DOMENICA II DI AVVENTO (2022)

DOMENICA II DI AVVENTO (2022)

Stazione a S. Croce in Gerusalemme.

Semid. Dom. privil. Il cl. – Paramenti violacei.

Tutta la liturgia di questo giorno è piena del pensiero di Isaia, (nome che significa: Domini Salus: Salvezza del Signore), che è per eccellenza il Profeta che annuncia l’avvento del regno del Cristo Redentore. Egli predice, sette secoli prima, che « una Vergine concepirà e partorirà l’Emanuele »  — che Dio manderà « il suo Angelo, — cioè Giovanni Battista — per preparare la via avanti a sé (Vang.) e che il Messia verrà, rivestito della potenza di Dio stesso, (I e III antif. dei Vespri) per liberare tutti i popoli dalla tirannia di satana. « Il bue — dice ancora il profeta Isaia — riconosce il suo possessore e l’asino la stalla del suo padrone; Israele non m’ha riconosciuto: il mio popolo non m’ha accolto » (I Dom. 1° Lez. ) — « Il germoglio di Jesse — continua — s’innalzerà per regnare sulle nazioni » (Ep.) e « i sordi e i ciechi che sono nelle tenebre (cioè i pagani) comprenderanno le parole del libro e verranno » (Vang.). Allora la vera Gerusalemme (cioè la Chiesa) « trasalirà di gioia » (Com.) perché i popoli santificati da Cristo vi accorreranno (Grad. All). Il Messia — spiega Isaia — « porrà in Sion la salvezza e in Gerusalemme la gloria » — « Sion sarà forte perché il Salvatore sarà sua muraglia e suo parapetto » cioè il suo potente protettore. Così la Stazione è a Roma, nella Chiesa detta di S. Croce in Gerusalemme, perché vi si conservava una grossa parte del legno della Santa Croce, mandata da Gerusalemme a Roma quando fu ritrovata.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.


Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

 Introitus

Is XXX: 30.
Pópulus Sion, ecce, Dóminus véniet ad salvándas gentes: et audítam fáciet Dóminus glóriam vocis suæ in lætítia cordis vestri.

[Popolo di Sion, ecco il Signore verrà a salvare tutte le genti: il Signore farà udire la gloria della sua voce inondando di letizia i vostri cuori.]

Ps LXXIX:2
Qui regis Israël, inténde: qui dedúcis, velut ovem, Joseph.

[Ascolta, tu che reggi Israele, tu che guidi Giuseppe come un gregge.]

Pópulus Sion, ecce, Dóminus véniet ad salvándas gentes: et audítam fáciet Dóminus glóriam vocis suæ in lætítia cordis vestri.

[Popolo di Sion, ecco il Signore verrà a salvare tutte le genti: il Signore farà udire la gloria della sua voce inondando di letizia i vostri cuori.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Excita, Dómine, corda nostra ad præparándas Unigéniti tui vias: ut, per ejus advéntum, purificátis tibi méntibus servíre mereámur:

[Eccita, o Signore, i nostri cuori a preparare le vie del tuo Unigenito, affinché, mediante la sua venuta, possiamo servirti con anime purificate:]

Lectio

Lectio Epístolæ beáti Pauli Apostoli ad Romános.
Rom XV: 4-13.
Fatres: Quæcúmque scripta sunt, ad nostram doctrínam scripta sunt: ut per patiéntiam et consolatiónem Scripturárum spem habeámus. Deus autem patiéntiæ et solácii det vobis idípsum sápere in altérutrum secúndum Jesum Christum: ut unánimes, uno ore honorificétis Deum et Patrem Dómini nostri Jesu Christi. Propter quod suscípite ínvicem, sicut et Christus suscépit vos in honórem Dei. Dico enim Christum Jesum minístrum fuísse circumcisiónis propter veritátem Dei, ad confirmándas promissiónes patrum: gentes autem super misericórdia honoráre Deum, sicut scriptum est: Proptérea confitébor tibi in géntibus, Dómine, et nómini tuo cantábo. Et íterum dicit: Lætámini, gentes, cum plebe ejus. Et iterum: Laudáte, omnes gentes, Dóminum: et magnificáte eum, omnes pópuli. Et rursus Isaías ait: Erit radix Jesse, et qui exsúrget régere gentes, in eum gentes sperábunt. Deus autem spei répleat vos omni gáudio et pace in credéndo: ut abundétis in spe et virtúte Spíritus Sancti.

 “Tutte le cose che furono già scritte, furono scritte per nostro ammaestramento, affinché per la pazienza e per la consolazione delle Scritture noi manteniamo la  speranza. Il Dio poi della pazienza e della consolazione vi conceda di avere un medesimo sentimento fra voi, secondo Gesù Cristo. Affinché di pari consentimento, con un sol labbro, diate gloria a Dio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo. Il perché accoglietevi gli uni gli altri come Gesù Cristo ha accolto voi a gloria di Dio. E veramente io affermo, Gesù Cristo essere stato ministro della circoncisione per la veracità di Dio, per mantenere le promesse fatte ai patriarchi: i gentili poi glorificare Iddio per la misericordia, siccome sta scritto: Per questo io ti celebrerò fra le nazioni e inneggerò al tuo nome. E altrove: Rallegratevi, o genti, col suo popolo. E ancora: “Quante siete nazioni, lodate il Signore, e voi, o popoli tutti, celebratelo. E Isaia dice ancora: Vi sarà il rampollo di Jesse e colui che sorgerà a reggere le nazioni, e le nazioni spereranno in lui. Intanto il Dio della speranza vi ricolmi di ogni allegrezza e pace nel credere, affinché abbondiate nella speranza per la forza dello Spirito santo. ,, (Ai Rom, XV, 4-13). –

***

L’intenzione di s. Paolo in questa lettera è di far cessare certe controversie domestiche, che lo spirito di gelosia aveva suscitate tra i Giudei ed i Gentili convertiti alla fede. Quelli si gloriavano delle promesse che Dio aveva fatto ai lor padri, di dare il Salvatore, che sarebbe della loro nazione; questi rimproveravano ai Giudei la manifesta ingratitudine della quale si eran fatti colpevoli uccidendo il loro Redentore. S. Paolo dimostra agli uni come agli altri che essi devono tutto alla grazia ed alla misericordia del Salvatore.

Perché Dio è chiamato il Dio della pazienza, della consolazione e della speranza?

Perché la sua longanimità verso i peccatori lo determina ad aspettare la loro conversione con pazienza; perché da Lui viene questa consolazione interiore che sbandisce ogni pusillanimità; e fa insieme trovar gaudio nelle croci; perché Egli è che ci dà la speranza di pervenire, dopo questa vita a godere Lui stesso.

Aspirazione. O Dio di pazienza, di consolazione e speranza, fate che una perfetta rassegnazione al vostro santo volere versi la gioia e la pace nei nostri cuori, e che la Fede, la Speranza e la Carità ci rechino, con la pratica delle buone opere, al possedimento del bene a cui fummo creati, e che ci attende nell’eternità, se adempiremo fedelmente le condizioni alle quali ci è stato promesso.

Graduale

Ps XLIX: 2-3; 5
Ex Sion species decóris ejus: Deus maniféste véniet,
V. Congregáta illi sanctos ejus, qui ordinavérunt testaméntum ejus super sacrifícia.

[Da Sion, ideale bellezza: appare Iddio raggiante.
V. Radunategli i suoi santi, che sanciscono il suo patto col sacrificio. Alleluia, alleluia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja,
Ps CXXI: 1
V. Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. Allelúja.

[V. Mi sono rallegrato in ciò che mi è stato detto: andremo nella casa del Signore. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt. XI:2-10

In illo tempore: Cum audísset Joánnes in vínculis ópera Christi, mittens duos de discípulis suis, ait illi: Tu es, qui ventúrus es, an alium exspectámus? Et respóndens Jesus, ait illis: Eúntes renuntiáte Joánni, quæ audístis et vidístis. Cæci vident, claudi ámbulant, leprósi mundántur, surdi áudiunt, mórtui resúrgunt, páuperes evangelizántur: et beátus est, qui non fúerit scandalizátus in me. Illis autem abeúntibus, coepit Jesus dícere ad turbas de Joánne: Quid exístis in desértum vidére? arúndinem vento agitátam? Sed quid exístis videre? hóminem móllibus vestitum? Ecce, qui móllibus vestiúntur, in dómibus regum sunt. Sed quid exístis vidére? Prophetam? Etiam dico vobis, et plus quam Prophétam. Hic est enim, de quo scriptum est: Ecce, ego mitto Angelum meum ante fáciem tuam, qui præparábit viam tuam ante te.  

“In quel tempo avendo Giovanni udito nella prigione le opere di Gesù Cristo, mandò due de’ suoi discepoli a dirgli: Sei tu quegli che sei per venire, ovvero si ha da aspettare un altro? E Gesù rispose loro: Andate, e riferite a Giovanni quel che avete udito e veduto. I ciechi veggono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, si annunzia ai poveri il Vangelo; ed è beato chi non prenderà in me motivo di scandalo. Ma quando quelli furono partiti, cominciò Gesù a parlare di Giovanni alle turbe: Cosa siete voi andati a vedere nel deserto? una canna sbattuta dal vento? Ma pure che siete voi andati a vedere? Un uomo vestito delicatamente? Ecco che coloro che vestono delicatamente, stanno ne’ palazzi dei re. Ma pure cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico io, anche più che profeta. Imperocché questi è colui, del quale sta scritto: Ecco che io spedisco innanzi a te il mio Angelo, il quale preparerà la tua strada davanti a te” .

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

IL PRECURSORE: UOMINI DI CARATTERE

Perché le sue parole non venissero sospettate d’opportunismo o di adulazione, Gesù aspettò che i due discepoli mandati da Giovanni Battista se ne fossero tornati al loro maestro che languiva nelle carceri di Erode. Poi cominciò a parlare di Giovanni alla moltitudine. – « Che cosa vi attirava nel deserto, quando lasciavate le case e. accorrevate in folla? Forse una canna che si piega ad ogni fiato di vento? Forse un uomo effeminato vestito con eleganza e mollezza? ». – No: Giovanni non era un effeminato cortigiano, egli che fin da fanciullo crebbe e si fortificò nelle solitudini di luoghi selvaggi: portava una veste di peli di cammello stretta ai fianchi con una cintola di cuoio; si nutriva con locuste e miele e non beveva mai vino. – Cristiani, Gesù loda Giovanni Battista perché era un uomo di carattere. Chi non ha carattere, non è un uomo, ma una cosa; Dante direbbe che è una pecora matta perché si muove non secondo ragione, ma secondo istinto: l’istinto della paura, l’istinto del piacere. Due cose fanno l’uomo di carattere: convinzione profonda; volontà energica. – 1. CONVINZIONE PROFONDA. Quando Mosè salì sul monte a ricevere gli ordini da Dio, una nube avvolse la vetta del Sinai e nascose i colloqui dell’Eterno con l’uomo. Ma il popolo rimasto alle falde della sacra montagna, col passar dei giorni, cominciò ad annoiarsi dell’attesa, a disinteressarsi di quello che avveniva oltre quella nube che non lasciava trasparir nulla, se non forse qualche lampeggiamento seguito dal brontolare del tuono. Alla fine perse la pazienza di restar fedele, si costruì un vitello d’oro, intorno al quale tutti se la godevano, mangiando e bevendo e ballando. E non pensavano che da un momento all’altro sarebbe potuto tornare Mosè? Ci pensavano, ma dicevano anche: « Di quel Mosè che ci ha liberati dalla schiavitù dell’Egitto e del suo Dio che sta sopra le nuvole, non sappiamo che cosa sia accaduto » (Es., XXXII, 1 ss.). – Noi sentiamo un fremito d’indignazione verso quel popolo sleale e ondeggiante tra il vero Dio e gli idoli, che cento volte prometteva fedeltà e altrettante la trasgrediva. Eppure non è questo il male di moltissimi Cristiani, il male che forse rode anche la nostra vita? Diciamo di essere creature poste sulla terra per il cielo, ma intanto lo dimentichiamo. Diciamo d’aver un cuore destinato ad amare la sola cosa veramente amabile, e intanto sciupiamo il nostro amore in vergognose passioni. Il vero motivo di questo nostro ondeggiare sta nella mancanza di convinzioni profonde. Ne avessimo almeno una, saremmo uomini; e invece siamo canne. La nostra fede ha radici superficiali, come quella del popolo ebraico nel deserto, e, in pratica, diciamo anche noi: « Di quel Gesù che ci ha redenti col sangue ed è salito oltre le nuvole a parlare col suo padre Celeste, non sappiamo che cosa sia accaduto ». Con siffatta perplessità d’idee, è impossibile pretendere d’assomigliare a Giovanni Battista. – Un pomeriggio domenicale, una persona di mondo entrò nella canonica del parroco d’Ars, attratta da quello che si diceva intorno all’austerità di quell’umile prete, alla generosità con cui donava tutto per vivere poi egli stesso in una povertà estrema, allo zelo con cui si prodigava di giorno e di notte per la salvezza delle anime. « Signor Curato, — disse quella persona — crede proprio a tutto quanto dice il Vangelo? ». – « Sì, a tutto ». « Ma è proprio sicuro che dopo la morte ci sarà il Paradiso? ». « Sicurissimo ». « Proprio sicuro, come dopo quest’oggi che è domenica verrà il lunedì? ». « No, molto più sicuro ». « Proprio sicuro come il sole che è tramontato adesso, sorgerà domani mattina? ». « No. Molto, molto più sicuro. Poiché può darsi anche che venga una domenica dopo la quale non ci sia più il lunedì, quale non ci sia un tramonto dopo il quale non ci sia più aurora, un inverno dopo il quale non ci sarà più primavera, ma non può darsi assolutamente che le parole di Cristo non s’avverino ». « Quali parole? ». « Queste: Io sono la Resurrezione e la Vita: chi crede in me, anche se fosse morto, vivrà… Io lo risusciterò nell’ultimo giorno ». – Quella persona partì commossa e persuasa d’aver capito il segreto di quella grande santità. Soltanto una convinzione così profonda poteva dargli la forza di vivere come viveva. Tale profondità di convinzione era quella che condusse Giovanni Battista nel deserto, che gli diede il coraggio di rinfacciare al re il suo nefando peccato, che lo fece intrepido quando si lasciò troncare la testa. Tale profondità di convinzione era quella che sostenne i martiri: Agnese, bella e ricca ereditiera d’una cospicua famiglia romana, che a 13 anni, mentre le fiamme del rogo già la lambivano, esclamava: « Ecco che finalmente io vengo a Voi, Signore, che io amavo, cercavo, desideravo, senza intermissione »; Pancrazio di 14 anni che lasciò sbranare dalle belve la sua giovane vita, ma non sacrificò agli idoli; Policarpo di 85 anni, Simeone di 120, entrambi col corpo tremante di vecchiezza, ma con l’anima immobile nella certezza della fede. Né si creda che questa convinzione capace di sfidare perfino la morte, sia un ricordo archeologico di tempi antichi che non ritornano più. È del nostro tempo il fatto di una fanciulla americana, (Grazia Minford), convertita dal protestantesimo e divenuta suora domenicana. Suo padre morendo le lasciò la somma favolosa di 12 milioni e mezzo di dollari, a patto che abbandonasse il convento. Che cos’ha risposto quella fanciulla? « Il mio Padre del cielo è assai più ricco del mio padre della terra, e mi darà una ricompensa più grande ancora ». Questa è convinzione e forza veramente cristiana! («Schonere Zukunft », 1-5-1927). – Convinzione cristiana spinge ancora tante figliuole a rinunciare a un sogno di felicità, piuttosto che sposare una persona che non rispetterebbe la loro coscienza, a rinunciare a un impiego lucroso piuttosto che sgualcire il candore della loro innocenza in certi uffici. Convinzione cristiana sostiene il padre di famiglia in gravi e lunghi sacrifici piuttosto che violare la legge del Signore. – 2. VOLONTÀ ENERGICA. La volontà energica è una conseguenza naturale della convinzione profonda. L’uomo di carattere sa dimostrare la sua volontà decisa davanti al mondo, a sé, a Dio. – Davanti al mondo. Il mondo ha due armi terribili per trascinare al male: la lusinga e lo scherno. Le lusinghe del mondo sono le amicizie, certe amicizie specialmente; sono i divertimenti, come gli spettacoli licenziosi, i balli, le passeggiate sbrigliate e promiscue. Gli scherni del mondo sono fatti di sorrisi maliziosi, di mormorazioni, di ironia, di disprezzo, e perfino di persecuzioni; poiché spesso i buoni si vedono preclusa la via alle loro legittime aspirazioni, e alle ricompense meritorie. La volontà energica dell’uomo di carattere non cede alle lusinghe, non teme gli scherni: ma va diritta e sicura, ascoltando sempre la voce della coscienza. – Davanti a sé. Un nemico potente è entrato in noi stessi per il peccato originale, ed ha esteso il suo nefasto impero un poco su tutte le facoltà dell’anima. Bisogna riconquistare e difendere la nostra libertà interiore. I cattivi pensieri la minacciano nella nostra mente, i cattivi desideri nel rostro cuore, i cattivi istinti nella nostra carne: quale campo di battaglia aspra e incessante per la volontà! Chi cede è rammollito. – Davanti a Dio. Dio ogni giorno per purificarci o per provarci ci manda la nostra parte di fatica e di sofferenza. È necessaria la volontà energica, che tronchi ogni querela e ogni impazienza, e ci faccia accettare con santa e lieta rassegnazione la sua paterna e misteriosa volontà. La volontà energica sa placare la natura ferita, e la induce a ripetere quella preghiera che, quando è sincera, vuole coraggio e amore: « La tua volontà sia fatta! ».- Santa Giovanna è all’assedio d’Orléans. Sette ore ha combattuto, sempre calma e intrepida, in mezzo alle sue truppe; ora è il momento in cui deve strappare al nemico la famosa bastiglia di Tourelles. Repentinamente si slancia, afferra la scala, l’appoggia alla torre, e sale impetuosa. Una freccia la colpisce in mezzo al petto: sgorga sangue. Ella impallidisce, trema: sospesa a metà della scala, piange di dolore e di paura. Ridiscende e si nasconde a curarsi. Ecco la debolezza umana. Gli Inglesi imbaldanziscono, ed i Francesi spauriti cedono il campo, e suonano la tromba della ritirata. Ma al primo squillo, Giovanna scatta in piedi: ricorda le visioni che ebbe, le voci che udì, e fa una breve preghiera. Poi di colpo si strappa la freccia, e col petto chiazzato di sangue, grida: « Avanti, siamo vincitori! » E vince. – Cristiani, la vita è una battaglia per la conquista del regno di Dio. Se ci capitasse qualche momento di paura e di debolezza, richiamiamo i motivi della nostra fede, ravviviamo le nostre condizioni, e chiediamo forza con la preghiera, Poi come Santa Giovanna andiamo avanti, sicuri che la vittoria è nostra. –PREPARIAMOCI AL SANTO NATALE CON LA FEDE. Due parti ha il brano di Vangelo da commentare: il messaggio di S. Giovanni Battista a Gesù; l’elogio di Gesù per San Giovanni Battista. 1. Da parecchi mesi il Precursore languiva nella fortezza di Macheronte, erma e selvaggia sul mar Morto, dove lo teneva rinchiuso Erode. Venivano i suoi discepoli a trovarlo e non senza amarezza gli raccontavano i primi successi di Gesù. «Maestro, gli dicevano, sai, quell’uomo che era con te al di là del Giordano, a cui tu hai reso testimonianza? ecco battezza anch’egli, e tutti vanno da lui » (Giov., III, 26). – Per quei discepoli affezionati riusciva molto duro vedere il loro maestro prigioniero in una fosca e solitaria torre mentre pensavano che laggiù nella ridente Galilea un altro Maestro predicava alla luce del sole, e la folla lo ascoltava ammirata. E se qualche volta s’imbattevano a passare di là, sapendo che Gesù, con i suoi amici era entrato in qualche casa a mangiare, mossi da invidia e sdegno, si mettevano sulla porta a protestare (Mc., II, 18). – San Giovanni aveva cercato già di dissipare questi sentimenti non generosi, ma tanto naturali e facili a germinare nel cuore dell’uomo; e aveva detto: « Sentite: se una persona si sposa e tutti gli fan festa, il suo amico deve rattristarsi? No; ma l’amico dello sposo, che sta presso di lui, e lo ascolta, si rallegra grandemente nell’udire la voce dello sposo. Questa è la mia gioia: ed è perfetta. Bisogna che egli cresca, e io diminuisca » (Giov. III, 29-30). – Quella volta però in prigione, il Precursore sentendosi incapace a disarmare e a illuminare i suoi amici, ne scelse due e li mandò a interrogare Gesù: « Sei Tu colui che ha da venire, o ne aspetteremo un altro? » Lo scopo recondito dell’ambasciata fu subito intuito da Gesù che in presenza dei due inviati moltiplicò i miracoli. Al momento di congedarli, disse: « Andate ora, e riferite a Giovanni ciò che avete udito, ciò che avete visto ». Poi, volendo mostrare come leggesse nei loro cuori, aggiunse: « E beati quelli che non si lasciano sconcertare dalla mia maniera di fare! ». 2. Partiti che furono, evitata quindi anche l’apparenza d’adulazione, Gesù rese una magnifica testimonianza al suo Precursore davanti ad una gente che l’aveva conosciuto nel deserto. « Chi siete andati a vedere nel deserto? Forse una canna sbattuta dal vento? ». No. Di canne erano folte le rive del Giordano, senza andarle a cercare lontane nel deserto. Giovanni poi non era certo una canna, lui il predicatore terribile che non infinse, che non tacque, ma andò fin dal Re a rimproverargli l’adulterio. « Chi dunque siete andati a vedere nel deserto? — incalza Gesù con una seconda domanda. — Forse un uomo di lusso vestito alla moda? ». I cortigiani dalle ricche vesti, gli uditori di Gesù sapevano bene che non abitavano il deserto, ma la reggia. Nel deserto, dove da vestire non ci sono che’ pelli ispide, da mangiare che erbe e locuste, da bere che acqua e scarsa ancor quella, non vivono che i ladroni e i profeti. E Giovanni era un profeta, anzi più che un profeta. « Non ‘è sorto un altro tra i figli di donna più grande di lui, — disse Gesù conchiudendone l’elogio. — Egli è l’araldo preannunziato per prepararmi la strada ». Ora che abbiamo raccontato con qualche commento, il Vangelo, fermiamo l’attenzione sulla risposta che il Signore diede ai due inviati. Questa risposta ha per noi una grande importanza. Oggi, come allora, in molti cuori manca la fede, oppure s’è illanguidita, oppure s’è fatta inerte. Anche per questi cuori, perché si ridestino a una fede operosa e amorosa, perché con tale fede si preparino al santo Natale, Gesù incaricò i due discepoli del Battista di riferire quello che udirono e quello che videro. – 1. QUELLO CHE UDIRONO. Certamente udirono quello che Cristo ha detto di sé medesimo. Lo udirono cioè proclamarsi figlio di Dio, Dio uguale al Padre. Il Vangelo non ci riferisce le parole precise pronunciate da Lui in quell’occasione: ma non ci rincresce perché ne abbiamo molte altre equivalenti pronunciate in diverse circostanze. Basterà ricordarne alcune. a) Un giorno l’Apostolo Filippo lo prega di fargli vedere Dio Padre, di cui parlava con tanta affettuosa insistenza. E Gesù: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre. Non credi tu che Io sono nel Padre, e che il Padre è in me?» (Giov., XIV, 9-10). La terra nostra non aveva mai inteso prima d’allora un simile parlare. Non c’è che Dio solo, e niente è simile a Lui in tutto il mondo. Ed ecco che questo uomo, Gesù, afferma d’essere un unico Dio col Padre: di possedere la stessa eternità, la stessa potenza, la stessa scienza, la stessa natura e vita divina. E lo confidò anche a Nicodemo in quella notte in cui l’ammise a un colloquio segreto (Giov., III, 13-18); lo ripeté al cieco nato dopo avergli donata la vista (Giov., IX, 35-37); lo proclamò solennemente alla folla che l’attorniava nel tempio (Giov., X, 30); lo disse in faccia a Caifa, l’ipocrita che cercava un pretesto per scandalizzarsi di lui (Mt. XXVI, 63-64). – b) Non solo Gesù affermò d’essere Dio, ma anche d’avere quei diritti che competono soltanto a Dio. Ad esempio, l’onnipotenza in cielo e in terra. Salutando i suoi discepoli, prima di salire al cielo, disse loro: « Io ho ogni potere, lassù in cielo e quaggiù in terra ». (Mt., XXVIII, 18). – Un altra volta domanda per sé un amore sopra ogni cosa. « Chi non mi ama più di suo padre e di sua madre, di suo figlio e di sua figlia, non è degno di me » (Mt., X, 37). Soltanto Dio può pretendere un simile amore. Gesù voleva appunto dire d’essere Dio. – c) E se l’ha detto, lo è. Era troppo equilibrato, semplice, schietto, buono per illudersi o per illudere. Ma non solo lo disse, lo comprovò coi fatti, e i due inviati del Battista videro cose che non può fare se non colui che ha fatto il mondo e che è il padrone della vita e della morte. – 2. QUELLO CHE VIDERO. Videro Gesù avvicinarsi affettuoso alle pupille spente d’alcuni ciechi, e chieder loro: « Che cosa desiderate? ». « Vedere! Vedere! », « Ebbene, guardate ». Sotto l’impero di quella parola, davanti alle loro facce stupefatte si rivelava per la prima volta la luce del sole e in essa tutte le altre cose belle. Erano scoppi di gioia, parole di riconoscenza interrotte da incomprimibile meraviglia infantile: «Oh gli uomini, sono come alberi che camminano! » (Mc., VIII, 24). – Videro sordomuti gonfiare la gola nello sforzo d’esprimere la parola che non potevano dire e agitare le dita intorno alle orecchie. Gesù, appoggiato un dito tra le sue labbra, l’intinse di saliva, poi toccò la loro bocca e il loro orecchio: « Apriti! » esclamò. D’improvviso come se finalmente un ingorgo maligno fosse travolto, la parola libera e chiara usciva dal loro petto, entrava nel loro timpano. Videro storpi gettare via le grucce e saltare sulle loro gambe. Videro alcuni in un momento guarir dalla lebbra che è inguaribile. Forse videro anche il centurione supplicare il Maestro per un suo carissimo servo che giaceva a letto in condizioni disperate, e Gesù guarirglielo in distanza (Lc. VII, 259). Forse videro anche i funerali dell’unigenito della vedova di Naim. Gesù fermò la barella e comandò alla morte di cedergli la tenera preda. « Fanciullo, ti dico di alzarti! ». E il morto risuscitò (Lc., VII, 11-17). – Questi sono fatti sicuri che non hanno che una sola spiegazione: Gesù è Dio fatto uomo, e rivestito d’un corpo come il nostro. Eppure molti non si lasciano persuadere. Non c’è da stupirsi, quando si pensa che perfino due città di quelle che videro coi loro occhi i miracoli si ostinarono nella incredulità. Gesù abbandonandole rivolse su loro la maledizione: « Guai a te, Corozain! Guai a te, Bethsaida! Se i miracoli che sono stati fatti tra le vostre contrade fossero avvenuti a Tiro e a Sidone, già si sarebbero convertite » (Mt. 11.21). Che vuol dire ciò? Vuol dire che alla buona fede che lo cerca Gesù si presenta con prove certe della sua divinità, ma non s’impone per forza all’ostinazione che lo respinge. – S’avvicina il giorno in cui la Chiesa ricorderà a tutto il mondo il mistero della ancora nascita di Gesù. E la Grazia che da questo mistero sgorgò allora, verrà diffusa a tutti i cuori, nella misura che se ne renderanno capaci. Dio Eterno che nasce bambino per noi! C’è qui un abisso di amore e di degnazione di cui non ci sarà mai possibile vedere il fondo. Santa Maddalena de’ Pazzi con incessante amorosa adorazione ripeteva centinaia di volte al giorno: «Il Verbo si è fatto carne ed abitò tra noi ». S. Alfonso de’ Liguori non sapeva studiare se sul suo tavolo di lavoro non vedeva la cara immagine di Gesù Bambino. Ed infinite volte la baciava, adorando Colui che vi era rappresentato. Cristiani: in questa settimana d’Avvento più volte al giorno, sull’esempio dei Santi, diremo col cuore: « Bambino Gesù, io ti ringrazio d’essere nato per me! ». Ma forse qualcuno penserà: « Come farò a ricordarmelo? ». Ebbene: perché non l’abbiate a dimenticare tre volte al giorno, al mattino, al mezzodì, alla sera, la Chiesa fa suonare le campane dell’Angelo che annunzia l’incarnazione del Verbo. Nessuno dunque si scordi, almeno in questa settimana, che udendo quel suono deve pensare al Figlio di Dio che si fece uomo per la nostra salvezza. — I FRUTTI DELL’AVVENTO DEL SIGNORE.- Se un rincrescimento pungeva ancora Giovanni il Battista, non era per sé, ma per i suoi discepoli: quelli che avevano raccolta la sua parola gridata dalle soglie del deserto, che avevano ricevuto il suo battesimo di penitenza sulle rive del Giordano: i suoi discepoli che non volevano rassegnarsi a separarsi da lui, che ancora venivano a trovarlo in prigione, che per stare con lui trascuravano di seguire il Messia. Ah no! questo era troppo, questo non poteva più permetterlo. Solo Gesù è il Salvatore, solo Gesù bisogna seguire! Per ciò, sentendo imminente la sua tragica morte, mandò due discepoli a Cristo per dirgli. « Sei tu il Messia, o è un altro che dobbiamo aspettare? ». – Giovanni, si capisce, non dubitava nemmeno: egli fino dal seno materno, sobbalzando misteriosamente, l’aveva riconosciuto; egli l’aveva additato alle folle ignoranti; egli l’aveva battezzato mentre la voce dell’Eterno Padre discendeva dal cielo aperto. Ma nella squisitezza della sua fede e del suo amore voleva che i discepoli suoi lo vedessero coi loro occhi, lo udissero con le loro orecchie: così affascinati dal Cristo, si sarebbero staccati da lui senza rimpianti. E Gesù comprese lo scopo di quella ambasciata. Li accolse con affetto e se li tenne con sé amorevolmente facendo molti miracoli in presenza di loro. Poi li congedò con queste parole: « Tornate da Giovanni e ditegli quel che avete udito, quel che avete veduto ». Orbene, Cristiani: la santa Chiesa in principio dell’Avvento, imitando il gesto del Precursore, manda anche noi a considerare i frutti della venuta del Salvatore perché abbiamo a credere più fermamente in Lui, a seguirlo più coraggiosamente. Questi frutti sono molti, ma i principali sono tre: la pace, la luce, l’amore. – 1. LA PACE. Prima ancora che nascesse, da un profeta fu chiamato « principe della pace »; quando nacque, i cori d’Angeli cantarono che «la pace in terra, agli uomini» era discesa. Alla vigilia della morte diceva ai suoi amici: « Me ne vado, ma vi lascio la pace »; risuscitando disse: « Pace a voi ». Gesù Cristo, dunque è la nostra pace. Ipse enim est pax nostra (Eph., II, 14). Perciò non fa meraviglia se, con la sua venuta, mise pace tra Dio e l’uomo, tra l’Angelo e l’uomo, tra uomo e uomo. a) Tra Dio e l’uomo: dal momento che il primo uomo peccò, Dio voltò via la sua faccia sdegnata e abbandonò la nostra natura al giogo del demonio. Passarono migliaia e migliaia d’anni in cui nessun uomo poté, benché santo, entrare in Paradiso: né Adamo, né Mosè, né Isaia, né Davide, alla loro morte, lo trovarono aperto. Finalmente nel seno verginale di Maria la natura divina e la natura umana s’abbracciarono nell’unica Persona nel verbo incarnato. Come Iddio poteva continuare la sua inimicizia con gli uomini, se uomo era anche il suo Figlio Unigenito? – b) Tra l’Angelo e l’uomo. Fino alla venuta di nostro Signore Gesù, gli Angeli trattavano gli uomini come stranieri con superiorità ed asprezza. Perciò quando apparvero ad Abramo, a Loth, a Giacobbe, a Mosè, ad Ezechiele, a Davide gli uomini tremanti si gettavano a terra per adorarli come padroni. Ma dal giorno della venuta del Signore, tutta la schiera angelica ci è diventata benevola ed amica: ai loro occhi cessammo di apparire la razza degradata e maledetta, poiché vedono che il Figlio di Dio ha voluto rivestire umana natura, farsi uomo in carne ed ossa come noi. Se Dio ebbe di noi tanta misericordia da diventare uno dei nostri, gli Angeli come ci potrebbero ancora trattare duramente? Quando a S. Giovanni Evangelista apparì un Angelo, egli, secondo l’uso dell’Antico Testamento, fece per gettarsi sulla nuda terra ad adorarlo. Ma la celeste creatura glielo impedì, dicendo: « Che fài? Io sono come te un servo dell’Altissimo ». – c) Tra uomo e uomo. Prima che il Salvatore discendesse su questa terra, il sentimento più diffuso tra gli uomini era l’odio. I pagani odiavano i Giudei, i Giudei odiavano gli immondi pagani. I Greci chiamavano barbaro chiunque non fosse della loro nazione; i Romani non riconoscevano i diritti se non dei cittadini di Roma. La guerra e l’odio implacabile per i nemici era un vanto. Venne Gesù: e davanti a Lui non ci furono più né Giudei né Gentili, né Greci né barbari, né rivali né nemici, ma tutti gli uomini divennero fratelli suoi, compartecipi della sua natura umana: e perciò figli tutti d’un Padre unico, Iddio. L’uomo dunque da Dio, dagli Angeli, dagli uomini stessi era odiato e disprezzato come un lebbroso. Gesù Redentore, portandoci la pace con Dio, con gli Angeli, con gli uomini, ci ha mondati da quella lebbra. Leprosi mundantur. Ma guai a quelli che ritornano negli odi antichi! per loro il frutto dell’avvento divino è maturato invano. – 2. LA LUCE. Tutti i popoli camminavano nelle tenebre e nell’ombra della morte. In Egitto si adoravano le cipolle e il bue; in Grecia si erano costruite divinità viziose e libidinose; in Roma si incensavano i tiranni crudeli. Le madri uccidevano i loro figliuoli per placare le ire di Baal o di Astharte, idoli sanguinarî. Anche gli uomini più intelligenti d’allora non riuscivano a sapere del loro eterno destino quanto ora ne sa anche l’ultimo dei nostri bambini. Gesù venne: e fu come se si squarciasse la maligna nuvolaglia che ottenebrava il mondo e risplendesse improvvisamente il sole. Sole di giustizia è Gesù! Luce del mondo è Gesù! – Quante meravigliose verità ci ha Egli disvelate riguardo a Dio, all’anima nostra, alla vita eterna… Tutte le cose più utili al nostro vero bene il Vangelo ce le insegna. – I nostri occhi erano ciechi, ed ora vedono. Cæci vident. Eppure ci sono di quelli che la dottrina cristiana hanno dimenticata, che non vogliono più impararla. Eppure ci sono di quelli che vivono solo per mangiare e guadagnare, veri adoratori delle cipolle e del bue; di quelli che vivono per accontentare ogni istinto bestiale, veri adoratori delle passioni immonde; di quelli che i proprî figli non educano cristianamente e sacrificano la loro innocenza al demonio. Guai a questi che ritornano nell’antica tenebrosa ignoranza! per loro il frutto dell’avvento divino è maturato invano. – 3. L’AMORE « Signore, perché sei venuto sulla terra? ». «Sono venuto a portare il fuoco dell’amore sulla terra ghiacciata, e non bramo altro che di incendiarla tutta in questa mistica fiamma ». Anche senza l’Incarnazione, nella sua infinita misericordia, Dio avrebbe saputo trovare il modo di perdonarci e salvarci. Ma era l’amore della sua creatura, che il Creatore dell’universo voleva: e si fece uomo per amore. Nell’Antico Testamento avevano imparato a temerlo e a rispettarlo; lo sentivano presente nel fragore del tuono, nell’urlo della bufera, nell’ardore del fuoco; ma gli uomini non riuscivano ad amare un Dio invisibile. Ma ora Egli si è fatto visibile, e tutto il mondo vede la sua dolce Umanità. « Fratelli, — scriveva S. Paolo — dopo la sua venuta più nessuno può vivere per sé, ma solo per Lui, che visse e morì per noi ». E sorsero allora moltitudini di uomini, di donne, di fanciulli che con desiderio offrirono la loro vita nel martirio. Sorsero allora infinite schiere di Monaci e di Vergini che si ritirarono nei deserti a vivere solo per suo amore, già fatti angeli prima di morire. Sorsero in ogni tempo i Santi che non temettero penitenze e umiliazioni, fatiche e malattie, tribolazioni e persecuzioni, accesi com’erano nell’amore di Cristo, il Dio fatto Uomo. – Senza questo eterno amore, che sarebbero stati gli uomini se non dei cadaveri? – Gesù venne e li risuscitò. Mortui resurgunt. Eppure sono troppi quelli che non amano il Signore: passano lunghe settimane senza un pensiero e un palpito per Lui! Troverete di quelli che neppure una Messa alla festa sanno ascoltare per suo amore; per suo amore non sanno nemmeno compiere una piccola rinuncia. E se si volesse entrare nel segreto delle famiglie, quanti ne trovereste che non sanno più rispettare la castità coniugale e vivono nell’egoismo brutale, dissacrando ogni legge di Dio e di natura! Guai a questi che ritornano nell’antica morte dell’indifferenza e del peccato! Per loro la primavera della redenzione è venuta senza fiori e senza frutti. –  Dopo due millenni, nuovamente ci prepariamo al Santo Natale per partecipare maggiormente ai frutti della divina venuta. – S. Gaetano da Thiene sì struggeva in affettuose preghiere; S. Filippo Neri si ritirava nelle catacombe a meditare; San Francesco d’Assisi s’avviava verso Greccio gridando: « Amiamo il Bambino celeste! ». Noi che faremo? Facciamo pace con Dio e con gli Angeli togliendo via i peccati dal cuore, facciamo pace con gli uomini perdonando e chiedendo perdono. Ritorniamo a frequentare la Chiesa, a studiare la dottrina cristiana, ad ascoltare la parola di Dio. Infine, per amore di Gesù che tanto ci amò, facciamo un po’ di penitenza, di elemosina, di mortificazione. – Così la pace, la luce, la carità del nostro Signore ritorneranno in noi.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps LXXXIV: 7-8
Deus, tu convérsus vivificábis nos, et plebs tua lætábitur in te: osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam, et salutáre tuum da nobis.

[O Dio, rivolgendoti a noi ci darai la vita, e il tuo popolo si rallegrerà in Te: mostraci, o Signore, la tua misericordia, e concedici la tua salvezza.]

Secreta

Placáre, quǽsumus, Dómine, humilitátis nostræ précibus et hóstiis: et, ubi nulla suppétunt suffrágia meritórum, tuis nobis succúrre præsídiis.

[O Signore, Te ne preghiamo, sii placato dalle preghiere e dalle offerte della nostra umiltà: e dove non soccorre merito alcuno, soccorra la tua grazia.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Bar V: 5; IV:36
Jerúsalem, surge et sta in excélso, ei vide jucunditátem, quæ véniet tibi a Deo tuo.

[Sorgi, o Gerusalemme, e sta in alto: osserva la felicità che ti viene dal tuo Dio.]

Postcommunio

Orémus.
Repléti cibo spirituális alimóniæ, súpplices te, Dómine, deprecámur: ut, hujus participatióne mystérii, dóceas nos terréna despícere et amáre cœléstia.

[Saziàti dal cibo che ci nutre spiritualmente, súpplici Ti preghiamo, o Signore, affinché, mediante la partecipazione a questo mistero, ci insegni a disprezzare le cose terrene e ad amare le cose celesti.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

IL SACRO CUORE DI GESÙ (60)

IL SACRO CUORE DI GESÙ(59)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE TERZA.

Sviluppo storico della divozione.

CAPITOLO SETTIMO

DALLA MORTE DI MARGHERITA MARIA AI NOSTRI GIORNI

I. – DAL 1690 AL 1725

La morte di Margherita Maria, grazie, in gran parte, al libro del P. Croiset, non fece che dare un nuovo slancio alla divozione. Il libro ebbe una diffusione prodigiosa; se ne fecero edizioni ed adattamenti in parecchie città di Francia; fu tradotto in diverse lingue. Dappertutto esso accendeva il fuoco sacro facendo conoscere, con il valore e l’unità della divozione, le sue origini celesti. – L’apostolato vivente faceva ancora di più. In ogni luogo ove era un monastero della Visitazione o un collegio di Gesuiti, si trovava qualche anima ardente per propagarla. Non era sempre senza difficoltà. Perché, se la divozione provocava l’entusiasmo, trovava anche delle opposizioni. Si vede dagli scritti del P. Galliffet, e ciò si sarebbe potuto indovinare, che, come d’ordinario, bisogna distinguere due o tre momenti nel progresso della divozione. Appena essa appare, alcune anime se ne innamorano: attrattiva della grazia, affinità naturale, entusiasmo di novità. È come polvere che s’incendia. – Ma ecco l’opposizione; essa nasce appunto dal successo medesimo; l’entusiasmo degli uni provoca la resistenza degli altri. È il momento delle divisioni delle dispute, delle critiche. Interviene l’autorità, per ristabilire la pace. Conservatrice per dovere, come per istinto, essa reprime gli slanci troppo vivi, le iniziative troppo brusche. Poi essa impone silenzio ai partiti. Le anime docili fanno silenzio. Ma quando il movimento viene da Dio, questa stessa docilità ne assicura il trionfo, mentre gli indocili e i fanatici mormorano forse, ed abbandonano quasi subito la causa che hanno compromessa con i loro eccessi e con la loro indiscrezione; gli altri più seri e più soprannaturali, la liberano di tutto ciò che poteva mescolarvisi di umano e di naturale; pregano, attendono, agiscono discretamente, sotto lo sguardo e con l’approvazione dell’autorità. Il movimento riprende a poco a poco, più profondo, senza rumore, senza urti. Fra gli oppositori i migliori riflettono, esaminano; sotto l’azione della grazia i pregiudizi, si mostra la verità; ed eccoli conquistati; essi saranno forse un giorno ardenti zelatori. – Noi abbiamo visto che tale fu la storia della divozione a Paray. Tale essa fu in molti monasteri della Vistazione; tale nei collegi della Compagnia di Gesù; tale quasi in ogni luogo dove si propagava la nuova divozione. Questa prima opposizione non era, di sua natura, un’opposizione giansenista. Ma vi si mescolarono qua e là influenze gianseniste che servirono a renderla più ostinata ed amara. Non è dei primissimi tempi che parla il P. Galliffet; ma si può dire con lui che « la persecuzione fu forte ». « Si arrivò, continua egli, a riguardare quelli che volevano praticare o stabilire questa festa, come una specie di setta, capace di turbare la Chiesa. Tutto, fino il nome della divozione, divenne odioso. Non si poteva nominare il cuore di Gesù, senza offendere certi spiriti ». I Cristiani istruiti e pii arrivarono presto ad apprezzamenti più giusti: « La verità, dice ancora il P. Galliffet, si faceva strada a poco a poco, i pregiudizî si dissipavano, gli spiriti si rialzavano, calmandosi in modo che, in pochi anni, si videro persone di tutte le condizioni e di tutti i caratteri abbracciare la nuova divozione e trovarvi la loro consolazione ». Egli aggiunge che essa « s’introdusse soprattutto nei conventi ». É ciò si comprende facilmente. È sempre stata la divozione degli eletti! – Ma fu obbligata a conquistare le anime una ad una. Anche la Visitazione, come corpo, e la Compagnia di Gesù, furono ben lungi dal lasciarsi conquistare ciecamente, alla prima, dalla nuova divozione. Vi furono perfino condanne dell’autorità, destinate a far riflettere i temerari e gli innovatori. Da Annecy, dalla « Sorgente santa ». partiva il 1 novembre 1693 una circolare che spiegava perché si era alieni da « quelle pratiche così singolari, che sono state introdotte da poco, per onorare il sacro Cuore di Gesù ». Non rigettavano la divozione, lo dicevano chiaramente: « Per questo, noi non vogliamo avere meno rispettoso culto per il sacro Cuore; noi lo consideriamo come il centro di tutti i nostri desiderî e la mèta di tutti i nostri voti ». Ciò che si respinge sono le pratiche nuove, contro le quali i santi fondatori avevano messo tanto in guardia. Ma la parola rimase dura. D’altra parte Annecy riceverà presto la Madre Greyfié, la sceglierà per superiora, e imparerà da lei ad apprezzare meglio la nuova divozione. – Cose analoghe nella Compagnia di Gesù. I profani  s’immaginano, talvolta, che una divozione reclamata dalle visioni e dalle rivelazioni di una religiosa, è sicura di trovar credito in questo mondo di predicatori, di confessori, di teologi… Si conoscono molto malel… Il P. Croiset e i suoi amici, pur essendo così prudenti, apparvero ad alcuni eccessivi e troppo crudeli. La cosa arrivò fino al P. Thyrse Gonzales, allora Generale della Compagnia. Egli non era certo disposto alle novità. Tuttavia non condannò la divozione; ma temeva che il P. Croiset non si fosse « volto ad opinioni singolari ». Gli si spiegò che non era così; egli rispose guardandosi dal biasimare la divozione, ma senza volerla incoraggiare e sopprimendo le pratiche contrarie agli usi. Ciò avveniva nel 1695. La Compagnia, per intero, non doveva fare atto di divozione al sacro Cuore che al tempo di Lorenzo Ricci, quando piombando su essa le disgrazie da tutte le parti, essa non aveva più speranza che nel sacro Cuore. – Frattanto, le confraternite si moltiplicavano, le pratiche principali erano adottate; si costruivano cappelle, si dedicavano altari; i predicatori parlavano. In pochi anni la devozione fu conosciuta da tutta la Francia, conosciuta nel Canada e fin nell’Estremo Oriente. Alcuni santi preti se ne facevano i propagatori zelanti. Abbiamo già parlato di Boudon. Un po’ più tardi, nel 1711, Simone Gourdan, il pio e sapiente canonico di San Vittore, ne faceva l’elogio in una consultazione celebre, in cui egli la mostrava come « la più antica, la più autorizzata, la più perfetta, la più utile, la più gradita da nostro Signore, di tutte le divozioni ». Alcune congregazioni religiose le spalancarono le loro porte. Le Benedettine del SS. Sacramento, furono preparate dal P. Eudes; così pure alcuni conventi di Benedettine e di Orsoline; le Certosine lo erano dalle mistiche del loro Ordine. Forse sono i Certosini che per i primi hanno adottato, quasi ufficialmente, la nuova divozione, Verso il 1692 alcune monache di questo ordine, domandavano al loro Superiore generale, don Innocente Le Masson, se potevano adottare le pratiche proposte in un piccolo libro della devozione al sacro Cuore: il ritrovo quotidiano in quel divin Cuore, alcune preghiere speciali, una consacrazione, un’ammenda onorevole, una specie di festa riparatrice in onore del sacro Cuore nel venerdì dopo l’ottava del SS. Sacramento. E gli mandarono il libro. Sembra che fosse il libretto di Digione, quello di suor Joly. Don Le Masson rispose: « Non solo acconsento… Ma vi esorto a farlo ». E volle scrivere lui stesso un Esercizio di devozione al sacro Cuore per le religiose Certosine che fu pubblicato nel 1694. – In questa prima diffusione della divozione ci piacerebbe distinguere le influenze di Margherita Maria e quelle del P. Eudes, vedere almeno come esse si uniscano e si fondano. Non si possono raccogliere a questo proposito che poche informazioni. Nel 1693 una lettera del P., Croiset ci mostra alcune Benedettine, le Dame di S. Pietro a Lione, che ritrovano, per così dire, nella divozione che vien loroproposta quella che il loro Ordine ha avuto in altri tempi. Ma esse ne avevano perduto ogni ricordo, Quelle Dame, « avendo gustato straordinariamente questa divozione, appresero che essa era stata altre volte molto ordinaria nell’Ordine…, e che c’era stata, molti anni avanti, una festa nell’Ordine e un Ufficio, in onore del sacro Cuore ». Sembrerebbe trattarsi di cosa di molti secoli prima. Non è così, pare. « Dio ha permesso, aggiunge il P. Croiset, ch’esse abbiano trovato, a Parigi, questo Ufficio a nove lezioni con una Messa molto bene composta in onore del sacro Cuore, il tutto approvato a Roma, con permesso, per tutto l’ordine di S. Benedetto, di fare tutti gli anni questa festa ». L’Ufficio di cui è fatta questione qui è probabilmente quello del Padre Eudes. In tutti i casi bisogna riconoscere che, se fra queste persone di Lione il P. Eudes era completamente sconosciuto, il collegamento della nuova divozione con l’antica si faceva nel modo più naturale. Questo servirsi dell’Ufficio e della Messa del P. Eudes per la divozione di Paray non sarebbe unico; già abbiamo avuto l’occasione di segnalarne delle tracce, fin presso le Visitandine, presso quelle di Strasburgo per esempio, di Nancy, di Metz. Lo si può pure constatare a Roven. Le Visitandine vi avevano accolto la divozione fin dal 1690. Là fu pubblicato, nel 1694, un opuscolo, La divozione al sacro Cuore di Gesù Cristo (Ripubblicato a Montreuil sur Mer, nel 1899, ma con adattamenti che ne fanno quasi un altro libro.). La divozione di Paray vi era nettamente. Esposta ed anche distinta, in certo modo, da quella del P. Éudes: ma la Messa che vi si unisce è quella del P. Eudes. Anche a Rouen si ritrovano a contatto le due influenze il 6 giugno 1608. Per la festa solenne della Confraternita adoratrice (che è proprio la festa di Paray, giugno, nel venerdì dopo l’ottava del SS. Sacramento, quella che Roma ha appunto allora concesso alle Visitandine), sono gli Eudisti, «i signori del Grande Seminario » che cantano la Messa del sacro Cuore, ed è un Eudista che fa la predica della sera. Toccava a loro, dice la circolare dove son raccontati tali avvenimertti, « di fare l’inaugurazione di questa devozione, già stabilita nella loro Congregazione da lungo tempo ». Sono questi fatti isolati, Oppure si presentano di frequente casi simili? Per rispondere occorrerebbero documenti precisi, che ancora non sono stati raccolti. Ma una cosa è sicura. L’impulso conquistatore, il movimento che invade l’Europa, l’Oriente, l’America, è partito da Paray. Presto il libro del P. Croiset non basta più. Se ne vedono apparire altri da tutte le parti. Spesso non sono che manuali ad uso delle confraternite che si stabiliscono in ogni luogo, raccolte di preghiere e di pratiche, con qualche spiegazione sulla natura e sulle origini della divozione con alcune approvazioni episcopali. Talvolta le confraternite, non sono che l’occasione; il libro è un vero trattato, pio e teologico insieme. Tale è quello del P. Froment, cominciato ancor prima della pubblicazione di quello del P. Croiset e sotto l’influenza di Margherita M, ma non apparve che nel 1699. Tale è quello del P. Bouzonié. Pubblicato a Parigi nel 1697. – Verso lo stesso tempo, i revisori generali della Compagnia di Gesù a Roma, ne esaminavano uno che sembra mirasse più in alto ancora, mirasse cioè ad ottenere la festa con Messa e Ufficio per la Chiesa universale. Essi lodarono l’opera « scritta con talento e sapere ed atta a promuovere la divozione e il culto del sacro Cuore ». Tuttavia furono di parere di non stamparla, E il P. Thyrse Gonzales, allora generale della Compagnia, decise, in conformitàal loro consiglio, per le ragioni che diremo fra poco. Che opera era quella e di chi? Fino adora non si sapeva. Si era creduto che si trattasse forse di estratti del P. Croiset o di una nuovqa edizione. Nuovi dati favoriscono un’altra congettura. 11 P. Pietro Charrier dice di aver trovato a Roma un Manoscritto del P. Galliffet De culto sacrosanti Cordis Jesu, datato dal 1696. Se queste inidicazioni sono esatte, non si può più dubitare che non sia quella l’opera sottoposta dal Provinciale di Lione ai revisori di Roma. Così il Padre Galliffet avrebbe aspettato per 30 anni l’ora della Provvidenza! La sua opera latina non apparve che nel 1726. La divozione stessa stava per subire altri ritardi davanti alla Corte di Roma. Le anime buone avevano creduto che le cose camminerebbero da sé. Non si aveva il desiderio di Gesù e la sua promessa, che egli regnerebbe malgrado le resistenze e le opposizioni?… Essendosi rivolte inutilmente a Roma una prima volta, nel 1687, le Visitandine si rivolgevano agli Ordinari, seguendo il consiglio di Roma stessa; e spesso gli Ordinari accordavano per le loro Confraternite la festa del sacro Cuore, con Messa e Ufficio propri. Altri Vescovi facevano lo stesso, ciascuno a piacer suo. Niente di uniforme, niente di sicuro; tutto dipendeva dal beneplacito dell’Ordinario. E poi mancava il prestigio dell’autorità papale. Dal 1693 le Confraternite furono approvate da Roma e arricchite d’indulgenze. Il P. Croiset si figurava che con questo si avesse tutto. « Si aspettavano le indulgenze, scriveva egli nel 1693. Appena Roma avrà parlato, mi aspetto di veder solennizzare questa festa dappertutto ». Anche lui stava per esser deluso.  – Nel 1697 si credette venuto il momento di tentare un grande sforzo presso Innocenzo XII, per avere la festa tanto desiderata, con Messa e Uffici proprî. Le Visitandine avevano interessato alla loro causa la regina decaduta di Inghilterra, Maria d’Este, moglie di Giacomo II. Era facile, giacché ella non aveva potuto dimenticare il suo predicatore del 1677, il P. de la Colombière. Dal suo esilio regale di Saint-Germain-en-Laye, ella scrisse al Papa, domandandogli di accordare ai monasteri della Visitazione la festa del sacro Cuore con Messa propria, il venerdì dopo l’ottava del Corpus Domini. Il Papa, secondo l’uso, rinviò la causa alla sacra Congregazione dei Riti. Il cardinale Prospero Bottini, Arcivescovo di Mira, fece le obbiezioni secondo l’uso, La principale era la novità; poi anche le conseguenze che se ne tirerebbero, per stabilire altre feste, specialmente quelle del cuor di Maria. Il postulatore rispose risolvendo le obbiezioni e ricordando i meriti della regina d’Inghilterra. La sacra congregazione emise il suo decreto il 30 marzo 1697. Essa accordava ai monasteri della Visitazione delle cinque piaghe per la festa del sacro Cuore. Si può vedere nei resoconti del tempo con quale entusiasmo e con quale solennità fu celebrata la festa. – Tuttavia, non era che una mezza soddisfazione. È la impressione a Roma non fu quella di una vittoria che incoraggia ad andare avanti… Due mesi dopo il decreto per la causa delle Visitandine, i revisori Gesuiti si pronunziarono, come noi abbiamo visto. Essi aggiungevano: « Noi speriamo che i Nostri non si impegnino più a patrocinare la causa del sacro Cuore alla Corte di Roma, e soprattutto che la paternità vostra non intervenga per ottenere che la festa con Messa e Ufficio propri del sacro Cuore siano accordati a tutta la Chiesa; particolarmente in un tempo in cuile nuove devozioni pullulano da ogni parte e sono spietatramente rigettate dalla santa Chiesa » – Infatti, verso la stessa epoca, le Orsoline di Vienna, che si erano rivolte, per loro conto, alla Congregazione dei Riti, per ottenere la festa per loro stesse, ricevevano dalla Congregazione un rifiuto formale: Non expedire. – La divozione stava per ricevere un colpo più forte. Nel 1704 il libro del P. Croiset fu messo all’Indice. Perchè? Il P. Galliffet spiegava così la cosa a Mons. Languet, venti anni dopo: « La novità della cosa, la mancanza di alcune formalità richieste qui e forse, anche, un po’ di malignità, da parte degli uomini, e molta certamente da parte dell’inferno ». Il libro non cessò di propagarsi; fu tradotto in italiano; corretti i difetti di forma: anche in Francia riceveva grandi elogi da Mons. Languet, che lo raccomandava senza fare la minima allusione all’Indice. Il P. Galliffet, nella sua lettera a Mons. Languet, esprimeva la speranza che, dopo l’approvazione della divozione, si farebbe « rendere al detto libro la giustizia che gli è dovuta ». Questa speranza si è realizzata, ma lungo tempo dopo, nel 1887. Malgrado tutti gli ostacoli, la divozione continuò a diffondersi nel pubblico. Le confraternite si moltiplicavano con approvazione e indulgenze da Roma. Indulgenze si avevano anche per tutti coloro che visitavano le chiese delle Visitandine, il giorno della festa. Le Orsoline di Vienna, imitavano le Visitandine di Francia: la Polonia apriva le braccia al sacro Cuore, come pure il Canada. – Nel 1707 le Visitandine rinnovarono le loro istanze presso Clemente XI per avere la Messa propria. Il Papa rispose loro, il 4 giugno 1707, lodando il loro zelo, la loro pietà, la loro prudenza, nella condotta di quest’affare; che esse aspettassero dunque, in pace, il giudizio della Chiesa; per questa sottomissione sincera esse arriverebbero direttamente al cuore del Signore. La peste di Marsiglia, nel 1720, fu forse la prima occasione di una consacrazione solenne, di un culto pubblico, al di fuori delle comunità religiose. Si sa come Marsiglia era stata ardente per il sacro Cuore, fin dai tempi di Margherita Maria. Da alcuni anni un’altra Visitandina, Anna Maddalena Rémuzat, vi diffondeva la stessa divozione. Ella aveva annunziato il flagello del 1720. Quand’esso scoppiò, nostro Signore le indicò il rimedio nella divozione al suo sacro Cuore. Ammenda onorevole e consacrazione furono fatte da Mons. di Belsunce, in mezzo alle lagrime ed ai singhiozzi di tutto un popolo; un decreto stabilì la festa per l’anno seguente. La peste cessò. Nel 1722 essa riapparve. Questa volta i magistrati stessi fecero il voto solenne di festeggiare ormai il sacro Cuore con Messa, comunione, omaggi e processione solenne. Altre città, colpite o minacciate, ricorsero pure al sacro Cuore: Aix, Arles, Tolone. Fu una supplica generale. Così la divozione diveniva popolare.

LO SCUDO DELLA FEDE (230)

LO SCUDO DELLA FEDE (230)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (4)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

LA MESSA

PARTE I

LA PREPARAZIONE

CAPO II

Art. 1

SACRE VESTI.

L’Amitto

Segnasi col segno di croce per porsi, dirò, sotto la croce come sotto l’albero della salute, e venire protetto dall’ombra sua, come colui, che allo scoperto non reggerebbe di presentarsi alla Divinità. Poi impone l’amitto sopra il capo. Come gli antichi guerrieri mettevansi l’elmo in capo, e della gorgiera, di che l’elmo era fregiato, si coprivano a difesa il collo intorno, così dell’Amitto, scopresi il capo, il collo, e lo stende giù per le spalle e sul petto (Rub. Miss. Præp.). L’amitto è un misterioso velo, che significa il Sacerdote dovere solo per Dio riservare gli affetti del cuore, a Lui interamente consacrato, anzi coprirsi come d’un velo il capo, la bocca, il petto, perché niente di guasto, di vano, di falso abbia da offendere colui che è chiamato sul santo Monte a conversare con Dio (Bona, Trac. ant. de Missa., Bened. XIV, De sac. Missæ). L’uomo, così posto al sicuro dagli attacchi del mondo, alza il capo, il cuore, la voce, per combattere le battaglie del Signore, forte per l’armatura della fede, di che risplende terribile al nemico di Dio e degli uomini. Così il Sacerdote resta il capitano della crociata di Dio. Ecco ragione della guerra eterna dell’inferno e de’ suoi contro i Sacerdoti. Bene sta: quando si fa guerra al re, sono i guerrieri, che stan per lui, che ne ricevono i colpi della vita. Il Sacerdote dice perciò mettendosi l’amitto: « imponi, o Signore, al mio capo l’elmo della salute per combattere gli assalti diabolici. » Mai non è da dimenticarsi, che il Sacerdote non solo sacrifica in nome di Gesù Cristo, ma anche lo rappresenta; perché il suo sacerdozio è uno con quello del gran Pontefice eterno Gesù Cristo, il quale è pur la gran Vittima ad un tempo. Il perché il Sacerdote rappresenta Gesù come sacrificatore, e rende immagine di Gesù Cristo come vittima (Durandus Minut. Ep. Ration., div. off. lib. 3, cap. 4.). – Perciò giova qui avvisare, che dopo le altre significazioni simboliche e morali, noi toccheremo delle significazioni, che riguardano Gesù Cristo direttamente; fra le quali una è questa, che l’amitto significa il velo, col quale i Giudei bendarono gli occhi a Gesù, quando gli scaricarono sul volto benedetto quegli orrendi schiaffi, dicendo: « Indovina chi ti ha percosso, o Profeta da burla (Manzi loco cit.). » L’Amitto significa pure la corona di Spine, egualmente che la santa umanità, di che velò sulla terra la sua divina persona (Bona loc. cit. Manzi Del vero ecclesiastico).

Il Camice.

Ecco il bianchissimo camice (alba), simbolo dell’umana natura purificata nel Sangue dell’Agnello immacolato Gesù (Card. Bona trac. an. de Missa.). Il battesimo, la penitenza, poi le sante lagrime, la compunzione e tutti i mezzi di santificazione mirano qui, cioè a riparare i guasti fatti dal peccato nelle anime nostre, ed a restituirle nell’originale giustizia e santità; affinché, purificati per i meriti di Gesù Cristo, compiamo la nostra destinazione, che è questa, di poter giungere ad essere beati in seno a Dio. Dice perciò nell’atto di vestire il Camice: « Lavatemi, o Signore, e mondate il mio cuore, affinché, reso candido nel Sangue dell’Agnello, possa fruire dei gaudi sempiterni. » – Ecco adunque il Sacerdote vestito tutto di bianco, che significa l’uomo dover essere purificato delle braccia, perché si affretti a lavorare a gloria di Dio, e deporre della sua vita continue offerte sull’Altare, che arde in cielo innanzi al trono dell’Eccelso; purificato delle ginocchia, e fatto degno di prostrarsi innanzi all’altare, a presentare all’Altissimo ossequiosa adorazione; purificato dei piedi, affinché cammini diritto sul sentiero della legge divina, sull’orme segnate dall’Uomo-Dio; purificato del petto e di tutta la persona, perché, ricreato in santità, sia degno d’essere assorto in Dio (Idem. Amalarius Ben. XIV, loc. cit. Rupertus Abba. Tuil. de div. off. lib. I, cap. 20. De Alba Hug. Card. in Apocal. cap. 2, I. Durand. loc. cit.). – Il Camice significa anche la veste di Cristo, con che Erode lo vesti per ischerno per farsi trastullo di lui come d’uomo pazzo (Manzi loc. cit.). Bene sta; una vita monda che piace a Dio, è stoltezza agli occhi di coloro, che s’involgono nel fango d’ogni lordura, qui sulla terra. Ahì disgraziati! hanno bruttato in sé la santa immagine di Dio, perciò, senza pure volerlo, sentono ribrezzo di presentarsi a Dio, e per non sentire i lamenti della coscienza, che latra, gridano allegramente: « godiamo, godiamo l’istante presente; » e con brama infocata si ingolfano nei vizi, cercando furiosi nelle soddisfazioni della carne la felicità, che sola si trova in Dio; carnefici della propria pace, ché per andamenti sozzi di vita e mper opere dissolute, diventano feccia e scolatura d’ogni ribalderia, e sì gettano miseramente a disperazione!

Il Cingolo.

Poi il Sacerdote si stringe la vita col Cingolo, che significa l’angelica virtù della purità (Miss. Rubr. de præpar. Miss.), che rende la carne nostra degna di Dio: e, « cingetemi, o Signore, ei dice, col cingolo della purità ed estinguete nella mia carne l’umore della libidine, affinché rimanga in me la virtù della continenza e della castità. » Il voto della castità sposa a Dio il Sacerdote che ha giurato di volere i suoi affetti purificati (Bona Durand. Rutio div. off. lib. 3, cap. 3 De Alba Petrus Bles. Barhon Arcid. cit. 40.) tutti a Lui consacrare, e le sue delizie cercare in Lui solo; ed il Cingolo significa questo legame di caste nozze divine. Come i buoni fedeli appendono quei loro voti d’argento con belli nastri e gala intorno alle immagini care alla divozione dei popoli; così questo Cingolo appunto appende come un voto purissimo all’altare, a piè del Crocefisso, la persona devota e consacrata a Dio, e legata a Gesù unico oggetto delle sue tenerezze di Paradiso (Ben. XIV loc. cit.): e rappresenta pure i vincoli, che legarono Gesù nell’Orto. In tal modo il Sacerdote si lega, e va ad offrirsi con Gesù sull’Altare.

Il Manipolo.

Stende quindi il braccio sinistro a ricevere il Manipolo, e bacia sopra esso la croce. Questo era forse anticamente una pezzuola, di che i fervorosi nostri antichi Padri si asciugavano le lagrime, senza cui non potevano mai celebrare così santi Misteri. Sembra pure che il Manipolo servisse come di un pannolino per astergersi (Alcuinus De div. off. c. quid. signif. vestim.), e presentare con garbo e pulitezza sull’altare i santi vasi al Suddiacono affidati. Esso, colla croce che porta, significa la vita presente, in cui la nostra miglior porzione sono le lagrime ed i travagli, che Gesù ci comparte (Id. Rub. Miss. de præp.). La terra è un esilio per noi creati pel paradiso; la vita è un tempo di prova, e sono meriti di vita eterna le tribolazioni della vita presente. Verrà tempo, e non è lontano, quando sarà per noi gran fortuna l’aver avuto da soffrire con Gesù Crocifisso. Mieteremo allora in gaudio per l’eternità ciò che abbiam seminato lagrimando nel tempo (Duran. Ruper. ab Bona. Psal. CXXV.). Noi adunque, finché siam confinati qui sulla terra, siamo in bando, in pressura, in catene; ed il braccio sinistro, a cui si lega il Manipolo, significa la carne umana; che tiene legata la nostra persona colla terra, in cui dobbiamo espiare le nostre colpe coi patimenti (Ben. XIV loc. cit.). E siccome il Manipolo rappresenta anche la corda, che teneva avvinto alla colonna il benedetto Gesù, mentre Egli sopportava quella tempesta di battiture (Durandus, loc. cit.), ed eziandio la sua santa umanità, per cui restava Egli legato al mondo e soggetto ai patimenti; noi così con Gesù Cristo legati alla terra soffriamo, Lui fissando lassù in cielo dove godremo la vera libertà dei figliuoli di Dio, e diciam flagellati con Gesù Cristo, come il Sacerdote nello stendere il braccio, a cui si stringe il Manipolo: « fatemi degno, o Signore, di portare il Manipolo del pianto, e del dolore, perché con esultanza riceva la grande mercede eterna, che la vostra misericordia ai brevi travagli di questa povera vita apparecchia in paradiso; » e baciamo la mano, che ci manda le croci, e ci santifica i patimenti.

La Stola.

Così l’uom di Dio rinnovellato alla vita in Gesù Cristo, con Lui preparato a combattere la battaglia del Signore, e durarla da forte sotto il peso della tribolazione, pone sul collo segnato di croce la Stola. La Stola esprime il terzo vincolo, col quale fu legato Gesù, quando portava la croce. Essa è un dignitoso ornamento di autorità che si adopera nel presentarsi alle più importanti funzioni: significa la veste dell’immortalità, che, perduta pel peccato del primo Padre, riacquistiamo nei meriti di Gesù Cristo. Adunque, dove nell’anima nostra, spogliata della grazia che la rendeva degna di vita eterna, sovrabbondò il peccato, e del peccato fu stipendio la morte, ora la giustizia di Gesù Cristo, cancellando la nostra ingiustizia, fa che nell’anima nostra sovrabbondi la grazia (Ad Rom. V, 20.); e questa grazia è pegno di vita immortale. La Stola di color vario secondo il variare della solennità d’ogni dì, e splendida di oro e fino brillante di gemme, significa la veste dell’immortale gloria, che in cielo ricorda i vari meriti dei beati. Chi visse vita angelica in carne qui, vestirà il candor degli Angeli in cielo; e belli della luce del color di mite viola di paradiso saranno gli umili e i penitenti: splendidi i martiri dello splendor del Sangue divino: e le anime grandi in carità ricche in quella gloria della stola d’oro del regno dell’immortalità. Tutto questo viene significato dal nobile arredo, che è la ricca Stola, di che si adorna il Sacerdote dicendo: « rendetemi, o Signore, la Stola l’immortalità, affinché, quantunque indegno m’accosti al vostro santo Ministero, meriti pure il sempiterno gaudio ». Qui giova osservare il bel rito, con cui il Sacerdote compone la Stola sulla sua persona. Prende adunque egli questa, che significa la veste dell’immortalità infiorata di tutte virtù, che hanno da render risplendente l’anima nostra eternamente in paradiso, e la indossa formando con essa stretta sul petto una Croce, per farci intendere, che la virtù negli uomini è sincera e sicura solo, quando è saldata nella Croce di Gesù Cristo. Lo possiamo dire francamente: abbiamo diciotto secoli di prove, e sappiamo dalla storia di molte migliaia d’uomini che, chi guarda il Crocifisso, e lo medita, e vi si raccomanda, sotto la Croce di Gesù Cristo, si sente venire giù sull’anima da quelle piaghe santissime un balsamo, che guarisce le due piaghe eterne del cuore degli uomini; la piaga dell’orgoglio vile, e della voluttà schifosa; ma, chi volge le spalle al Crocifisso, con tutta la filosofia in corpo, resta pur sempre l’uomo dell’orgogli o vile e della voluttà schifosa. Non vi è adunque altro me a salvarci, fuorché unirci a portar la croce con Gesù Cristo, obbedienti insieme con Lui fino alla morte (Rub. Miss. praep. Bona, Durand. Ben. XIV loc. cit.) crocifiggendo la propria carne, serbarci immacolati dalle sozzure di questo secolo. Col cingolo ferma al fianco la Stola, il che pare voglia esprimere, che tutte virtù stanno in sesto, massime nei Sacerdoti, e risplendono come i più belli ornamenti agli occhi di Dio e degli uomini, finché campeggiano sopra di una vita monda. Che se d’una carne rinata nel Sangue di Gesù Cristo si fa vitupero di brutto peccato, allora si rompe il legame, che la unisce a Gesù e la compone a santità: e come nel vestimento sacerdotale, rotto il cingolo, cade giù a penzolone dalla persona in disonesto modo ogni adornamento, così, rotta al mal costume la vita, che deve essere santa, cade tutto in disordine vituperevole: lasciandosi poi andare l’uomo ai desideri d’una carne corrotta in fracido di snervamento dell’anima e del corpo, anche il lustro della virtù che sì possedeva, serve a rendere più disonorevoli e più deformi i disordini di una vita vituperata. Il Sacerdote velato dell’amitto, di candida veste interamente coperto, stretto dal cingolo al fianco, col manipolo legato al braccio, adorno della stola, colla croce sul petto, rappresenta l’uomo ricreato in Gesù Cristo, e rigenerato nello Spirito Santo alle opere di vita eterna.

La Pianeta.

Or ecco che veste la Pianeta; che significa la veste nuziale, colla quale solo è permesso comparire ad aver parte al gran convito per noi preparato da Dio (Innoc. INI, Ben. XIV, et Bona De Missa ei Durandus loc. cit.). E la veste nuziale è la carità, la quale colla sua forza e soavità rende leggiero il giogo di Dio (Rubrica Miss.). La Pianeta ha la croce dinanzi, che l’occupa tutta: perché, quando Gesù Cristo s’addossò la croce, coprì colla sua carità la moltitudine dei nostri peccati. La Pianeta significa anche la tunica inconsutile del Salvatore, che fu giocata ai dadi ai piè della Croce (Durand. loc. cit.). La bontà del Redentore per noi ha lasciato che gli giocassero fin l’ultimo de’ cenci che lo coprivano: così dava proprio tutto per noi! Ora il Sacerdote che rappresenta la Chiesa, la prende come il regal vestimento, che convien alla Sposa del Re divino, che ha dato per lei fino la vita (S. Laurentius Justin. lig. Visa de Car.). Perciò il Sacerdote, della Pianeta ricoperto nella persona, ci rappresenta Gesù Cristo, che porta nella Croce il peso delle nostre iniquità (Bona loc. cit.). Colla carità di Gesù Cristo confida di portare con costanza il peso del suo ministero, ed il caro giogo della legge di Dio; dice adunque in atto d’indossarsela, « O Signore, che avete detto: Il mio giogo è soave, ed il mio peso è leggero, fate che io così portar lo possa da meritarmi la vostra grazia. » Così il santo ministro, immediatamente a Cristo congiunto per l’unione dell’immortal Sacerdozio, che Gesù continua in Cielo, e cui esso Sacerdote come suo strumento esercita in terra, deve sempre ardere di quella carità, che in Dio sfavilla uguale ed eterna; la cui figura in terra nella legge antica si aveva in quel fuoco perpetuo, che doveva ardere sull’altare degli olocausti, per bruciarvi il grasso delle ostie pacifiche; il quale fuoco veniva mantenuto dal Sacerdote col porvi ogni mattina le legna (Lev. 6, 12, 13). Ora Cristo accese sulla terra la carità, fuoco spirituale, da quel materiale significato; e il Sacerdote ha da mantenerlo colle legna (chi nol vede?) della Santa Croce, di cui egli ha misticamente caricatala sua persona, e sulle quali rinnova egli ogni mattina il gran sacrificio dell’altare; il qual fuoco della carità donde ha da poter venire, se non dal cielo? Questo indicavano le fiamme, che, cadute nella legge antica di cielo, consumavano i sacrifizi. Ecco adunque il principio e la fonte inesauribile di quella vita di carità, che rende immortale, sempre attivo è più potente della morte, il Cattolicismo; voglio dire il sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, che si consuma vero olocausto dal Sacerdote in un incendio di carità divina. Così egli è pronto all’azione tremenda, questo uomo di Dio. Ha il segno della corona di spine sul capo, la croce sul petto, la croce sulle spalle, la croce sul braccio; la croce sull’uno e sull’altro fianco, le mani piene di sacri crismi, che ricordano le mani piene di Sangue di Gesù Crocifisso, vero rappresentante di Cristo, il sacerdote misticamente con Lui crocifisso; come Gesù si avviava al Calvario portando la croce, egli, recando gli arredi, coì mezzi quali vuole compiere il gran sacrificio, va all’altare.