LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (15)
Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)
Morcelliana Ed. Brescia 1935
Traduzione di Bice Masperi
CAPITOLO V
CONCLUSIONE (2)
2. – Il dono dell’uomo a Dio.
Abbiamo considerato la vita spirituale come dono gratuito dell’immenso amore di Dio per l’uomo. Sta all’uomo accettarlo liberamente. Poiché in questa libera accettazione si compie la felice consumazione del dono, e, una volta accettato, coltivarlo nella fede, nella speranza, nella carità. E sarà un degno contraccambio d’amore se la dedizione di sé a Dio saprà esser completa, secondo l’esempio di Colui che tutto si è dato. Egli mi ha amato fino a darsi per me: io debbo riamarlo e darmi per Lui. Riconosco che la mia vita di quaggiù, in confronto a quella ch’Egli mi offre, è cosa meschina, di ben poco valore intrinseco attuale, per quanto grande potrebbe sembrare se non mi fosse stato svelato nessun altro orizzonte, ma resa grande effettivamente fin d’ora dalla sua identità con qualche cosa ch’è molto più grande di lei. Se desidero esser quale Egli mi vuole debbo darmi tutto a Lui, com’Egli si è dato a me, perché mi plasmi come più gli piace; e la mia vita spirituale tanto maggiormente si svilupperà quanto più completo sarà il dono di me
(“Chi avrà perduto la vita per causa mia la ritroverà ”. (Matt. X, 39).
“Perché chi vorrà salvare la sua vita la perderà, e chi avrà perduto la vita per amor mio la salverà. Che giova mai all’uomo guadagnare tutto il mondo, se poi perde e danneggia se stesso?” (Luca IX, 24, 25),
“Chi ama la propria vita la perderà, e chi odia la propria vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna”. – Giov. XIII, 25).
E ciò si farà in tre modi. Innanzi tutto, per chi accetta il soprannaturale, per ogni cattolico, per ogni credente nel Figlio di Dio fatto Uomo, primo dovere è quello di sottomettere a sé l’uomo naturale e particolarmente quella parte dell’uomo naturale che lo fa schiavo di bassi appetiti: “la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita” (I Giov. II, 16). Lo stesso uomo naturale deve combattere contro queste forze dominanti, se uomo vuol rimanere e non abbassarsi al livello del bruto; molto più poi, se vuol sottomettere a sé tutto ciò ch’è naturale in lui e diventarne padrone assoluto.
(“La notte è inoltrata e il giorno si avvicina; gettiamo via dunque l’opera delle tenebre, rivestiamo le armi della luce. Come in pieno giorno, camminiamo onestamente, non in crapule e ubbriacature, non in alcove e in licenza, non in contese e invidia, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non abbiate cura della carne sì da destarne le concupiscenze” (Rom. XIII, 12, 14).
“To dico invece, conducetevi secondo lo spirito e non soddisfate ai desideri della carne. La carne ha desideri contrari allo spirito, e lo spirito li ha contrari alla carne; son cose opposte fra loro, sì che voi non dovete fare tutto quel che vorreste… I seguaci di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e le sue concupiscenze. Se viviamo collo spirito, procediamo anche con lo spirito. (Gal. V, 16, 25).
“Carissimi, io vi scongiuro che come forestieri e pellegrini vi asteniate dai desideri carnali che fan guerra all’anima”. – I Piet. II, 11).
Questa necessaria sottomissione interiore sarà la prima cosa da intraprendere per il vero seguace di Gesù Cristo, e la grazia di Dio sarà con lui, È la via tracciata alla preghiera da ogni maestro di spirito, è la chiave di quel sereno ascetismo che ha sempre accompagnato la Chiesa Cattolica nella sua storia, nei suoi Santi, nei suoi eremiti e reclusi e in tutti i suoi ordini religiosi, nel cilicio di un Thomas More e nella povertà volontaria di tanti principi e re. Non è cosa contraria, alla natura, ché anzi i veri Santi furono gli uomini più naturali, non è che un conquistar la natura, un sottometterla, un assoggettarla affinché possa servire, un ribellarsi energicamente alla sua tirannia che vorrebbe dare alla nostra capitolazione la pietosa illusione della libertà. Poi, nel campo positivo, il seguace di Cristo si sforzerà non solo di vincere il male, ma anche tenderà a coltivare tutto il bene che ha in sé.
(“Poiché chi vuol amare la vita e vedere giorni beati raffreni la sua lingua dal male e le sue labbra non parlino inganno. Schivi il male e faccia il bene, cerchi la pace e le vada dietro; perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti e le sue orecchie attente alle loro orazioni, ma la faccia del Signore sta contro coloro che fanno il Male”. – I Piet. III, 10-12).
E il maggiore di tutti i beni è l’amore: amore di Dio, in primo luogo, di Dio che “è amore”, “che ci ha amati per primo”, e tanto “da dare il suo Unigenito”, che ci ama “di un amore eterno”, amore che sospinge l’uomo il quale desideri veramente ricambiarlo almeno in parte. Ora, secondo gli stessi criteri del mondo, la maggior prova d’amore è la dedizione di sè. “Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per l’amico” e perciò nessuno avrà un più grande amore verso Dio di chi per Lui dà la vita. Ma dare la propria vita non significa necessariamente quello che s’intende di solito per “morire”: è la dedizione di sé all’essere amato, in assoluta e completa devozione al suo servizio. Così è dell’amore dell’uomo per Iddio. Stimar la vita e tutte le cose di quaggiù non secondo le proprie vedute, ma secondo quelle di Dio, sforzarsi per amor suo di renderci quali Egli ci vuole, anche quando la sua volontà contrasta con la nostra e malgrado tutte le ribellioni della natura, vivere non secondo le nostre ambizioni, ma facendo della nostra esistenza tutto ciò che Dio vuole, ecco l’ideale cattolico. È questo davvero un “dar la vita per l’amico”, è l’adempimento perfetto della legge: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze”. Ed è cosa che porta con sé la sua abbondante ricompensa, secondo ch’Egli ha promesso, il centuplo, misura piena, pigiata e traboccante, Poiché morire a se stessi con Cristo è risuscitare con Lui, dar la propria vita per amor suo è ricevere in cambio la sua vita. Né questa è metafora o pura allegoria. Cristo vive misticamente e non per questo meno realmente in ognuno che sia disposto ad accoglierlo, e gli conferisce il potere di diventare e di essere veramente figlio di Dio. Viviamo, non più noi, ma Egli vive in noi. Ecco perché noi offriamo le nostre preghiere “per Gesù Cristo Signor nostro”, unendo il nostro nulla ai suoi meriti infiniti. Ecco perché anche il più insignificante dei nostri atti può acquistar valore e riuscire accetto a Dio nostro Padre. Per questa unione, creature deboli quali siamo, ci soprannaturalizziamo e tutte le nostre azioni partecipano del soprannaturale: siamo fatti “ partecipi” della divina natura di Colui che si è “degnato di partecipare alla nostra natura umana’; ejus divinitatis participes, qui humanitatis nostræ fieri dignatus est particeps. E inoltre, a motivo di questa unione, essendo il vero amore attivo e fattivo in tutti, in ogni altra anima come nella mia, siamo fatti uno tra noi in un senso assai più reale ed effettivo di quello che potrebbe conseguire la sola natura umana. Unificati e affratellati così, desideriamo che anche il resto dell’umanità, ancora escluso dall’abbraccio divino, vi giunga finalmente e sia fatto uno con noie partecipi alla stessa ineffabile eredità, “affinché Cristo dimori nei vostri cuori per mezzo della fede e voi radicati e fortificati in amore siate resi capaci di comprendere con tutti i Santi qual sia la larghezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità e intendere quest’amore di Cristo che sorpassa ogni scienza, affinché siate ripieni di tutta la pienezza di Dio… Con tutta umiltà e mansuetudine e con longanimità, tollerandovi a vicenda con amore, sforzandovi di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Un corpo solo, un solo spirito come in unica speranza siete stati chiamati. Uno è il Signore, una la fede, uno il Battesimo, uno Iddio e Padre di tutti, che è sopra di tutti e per tutti e in tutti”. (Efes. III, 17-19; IV, 2-6).
A questa unione con Dio la natura umana tende spontaneamente, anche se spesso inconsciamente. Quella sete di perfezione, quella brama di una più completa realizzazione di sé, innata in ogni essere umano normale, non è che lo sforzo dell’anima ansiosa di corrispondere all’invito dell’amore di Dio. Per quanto cerchi di completarsi e di appagarsi altrove, l’uomo non è mai soddisfatto; c’è sempre da raggiungere qualche cosa di più, anzi tanto di più che i beni ormai raggiunti sembrano un nulla e gli sfuggono come acqua fra le dita. Poiché “per primo Egli ci ha amato” e ha radicato il suo amore in noi; ci ha amato “di un amore eterno”, e il nostro è parimenti amore per l’eterno; ci ama di un amore infinito personale e fedele che non vien mai meno; e, purché vogliamo accoglierlo, quell’amore agisce su noi, e quasi senza rendercene conto noi bramiamo di ricambiarlo. È questo il segreto del desiderio dell’uomo, e del suo malcontento di sé e di ogni sua conquista. Consapevoli o no, noi tendiamo a Dio, e la fame di Lui è diventata inerente al nostro essere. “Ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore non ha pace finché in Te non riposa”. – Ne deriva che nessuna conoscenza al mondo può confrontarsi con la conoscenza di Dio. Poiché non possiamo amare ciò che non conosciamo, e poiché l’amore di Dio è l’appagamento unico dell’uomo, per esser logico e coerente, questi dovrebbe fare della conoscenza di Dio la sua principale occupazione. Anzi, siccome Dio stesso è amore, la conoscenza di Lui è conoscenza dell’amore nel suo grado più sublime, nel suo oggetto più degno. Fu l’amore che ispirò e diede il precetto unico rendendolo sufficiente a tutto: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze”. Questa conoscenza di Dio e dell’amore di Dio in se stesso e nella sua effusione in noi, necessariamente dovrà modificarci. Sappiamo bene che da noi siamo un nulla e affatto indegni di quell’amore, mentre per le nostre colpe e infedeltà ce ne siamo resi ancor più indegni. Eppure vi aspiriamo ardentemente, e ciò basta a farcene sentire il bisogno e a indurci ad ogni sforzo per diminuire la nostra indegnità, a farci ricorrere a Colui che ancora ci ama di un amore immutato, a farci implorare la sua misericordia e il suo perdono, la sua compassione e la sua benevolenza, a buttarci ai suoi piedi affinché Egli ci riammetta al suo amplesso. E cercheremo di fare in ogni cosa la volontà di Colui che tanto ci ha amato e che noi vorremmo tanto riamare, poiché far la volontà di chi amiamo è già di per sé una prova d’amore feconda di gioia; accetteremo le sue leggi e le ubbidiremo, cercheremo i suoi consigli e li seguiremo, coglieremo le occasioni di dargli gloria e le promuoveremo noi stessi, saremo pronti a riconoscere in tutti gli avvenimenti lieti o tristi della vita la manifestazione del suo beneplacito e quindi altrettante occasioni di dargli nuove testimonianze d’amore. E saremo inoltre portati alla preghiera, poiché per essa entriamo in comunione con Lui, e — come insegna la nota definizione — la mente e il cuore a Lui si sollevano. Se questo è l’orientamento interiore dell’anima consapevole delle sue relazioni con Dio, inevitabilmente esso troverà modo di riflettersi sulla vita esteriore. Poiché le cose della vita sono non meno di noi creature del. Dio vivente, che tutte le ama nella loro condizione e in tutte vive, mentre esse, pel semplice fatto di esistere, manifestano Lui e la sua gloria. “I cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento annunzia le opere delle sue mani” (Sal. XVIII, 1). “Del Signore è la terra e ciò che la riempie, il mondo e tutti i suoi abitanti » (Sal. XXIII, 1). “Le perfezioni invisibili di Lui fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua divinità” (Rom. I, 20). – Nelle cose della terra, dunque, possiamo se vogliamo riconoscere l’opera di Dio, anzi riconosciamo Lui stesso, perché esse pure sono sua immagine, tengono imprigionato un tenue raggio della sua infinita bellezza e amabilità e riflettono in qualche modo quel fulgido sole centrale che è Dio stesso. Così tutto l’ordinamento della vita viene ad essere il disegno di Colui che “governa sapientemente da un capo all’altro del mondo e tutte le cose dispone soavemente”. Sebbene a noi le sue intenzioni sembrino spesso misteri, e le sue vie, troppo dissimili dalle nostre, addirittura inesplicabili, pure sappiamo che dietro a tutto quanto appare alla superficie sempre risplende la sua volontà e quell’amore ineffabile che è il motivo della sua azione, allo stesso modo che il sole continua a splendere dietro alle nuvole più cupe e che ancor quelle sono effetto della stessa azione solare e, in definitiva, ordinate a uno scopo di bene. – La conformità alla volontà di Dio non è sottomissione cieca, forzata, fatalistica, è gioiosa accettazione di una guida che ci conosce assai meglio di quanto non ci conosciamo noi stessi, è servizio leale prestato ad un Sovrano, servire il quale è l’onore massimo riserbato all’uomo. È un contraccambio d’amore che brama di ripagare nella debole misura consentitagli tutto quanto gli è stato donato, è il raggiungimento del fine pel quale fummo creati, e perciò l’unico mezzo col quale possiamo anche in questa vita trovare vera soddisfazione.
(“Ho corso la via dei tuoi comandamenti quando tu hai allargato il mio cuore.
“Insegnami, o Signore la via dei tuoi statuti e io la ricercherò sempre.
“Dammi intelletto e scruterò la tua legge e l’osserverò con tutto il mio cuore.
« Guidami per il sentiero dei tuoi comandamenti poiché in esso io mi diletto”. – Sal. CXVIII, 32-35). – E se ritroviamo Dio e la sua volontà nelle cose materiali e negli avvenimenti della vita, quanto più lo troveremo negli esseri umani dai quali siamo circondati! Come noi, essi pure, Ebrei e Gentili, schiavi e liberi, chiunque essi siano, tutti sono fatti a sua immagine e somiglianza, anche se i nostri occhi miopi stentano a riconoscerlo. La grazia non distrugge la natura, il soprannaturale non cancella ciò che è veramente naturale; se quindi la stessa natura ci inclina ad amare il nostro simile, l’amor di Dio ci spinge ad amarlo più e meglio ancora. L’amore e la reverenza verso Dio stringono maggiormente i legami familiari, il vincolo fra marito e moglie, fra genitori e figliuoli.
“E voi, o mariti, amate le vostre mogli, così come Cristo amò la Chiesa e diede se stesso per lei… Così anche i mariti devono amare le loro mogli come i propri corpi” (Efes. V, 25, 28).
Ecco l’ideale cattolico dello stato coniugale, un amore quale fu quello di Cristo per i suoi, dimostrato con la morte. A ideale della paternità, poi, è proposta la paternità di Dio stesso: “il Padre del nostro Signore Gesù Cristo da cui ogni famiglia e nei cieli e sulla terra prende nome” (Efes. III 14, 15). Ai figli pure è dato per modello Colui che per trent’anni fu “soggetto” ai suoi genitori. (Luca II, 51); essi imparano ad obbedire a quelli che alla loro volta obbediscono a Colui dal quale deriva ogni autorità. E così è dei nostri rapporti con tutti coloro che amiamo. L’amicizia non è affatto condannata da Colui che amò così teneramente i suoi amici. S. Giovanni ne è buon testimone, e S. Paolo pure, seguace del suo esempio, è una splendida fiamma di puro amore per gli amici. Così è ancora dei nostri rapporti col prossimo in genere. Per amor di Dio noi amiamo il destino, il dovere, la condizione sociale, la professione che la sua Provvidenza ci ha assegnato, precisamente perché da Lui ci vengono e perché sono espressioni della sua volontà. E per amor suo ancora amiamo i fratelli tutti, perché Egli li ama; e questo è per noi motivo assai più forte e sicuro di qualunque nostra inclinazione affettiva, e vorremmo prodigar loro tenerezza e cure: perché Gesù Cristo si sacrificò per gli uomini, vorremmo anche noi, nel nostro piccolo, spender per loro tutto ciò che abbiamo e che siamo. Far questo alla maniera di Lui, amare i fratelli perché Cristo li ama, per i motivi medesimi per cui Egli li ama e nello stesso modo, non è che dimostrare maggiormente a Dio medesimo l’amor nostro e dimostrarglielo nella maniera che a Lui più ci avvicina e che ci fa vivere una vita più nobile e più eroica di quella che la natura umana da sola possa mai sperar di attuare. “Noi dunque amiamo Dio, poiché Egli per il primo ci ha amati. Ma se uno dirà: “Io amo Dio” e odierà il suo fratello, è mentitore. Infatti chi non ama il suo fratello che vede, come può amare Dio che non vede? E questo comandamento lo abbiamo da Dio: che chi ama Dio ami anche il proprio fratello”. (I Giov. IV, 19, 21). Così l’amore verso Dio ci impegna all’amore verso i fratelli, amore per i singoli e per l’umanità nel suo insieme, tutti membri di un solo corpo che è il Corpo di Gesù Cristo, ispirati tutti dallo stesso amore che è l’amor suo, acceso e ardente in ciascuno di noi. E reciprocamente, l’amore per i fratelli ci riporta all’amore per Iddio che è il principio e insieme l’oggetto di ogni amore; noi siamo il suo Corpo, siamo membri l’uno dell’altro, così vicini a Lui e fra noi che il suo spirito è il nostro spirito, la sua Verità è la nostra, infallibile e sicura, la sua Vita una cosa sola con la nostra. – Questo amore nato da Dio che è fedele e nel quale crediamo, profuso su ogni cosa esistente a somiglianza del suo, uno, santo, universale, apostolico, è l’ideale vissuto della fede cattolica. È l’attuazione del pensiero cattolico: “Da questo conosceranno tutti gli uomini che siete miei discepoli se vi amerete gli uni con gli altri”. – È questo il suo Verbo fatto carne, la meta alla quale tendono i Cattolici, e, per quanto possano in pratica rimanerne lontani, pure essi sperano, ad onta di qualunque sconfitta, di riuscire ad accostarvisi sempre più “per Cristo Gesù Signor nostro”.
F I N E