorre che si consoli quando vede venire un Salvatore, un medico per guarirlo. Ecco perché il salmista cantava: “ … con tremore esultate”. Esultate in rapporto a Lui, ma tremate in rapporto a voi, perché ancora per se stesso Egli non può portare che il bene, mentre i vostri crimini e la vostra malizia potranno forse obbligarlo a farvi del male (Bossuet, 3° Serm. Pour Noel). – Un grande Santo degli ultimi secoli diceva: “L’amore di Dio spinge a marciare, ed il timore di Dio ci spinge a guardare dove si marcia”.

ff 12. – Attaccarsi fortemente a Gesù-Cristo, alla sua dottrina, alla purezza della sua morale, ai suoi esempi è condizione essenzialmente necessaria per essere salvati. Questo termine “abbracciare”, vi mostra a sufficienza che questa disciplina è un soccorso ed una difesa contro gli ostacoli che saranno funesti, se non la si abbraccia con tanto zelo (S. Agost.). – “Abbracciate la dottrina, osservate la disciplina, la paura che il Signore si adiri e che voi non periate, perché essendo usciti dalla vera via, voi finirete per non trovare più aperta la via davanti a voi”. Vi è accaduto di intraprendere un cammino che sembrava battuto al suo punto di partenza e che, sempre più franoso, finiva per eclissarsi interamente, lasciandovi sul far della notte, in una landa sconosciuta, in una foresta oscura, senza offrirvi più una direzione o una uscita? Tale è il cammino degli empi: è una marcia che si perde, che non porta a nulla se non al deserto, all’abisso, alla morte. Piuttosto il Signore riversa il suo disprezzo sugli orgogliosi ed i temerari che hanno voluto allontanarsi da Lui, credendo di poter essere sufficienti a se stessi; Egli li parcheggia, li accoglie nei vicoli ciechi (Ps. CVI, 40)- Essi si spossano in marce e contromarce inutili, girano in cerchio da cui non riescono ad uscire …. Ecco cosa accade: la politica senza Dio e senza Gesù-Cristo è a corto di espedienti, qualunque siano dopo un tratto. Ci viene inflitta l’umiliazione nella forma predetta dal salmista: avendo lasciato la via diretta, abbiamo perso la nostra strada, non abbiamo più il cammino tracciato davanti a noi, giriamo in un cerchio e ci agitiamo in un vicolo cieco (Mgr. Pie VII, 538, 542).

ff.13. Ricordarsi che la giustizia di Dio che si crede spesso molto lontana, è invece molto vicina. – Brevità della vita: “Ciò che finisce un giorno non può mai essere lungo” (S. Agost.). – Non c’è nessuno che non possa applicare questo salmo alle proprie passioni. Queste sono propriamente i nemici di Dio e di Gesù-Cristo suo Figlio. Esse fremono incessantemente contro la legge ed il Vangelo. Ma bisogna sottometterle per i princìpi della fede, con l’idea della grandezza di Dio e di Gesù-Cristo, e con il timore del terribile giudizio di cui il peccatore è minacciato. – La via della giustizia è Gesù-Cristo, via che sola conduce alla Verità ed alla Vita.

SALMI BIBLICI: “BEATUS VIR QUI NON…” (I)

Salmo 1: “BEATUS VIR”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES 

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS

LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR

13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

TOME PREMIER.

SALMO I.

[1] Beatus vir qui non abiit in consilio impiorum, et in via peccatorum non stetit, et in cathedra pestilentiæ non sedit;

[2] sed in lege Domini voluntas ejus, et in lege ejus meditabitur die ac nocte.

[3] Et erit tamquam lignum quod plantatum est secus decursus aquarum, quod fructum suum dabit in tempore suo: et folium ejus non defluet; et omnia quæcumque faciet prosperabuntur.

[4] Non sic impii, non sic; sed tamquam pulvis quem projicit ventus a facie terrae.

[5] Ideo non resurgent impii in judicio, neque peccatores in concilio justorum,

[6] quoniam novit Dominus viam justorum; et iter impiorum peribit.

SALMO I.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da Mons. ANTONIO MARTINI, Arciv. di Firenze etc.

Vol. X

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

La beatitudine del giusto.

1. Beato l’uomo che non va dietro ai consigli degli empi e non si ferma nella via dei peccatori, né si pone a sedere sulla cattedra di pestilenza;

2. Ma suo diletto ell’è la legge del Signore e la legge di lui egli medita di giorno e di notte.

3. Ed ei sarà come arbore piantato lungo la corrente delle acque, il quale darà a suo tempo il suo frutto; E foglia di lui non cadrà: e tutto quello che egli farà, avrà prospero effetto.

4. Non cosi sarà degli empi, non cosi: ma e’ saran come loppa, cui sperge il vento dalla superficie della terra.

5. Per questo non risorgeranno gli empi in quel giudizio, né i peccatori colla congregazione dei giusti;

6. Perocché conosce il Signore la via dei giusti, e la strada degli empi finirà nella perdizione.

Sommario analitico

Il Profeta, per eccitare tutti gli uomini alla pratica della virtù, fa qui una descrizione della felicità del giusto e dell’infelicità del malvagio e del peccatore. Egli descrive:

I. — I due doveri dell’uomo giusto:

Fuggire il peccato. —

(a) Nei suoi pensieri, non prendendo parte alcuna ai consigli degli empi;

(b) nelle sue azioni, non imitando la condotta dei peccatori;

(c) nelle sue parole, non professando dottrine perverse.

Praticare la virtù con l’aiuto dei due principali mezzi:

(a) L’amore della legge di Dio;

(b) la meditazione continua di questa legge (2).

II. — La propria felicità che proviene:

1° Dall’essere fortemente radicato nella fede;

dalla molteplicità delle grazie che riceve;

dall’abbondanza dei suoi frutti; (3);

dal suo fogliame che rimane costantemente verde;

dai successi che coronano tutte le sue imprese (4).

III. — Il danno di colui che tiene una condotta contraria.

1° In questa vita: —

(a) È privato della felicità e delle grazie dell’uomo virtuoso;

(b) è disperso come la polvere lieve che il vento disperde (5).

Nell’altra vita: —

(a) Egli sarà preso dal terrore nel giorno del giudizio;

(b) sarà cacciato dall’assemblea dei santi (6).

IV. — Il soccorso potente di Dio che:

1° Ama le azioni dei giusti e le approva;

2° Distrugge ed annienta i consigli dell’empio (7).

Spiegazioni e Considerazioni

I — 1, 2.

Questo Salmo non ha un titolo, perché è come il titolo generale di tutti gli altri Salmi; ne è come il vestibolo ornato di corone e di fiori che sono destinati a quelli che perverranno alla conoscenza di questi divini cantici, poiché essa promette ed assicura la felicità a coloro che meditano la Legge di Dio e la mettono in pratica. Così San Girolamo definisce questo salmo: “la prefazione dello Spirito Santo”; San Gregorio di Nyssa: “l’introduzione alla filosofia spirituale” (Tract. II in Ps., cap. VIII); San Crisologo: “la prefazione, la lettera e la chiave dei Salmi” (Serm. XLIX). « Il Salmo che abbiamo cantato oggi – egli dice – è la prefazione a tutti gli altri Salmi, esso è il Salmo dei Salmi, il titolo per eccellenza, il soggetto che dà luogo a tutti gli altri, la causa di tutti i Salmi successivi. – Quando la chiave di un palazzo ne ha aperto le porte, se ne intravede il magnifico interno ed i ricchi e preziosi appartamenti. Così, questo Salmo ben compreso, ci spiega i misteriosi segreti rinchiusi negli altri Salmi. » San Basilio, dal suo canto, lo definisce “il fondamento e la base di tutti gli altri Salmi”. « … ciò che sono – egli dice – le fondazioni di una casa che si costruisce, ciò che è la carena per il corpo di un vascello, ciò che è il cuore nel corpo di un essere animato, questo salmo, così breve, lo è per tutti gli altri Salmi che seguono » (Homil. in Ps. I).

ff. 1. – Tutte le fibre dell’intelligenza e del cuore si sollevano a questa parola così semplice e completa nella sua espressione, che apre l’ammirevole collezione dei Cantici ispirati di Davide. « Beato, etc. ». Con questa parola, all’esiliato sembra che si parli della patria; al bambino di sentire pronunziare il nome di una famiglia teneramente amata che parrebbe aver perso. – Che cos’è allora la felicità? Nel suo significato più esteso, è il bene perfetto di tutto l’essere, è uno stato perfetto per la comunione di tutti i beni, è uno stato in cui non resta più nulla da desiderare, più niente da ottenere (S. Thom.) – Il consiglio è come la base ed il fondamento di tutte le azioni, è – dice S. Crisostomo – la luce della vita. – « Beato dunque è colui che non è entrato nel consiglio degli empi. » C’è una differenza considerevole tra l’empietà ed il peccato. Per grazia di Dio, non è empio ogni peccatore, poiché ogni peccato non è l’empietà. Al contrario, è impossibile che l’empio non sia un peccatore, atteso che l’empietà implichi di per se stessa i più grandi peccati. Un figlio può essere vizioso, sregolato, prodigo, ma può amare e rispettare suo padre: in questo egli non è esente da peccati, ma non offende la pietà filiale. Gli empi al contrario, sono coloro che pur essendo forse regolari in molti punti della loro condotta, sovrastano comunque i semplici peccatori poiché l’oltraggio è nei confronti del Padre celeste (S. Hil.) – La via dei peccatori è quella via larga della quale Gesù ha detto: « Quanto è larga la via che conduce alla perdizione ed alla morte, e quanto numerosi sono coloro che entrano per questa porta! » (Matteo VII, 13). La via di ciascuno è la propria vita: la via dei presuntuosi è l’orgoglio; la via del desiderio e del possesso, è l’avarizia; la via del voluttuoso, è la concupiscenza della carne (S. Greg.) – C’è una gradazione nel male: ci si lascia prima prendere dalla vanità, ci si sofferma poi nel piacere del peccato, infine ci si adagia per il consenso che gli si dà. Colui che fa il male costruisce la carne, colui che persevera nel male si adagia in questa carne (Hug. Di S. Victor.) – Questa carne di pestilenza sono le dottrine perniciose che San Paolo raccomandava ai suoi discepoli di fuggire; perché, diceva, « … tali insegnamenti conducono molti all’empietà, ed i discorsi che pronunciano certe persone, si propagano come la gangrena ». (I Tim., II, 10, 17). Le parole e gli esempi empi scivolano molto facilmente nella nostra anima, a causa della doppia inclinazione tanto violenta che essa prova per la sensualità e l’indipendenza. Come un cancro che divora le parti sane, e che propaga la sua corruzione a tutto il corpo, così le cattive dottrine non lasciano niente di sano nell’animo dei fedeli che esse seducono. – Il primo ed incomparabile titolo, la prima gloria del vero giusto, è l’eroismo della sua separazione. Egli si separa dalla folla, esce dai confini del male, resta puro in seno alla comune perversione. – Esistono tre gradi diversi di perversità nel mondo, tre regioni differenti dove si trovano riuniti i transfughi della verità e della virtù. La prima è quella in cui, senza essere empi in se stessi, « si va verso lo scisma degli empi ». È questa la regione delle anime molli, inconsistenti e lasse, è la patria delle leggerezze, delle ignoranze, delle false tradizioni. Questi uomini non hanno della religione, delle verità divine, dei doveri soprannaturali, se non qualche vaga ed imprecisa nozione; sono uomini il cui linguaggio lasso si presta, di volta in volta, con indifferenza sia al bene come al male, al vizio come alla virtù – La seconda regione comprende non più solamente gli uomini che si accontentano di avviarsi sui sentieri del male con un primo passo malfermo e ancora da novizio, bensì le intelligenze che hanno raggiunto il loro stato definitivo, il loro soggiorno fisso e permanente nell’incredulità dello spirito, nei vizi del cuore, nella grossolana e criminale indifferenza della vita. – La terza regione è quella in cui si trovano gli apostoli del male, quelli che lo predicano, l’impongono, si sforzano di introdurlo dappertutto e di farlo trionfare. È l’insegnamento dell’incredulità che, dall’alto delle cariche pubbliche, così come nelle riunioni delle società segrete, fa colare l’empietà ampiamente, il vizio con l’empietà, la blasfemia contro Dio, l’odio contro ogni ordine sociale, il sovvertimento di tutti i princîpi, la negazione di tutte le virtù. (Doublet, Salmi per la predicazione, III, 55).

ff. 2 – Che cos’è « avere la sua volontà nella legge »? È amare sinceramente la Verità! Ci sono molti che hanno la legge nel cuore, ma non hanno il cuore nella legge. Aver le legge nel cuore è conoscere la verità. Ma quelli che hanno la legge nel cuore senza avere il cuore nella legge, portano la legge e non sono portati dalla legge; essi sono caricati senza esserne aiutati, perché la scienza senza la carità è un fardello piuttosto che un aiuto (Hug. De S. Victor., cap. II in Psalm.). Avere la propria volontà nella legge, significa volere ed amare la legge. « La dov’è il vostro tesoro, lì è il vostro cuore ». (Matth. VI, 21) – Una cosa è « essere nella legge », altra cosa è essere “sotto” la legge. Colui che è nella legge si comporta secondo la legge; colui che è sotto la legge è condotto secondo la legge (S. Agost.) – « Ora noi non siamo sotto la legge, ma nella grazia » (Rom. VI, 15). È quanto prediceva il Profeta: « Io metterò la mia legge fin nelle loro viscere » (Gerem. XXXI, 33). È quanto pure esprimeva il Re-Profeta « … la vostra legge è nel mio cuore » (Ps. XXXIX, 9); essa non è in un angolo, ma al centro del proprio essere, come il sole, in mezzo al cielo, espande dappertutto la luce ed il calore. – « … Ed egli mediterà, etc. » Dall’amore della legge nasce la meditazione assidua e fervente di questa medesima legge. Colui che ama, medita attentamente su ciò che ama: « Io ho meditato i vostri precetti, che sono l’oggetto del mio amore ardente » (Ps. CXVIII, 47) e più avanti « … che la vostra legge sia cara al mio cuore; notte e giorno essa è l’oggetto della mia meditazione » (vv.97). Meditare la legge di Dio notte e giorno è – dice S. Ilario – conformare costantemente la propria condotta alle prescrizioni della legge. Noi preghiamo incessantemente quando, con la pratica di opere gradite a Dio e fatte per la sua gloria, ogni nostra vita diviene una vera preghiera; e vivendo così notte e giorno conformemente alla legge, noi meditiamo realmente notte e giorno su questa divina legge (S. Ilar.). « … Che il libro della legge sia sempre davanti ai tuoi occhi – diceva Dio a Giosuè (I, 7) – tu la mediterai giorno e notte, affinché la osservi e compi tutto ciò che vi è scritto, così renderai retta la tua via, e la comprenderai ». – Il giusto dunque cosa fa? Fissato l’occhio su di una stella divina, medita la legge di Dio giorno e notte, e senza mai compromettersi con l’errore, senza temerla, senza esserne vittima, prosegue tranquillamente la sua strada verso l’eternità radiosa. Se si salda in essa, non rischia di cadere nel consiglio degli empi, deboli davanti all’empietà, non lacera il suo simbolo, cede il passo al suo decalogo con deplorevoli lacerazioni. Se intorno a lui ci si rinsalda nel cammino dei peccatori, egli si salda ancora più strettamente nei sentieri di santità … se il mondo è infettato dai miasmi della carne di pestilenza, se il propagarsi del male è attivo, quello del bene non lo è da meno (Doublet, Psalmes, etc.).

ff. – 3, 4. – « Sarà come un albero, etc. » Geremia sviluppa la stessa similitudine (XVII, 7). È facile applicarne tutti i tratti all’uomo pio e fedele: quali sono questi corsi d’acqua? Le Scritture divine, i Sacramenti che sono i “canali della grazia”! Queste sono le acque correnti e di conseguenza vive, unite alle loro sorgenti, che denotano la forza della carità, che dirige e spinge il loro corso. – « … Darà il suo frutto a suo tempo », segno infallibile del suo tipo d’albero: « ogni albero buono porta dei buoni frutti; … voi li riconoscerete dai frutti, dice ancora Nostro Signore ». Così sentiremo lo Spirito Santo dirci con la voce del saggio: « Ascoltatemi germi divini, fruttificate come i rosai piantati vicino alle correnti di acqua » (ECCLI. XXXIX, 17), ed il Salvatore che dice dal suo canto « Io vi ho stabilito perché portiate frutto, e perché il vostro frutto rimanga » (Joan. XV, 16). Egli porterà il suo frutto, cioè questo frutto sarà equo, proporzionato alla grazia ricevuta, ed egli non si attribuirà nulla della fecondità o del merito degli altri. « Gli alberi che portano un frutto che non sia il loro frutto – dice San Bernardo – sono degli ipocriti; essi portano, con Simone il Cireneo, una croce che non è la loro croce e sono forzati a fare una cosa che non amano » (S. Bernardo). – Una conseguenza importante di questa verità, è che noi cooperiamo realmente alla grazia di Dio. – Il frutto viene a suo tempo, quando: – 1) non è né troppo precoce, come questa vigna di cui parla Isaia: « prima della raccolta essa si è coperta di fiori, ma fiorirà senza maturare, la roncola impietosa taglierà i pampini ed i rami, e sarà abbandonata durante l’estate agli uccelli di montagna, e durante l’inverno agli animali selvatici » (Isaia XVIII, 5, 6); -2) né troppo tardivo, perché Dio vuole che gli si offra la primizia degli alberi (Lev. XIX, 23). – « Esso darà frutto a suo tempo ». Altro è il frutto dell’infanzia, altro quello della giovinezza e dell’età più avanzata; altro è il frutto di chi comincia, altro il frutto di chi si è consumato nella pietà; una cosa è il frutto di un novizio, altro quello di un religioso; altro il frutto del clero, altro quello del sacerdozio, altro quello dell’episcopato; pensate non solo al frutto, ma anche alla maturità che esso deve avere (Bossuet, meditation dern. sett. XXIX gior.). – Pensiamo a ciascuno dei tratti di questa graziosa immagine. Dapprima produrre i frutti, e produrli a suo tempo, quando conviene, come si deve, e come Dio lo richiede e l’attende. Qual è l’albero che si carica di frutti nella sua stagione? È l’albero piantato ai bordi delle acque! Le acque sono la grazia, principio soprannaturale, linfa sovrumana che trasfigura in divino ed in eterno tutto ciò che tocca, è Dio stesso comunicato all’essere creato; Dio che versa a fiotti le ricchezze della propria natura. – « Il suo fogliame non cade mai ». Quando tutto intorno a lui sfiorisce, si secca e cade, esso solo conserva il suo vigore primaverile, il suo fogliame non ingiallisce, i suoi anni non fanno che ingrandire le sue forze e moltiplicare i suoi frutti (l’abbate Doublet, passim). – « … Le sue foglie non cadranno ». I frutti sono per l’utilità, le foglie per la piacevolezza. « Tutto ciò che fa prospererà », verità confermata da Nostro Signore: « … colui che dimora in me ed Io in lui, porterà molto frutto » (Joan, XV, 5); e dall’apostolo Paolo: « Tutte le cose cooperano al bene per coloro che amano Dio », anche le tribolazioni e le sofferenze. – La ricchezza moltiplica le sue ricompense con le sue elemosine; la povertà lo copre con la reale porpora del Dio indigente; la santità conferisce alla sua azione delle energie generose; la malattia gli porta la benedizione del Calvario; la vita accumula i suoi meriti con le sue opere sante (l’abbate Duoblet, Psalmes, etc.).

III. — 5, 6.

ff. 5 – Alla felicità e all’ammirevole fecondità del giusto che il Profeta compara ad un albero « coperto di foglie, di fiori e frutti », egli oppone come contrasto ed in tutte le sue parti, l’infelicità e la desolante sterilità dei peccatori e degli empi. « .. Gli empi sono come la polvere » -1) la polvere è la parte più vile della terra -2) mentre l’albero si stabilisce sulla sue radici che si estendono su tutti i lati, la polvere non aderisce alla terra di cui fa parte. -3) Essa è arida e sterile e rende infecondo tutto ciò che copre. Ed è così per i peccatori e gli empi: « Scrivete che quest’uomo è sterile e non prospererà nei suoi giorni » (Gerem. XXII, 39). -4) Tutti la calpestano con i piedi. « E voi calpesterete gli empi, dice il Profeta, quando essi saranno come la cenere sotto i vostri piedi » (Malach. V, 3). -5) tutte le sue parti sono disunite e disgregate, immagine degli empi che non sono uniti tra loro se non per distruggere. – – 6) Essa è trasportata dal vento, figura della leggerezza, dell’incostanza delle anime separate da Dio, morte alla fede ed alla grazia e che sono trasportate da ogni vento di dottrina. – – 7) Essa irrita e offusca gli occhi, riempie le narici e la bocca. La polvere, dice Sant’Ambrogio, è l’empietà; la potenza degli empi è simile alla polvere. Essa produce l’oscurità e non può dare la salvezza. Quando il vento comincia a soffiare, la solleva, la espande e la disperde. Essa intorbida l’aria, denuda il sole; essa è respinta come la polvere, si dissipa come il fumo, si fonde come la cera (S.Ambr. in Psalm.) – Triplo è il carattere della vita senza Religione, disunione, mobilità, sterilità. – 1° nulla è legato, unito, in questa polvere del cammino, tutto vi turbina disordinatamente, non regnerà mai alcun insieme. Tale è l’incredulo, l’uomo senza Religione. Tutto in questa triste esistenza avanza per caso, tutto è destinato all’imprevisto più spaventoso; è la polvere cacciata dal vento, senza direzione, senza una meta, un termine, senza un uso, un impiego. Lo stesso vale per le nazioni: ciò che perde le nazioni moderne, è la rovina della fede, la perdita, il sovvertimento dei princìpi, la degradazione degli spiriti e dei cuori. – 2° Mobilità, inconsistenza. Il vero Cattolico non è mai mobile né inconsistente; egli resta, in mezzo alle vicissitudini del tempo, il figlio dell’eternità; egli si ride della mobilità delle cose, la sua vita del tempo si eternizza nella speranza. L’uomo senza religione e senza Dio, privo di queste speranze eterne, senza avere l’indomani assicurato, senza rifugio, senza avvenire, è abbandonato a tutti i capricci delle cose umane e a tutte le caducità del tempo. – 3° Sterilità. Come la polvere, sua perfetta immagine, l’uomo senza Religione non è assolutamente utile a nulla di quanto sia veramente grande e serio. (DUOBLET, Psaumes, etc.).

ff. 6 – Gli empi non resusciteranno per il giudizio, – né per giudicare, perché essi non sono nel numero dei giusti che giudicheranno con Gesù-Cristo ed ai quali è detto: « Voi sarete seduti sui dodici troni per giudicare le dodici tribù di Israele » (Matteo XIX, 28); – né per essere giudicati, perché il loro giudizio è stato già pronunciato in questa vita: « Colui che non crederà è già giudicato, perché egli non crede al nome del Figlio unico di Dio » (Joan. III, 18). Quando il figlio di Dio verrà a giudicare il mondo, i riprovati, è vero, risusciteranno nello stesso tempo con i giusti, ma non con i giusti, perché al momento della resurrezione i giusti saranno separati dai riprovati (Bourd. Société des justes, etc.). – Tre sono le ragioni per le quali i peccatori e gli empi non resusciteranno nel giudizio dei giusti: – 1° perché essi sono come la polvere che il vento trasporta; – 2° perché essi vedranno l’elevazione dei santi che essi hanno disprezzato « … Dio conosce la via dei giusti »; – 3° perché in questo giorno sarà pronunciata la loro sentenza definitiva: « … e la via degli empi perirà ». – « Né i peccatori nell’assemblea dei giusti », verità che conferma il profeta Ezechiele quando dice: Essi non saranno nell’assemblea del mio popolo; « … essi non saranno scritti nel libro della casa di Israele » (Ezech, XIII,9).

IV. — 7

ff. 7. – Dio conosce la via dei giusti. Questa conoscenza non è una conoscenza sterile. « È lo stesso – dice S. Agostino – che la medicina conosca la salute e non conosca le malattie, e tuttavia le malattie sono riconosciute dall’arte della medicina, e così si può dire che Dio conosca la via dei giusti e non conosca la via degli empi, non che Dio ignori qualcosa, ma nel senso che essere ignorato da Dio, è perire, e che essere conosciuto da Dio è vivere ». (S.Agost.) – Non sapere, per Dio, è riprovare. Ecco perché Dio dirà alla fine del mondo ai peccatori: « … Io non vi conosco » (S. Greg., Moral., II, 3). – « … E la via dei peccatori perirà ». Si dice di un cammino che perisce, che è distrutto, che cessa di esistere, quando un viaggiatore, recandosi in un determinato luogo, trova la fine di questo cammino senza però arrivare al termine del suo viaggio, oppure quando davanti a lui c’è un precipizio, una palude profonda ed insuperabile. – « … Il cammino degli empi perirà ». Cosa vuol dire? Ci si è incamminati in un cammino che sembrava battuto e solido al punto di partenza, poi sempre più friabile, ed infine completamente sprofondante, lasciando così nel buio della notte in una piana sconosciuta, in una foresta oscura, senza offrire direzioni né vie d’uscita. Tale è il sentiero degli empi: è una strada che si perde, che non giunge a nulla se non al deserto, all’abisso, alla morte. « Depertita eorum via » (S. Ilar., Mgr. Pie, Discours etc. VII, 542).

2 LUGLIO: FESTA DELLA VISITAZIONE (2019)

2 LUGLIO: FESTA DELLA VISITAZIONE (2019)

VISITAZIONE DELLA SANTISSIMA VERGINE

Storia della festa.

Nei giorni che precedettero la nascita del Salvatore, la visita di Maria alla cugina Elisabetta ha già costituito l’oggetto delle nostre meditazioni. Ma era giusto tornare su una circostanza così importante della vita della Vergine, per mettere maggiormente in luce quale profondo insegnamento e quale santa letizia contenga questo mistero. Completandosi nel corso dei secoli, la sacra Liturgia doveva sfruttare questa preziosa miniera in onore della Vergine-Madre. L’Ordine di san Francesco e alcune chiese particolari come quelle di Reims e di Parigi, avevano già – a quanto sembra – preso l’iniziativa quando Urbano VI, nel 1389, istituì la solennità odierna. Il Papa consigliava il digiuno alla vigilia della festa, e ordinava che fosse seguita da un’Ottava; concedeva alla sua celebrazione le stesse indulgenze che Urbano IV aveva, nel secolo precedente, attribuite alla festa del Corpus Domini. La bolla di promulgazione, sospesa per la morte del Pontefice, fu ripresa e pubblicata da Bonifacio IX che gli successe sulla Sede di san Pietro. – Sappiamo dalle Lezioni del primitivo Ufficio composto per questa festa, che lo scopo della sua istituzione era stato, nel pensiero di Urbano, di ottenere la cessazione dello scisma che desolava allora la Chiesa. Mai situazione più dolorosa si era prodotta per la Sposa del Figlio di Dio. Ma la Vergine, a cui si era rivolto il vero Pontefice allo scatenarsi della bufera, non deluse la fiducia della Chiesa. Nel corso degli anni che l’imperscrutabile giustizia dell’Altissimo aveva stabilito di lasciare alle potenze dell’abisso, essa stette in difesa, mantenendo così bene il capo dell’antico serpente sotto il suo piede vittorioso, che nonostante la terribile confusione da esso sollevata, la sua bava immonda non poté contaminare la fede dei popoli; immutabile restava il loro attaccamento all’unità della Cattedra di Roma, chiunque ne fosse il vero detentore in quella incertezza; cosicché l’Occidente, separato di fatto, ma sempre uno quanto al principio, si ricongiunse quasi automaticamente al tempo stabilito da Dio per riportare la luce.

Maria, arca di Alleanza.

Se ci si domanda perché Dio abbia voluto che appunto il mistero della Visitazione, e non un altro, diventasse, mediante la solennità ad esso consacrata, il monumento della pace riacquistata, è facile trovarne la ragione nella natura stessa del mistero e nelle circostanze in cui si compì. È qui soprattutto che Maria appare, infatti, come la vera Arca di alleanza, che porta in sé l’Emmanuele, viva testimonianza d’una riconciliazione definitiva e completa fra la terra e il cielo. Mediante Ella, meglio che in Adamo, tutti gli uomini saranno fratelli; poiché Colui che essa cela nel suo seno sarà il primogenito della grande famiglia dei figli di Dio. Appena concepito, ecco che comincia per Lui l’opera di universale propiziazione. Beata fu la dimora del sacerdote Zaccaria che per tre mesi celò l’eterna Sapienza nuovamente discesa nel seno purissimo in cui si è compiuta l’unione bramata dal suo amore! Per il peccato d’origine, il nemico di Dio e degli uomini teneva prigioniero, in quella casa benedetta, Colui che doveva costituirne l’ornamento nei secoli eterni; l’ambasciata dell’Angelo che annunciava la nascita di Giovanni, e il suo miracoloso concepimento, non avevano esentato il figlio della sterile dal vergognoso tributo che tutti i figli di Adamo debbono pagare al principe della morte all’atto del loro ingresso nella vita. Ma ecco apparire Maria, e satana rovesciato subisce nell’anima di Giovanni la sua maggiore sconfitta, che tuttavia non sarà l’ultima, poiché l’Arca dell’alleanza non cesserà i suoi trionfi se non dopo la riconciliazione dell’ultimo degli eletti.

La letizia della Chiesa.

Celebriamo questo giorno con canti di letizia, poiché qualsiasi vittoria, per la Chiesa e per i suoi figli, si trova in germe in questo mistero; d’ora in poi l’arca santa presiede alle battaglie del nuovo Israele. Non più divisione tra l’uomo e Dio, tra il Cristiano e i suoi fratelli; se l’antica arca fu impotente ad impedire la scissione delle tribù, lo scisma e l’eresia non potranno più tener testa a Maria per un numero più o meno grande di anni o di secoli, se non per far meglio risplendere infine la sua gloria. Da essa si effonderanno senza posa, come in questo giorno benedetto, sotto gli occhi del nemico confuso, la gioia degli umili, la benedizione di tutti e la perfezione dei pontefici (Sal. CXXXI, 8-9, 14-18). All’esultanza di Giovanni, all’improvvisa esclamazione di Elisabetta, al cantico di Zaccaria uniamo il tributo delle nostre voci, e che tutta la terra ne risuoni. Così un giorno veniva salutata la venuta dell’arca nel campo degli Ebrei; Filistei, a quella voce, si accorgevano che era disceso l’aiuto del Signore e, invasi dallo spavento, gemevano esclamando: « Guai a noi; non vi era tanta gioia ieri; guai a noi! » (1 Re, IV, 5-8). Oh, sì: oggi insieme con Giovanni il genere umano esulta e canta; oh, sì: oggi giustamente il nemico si lamenta: il primo colpo del calcagno della donna (Gen. III, 15) schiaccia oggi il suo capo orgoglioso, e Giovanni liberato è in questo il precursore di tutti noi. Più fortunato dell’antico, il nuovo Israele è reso sicuro che non gli sarà mai tolta la sua gloria, non sarà mai presa l’arca santa che gli fa attraversare le onde (Gios. III, 4) e abbatte dinanzi a Lui le fortezze (ibid. 6).

Il cantico di Maria.

Come è dunque giusto che questo giorno, in cui ha termine la serie delle sconfitte iniziatasi nell’Eden, sia anche il giorno dei cantici nuovi del nuovo popolo! Ma a chi spetta intonare l’inno del trionfo, se non a chi riporta la vittoria? Cosicché, Maria canta in questo giorno di trionfo, richiamando tutti i canti di vittoria che furono di preludio, nei secoli dell’attesa, al suo divin Cantico. Ma le vittorie trascorse del popolo eletto erano soltanto la figura di quelle che essa riporta, in questa festa della sua manifestazione, gloriosa Regina che, meglio di Debora, di Giuditta o di Ester, ha cominciato a liberare il suo popolo; sulle sue labbra, gli accenti dei suoi illustri predecessori sono passati dall’aspirazione ardente dei tempi della profezia all’estasi serena che denota il possesso del Dio lungamente atteso. Un’era nuova incomincia per i canti sacri: la lode divina riceve da Maria il carattere che non perderà più quaggiù, e che conserverà fin nell’eternità; ed è ancora in questo giorno che Maria stessa, avendo inaugurato il suo ministero di Corredentrice e di Mediatrice, ha ricevuto per la prima volta sulla terra, dalla bocca di sant’Elisabetta, la lode dovuta in eterno alla Madre di Dio e degli uomini. – Le considerazioni che precedono ci sono state ispirate dal motivo speciale che portò la Chiesa nel XVI secolo ad istituire l’odierna festa. Restituendo Roma a Pio IX esiliato il 2 luglio del 1849, Maria ha mostrato nuovamente che tale data era giustamente per essa un giorno di vittoria.

MESSA

Introitus

(Sedulius).
Salve, sancta Parens, eníxa puérpera Regem: qui cælum terrámque regit in sǽcula sæculórum.

[Salve, o Madre santa, tu hai partorito il Re gloriosamente; egli governa il cielo e la terra per i secoli in eterno.]
Ps XLIV: 2
Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea Regi.

[Vibra nel mio cuore un ispirato pensiero, mentre al Sovrano canto il mio poema].

Oratio

Orémus.
Fámulis tuis, quǽsumus, Dómine, coeléstis grátiæ munus impertíre: ut, quibus beátæ Vírginis partus éxstitit salútis exórdium; Visitatiónis ejus votiva sollémnitas, pacis tríbuat increméntum. [Concedi, Signore, ai tuoi servi il dono della grazia celeste: e poiché il parto della beata Vergine fu per noi l’inizio della salvezza, la devota festa della sua visitazione accresca la nostra pace]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Cant II: 8-14
Ecce, iste venit sáliens in móntibus, transíliens colles; símilis est diléctus meus cápreæ hinnulóque cervórum. En, ipse stat post paríetem nostrum, respíciens per fenéstras, prospíciens per cancéllos. En, diléctus meus lóquitur mihi: Surge, própera, amíca mea, colúmba mea, formósa mea, et veni. Jam enim hiems tránsiit, imber ábiit et recéssit. Flores apparuérunt in terra nostra, tempus putatiónis advénit: vox túrturis audíta est in terra nostra: ficus prótulit grossos suos: víneæ floréntes dedérunt odórem suum. Surge, amíca mea, speciósa mea, et veni: colúmba mea in foramínibus petra, in cavérna macériæ, osténde mihi fáciem tuam, sonet vox tua in áuribus meis: vox enim tua dulcis et fácies tua decóra. [Eccolo venire, saltellando pei monti, balzando pei colli, simile il mio diletto ad un capriolo, ad un cerbiatto. Eccolo, sta dietro alla nostra parete, fa capolino dalla finestra, adocchia dalle grate. Ecco il mio diletto mi parla: «Alzati, affrettati, diletta mia, colomba mia, bella mia, e vieni. Poiché, vedi, l’inverno è già passato, la pioggia è cessata, è andata; i fiori si mostrano per la campagna, il tempo della potatura è venuto; si ode per la nostra contrada il tubar della tortorella; il fico ha messo fuori i suoi frutti primaticci; le vigne in fiore mandano il loro profumo. Sorgi, diletta mia, bella mia, e vieni. Colomba mia, che stai nelle fessure delle rocce, nei nascondigli della balza, mostrami il tuo viso, fammi sentir la tua voce, poiché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro!]

La visita del Diletto.

La Chiesa ci introduce nelle profondità del mistero. La lettura che precede non è altro se non la spiegazione di quelle parole di Elisabetta in cui si riassume tutta la festa: Al suono della tua voce, il bambino ha trasalito nel mio seno. Voce di Maria, voce della tortora che mette in fuga l’inverno e annuncia la primavera, i profumi e i fiori! A quel segnale così dolce, prigioniera nella notte del peccato, l’anima di Giovanni si è spogliata delle vesti dello schiavo e, sviluppando d’un tratto i germi delle più sublimi virtù, è apparsa bella come la sposa in tutto lo splendore del giorno delle nozze. Quale premura mostra Gesù verso quell’anima prediletta! Fra Giovanni e lo Sposo, quali ineffabili effusioni! Che sublime dialogo dal seno di Elisabetta a quello di Maria! O meravigliose madri, e più meravigliosi figli! Nel felice incontro, l’udito, gli occhi, la voce delle madri appartengono meno ad esse che ai benedetti frutti dei loro seni; e i loro sensi sono come le grate attraverso le quali lo Sposo e l’Amico dello Sposo si vedono, si comprendono e si parlano. Prevenuta dall’amico divino che l’ha cercata, l’anima di Giovanni si desta in piena estasi. Per Gesù, d’altra parte, è la prima conquista; è nei riguardi di Giovanni che, per la prima volta, dopo che per Maria, gli accenti del sacro epitalamio si formulavano nell’anima del Verbo fatto carne e fanno palpitare il suo cuore. Oggi – ed è l’insegnamento dell’Epistola – accanto al Magnificat si inaugura anche il divin cantico nella piena accezione che lo Spirito Santo volle dargli. I rapimenti dello Sposo non saranno mai più giustificati come in questo giorno benedetto né troveranno mai eco più fedele. Uniamo il nostro entusiasmo a quello dell’eterna Sapienza, di cui questo giorno segna il primo passo verso l’umanità intera.

Graduale

Benedícta et venerábilis es, Virgo María: quæ sine tactu pudóris invénta es Mater Salvatóris.
V. Virgo, Dei Génetrix, quem totus non capit orbis, in tua se clausit víscera factus homo. Allelúja, allelúja.
V. Felix es, sacra Virgo María, et omni laude digníssima: quia ex te ortus est sol justítiæ, Christus, Deus noster. Allelúja

[Tu sei benedetta e venerabile, o Vergine Maria, che senza offesa del pudore sei diventata la Madre del Salvatore.
V. O Vergine Madre di Dio, nel tuo seno, fattosi uomo, si rinchiuse Colui che l’universo non può contenere. Alleluia. alleluia.
V. Te beata, o santa vergine Maria, e degnissima di ogni lode, perché da te nacque il sole di giustizia, il Cristo Dio nostro..]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc 1:39-47
In illo témpore: Exsúrgens María ábiit in montána cum festinatióne in civitátem Juda: et intrávit in domum Zacharíæ et salutávit Elísabeth. Et factum est, ut audivit salutatiónem Maríæ Elísabeth, exsultávit infans in útero ejus: et repléta est Spíritu Sancto Elísabeth, et exclamávit voce magna et dixit: Benedícta tu inter mulíeres, et benedíctus fructus ventris tui. Et unde hoc mihi, ut véniat Mater Dómini mei ad me? Ecce enim, ut facta est vox salutatiónis tuæ in áuribus meis, exsultávit in gáudio infans in útero meo. Et beáta, quæ credidísti, quóniam perficiéntur ea, quæ dicta sunt tibi a Dómino. Et ait María: Magníficat ánima mea Dóminum: et exsultávit spíritus meus in Deo, salutári meo.

[Or in quei giorni Maria si mise in viaggio per recarsi frettolosamente alla montagna, in una città di Giudea, ed entrò in casa di Zaccaria e salutò Elisabetta. Ed avvenne che, appena Elisabetta udì il saluto di Maria, il bambino le balzò nel seno; ed Elisabetta fu ripiena di Spirito Santo; ed esclamò ad alta voce: «Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno. E donde a me la grazia che venga a visitarmi la madre del mio Signore? Ecco, infatti, appena il suono del tuo saluto mi è giunto all’orecchio, il bambino mi è balzato pel giubilo nel seno. E te beata che hai creduto, perché s’adempiranno le cose a te predette dal Signore». E Maria disse: «L’anima mia glorifica il Signore; ed il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore]

Carità fraterna.

Maria aveva saputo dall’arcangelo che Elisabetta sarebbe presto diventata madre. Il pensiero dei servigi richiesti dalla sua venerabile cugina e dal bambino che stava per nascere, le fa prendere subito la strada dei monti sui quali è situata l’abitazione di Zaccaria. Così agisce, così sospinge, quando è vera, la carità di Cristo (II Cor. V, 14). Non vi è posizione in cui, con il pretesto di una perfezione più elevata, il Cristiano possa dimenticare i propri fratelli. Maria aveva appena contratto con Dio l’unione più sublime; e facilmente la nostra immaginazione se la raffigurerebbe incapace di qualunque cosa, perduta nell’estasi in quei giorni in cui il Verbo, prendendo carne dalla sua carne, la inonda in cambio di tutti i flutti della sua divinità. Il Vangelo è tuttavia molto esplicito: è proprio in quegli stessi giorni (Lc. 1, 39) che l’umile vergine, assisa fino allora nel segreto del volto del Signore (Sal. XXX, 21), si leva per dedicarsi a tutte le necessità del prossimo nel corpo e nell’anima … e contemplazione. Vuol forse dire che le opere superano la preghiera, e che la contemplazione non è più la parte migliore? No, senza dubbio; e la Vergine non aveva mai così direttamente né così pienamente come in quegli stessi giorni aderito a Dio con tutto il suo essere. Ma la creatura pervenuta alle vette della vita unitiva è tanto più atta alle opere esterne in quanto nessun dispendio di se medesima la può distrarre dal centro immutabile in cui è fissata.

La perfezione.

Sublime privilegio, risultato di quella separazione della mente e dell’anima (Ebr. iv, 12) alla quale non tutti pervengono, e che segna uno dei passi più decisivi nelle vie spirituali, poiché suppone la purificazione talmente perfetta dell’essere umano da formare soltanto più uno stesso spirito con il Signore (I Cor. VI, 17) e porta con sé una sottomissione così assoluta delle potenze che, senza urtarsi, esse obbediscono simultaneamente, nelle loro diverse sfere, all’ispirazione divina. – Finché il cristiano non ha acquistato questa santa libertà dei figli di Dio (Rom. VIII, 21; II Cor. III, 17) non può infatti rivolgersi all’uomo senza lasciare in qualche modo Dio. Non già che debba trascurare per questo i suoi doveri verso il prossimo, nel quale Dio ha voluto che vediamo Lui stesso; beato tuttavia chi, come Maria, non perde nulla della parte migliore attendendo agli obblighi di questo mondo! Ma come è limitato il numero di questi privilegiati, e quale illusione sarebbe credere il contrario!

Maria, nostro modello.

La Madonna é vergine e madre. In essa si realizza l’ideale della vita contemplativa e della vita attiva: la Liturgia ce lo ricorda spesso. In questa festa della Visitazione, la Chiesa la invoca in modo particolare come il modello di tutti coloro che si dedicano alle opere di misericordia; se non a tutti è concesso di tenere nello stesso tempo, al pari di Lei la propria mente assorta più che mai in Dio, nondimeno tutti debbono cercare di accostarsi continuamente, mediante la pratica del raccoglimento e della lode divina, alle vette luminose in cui la loro Regina si mostra oggi nella pienezza delle sue ineffabili perfezioni. Lode. – Chi è costei che s’avanza come aurora che sorge, terribile come un esercito schierato a battaglia? (Cant. VI, 9). O Maria, è oggi che per la prima volta il tuo soave chiarore allieta la terra. Tu porti in te il Sole di giustizia; e la sua luce nascente che colpisce le cime dei monti mentre la pianura è  ancora immersa nella notte, raggiunge innanzitutto il Precursore di cui è detto che tra i figli di donna non v’è uno maggiore. Presto l’astro divino, continuando la sua ascesa, inonderà con raggi di fuoco le più umili valli. Ma quanta grazia in quei primi raggi che si effondono dalla nube sotto la quale egli ancora si nasconde! Poiché tu sei, o Maria, la nube leggera, speranza del mondo e terrore dell’inferno (3 Re, XVIII, 44; Is. XIX, 1).

…per la Visitazione.

Benedici, o Maria, quelli che scelgono la parte migliore. Proteggi il santo Ordine che si gloria di onorare in modo speciale il mistero della tua Visitazione; fedele allo spirito dei suoi illustri fondatori, esso continua a dar ragione del suo nome, effondendo nella Chiesa della terra quegli stessi profumi di umiltà, di dolcezza e di preghiera nascosta che costituirono per gli Angeli la principale attrattiva di questo grande giorno diciannove secoli or sono.

…per coloro che aiutano gli infelici.

Infine, o Vergine, non dimenticare le folte schiere di coloro che la grazia suscita, più numerosi che mai ai tempi nostri, perché camminino sulle tue orme alla ricerca misericordiosa di tutte le miserie; insegna ad essi come si può, senza lasciare Dio, consacrarsi al prossimo: per la maggior gloria di quel Dio altissimo e per la felicità dell’uomo, moltiplica quaggiù i tuoi fedeli imitatori. E fa’ infine che tutti noi, avendoti seguita nella misura e nel modo richiesto da Colui che elargisce a ciascuno i suoi doni come vuole (I Cor. XII, 11), ci ritroviamo nella patria.

[Dom P. Guéranger: L’Anno Liturgico; Ed. Paoline; Alba, 1956]

Credo

Offertorium

Orémus
Beáta es, Virgo María, quæ ómnium portásti Creatórem: genuísti, qui te fecit, et in ætérnum pérmanes Virgo. [Beata te, o Vergine Maria, che hai portato il Creatore di tutti; generasti chi ti ha fatto e rimani vergine in eterno.]

Secreta

Unigéniti tui, Dómine, nobis succúrrat humánitas: ut, qui, natus de Vírgine, Matris integritátem non mínuit, sed sacrávit; in Visitatiónis ejus sollémniis, nostris nos piáculis éxuens, oblatiónem nostram tibi fáciat accéptam Jesus Christus, Dóminus noster:

[Ci soccorra, Signore, l’umanità del tuo unico Figlio, che nascendo dalla Vergine, non diminuì, ma consacrò l’integrità della Madre: nella festa della visitazione renda a te gradita la nostra offerta, liberandoci dalle nostre colpe, lo stesso Gesù Cristo, nostro Signore:]

Communio

Beáta víscera Maríæ Vírginis, quæ portavérunt ætérni Patris Fílium. [Beato il seno della Vergine Maria, che portò il Figlio dell’eterno Padre.]

Postcommunio

Orémus.
Súmpsimus, Dómine, celebritátis ánnuæ votíva sacraménta: præsta, quǽsumus; ut et temporális vitæ nobis remédia prǽbeant et ætérnæ [Abbiamo ricevuto, Signore, in questa festa annuale il tuo sacramento: concedi che sia a noi rimedio per la vita presente e per la futura.]

1 LUGLIO: FESTA DEL PREZIOSISSIMO Sangue – Le sette Effusioni del Prezioso Sangue di Gesù Cristo.

1 luglio: Festa del Preziosissimo SANGUE DI CRISTO

LE SETTE EFFUSIONI DEL PREZIOSO SANGUE DI GESÙ CRISTO

[D. M. MESINI: SERMONI sul Sangue Preziosissimo di Gesù Cristo; Tip. Malvolti, Rimini, 1884]

INTRODUZIONE

Si quis sitit, veniat ad me, et bibat.

Ioan. VII.

Quanto mai Gesù Cristo ama gli uomini! L’Evangelista Giovanni ci descrive questo innamorato Redentore, quando l’ultimo giorno delle feste sen venne in Gerusalemme, dove trattenevasi tra il popolo deliziandosi di far dimora con esso, benché già i suoi nemici pensassero di ucciderlo. Ben Egli vedeva l’interno loro, ben conosceva i segreti e scellerati divisamenti, che alimentavano nella lor mente; non gli era occulto l’odio accanito, che covavano in cuore, e ben lo chiarì, tatto mitezza così interrogandoli: « Perché cercate voi di uccidermi? Quid me qujeritis interfìcere? » Nondimeno stando Gesù ancora in mezzo al popolo, seguita Giovanni a farcelo vedere in aria dolce e compassionevole, che apre la benedetta sua bocca e grida: Se alcuno havvi, che sia arso di sete, venga da me e beva. Si quis sitit, veniat ad me, et bibat. Ma di qual umore egli qui parla? Secondo l’interpretazione di molti dotti e pii scrittori, Egli allude a quel fiume di Sangue, ch’Egli stava per versare a compimento della redenzione degli uomini. E di qual sete poi Egli favella? A quale sete vuol Egli recare rimedio? Versando Cristo il suo Sangue per mondarci da ogni peccato vuol Egli refrigerare quella sete ardente, che in noi accendono le smodate passioni, che sono come febbri cocentissime, al dir d’Ambrogio: Vanis criminum febribus caro nostra languebat, et diversarum cupiditatum immodicis sestuabat illecebris. Ah! sì pur troppo è nostra febbre l’avarizia,nostra febbre la libidine, nostra febbre la lussuria. Febris nostra axuritia est; febris nostra libido est, febris nostra luxuria est. Ah! pur troppo è nostra febbre l’ambizione; nostra febbre l’iracondia. A refrigerio adunque di quest’ardente sete, prodotta dalle cocenti febbri delle smodate passioni, ecco che Gesù Cristo con quelle parole tutti invita a partecipare del Sangue da Lui sparso, ed a godere dei dolci frutti del gran Prezzo di nostra Redenzione: Si quis sitit, veniat ad me, et bibat. Per questo venne già il Divin Sangue fin da remoti tempi figurato in quell’acqua, che sgorgò in larga vena dalla rupe presso l’Oreb per dissetare gli Ebrei, che camminavano per l’arenoso deserto, giacché niente havvi, che meglio refrigeri, quanto le freschissime acque di una fonte: Illis aqua de petra fluxit, tibi Sanguis Christi … lllud in umbra, hoc in veritate. Così S. Ambrogio. Ma il Sangue, che versò Cristo non farà poi altro che refrigerare la sete delle disordinate passioni? Ah! no; sarebbe questo troppo poco per un Sangue di un infinito valore, quale è il Sangue d’un Uomo-Dio. Esso donerà ancora ristoro di grazia e di novella forza per l’acquisto delle più belle virtù, e della più elevata perfezione. E ve n’era certamente bisogno; che troppo fiacche sono le forze dell’uomo dopo la caduta di Adamo, e non valevoli a far cosa, che loro compri l’eterna gloria: troppo è da faticare nel battere la via, che conduce alla perfezione, ed al cielo. Però quel Gesù medesimo, ch’altra volta aveva detto: Venite omnes, qui laboratis, et onerati estis, et ego refìciam vos; ora tutto pieno di pietà, di misericordia, e d’amore invita a ricever questo conforto con quelle parole: Si quis sitit, veniat ad me, et bibat; che bevendo non si sente sol refrigerio all’arsura, ma ristoro, e rinfrancamento dal languore che provavasi. Con questo preambolo adunque entriamo, o carissimi ascoltanti, nel pio Esercizio dello Sette Effusioni del Sangue Prezioso, e dalle diverse circostanze, che le accompagnarono, troveremo nelle prime quattro con che smorzare la sete ardente, che la febbre di smodata libertà, di onori, di piaceri, di ricchezze cagiona: troveremo nelle ultime tre il ristoro di forza, e di vigore, che bisogna per seguir Cristo portando la croce, ed arrivare alla perfezione. Ma lungi di qua, o profani. Lungi di qua, voglio dir voi, che abbeverandovi continuamente alle acque putride e fangose di Babilonia, di queste solo vi compiacete, a queste volete ostinatamente restar attaccati. Lungi di qua voi, o increduli, che fate di Cristo una favola, od al più solo un uomo. Togliendogli dal capo l’aureola della divinità; voi, che non avete di questo Sangue la fede che vi bisogna, e senza di cui è impossibile piacere a Dio. Che potrebb’esso fare per voi, se voi la disprezzate? Potrebb’esso a voi essere viva fonte di benedizione  se voi lo maledite? Ah! che con voi non ha Gesù, che ripetere: Quæ utilitas in Sanguine meo? Ma che dissi io mai? Ah! vengano, vengano tutti avvivando un po’ la lor fede, e con animo ben disposto; ed allora tutt’intenderanno bene, e sentiranno scendersi al core quell’invito di Cristo: Si quis sitit, veniat ad me, et bibat; e dissetandosi col suo Sangue ne ricaveranno certo abbondante profitto per l’anima.

Effusione I di Sangue

Nella Circoncisione

Rimedio alla smodata sete di libertà.

Creato l’uomo ad immagine di Dio usciva egli dalle sue mani per tornare a Lui, il quale com’era suo principio, così doveva essere suo ultimo beato fine. Intanto, mentre vive sopra la terra, a conseguire quel fine supremo, Iddio col lume stesso del suo volto, con cui l’ha segnato, ed accende la sua ragione, gli scopre quel fa il bene, fac bonum; quell’ordinem serva, osserva quell’ordine, che è il principio d’ogni moralità. A questo ha aggiunto la sua legge positiva, incisa sulla pietra, e tra lampi e tuoni là sulla cima del Sinai, che si scuoteva e fumava, pubblicata al tremebondo popolo d’Israello. Legge, che Cristo stesso venendo sulla terra ebbe di sua bocca confermata. A questa legge divina adunque, e naturale, e positiva deve sottostar l’uomo: a questa deve informar tutta sua vita. S’ei fu da Dio arricchito del nobile dono della libertà, chi vi ha, che non vegga, che di questa non deve abusarsi a mal fare, ma deve ognora volgerla al bene, all’osservanza di questa legge, per istare sottomesso, com’è ben giusto, al Legislatore? Nondimeno cominciò Adamo a rompere il freno di questa legge; e la sua progenie avendo in sé trasfusi con quel primo peccato tutti i tristissimi effetti di quello, si sentì bruciar le vene da una febbre d’indipendenza, provò una sete cocentissima di libertà smodata. E per verità, come già Faraone a Mosè, che intimavagli a nome di Dio di lasciar in libertà il popolo Ebreo, ogni peccatore se non con le parole, certo coi fatti dice pieno d’orgoglio: Chi è questo Dio, che vuol signoreggiar su di me, e dettarmi legge, e farmi precetti? Che precetti, che legge, che Dio! Io non lo conosco: Nescio Dominum. (Ex. V) Sono libero, e voglio viver libero. E così poi scosso il giogo, pronuncia inoltre quel non voglio servire, di cui a buon diritto si lamenta il Signore: Confregisti jugum, dirupisti vincula, dixisti: Non serviam. (Gerem. II) Con orgoglio poi ben più matto frenetici di febbre di libertà oh! quanti ai giorni nostri professandosi per gente del progresso, cioè senza fede, non ammettono Dio, e per conseguenza non ne accettano la legge. Libero pensatore, se mai qui m’ascolti, tu, che non vuoi freno di sorta in fede ed in morale, e ammetti solo quel che ti detta il tuo capriccio, sai tu a chi Giobbe te proprio, più, che altri, assomiglia? Ad uno stolido puledro di giumento selvatico, che non avendo freno, né riconoscendo padrone con erto il collo va vagando per la foresta: Vir vanus in superbiam erigitur, et tamquam pullum onagri se liberum natum putat. (Job. II). Ma buon per noi, che quest’ardore di libertà sfrenata è venuto Gesù a refrigerare, e guarir col suo Sangue. Venite qua tutti ed avvivando un pò la vostra fede con cuor ben disposto considerate il Salvator vostro in pargolette membra umane. Guardate; Egli è il Figliuol di Dio e però Dio Egli stesso, il Re dei Re. Nondimeno vestendosi di carne mortale si esinanisce, e piglia la forma di servo: Exinanivit semetipsum, formam servi accipiens. (Filip. II) E questa forma di servo vuol far meglio apparire vagendo bambino Egli, ch’era la stessa Sapienza; ridotto alla debolezza di tenero corpicciuolo Egli ch’era la stessa Onnipotenza. Di più vuole assoggettarsi alla legge della circoncisione, a cui non era certamente tenuto. Dovean circoncidersi i figli prevaricatori di Adamo prevaricatore. Ma a che la circoncisione in Gesù, in cui non era verun neo di colpa, ch’era anzi la stessa Santità? Assoggettandosi poi a questa legale cerimonia veniva ad obbligarsi, come Uomo, all’osservanza perfetta di tutta la legge, giusta quel di S. Paolo: Testificar… omni homini circumcidenti se quoniam debitor est universæ legis faciendæ. (Gal. V) E tutto questo perché mai Egli compie se non per nostra istruzione, ed esempio ? Per nostra istruzione, ed esempio sottomette il suo tenero corpicciuolo a quel taglio doloroso. Ne è anzi bramosissimo. Quanto gli tarda, che ne venga alfine il momento! Quante volte in quei primi otto giorni di sua vita mortale va ripetendo quelle parole, che furono a lui riferite dall’Apostolo Paolo : Corpus…. optasti mihi…. tunc dixi: Ecce venio. (Hebr. X) Tu mi hai dato, o Padre celeste, un corpo perch’Io patisca: eccomi pronto, eccomi pronto a versare anche il Sangue: Tunc dixi: Ecce venio. Su via, cali dunque l’affilato coltello, e Gesù grondi Sangue. O prime stille preziose, preludio di quel molto Sangue, che in avvenire sarebbe poi sparso, io umilmente vi adoro! In vedervi sparse con tanta umiliazione chi non si sentirà dar giù ogni ardore di libertà sfrenata? Chi non imparerà la soggezione, e l’osservanza della legge da tanto esempio? Sì, o Gesù, vogliamo vivere a Voi soggetti, ed il vostro Sangue ci donerà ancora la grazia a ciò necessaria. Così noi avremo la vera libertà dei figliuoli di Dio, franchi dalla schiavitù dell’inferno, liberi di quella libertà, che voi ci donaste: Qua liberiate Christus nos liberavit. (Galat. IV).

Effusione II di Sangue

Nell’Orto del Getsemani

Rimedio alla smodata sete di grandezze.

All’Orto del Getsemani, uditori, andiamo all’Orto del Getsemani, dove Gesù recasi dopo terminata l’ultima cena. Già è arrivata quella notte funesta, in cui Egli deve darsi in balìa de’ suoi nemici: già è arrivato il tempo di quel battesimo di Sangue, di cui favellava sì spesso con grande commozione del suo cuore, ed a cui anelava ardentemente: Baptismo habeo baptizari, et quomodo coarctor usque dum perficiatur? Siccome la colpa incominciò nell’Eden tra le piante amene di quell’amenissimo luogo, così Gesù volendo riparar tutto con la Redenzione, anche nelle più tenui circostanze, incomincia la sua passione nell’Orto del Getsemani avanzandosi tra il più folto delle piante degli ulivi. Là nell’Eden aveva l’uomo peccato per superbia volendo farsi simile a Dio col prestar fede alle false promesse del Serpente: Eritis sicut Dii. Qui nel Getsemani Gesù si umilia, si abbassa, quanto mai può abbassarsi un Uomo-Dio, facendo la figura di peccatore. Maledetta superbia! Te vedeva il Redentore attecchire nei cuori di tutta la schiatta del primo parente prevaricatore. Quanta vanagloria di ciò che non era in fine che dono di Dio! Quanta jattanza ed arroganza nelle parole! Quant’orgoglio nel tratto! Che ambizione d’onori e dignità, tanto più grande, quant’era più piccolo il merito! Maledetta superbia, te vedeva nei filosofi sprezzar la stessa rivelazione, e te udiva pronunciare quelle ardite parole: La ragione basta a sé stessa. Vedeva quinci germogliare, qual malefica pianta, quella scienza, che tanto va più tronfia, e si accatta plauso, quanto più fa pompa di ateismo, ed esclude Iddio, e Cristo. Sì, tutto questo vedeva il Redentore; ed ecco che si accinge a portare il rimedio, opponendo a tanta alterigia la più profonda umiltà. Caricatosi di tutti i peccati degli uomini per offrirsi Egli vittima per tutti al Padre, non isdegna di apparire l’ultimo dei mortali, novissimum virorum; non dubita di divenir Egli la stessa maledizione: Factus prò nobis maledictum. Ma oh Dio! quanto di pene gli costa questo abbassamento! Coperto della più gran confusione, tutto acceso di rossore nel volto, trema a verga a verga in tutto il corpo, e si prostra con la faccia per terra, che più non osa di levarla al cielo. Si sente occupar l’anima da una tristezza mortale: Tristis est anima mea usque ad mortem; che innalzato ha la Giustizia di Dio come un muro di divisione tra la parte superiore, ed inferiore dell’anima, per cui non più il gaudio ha questa della visione beatifica, che quella gode. Parla col Padre, ma non più con quella confidenza, ch’aveva altre volte. Altre volte, quando voleva operare anche i più stupendi prodigi, diceva: Padre lo voglio: Pater volo. Ora: Padre, se è possibile, passi da me questo calice. E poi ben tosto con uno sforzo generoso l’accetta, sottommettendosi alla volontà di Lui. Ma che stretta Ei prova in suo cuore! Agonizza, cade bocconi al suolo; e per la piena dei tempestosi affetti, che intorno si serrano al suo cuore, e gli fan groppo, tanto questo si restringe, che non potendo aprire per i suoi seni il varco al Sangue, da sé lo respinge; ed il Sangue rigurgitando, impedita la libera circolazione, per non usate vie trasuda da tutto il corpo: Factus est sudar ejus sicut guttas Sanguinis decurrentis in terram. (Luc. XXII) Uditori, mirate di quel Sangue imporporate l’erbose zolle, inzuppato tutto il terreno. Ah! se voi pure una febbrile sete accende di grandezze, di onori, d’un vano sapere, di fasto immoderato, a cui la vostra superbia aspira, qua venite a sedarla nel Sangue da Gesù sparso fra tante umiliazioni. Sentite le voci di Gesù, che v’invita: Si quis sitit, veniat ad me, et bibat. Venite; che quel Sangue è pieno di divina virtù. Ed accogliendo nel vostro cuore sensi di verace umiltà, su accorrete a confortare Gesù, ed a sollevarlo di terra, dove in tant’agonia fu prostrato, perché umiliatosi per noi, perché fattosi per noi la stessa maledizione: Factus prò nobis maledictum. (Galat. III)

Effusione III di Sangue

nella Flagellazione

Rimedio alla sete smodata di piaceri.

Povera natura umana! Dopo che fosti caduta dallo stato d’integrità e d’innocenza primitiva, come ti sei fatta inferma, e ferita rispetto a ciò, che eri prima, per la ribellione della parte inferiore alla superiore, per lo scompiglio di tutte le passioni. Un’altra febbre in fatti, la febbre concupiscenza della carne tutti gli uomini assale ricercandone ogni vena; e penetrando talora fin nell’ossa, non dà lor tregua, e pace giammai; e sfiorate, lor dice, sfiorate rate pure i più vaghi prati della lussuria, assaporate ogni dolcezza della voluttà. E tanti, e tanti a tali voci prepotenti non sono tardi a gustar ogni diletto, e tutto vuotare sino all’ultima feccia il calice degl’immondi piaceri. Così avviene pur troppo, o ascoltanti, per la infermità della nostra natura. Che sarà poi, se tolgasi ogni freno di mortificare la carne, se le si diano a pascolo, e fomento mille incentivi di soverchie morbidezze, dì cibi deliziosi, di spiritose bevande, d’un vestir ricercato ed immodesto, di vezzi i più passionati? Ai nostri giorni poi, che si fa di tutto per condurre i Cristiani a vivere alla pagana, si vien fuori col dire, che macerazioni, astinenze, digiuni non si confanno più a questi tempi di luce e di progresso, i quali domandano la riabilitazione della carne. Riabilitazione della carne? E che intendete voi con questa parola, se non accarezzare la carne, o contentarla in ogni sua turpe voglia? Riabilitazione della carne? E non sapete voi, che Gesù Cristo col suo patire volle la santificazione vostra, come dice Paolo ai Tessalonicesì, e che voi vi asteniate da ogni opera immonda, affinché ognun di voi possieda il suo corpo, come vaso di santificazione e di onore? E non sapete voi, che Gesù Cristo venne a riformar questa carne, che vuolsi ora riabilitare, e di sordida e sensuale ch’era, a renderla santa, ed immacolata, ed irreprensibile al suo cospetto, come dice il medesimo Apostolo ai Colossesi? Che se Gesù venuto a riformar la vostra carne, non vuole poi preservarvi dalle tentazioni del senso, ciò fa perché abbiate ancor voi la vostra parte in questo solenne trionfo sopra la carne medesima, tenendola in freno, e mortificandola. E voi questo ricuserete? Forseché Cristo non ha fatto abbastanza, e non ha anche troppo sofferto per parte sua? Per riformare la vostra carne, e per darvi forza a tenerla in freno, Egli si è assoggettato nientemeno, che alla crudele flagellazione, a cui lo condannò Pilato; e voi ben potete ciò rilevar dalle circostanze. Si tratta qui di rimedio ai rei diletti sensuali del corpo. E Gesù il corpo suo, non formato da seno macchiato di colpa, come ogni altro corpo umano, ma dal seno di Madre vergine per opera solo dello Spirito Santo; il suo corpo dotato d’una purezza infinita, come corredo dell’unione ipostatica, senza riserva alcuna tutto intero consegna ai colpi dei flagelli. Si tratta qui di rimediare ad abusi di nudità scandalose; e Gesù soffre d’essere spogliato delle sue vesti, né fa calare gli Angeli dal cielo a coprire con le loro ali una nudità così sacrosanta. Anche qui Ei versa Sangue una terza volta, Sangue vergine, immacolato, come la sua carne, acciocché i sensuali ammorzino l’ardore della concupiscenza, che li asseta fino al peccato, e non pongano le loro delizie in immondezze: Sì quis sitit veniat ad me, et bibat. Ed oh! in quanta copia Ei lo versa! Già legato alla colonna, una furia di colpi spessi e pesanti si rovescia sulle delicate membra, qual fitta gragnuola cade rovinosa a battere le mature e biondeggianti spighe di un campo. Si ripetono a centinaia i colpi, e la carne avvizza, si pesta, rompesi la pelle, e le belle membra di Gesù s’impiagano. Anzi dalla pianta dei piedi sino alla cima del capo non vi è alcuna parte più sana, a pianta pedis usque ad verticem capitis non, est in eo sanitas, (Isai 1) e nondimeno si batte ancora. Già allo piaghe si aggiungon le piaghe, che non più a centinaia, ma a migliaia si ripetono i colpi, super dolorem vulnerum meorum addiderunt, (Ps. LXVIII) ed ancora si batte. Si spargono minuzzoli di carne per l’aria: di Sangue sono inzuppati i flagelli; di Sangue è tinta la colonna: di Sangue è tutto bagnato il terreno: di Sangue sono sapersi i carnefici stessi. Oh: basta, basta, o mio Gesù. Si, Voi avete fatto anche troppo per rimedio della nostra concupiscenza.A noi stanno meglio quei flagelli per punire questa carne, che si ribellò allo spirito, e per tenerla nell’avvenire in freno. Su, è tempo di mutar vita, e difar buoni propositi. Dite adunque, ascoltanti cosi: O Gesù, noi vogliamo far parte di quella eletta schiera, che vive in continenza, e castità. Prima che voi veniste a compiere la redenzione, pochi furono i Giuseppi, poche le Susanne; ma dopo è ben grande la schiera non solo di casti, ma di vergini ancora, che vengon dietro a Voi attratti dal soave olezzo, che manda il vostro Sangue purissimo. Anche noi, se non tutti vergini, certo almeno casti nel nostro stato di vita vogliamo essere, casti nel matrimonio elevato a sacramento, che anche in questo non è lecito abbandonarsi a certe turpitudini. Lo promettiamo, o Gesù: Gesù, lo vogliamo. Confortateci con quella grazia, che ci meritò il vostro Sangue sparso sotto i flagelli.

Effusione IV di Sangue

Nella Coronazione di Spine.

Rimedio alla sete smodata di Ricchezze.

Sazi non sono i carnefici d’incrudelire contro di Gesù, che, qual mansueto agnello sotto le forbici del tosatore, non manda un lagno; ma neppur sazio è Gesù di patire, e di versar Sangue. Era Egli stato calunniato di aspirare ad uno scettro, e ad una corona, e di volersi far re. E quella insolente soldatesca preparagli perciò un nuovo tormento tra i più amari scherni, ed i motti più frizzanti. Messolo a sedere sopra di un sasso, gli mettono indosso un cencio vilissimo di porpora, in mano una fragile Canna per scettro. Manca la corona. Di che la formeranno essi? Prendono un manipolo di spine lunghe ed acute, e ne fanno un diadema, che pongono sulla testa di Gesù: Milites plectentes coronavi de spinis, imposuérunt capiti ejus. (Joan. XIX) E calcanlo con bastoni, perché quelle spine ben addentro s’infiggano nel capo, ed alcune anche nel cervello. Oh Dio! Che spasimo atroce in questa parte più delicata dell’uman corpo, dove tatti i nervi per la spina dorsale si rannodano! Se una spina sola confitta nella parte più callosa d’un piede d’ una belva la fa fuggire ruggendo dal dolore per la foresta, che tormento crudelissimo non avrà poi provato Gesù con tante spine nel capo? Qual terra mai incolta, all’aratro restìa, e solamente ingombra di triboli e spine porse un sì lugubre dono al Redentore? Quale spietata mano ebbe quelle spine seminate? Ahi! che così ispida corona rosseggiando del Sangue di Cristo muta le acute punte quasi in rose: Christi rubescens Sanguine aculeos mutat rosis. Ahi! che cangia di colore il bel volto di Lui, e impallidendo vede già avvicinarsi la morte. Ed intanto il Sangue fila giù per la fronte, e tutte ne tinge le guance in maniera che ben avveransi le parole del Profeta: Non est species ei, neque decor, et vidimus eum, et non erat aspectus. (Isa. LIII) Ma perché questo novello tormento? Perché ancora questo Sangue? Anche qui un’altra volta grida Cristo: Si quis sitit, veniat ad me, et bibat, perché vuol porgere un refrigerio ad un altra ardentissima sete, ch’è nel mondo, alla sete delle ricchezze. Questa sete, più si fanno acquisti, più si tesoreggia, e più cresce, come avviene all’idropico, che più beve l’acqua, a cui tanto anela, e più resta arso ed assetato: Plus bibuntur, plus sitiuntur aqua. E per acquistare, e per arricchire quante ingiustizie si commettono, quante frodi s’intessono! Che sordide usure! Che rapacità coperte, cercando di abbellirle con uno specioso titolo di compenso, di annessione, o di altro! Troppo era dunque necessario, che col suo Sangue, da cui esce una virtù divina, anche a questo recasse rimedio il Salvatore. Vedete qui, come infatti tutto spira distacco dai beni del mondo, come tutto spira amore alla povertà. Trattato è Cristo da re di scherno solamente, mentr’Egli è vero Re del cielo, e della terra. Quindi non tesori, non splendido trono, non ricca veste, non preziosa corona, non aureo scettro: ma un sasso è il soglio; ma un cencio di color rosso è la porpora, che mal lo ricopre; ma lo scettro è una fragile canna; ma la corona è d’irte e pungentissime spine. Sì, di quelle spine ha cinto il capo, a cui Egli stesso assomigliò le ricchezze nella parabola della semente evangelica, ed il reo abuso qui ne sta pagando, e la immoderata sete spegnendo col Sangue, che da tanto trafitture si spreme. O voi adunque, che abbondate di ricchezze, non vogliate con la virtù, che da questo Sangue si diffonde, attaccare il cuore ad esse: Divitiæ si affluant, nolite cor apponere. (Ps. LXI). Non vogliate esser tutti in arricchire, niente curandovi poi dell’anima vostra, ch’è il vostro meglio. O voi, che poveri di beni di fortuna invidiate ai ricchi, e ne agognate gli averi, pigliandovela spesso con la Provvidenza Divina, che non abbia egualmente spartito i beni della terra, e questa egual partizione sognate, che il socialismo sogna e falsamente promette, guardate qua Cristo, che in mezzo a tanta povertà d’ogni cosa versa Sangue con una povera corona di spine sul capo, e sanate le illusioni della vostra mente, cui la passione delle ricchezze fomenta. O voi finalmente, se qui siete, che non dubitate sacrileghi di stender la mano rapace su ciò, che appartiene alla Chiesa, comprandone ai nostri giorni i poderi e gli arredi preziosi, ah! rammentatevi, che voi riducete Gesù Cristo altra volta ad un cencio di porpora, ad ano scettro di canna, ad una corona di spine. Voi, quanto è da voi, altra volta gli spremete Sangue. Ah! badate, che con quel Sangue, col quale dovevate recar rimedio alla vostra passione delle ricchezze, non si scriva l’eterna vostra condanna. Tremate, che quella corona d’ignominia, che si muterà un giorno incorona di gloria, cagione ai Santi di gaudio perpetuo, per voi non si tramuti in corona di terribile giustizia. Ahi! di questa corona vedranno un giorno gli empi cinto Gesù Cristo, vedranno, e periranno: Videbunt eum impii in corona justitice, et peribunt. (S. Bern. Serm. 50)

Effusione V di Sangue

nel viaggio al Calvario

Conforto nella via della Perfezione.

Poco era a Gesù sanare con lo spargimento del suo Sangue tante infermità della misera natura umana: poco eragli refrigerare la sete ardentissima di peccato, che mettono le febbri delle passioni: voleva di più recare col suo Sangue un ristoro, rinfrancando le forze dell’anima, perché coll’adornarsi d’ogni virtù giungesse ad alta perfezione. Ma considerate sapienza, e misericordia del Salvatore. Non si addicono agl’infermi le sublimi altezze: In excelsis infirmi esse non possunt. (Ambr. lib. 5 in Luc.) E però quando trattasi di sanare refrigerando la sete febbrili delle  passioni, Ei versa Sangue in basso loco prima di salire il Calvario: Quemque in inferioribus sanat. Ma allorché vuol donare un conforto ad acquistare la virtù e la perfezione si mette Egli stesso a salire, e segna del suo Sangue la via, acciocché ciascuno, che fu risanato, a poco a poco progredendo di virtù in virtù possa giungere alla vetta del monte della perfezione: Ut paullatìm vìrtutibus procedentibus, ascendere possit ad montem. Eccolo in fatti con la croce sulle spalle già per l’erta del Calvario. Trema sotto il peso del grave legno, e debole per mancanza di nutrimento, e tanto Sangue versato, più volte trabocca al suolo, e di nuovo Sangue, che da tante piaghe, e tante trafitture va ancora spargendo, bagna e tinge la strada. Pur non si dà mai per vinto. È alla cima del doloroso monte, ch’Egli anela; è là, ch’Egli fa tendere i suoi passi, o perciò prosegue la via, benché abbia a patire indicibili pene. Ed intanto Ei grida a ciascuno: Veni, sequere me. Vieni, mi segui. Lo so, o Gesù, che seguendo Voi arriverò anch’io sul monte, vale a dire conformandomi al mio esemplare mi adornerò d’ogni più bella virtù, e raggiungerò la perfezione, che Voi volete nei vostri seguaci. Lo so, che diverrò puro, come i gigli, umile e mansueto di cuore, distaccato da ogni affetto terreno, tutto inteso alle cose del cielo. Ma oh! Dio, quinti travagli mi si affacciano! Mi si affaccia l’erta salita; che mi toccherà fare: mi si presenta la croce, che, come Voi la portaste, Voi pur volete, che porti chiunque vi vien dietro: mi si offre quel dover agonizzare fino per l’anima, se decorata la voglio di perfetta virtù. Ma a che t’attristi anima mia, e perché ti conturbi? Quare tristis es anima mea, et quare conturbas me? Quel Gesù, che grida portando la croce: Veni, sequere me, non è lo stesso che invita: Chi ha sete di mansuetudine, d’umiltà, di pazienza, di purezza, venga a me, e beva? Si quis sitit, veniat ad me, et bibat. Sì sì, ecco il mio ristoro, ecco il mio conforto nel Sangue di virtù divina, cui Egli sparge nel cammino del Calvario. Andrò dunque, calcherò quelle vestige rosseggiante. Andrò dunque tenendo l’invito di Cristo, salirò il monte della perfezione, benché sia monte di mirra, o di amarezza, perché poi si trasmuti un giorno in monte di delizie sempiterne: Vadam, vadam ad montem myrrhæ. E voi, o ascoltanti, che fate? Anche da voi tutti vuole Cristo l’esercizio delle più belle virtù, e v’invita alla perfezione in quello stato a cui ciascuno è chiamato dal cielo, e con quei mezzi che al proprio stato convengono: Estote perfecti, egli avea altra volta detto, estote perfecti, vi ripete ora, invitandovi a montare con Lui il Calvario; ed è pronto il conforto nel suo Sangue anche per voi. Oh! questo sì, ch’è il vero progresso: avanzarsi di virtù in virtù, e andar ognora perfezionando lo spirito. Altro progresso or non si vuole, che nelle scoperte, nelle macchine, nelle arti. Progresso, ch’io certo non condannerei, se non fosse tutto e solo materiale, senza curare punto lo spirito, e non andasse congiunto ad un progresso spaventoso di malizia e d’irreligione. Oh! si capisca bene una volta quell’invito, che fa ognora Gesù, e vi si risponda. Allora sì, che si coltiveranno le virtù: allora sì, che splenderà la luce del vero progresso, e fiorirà quella vera civiltà nei popoli, che, vogliasi o no, consiste appunto nel complesso di quelle.

Effusione VI di Sangue

Nella Crocifissione

Conforto ad amare Gesù, ed il Prossimo

Regina di tutte le virtù è la carità, che dall’Apostolo venne chiamata la pienezza della legge: Plenitudo… legis est dilectio. (Rom. XIII) E S. Agostino domanda qui giustamente: Dov’ è la carità, qual cosa mai può mancare? Dove non è, qual mai cosa può recar giovamento? Ubi caritas est, quid est, quod possit deesse? Ubi autem non est, quid est, quod possit prodesse? E però, se Gesù Cristo, o ascoltanti, volle spargendo il Sangue nella salita del Calvario darvi un conforto all’esercizio delle virtù; immaginate voi, se giuntone sulla cima, vorrà questo conforto negarvi, perché l’amiate, ora che la redenzione ha il suo compimento. Ah! questo cuor vostro, ch’è portato naturalmente ad amar Dio, perché fatto per Lui, n’aveva pur bisogno, acciocché gli facesse batter in alto a meta così sublime le ali, senza mai volgerle in basso. Ed ecco Gesù, che inchiodato sul duro legno della croce versa Sangue dalle ferite delle mani, e dei piedi in tanta copia, che quattro rivi quasi par che scorrano. Ben ora egli può mostrar in sé avverate quelle parole del Salmista: Sicut aqua effusus sum. Ben copiosa è la sua redenzione, se non una sola goccia, che pur era a ciò sufficiente, ma tanto Sangue Egli sparge. Ma perché sì copiosa? Data est copia, risponde S. Bonaventura, ut virtus dilectionis in benefica redundatione claresceret. (Bonav. In Euchar. serm. 17) Perché in un beneficio così ridondante la sua immensa carità verso di noi chiaramente si palesi. S. Bernardo ci dà a vedere la passione e la carità a contesa tra loro, quella per rosseggiare di più, questa per ardere: Contendunt passio, et charitas: Ma, ut plus rubeat; ista ut plus ardeat. (De pass: Dom. c. 51) Ma se tanto Sangue è versato per nostro amore, oh! come a riamar ci conforta il nostro Gesù, il nostro Salvatore, il nostro Dio. Chi non ama dunque Cristo, io griderò a tutti con S. Paolo, sia da noi separato: Si quis non amat Dominum nostrum Jesum Christum sit anathema: (I. Corinth. XVI) E qual è quel cuore così ristretto, che non si senta dilatare in veder Gesù, che sparge Sangue, tenendo stese le braccia verso tutti, anche verso un popolo, che non gli crede, e lo contradice? Qual è quel cuore anche di ghiaccio, che non si sciolga, e si accenda ad amare udendo Gesù, che già esangue in sul morire grida: Tutto è compiuto? Espressione che ben vale l’altra: E che doveva io fare di più, che fatto non l’abbia? Già pronunciato Egli l’avea: Si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum. (Joan. XII). Ed ecco, ch’Egli donando a tutti nel suo Sangue un vero conforto ad amarlo, tutti al suo seno dolcemente attrae. Ma l’amor divino non va disgiunto dall’amor del prossimo, e però in questa effusione di Sangue ci dona ancora il conforto alla fraterna carità. Fratellanza, fratellanza universale è il grido favorito dei giorni nostri; ma fratellanza sul labbro, e non nel cuore; fratellanza nelle parole, e non nei fatti. Fu solo Gesù, che spargendo in croce il suo Sangue, e riscattandoci dalla schiavitù dell’inferno ci fece tutti liberi figliuoli di Dio, e quindi tutti fratelli, di cui Egli è il Primogenito: Primogenitus in multis fratribus. (Rom. VIII) Ed ecco perché la sua tenerissima Madre lasciò in Giovanni a noi tutti per Madre. Ecco come tutti ci legava in uno con. nodo dolcissimo di carità, facendo di tutti un cuor solo. Anche qui, ma con molto maggior efficacia ripete: Hoc est præceptum meum, ut diligatis invicem, sicut dilexi vos. (Joan. XV) E siccome Egli amò non a sole parole, ma con l’opera dando il Sangue e la vita, per tutti pregando perdono a chi crocifisso l’avea, donando un paradiso per poche lagrime al ladro pentito, ci conforta col suo Sangue a mostrare questa vera fratellanza con far bene d’ogni sorta al prossimo, anche ai nostri nemici, e ad osservare quel precetto non solo in quanto alla sostanza, ma sino alla perfezione. Oh! sì, o Gesù, noi vogliamo amarti; che troppo ad amarti ci eccita il Sangue per noi da te sparso: ed in virtù del tuo Sangue medesimo vogliamo amarci tra noi di vero amore, e dare il bello e dolce spettacolo di quella vera cristiana fratellanza, che si predica tant’alto da molti, e molti, e poi si sogna, e si cerca dove non è, e dove non può essere. O Gesù, è il tuo Sangue, che ci grida amore, ed amore accende. Il tuo Sangue è quello, che grida fratellanza, e fratellanza apporta.

Effusione VII di Sangue

Nella lanciata

Conforto all’Unione con Gesù Cristo.

Vuotate le vene di Sangue, Gesù già stremato di forze, dopo tre ore di penosissima agonia, ha mandato al fine l’ultimo respiro, ed è morto. Or che gli resta più a fare per noi? Ah! dilettissimi ascoltanti, soffermatevi un poco ancora col vostro pensiero appiè dell’albero della croce, e voi vedrete, che non è già morta per noi la sua carità, e dormendo Egli il sonno ferale della morte, il suo cuore però vigila per noi: Ego dormio, et cor meum vigilat. (Cant. V). Già sen viene Longino brandendo una lunga lancia; e mentre ai due ladri, che gli pendono ai fianchi, son rotte le gambe con bastoni, perché erano ancor vivi, a Gesù è aperto da quella lancia il costato, e lo stesso cuore è trafitto, e da quella larga apertura n’esce Sangue misto ad acqua: Unus militum lancea latus ejus aperuit, et continuo exivit Sanguis et aqua. (Joan XIX). Non le strette dell’ agonie mortali nell’orto del Getsemani, non i flagelli, non le spine, non i chiodi, che gli fecero spargere Sangue in tant’abbondanza avevano potuto trargli questo piccolo avanzo dai più interni penetrali del suo petto. Ma Gesù di se stesso immemore, di noi solo ricordevole, si fa stringere come sotto un torchio per versarne le ultimo stille, e niente di esso si riserva, come canta la Chiesa: Sub torculari stringitur, suique Jesus immemor sibi nil reservat Sanguinis. (Hymn. In Fest. Pret. Sang.) E questo Sangue sgorgato dal suo cuore esce qual contrassegno a noi della sua più grande carità, invitandoci e confortandoci non solo ad amarlo, ma ad unirci intimamente a Lui, giacché effetto di vero amore è l’unione. Per questo stando ancora confitto al legno, se non con la voce, parla però con le braccia distese verso di tutti: Si quis sitit, veniat ad me, et bibat. E mostrando aperto il costato, e ferito il suo cuore, invita tutti ad entrarvi, ed a stringersi fortemente con esso. Chi non vorrà a sì dolce invito, confortato dalla grazia, ch’esce da quel Prezioso Sangue, là correre, qual colombella vola alla sua torre, ed al suo nido, e là starsene unito a cuor sì amabile? Chi di là non griderà con Paolo: Quis me separabit a charitate Christi? Non le vanità del mondo, non i piaceri del senso, non l’amor delle ricchezze, non qualunque tribolazione, e tormento potranno più svellermi da questa dimora di paco, di contentezza, di gaudio, di amore. E se alcuno avesse sete di unirsi più perfettamente a Gesù, nascondendosi affatto entro al suo cuore per non sapere, per non sentir più nulla di questa misera terra, oh! entri, entri pure nei più secreti recessi di quel Cuore ferito, che quel Sangue, che n’uscì, a tanta perfezione è pur aiuto e conforto. Che dolcezze sono là dentro, tutte di Paradiso! Se un po’ avrà a penare nel distaccarsi affatto da ciò che sa di terra, e nel perdere affatto di vista ciò ch’offre il mondo, inebriato da quelle delizie dovrà poi esclamare: Bonum, bonum est nos hic esse. Ma col Sangue usciva dal fianco aperto di Gesù formata Sposa di lui la Chiesa, come dal fianco di Adamo addormentato usciva formata Eva la sua consorte. Quindi è la Chiesa in qualche modo parte del Cuor di Gesù. E che vuol dir questo, se non che voi non potete avere intima unione con Gesù, se non istate strettamente uniti alla vera Chiesa; se non ne credete quanto essa propone da credere, se non rispettate la sua Autorità, se non osservate i suoi precetti? Ma la Chiesa, vera Sposa di Gesù Cristo è là, dov’è il Successor di S. Pietro, ch’Egli stesso ad Essa prepose a Capo, cioè il Papa: Ubi Petrus, ibi Ecclesia. E che vuol dir questo, se non che voi non potete essere stretti alla Chiesa, ed uniti al cuor di Gesù, se non istate ancor uniti col Papa, onorandolo come il capo di questa Chiesa, come Pastore universale, come Maestro infallibile di Verità in Religione? Questa riverenza, ed unione al Papa in questi giorni, in cui tanto viene bistrattato, quasi fosse un’inutile anticaglia, da riporre tra le ciarpe, è divenuta la pietra di paragone per conoscere chi veramente è seguace di Gesù Cristo, e vero Cattolico. Procuriamo dunque d’essere uniti alla Chiesa senza umani rispetti, uniti al Papa coraggiosamente, [naturalmente il “vero” Papa. S. S. Gregorio XVIII –ndr.- ], ed allora star potremo davvero entro al costato di Gesù accanto al cuor suo in intima unione con esso: anzi chiudendoci entro la ferita del suo cuore grideremo esultando: Bonum, bonum est nos hic esse.

1 LUGLIO: FESTA DEL PREZIOSISSIMO SANGUE DI GESÙ CRISTO (2019) – MESSA

1 luglio: Sangue Preziosissimo di GESÙ Cristo

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Apoc V: 9-10
Redemísti nos, Dómine, in sánguine tuo, ex omni tribu et lingua et pópulo et natióne: et fecísti nos Deo
nostro regnum.
Ps LXXXVIII: 2
Misericórdias Dómini in ætérnum cantábo: in generatiónem et generatiónem annuntiábo veritátem tuam in ore meo.


Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui unigénitum Fílium tuum mundi Redemptórem constituísti, ac ejus Sánguine placári voluísti: concéde, quǽsumus, salútis nostræ prétium sollémni cultu ita venerári, atque a præséntis vitæ malis ejus virtúte deféndi in terris; ut fructu perpétuo lætémur in coelis.
[O Dio onnipotente ed eterno, che hai costituito redentore del mondo il tuo unico Figlio, e hai voluto essere placato dal suo sangue, concedi a noi che veneriamo con solenne culto il prezzo della nostra salvezza, di essere liberati per la sua potenza dai mali della vita presente, per godere in cielo del suo premio eterno.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Hebræos.
Hebr IX: 11-15
Fratres: Christus assístens Póntifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non manufáctum, id est, non hujus creatiónis: neque per sánguinem hircórum aut vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna redemptióne invénta. Si enim sanguis hircórum et taurórum et cinis vítulæ aspérsus inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis: quanto magis sanguis Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti’? Et ídeo novi Testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem earum prævaricatiónum, quæ erant sub prióri Testaménto, repromissiónem accípiant, qui vocáti sunt ætérnæ hereditátis, in Christo Jesu, Dómino nostro. [Fratelli, quando Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraversando una tenda più grande e più perfetta, che non è opera d’uomo – cioè non di questo mondo creato – è entrato una volta per sempre nel santuario: non con il sangue di capri e di vitelli. ma con il proprio sangue, avendoci acquistato una redenzione eterna. Se infatti il sangue di capri e tori, e le ceneri di una giovenca, sparse sopra coloro che sono immondi, li santifica, procurando loro una purificazione della carne; quanto più il sangue di Cristo, che per mezzo di Spirito Santo si offrì senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire al Dio vivente? Ed è per questo che egli è mediatore di una nuova alleanza: affinché, essendo intervenuta la sua morte a riscatto delle trasgressioni commesse sotto l’antica alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna, oggetto della promessa, in Cristo Gesù nostro Signor].

È legge stabilita da Dio fin dal principio che non vi può essere remissione dei peccati nè piena redenzione senza un sacrificio di espiazione e di riparazione, e che tale sacrificio esige l’effusione del sangue. Nell’antica Alleanza, il sangue richiesto era solo quello degli animali immolati davanti al tabernacolo del Tempio. Se esso bastava a dare una purezza esteriore, era però impotente a santificare le anime e a far entrare nel tabernacolo celeste. Ma nel giorno stabilito dalla divina Sapienza, è venuto Cristo, nostro vero ed unico Pontefice, che ha versato come sacrificio il suo preziosissimo Sangue. Con esso ci ha purificati. Ed è in virtù di quel sangue versato che egli entra e fa entrare nel santuario del cielo. Da quel momento « la sua espiazione e la nostra redenzione sono cosa acquisita definitivamente per l’eternità. Il suo sangue, veicolo della sua vita, purifica non soltanto il nostro corpo, ma la nostra stessa anima, il centro della nostra vita; distrugge in noi le opere di peccato, espia, riconcilia, sigilla e consacra la nuova alleanza e, una volta purificati, una volta riconciliati, ci fa adorare e servire Dio mediante un culto degno di Lui.

Il servizio del Dio vivo.

« Infatti, il fine della vita è quello di adorare Dio. La stessa purezza della coscienza e la santità hanno come ultimo disegno e come termine il culto che rendiamo a Dio. Non si è belli per essere belli, non si è puri per essere puri e non andare oltre. Qualunque bellezza soprannaturale è ordinata in definitiva all’adorazione. È appunto quanto vuole il Padre celeste, degli adoratori in spirito e verità: e la nostra adorazione cresce davanti a Dio insieme con la nostra bellezza e la nostra dignità soprannaturale. Così, il termine della nostra vita soprannaturale non siamo noi, bensì Dio. È Dio che in ultima analisi raccoglie il beneficio di quanto noi diventiamo gradualmente mediante la sua grazia e sotto la sua mano. Dio, in noi, opera per noi. Tutta la nostra vita, quella dell’eternità e quella del tempo, è liturgica e ordinata a Dio» (i).

[Dom Guéranger: L’Anno liturgico; Ed. Paoline, Alba. Vol. II, Imprim. 1956]

Graduale

1 Joann. V: 6; 7-8
Hic est, qui venit per aquam et sánguinem, Jesus Christus: non in aqua solum, sed in aqua et sánguine.
V. Tres sunt, qui testimónium dant in coelo: Pater, Verbum et Spíritus Sanctus; et hi tres unum sunt. Et tres sunt, qui testimónium dant in terra: Spíritus, aqua et sanguis: et hi tres unum sunt. Allelúja
, allelúja.
1 Joann V: 9
V. Si testimónium hóminum accípimus, testimónium Dei majus est. Allelúja.

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann XIX: 30-35
In illo témpore: Cum accepísset Jesus acétum, dixit: Consummátum est. Et inclináto cápite trádidit spíritum. Judæi ergo – quóniam Parascéve erat -, ut non remanérent in cruce córpora sábbato – erat enim magnus dies ille sábbati -, rogavérunt Pilátum, ut frangeréntur eórum crura et tolleréntur. Venérunt ergo mílites: et primi quidem fregérunt crura et altérius, qui crucifíxus est cum eo. Ad Jesum autem cum venissent, ut vidérunt eum jam mórtuum, non fregérunt ejus crura, sed unus mílitum láncea latus ejus apéruit, et contínuo exívit sanguis et aqua. Et qui vidit, testimónium perhíbuit; et verum est testimónium ejus. [In quel tempo, quand’ebbe preso l’aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto!». Poi, chinato il capo, rese lo spirito. Allora i Giudei, essendo la Parascève, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era, infatti, un gran giorno quel sabato – chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e portati via. Andarono, dunque, i soldati e spezzarono le gambe al primo, e anche all’altro che era stato crocifisso con lui. Quando vennero a Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe: ma uno dei soldati gli trafisse con la lancia il costato, e subito ne uscì sangue ed acqua. Colui che ha visto ne rende testimonianza, e la sua testimonianza è veritiera].

Il Sangue del Cuore di Gesù.

[Dom Guéranger: L’Anno liturgico; Ed. Paoline, Alba. Imprim. 1956]

Nel Venerdì Santo abbiamo inteso per la prima volta questo passo del discepolo prediletto. Dolente ai piedi della Croce su cui era appena spirato il Signore, la Chiesa non aveva allora abbastanza lamenti e lacrime. Oggi trasalisce di altri sentimenti, e lo stesso racconto che le cagionava il pianto la fa esplodere, nelle sue Antifone, in gioia e in canti di trionfo. Se vogliamo conoscerne la ragione, chiediamola agli interpreti autorizzati che essa stessa ha voluto incaricare di mostrarci il suo pensiero in questo giorno. Essi ci insegneranno che la nuova Eva celebra oggi la sua nascita dal costato dello sposo immerso nel sonno (S. Agostino, Trattato 30 san Giovanni); che a partire dal momento solenne in cui il nuovo Adamo permette al soldato di aprirgli il Cuore, noi siamo veramente diventati l’osso delle sue ossa e la carne della sua carne (Discorso del II Notturno). Non stupiamo dunque se d’allora in poi la Chiesa non vede più altro che amore e vita in quel Sangue che si effonde. E tu, o anima, così a lungo ribelle ai tocchi segreti delle grazie di elezione, non desolarti; non dire: «L’amore non è più per me»! Per quanto lontano abbia potuto portarti l’antico nemico con i suoi funesti inganni, non è forse vero che non vi è traviamento, non vi è abisso, si può dire, in cui non ti abbiano seguita i rivi scaturiti dalla sacra sorgente? Credi dunque che il lungo percorso che hai voluto imporre al loro misericordioso inseguimento ne abbia esaurita la virtù? Fanne la prova. E innanzitutto, bagnati in quelle onde purificatrici; quindi, abbevera a lunghi sorsi al fiume di vita quella povera anima affaticata; e infine, armandoti di fede, risali il corso del fiume divino: poiché se è certo che per giungere fino a te non si è separato dal suo punto di partenza, è ugualmente certo che, così facendo, ritroverai la sorgente stessa.

OMELIA

Il Sangue Preziosissimo.

[A. Rey: Il Preziosissimo Sangue; Pia Unione del Prez. Sangue – Roma 1949]

È sangue di un Dio – degno dunque della nostra adorazione

Empii enim estis pretio magno (1 Cor. VI, 20)

L’uomo deve tutto a Dio: principio, essere, doni, corpo, anima, vita naturale, elevazione allo stato soprannaturale. Questa gratuita erogazione di generosi doni non ha che uno scopo per Dio: far vivere l’uomo del suo amore, sempre. Fatalmente interviene la colpa e chi era stato creato ad immagine e somiglianza del Signore, n’è allontanato per sempre, condannato in eterno alla maledizione. Ma il Verbo, spinto da quello stesso amore che mosse da prima queste cose belle (Inf. I, 40), scende ad incarnarsi, ad effondere il suo sangue per la redenzione umana, e l’uomo è riportato in grembo al suo Dio: evatis longe: facti estis prope in Sanguine Agni (Ephes. II, 13). Quel sangue fu detto prezioso da S. Pietro: non corruptibilibus auro vel argento redempti estis…, sed pretioso Sanguine tamquam Agni immaculati Christi (1 Piet. 1; 18)! “Non è pileggio da picciola barca” (Par. 23; 67) addentrarci in questa verità confortante che rappresenta l’abisso insondabile della misericordia divina. La mente s’arresta di fronte a tanto sole; il cuore trasalisce per la gioia, ma non è capace da solo ad intender l’arcano: incomprehensibilia judicia… eius, et investigabilis viæ eius (Rom. XI, 33), l’incomprensibile ci è reso chiaro dalla divina Scrittura, e le vie di Dio ci appaiono piane per correre alla scoperta del vero. Poiché due luci la investono, contenute in queste semplici parole: Sangue prezioso.

I. – Breve preludio sul sangue

Cos’è il sangue? Fisiologicamente è un umore, costituito da un tessuto di sostanza liquida intercellulare e di cellule bianche, rosse e di piastrine; partendo dal cuore, con una doppia circolazione, attraverso arterie e vene, al cuore ritorna e tien salda la vita. Se il sangue si arresta il cuor più non pulsa. È la morte. Il Sangue è vita, forza, vigore, nerbo, salute, e tien legato al corpo lo spirito immortale. Donare il sangue è dare la vita. Preziosa diciamo quella cosa che è di molto prezzo, di grande valore: una pietra rara, una gemma, l’oro, l’argento, il platino; che ci è cara per la sua bellezza, e rarità: un’opera d’arte, un poema, un palazzo. Preziosa la diciamo ancora pel vantaggio che ne deriva, per l’utile che ci dà: una eredità, un donativo regale. Or, qual cosa di maggior prezzo è il valore del sangue che è vita? Qual cosa più rara di un sangue che aderisce profondamente all’anima, creatura bella di Dio, sì da farlo commuovere? Qual cosa più bella del sangue che rivela quella mirabile opera d’arte che è il carattere dell’uomo? E quali stupendi vantaggi non derivano da un sangue offerto, donato, sborsato dall’uomo spinto dall’amore? Quale utile per quelli pei quali il sangue si effonde? Ed ecco al di sopra del misero sangue umano, il Sangue di un Uomo-Dio, che ha prezzo e valore incalcolabile, perché Sangue divino; che è caro per la sua rarità e bellezza, essendo Sangue di grazia; che reca all’uomo il supremo dei vantaggi, quello di farlo consanguineo, partecipe della sua vitalità supernaturale, della sua gloria: Sangue da adorarsi, quindi: da apprezzarsi, da amarsi.

II. – Il Sangue dei martiri

1. – Per apprezzare in tutta l’ampiezza, il valore del Sangue di Gesù è necessario porlo a fianco del sangue dei martiri. Qualche anno fa un Cattolico fervente, sul piazzale di S. Marta, prima di accompagnare i giovani delle Associazioni Cattoliche in visita al Papa, avvicinava giustamente il sangue dei martiri del Circo di Nerone al Sangue prezioso, giacché era questo che rendeva l’altro potente e glorioso.

Il martire è un testimonio che per la verità giunge fino a farsi sgozzare. Il suo sangue sigilla tutta una vita di bene e fa splendere con più evidenza la causa per cui è versato. La scienza ha i suoi martiri: medici che per lenire gli strazi dell’umanità studiano l’applicazione dei raggi ultravioletti e ne restano uccisi; areonauti che per togliere i veli misteriosi dei Poli, soccombono… L’amor patrio ha un martirologio che è patrimonio sacro per tutti i popoli: Colletta, Pellico, Filzi e Battisti … son nomi cari ad ogni cuore italiano!

Ma è la Fede soprattutto che fa del martirio la più fulgida, significativa, gloriosa testimonianza, perché all’infinito si distanzia, per dignità, da ogni altra idea, da ogni altra potente passione. Essa è al disopra della scienza e della patria!

2.) Il valore del sangue si desume dalla persona che lo versa.

Percorrete i cuniculi, gli ambulacri delle Catacombe. Sui loculi contrassegnati da simboli cristiani, c’è dei nomi, semplici nomi: Agape, Pectorio, Acilio Glabrione, Agnese, Cecilia. Accanto al loculo che racchiude i resti mortali di un senatore, di una donna aristocratica c’è quello di un oscuro bottaio, di un fabbricante di balocchi. La morte tutti ha uguagliato: in ciò il sangue di Couvier non si distingue da quello di Luigi XVI e di Maria Antonietta. Ma quei nomi contrassegnano una vita, quei corpi rappresentano tesori non tanto perché di Cristiani, ma perché di martiri. Già quei corpi son santi, unti un giorno del crisma del Cristo nel Battesimo, incorporati a Cristo nella comunione del suo corpo, del suo sangue, templi dello Spirito Santo. Non per altro Paolo chiamò Santi i fratelli nel Cristo; vedeva in essi la grazia santificante. E Damaso nella epigrafe della celeberrima martire romana Agnese, dice santi i suoi genitori: sanctos… retidisse parentes. E S. Pietro giustifica l’orgoglio gens sancta, regale sacerdotium (1 Pietr. II, 9)! Ma un alone di gloria circonda quelle ossa che pullulant de loco suo (Eccl. XLVI, 14), per la morte che la Scrittura chiama appunto preziosa: pretiosa in conspectu Domini mors sanctorum ejus (Ps. CXV, 15), per la morte non nobilitata solo dal Cristo con l’elargizione della suprema grazia, la perseveranza finale, ma resa gloriosa per l’effusione del sangue, degna risposta al Cristo che per tutti ha effuso il suo, in supremo amore! Egli dinanzi ai presidi li rese gagliardi e diede alla loro lingua le parole per confondere i sofismi, le minacce, le blandizie. Egli rese potente la loro volontà sino a farli esclamare; frangar, non flectar! (mi spezzo, ma non mi piego) Egli col suo sangue, col valore del suo sacrificio, ha impreziosito il sangue dei martiri.

« Che bisogno ha Egli di carne, rifatta ora senza macchia. Che bisogno ha Egli di un cuore che deve sanguinare e soffrire, scegliendo la parte migliore? » domandava a. se stessa l’esule poetessa italiana (C. Rossetti).La risposta è data dai martiri: prese umana carne, umanocuore perché dal suo sangue, dal suo cuore e dalle sue sofferenzegli uomini potessero avere la forza divina di patire e dare per Luiil glorioso sangue! Eccoli salgono al cielo agitando corone e palme, seguendo « i fiori dei martiri e le prime gemme della Chiesa nascente in mezzo al verno dell’incredulità e consumate dal gelo della persecuzione »: i Santi Innocenti, dei quali sì bellamente

canta Prudenzio (Inno: Salvete):

Il Redentor sue vittime

prima vi scelse: voi

della sua nuova legge

e de’ martiri suoi

siete tenera gregge;

e in olocausto offerti

sull’are insanguinate

colle palme scherzate – e con i serti.

Gli angeli si chiedono: Qui sunt hi et unde venerunt? Ed il Padre afferma deciso: Hi venerunt de magna tribulatione et laverunt stolas suas in Sanguine Agni(Ap. VII, 14). In quel loro martirio c’è il martirio stesso del Cristo; in quel Sangue lo stesso Sangue del Cristo ch’è il Rex gloriosus martyrum (Brev. Rom.). E l’uomo è sublimato sino al soglio di Dio, dopo la vittoria conseguita sul dragone pel Sangue dell’Agnello: hi vicerunt draconem propter sanguinem Agni! Laverunt stolas suas in Sanguine Agni! (Ap. XII, 11) Ideo, coronati, triumphant! (Sap. IV, 2)

3.) Ma il valore del Sangue si desume ancora dalla causa per cui il martire lo sparge.

Il sangue del martire cristiano acquista un valore più alto d’ogni martire, in quanto è sparso per una idealità suprema: la Fede: confessi sunt Christum! E l’apoteosi della virilità cristiana quel sangue. Quel sangue è sparso per un amore supremo, quello per Dio. L’olocausto del martire è il riconoscimento pieno dei diritti di Dio sulle creature, la distruzione di tutto l’essere per l’atto sublime del sacrificio; sicché Ireneo poteva dir con ragione che il martire diventa altare e sacrificio insieme. Ecco perché sotto la pietra sacra dell’altare ci sono le ossa dei martiri, ed i Greci nei Dittici ne esaltano la memoria che in benectione est (Eccl. IV, 7)!

I malvagi che li percuotono non sanno immaginare in essi che insania, vano furore, fanatismo; ma debbon poi confessare che s’allontanarono dalla via della verità: locuti sunt falsa (Ps. LVII, 4)! La Scrittura raccoglie il loro straziante lamento: Nos insensati ! vitam illorum æstimabamus insaniam et exitum illorum sine honore! Ecce quomodo completati sunt inter filios Dei, et inter sanctos sors illorum est (Sap. V, 4).

Si spiega così il culto dei martiri nelle Catacombe. Pie mani ne raccolgono i resti, li ravvolgono in preziose stoffe, li adagiano nei loculi; accanto ad essi pongono l’ampolla del sangue; li chiudono con una lapide che, dopo il loro nome, porta l’invocazione, la preghiera: Vivas in Deo… Ora pro nobis! Negli arcosoli, dominati dalla ieratica figura di una orante con le braccia stese e gli occhi grandi ripieni di Dio, son deposti sotto l’altare dell’Agnello i martiri che, come nella visione apocalittica, gridano al sommo Martire:

Usquequo, Domine, non iudicas et… non vindicas sanguinem nostrum (Apoc. VI, 10)! L’ultimo atto della loro vita non è segnato colla macabra parolache rattrista; fine, morte. La Chiesa lo definisce dies natalis, natalicium martyris (Martir. Rom.). Presso quelle membra anche Damaso Papa vorrebbe sua condere membra, ma teme di vexarecon la sua indegnitàle loro ossa gloriose!

Ecco perché i Cristiani, come il gran Papa, cantore delle gesta dei martiri, amano, desiderano ardentemente seguirli nella morte cruenta, per amor di Cristo, come la piccola Agnese che si slaccia dal grembo della nutrice per presentarsi al tiranno, sfidandone la rabbia e dichiarandosi pronta alla morte pel suo Sposo; esser sepolti ov’essi son sepolti; e – pegno di protezione altissima – conservano gelosamente sul petto, vicino al Vangelo, i lini inzuppati nel sangue spicciato dalle loro membra percosse, colato sulla terra santificata! – Pieghiamoci, in riverenza, di fronte a quei nomi, a quelle vite, a queste ossa, a questo sangue! Baciamo quelle tombe che sono are, quelle lapidi tepide ancora del sangue versato per Cristo! Veneriamo quei santi dalla purpurea aureola; preghiamo di esser degni del loro sacrificio, della loro testimonianza!

Il Sangue di Gesù

Ma cos’è questo venerando sangue di fronte a quello versato da Gesù?

Chi è Gesù? La poesia ne ha esaltato sembiante e nome. « Un agnello è innocente e mite sulla morbida erbosa zolla; e Gesù Cristo, l’Immacolato, è l’Agnello di Dio. Egli solo è immacolato sulle ginocchia di sua Madre, bianco e rosso, ahimè!.. presto sarà sacrificato per voi e per me! Eppure agnello non è parola abbastanza soave, né è giglio nome abbastanza puro, e un altro nome ha scosso i nostri cuori, avvivandone la fiamma: Gesù! Questo nome è musica e melodia; il cuore col cuore in armonia, cantiamo ed adoriamo » (C. Rossetti)! « Qual è il tuo nome? – gli chiede il Thompson – Oh! mostramelo ». E Gesù risponde: « Il mio nome non potete saperlo: È un avanzarsi di bandiere, uno sfolgorare di spade; ma i miei titoli che son grandi non sono essi nel mio costato? – Re dei R e – son le parole – Signore dei Signori »! (Poems). Storicamente è il più saggio dei sapienti; L’aquila di Stagira non ha ali sufficienti per raggiungerlo nel volo: la Sua sapienza è infinita, i n Lui sunt omnes thesauri sapientiæ et scientiæ(Col. II, 3) – Il più eccelso dei filosofi, Socrate impallidisce dinanzi a Colui che investe della sua luce tutti i problemi dello spirito, scoprendone le meraviglie: Dante te illis, omnia implebuntur bonitate (Ps. CIII, 28)! – I più grandi dei legislatori, Numa Pompilio, Licurgo, Solone paion pigmei nelle loro leggi che sovente giustificano anche il delitto, come la servitù, l’uccisione dei vecchi e dei bimbi malati, il divorzio! Egli stesso è la legge immacolata che india le anime: Lex tua immaculata, convertens animam (Ps. XVIII, 8)! Poeti, oratori, guerrieri non gli stanno a petto. Il Vangelo offusca Omero e l’acceca con la sua grandiosa semplicità. Demostene e Cicerone diventan pedestri dinanzi al Sermone della montagna. Cesare ed Alessandro si arrestano nelle loro inutili stragi di fronte ad una forza che pretende solo il suo sangue per salvare l’umanità: l’amore che ogni cosa vince, Omnia vincit amor (Virg. Ecl. 10, 69)! – Ma Gesù, vivo e vero nella sua incompresa grandezza, balza dal Vangelo. – Io ed il Padre siamo una cosa sola (Joann. X, 30)! Io sono nel Padre, Egli è in me! Chi vede me, vede mio Padre (Ibi XIV, 9))! dice a Filippo. Io son la via, la verità, la vita (Joan. XIV, 6). Son l’alfa e l’omega (6 Apoc. I, 8). Io son la luce del mondo(Joan. VIII, 12) . Io la fonte che disseta perché contiene le acque che risalgono alla sorgente della eterna vita (Joan. IV, 14). Io sono il pane di vita disceso dal cielo (Joan. VI, 35) . Ecco le sue affermazioni apodittiche. Questi è il mio Figlio diletto nel quale ho poste le mie compiacenze! dice Dio Padre sul Giordano e sul Tabor (Luc. III, 29) . Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivente! testimonia San Pietro (Matt. XVI, 16). – Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo(Joann. I, 29)! – proclama Giovanni dinanzi alle turbe. – Avete crocifisso il Re della gloria ; voi avete ucciso Dio! (Act. III, 15)dichiarano Pietro e Paolo ad ebrei indurati. Gli Angeli stessi, vedendolo salire, possente, col segno della gloria incoronatosi chiedono: Quis est iste qui venit de Edom, tinctis vestibus de Bosra iste formosus in stola (Is. LXIII, 1)? E si senton rispondere: – Egli è il Re della gloria che sale con le vesti bagnate di sangue! – E Cristo entra nella gloria del Padre!In Lui – sappiamo dalla Fede – la divina natura è uguale a quella del Padre e dello Spirito Santo, ma la sua Persona, quella del Verbo, è distinta da quelle del Padre e del Paraclito. Questo Verbum, genitum non factum, consustanziale al Padre, Dio veroda Dio vero, eterno, ante omnia sæcula genitus(Credo – Symb. Atan.), prende, nel tempo,la umana natura nel seno immacolato di Maria; l’assume nella sua persona e diviene uomo senza lasciare di essere Dio; verus homo ex substantia matris in sæcula natus(Idem). Questa incarnazione non è una conversione della divinità nella carne, ma assunzione della umanità in Dio: non conversione divinitatis in carnem, sed assumptione humanitatis in Deum. E il Verbum caro factum (Joan. I, 14. In Cristo due nature dunque: la divina e l’umana, ma unica la Persona. Or le azioni, non son della natura ma del supposito, della persona: actiones sunt suppositorum (S. Th. Th. III, q. 19 ad 1). E poiché in Cristo la persona è divina, divine sono le sue azioni. Sicché quel Sangue purissimo natus ex Maria virgine (Symb. Apost.), è divino, perciò preziosissimo.Quando si effonde sul Calvario ha un valore divino, perciò preziosissimo. Quando si riversa sull’umanità per riscattarla e purificarla, la sua azione, la sua efficacia son divine, perciò Sangue preziosissimo!

Sono adunque preziosissime anche le ragioni per cui Egli lo versa.

a) Ripara infatti l’onore del Padre offeso dall’uomo, con l’onore a Lui reso con l’effusione del sangue: obtulit semetipsum Deo (Hebr. IX, 14), e pacifica l’uomo con Dio: pacìfìcans per sanguinem crucis ejus sive quæ in cœlis sive quae in terris sunt. (Col. I, 20). Ma una tale riparazione, una tal pacificazione sono di valore infinito.

b) Redime l’uomo peccatore. – Il Sangue ha una sua peculiare virtù redentrice. Quello di Virginia libera Roma dai Tarquini, quello di Lucrezia l’affranca dai Decemviri, quello delle rivoluzioni dà un nuovo orientamento alla storia. Ma il Sangue di Cristo ha dato l’assetto definitivo all’uomo, sciogliendolo dai vincoli del servaggio, liberandolo dalla pena eterna: redemit de domo servitutis! (Galat. III, 13). Quel Sangue è sborsato per testimoniare la verità: ad hoc veni in mundum ut perhibeam testimonium veritati(Joan. XVIII, 37). E la verità è questa: il mondo deve riconoscere Iddio per suo Padre, ed amare il Figlio che l’ha redento: hœc est vita æterna ut cognoscat mundus Patrem et quem misit, Jesum Christum(1 Joan. III, 6). L’Agnello di Dio s’immola per affermar questa verità che ha bandito solennemente dinanzi al popolo, al sinedrio, ai tribunali; ed il sangue e l’acqua che escono dal suo cuore, sulla croce, ne sigillano l’infinito amore: hic est qui venit per aquam et sanguinem; non in aqua solum sed in aqua et sanguine(Joan, XVIII, 3).

Ecco il Sangue preziosissimo!

Or, se a Dio si deve l’adorazione ed a tutto ciò che a Dio appartiene come sua essenza e natura, il Sangue preziosissimo, che al Verbo fatto carne appartiene come sua essenza e natura, è degno della nostra adorazione: Digum est Agnus accipere honorem, gloriam et benedictionem, quia occisus est et redemit nos in Sanguine suo! (Apoc. V, 12). E noi dobbiamo, tremanti, piegare i ginocchi dinanzi al prezzo di tanto valore, e cantar con la Chiesa al R e dei Martiri: Christum Dei Filium, qui suo nos redemit sanguine, venite, adoremus! (Brev. Rom.).

Esempio

L’illustre storico Cesare Baronio dell’Oratorio, discepolo insigne di San Filippo Neri, nei suoi Annali, all’anno 446 riporta questo mirabile fatto. In Costantinopoli, un ebreo, di notte, preso un Crocifisso ch’era avanti la casa di un Cristiano l’immagine sfregiò sul volto, e da questa spiccò tepido sangue. Atterrito il sacrilego corse a gettarla entro un pozzo vicino, tornandosene poi in fretta, a casa, ove raccontò tutto alla moglie. Il giorno dopo, la gente che andava ad attingere l’acqua vide con grande sorpresa che essa era tutta rosseggiante di sangue. Giunta la inusitata novella all’orecchio del Prefetto della città, e sospettando questi giustamente che entro il pozzo vi fossero uomini trucidati, ordinò che fosse vuotato. E vuotato che fu, ecco ritrovato il Crocifisso, che ancor versava sangue dalla ferita infertagli. L’imperatore, pur di conoscere la verità dell’accaduto, promise il condono d’ogni pena al reo, purché da se stesso si costituisse. Prima la moglie, poi l’ebreo si presentarono lagrimanti, e confessarono schiettamente il delitto. Ma quel sangue gridò misericordia, non vendetta. Compunti a tanto miracolo, chiesero il Battesimo ed abbracciarono la Fede di Gesù Cristo, divenendo così, da nemici, suoi consanguinei! – Il pozzo, essendo poco distante da Santa Sofia, vi fu raccolto con l’erezione di una nuova Cappella che si chiamò del Pozzo santo. Su questo fu posto un coperchio d’oro, sormontato dal prodigioso Crocifisso. Ancora una volta Gesù aveva mostrato di qual valore infinito fosse il suo Sangue! E come Egli è disposto, anche dopo il Calvario, a versarne, per nostro amore, dell’altro ancora!

Anima mia, vedi quanto tu vali? Pretium sanguinis es! (Matt. XXVII, 6). Fedeli, non con oro od argento corruttibili voi siete stati redenti, ma col Sangue del Figlio di Dio, col suo Sangue preziosissimo: non corruptibilibus auro vel argento redempti estis, sed pretioso sanguine quasi Agni immaculati Christi (1 Piet. I, 18).

Preghiera

O sangue che i martiri esaltano nel Cielo perché il loro, prezioso divenne per la tua preziosità, pel tuo valore; o Sangue che fosti per essi forza e resistenza, gaudio, gloria, Sangue di un Dio, perché unito alla Persona santissima del Verbo, Sangue che fosti versato per amore supremo onde placare il Padre, redimere il peccatore, render testimonianza alla verità, sii tu benedetto ed adorato! Ai tuoi piedi non Giuda, che lo sprezza, ma Giovanni che se ne abbevera, nei figli che riconoscono la preziosità che ogni anima ha reso preziosa, per gridarti: – Misericordia, perdono, amore! – Con tutti i santi del Cielo, coi martiri, con gli Angeli ti lodiamo ed adoriamo; e se indegna è ancora pel peccato la nostra anima, mondala, o prezioso Sangue. È tua! Mondala col tuo bagno salutare che ci renda Cherubini innanzi al tuo trono. Ognuno di noi ti prega, o Agnello santo, con la strofe mirabile di Tommaso: Pie pellicane. Jesu Domine, me immundum munda tuo Sanguine (Adoro Te). e tutti, con la voce della Chiesa, nell’inno del ringraziamento: Te ergo quæsumus, tuis famulis subveni, quos pretioso Sanguine redemisti (Te Deum) – Amen!

Risoluzione

In riparazione della crudele indifferenza di tante anime verso il Redentore, cercate di parlare ogni giorno di questa devozione ed inculcarne la pratica.

(S. Gaspare del Bufalo)

Fiorellino spirituale

O Sangue, medicina delle nostre anime, guariteci!

(S. Caterina da Siena).

Credo…

Offertorium
Orémus
1 Cor X:16
Calix benedictiónis, cui benedícimus, nonne communicátio sánguinis Christi est? et panis, quem frángimus, nonne participátio córporis Dómini est? [Il calice dell’eucarestia che noi benediciamo non è forse comunione del sangue di Cristo? Il pane che noi spezziamo non è forse comunione col corpo di Cristo?]

Secreta
Per hæc divína mystéria, ad novi, quǽsumus, Testaménti mediatórem Jesum accedámus: et super altária tua, Dómine virtútum, aspersiónem sánguinis mélius loquéntem, quam Abel, innovémus. [O Dio onnipotente, concedi a noi, per questi divini misteri, di accostarci a Gesù, mediatore della nuova alleanza, e di rinnovare sopra il tuo altare l’effusione del suo sangue, che ha voce più benigna del sangue di Abele]

Communio
Hebr IX: 28
Christus semel oblítus est ad multórum exhauriénda peccáta: secúndo sine peccáto apparébit exspectántibus se in salútem [Il Cristo è stato offerto una volta per sempre: fu quando ha tolto i peccati di lutti. Egli apparirà, senza peccato, per la seconda volta: e allora darà la salvezza ad ognuno che lo attende]

Postcommunio
Orémus.
Ad sacram, Dómine, mensam admíssi, háusimus aquas in gáudio de fóntibus Salvatóris: sanguis ejus fiat nobis, quǽsumus, fons aquæ in vitam ætérnam saliéntis: [Ammessi, Signore, alla santa mensa abbiamo attinto con gioia le acque dalle sorgenti del Salvatore: il suo sangue sia per noi sorgente di acqua viva per la vita eterna]

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: LUGLIO 2019

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA.

LUGLIO 2019

“Ab immemorabili” si celebrava la festa del preziosissimo Sangue nella prima Domenica di Luglio. Sorta poi la Congregazione del Prezioso Sangue, Missionari ed Adoratrici solennizzarono essi pure il glorioso titolo in quello stesso giorno. Ma nel 1849 il Servo di Dio D. Giovanni Merlini, ispirato da Dio, si presentò a Pio IX, esule a Gaeta, e gli fece intendere che se voleva ritornare nella sua Roma, avrebbe dovuto fare il voto di estendere a tutta la Chiesa la Festa del prezioso Sangue. Il Santo Padre, che tanto venerava il Merlini, prima di annuire a tale proposta, chiese tempo a riflettervi. Il Servo di Dio, più volte, da Benevento, ove erasi rifugiato, scrisse a Monsignor Giuseppe Stella, Segretario particolare del Pontefice, perché gli ricordasse la proposta fattagli. Pio IX, dopo alcuni mesi, a mezzo dello stesso Monsignore, con lettera che porta la data del 30 giugno 1849, fece rispondere che non giudicava opportuno di astringersi con voto, ma che subito, e di proprio arbitrio avrebbe assecondata la devota richiesta. Quel giorno stesso i Francesi s’impadronirono di una Porta di Roma, ed i Repubblicani, capitanati da Mazzini, scorgendo inutile ogni ulteriore resistenza, decisero di arrendersi, ed il giorno seguente capitolarono; sicché i Francesi, senza spargimento di sangue poterono occupare la santa città, strappata al suo legittimo principe: il Papa.

 Era la vigilia della festa del preziosissimo Sangue, festa che coincideva con la domenica, 1 Luglio! Pio IX, memore di si segnalato favore del cielo, e della promessa fatta al Servo di Dio, con Decreto Urbi et Orbi del 10 agosto, emanato a Gaeta stessa, ordinava che in tutto il mondo cattolico si celebrasse, con rito doppio di seconda classe, la festa del preziosissimo Sangue nella prima Domenica di Luglio. Dopo il 1870, quasi in segno di gratitudine, e, certamente dell’altissima considerazione in cui lo aveva, offerse al Merlini un grande grano di incenso. E quando questo eccezionale devoto del prezioso Sangue si spegneva santamente ai Crociferi il 12 Gennaio 1873, Pio IX diceva ai Cardinali che lo circondavano: – Quando il misericordioso Dio toglie dal mondo tali anime, non è buon segno! – Guerre e lotte tremende fra continenti tormentarono difatti la povera umanità, strappandole dal seno, già tante volte percosso, il sangue prezioso dei suoi figli! – Pio XI poi, nell’Anno 1934 (XIX) – Giubilare della Redenzione, che tante folle d’ogni parte della terra raccolse fra le mura della città eterna, elevava la festa del Preziosissimo Sangue a rito doppio di prima classe, concedendo in perpetuo la Indulgenza Plenaria e trecento giorni d’Indulgenza a quanti, con cuore contrito, avrebbero recitata la magnifica preghiera del Te Deum al Sangue divino: Te ergo quæsumus tuis famulis subveni, quos pretioso Sanguine redemisti (23 marzo 1933)!

[d. A. Rey: il Preziosissimo Sangue; Unione del Preziosissimo Sangue, ROMA, Piazza dei Crociferi – 1949]

215

Te ergo quæsumus, tuis famulis subveni,

quos pretioso Sanguine redemisti

(ex Hymno Ambrosiano).

Indulgentia trecentorum dierum (S. Pæn. Ap., 23 mart. 1933).

II

HYMNUS

216

Salvete, Christi vulnera,

Immensi amoris pignora,

Quibus perennes rivuli

Manant rubentis sanguinis.

Nitore stellas vincitis,

Rosas odore et balsama,

Pretio lapillos Indico»,

Mellis favos dulcedine.

Per vos patet gratissimum

Nostris asylum mentibus;

Non huc furor minantium

Unquam penetrat hostium.

Quot Iesus in praetorio

Flagella nudus excipit!

Quot scissa pellis undique

Stillat cruoris guttulas!

Frontem venustam, proh dolor!

Corona pungit spinea,

Clavi retusa cuspide

Pedes manusque perforant.

Postquam sed ille tradidit

Amans volensque spiritum,

Pectus feritur lancea,

Geminusque liquor exsilit.

Ut plena sit redemptio,

Sub torculari stringitur,

Suique Iesus immemor,

Sibi nil reservat sanguinis.

Venite, quotquot criminum

Funesta labes inficit:

In hoc salutis balneo

Qui se lavat, mundabitur.

Summi ad Parentis dexteram

Sedenti habenda est gratia,

Qui nos redemit sanguine,

Sanctoque firmat Spiritu. Amen.

(ex Brev. Rom.).

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo pia hymni recitatio, quotidie peracta, in integrum mensem producta fuerit (S. Pæn. Ap., 22 nov. 1934).

III

PIUM EXERCITIUM MENSE IULIO

217

Fidelibus, qui mense iulio pio exercitio, in honorem pretiosissimi Sanguinis D. N. I. C. publice peracto, devote interfuerint, conceditur: Indulgentia decem annorum quolibet mensis die;

Indulgentia plenaria, additis sacramentali confessione, sacra Communione et oratione ad mentem Summi Pontificis, si diebus saltem decem eidem exercitio adstiterint. Iis vero, qui præfato mense preces aliave pietatis obsequia in honorem eiusdem pretiosissimi Sanguinis privatim præstiterint, conceditur:

Indulgentia septem annorum semel singulis diebus;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem idem pietatis obsequium obtulerint; at ubi pium exercitium publice habetur, huiusmodi indulgentia ab iis tantum acquiri potest, qui legitimo detineantur impedimento, quominus exercitio publico intersint.

(S. C. Indulg., 4 iun. 1850; Pæn. Ap., 12 maii 1931).

[Indulgenza plenaria a chi onorerà con un esercizio di pietà il Sangue Preziosissimo per il mese di luglio, s. c. e ind. di 10 anni o 7 per ogni giorno

Feste del mese di LUGLIO

1 Luglio Pretiosissimi Sanguinis Domini Nostri Jesu Christi    Duplex I. classis *L1*

2 Luglio In Visitatione B. Mariæ Virginis    Duplex II. classis *L1*

3 Luglio S. Leonis II Papæ et Confessoris    Semiduplex

5 Luglio S. Antonii Mariæ Zaccaria Confessoris    Duplex

                  I Venerdì

6 Luglio Sanctae Mariae Sabbato    Simplex

                     I Sabato

7 Luglio Dominica IV Post Pentecosten – Semiduplex Dominica mi

            Ss. Cyrilli et Methodii Pont. et Conf.    Duplex

8 Luglio S. Elisabeth Reg. Portugaliæ Viduæ    Semiduplex.

10 Luglio Ss. Septem Fratrum Mártyrum, ac Rufinæ et Secundæ Virg. et Martyrum    Semiduplex

11 Luglio S. Pii I Papæ et Martyris    Feria

12 Luglio S. Joannis Gualberti Abbatis    Duplex

13 Luglio S. Anacleti Papæ et Martyris    Feria

14 Luglio Dominica V Post Pentecosten    Semiduplex Dominica minor *I*

      S. Bonaventuræ Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

15 Luglio S. Henrici Imperatoris Confessoris Semiduplex

16 Luglio In Commemoratione Beatæ Mariæ Virgine de Monte Carmelo   Feria

17 Luglio S. Alexii Confessoris    Feria

18 Luglio S. Camilli de Lellis Confessoris    Duplex

19 Luglio S. Vincentii a Paulo Confessoris    Duplex

20 Luglio S. Hieronymi Æmiliani Confessoris    Duplex

21 Luglio Dominica VI Post Pentecosten    Semiduplex Dominica minor

                S. Praxedis Virginis    Simplex

22 Luglio S. Mariæ Magdalenæ Pœnitentis    Duplex *L1*

23 Luglio S. Apollinaris Episcopi et Martyris    Duplex

24 Luglio S. Christinæ Virginis et Martyris    Feria

25 Luglio

S. Jacobi Apostoli    Duplex II. classis

26 Luglio

S. Annæ Matris B.M.V.    Duplex II. classis

27 Luglio S. Pantaleonis Martyris    Feria

28 Luglio Dominica VII Post Pentecosten    Semiduplex Dominica minor *I*

– Ss. Nazarii et Celsi Martyrum, Victoris I Papæ et Martyris ac Innocentii I Papæ et Confessoris    Duplex

29 Luglio S. Marthæ Virginis    Duplex

30 Luglio S. Abdon et Sennen Martyrum    Feria

31 Luglio S. Ignatii Confessoris    Duplex majus

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UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XII – MEDIATOR DEI (4)

MEDIATOR DEI (4)

Continuano gli insegnamenti del Santo Padre circa il Santissimo Sacrificio della Messa, la partecipazione dei fedeli ad Essa, la Comunione ed il ringraziamento dovuto al termine dell’azione liturgica. Si tratta di indicazioni salutari ed obbliganti che caratterizzano la partecipazione al santo Sacrificio della Messa ed al banchetto eucaristico. Come far capire ai poveri (in)fedeli che partecipano ai falsi, spesso ridicoli ed offensivi della Maestà divina, riti sacrileghi oggi in auge nelle chiese moderniste occupate da usurpanti apostati, che il loro accorrere alla sacrilega partecipazione (fortunatamente sempre più rara per mancanza di falsi prelati e la chiusura di edifici pseudo-adibiti al culto!), nulla ha a che vedere con il Sacrosanto e divino Rito della Messa, ove si perpetua incruentemente il Sacrificio di Cristo sulla croce? Probabilmente pure la lettura di questo immutabile ed infallibile documento del Magistero pontificio non servirà a convincere tanti ciechi volontari ai quali sono stati oscurati i lumi della Fede e della ragione da uomini empi o nel migliore dei casi, colpevolmente ignoranti o, secondo il linguaggio di Isaia, “cani muti” che hanno favorito e favoriscono tuttora ignominiosamente, nonostante tutto, l’azione dei lupi rapaci e dei leoni ruggenti che divorano tantissime pecore dell’ovile di Cristo. Veramente ci sarebbe da avvilirsi mortalmente se non fossimo sostenuti dalla Fede divina in Gesù Cristo che ci ha preannunziato a tempo debito e con largo anticipo la situazione attuale, ci ha prospettato la persecuzione più violenta mai portata verso la sua Chiesa Cattolica Romana, ma nel contempo ha esortato il “pusillus grex” a non cedere, a credere contro ogni evidenza che la sua Chiesa, il suo Sacrificio dell’altare, il suo Vicario in terra, non saranno mai abbattuti, né le porte dell’inferno, oggi strabocchevoli perfino nel tempio santo (… anzi soprattutto là!), potranno mai prevalere sulla Chiesa e sulla sua Pietra fondante, cioè il Sommo Pontefice… e poi, il Signore ha già emesso un verdetto inappellabile alla vigilia della sua Passione: …

Filius quidem hominis vadit, sicut scriptum est de illo : vae autem homini illi, per quem Filius hominis tradetur! bonum erat ei, si natus non fuisset homo ille.

… GUAI ALL’UOMO CHE TRADIRA’ IL FIGLIO DELL’UOMO … MEGLIO PER LUI CHE NON FOSSE MAI NATO! (S. Matteo XXVI, 24), USURPANTI APOSTATI, QUESTE PAROLE SONO PER VOI … PENTITEVI FINCHE’ LO POTETE!!

Leggiamo con attenzione per poterci spiritualmente rinfrancare, ed essere pronti al momento in cui il Signore abbatterà, con il soffio della sua bocca, l’anticristo ed i suoi numerosissimi adepti e corifei. Che la Vergine Maria ci sostenga e schiacci il capo del serpente maledetto e dei suoi infernali sostenitori!

ENCICLICA

“MEDIATOR DEI”

DI S. S. PIO XII

“SULLA SACRA LITURGIA” (4)

La partecipazione dei fedeli

È necessario dunque, Venerabili Fratelli, che tutti i fedeli considerino loro principale dovere e somma dignità partecipare al Sacrificio Eucaristico non con un’assistenza passiva, negligente e distratta, ma con tale impegno e fervore da porsi in intimo contatto col Sommo Sacerdote, come dice l’Apostolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, offrendo con Lui e per Lui, santificandosi con Lui ». È ben vero che Gesù Cristo è sacerdote, ma non per se stesso, bensì per noi, presentando all’Eterno Padre i voti e i religiosi sensi di tutto il genere umano; Gesù è vittima, ma per noi, sostituendosi all’uomo peccatore; ora il detto dell’Apostolo: « abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» esige da tutti i Cristiani di riprodurre in sé, per quanto è in potere dell’uomo, lo stesso stato d’animo che aveva il Divin Redentore quando faceva il Sacrificio di sé: l’umile sottomissione dello spirito, cioè, l’adorazione, l’onore, la lode e il ringraziamento alla somma Maestà di Dio; richiede, inoltre, di riprodurre in se stessi le condizioni della vittima: l’abnegazione di sé secondo i precetti del Vangelo, il volontario e spontaneo esercizio della penitenza, il dolore e l’espiazione dei propri peccati. Esige, in una parola, la nostra mistica morte in Croce con Cristo, in modo da poter dire con San Paolo: «sono confitto con Cristo in Croce ». – È necessario, Venerabili Fratelli, spiegare chiaramente al vostro gregge come il fatto che i fedeli prendono parte al Sacrificio Eucaristico non significa tuttavia che essi godano di poteri sacerdotali. Vi sono difatti, ai nostri giorni, alcuni che, avvicinandosi ad errori già condannati, insegnano che nel Nuovo Testamento si conosce soltanto un sacerdozio che spetta a tutti i battezzati, e che il precetto dato da Gesù agli Apostoli nell’ultima cena di fare ciò che Egli aveva fatto, si riferisce direttamente a tutta la Chiesa dei Cristiani, e, soltanto in seguito, è sottentrato il sacerdozio gerarchico. Sostengono, perciò, che solo il popolo gode di una vera potestà sacerdotale, mentre il sacerdote agisce unicamente per ufficio concessogli dalla comunità. Essi ritengono, in conseguenza, che il Sacrificio Eucaristico è una vera e propria « concelebrazione » e che è meglio che i sacerdoti «concelebrino» insieme col popolo presente piuttosto che, nell’assenza di esso, offrano privatamente il Sacrificio. – È inutile spiegare quanto questi capziosi errori siano in contrasto con le verità più sopra dimostrate, quando abbiamo parlato del posto che compete al sacerdote nel Corpo Mistico di Gesù. Ricordiamo solamente che il Sacerdote fa le veci del popolo perché rappresenta la persona di Nostro Signore Gesù Cristo in quanto Egli è Capo di tutte le membra ed offrì se stesso per esse: perciò va all’altare come ministro di Cristo, a Lui inferiore, ma superiore al popolo. Il popolo invece, non rappresentando per nessun motivo la persona del Divin Redentore, né essendo mediatore tra sé e Dio, non può in nessun modo godere di poteri sacerdotali.

La partecipazione all’oblazione

Tutto ciò consta di fede certa; ma si deve inoltre affermare che anche i fedeli offrono la Vittima divina, sotto un diverso aspetto. Lo dichiararono apertamente già alcuni Nostri Predecessori e Dottori della Chiesa. «Non soltanto – così Innocenzo III di immortale memoria – offrono i sacerdoti, ma anche tutti i fedeli: poiché ciò che in particolare si compie per ministero dei sacerdoti, si compie universalmente per voto dei fedeli». E Ci piace citare almeno uno dei molti testi di San Roberto Bellarmino a questo proposito: «il Sacrificio – egli dice – è offerto principalmente in Persona di Cristo. Perciò l’oblazione che segue alla consacrazione attesta che tutta la Chiesa consente nella oblazione fatta da Cristo e offre insieme con Lui ». – Con non minore chiarezza i riti e le preghiere del Sacrificio Eucaristico significano e dimostrano che l’oblazione della vittima è fatta dai sacerdoti in unione con il popolo. Infatti, non soltanto il sacro ministro, dopo l’offerta del pane e del vino, rivolto al popolo, dice esplicitamente: « Pregate, o fratelli, perché il mio e il vostro sacrificio sia accetto presso Dio Padre Onnipotente », ma le preghiere con le quali viene offerta la vittima divina vengono, per lo più, dette al plurale, e in esse spesso si indica che anche il popolo prende parte come offerente a questo augusto Sacrificio. Si dice, per esempio: « per i quali noi ti offriamo e ti offrono anch’essi […] perciò ti preghiamo, o Signore, di accettare placato questa offerta dei tuoi servi di tutta la tua famiglia. […] Noi tuoi servi, come anche il tuo popolo santo, offriamo alla eccelsa tua Maestà le cose che Tu stesso ci hai donato e date, l’Ostia pura, l’Ostia santa, l’Ostia immacolata ». – Né fa meraviglia che i fedeli siano elevati a una simile dignità. Col lavacro del Battesimo, difatti, i Cristiani diventano, a titolo comune, membra del Mistico Corpo di Cristo sacerdote, e, per mezzo del « carattere » che si imprime nella loro anima, sono deputati al culto divino partecipando, così, convenientemente al loro stato, al sacerdozio di Cristo. – Nella Chiesa cattolica, la ragione umana illuminata dalla fede si è sempre sforzata di avere una maggiore conoscenza possibile delle cose divine; perciò è naturale che anche il popolo cristiano domandi piamente in che senso venga detto nel Canone del Sacrificio Eucaristico che lo offre anch’esso. Per soddisfare a questo pio desiderio, Ci piace trattare qui l’argomento con concisione e chiarezza. – Ci sono, innanzi tutto, ragioni piuttosto remote: spesso, cioè, avviene che i fedeli, assistendo ai sacri riti, uniscono alternativamente le loro preghiere alle preghiere del sacerdote; qualche volta, poi, accade parimenti – in antico ciò si verificava con maggiore frequenza – che offrano al ministro dell’altare il pane e il vino perché divengano corpo e sangue di Cristo; e, infine, perché, con le elemosine, fanno in modo che il sacerdote offra per essi la vittima divina. Ma c’è anche una ragione più profonda perché si possa dire che tutti i Cristiani, e specialmente quelli che assistono all’altare, compiono l’offerta. Per non far nascere errori pericolosi in questo importantissimo argomento, è necessario precisare con esattezza il significato del termine « offerta ». L’immolazione incruenta per mezzo della quale, dopo che sono state pronunziate le parole della consacrazione, Cristo è presente sull’altare nello stato di vittima, è compiuta dal solo sacerdote in quanto rappresenta la persona di Cristo e non in quanto rappresenta la persona dei fedeli. Ponendo però, sull’altare la Vittima divina, il sacerdote la presenta a Dio Padre come oblazione a gloria della Santissima Trinità e per il bene di tutte le anime. A quest’oblazione propriamente detta i fedeli partecipano nel modo loro consentito e per un duplice motivo; perché, cioè, essi offrono il Sacrificio non soltanto per le mani del sacerdote, ma, in certo modo, anche insieme con lui, e con questa partecipazione anche l’offerta fatta dal popolo si riferisce al culto liturgico. Che i fedeli offrano il Sacrificio per mezzo del sacerdote è chiaro dal fatto che il ministro dell’altare agisce in persona di Cristo in quanto Capo, che offre a nome di tutte le membra; per cui a buon diritto si dice che tutta la Chiesa, per mezzo di Cristo, compie l’oblazione della vittima. Quando, poi, si dice che il popolo offre insieme col sacerdote, non si afferma che le membra della Chiesa, non altrimenti che il sacerdote stesso, compiono il rito liturgico visibile – il che appartiene al solo ministro da Dio a ciò deputato – ma che unisce i suoi voti di lode, di impetrazione, di espiazione e il suo ringraziamento alla intenzione del sacerdote, anzi dello stesso Sommo Sacerdote, acciocché vengano presentate a Dio Padre nella stessa oblazione della vittima, anche col rito esterno del sacerdote. È necessario, difatti, che il rito esterno del Sacrificio manifesti per natura sua il culto interno: ora, il Sacrificio della Nuova Legge significa quell’ossequio sapremo col quale lo stesso principale offerente, che è Cristo, e con Lui e per Lui tutte le sue mistiche membra, onorano debitamente Dio. Con grande gioia dell’anima siamo stati informati che questa dottrina, specialmente negli ultimi tempi, per l’intenso studio della disciplina liturgica da parte di molti, è stata posta nella sua luce: ma non possiamo fare a meno di deplorare vivamente le esagerazioni e i travisamenti della verità che non concordano con i genuini precetti della Chiesa. Alcuni, difatti, riprovano del tutto le Messe che si celebrano in privato e senza l’assistenza del popolo, quasi che deviino dalla forma primitiva del Sacrificio; né manca chi afferma che i sacerdoti non possono offrire la Vittima divina nello stesso tempo su parecchi altari, perché in questo modo dissociano la comunità e ne mettono in pericolo l’unità: così non mancano di quelli che arrivano fino al punto di credere necessaria la conferma e la ratifica del Sacrificio da parte del popolo perché possa avere la sua forza ed efficacia. Erroneamente in questo caso si fa appello alla indole sociale del Sacrificio Eucaristico. Ogni volta, difatti, che il sacerdote ripete ciò che fece il Divin Redentore nell’ultima cena, il sacrificio è realmente consumato, ed esso ha sempre e dovunque, necessariamente e per la sua intrinseca natura, una funzione pubblica e sociale, in quanto l’offerente agisce a nome di Cristo e dei Cristiani, dei quali il Divin Redentore è Capo, e l’offre a Dio per la Santa Chiesa Cattolica e per i vivi e i defunti. E ciò si verifica certamente sia che vi assistano i fedeli – che Noi desideriamo e raccomandiamo che siano presenti numerosissimi e ferventissimi – sia che non vi assistano, non essendo in nessun modo richiesto che il popolo ratifichi ciò che fa il sacro ministro. – Sebbene, dunque, da quel che è stato detto risulti chiaramente che il santo Sacrificio della Messa è offerto validamente a nome di Cristo e della Chiesa, né è privo dei suoi frutti sociali, anche se è celebrato senza l’assistenza di alcun inserviente, tuttavia, per la dignità di questo mistero, vogliamo e insistiamo – come sempre volle la Madre Chiesa – che nessun Sacerdote si accosti all’altare se non c’è chi gli serva e gli risponda, come prescrive il can. 813.

La partecipazione dell’immolazione

Perché poi l’oblazione, con la quale in questo Sacrificio i fedeli offrono la vittima divina al Padre Celeste, abbia il suo pieno effetto, ci vuole ancora un’altra cosa; è necessario, cioè, che essi immolino se stessi come vittima. Questa immolazione non si limita al sacrificio liturgico soltanto. Vuole, difatti, il Principe degli Apostoli che per il fatto stesso che siamo edificati come pietre vive su Cristo, possiamo come « sacerdozio santo, offrire vittime spirituali gradite a Dio per Gesù Cristo »; e Paolo Apostolo, poi, senza nessuna distinzione di tempo, esorta i Cristiani con le seguenti parole: « Io vi scongiuro, adunque, o fratelli […] che offriate i vostri corpi come vittima viva, santa, a Dio gradita, come razionale vostro culto ». Ma quando soprattutto i fedeli partecipano all’azione liturgica con tanta pietà ed attenzione da potersi veramente dire di essi: « dei quali ti è conosciuta la fede e nota la devozione », non possono fare a meno che la fede di ognuno di essi operi più alacremente per mezzo della carità, si rinvigorisca e fiammeggi la pietà, e si consacrino tutti quanti alla ricerca della gloria divina, desiderando con ardore di divenire intimamente simili a Gesù Cristo che patì acerbi dolori, offrendosi col Sommo Sacerdote e per mezzo di Lui come ostia spirituale. Ciò insegnano anche le esortazioni che il Vescovo rivolge a nome della Chiesa ai sacri ministri nel giorno della loro Consacrazione: «Rendetevi conto di quello che fate, imitate ciò che trattate, in quanto, celebrando il mistero della morte del Signore, procuriate sotto ogni rispetto di mortificare le vostre membra dai vizi e dalle concupiscenze ». E quasi allo stesso modo nei Libri liturgici vengono esortati i Cristiani che si accostano all’altare, perché partecipino ai sacri misteri: «Sia su […] questo altare il culto dell’innocenza, vi si immoli la superbia, si annienti l’ira, si ferisca la lussuria ed ogni libidine, si offra, invece delle tortore, il sacrificio della castità, e invece dei piccioni il sacrificio dell’innocenza ». Assistendo dunque all’altare, dobbiamo trasformare la nostra anima in modo che si estingua radicalmente ogni peccato che è in essa, sia, con ogni diligenza, ristorato e rafforzato tutto ciò che per Cristo dà la vita soprannaturale: e così diventiamo, insieme con l’Ostia immacolata, una vittima a Dio Padre gradita. – La Chiesa si sforza, con i precetti della sacra Liturgia, di portare ad effetto nella maniera più adatta questo santissimo proposito. A questo mirano non soltanto le letture, le omelie e le altre esortazioni dei ministri sacri e tutto il ciclo dei misteri che ci vengono ricordati durante l’anno, ma anche le vesti, i riti sacri e il loro esteriore apparato, che hanno il compito di «far pensare alla maestà di tanto Sacrificio, eccitare le menti dei fedeli, per mezzo dei segni visibili di pietà e di religione, alla contemplazione delle altissime cose nascoste in questo Sacrificio». – Tutti gli elementi della Liturgia mirano dunque a riprodurre nell’anima nostra l’immagine del Divin Redentore attraverso il mistero della Croce, secondo il detto dell’Apostolo delle Genti: «Sono confitto con Cristo in Croce, e vivo non già più io, ma è Cristo che vive in me». Per la qual cosa diventiamo ostia insieme con Cristo per la maggior gloria del Padre. In questo dunque devono volgere ed elevare la loro anima i fedeli che offrono la vittima divina nel Sacrificio Eucaristico. Se, difatti, come scrive S. Agostino, sulla mensa del Signore è posto il nostro mistero, cioè lo stesso Cristo Signore, in quanto è Capo e simbolo di quella unione in virtù della quale noi siamo il corpo di Cristo e membra del suo Corpo; se San Roberto Bellarmino insegna, secondo il pensiero del Dottore di Ippona, che nel Sacrificio dell’altare è significato il generale sacrificio col quale tutto il Corpo Mistico di Cristo, cioè tutta la città redenta, viene offerta a Dio per mezzo di Cristo Gran Sacerdote, nulla si può trovare di più retto e di più giusto, che immolarci noi tutti, col nostro Capo che ha sofferto per noi, all’Eterno Padre. Nel Sacramento dell’altare, secondo lo stesso Agostino, si dimostra alla Chiesa che nel sacrificio che offre è offerta anch’essa. Considerino, dunque, i fedeli a quale dignità li innalza il sacro lavacro del Battesimo; né si contentino di partecipare al Sacrificio Eucaristico con l’intenzione generale che conviene alle membra di Cristo e ai figli della Chiesa, ma liberamente e intimamente uniti al Sommo Sacerdote e al suo ministro in terra secondo lo spirito della sacra Liturgia, si uniscano a lui in modo particolare al momento della consacrazione dell’Ostia divina, e la offrano insieme con lui quando vengono pronunziate quelle solenni parole: «Per Lui, con Lui, in Lui, è a te, Dio Padre Onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli »; alle quali parole il popolo risponde: «Amen». Né si dimentichino i Cristiani di offrire col divin Capo Crocifisso se stessi e le loro preoccupazioni, dolori, angustie, miserie e necessità.

Mezzi per promuovere questa partecipazione

Sono, dunque, degni di lode coloro i quali, allo scopo di rendere più agevole e fruttuosa al popolo cristiano la partecipazione al Sacrificio Eucaristico, si sforzano di porre opportunamente tra le mani del popolo il «Messale Romano », di modo che i fedeli, uniti insieme col sacerdote, preghino con lui con le sue stesse parole e con gli stessi sentimenti della Chiesa; e quelli che mirano a fare della Liturgia, anche esternamente, una azione sacra, alla quale comunichino di fatto tutti gli astanti. Ciò può avvenire in vari modi: quando, cioè, tutto il popolo, secondo le norme rituali, o risponde disciplinatamente alle parole del sacerdote, o esegue canti corrispondenti alle varie parti del Sacrificio, o fa l’una e l’altra cosa: o infine, quando, nella Messa solenne, risponde alternativamente alle preghiere dei ministri di Gesù Cristo e insieme si associa al canto liturgico. Tuttavia, queste maniere di partecipare al Sacrificio sono da lodare e da consigliare quando obbediscono scrupolosamente ai precetti della Chiesa e alle norme dei sacri riti. Esse sono ordinate soprattutto ad alimentare e fomentare la pietà dei Cristiani e la loro intima unione con Cristo e col suo ministro visibile, ed a stimolare quei sentimenti e quelle disposizioni interiori con le quali è necessario che la nostra anima si configuri al Sommo Sacerdote del Nuovo Testamento. Nondimeno, sebbene esse dimostrino in modo esteriore che il Sacrificio, per natura sua, in quanto è compiuto dal Mediatore di Dio e degli uomini, è da ritenersi opera di tutto il Corpo Mistico di Cristo; non sono però necessarie per costituirne il carattere pubblico e comune. Inoltre, la Messa «dialogata» non può sostituirsi alla Messa solenne, la quale, anche se è celebrata alla presenza dei soli ministri, gode di una particolare dignità per la maestà dei riti e l’apparato delle cerimonie; benché il suo splendore e la sua solennità si accresca massimamente se, come la Chiesa desidera, vi assiste un popolo numeroso e devoto. Si deve osservare ancora che sono fuori della verità e del cammino della retta ragione coloro i quali, tratti da false opinioni, attribuiscono a tutte queste circostanze tale valore da non dubitare di asserire che, omettendole, l’azione sacra non può raggiungere lo scopo prefissosi. Non pochi fedeli, difatti, sono incapaci di usare il «Messale Romano» anche se è scritto in lingua volgare; né tutti sono idonei a comprendere rettamente, come conviene, i riti e le cerimonie liturgiche. L’ingegno, il carattere e l’indole degli uomini sono così vari e dissimili che non tutti possono ugualmente essere impressionati e guidati da preghiere, da canti o da azioni sacre compiute in comune. I bisogni, inoltre, e le disposizioni delle anime non sono uguali in tutti, né restano sempre gli stessi nei singoli. Chi, dunque, potrà dire, spinto da un tale preconcetto, che tanti Cristiani non possono partecipare al Sacrificio Eucaristico e goderne i benefici? Questi possono certamente farlo in altra maniera che ad alcuni riesce più facile; come, per esempio, meditando piamente i misteri di Gesù Cristo, o compiendo esercizi di pietà e facendo altre preghiere che, pur differenti nella forma dai sacri riti, ad essi tuttavia corrispondono per la loro natura. – Per la qual cosa vi esortiamo, Venerabili Fratelli, perché, nella vostra Diocesi o giurisdizione ecclesiastica, regoliate e ordiniate la maniera più adatta con la quale il popolo possa partecipare all’azione liturgica secondo le norme stabilite dal «Messale Romano» e secondo i precetti della Sacra Congregazione dei Riti e del Codice di Diritto Canonico; così che tutto si compia col necessario ordine e decoro, né sia consentito ad alcuno, sia pur Sacerdote, di usare i sacri edifici per arbitrari esperimenti. A tale proposito desideriamo anche che nelle singole Diocesi, come già esiste una Commissione per l’arte e la musica sacra, così si costituisca una Commissione per promuovere l’apostolato liturgico, perché, sotto la vostra vigilante cura, tutto si compia diligentemente secondo le prescrizioni della Sede Apostolica. Nelle comunità religiose, poi, si osservi accuratamente tutto ciò che le proprie Costituzioni hanno stabilito in questa materia, e non si introducano novità che non siano state prima approvate dai Superiori. In realtà, per quanto varie possano essere le forme e le circostanze esteriori della partecipazione del popolo al Sacrificio Eucaristico e alle altre azioni liturgiche, si deve sempre mirare con ogni cura a che le anime degli astanti si uniscano al Divino Redentore con i vincoli più stretti possibili, e a che la loro vita si arricchisca di una santità sempre maggiore e cresca ogni giorno più la gloria del Padre celeste.

La Comunione

L’augusto Sacrificio dell’altare si conclude con la Comunione del divino convito. Ma, come tutti sanno, per avere l’integrità dello stesso Sacrificio, si richiede soltanto che il Sacerdote si nutra del cibo celeste, non che anche il popolo – cosa, del resto, sommamente desiderabile – acceda alla santa Comunione. Ci piace, a questo proposito, ripetere le considerazioni del Nostro Predecessore Benedetto XIV sulle definizioni del Concilio di Trento: «In primo luogo […] dobbiamo dire che a nessun fedele può venire in mente che le Messe private, nelle quali il solo sacerdote prende l’Eucaristia, perdano perciò il valore del vero, perfetto ed integro Sacrificio istituito da Cristo Signore e siano, quindi, da considerarsi illecite. Né i fedeli ignorano – almeno possono facilmente essere istruiti – che il Sacrosanto Concilio di Trento, fondandosi sulla dottrina custodita nella ininterrotta Tradizione della Chiesa, condannò la nuova e falsa dottrina di Lutero ad essa contraria». «Chi dice che le Messe nelle quali il solo sacerdote comunica sacramentalmente sono illecite e perciò da abrogarsi, sia anatema ». – Si allontanano dunque dal cammino della verità coloro i quali si rifiutano di celebrare se il popolo cristiano non si accosta alla mensa divina; e ancora di più si allontanano quelli che, per sostenere l’assoluta necessità che i fedeli si nutrano del convito Eucaristico insieme col Sacerdote, asseriscono, capziosamente, che non si tratta soltanto di un Sacrificio, ma di un Sacrificio e di un convito di fraterna comunanza, e fanno della santa Comunione compiuta in comune quasi il culmine di tutta la celebrazione. Si deve, difatti, ancora una volta notare che il Sacrificio Eucaristico consiste essenzialmente nella immolazione incruenta della Vittima divina, immolazione che è misticamente manifestata dalla separazione delle sacre specie e dalla loro oblazione fatta all’Eterno Padre. La santa Comunione appartiene alla integrità del sacrificio, e alla partecipazione ad esso per mezzo della comunione dell’Augusto Sacramento; e mentre è assolutamente necessaria al ministro sacrificatore, ai fedeli è soltanto da raccomandarsi vivamente. Come, però, la Chiesa, in quanto Maestra di verità, si sforza con ogni cura di tutelare l’integrità della fede cattolica, così, in quanto Madre sollecita dei suoi figli, vivamente li esorta a partecipare con premura e frequenza a questo massimo beneficio della nostra religione. Desidera innanzi tutto che Cristiani – specialmente quando non possono facilmente ricevere di fatto il cibo Eucaristico – lo ricevano almeno col desiderio; in modo che con viva fede, con animo riverentemente umile e confidente nella volontà del Redentore Divino, con l’amore più ardente, si uniscano a Lui. Ma ciò non le basta. Poiché, difatti, come abbiamo sopra detto, noi possiamo partecipare al Sacrificio anche con la Comunione sacramentale per mezzo del convito del Pane degli Angeli, la Madre Chiesa, perché più efficacemente « possiamo sentire in noi di continuo il frutto della Redenzione », ripete a tutti i suoi figli l’invito di Cristo Signore: « Prendete e mangiate […] Fate questo in mia memoria ». Al qual proposito, il Concilio di Trento, facendo eco al desiderio di Gesù Cristo e della sua Sposa immacolata, esorta ardentemente «perché in tutte le Messe i fedeli presenti partecipino non soltanto spiritualmente, ma anche ricevendo sacramentalmente l’Eucaristia, perché venga ad essi più abbondante il frutto di questo Sacrificio». Anzi il nostro immortale Predecessore Benedetto XIV, perché sia meglio e più chiaramente manifesta la partecipazione dei fedeli allo stesso Sacrificio divino per mezzo della Comunione Eucaristica, loda la devozione di coloro i quali non solo desiderano nutrirsi del cibo celeste durante l’assistenza al Sacrificio, ma amano meglio cibarsi delle ostie consacrate nel medesimo Sacrificio, sebbene, come egli dichiara, si partecipi veramente e realmente al Sacrificio anche se si tratta di pane Eucaristico prima regolarmente consacrato. Così, difatti, scrive: « E benché partecipino allo stesso Sacrificio, oltre quelli ai quali il Sacerdote celebrante dà parte della Vittima da lui offerta nella stessa Messa, anche quelli ai quali il Sacerdote dà l’Eucaristia che si suol conservare; non per questo la Chiesa ha proibito in passato o adesso proibisce che il Sacerdote soddisfi alla devozione e alla giusta richiesta di coloro che assistono alla Messa e chiedono di partecipare allo stesso Sacrificio che anch’essi offrono nella maniera loro confacente: anzi approva e desidera che ciò sia fatto, e rimprovererebbe quei Sacerdoti per la cui colpa o negligenza fosse negata ai fedeli quella partecipazione». Voglia, poi, Dio, che tutti, spontaneamente e liberamente, corrispondano a questi solleciti inviti della Chiesa; voglia Dio che fedeli, anche ogni giorno se lo possono, partecipino non soltanto spiritualmente al Sacrificio Divino, ma anche con la Comunione dell’Augusto Sacramento, ricevendo il Corpo di Gesù Cristo, offerto per tutti all’Eterno Padre. Stimolate, Venerabili Fratelli, nelle anime affidate alle vostre cure, l’appassionata e insaziabile fame di Gesù Cristo; il vostro insegnamento affolli gli altari di fanciulli e di giovani che offrano al Redentore Divino la loro innocenza e il loro entusiasmo; vi si accostino spesso i coniugi perché, nutriti alla sacra mensa e grazie ad essa, possano educare la prole loro affidata al senso e alla carità di Gesù Cristo; siano invitati gli operai, perché possano ricevere il cibo efficace e indefettibile che ristora le loro forze e prepara alle loro fatiche la mercede eterna nel cielo; radunate, infine, gli uomini di tutte le classi e «costringete a entrare»; perché questo è il pane della vita del quale hanno tutti bisogno. La Chiesa di Gesù Cristo ha a disposizione solo questo pane per saziare le aspirazioni e i desideri delle anime nostre, per unirle intimamente a Gesù Cristo, perché, infine, per esso diventino «un solo corpo» e si affratellino quanti siedono alla stessa mensa per prendere il farmaco della immortalità con la frazione di un unico pane. È assai opportuno, poi – il che, del resto, è stabilito dalla Liturgia – che il popolo acceda alla santa Comunione dopo che il Sacerdote ha preso dall’altare il cibo divino; e, come abbiamo scritto sopra, sono da lodarsi coloro i quali, assistendo alla Messa, ricevono le ostie consacrate nel medesimo Sacrificio, in modo che si verifichi « che tutti quelli che, partecipando a questo altare, abbiamo ricevuto il sacrosanto Corpo e Sangue del Figlio tuo, siamo colmati d’ogni grazia e benedizione celeste ». Tuttavia, non mancano talvolta le cause, né sono rare, per cui venga distribuito il pane Eucaristico o prima o dopo lo stesso Sacrificio, e anche che si comunichi – sebbene si distribuisca la Comunione subito dopo quella del Sacerdote – con ostie consacrate in un tempo antecedente. Anche in questi casi come, del resto, abbiamo ammonito prima il popolo partecipa regolarmente al Sacrificio Eucaristico e può spesso con maggiore facilità accostarsi alla mensa di vita eterna. Che se la Chiesa, con materna accondiscendenza, si sforza di venire incontro ai bisogni spirituali dei suoi figli, questi nondimeno, da parte loro, non devono facilmente sdegnare tutto ciò che la sacra Liturgia consiglia, e, sempre che non vi sia un motivo plausibile in contrario, devono fare tutto ciò che più chiaramente manifesta all’altare la vivente unità del Corpo.

Il ringraziamento

L’azione sacra, che è regolata da particolari norme liturgiche, dopo che è stata compiuta, non dispensa dal ringraziamento colui che ha gustato il nutrimento celeste; è cosa, anzi, molto conveniente che egli, dopo aver ricevuto il cibo Eucaristico e dopo la fine dei riti pubblici, si raccolga, e, intimamente unito al Divino Maestro, si trattenga con Lui, per quanto gliene diano opportunità le circostanze, in dolcissimo e salutare colloquio. Si allontanano, quindi, dal retto sentiero della verità coloro i quali, fermandosi alle parole più che al pensiero, affermano e insegnano che, finita la Messa, non si deve prolungare il ringraziamento, non soltanto perché il Sacrificio dell’altare è per natura sua un’azione di grazie, ma anche perché ciò appartiene alla pietà privata, personale, e non al bene della comunità. Ma, al contrario, la natura stessa del Sacramento richiede che il cristiano che lo riceve ne ricavi abbondanti frutti di santità. Certo, la pubblica adunanza della comunità è sciolta, ma è necessario che i singoli, uniti con Cristo, non interrompano nella loro anima il canto di lode « ringraziando sempre di tutto, nel nome del Signor Nostro Gesù Cristo, il Dio e il Padre ». A ciò ci esorta anche la stessa sacra Liturgia del Sacrificio Eucaristico, quando ci comanda di pregare con queste parole: «Concedici, ti preghiamo, di renderti continue grazie … e non cessiamo mai di lodarti ». Per cui, se si deve sempre ringraziare Dio e non si deve mai cessare dal lodarlo, chi oserebbe riprendere e disapprovare la Chiesa che consiglia ai suoi Sacerdoti e ai fedeli di trattenersi almeno per un po’ di tempo, dopo la Comunione, in colloquio col Divin Redentore, e che ha inserito nei libri liturgici opportune preghiere, arricchite di indulgenze, con le quali i sacri ministri si possono convenientemente preparare prima di celebrare e di comunicarsi, e, compiuta la santa Messa, manifestare a Dio il loro ringraziamento? La sacra Liturgia, lungi dal soffocare gli intimi sentimenti dei singoli Cristiani, li agevola e li stimola, perché essi siano assimilati a Gesù Cristo e per mezzo di Lui indirizzati al Padre; quindi essa stessa esige che chi si è accostato alla mensa Eucaristica ringrazi debitamente Dio. Al Divin Redentore piace ascoltare le nostre preghiere, parlare a cuore aperto con noi, e offrirci rifugio nel suo Cuore fiammeggiante. Anzi, questi atti, propri dei singoli, sono assolutamente necessari per godere più abbondantemente di tutti i soprannaturali tesori di cui è ricca la Eucaristia e per trasmetterli agli altri secondo le nostre possibilità affinché Cristo Signore consegua in tutte le anime la pienezza della sua virtù. Perché, dunque, Venerabili Fratelli, non loderemmo coloro i quali, ricevuto il cibo Eucaristico, anche dopo che è stata sciolta ufficialmente l’assemblea cristiana, si indugiano in intima familiarità col Divin Redentore, non solo per trattenersi dolcemente con Lui, ma anche per ringraziarlo e lodarlo, e specialmente per domandargli aiuto, affinché tolgano dalla loro anima tutto ciò che può diminuire l’efficacia del Sacramento, e facciano da parte loro tutto ciò che può favorire la presentissima azione di Gesù? Li esortiamo, anzi, a farlo in modo particolare, sia traducendo in pratica i propositi concepiti ed esercitando le cristiane virtù, sia adattando ai propri bisogni quanto hanno ricevuto con regale liberalità. Veramente parlava secondo precetti e lo spirito della Liturgia l’autore dell’aureo libretto della Imitazione di Cristo, quando consigliava a chi si era comunicato: « Raccogliti in segreto e goditi il tuo Dio, perché possiedi Colui che il mondo intero non potrà toglierti ». Noi tutti, dunque, così intimamente stretti a Cristo, cerchiamo quasi di immergerci nella sua santissima anima, e ci uniamo con Lui per partecipare agli atti di adorazione con i quali Egli offre alla Trinità Augusta l’omaggio più grato ed accetto; agli atti di lode e di ringraziamento che Egli offre all’Eterno Padre, e a cui fa eco concorde il cantico del cielo e della terra, come è detto: « Benedite il Signore, tutte le opere sue »: agli atti, infine, partecipando ai quali imploriamo l’aiuto celeste nel momento più opportuno per chiedere ed ottenere soccorso in nome di Cristo: ma soprattutto ci offriamo e immoliamo vittime, con le parole: «Fa che noi ti siamo eterna offerta». Il Divin Redentore ripete incessantemente il suo premuroso invito: «Restate in me». Per mezzo del Sacramento della Eucaristia, Cristo dimora in noie noi dimoriamo in Cristo; e come Cristo, rimanendo in noi, vive ed opera, così è necessario che noi, rimanendo in Cristo, per Lui viviamo e operiamo.