DOMENICA XX DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XX DOPO PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Le lezioni dell’Ufficio divino in questo tempo sono spesso ricavate dai libri dei Maccabei. Dopo la cattività di Babilonia, il popolo era ritornato a Gerusalemme e vi aveva ricostruito il Tempio. Ma lo stesso popolo ben presto fu di nuovo punito da Dio perché  gli era stato nuovamente infedele: Antioco Epifane s’impadronì di Gerusalemme e saccheggiò il Tempio, quindi pubblicò un editto che proibiva in ogni luogo la professione della religione giudaica. Furono allora da per tutto eretti altari agli idoli e il numero degli apostati crebbe in guisa che sembrò che la fede di Abramo, Mosè e Israele dovesse scomparire. Dio suscitò allora degli eroi: un sacerdote, chiamato Mathathia raccolse tutti coloro che erano ancora animati da zelo per la legge e per il culto dell’Alleanza e designò suo figlio Giuda Maccabeo come capo della milizia, che suscitò per rivendicare i diritti del vero Dio. E Giuda col suo piccolo esercito combatté con gioia i combattimenti di Israele. Nella battaglia era simile ad un giovane leone, che ruggisce sulla sua preda. Sterminò tutti gli infedeli, mise in fuga il grande esercito di Antioco e ristabilì il culto a Gerusalemme. Animati dallo spirito divino i Maccabei riconquistarono il loro paese e salvarono l’anima del loro popolo. « Le sacrileghe superstizioni della Gentilità, disse S. Agostino, avevano insozzato il tempio stesso; ma questo fu purificato da tutte le profanazioni dell’idolatria dal valoroso capitano, Giuda Maccabeo, vincitore dei generali di Antioco » (2a Domenica di ottobre, 2° Notturno). – « Alcuni, commenta S. Ambrogio, sono accesi dal desiderio della gloria delle armi e mettono sopra ogni cosa il valore guerresco. Quale non fu mai la prodezza di Giosuè, che in una sola battaglia fece prigionieri cinque re! Gedeone con trecento uomini trionfò di un esercito numeroso; Gionata, ancora adolescente, si distinse per fatti d’arme gloriosi. Che dire dei Maccabei? Con tremila Ebrei vinsero quarantottomila Assiri. Apprezzate il valore di capitano quale Giuda Maccabeo da ciò che fece uno dei suoi soldati: Eleazaro aveva osservato un elefante più grande degli altri e coperto della gualdrappa regale, ne dedusse dover essere quello che portava il re. Corse dunque con tutte le forze precipitandosi in mezzo alla legione e sbarazzatosi anche dello scudo, si slanciò avanti combattendo e colpendo a destra e sinistra, finché ebbe raggiunto l’elefante; passando allora sotto a questo, Io trafisse con la sua spada. L’animale cadde dunque sopra Eleazaro che perì sotto il suo peso. Coperto più ancora che schiacciato dalla mole del corpo atterrato, fu seppellito nel suo trionfo » (la Domenica di ottobre, 2° Notturno). – Per stabilire un parallelo fra il Breviario e il Messale di questo giorno, possiamo osservare che, come i Maccabei, che erano guerrieri, si rivolsero a Dio per ottenere che la loro razza non perisse, ma che conservasse la sua religione e la sua fede nel Messia (e furono esauditi), cosi pure nel Vangelo è un ufficiale del re, che si rivolge a Cristo perché il suo figliuolo non muoia; egli con tutta la sua famiglia credette in Gesù, quando vide il miracolo compiuto in favore di suo figlio. Constatiamo inoltre che i Maccabei opponendosi agli uomini insensati che li circondavano, cercarono presso Dio luce e forza per conoscere la sua volontà in circostanze difficili (5° responsorio, Dom. 1° respons. del Lunedì) ed esauditi nel nome di Cristo che doveva nascere dalla loro stirpe, resero in seguito azioni di grazie nel Tempio, « benedicendo il Signore con inni e con lodi » (2° responsorio del Lunedi). – Cosi pure S. Paolo, nell’Epistola, parla di uomini saggi che, in tempi cattivi, cercano di conoscere la volontà di Dio e che, liberati dalla morte (f. 14 di questa Epistola) per la misericordia dell’Altissimo, gli rendono grazie in nome di Gesù Cristo, cantando inni e cantici. Tutti i canti della Messa esprimono anch’essi sentimenti simili in tutto a quelli dei Maccabei. « Signore, dice il 5° responsorio, i nostri occhi sono rivolti a te, affinché non abbiamo a perire » e il Graduale: « Tutti gli occhi si alzano con fede verso di te, o Signore ». il Salmo aggiunge: « Egli esaudirà le preghiere di coloro che lo temono, li salverà e perderà tutti i peccatori ». – « O Dio, canterò i tuoi gloriosi trionfi », dichiara l’Alleluia, e termina con queste parole: « Con Dio compiremo atti di coraggio ed Egli annienterà i nostri nemici ». L’Offertorio è un cantico di ringraziamento dopo la liberazione dalla cattività di Babilonia e la riedificazione di Gerusalemme e del suo Tempio. (Ciò che si rinnovò sotto i Maccabei). Il Salmo del Communio, che è il medesimo di quello del Versetto dell’Introito, ci mostra come Iddio benedica coloro che lo servono e venga loro in aiuto nelle afflizioni. L’Introito, finalmente, dopo aver riconosciuto che i castighi piombati sul popolo eletto sono dovuti alla sua infedeltà, domanda a Dio di glorificare il suo Nome, mostrando ai suoi la sua grande misericordia. – Facciamo nostri tutti questi pensieri. Riconoscendo che le nostre disgrazie hanno per origine la nostra infedeltà, uniformiamoci alla volontà divina (Intr.), domandiamo a Dio di lasciarsi commuovere, di perdonarci e di guarirci (Vangelo), affinché la sua Chiesa possa servirlo nella pace (Orazione). Poi, pieni di speranza nel soccorso divino e pieni di fede in Gesù Cristo riempiamoci dello Spirito Santo, che deve occupare tutta la nostra attenzione in questo tempo dopo la Pentecoste e nel nome del Signore Gesù cantiamo tutti insieme nei nostri templi Salmi alla gloria di Dio, che ci ha liberati dalla morte e che nei giorni difficili della fine del mondo (Epistola) libererà tutti coloro che hanno fede il Lui (Vangelo).

« Sorgi d’infra i morti, dice S. Paolo, e Cristo ti illuminerà » (v.14). Salvati dalla morte per opera dì Cristo, non prendiamo più parte alcuna alle opere delle tenebre (v. 11), ma viviamo come figli della luce (v. 8). Approfittiamo del tempo che ci è stato dato per fare la volontà di Dio. Non conosciamo altra ebbrezza che quella dello Spirito Santo e, uniti gli uni agli altri nell’amore di Gesù, rendiamo grazie al Padre, che ci ha liberati per mezzo del Figlio suo e che ci libererà nell’ultimo giorno ».

Gesù salvò dalla morte il figlio dell’ufficiale, per dare la vita della fede a lui ed a tutta la sua famiglia. Questo miracolo deve cooperare ad aumentare la nostra fede in Gesù, per opera del quale Dio ci ha liberati dalla febbre del peccato e dalla morte eterna, che ne è la conseguenza. « Quegli che chiedeva la guarigione del figlio, dice S. Gregorio, senza dubbio credeva, poiché era venuto a cercare Gesù, ma la sua fede era difettosa ed egli chiedeva la presenza corporale del Signore, che con la sua presenza spirituale si trova dappertutto. Se la sua fede fosse stata perfetta, avrebbe senza dubbio saputo, che non esiste luogo ove Dio non risieda; egli crede bensì che colui al quale si rivolge abbia il potere di guarire, ma non pensa che sia invisibilmente vicino al figlio che sta per morire. Ma il Signore, che egli supplica di venire, gli prova che è già presente là dove egli gli chiedeva di andare; e Colui che ha creato tutte le cose, rende la salute a questo malato col semplice suo comando. (Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Dan III: 31; 31:29; 31:35
Omnia, quæ fecísti nobis, Dómine, in vero judício fecísti, quia peccávimus tibi et mandátis tuis non obœdívimus: sed da glóriam nómini tuo, et fac nobíscum secúndum multitúdinem misericórdiæ tuæ.

[In  tutto quello che ci hai fatto, o Signore, hai agito con vera giustizia, perché noi peccammo contro di Te e non obbedimmo ai tuoi comandamenti: ma Tu dà gloria al tuo nome e fai a noi secondo l’immensità della tua misericordia.]
Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.

[Beati gli uomini di condotta íntegra: che procedono secondo la legge del Signore.]

Omnia, quæ fecísti nobis, Dómine, in vero judício fecísti, quia peccávimus tibi et mandátis tuis non oboedívimus: sed da glóriam nómini tuo, et fac nobíscum secúndum multitúdinem misericórdiæ tuæ.

[In  tutto quello che ci hai fatto, o Signore, hai agito con vera giustizia, perché noi peccammo contro di Te e non obbedimmo ai tuoi comandamenti: ma Tu dà gloria al tuo nome e fai a noi secondo l’immensità della tua misericordia.]

Oratio

Orémus.
Largíre, quǽsumus, Dómine, fidélibus tuis indulgéntiam placátus et pacem: ut páriter ab ómnibus mundéntur offénsis, et secúra tibi mente desérviant.
[Largisci placato, Te ne preghiamo, o Signore, il perdono e la pace ai tuoi fedeli: affinché siano mondati da tutti i peccati e Ti servano con tranquilla coscienza.]

Lectio

 Fratres: Vidéte, quómodo caute ambulétis: non quasi insipiéntes, sed ut sapiéntes, rediméntes tempus, quóniam dies mali sunt. Proptérea nolíte fíeri imprudéntes, sed intellegéntes, quae sit volúntas Dei. Et nolíte inebriári vino, in quo est luxúria: sed implémini Spíritu Sancto, loquéntes vobismetípsis in psalmis et hymnis et cánticis spirituálibus, cantántes et psalléntes in córdibus vestris Dómino: grátias agéntes semper pro ómnibus, in nómine Dómini nostri Jesu Christi, Deo et Patri. Subjecti ínvicem in timóre Christi.

(“Fratelli: Badate di camminare con circospezione, non da stolti, ma da prudenti, utilizzando il tempo, perché i giorni sono tristi. Perciò non siate sconsiderati, ma riflettete bene qual è la volontà di Dio. E non vogliate inebriarvi di vino, sorgente di dissolutezza, ma siate ripieni di Spirito Santo. Trattenetevi insieme con salmi e inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando coi vostri cuori, al Signore, ringraziando sempre d’ogni cosa Dio e Padre nel nome del Signor nostro Gesù Cristo. Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo.).”

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

LA PRUDENZA

S. Paolo aveva esortato gli Efesini a vivere come figli della luce, nella pratica delle buone opere, e a non seguire, anzi a riprovare le opere delle tenebre. Ora li esorta a diportarsi con prudenza, approfittando del tempo che ci è concesso per fare la volontà di Dio. Non devono provare altra ebbrezza che quella che viene dallo Spirito Santo: si radunino tutti assieme a lodare il Signore con i cantici sacri, rendendo grazie al Padre, nel nome di Gesù. L’ammonimento dell’Apostolo agli Efesini vale anche per noi, che dobbiamo, mediante la prudenza, virtù «che da pochi si osserva»,

1. Riflettere sulle nostre azioni,

2. Approfittare d’ogni circostanza per arricchirci di meriti

3. Allontanarci dalle occasioni.

1.

Badate di camminare con circospezione, non da stolti, ma da prudenti.

Qui è raccomandata la prudenza cristiana; la prudenza virtù cardinale, cioè una delle quattro. virtù su cui si basano tutte le altre. «La prudenza ci fa distinguere il bene dal male» (S. Agost. En. in Ps. LXXXIII, 11). È, quindi, la regola delle nostre azioni, o, come dice il Catechismo: È la virtù che dirige gli atti al debito fine e fa discernere e usare i mezzi buoni. Il fine del Cristiano è la vita eterna, e la prudenza ci fa riflettere come dobbiamo diportarci per arrivarvi. Nelle cose importanti noi non ci fidiamo del solo nostro modo di vedere; domandiamo i suggerimenti e i consigli degli altri. Così, il Cristiano prudente prega il Signore che lo illumini sullo stato di vita a cui lo chiama, perché possa raggiungere il suo ultimo fine. Messosi in questo stato prega costantemente Dio «Padre dei lumi» (Giac. 1, 17) perché illumini i suoi passi nella via intrapresa, avendo sempre di mira il maggior bene spirituale, anziché l’accontentamento dei propri gusti. Quando un esploratore vuol raggiungere mete assai lontane, sa benissimo che lo attendono incognite di ogni genere. Ed egli riflette a lungo, prima di mettersi in viaggio. Calcola tutti gli incidenti che gli possono capitare da parte della natura del luogo, da parte degli elementi, da parte delle fiere, da parte degli uomini, e prende tutte le precauzioni necessarie per non essere impedito di raggiungere la meta. – Tra le precauzioni che prende, importantissima è quella del rifornimento dei viveri. Il Cristiano, che ha considerato tutta l’importanza della via spirituale che ha da percorrere, vede che tra le precauzioni più necessarie c’è quella di nutrirsi del cibo spirituale, affinché non venga meno per via. A questo scopo frequenta i Sacramenti. La prudenza gli suggerisce di nutrirsi spesso del pane dei forti; e di risorgere subito col mezzo della Confessione, se lungo la via fosse caduto nel peccato. La prudenza insegna a non aspettar tutto dagli altri, « Poiché  se noi saremo vigilanti non avremo bisogno dell’aiuto altrui. Se, al contrario, dormiamo a nulla ci giova l’aiuto degli altri» (S. Giov. Grisost. In Epist. 1 ad Thess. Hom. 1, 3). Alla meta cui siamo avviati dobbiamo arrivare con l’opera nostra, guidata e sostenuta dalla grazia del Signore. Pretendere di arrivare in paradiso dolcemente, dormendo, sulle spalle degli altri, sarebbe un vero assurdo. Non si va in paradiso a dispetto dei Santi. Le vergini prudenti della parabola evangelica si danno cura di provvedere da sé la scorta d’olio per la lampada. Le vergini stolte non si scomodano di procurarsi la scorta d’olio. E quando viene lo sposo non possono prender parte al banchetto. Ricorrono alle vergini prudenti per avere parte della loro scorta, ma non l’ottengono. Le loro lampade rimangono spente, ed esse sono escluse dal banchetto (S. Matt. XXV, 1-13). Se vogliamo arrivare al banchetto celeste dobbiamo cercare d’arrivarvi, aiutati da Dio, con le opere nostre e non con le opere degli altri; se non vogliamo correre il pericolo di rimanerne esclusi.

2.

L’Apostolo vuole che gli Efesini camminino da prudenti utilizzando il tempo. La prudenza non solo ci deve far distinguere quel che si deve fare o non fare; ma ci spinge all’opera. Essa ci fa essere buoni economi del tempo, facendoci cercare e trovare l’opportunità di fare il bene. Un industriale avveduto non tralascia viaggi, ricerche; non si stanca di assumere informazioni e di darne; di mettersi al corrente di tutte quelle innovazioni, che adottate migliorerebbero e accrescerebbero la produzione delle sue industrie. E un Cristiano prudente non deve lasciarsi sfuggire circostanza alcuna, senza usarne per arricchirsi di meriti. – Colui che prudentemente spera di venire a capo dell’opera da lui intrapresa, non si lascia abbattere dal nessuna difficoltà. Quanto più esse sono numerose, tanto più si sente spinto ad operare per vincerle. Noi diciamo che le circostanze sono troppo difficili per poter fare il bene, che gli ostacoli sono troppo forti; ma ci dimentichiamo d’una cosa: «che tutto coopera a bene per quelli che amano Dio» (Rom. VIII, 28). E il tempo delle difficoltà da superare è appunto il tempo più opportuno per ammassare meriti che ci accompagnino in paradiso. Una fatica sopportata per amor di Dio, un sollievo recato a chi soffre, la difesa di un perseguitato, l’appoggio dato a un oppresso, una persecuzione sostenuta, un offesa perdonata, un’umiliazione accettata sono tutte azioni preziose all’occhio di Dio, son tutti mezzi che ci fanno percorrere a gran passi sicuri la via che conduce al paradiso. Una vecchia mendica, la quale era stata più volte beneficata da S. Elisabetta d’Ungheria, che l’aveva assistita inferma e medicata con le proprie mani, vedendo un giorno la sua antica benefattrice avanzare guardinga lungo una sottile striscia di pietre che attraversava un fangoso ruscello, invece di tirarsi in disparte e lasciarla passare, la urtò brutalmente facendola cadere nella fanghiglia, poi aggiunse beffandola: «Tu non hai voluto vivere da duchessa; eccoti ora povera e nel fango; ma io non verrò a tirartene fuori». Con le vesti inzuppate, le mani infangate, contuse e sanguinanti, la Santa si alza e dice con gran calma: «Questo per le acconciature e gli ornamenti e le gioie che portavo un tempo» (Emilio Horn. S. Elisabetta d’Ungheria Trad. ital. di Bice Facchinetti. Milano 1924 p. 157). Ecco, come si può utilizzare qualsiasi circostanza per arrichire di beni spirituali. La prudenza c’insegna non solo a metterci con impegno nell’esercizio del bene, ma vuole che vi ci mettiamo subito. L’uomo d’affari se può conchiudere un buon affari oggi, non aspetta domani: domani potrebbe mancare l’occasione che oggi è ottima. Domani si potrebbe non essere più in tempo. La prudenza cristiana c’insegna a non rimandare in avvenire l’adempimento dei nostri doveri, l’esercizio delle virtù, la rinuncia al peccato, il ritorno a Dio. Sappiamo noi qualche cosa del nostro avvenire? Il futuro è nelle mani di Dio. Generalmente i nostri calcoli sull’avvenire hanno la sorte di quelli del ricco del Vangelo, il quale non avendo più posto da riporvi il raccolto disse: « Ecco quel che farò; demolirò i miei granai, ne fabbricherò dei più vasti e quivi raccoglierò tutti i miei prodotti e i miei beni, e dirò alla mia anima: O anima mia, tu hai messo in serbo molti beni per parecchi anni; riposati, mangia, bevi e godi. Ma Dio gli disse: — Stolto, questa stessa notte l’anima tua ti sarà ridomandata, e quanto hai preparato di chi sarà? — Così è di chi tesoreggia per sé e non arricchisce presso Dio» (Luc. XII, 18-21). Altrettanto stolto è chi cerca di vivere quest’oggi tranquillamente in ozio, e rimanda all’avvenire il tesoreggiare per il cielo. Sarà in tempo?

3.

Non vogliate inebriarvi di vino, sorgente di dissolutezza … dice S. Paolo, e a ragione. Si cerca l’ebbrezza nel vino e, attraverso la stoltezza e la sfacciataggine, si finisce nella libidine. È quello che avviene di tutte le occasioni. Si finisce dove non si credeva d’arrivare. Sansone non avrebbe mai pensato che l’eccessiva confidenza con Dalila l’avrebbe condotto alla perdita della sua forza prodigiosa, degli occhi, della libertà. Davide non si sarebbe mai immaginato che uno sguardo imprudente l’avrebbe condotto all’adulterio, all’omicidio, all’indurimento nel peccato. L’uomo prudente non si mette mai nelle occasioni prossime libere; non diffida mai abbastanza di certe compagnie, di certi ritrovi, di certi divertimenti, di certi giornali, di certi libri.Il viandante prudente schiva tutte quelle vie lungo le quali potrebbe trovare degli intoppi o dei pericoli. Se una via è interrotta da una frana, da una valanga, dalla caduta d’un ponte, da un’alluvione, si rassegna a fare un giro un po’ più lungo, passando alla larga, pur di arrivare alla meta. Se sa che qualche punto della via è pericoloso, perché battuto dai grassatori, cerca di passarlo in pieno giorno, senza indugiarvisi. Nel cammino della vita spirituale non mancano degli ostacoli che cercano di fermarci, delle occasione che vorrebbero farci interrompere il cammino. Giriamo alla larga, se non vogliamo dimenticarci del nostro fine; se non vogliamo lasciarci cogliere dalle passioni che, depredandoci della grazia, ci facciano cadere nel peccato. «Non è un timor vano né una precauzione inutile questa, che provvede alla via della nostra salvezza» (S. Cipriano. Lib. de hab. Virg. 4). – Certi strappi sono dolorosi, certi distacchi costano, l’abbandono di certe abitudini ci sembra impossibile. Eppure la prudenza insegna che tra due mali bisogna scegliere il minore. Chi ha una mano o un piede incancrenito sceglie la loro amputazione, anziché lasciar incancrenire tutto il corpo. Il navigante che vede la nave affondare per troppo peso, è pronto a gettar la sua merce in mare, anziché lasciarsi ingoiar lui dalle onde. Tra la perdita di Dio e la perdita dell’amicizia degli uomini; tra il sacrificio di certe abitudini e la perdita del paradiso; tra i piaceri terreni e i godimenti eterni la scelta non dovrebbe lasciare un istante di titubanza. Lasciamo, dunque, l’ebbrezza che viene dai piaceri, e scegliamo l’ebbrezza che viene dallo Spirito Santo. È un’ebbrezza senza rimorsi, senza turbamenti. Manifestiamo questa ebbrezza con salmi e inni e cantici spirituali; manifestiamola, prendendo parte con assiduità e fervore alle funzioni sacre; manifestiamola ovunque, non fosse altro, salmeggiando al Signore nei nostri cuori ringraziando sempre d’ogni cosa Dio e Padre nel nome del Signor nostro Gesù Cristo.

Graduale

Ps CXLIV:15-16
Oculi ómnium in te sperant, Dómine: et tu das illis escam in témpore opportúno.

Aperis tu manum tuam: et imples omne ánimal benedictióne.

[Tutti rivolgono gli sguardi a Te, o Signore: dà loro il cibo al momento opportuno. V. Apri la tua mano e colmi di ogni benedizione ogni vivente.]

Allelúja.

Ps CVII:2
Allelúja, allelúja
Parátum cor meum, Deus, parátum cor meum: cantábo, et psallam tibi, glória mea. Allelúja.
[Il mio cuore è pronto, o Dio, il mio cuore è pronto: canterò e inneggerò a Te, che sei la mia gloria. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia   sancti Evangélii secúndum S. Joánnem.
Joannes IV: 46-53
In illo témpore: Erat quidam régulus, cujus fílius infirmabátur Caphárnaum. Hic cum audísset, quia Jesus adveníret a Judaea in Galilæam, ábiit ad eum, et rogábat eum, ut descénderet et sanáret fílium ejus: incipiébat enim mori. Dixit ergo Jesus ad eum: Nisi signa et prodígia vidéritis, non créditis. Dicit ad eum régulus: Dómine, descénde, priúsquam moriátur fílius meus. Dicit ei Jesus: Vade, fílius tuus vivit. Crédidit homo sermóni, quem dixit ei Jesus, et ibat. Jam autem eo descendénte, servi occurrérunt ei et nuntiavérunt, dicéntes, quia fílius ejus víveret. Interrogábat ergo horam ab eis, in qua mélius habúerit. Et dixérunt ei: Quia heri hora séptima relíquit eum febris. Cognóvit ergo pater, quia illa hora erat, in qua dixit ei Jesus: Fílius tuus vivit: et crédidit ipse et domus ejus tota.

(“In quel tempo eravi un certo regolo in Cafarnao, il quale aveva un figliuolo ammalato. E avendo questi sentito dire che Gesù era venuto dalla Giudea nella Galilea, andò da lui, e lo pregava che volesse andare a guarire il suo figliuolo, che era moribondo. Dissegli adunque Gesù: Voi se non vedete miracoli e prodigi non credete. Risposegli il regolo: Vieni, Signore, prima che il mio figliuolo si muoia. Gesù gli disse: Va, il tuo figliuolo vive. Quegli prestò fede alle parole dettegli da Gesù, e si partì. E quando era già verso casa, gli corsero incontro i servi, e gli diedero nuova come il suo figliuolo viveva. Domandò pertanto ad essi, in che ora avesse incominciato a star meglio. E quelli risposero: Ieri, all’ora settima, lasciollo la febbre. Riconobbe perciò il padre che quella era la stessa ora, in cui Gesù gli aveva detto: Il tuo figliolo vive: e credette egli, e tutta la sua casa”)

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra le malattie.

Domine, descende priusquam moriatur filius meus. Jo. IV.

Noi leggiamo nell’odierno vangelo che un signore, il cui figlio era infermo nella città di Cafarnao avendo saputo che Gesù veniva dalla Giudea in Galilea, s’indirizza a Lui e lo prega di scendere nella sua casa per guarire il suo figliuolo che era vicinissimo a morte. Gesù Cristo gli accorda quel che chiede e gli comanda di ritornar dal figliuolo, cui dichiara aver renduta la sanità; ubbidisce egli, ritrova il figliuolo perfettamente risanato, ed apprende da’ suoi servi che era lo stato nell’ora medesima che Gesù Cristo gli aveva detto: tuo figlio sta bene; crede in lui con tutta la sua casa: Credidit ipse et domus eius Iota (Jo. IV). A considerare i sentimenti della natura, era un gran motivo di afflizione per quel signore veder il suo figliuolo alle porte della morte: ma a giudicar delle cose coi lumi della lede, era gran fortuna per lui trovare in quella malattia un’occasione favorevole di credere in Gesù Cristo e diventare suo discepolo. – Così è, fratelli miei, che le afflizioni e particolarmente le malattie divengono per noi, per la disposizione della divina provvidenza, la sorgente di nostra vera felicità, quando ne sappiamo fare un buon uso: la malattia, è vero, è uno stato doloroso per la natura; l’uomo nemico della sua distruzione, soffre con pena i dolori e le infermità, che abbreviano i suoi giorni e lo conducono al sepolcro: quindi tante precauzioni per allontanare le malattie e per liberarsene quando n’è assalito: ma egli ha un bel fare, la sanità non è un bene di continua durata; non evvi temperamento alcuno sì robusto che non sia alle infermità soggetto; quei medesimi che sono i più in istato di preservarsene, non ne vanno esenti, permettendo così Iddio per staccarci dalla vita. Egli è di nostro vantaggio l’entrare nei suoi disegni e riguardare i mali che soffriamo quaggiù come mezzi efficaci che la provvidenza vuol somministrarci: ed a ciò voglio oggi esortarvi, fratelli miei, mettendovi sott’occhio i vantaggi spirituali che procurano i dolori e le infermità, cui siamo soggetti, e le regole che convien seguire per renderle profittevoli. In due parole: l’utilità delle malattie, primo punto; l’uso che convien farne affinché diventino vantaggiose, secondo punto.

I. PuntoSe l’uomo non avesse giammai peccato, non sarebbe stato soggetto alle malattie, alla morte ed alle altre calamità inseparabili al presente dalla sua trista condizione. Ma da che il peccato ha preso il posto dell’innocenza in cui il primo uomo fu creato, una vita di miserie è succeduta alla felicità di cui in quello stato godeva. Felice colui ancora che trova nella pena del suo peccato un mezzo di espiarlo ed un rimedio per preservarsene. Perciocché questi sono, fratelli miei, i due vantaggi che noi possiamo ricevere dalle malattie, dice s. Agostino; se Egli ci affligga, si è per farci rientrare in noi medesimi ed espiare i nostri peccati passati: Ut peccasse non noceat; si è per impedirci di commetterne di nuovo: Ut peccare non liceat. – Niente è più capace di condur l’uomo peccatore a penitenza che il ricordarsi del suo ultimo fine. Ma quando è mai che questa memoria lo colpisce di più, se non nel tempo della malattia? Sinché egli gode delle dolcezze della sanità, non è se non debolmente tocco dal pensiero della morte, lo perde anche ben sovente di vista: quindi avviene ch’egli non pensa che a soddisfare le sue passioni, e che invece di placar l’ira di Dio con la penitenza, egli l’irrita con nuovi misfatti: sano, riguardava la morte come molto lontana, non era punto spaventato delle sue conseguenze e non pensava a prevenirle, ma la malattia gli annuncia il suo avvicinamento; di già la vede pronta a dare il suo colpo; egli può dire come l’Apostolo: Tempus resolutionis meaeæ instat (2 Tim. IV). Qual partito prenderà egli dunque? Da una parte i rimorsi della coscienza onde è agitato, e dall’altra la vista del terribile giudizio cui sarà citato, l’indurranno a ritornare a Dio con una vera penitenza. Penetrato dai medesimi sentimenti che il santo re Ezechia: eccomi, dirà egli al Signore, sul fine dei miei giorni, sul punto di essere sepolto sotto l’ombre della morte : Vadam ad portas inferi. Qual miglior cosa posso io dunque fare che ripassar nell’amarezza del mio cuore gli anni, che ho passati nell’iniquità? Recogitabo libi omnes annos meos in amaritudine animæ meæ. Io ho vissuto sino al presente all’intiera dimenticanza di mia salute; ma sul punto di chiuder gli occhi agli oggetti sensibili, per aprirli a quelli dell’eternità, bisogna senza più tardare metter la mano all’opera per finire questo grande affare, perché dopo la morte non sarà più tempo di pensarvi. Addio al mondo che mi ha sedotto, ai piaceri che mi hanno incantato, alle compagnie che mi hanno pervertito: Non aspiciam hominem ultra. Tali sono, fratelli miei, i sentimenti che la malattia inspira ordinariamente a coloro che ne sono attaccati; essa fa loro lasciare il peccato, li stacca dalle creature, li cangia, li converte; di malvagi e di reprobi che erano, essa ne fa dei giusti, degli amici di Dio. Ne chiama in testimonio la vostra esperienza; non è forse vero che nelle malattie voi pensate molto diversamente che quando siete in sanità? Non è forse vero che colpiti dal timore della morte, voi siete rientrati in voi medesimi per domandare a Dio perdono dei vostri peccati? Non è forse vero che voi avete fatti tutti i vostri sforzi per ottenere quel perdono col dolore che avete concepito di questi peccati, con la confessione che non avete fatta al ministro del Signore, il quale vi ha detto da parte sua: Mettete ordine ai vostri affari, perché fra poco voi dovete morire e comparir avanti a Dio per rendere conto delle azioni di vostra vita: Dispone domui tuæ, quia morieris. Al che non avreste voi pensato, se aveste sempre goduto sanità, e se Dio, inviandovi quella malattia, non vi avesse messo in una specie di necessità di ritornare a Lui con una sincera conversione. Confessate dunque che la malattia è molto utile al peccatore, poiché essa l’induce a riparare colla penitenza i peccati che ha commessi; ella è ancora un mezzo eccellente per soddisfare a Dio per la pena al peccato dovuta: Ut peccasse non noceat. – Egli è un ordine stabilito dalla divina giustizia, come vi è stato spesse volte detto, che il peccato anche perdonato sia punito in questo mondo o nell’altro. Or la malattia serve al peccatore per soddisfare alla giustizia di Dio per la pena al suo peccato dovuta poiché essa è una delle più severe penitenze che l’uomo possa fare, e d’altra parte è di elezione di Dio medesimo, che castiga il peccatore a suo genio ed in una maniera più sicura e più utile, che nol farebbe il peccatore medesimo. Non fa d’uopo, fratelli miei, di provarvi con lunghi ragionamenti ciò che le malattie hanno di duro e di molesto; coloro che le hanno provate possono rendere testimonianza. Esse privano della sanità, che è il più caro di tutti i beni; esse riducono la. natura umana in uno stato violento. Essere ritenuto in un letto, come un prigioniero in un carcere, privato dei piaceri della società, non poter fare alcun uso dei beni della vita, i quali sono allora interdetti, o per cui non si ha che nausea e ripugnanza; vedersi obbligato a divorare tutta l’amarezza dei rimedi, ad abbandonarsi ciecamente alla condotta dei medici; soffrire mali di capo, esser abbruciato da ardente febbre, sentirsi le viscere lacerate da violenti dolori, portare sul corpo certe infermità che durano quanto la vita e che alcun rimedio non può guarire, non sono queste forse penitenze più austere che i digiuni, le discipline, le macerazioni degli anacoreti? Questi sono volontarie e raddolcite dagli alleviamenti che la natura può prendere; ma le malattie combattono tutte le sue inclinazioni, e la tormentano sovente tanto colla loro violenza quanto con la loro durata. Qual fondo di meriti e di soddisfazioni non vi trova il peccatore per pagar i suoi debiti, e qual certezza che quella penitenza piace a Dio se è di sua scelta? Dio infatti conosce la nostra delicatezza; Egli sa quanto noi siamo nemici della penitenza, quanto siamo portati ad accarezzar la nostra carne, con qual indulgenza noi la trattiamo, anche quando vogliamo mortificarla in esposizione dei nostri mancamenti. Oimè! i colpi che noi le diamo, partono d’ordinario da una mano debole e timida, che la risparmia, e non la tratta giammai cosi severamente, come essa merita; che fa dunque il Signore? Prende Egli medesimo la sferza in mano per castigarci come lo meritiamo. Egli affligge con malattie questo corpo di peccati e punisce l’abuso che abbiamo fatto della sanità. In questo, fratelli, dobbiamo riconoscere la sua sapienza e la sua bontà, che ci percuote in questo mondo con castighi leggieri per risparmiarcene dei più rigorosi nell’altro; poiché le malattie anche più violenti sono un nulla in paragone dei dolori che si provano nel purgatorio, dove si soffre più in un solo giorno che non si farebbe quaggiù in più anni d’infermità. Nulladimeno alcuni momenti di pene in questa vita possono risparmiarci i lungi e rigorosi supplizi dell’altra e soddisfare anche interamente alla giustizia di Dio. Riconosciamo la mano paterna che ci percuote e che non vuole che ci resti alcun debito a pagare nell’uscire da questo mondo; mentre se esigesse i diritti della sua giustizia, noi le saremmo ordinariamente debitori, e ci costerebbe molto più il soddisfarla che non ci costa col mezzo che la provvidenza ci fornisce nelle malattie. – Egli è dunque vero che esse sono per correggerci e farci espiare le nostre colpe, esse lo sono ancora per impedirci di commetterne: Ut peccare non liceat. – Qual uso fassi per l’ordinario della sanità? Oimè! fratelli miei, voi lo sapete forse da voi medesimi: invece di servirsene per glorificar Dio, non s’impiega che ad offenderlo; si fanno servire all’ingiustizia ed all’iniquità, come dice l’Apostolo, membri che Dio non ha dati se non per servire alla santità; gli uni vivono in un’intera dimenticanza di Dio e dell’affare della salute; sinché godono di una perfetta sanità, non pensano che ad arricchirsi sulla terra, s’impegnano negl’imbarazzi del secolo e niente pensano al grande affare dell’eternità. Gli altri non attendono che ad appagare passioni brutali, si abbandonano alla dissolutezza, all’intemperanza, passano la loro vita a correre di piaceri in piaceri, dalla mensa al giuoco, dal giuoco agli spettacoli, alle conversazioni pericolose, ai commerci illeciti. Che fa il Signore per arrestare i disordini che regnano tra gli uomini? Previene il male nella sua origine, priva della sanità coloro che ne abusano, toglie loro l’arme dalle mani per impedirgli di fargli la guerra; Egli arresta con la malattia tutti i movimenti di quell’uomo di progetti, occupato dalia cura di mille affari, lo riduce in un letto di dolore, dove sciolto da ogni temporale sollecitudine ha tutto il tempo d’innalzar il suo regno a Dio, di pensare alla sua salute e di travagliarvi. Quei dissoluti, quei voluttuosi, che non pensavano dalla mattina alla sera che ai mezzi di contentare i loro desideri perversi; e che abusavano della loro sanità per abbandonarsi al disordine, si vedranno per la malattia nell’impossibilità di commettere gli eccessi, in cui avevan rossore d’immergersi. Le loro passioni scevre dagli oggetti, che erano per essi occasioni di peccato, non avranno più sul loro cuore l’impero che esse avevano per lo innanzi. Il ghiottone non potrà più frequentare le bettole; il voluttuoso non avrà più commercio con i complici de’ suoi delitti: mentre godeva di una perfetta sanità e nutriva con delicatezza il suo corpo, egli risentiva gli stimoli di una carne ribelle allo spirito, ne seguiva i movimenti disordinati: Impinguatus recalcitravit. Ma la malattia, che ha estenuata questa carne, ha estinto il fuoco della concupiscenza; l’anima involta nei dolori non è più sensibile al piacere: la malattia, come un riparo, la difende dai colpi della lascivia, che non può far breccia sopra un corpo languente ed abbattuto dal dolore. Come mai quell’uomo sensuale ha egli apprese le regole della temperanza, che ignorava per lo innanzi, se non da una malattia che gli è sopraggiunta, che l’ha obbligato a seguire una certa regola di vita, perché si astiene da ciò che lusingava i suoi appetiti? Felice lui se fa per la sua salute quello che fa per la sua sanità, e se temendo i dolori eterni quanto paventa un dolor passeggiero, egli si mortifica per evitare gli uni nella stessa guisa che lo fa per evitar l’altro! Tale è la salutevole impressione che una malattia deve fare sopra ogni uomo che sa riflettere. Chi ha determinata quella fanciulla, che non pensava che a piacere al mondo, a ritirarsi dalle compagnie per prendere il partito della devozione? Una malattia che l’ha spogliata di quell’avvenenza che la rendeva preziosa a sé stessa e agli occhi degli altri. Qual differenza d’uno stato con l’altro! Giudicatene da voi medesimi e dai sentimenti che avevate in quel tempo di prova. Quale stima facevate voi dei beni, degli onori, dei piaceri del secolo? Con qual occhio rimiravate voi le feste e i divertimenti del mondo di cui non potevate profittare; quante volte annoiati della vita, avete voi desiderata, come l’Apostolo, la dissoluzione di questo corpo mortale, per godere di una vita migliore che non fosse soggetta ai languori e alle infermità? Così è che Dio sa farci cavar profitto dalle malattie che ci manda. Non è già per perderci che ci affligge con le infermità: Infirmitas hæc non est ad mortem (Jo. XI). Ma le fa servire alla sua gloria e alla nostra salute: Sed ut manifestetur gloria Dei. Egli si serve delle malattie del corpo per guarire quelle della nostr’anima e preservarcene. E perciò Egli ne fa parte ai giusti come ai peccatori: la virtù del giusto potrebbe rallentarsi, se non fosse provata con queste disgrazie; laddove essa si perfeziona nell’infermità, come dice l’Apostolo: Virtus in infirmitate perficitur. Allora si è, che essa comparisce con più di splendore; testimonio quel modello di pazienza sì vantato dallo Spinto Santo medesimo: Giobbe, dopo aver perduti i suoi beni, i suoi figliuoli, non fece giammai meglio conoscere la sua virtù, che quando si vide coperto di piaghe, ridotto sopra un letamaio. Oh! allora fu che portò la pazienza all’eroismo, e che il demonio fu obbligato di cedergli la gloria dei combattimenti che gli aveva dati. – Che però in qualunque stato voi siate, giusti o peccatori, non riguardate più le malattie come disgrazie con cui Dio vi affligge per farvi sentire i colpi del suo sdegno, riguardatele piuttosto come effetti del suo amore, giusti e peccatori, poiché Egli se ne serve sempre per convertirvi o per provarvi ed unirvi a Lui, e farvi anche espiare leggieri mancamenti di cui la vita la più santa non è esente. Ma qual uso devesi fare delle malattie? Secondo punto.

II. Punto. Giacché Dio affligge gli uomini con malattie, sia per far rientrare i peccatori in se stessi, sia per provare la virtù dei giusti, bisogna dunque riceverle in ispirito di penitenza, bisogna soffrirle pazientemente, e con un’intera rassegnazione alla volontà di Dio. Or a che cosa la penitenza induce ella i peccatori nel tempo della malattia? Ad usare i mezzi i più pronti e ì più efficaci per rientrar in grazia con Dio, ad offrire le loro malattie in espiazione dei peccati da loro commessi. Infatti, se il peccatore non deve punto differire il suo ritorno a Dio, anche allora quando è in sanità, sul timore di mancar del tempo e delle grazie necessarie, questa ragione obbliga ancora più nel tempo della malattia ad una pronta conversione; perciocché deve allora più che mai temere di mancare del tempo per convertirsi, e questa dilazione può privarlo di un tesoro di meriti che gli procurerebbero una malattia santificata dalla grazia. Portiamo tutti dentro di noi una risposta di morte, dice l’Apostolo; quei medesimi che sembrano i più robusti, sono talvolta i più vicini al sepolcro. Ma in qual tempo debbonsi più temere le sorprese della morte, se non nella malattia, che le prepara di già la sua vittima e che comincia a distruggere questo mortal corpo ? Il fatto sta che i più degli uomini muoiono dopo certi mali, o più o meno. Or nell’incertezza del tempo che deve durare una malattia, quale miglior cosa può farsi sin dai primi attacchi del male, che ricorrer ai rimedi che debbono guarir l’anima dal peccato, e mettersi in istato di comparire avanti a Dio col ricevere i Sacramenti, che operar devono questa guarigione, perché corresi molto rischio che differendo ad usare questi rimedi, non vi siamo più a tempo. Imperciocché non può forse accadere, e non accade sovente, che una malattia, la quale sembrava leggiera nel suo cominciamento, divenga ad un tratto mortale, e col suo rapido progresso dia all’infermo il colpo della morte nel momento che non si aspettava? Ovvero che, togliendogli la conoscenza, lo metta fuori di stato di ricevere i sacramenti; o finalmente l’opprima con dolori sì violenti che diventi incapace di applicarsi a qualsiasi cosa, che non possa né esaminar la coscienza, né eccitarsi al dolore dei suoi peccati? Quindi che avviene a coloro che aspettano all’ultimo momento di munirsi degli aiuti dei moribondi? Quel che avete veduto accadere a qualcheduno di coloro, alla cui morte siete stati presenti; o ne sono privi per sorpresa, o li ricevono senza disposizione, o muoiono nell’impenitenza. laonde non è forse di somma importanza il chiedere di ricever i sacramenti sin dal principio della malattia? – Possono forse prendersi troppo presto ed usare troppe precauzioni, tosto che si tratta di evitare un’eternità infelice? Che arrischiasi di ricorrere ai rimedi che risanano l’anima dalla malattia del peccato? Non si ricevono forse i sacramenti in sanità? Perché non riceverli in malattia? Queste sorgenti di vita, rendendo la sanità all’anima, non contribuiscono forse a quella del corpo con la tranquillità, e col riposo di una buona coscienza che n’è l’effetto? E che non deve sperar un infermo dalla vista di Gesù Cristo, che con una sola parola ha risanato coloro che avevano a Lui ricorso? Testimonio ne sia il malato del nostro Vangelo. E non dovremmo noi forse indirizzarci al supremo medico e dell’anima e del corpo, con la medesima confidenza che quel signore, il quale lo pregava di venire in sua casa per guarire un figliuolo la cui malattia sembrava incurabile? Descende priusquam moriatur filius meus. Sì, oh Signore, dovrebbe dire un infermo, venite nella mia casa, venite ad abitare nel mio cuore, Voi potete, purché lo vogliate guarirmi da tutte le mie infermità. Se io non ricupero la sanità del corpo, e se vi piace levarmi da questo mondo, io sono almen sicuro che mi renderete la sanità dell’anima, che la libererete dagli orrori della morte eterna. Deve forse altresì recargli pena di ricevere il Sacramento dell’Estrema Unzione, che ha una virtù particolare per sollevar un infermo, e ristabilire le sue forze, come ce lo assicura l’Apostolo s. Giacomo? Infirmatur quis in vobis? etc. Finalmente, fratelli miei, di che si tratta per guarire la malattia di quest’anima? Basta di scoprirla al medico spirituale, al ministro di Gesù Cristo rivestito del potere di rimettere i peccati: tosto che il peccato è confessato con un cuore contrito ed umiliato, la guarigione è nello stesso momento operata. – Ah  se si potesse così facilmente ricuperare la sanità del corpo, non sarebbe di bisogno usare tante precauzioni, prendere tanti rimedi che sovente sono inutili e non potranno poi finalmente esentare dalla morte. Perché dunque trascurare un mezzo cosi facile per assicurare la salute? Perché almeno non dare ad un’anima immortale la cui perdita è irreparabile, le medesime attenzioni che si accordano ad un corpo destinato a divenire il pascolo dei vermi? Ma è forse così che si ragiona? È forse così che ci diportiamo nelle malattie? Sin dai primi attacchi del male, abbiamo tutta la premura di procurarci gli aiuti convenevoli per ricuperare la sanità: si chiamano i medici, si prendono i rimedi che essi prescrivono; una tale condotta è certamente irreprensibile, perché la divina provvidenza ha fornito dei soccorsi nella natura, ha data la scienza agli uomini per sovvenire alle umane infermità. Ma quel che io biasimo nella maggior parte degli ammalati, si è:

  1. Il poco di confidenza che mettono essi in Dio per ricuperare la sanità del corpo; si è che, invece di ricorrere subito al supremo medico che può guarire il corpo e l’anima, non s’indirizzano a Lui che dopo aver provata l’inutilità degli umani soccorsi.

2. Quel che io biasimo ancora di più si è che questi infermi, unicamente occupati a ristorare il corpo, non pensano punto alla salute dell’anima; è lo stesso che portare, contro di essi una sentenza di morte il parlar loro dei sacramenti, sulla supposizione che la malattia non è pericolosa; incoraggiati dall’efficacia dei rimedi che loro s’applicano, prevenuti in favore del loro temperamento, sperano rivenirne; e disgraziatamente per essi, si è che la maggior parte di coloro che li servono, li mantengono in questi sentimenti, si nasconde loro il pericolo in cui sono, li nutriscono della lusinghiera speranza di un pronto ristabilimento. L’infermo, facile a credere ciò che lo lusinga, porta ancora la speranza della vita sino alle porte della morte, e per colpa di essere stato avvertito di mettere ordine alla sua coscienza, eccolo per sempre involto negli orrori di una spaventevole eternità. Hanno temuto mal a proposito d’intimorirlo, proponendogli un affare sì interessante; forse ancora hanno allontanato il ministro del Signore, che si è a questo motivo presentato: e questo timore fuori del dovere, questo funesto rispetto umano, è stato la cagione di sua disgrazia. Oh crudele ritenutezza! Oh perfida amicizia sì contraria allo spirito del Cristianesimo, che si affretta a soccorrer il prossimo nei bisogni più urgenti! Se voi vedeste un vostro congiunto, un vostro amico sul punto di cadere in un precipizio, da cui non dipendesse che da voi il preservarlo, avvertendolo del pericolo in cui si trova, credereste colpevole il vostro silenzio o piuttosto non potreste serbarlo. Voi vedrete quell’infermo vostro congiunto, vostro amico sul punto di cader nell’inferno, e lascerete perdere quell’anima, per non osar di dirgli di pensar alla sua salute? Peribit in tua scientia frater? Non si possono troppo lodare; è vero, gli aiuti che si rendono agl’infermi: questi uffici di carità hanno tanto più merito, quanto che nulla hanno che non sia ripugnante. Respirare presso di un infermo un’aria contagiosa, sopportare i suoi capricci e le sue stravaganze, ascoltare i suoi continui lamenti, non vedere alcun effetto dai rimedi che gli si danno, tutto questo richiede una carità ad ogni prova: voi siete anche obbligati, fratelli miei, di rendervi questi servigi nelle malattie per li legami che vi uniscono gli uni agli altri; ma il primo oggetto della vostra carità deve essere la salute dell’anima del vostro prossimo; il miglior servigio che voi possiate rendergli si è di preservare quest’anima dalla morte eterna con la vostra attenzione a fargli amministrare i sacramenti e ad aprirgli la porta del cielo, dove vi servirà di protettore per tirarvi presso di Lui. Qual consolazione per l’uno e per l’altro di avere in tal modo contribuito alla vostra felicità! Un’altra ragione che deve indurre un infermo a mettersi in buono stato col ricevere i Sacramenti si è che, restando nel peccato, si priva del merito dei patimenti; laddove la grazia santificante, che è il frutto di una sincera conversione, dà alla sua malattia una virtù particolare per soddisfare a Dio per li suoi peccati. Già  è stato più volte detto, fratelli miei, che quando il peccatore è in uno stato di morte, tutto quel che fa, tutto quello che soffre, benché buono sia d’altra parte, non è di alcun merito pel cielo, perché le sue azioni e i suoi patimenti non sono animati dal principio di vita, che deve renderli graditi ed accetti a Dio. Qual perdita non è dunque per un infermo schiavo del peccato, che soffre molto per lo spazio di mesi e d’anni interi, cui Dio non terrà alcun conto dei suoi patimenti? Può egli bensì, con la sua pazienza nel soffrire, attirar le grazie di cui ha bisogna per convertirsi; ma se non ritorna a Dio con una sincera penitenza, i suoi patimenti non saranno mai ricompensati nel cielo. Oh quanti momenti perduti, in cui poteva egli soddisfare alla giustizia di Dio ed accumulare grandi tesori di meriti pel cielo! Ma se questo peccatore sin dal principio della sua malattia si riconcilia con Dio, tutti i suoi momenti di dolore saranno contati e notati nel libro della vita; un giorno, un momento di patire può risparmiargli degli anni di purgatorio, può meritargli un peso immenso di gloria, dice l’Apostolo: Momentaneum tribulatìonis nostræ determini gloriæ pondus operatur. Oh momenti della malattia! quanto voi siete preziosi per la salute allorché se ne sa fare buon uso! Or il miglior uso che un peccatore possa farne si è di offrirli a Dio in soddisfazione delle sue colpe; il che deve fare con tanto più di ragione, quanto che può senza temerità riguardar certe malattie come la conseguenza degli eccessi a cui si è abbandonato. Ah! con ben giusta ragione deve egli dire in quel tempo di dolore, io soffro tutti questi mali, io li ho meritati con le mie iniquità: Merito hæc patimur, quia peccavimus. Troppo fortunato io sono ancora, o mio Dio, che Voi vogliate accettare questi patimenti in iscambio dei supplizi cui io presentemente sarei condannato, se Voi m’aveste trattato conforme alla mia malizia; invece di lamentarmi, io ringrazio la vostra bontà, che vuol pure a questo prezzo riparare i diritti della vostra giustizia. Ben lungi dal chiedervi la liberazione dei mali che soffro, io vi pregherò con s. Agostino di non risparmiarmi in questo mondo, purché mi risparmiate nell’altro: Hic ure , hic seca, modo in æternum parcas. Se voi siete, fratelli miei, penetrati da questi sentimenti, voi sopporterete le vostre malattie con pazienza, virtù che un infermo può riguardare come il sommo rimedio a tutti i suoi mali, e l’unico rifugio che gli resta in certe malattie, che non sono suscettibili di alcun raddolcimento. Ah! si è allora, che conviene armarsi di pazienza per sostenerne tutto il rigore e la durata! Che cosa guadagnereste voi infatti nell’abbandonarvi all’impazienza, la quale, lungi dal guarire i vostri mali, non fa che inasprirli, mentre la pazienza ne modera l’amarezza? Nel primo caso voi accrescete i vostri debiti, e cangiate il rimedio in veleno: nel secondo, al contrario, voi trovate il vostro vantaggio in ciò che sembra essere nocevole. L’avversione per li patimenti vi apre la strada dell’inferno. La sommissione ai disegni di Dio fa, secondo s. Giacomo, la perfezione delle vostre virtù e vi apre la porta del cielo. Qual disgrazia non sarebbe dunque per voi di soffrire affatto inutilmente, di rendervi ad uno stesso tempo colpevoli ed infelici: Tanta passi estis sine causa? Per alcuni momenti di dolori un’eternità di delizie! Ah! quanto è consolante questo pensiero per un Cristiano che sa trarre vantaggio dai mezzi che gli fornisce la Religione! Nel mentre che il suo corpo è sulla terra immerso nel dolore, la sua anima, che s’innalza nel cielo, gusta anticipatamente le delizie che il Signore apparecchia ai suoi eletti. Quindi egli sottomette interamente la sua volontà a quella di Dio: egli riguarda la malattia come una preziosa vista, che il Signore gli fa nella sua misericordia per risparmiargli i rigori della sua giustizia; egli sa che Dio servesi della malattia per purificarlo come l’oro nel fuoco a fine di renderlo degno di Lui. Che la vostra volontà si adempia dunque, o mio Dio. dice egli all’esempio del suo Salvatore, e non la mia. Benché amaro sia il calice che voi mi presentate, io l’accetto di buon cuore dalle vostre mani; posso io forse ricusare di bervi dopo che il mio divin Maestro l’ha bevuto sin all’ultima goccia? Mentre l’innocente è coperto di piaghe, posso io lamentarmi di alcuni leggieri patimenti che sono un nulla in paragone di quanto Egli ha per noi sofferto?

Pratiche. Tali sono, fratelli miei, le disposizioni in cui dovete essere, chiunque voi siete, giusti o peccatori, quando il Signore vi ha fatto parte della croce del suo caro Figliuolo: Ripetete sovente quelle belle parola di Gesù agonizzante, che esser debbono l’orazione più frequente di un infermo: Fiat voluntas tua; ma queste parole sieno ancora più nel vostro cuore che nella vostra bocca. Abbiate sovente avanti agli occhi l’immagine del vostro Salvatore in croce; unite i vostri dolori ai suoi e protestategli che volete morire nelle sue braccia. Riguardate la malattia come un tempo proprio a riparare i mancamenti che avete commessi in sanità. Riscattate, come dice l’Apostolo, con quei momenti di dolore quelli che avete passati nei piaceri: Redimentes tempus, quoniam dies mali sunt. Ringraziate Iddio, che si serve delle malattie per tirarvi a Lui. Ma quantunque utile sia la malattia per la vostra conversione, non aspettate a quel tempo per travagliarvi; voi potete esser sorpresi dalla morte senza essere avvertiti dalla malattia. Fate un santo uso della sanità che Dio vi concede affinché essa serva a manifestare la sua gloria e a procurare la vostra salute. Quando vi prolunga dei giorni che la malattia sembrava voler terminare, indirizzate i vostri primi passi nel suo santo tempio per dimostrargliene la vostra riconoscenza; ricordatevi principalmente dei proponimenti che avete fatti essendo infermo, di viver meglio che per lo passato; profittate del tempo che Dio vi dà ancora per santificarvi e meritare le sue ricompense. Così sia.

Credo …

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXXVI: 1
Super flúmina Babylónis illic sédimus et flévimus: dum recordarémur tui, Sion.

[Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci siamo seduti e abbiamo pianto: ricordandoci di te, o Sion.]

Secreta

Cœléstem nobis præbeant hæc mystéria, quǽsumus, Dómine, medicínam: et vítia nostri cordis expúrgent.

[O Signore, Te ne preghiamo, fa che questi misteri ci siano come rimedio celeste e purífichino il nostro cuore dai suoi vizii.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXVIII: 49-50
Meménto verbi tui servo tuo, Dómine, in quo mihi spem dedísti: hæc me consoláta est in humilitáte mea.

[Ricordati della tua parola detta al servo tuo, o Signore, nella quale mi hai dato speranza: essa è stata il mio conforto nella umiliazione.]

Postcommunio

Orémus.
Ut sacris, Dómine, reddámur digni munéribus: fac nos, quǽsumus, tuis semper oboedíre mandátis.

[O Signore, onde siamo degni dei sacri doni, fa’, Te ne preghiamo, che obbediamo sempre ai tuoi precetti].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (131)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

(Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884)

PARTE SECONDA

CAPO X.

La vittoria de’ martiri ci discopre la vera fede.

I. Appartiene alla virtù, non solo far cose grandi, ma tollerarle; Et agere et pati fortia romanum est. Quinci, dopo aver contemplata a favor del vero una prova sì sublime del poter divino ne’ miracoli della Chiesa, consideriamone una più stupenda ne’ martiri. Dissi più stupenda: perciocché, quando Dio è quegli che opera da sé solo, la meraviglia non può nascere dalle sue operazioni, mentre a Lui tutte son facili ad una forma; nasce dalla nostra ignoranza, la quale nello stupefarsi non bada al grande, bada all’inusitato. Laddove, quando con Dio opera l’uomo, reggendo, benché debole, a tanti strazi, la meraviglia allora è più ragionevole: perché chi può capir come ciò succeda? Conviene al certo che nell’uomo operi Dio; e posto ciò la testimonianza che da tal fatto riceve la verità non può essere più cospicua. Io dico frattanto che la battaglia più fiera che si sia mai suscitata sopra la terra fu quella che alla Chiesa nascente mosseroi suoi famosi persecutori: e la vittoria più illustre che siasi mai conseguita fu quella, che di tali persecutori hanno riportata innumerabili martiri, ciascun de’ quali nelle sue lacere membra consacrò le spoglie di più trionfi alla fede. Tanto converrà che confessi chiunque alla vista di pugna sì formidabile, porrà mente all’armi di essa, agli assalitori, e all’esito inaspettato che al fin sortì.

I.

II. E primieramente, se dagli arsenali si cavino fuor l’armi con cui fucombattuta la Chiesa, vedremo, che queste furono tutti affatto que’ generi di tormenti che seppe divisare la crudeltà umana invasata dalla diabolica (Lactant. inst. 1. 5, c. 11). Almeno si fosse ella appagata di quelle varie guise dì morti che contra i Cristiani disegnò in un suo libro Volpiano (V. Bar. an. 225), per fare che le leggi servissero alla passione, non più di freno, ma di mantello. E pure non appagossene. Volle che tutti gli elementi, e fui per dire, tutte le creature si unissero a militare contra i fedeli. E come, singolarmente in Roma appena fu luogo che non rimanesse bagnato dal loro sangue, così ne’ loro corpi appena fu lato in cui non si esercitasse qualche spezie di propria carneficina. Furono più volte armate d’elmi roventi lo loro teste, ammaccati gli occhi, affettate le orecchie, reciso il naso; le ganasse e la bocca maltrattate con selci; le gambe e le braccia mozze con seghe: furono loro ficcate lesine ben aguzze nell’unghie; svelti i denti, storti i diti, strappate le mammelle con le tenaglie ancor infocate; aperto il ventre, aggomitolate le viscere; rotte con mazze di ferro pesantissime le giunture: furono bruciati di dentro con dare loro a bere piombo disfatto: di fuori, con applicare alle costole faci ardenti. Furono in tutto il corpo o arrostiti lentamente sulle graticole, o stirati violentemente sulle cataste. Fu loro tratta barbaramente la pelle di dosso viva. Furono a membro a membro tritati minutamente senza pietà, strascinati, scarnificati e costretti a fare in supplizi lenti una morte almeno diuturna, giacché non ne potevano far più d’una.

III. Queste eran l’armi sì crude, come ognun vede, che maneggiate ancora da mano debole potevano spaventare i più coraggiosi. Che dovean dunque fare in mano de’ Cesari? Quindici imperatori, padroni del mondo, furono gli assalitori, o cominciando o continuando l’urto furioso delle persecuzioni, di cui la nona eccitata da Diocleziano contò in un mese diciassette mila Cristiani dati al macello, e nell’Egitto solo, in dieci anni, cento quarantaquattro mila ammazzati pur empiamente, oltre ad altri settecento mila dispersi in un duro esilio (Spond. an. 301. n. 4). Basti di risapere come fu promulgato un editto generale in tutto l’imperio, in cui concedevasi a qualsivoglia persona licenza amplissima di trucidare ogni Cristiano in quel modo che più aggradisse (Spond. an. 303, n. 7): onde ne fu tale la stragein qualunque lato, che i gentili cantando il trionfo prima della vittoria, stimarono di avere estinta finalmente la fede in un mar di sangue, e però ne alzarono baldanzosi i trofei con questa falsa iscrizione, apparsa in più marmi: Superstitione Christi ubique deleta (Spond. an. 303. n. 14).

IV. La verità nondimeno si fu, che quantunque la crudeltà, tanto propria degl’idolatri, la politica, la potenza, e così i pubblici interessi del mondo, come i privati, si fossero collegati sì strettamente contra la Chiesa, che non poteva veruno dichiararsi Cristiano senza dichiararsi al tempo stesso nimico dell’uman genere; contuttociò la vittoria non fu de’ persecutori che perderono il campo, fu de’ perseguitati che lo mantennero. Il numero degli uccisi, invece di atterrire i vivi, gli animava al conquisto di una corona simile di martirio. Si offrivano spesso da se medesimi ai tribunali, entravan nelle prigioni, esultavano sui patiboli, e gettati alle fiere, se le attizzavano contra, se erano pigre, per avidità di morir più celermente: Steterunt torti torquentibus fortiores, et pulsantes ac laniantes ungulas, pulsata et lardata membra vicerunt. Così poté allora scrivere un san Cipriano (Ad Mart. et Conf.). testimonio solenne, non pure di presenza, ma ancor di prova. Non furono i tormentatori che stancarono i martìri, furono i martiri che stancarono i tormentatori: onde più d’uno di que’ persecutori ancor più feroci, disperato di vincere, ritirò le sue forze da tanto assalto; e sonando quasi a raccolta, die pace alla Chiesa, perché non gli era riuscito di darle morte (Suidas de Traiano apud Spondan an. 218. n. 1. Euseb. de Maximino 1. 8. c. 9. hist. Eccl. Ruffìnus de Valente): e si fe’ chiaro come i nemici di quella con tanto scosse non le avevano arrecato finalmente altro danno, di quello che si arrechi ad un incensiere con agitarlo incessantemente per l’aria, che fu l’avvivarvi ad un’ora, di dentro, l’ardor della carità, di fuori, la fragranza del buon esempio.

II.

V. Frattanto facciasi innanzi l’antichità che levò tanto rumore per uno Scevola, vittorioso di due re in una volta, con quella mano che tenne salda alle brace: Una manu, manca et inermi, duos vicit reges. Non siamo del pari: perché Muzio operava per un bene sensibile, qual era la libertà della patria che andava serva: e però non è meraviglia che per la libertà combattesse sì forte un uomo, mentre per essa più fortemente combattono ancor le bestie. I martiri operavano per un bene spirituale. Ma quando anche fossimo eguali nel rimanente, che ha da fare la pena di una mano arsa con l’esercito di tutte le pene orribili che a’suoi ministri suggerire l’inferno unito a consiglio? e che ha da fare un soldato risoluto e robusto con un numero innumerabile di vecchi, di verginelle, e infìn di bambini? A me pare che chi ne’ soli martiri non conosce la verità della fede cristiana, sia cieco affatto, e per ciò che riguarda l’uomo, e per ciò che riguarda Dio.

VI . Quanto all’uomo, come potea mai lavorarsi sopra la terra una tempra sì adamantina, per cui i tormenti più fieri non solo si tollerassero con pazienza, ma con piacere? Qui sì che la natura si dà per vinta, e confessa di non avere nelle fornaci sue tal segreto che induri la nostra creta sino a tal segno, se non è la grazia, che a ciò concorra col suo fuoco celeste. Inoltre l’uomo, quanto è sensitivo di corpo, tanto parimente di animo egli è sensato; come sarebbe però stato possibile, che tanti e tanti, sopra ogni numero, eleggessero di dare prontamente la vita fra mille scempi per una favola, quando favola fosse la nostra fede? Cum quis viderit tanta perseverantia stare martyres, atque torqueri (dicea s. Girolamo) (Ad Hœdib. q. 11), subit tacita cogitatio, quod, nisi verum esset evangelium, numquam sanguine defenderetur. E ben dicealo a ragione: non potendosi credere, che persone di tanto senno, com’erano certamente molti de’ primi martiri, lontanissimi ancora per la virtù dal solito offuscamento delle passioni, si accordassero a dispregiare l’ira de’ principi, e tutto ciò che talora poteva fulminare sui loro capi di spaventoso, se non avessero provata dentro di sé una sicurezza evidente di non errare: Non potes irasci (disse una volta Seneca al suo Nerone), non potes irasci, nisi omnia tremant. Ut fulmina, paucorum periculo, omnium metu cadunt, ita regum animadversiones (de Clem. 1. 1. 8). E pure nel caso nostro non solamente gli strazi di uno non atterrivano i molti, ma gli strazi di molti talora non atterrivano neppur uno; mentre bene spesso i medesimi manigoldi appresero dalle piaghe fatte ne’ martiri, tanto spirito di confessarsi Cristiani, sino ad offrire di subito il loro corpo nudo a quei ferri che dianzi adoperavano su l’altrui. Qual dubbio adunque, che se la nostra fede non fosse vera, non sarebbe stata da tanto numero d’uomini delicati di membra, saggi di mente, sostenuta col proprio sangue?

VII. Ciò che vale più anche in riguardo a Dio. Certa cosa è, che i più de’ martiri erano di vita incolpata, e nutrivano in petto brame insaziabili di piacere al loro Creatore, per cui lieti giungevano all’atto sommo di dilezione, che è dispregiare in grazia dell’amato tutti i beni sensibili, e infin la vita, che è il sommo di tali beni. Come dunque poteva non tenere di loro altissimo conto quel gran Signore, che non solamente si gloria di ricompensare l’amor nostro con l’amor suo: Ego diligentes, me diligo (Prov. VIII, 17), ma di prevenire con l’amor suo l’amor nostro: Ipse prior dilexit nos (lo. IV. 10). Ma se lo teneva come dunque le viscere di un padre così amoroso avrebbero in quegli stessi sofferta una strage sì universale, senz’altro frutto, che d’irrigare con ampi laghi di sangue la pianta malnata di una bugia? E se egli ha fatto l’uomo perché lo serva col culto di una vera religione sopra la terra, com’era possibile che Egli permettesse poi tante vittime innocentissime, scannate per una falsa? Non sono queste le idee di quella sua carità verso noi che portiamo impressa nel cuore dal nascimento. E donde avviene, che in ogni rischio improvviso ci sentiamo per impeto di natura trasportati di subito ad invocarlo, se non perché diamo a crederci ch’Egli n’ami? Né di tale amore ci lasciano dubitare le proteste magnifiche che Dio similmente ce ne venne a fare per bocca de’ suoi profeti, massimamente quando Egli ci assicurò, che sempre lascerebbesi ritrovar da chi lo invocasse, solo che lo invocasse di vero cuore. Quæretis me, et invenietis : cum quæsieritis me in toto corde vestro (Ier. XXIX. 13).

VIII. O Dio dunque è cieco, e non curando i nostri affari, non è vago della virtù, non è nimico del vizio: o se questa è bestemmia non comportabile, convenne che Egli dal cielo rimirasse con buon occhio tanti suoi campioni, e si facesse lor guida in una battaglia che essi imprendevano puramente per lui, affine di condurli per la via vera. Sicché, quanto è certo che la provvidenza governa le cose umane . tanto è certo che la moltitudine de’ nostri martiri è una testimonianza invittissima della fede da noi seguita. Essi Dio donò alla sua Chiesa per per adornarla qual nobile firmamento, con tali stelle di primaria grandezza; e in essi fe’ tralucere sommamente la sua potenza, propagando e perpetuando la religione con quei mezzi medesimi, per cui parea che si dovesse maggiormente distruggere e desolare: e cambiando in premio della pietà quella morte che unicamente era pena già del peccato. Chi può però dubitare, che a Dio non vaglia qualsivoglia suo martire di un trionfo? Triumphus Dei est passio martirum (S. Hier. ubi sup.).