LO SCUDO DELLA FEDE (133)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

(Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884)

PARTE SECONDA

CAPO XII.

I martiri più moderni mostrano la verità della Chiesa Romana.

I. Quei ladri cui non riesce l’arte di fabbricare monete false, si riducono in fine a rubar le vere. Di tale schiatta appariscono i novatori. Questi, dappoi di avere tentato in vano d’incoronar come martiri uomini di vita infamissima, che per l’ostinazione mostrata in morte son degni di supplizio, non di trionfo; tentano di togliere alla Chiesa cattolica i veri martiri, con asserir bestemmiando, che quel sangue sì bello, sparso ne’ primi secoli in tanta copia, conferma la loro pretesa riformazione. – In udir ciò, mi sovviene di quella pazza bestialità di Caligola, che mandò a troncare il capo di Giove Olimpico, e collocarlo sul busto di una sua statua, per apparire un nume in terra chi folle non arrivava ad esservi neppur uomo. Anche i novatori, per dare alla loro perfidia qualche ombra di religione, osano di affermare, sé, e non i Cattolici, essere i successori di quegli antichi Cristiani i quali fiorirono ai primi secoli della Chiesa nascente con tanta gloria; e così ancora, sé essere i veri eredi del loro spirito e della loro santità. Parvi, che un capo d’oro di tanta carità, qual fu quella de’ sacri martiri, uomini per lo più sì mortificati, prima che morti, stia bene ad un tronco di vita epicurea, qual è quella dei novatori, uomini sì nemici della castità, dell’astinenza, dell’austerità, della penitenza cristiana, che per larva han la croce, e il ventre per idolo? Inimicos crucis Christi, quorum Deus venter est (Philip. III. 18).

II. Ma poniam da banda i rimproveri, a niuno discari più, che a chi più li merita; e se i traviati non vogliono lasciarsi ridur da noi sulla buona via, non ci lasciamo almanco noi deviare dai traviati. Avranno questi forse animo di affermare, che loro siano i martiri più moderni? E come dunque volersi arrogar gli antichi, se tra gli uni e gli altri non solamente non v’è differenza alcuna, ma v’è anzi una somma conformità? (Io non ho mai potuto comprendere il perché i novatori ed i riformati ci parlino di martirio essi, che hanno pronunciato bastare la fede essa sola senza lo opere. Se a salvarmi occorre sol questo, che io creda interiormente alla parola di Dio, non è egli un dar calci alla logica il sostenere, che il martirio è una virtù cristiana, che argomenta la divinità della Religione cristiana? 0 forsechè il martirio non è un atto religioso esteriore, anzi il più sublime tra gli atti Cristiani?).

III. Chi si ponesse a sostenere, che in Roma l’antica architettura sì sia perduta, non si potrebbe convincere in miglior guisa che con alzare le piante delle moderne fabbriche, e confrontarle alle regole dell’antiche: perché, mentre sì nell’une, sì nell’altre apparissero espressamente i medesimi ornamenti, le medesime proporzioni, converrebbe di necessità confessar, che regna oggi in Roma la medesima arte di piantar fabbriche che vi regnò anticamente. All’istessa forma, mentre quelle moli eccelsissime di virtù, quali sono i martiri, si veggono alzate con una simmetria somigliante, sì negli andati secoli, sì ne’ nostri, converrà dire, che nella Chiesa Cattolica v’è un artefice stesso che le lavora, cioè lo Spirito Santo; e v’è un’arte stessa di lavorarle, che è la sua grazia. Però a restrignerci discorriamo così.

IV. Due cose si richieggono a un vero martire: la pena da lui sopportata, e le virtù praticate nel sopportarla (S. Th. 2. 2. q. 123. a. 1). Ora, a cominciar dalla pena: se andiamo in quel teatro di crudeltà che a’ nostri giorni ha tenuto aperto il Giappone, e lo tiene ancora; troveremo che i martiri di quella chiesa cedono, è vero, in questo ai martiri antichi, che non tutti sono ancora riconosciuti autenticamente per tali dalla santa Chiesa Romana, a cui tocca ammetterli: onde sol si chiamano martiri per usanza, cioè secondo il modo comune di favellare che hanno i Cattolici, avvezzi, fino da’ primi tempi, a conferire l’onore di si gran titolo a tutti coloro, cui, se fu levata la vita, fu verisimilmente levata in odio della fede di Cristo da lor protetta: che sarà il senso qui ancor seguito da noi. Del rimanente, nell’acerbità de’ tormenti la novella cristianità giapponese, più che verun’altra nazione, è ita d’appresso a’ primi eroi della cristianità già nascente: senonchè, se della giapponese mi piace di ragionare, ancora più e delle altre, è perché di questa son testimoni in buona parte gli olandesi medesimi, cioè gli eretici odierni, ne’ diari di là trasmessi in Europa: onde non si potrà sospettare d’una verità che è confermata fin dagli stessi avversari su’ loro fogli volanti.

I .

V. Dirò pertanto che il pestare la vita con le mazze ai nuovi Cristiani, il viso co’ piedi, il decapitare, il dimembrare, l’immergere nelle carni ferri roventi, lo stirare sulle cataste, il sospendere sulle croci, come tormenti volgari furono quivi disusati ben tosto da quei crudeli, affin di sostituirne dei più tremendi, quali poi furono l’ardere a fuoco lento in più ore quei generosi confessori di Cristo, affinché si consumassero a poco a poco; strappare loro con tenaglie la pelle, le membrane, i muscoli, i nervi, e dipoi così spolpati reciderli a pezzo a pezzo con coltellacci male affilati; tenerli appesi per più giorni dai piedi legati in alto, e col capo pendente dentro una fossa; segare ogni dì loro il collo interrottamente con una canna, per lo spazio talor di una settimana; sommergerli a parte a parte nell’acque bollentissime del monte TJngen, e poi levarli, perché marcissero vivi, e poi tornare a sommergerli già marciti. E perché la morte, quantunque così stentata, parca pur troppo veloce all’insaziabile crudeltà di quei fieri persecutori, scacciarli alla campagna su ‘l cuor del verno, che là stride orrendissimo, in dì nevosi, e scacciarveli ignudi, o al più coperti di alcune lacere stuoie che loro talor lasciavano per decenza, senza altro cibo che di quelle radiche amare le quali si raccogliessero in tanto ghiaccio; senza fuoco, senza tetto, senza tugurio, mercé le guardie d’intorno, che loro divietavano ogni riparo; sicché le povere madri eran ridotte ad ammassare i lor teneri figliuoletti sopra il terreno, e coprirli d’ erbe, mentre bene spesso erano tanti, che non potevano stringerli tutti al seno. E v’ha chi rimembrasi di aver mai lette in altre istorie maniere di tormentare più ree di queste?

VI. Ecco però, che nella pena non sono i moderni eroi del Giappone inferiori agli eroi degli antichi secoli. Passiamo ora alle virtù, o cagioni, o compagne di tanta pena. La corona magnifica del martirio è composta di quattro gioie del paradiso, cioè di quattro segnalate virtù, di fortezza e di pazienza nell’atto che si chiama imperato, di carità e di fede nell’imperante (S. Th. 2. 2. q. 124. a.2. ad 2). Ora per conoscer più chiara la fortezza e la pazienza di simili giapponesi, sarà buon consiglio lasciare da parte gli uomini, e favellare sol delle femmine e de’ fanciulli, in cui tali virtù appariranno tanto più prodigiose, quanto più superiori alla lor natura. La fortezza naturale richiede in prima una robustezza di membra proporzionate, e così ancor la pazienza: onde il corpo ben formato in sé, e risentito ne’ muscoli; l’età di mezzo tra la gioventù e la vecchiaia; il temperamento misto di bile e di flemma, sogliono darsi per contrassegni di prode e di poderoso. Molto alla natura anche aggiunge l’educazione; molto anche l’abito; onde riescono più forti i soldati veterani, che i nuovi: e più pazienti quei che sono allevati sulle montagne ai rigori della stagione, di quei che al piano vissero lungamente tra gli agi e tra l’abbondanza delle loro coltivazioni domestiche.

VII. Pertanto chi più lontano dalla fortezza nell’incontrare i pericoli, che una debole femminella, la quale per nessuno di questi capi può mai sperare un’indole superiore al sesso donnesco? Mulierem fortem quis inveniet? E chi ancor più lontano dalla pazienza nel sostenerli  L’istesso dicasi a proporzione dei teneri pargoletti che per l’età appena sono abili a divisare altro bene che il dilettevole, non che a preferire l’onesto (che è un bene riposto di là da’ sensi) a qualunque bene sensibile, e a preferirvelo in faccia a mille spietate carneficine. E tuttavia, perché scorgasi, che la virtù de’ Cristiani perseguitati non nasce nelle miniere della natura, ma della grazia, le femmine ed i fanciulli hanno dati, come ne’ secoli primi, cosi anche in questi, esempi di costanza i più segnalati che mai si udissero al mondo. Non mi permette la brevità di far che accennare in poche parole fatti sì ampli, che soli meriterebbonsi un gran volume: e ben anche l’hanno, mentre v’è chi con pari e pietà di spirito e perizia di stile gli trasse a luce.

VIII. Vi ha memoria di una Tecla arsa viva, con cinque suoi fìgliuolini intorno di lei, ed uno dentro di lei, mentre ne era incinta (Bart. p. 2): v’è dico memoria, che giunta al luogo del supplizio, trasse fuori un bell’abito tutto nuovo, e se ne vesti in segno di festa, e acceso il fuoco, mentre cosi struggevasi lentamente, rasciugava le lagrime ad una sua bambina di tre anni che agonizzante tenevasi in sulle braccia, e la confortava con la speranza della gloria celeste già già vicina. Una povera donna vendé una cintola, per potere col prezzo d’essa comperarsi un palo, a cui legata ardesse viva per Cristo (P. 1). Un’altra si addestrava a star forte, col prendere spesso in mano ferri roventi, con che giunse in fine ad ottenerlo, morendo anch’ella lentamente nel fuoco (P. 2). Una madre scoperse a’ persecutori una piccola sua figliuolina, perché morisse seco qual cristiana ed un’altra avvisata della sentenza già data contro di lei, fe’ coi suoi di casa una piccola processione, cantando intorno intorno inni di lode al Signore per ringraziarlo (P. 2). Una scrisse frettolosamente al marito da sé lontano invitandolo a morir seco (P. 1). Un’ altra diede al tiranno una supplica, e in essa le ragioni del non dover venire esclusa sola lei dalla morte, che in fine ella consegui (P. 1): ed una, veggendosi ucciso a un tratto il marito, corse dietro ai carnefici, addimandando una simil grazia per sé che gli era consorte, come nel talamo, cosi, e ancora più, nella fede (P. 2. p. 59).

IX. Non differente dalla generosità delle madri fu quella dei pargoletti. Un fanciullo di nove anni, corse dove poteva essere decollato, e si levò da sé le vesti dal collo, per porgerlo nudo al taglio (P. 1). Una fanciulletta d’otto anni, non potendo andare da sé, come cieca affatto, si afferrò stretta alla madre, e con essa pervenne a morir bruciata (P. 2). Uno di anni tredici finse di averne quindici per entrare nel ruolo dei condannati (P. 2. p. 503). Due fanciulli, sentenziati a morire, si misero dolcemente a consolare la vecchia zia, che essi credevano piangere di tristezza, mentre piangeva d’invidia da lei portata a chi moriva per Cristo (P. 1). Un altro di dodici anni brillò di giubilo in sulla croce, né sol brillò, ma si commosse più che poté con le gambe, come se bramasse ballarvi (P. 1). E perché il coraggio più che mai si riconosce ai pericoli repentini, chiudiamo con questo solo quello che rimarrebbemi ancora a dir di meraviglioso. Uno di cinque anni svegliato (mentre egli più soavemente dormiva) perché venisse al supplizio; senza smarrirsi chiese di subito i suoi panni di festa, e vestitosi prestamente, fu sulle braccia del carnefice stesso portato al luogo della decollazione a lui destinata: dove inginocchiatosi vicino al padre, poco fa tagliato in più pezzi, con le mani giunte, e con gli occhi levati al cielo, aspettò il colpo con un atto si generoso che il manigoldo, vinto dalla pietà, rimise in fine la scimitarra nel fodero; e perché il figliuolo, che s’era da se stesso spogliato dal mezzo in su, stava pur tuttora aspettando chi il decollasse, ottenne al fine la grazia da uno, che mal esperto non seppe né anche farlo in un colpo solo, forse perché si ammirasse più la costanza di quel bambino che seppe quivi stare imperterrito fino al terzo che lo fini (P. 1).

X. Come poi ir fuoco interiore d’una fornace comprendesi agevolmente dalle vampe accese che l’escono dalla bocca; così dalla intrepidezza del volto, dalla generosità delle parole, dalla grandezza de’ portamenti, con cui furon usi di accompagnare il loro trionfo questi che abbiam rammentati, ed altri lor simili, agevol cosa ci sarà di comprendere ancora quello che lor bolliva nel profondo del seno, cioè la fede e la carità che servivan loro di anima ad una morte sì coraggiosa; onde non resti neppur minimo luogo da dubitare, se nella cristianità giapponese abbiano i suoi fedeli imitata assai da vicino la virtù di quei grandi martiri primitivi che diedero loro norma.

II.

XI. Che diran pertanto gli eretici a queste cose? Negheran forse qualunque credito ai fatti da me narrati? Ma come, se in parte ne furon essi medesimi spettatori? Ed oltre a ciò, sono tali fatti riferiti da altri uomini di virtù tanto singolari, che per tutto quell’oro che è mai venuto sulle flotte di Olanda non s’idurrebbono a mentir lievissimamente, non che a mentire sacrilegamente in materia di religione, con rendersi però degni del fuoco eterno. Diranno, che questa intrepidezza era per verità da natura indomita, qual da noi fu notata ne’ donatisti? Ma come, se tale intrepidezza trovavasi in donne, in donzellette, e in garzoncelli, tutti innocenti, né si era trovata mai prima che tra lor s’inoltrasse la fede romana? Se questi eroi giapponesi fossero stati di quella tempra, di cui era formato quel Fermo imperadore di Roma (Vopiscus in Firmo), che prosteso sopra il terreno poteva sostenere sul petto ignudo un’incudine martellata con braccia robustissime da due fabbri, confesserei, che la tara avrebbe qualche apparenza di verità. Ma qual apparenza può averne, dove sappiam che le femmine e che i fanciulli son si cascanti, che crollano a qualunque urto, e svengono alla vista dell’altrui sangue, non che del proprio? Quei cuori dunque che non sostengono di mirare senza orrore le piaghe di un ferito, benché trattate delicatissimamente da mano medica, avran poi potuto naturalmente esultare in faccia ai tiranni, e vincere con la fermezza della loro tolleranza, la ferocità de’ loro tormentatori?

XII. Diranno, che non tutti riuscirono di costanza sì prodigiosa: ma che, se molti ressero al furore di tante persecuzioni, molti anche caddero. Sì: ma questo parimente addivenne nei tempi antichi: tanto che il numero de’ caduti costrinse i concili a formare più canoni intorno ad essi, come specialmente apparisce da s. Cipriano (L. 1. ep. 2. et 1. 3. ep. 14. 15. 16. 17. 19). Senzachè ci viene ciò di vantaggio a manifestare, che la costanza ne’ martiri è dalla grazia: onde chi manchi alla medesima grazia, rimane in fine spogliato di tal costanza, data dall’alto a guisa di vestimento che si pone a un tratto e si leva: Donec induamini virtute ex alto (Luc. XXIV, 49). E a questo fine permette Iddio le cadute, perché non attribuiscasi alla natura ciò che appartiene alla grazia, qual suo favore. Se la luna fosse piena sempre ad un modo, potrebbe credersi, che ella avesse in sé la sorgente della sua luce: ma mentre mirasi ad ora ad ora mancante, si fa palese, che quel bellissimo argento di cui si veste, non è dalle miniere a lei nate in casa; è dono del sole, o è piuttosto un imprestito fatto a tempo.

XIII. Finalmente, come un vero prodigio, quantunque solo, basterebbe a provare la verità della Religione romana; così basterebbe a provarla anche un vero martire, come quegli che non è per certo un prodigio minor degli altri, anzi di gran lunga è maggiore (Potrebbe dirsi della divinità di nostra religione ciò stesso, che della verità in generale. In quella guisa che un Vero anche solo sarebbe sufficiente a dimostrare l’insussistenza dello scetticismo, così un martire, fosse pur solo, varrebbe contro l’incredulo, o l’eretico, che impugnano la divinità del Cattolicismo.). Ora chi si avviserà, che fra tanti, di cui la Chiesa medesima ne ha modernamente colmi i suoi fasti, non se ne trovi neppur uno di vero? Sarà dunque possibile che ai Cattolici solamente riesca di fingerne innumerabili, mentre alle sette non è riuscito di fingerne mai veruno che non soggiaccia alla sua eccezione evidente? Non accade però, per non confessare l’indubitato, concedere l’impossibile. Ma questo appunto è ciò che tanto vien da me detestato in questi protervi increduli; voler i miseri faticar più per mantenere la loro incredulità, di quel che faticherebbero per deporla.

XIV. Rendansi dunque tutti alla verità conosciuta, da che più glorioso è il cederle prontamente, che il contrariarla; e si concluda, che come la vera Chiesa è stata in tutti i secoli adorna di nuovi prodigi, così in tutti i secoli è stata parimente arricchita di nuovi martiri (V. Boz. 1. 7. sig. 27): la continuazione de’ quali è tanto illustre argomento di verità, che siccome non è mai restata interrotta fino a quest’ora, così né  anche dovrà restare interrotta d’ora innanzi, ma piuttosto accresciuta ove ciò fia d’uopo, conforme appunto si è veduto seguir questi ultimi tempi, quando avendo più che mai l’eresia procurato di porre a fondo la navicella di Pietro, è accorsa la provvidenza a sostenerla anche più, con possente braccio. Nel resto fra tanti i quali si leggono ne’ moderni annali aver data la loro vita animosamente per la fede cristiana, chi sono più? I Cattolici, o riformati? Che dissi più? Neppur uno de’ riformati potrà contarvisi. Vengano pur essi dunque, e si arroghino, se si può, quello che è sì chiaro esser nostro.

FINE DEL SECONDO VOLUME.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.