CONOSCERE SAN PAOLO (3)

CONOSCERE SAN PAOLO (3)

[F. Pratt, S. J.: la Teologia di San Paolo; S. E. I. Ed. Torino, 1945]

Corrispondenza con Tessalonica (1).

I. LE LETTERE DI PAOLO.

1. CARATTERI GENERALI. — 2. LETTERE O EPISTOLE? — 3. LO STILE DELLE LETTERE.

1. Le due Epistole ai Tessalonicesi, scritte verso l’anno 6, durante il secondo viaggio apostolico, notano il passaggio dall’insegnamento orale, semplice e familiare, alle controversie dommatiche delle lettere maggiori. – Affettuoso, cortese, delicato, pieno di vivacità, di abbandono, di fine ironia, con quel potere istintivo d’insinuarsi nello spirito degli altri, di comprendere e di dividere le loro gioie e le loro pene, che giustamente fu chiamato il dono della simpatia, Paolo era meravigliosamente adatto allo stile epistolare. Senza studio e senza ricercatezza, egli si è creato un genere in cui la spontaneità e la naturalezza si uniscono bellamente con la profondità del pensiero e con la forza della dialettica. Quello che più si ammira è l’unione, nella stessa pagina e nella stessa frase, delle più sublimi lezioni di teologia con le applicazioni più familiari della vita ordinaria. Non si trova nulla di simile nella letteratura classica, come si può ben vedere confrontando il biglietto a Filemone con una lettera scritta da Plinio il Giovine su un argomento quasi identico e in circostanze simili (Plinius Sabiniano, Epist. IX, 21). Il confronto riesce tutto a onore dell’Apostolo. Come appaiono aride e rigide le formole di saluto in uso presso i Greco-romani, vicino alle formule corrispondenti, così sciolte, così varie, così poco convenzionali, delle lettere di Paolo! Per trovare qualche cosa che somigli da lontano alla maniera dell’Apostolo, bisognerebbe piuttosto consultare i papiri recentemente esumati dalle sabbie egiziane. Tutte le sue lettere hanno un pronunziatissimo sapore di famiglia. L’ordine è quasi sempre lo stesso: soprascritta solenne, assai caratteristica, elogio dei destinatari in forma di ringraziamento, esposizione dell’argomento con prova conforme, raccomandazioni morali, augurio finale e benedizione, di pugno dell’Apostolo. – La soprascritta non si deve confondere con l’indirizzo il quale si scriveva a tergo, in modo da restare visibile quando la lettera era chiusa e sigillata. Siccome questo non aveva speciale importanza, perché era sviluppato nella soprascritta interna, non fu trascritto. I titoli che esse portano attualmente, per quanto antichi, non rimontano a San Paolo. La soprascritta comprende tre elementi che si seguono in questo ordine: nome e qualità dei corrispondenti; nome, titoli e meriti dei destinatari, e auguri a questi ultimi. Paolo si dà abitualmente il titolo di Apostolo (eccetto in Tess. I e II, Fil. e Filem.) e unisce quasi sempre con sé dei compagni, Timoteo, Silvano o Sila, Sostene, tutti fratelli che sono con lui. Quando esse non sono interamente personali, come sono le Epistole a Tito e a Timoteo, sono indirizzate a una chiesa particolare, o ai membri di una chiesa, o a una chiesa e ai suoi membri, o ai fedeli e al clero, o a ima chiesa locale e a tutti i cristiani della provincia e anche del mondo intero, oppure a particolari nel tempo stesso che alla chiesa locale. Anche nelle lettere personali vi è un saluto per la chiesa. Eccetto l’Epistola ai Galati, la menzione dei destinatari, collettivi o individuali, è sempre seguita da una parola di elogio o da epiteti onorifici. Paolo augura a tutti la grazia e la pace; le due lettere a Timoteo vi aggiungono la misericordia. L’esordio è un atto di ringraziamento oppure una specie di dossologia. Si spiega l’assenza di questa formula nell’Epistola ai Galati, per lo sdegno dell’Apostolo. Il tono familiare delle Pastorali può anche spiegare l’esordio ex abrupto nell’Epistola a Tito, nella prima a Timoteo. Al ringraziamento vanno unite alcune parole di elogio ai destinatari, alcuni ricordi del passato, certi particolari su le circostanze presenti, o liete o tristi, poiché per lui tutto è motivo di ringraziamento. Qualche volta il ringraziamento si prolunga tanto da occupare l’intera lettera e da farne come lo sfondo (I Tess.); altre volte invece ne è nettamente separato (I e II Cor., Fil.); per lo più finisce con confondersi nell’argomento principale a cui esso porta insensibilmente. – Il corpo della lettera varia naturalmente secondo la differenza degli argomenti che si trattano. Quando è una tesi, viene enunziata da principio dopo l’esordio (Rom., Gal., Eph.), e lo sviluppo segue metodico e regolare nelle Epistole ai Romani e ai Galati. più libero e più oratorio nelle Epistole agli Efesini e ai Colossesi. Le lettere a tesi presentano questa particolarità, che la morale è separata dal dogma, in modo che la divisione è binaria; mentre le lettere di argomento multiplo non si possono dividere secondo questo principio, essendo la morale multipla come il dogma. Aggiungeremo che in parecchie Epistole la divisione è poco marcata o non esiste affatto, il che non deve fare meraviglia, poiché in fin dei conti una lettera non è altro che una conversazione scritta. La conclusione incomincia generalmente con comunicazioni personali, con notizie di carattere intimo, seguite da una raccomandazione in favore del messaggero. Poi viene ordinariamente una lista più o meno lunga di saluti. In quel momento Paolo prende egli stesso la penna e vi aggiunge alcune parole o alcune frasi di suo pugno, quasi come firma. Si può prendere come esempio tipico l’Epistola ai Colossesi; ma ciascuna ha le sue particolarità degne di osservazione.

2. Gli scritti di San Paolo sono lettere o epistole? La questione può parere strana, ma non è priva d’interesse né d’importanza, così per l’esegeta come per il teologo. La lettera è una conversazione a distanza; un epistolografo dell’antichità la definisce assai bene: « Uno scritto il quale esprime a una persona assente ciò che le si direbbe se fosse presente ». Tolta la lontananza, la lettera non avrebbe più ragione di essere, perché una visita la sostituirebbe. – Quello che la distingue dall’epistola non è la lunghezza, poiché vi sono conversazioni lunghissime; non è l’argomento, poiché una conversazione può svolgersi intorno alle questioni più serie; non è lo stile, perché certe persone hanno naturalmente un tono oratorio e un linguaggio forbito; non è il fatto che non viene pubblicata, poiché vi sono epistole destinate dai loro autori alla pubblicità, che non hanno mai veduto la luce, mentre certe lettere esimiate recentemente dalle antiche città egiziane, ebbero l’onore di una pubblicità che i loro autori non si aspettavano davvero. Ciò che distingue la lettera dall’epistola, è che l’epistola è una composizione destinata al pubblico, e la lettera è una comunicazione intima e privata. – Non si deve pensare che gli antichi fossero meno gelosi di noi nell’assicurare il segreto delle lettere: i Romani sigillavano col piombo, con la pece o con la cera, le estremità della cordicella che legava le loro tavolette, per sottrarne il contenuto agli sguardi indiscreti; i Greci spingevano talora la precauzione fino a introdurre il legame attraverso i giri del rotolo di papiro, che non si poteva più svolgere senza lacerarlo; gli abitanti della Caldea e dell’Assiria chiudevano le loro corrispondenze in una busta di argilla che, indurita al fuoco, si doveva poi rompere col martello. Qualunque vera lettera è per sua natura segreta e, benché sia del destinatario, questi non ha mai il diritto di pubblicarla mentre è ancora vivo il suo corrispondente, o senza il suo permesso. Le lettere fittizie non sono lettere, e neppure le lettere pubbliche: le lettere poi dette aperte sono così poco lettere, che non sempre si prende la pena di mandarle al destinatario. Ma tra questi generi estremi vi sono infinite gradazioni: vi è la lettera circolare, qualche volta così vicina alla lettera, che appena se ne distingue: vi è la lettera collettiva che molto si avvicina all’epistola; vi è la lettera in cui l’autore non intende di restringere ad un solo lettore il benefizio della sua composizione e mira ad un pubblico più esteso, oltre al destinatario effettivo; vi è finalmente la lettera di cui si prevede la divulgazione, e che perde tanto più il suo carattere intimo, quanto più l’autore è preoccupato dal pensiero di un pubblico indeterminato, e Cicerone osservò molto bene questo fenomeno psicologico. Chi può dubitare che la preoccupazione di lettori estranei non abbia qualche volta fatto deviare la penna dei più celebri epistolografi? Le loro lettere sono epistole nella misura in cui si presenta al loro pensiero l’immagine di un pubblico possibile. Ad uno di questi generi intermedi appartengono tutte le lettere di Paolo. Che cosa manca a quella pagina incantevole che è il biglietto a Filemone, per essere una lettera in tutto il rigore del termine? Che cosa vi può essere di più familiare, di più personale, di più vivo? Paolo vi appare come amico, come padre, più che come apostolo. Eppure se si osserva più da vicino, egli associa a Filemone non soltanto Appia e Archippo che possono essere della famiglia, ma tutta la comunità cristiana (Fil. 2); è dunque una lettera collettiva. Così l’Apostolo passa con tutta naturalezza e senza pensarci, dal singolare al plurale: « Preparami un alloggio, perché spero di essere presto restituito a voi (Fil. 22) ». Egli non avrà creduto necessario il chiuderla e dovette consegnarla aperta nelle mani di Onesimo che non poteva ignorarne il contenuto. – Le Pastorali sono lettere amministrative che Paolo scrive in virtù della sua autorità apostolica, e in esse parla ai suoi delegati come un superiore ai suoi mandatari. Forse esse contenevano particolarità troppo intime per essere lette interamente alla chiesa, in presenza dei principali interessati, ma è certo che Paolo, nel suo pensiero, unisce sempre a Tito e a Timoteo le comunità cristiane di cui essi hanno temporaneamente la cura. Dimenticando talora che si rivolge a un solo corrispondente, generalizza i suoi avvisi e i suoi ordini; saluta direttamente la chiesa di Efeso e quella di Creta; passa con somma facilità dal singolare al plurale: « La grazia di Dio sia con voi (II Tim. IV) », oppure: « con tutti voi (Tit. III, 15) ». Se questo non basta per togliere alle Pastorali il carattere di vere lettere, dimostra almeno che l’Apostolo, o predichi o scriva, augura sempre alla sua parola la massima diffusione, che le sue comunicazioni non sono di ordine esclusivamente privato e che, ben lungi dal fuggire la pubblicità, la cerca quanto può. – Le lettere ai Tessalonicesi, ai Galati e ai Filippesi, hanno questo di comune con il biglietto a Filemone e con le Pastorali, che devono cioè la loro esistenza ad un bisogno passeggero dei destinatari e che non sarebbero state scritte, se Paolo si fosse potuto recare personalmente dai suoi neofiti. Sotte questo aspetto esse sono vere lettere; ma se ebbero in origine un carattere personale, non hanno nulla di segreto. L’Apostolo prevede che esse circoleranno, e non vi si oppone affatto; sapendo che le lettere passano da una mano all’altra (II Tess. II, 2), ha cura di premunire i fedeli contro i falsari e previene le frodi con mandare un saggio della sua scrittura (II Tess. III, 18); ma non gli viene l’idea di impedire quella divulgazione che egli anzi desidera. – Per la natura del loro contenuto, quelle indirizzate ai Corinzi e ai Colossesi parevano non dover uscire da queste chiese. In esse egli riprende severamente i colpevoli, corregge i disordini di Corinto con un rigore di cui fu tentato di pentirsi, condanna senza riguardi gli errori dei Colossesi. Intanto esige che la lettera mandata ai fedeli di Colossi, sia comunicata ai cristiani di Laodicea, i quali in cambio manderanno quella di cui sono depositari (Col. IV. 16). Le lettere di Paolo circolano mentre egli è ancora vivo — e per ordine suo — nelle altre chiese. Potevano forse i Corinzi tenere esclusivamente per sé le lettere destinate « ai santi di tutta l’Acaia (II Cor. I, 1) », oppure, oltre i confini della Grecia, « a tutti quelli che invocano il nome di Nostro Signor Gesù Cristo, in qualunque luogo? (I Cor. I, 2) ». Se la lettera è tanto meno lettera, quanto più è indeterminato il destinatario e meno personale l’argomento della corrispondenza, quella di Paolo ai Romani si dovrebbe chiamare piuttosto epistola. Paolo scrive a una chiesa che conosce appena di fama e, se si eccettua il motivo di preparare il terreno per un prossimo apostolato, non si vede perché esponga ai Romani, piuttosto che ad altri, la sua tesi su la giustificazione e su le relazioni fra la Legge e il Vangelo. Come circolare, l’Epistola agli Efesini è ancora più impersonale, e sono più indeterminati i suoi destinatari. Per sentire la differenza che passa tra questi due generi di scritti, basta confrontare tra loro le Epistole ai Romani e ai Galati da una parte, e le Epistole agli Efesini e ai Colossesi dall’altra. Paolo suole scrivere in principio delle sue lettere i nomi dei suoi compagni di apostolato, e questo fatto non è senza importanza nella presente questione: egli depone il suo carattere personale e privato nelle sue corrispondenze, e le trasforma, per così dire, in documenti semiufficiali, suscettibili di una pubblicità sempre maggiore. Non già che bisogni dare troppa importanza all’uso del plurale invece del singolare. Se la teoria secondo la quale Paolo, quando parla di sé al plurale, si associa sempre mentalmente o i cristiani in generale o i suoi compagni di apostolato, è insostenibile, ci vogliono però prodigi di sottigliezza — e di una sottigliezza di cattiva lega — per scoprire in quei « noi » l’intenzione di darsi del tono o qualche altra intenzione speciale: è semplicemente una figura retorica così comune nei contemporanei letterati e illetterati del grande Apostolo, che aveva perduto qualunque significato particolare. Al termine del nostro esame, abbiamo il diritto di conchiudere che tutti gli scritti di Paolo sono vere lettere, realmente mandate ai loro destinatari per supplire l’assenza dell’Apostolo e per provvedere a necessità più o meno urgenti. Ma tanto nell’intenzione dell’autore, quanto aghi occhi dei suoi corrispondenti, non erano fatte per rimanere la proprietà esclusiva di una famiglia o di una chiesa; esse dovevano prolungare nel tempo e nello spazio la predicazione di Paolo; erano epistole che le comunità cristiane si facevano premura di raccogliere, e che ben presto presero l’abitudine di leggere pubblicamente nelle riunioni liturgiche.

3. Queste Epistole di una fisonomia così precisa, sono scritte in uno stile ancora più personale. Generalmente i Padri danno ragione all’Apostolo, quando egli dice di non possedere l’arte di una bella lingua: imperitus sermone. Sant’Ireneo gli rimprovera degli iperbati; Origene, delle frasi oscure; Sant’Epifanio, dei periodi intricati; San Gregorio Nisseno, l’uso di parole disusate o adoperate in significato che non è il loro ordinario; San Giovanni Grisostomo, trascuratezza di stile; San Gerolamo, parole improprie, cilicismi e anche solecismi. E Bossuet li riassume tutti quando scrive nel suo celebre Panegirico: « Andrà questo ignorante dell’arte del dire, con la parola rozza, con la frase che sa di forestiero, andrà in quella Grecia raffinata, madre di filosofi e di oratori; e nonostante la resistenza del mondo, egli solo vi fonderà più chiese, che non siano stati i discepoli guadagnati da Platone, con quell’eloquenza che fu creduta divina. Egli predicherà Gesù in Atene, e il più saggio dei suoi senatori passerà dall’Areopago alla scuola di quel barbaro ». Ma vi è anche il rovescio della medaglia: San Gerolamo vanta la forza, l’energia, i tuoni di Paolo; Sant’Agostino, la sua calda eloquenza; San Giovanni Grisostomo, il suo fascino e la sua potenza persuasiva; lo stesso pagano Longino, la sua passione oratoria e il vigore della sua dialettica. Nello stile, in senso largo, entrano tre elementi: il lessico, la grammatica e la composizione. È noto che il vocabolario di Paolo è anzitutto biblico. Le parole estranee alla lingua dei Settanta, sono per lo più di origine popolare. San Gerolamo le chiamava cilicismi perché, non avendole trovate nei suoi autori, a torto le credeva proprie del territorio della Cilicia; ma un certo numero di esse furono recentemente trovate nei papiri o nelle iscrizioni di quel tempo, e quanto più si spingeranno innanzi tali ricerche, tanto più si accorcerà la lista dei termini di cui si attribuiva finora il conio agli scrittori sacri. Questi non cercavano di creare vocaboli nuovi che non avrebbe compreso nessuno, ma traevano il maggior partito possibile dalle parole usuali e, occorrendo, davano loro nuovi significati. Rivolgendosi al popolo, adoperavano il linguaggio del popolo, e quel linguaggio era ricco, pittoresco e gustoso. – Si è rimproverata a Paolo « ima singolare povertà di espressione »: giudizio troppo sommario e contradetto dai fatti. Nessun altro scrittore del Nuovo Testamento dispone di un vocabolario così esteso. Si sa che egli accumula volentieri i termini quasi sinonimi di cui vuol mettere in rilievo le diverse sfumature; cerca anche le assonanze, le paronomasie, le antitesi, il che suppone un autore interamente padrone della sua lingua. Le frequenti ripetizioni di parole, non sono una prova di povertà, ma è questo un procedimento dialettico od oratorio voluto e pensato, per fissare l’attenzione e per meglio scolpire il pensiero nella mente del lettore. – Certamente la sua sintassi non è la sintassi classica. Se i solecismi propriamente detti vi sono affatto eccezionali, gli ebreismi, pure meno numerosi di quanto si è preteso, non sono tuttavia rarissimi. Ma le sue lettere sono piene di anacoluti, cioè di periodi incompiuti o che si compiono prendendo una piega diversa (Rom. II, 17-21; V. 12-14; I Cor. XIV, 21, Gal. II, 6, etc.). Si devono notare due curiose particolarità: le serie di incidenti che sovraccaricano la frase, rompendo a ogni istante il filo del discorso; e soprattutto le costruzioni di genitivi articolati, in cui il rapporto esatto di ciascun genitivo con la parola che precede, rimane alquanto oscuro. Molte di queste negligenze si spiegano con l’improvvisazione. Paolo non scriveva egli stesso le sue lettere, e l’abitudine di dettare era allora così comune, che « dettare » significava comunemente « comporre ». Certe allusioni degli antichi, ci farebbero credere che la fatica materiale dello scrivano era considerata come incompatibile col lavoro mentale. L’Apostolo seguiva tale usanza che la sua debolezza di vista rendeva per lui più imperiosa. Da ciò derivano le frasi incomplete, i cambiamenti di costruzione, gli incisi e le parentesi, i passaggi repentini da un’idea all’altra, i frequenti ritorni alla stessa idea. Ma mentre gli stilisti rivedevano accuratamente i loro scritti per toglierne gli errori e per cancellarne le asprezze, Paolo li spediva tali e quali, oppure con qualche aggiunta o qualche nuova digressione. Quando però vuole, e forse anche senza pensarci, scrive pagine di una grecità impeccabile; maneggia con maestria quello che vi è di più delicato in un idioma, le particelle; si vede che egli parla il greco come sua lingua materna e non come una lingua appresa tardi e imperfettamente posseduta. Più intimo e più personale che il vocabolario e la sintassi, è l’ordine, la forma e la disposizione delle idee. In un senso verissimo si è potuto dire che lo stile è l’uomo: « La lingua di Paolo è la sua immagine vivente. Come il corpo dell’Apostolo, vaso di argilla, si curva sotto il peso del suo ministero, così le parole e le forme del suo linguaggio si piegano e si spezzano sotto il peso del suo pensiero. Ma da questo contrasto scaturiscono gli effetti più meravigliosi. Che potenza in quella debolezza! Che ricchezza in quella povertà! In quel corpo infermo, che anima di fuoco! Tutta la forza, tutto il movimento, tutta la bellezza vengono dal pensiero; non è lo stile che lo porta, ma è il pensiero che porta lo stile; il pensiero cammina sempre sovraccarico, trafelato, oppresso, trascinandosi dietro le parole… Per portare questa pienezza riboccante d’idee e di sentimenti, le parole e il loro significato ordinario non bastano più; ciascuna di esse, per così dire, è obbligata a portare un peso doppio o triplo. In una preposizione o nell’unione di due termini, Paolo mette tutto un mondo di idee, ed è questo appunto che rende così difficile l’esegesi delle sue epistole e la loro traduzione assolutamente impossibile (A. Sabatier: L’Apôtre Paul, 1896) ». – Il migliore commento ne è la lettura costantemente rincominciata. Bisogna abituarsi a quel dire strano che dapprima respinge e sconcerta per la sua singolarità. Vi s’incontrano frasi le cui parti rientrano in certo modo le une nelle altre, come i cilindri di un cannocchiale, frasi lunghissime, accidentate da digressioni e da parentesi, di cui l’occhio cerca invano di abbracciare l’insieme. Il periodo greco, per quanto classico, non ammette simili dimensioni, perciò quelli di San Paolo non sono periodi. Le sue frasi si possono semplificare, si possono sbarazzare dai particolari che le ingombrano, scaricarle dal peso degli incisi, senza alterare la loro fisonomia e senza turbare la loro andatura. L’idea principale forma un disegno abbastanza apparente in cui sono disposte, come addentellati, definizioni e spiegazioni. Con un po’ di riflessione e di abitudine, si riesce facilmente a scoprirlo. Lo scopo generale serve come punto di ritrovo e, fissando quello, il lettore riesce a orientarsi. Paolo è un dialettico vigoroso che si muove a suo agio nei dedali di un’argomentazione astrusa e lunga. Egli non indietreggia mai dinanzi ad una digressione utile, ancorché il suo lavoro ne abbia da perdere sotto l’aspetto letterario. Certi suoi capitoli presentano l’aspetto di quei conglomerati geologici formati da depositi sedimentari e da lave solidificate, ma il pensiero si segue sempre, come un filone non interrotto, tra quelle masse di apparenza eterogenea. Esaurita la questione incidentale, egli rientra nel suo argomento con una parola messa in vista, piuttosto che con un’esplicita transizione. Se non è assediato dalla parola, come gli viene rimproverato, è trascinato dall’idea che egli segue a ogni costo; ed è anche vero che il suo pensiero qualche volta gira intorno a una parola. Egli percorre volentieri tutta la scala dei significati di un termine, per rivoltare la sua idea sotto tutti i suoi aspetti. Una leggera deviazione lo mette ogni volta sopra un terreno nuovo, e passiamo da un senso all’altro con tanta facilità, che non sempre ci accorgiamo del passaggio. – Egli poi è affatto indifferente alla sua rinomanza di scrittore; se la ride dei precetti della retorica e qualche volta anche delle regole di grammatica. Se molte volte arriva a toccare le più alte cime dell’eloquenza, lo fa sempre, dice Sant’Agostino, senza averne l’intenzione: in lui tutto sgorga dalla sorgente, da una mente riboccante di idee, da un cuore capace di comunicare la commozione quasi senza volerlo. Quando Terzo o qualche altro suo segretario gli rilegge una lettera, non pensate che si fermi a forbire una frase arruffata o a correggere un solecismo, un iperbato o un anacoluto: anzi egli vi aggiunge quei sovraccarichi di cui il suo stile rigurgita, quasi che temesse, col troppo studio e con la troppa raffinatezza, di togliere qualche cosa alla virtù del Vangelo e di offuscare con uno sfoggio di sapienza umana il trionfo della croce.

SANTISSIMO CUORE DI MARIA

SANTISSIMO CUORE DI MARIA

 [V. STOCCHI, Discorsi sacri; Tip. BEFANI, ROMA, 1884 – DISCORSO XXIV].

“Qui me invenerit, inveniet vitam”.

PROV. VIII, 35.

1. Fino da quando da chi mi tiene il luogo di Dio mi fu posto sopra le spalle il carico alla natura poco soave, di predicare la parola di Dio in tanta iniquità di tempi, il mio cuore e i miei occhi si conversero subito alla stella benedetta del mare, alla Madre immacolata di Dio e Madre nostra Maria, e posi incontanente le mie povere fatiche sotto gli auspici e sotto il patrocinio di Lei, alla quale fino dagli anni primi della mia vita ho dedicato tutte le cose mie e me medesimo. Da Lei madre di grazia, di luce, di fortezza e di verità sperai forza e vigore, da Lei grazia e virtù, da Lei efficacia e dono per condurre le anime a Gesù Cristo, da Lei insomma ogni cosa, e se nulla hanno operato le povere mie fatiche, se qualche frutto ha secondato il sudore e il travaglio della parola di Dio seminata da me, tutto il merito è stato sempre di Maria della quale la misericordia e il patrocinio e nel corpo e nell’anima tocco tutto giorno con mano. Essendo così, è naturale che io ardentemente desideri di fare alcuna cosa che sia cara a questa Vergine gloriosa per attestarle la mia gratitudine; e fra le altre è mio costume di argomentarmi di tirare a Lei i cuori di tutti persuadendo a tutti che trovata Maria, troveranno la vita conforme a quello: qui me invenerit inveniet vitam. E per riuscire in questo intento soavissimo io ho per costume di non lasciare che trascorra alcun corso di predicazione, nella quale io abbia parte, senza favellare del Cuore benedetto di Maria, additandolo a tutti come porto unico e soavissimo di pace, di sicurezza, di misericordia. Tale io ho trovato il Cuore di Maria per me, tale l’ho sempre mostrato agli altri, tale a voi, se mi udirete, lo mostrerò stamattina signori miei. Vi parlerò del cuore di Maria pianamente e devotamente, quanto mi sarà possibile, cercando di innamorarne tutti e specialmente i poveri tribolati, gli afflitti e i peccatori, e beato me se riuscirò nell’intento. Innamorarsi del Cuore di Maria è come far suo quel Cuore benedetto; chi ha fatto suo il cuore di chi che sia è padrone di tutto l’uomo. E che bramerà di vantaggio chi abbia fatto suo il Cuor di Maria?

È cosa che si ripete ogni giorno nella santa Chiesa Cattolica, e che mille volte ridetta torna sempre gradita come se nuova fosse al popolo cristiano, che nulla è più amabile più soave più salutare del pensiero, del nome, della memoria della Madre di Dio. Maria! Basta pronunziare questo nome perché palpiti ogni cuore, perché sorrida ogni labbro; perché ogni tristezza si dilegui, perché ogni petto si riempia di giubilo. Come, se dando luogo i nembi, la stella del mattino scintilla tremula nell’azzurro del firmamento, o come se dopo la pioggia si colori tra le nubi la variopinta gloria dell’iride; così dice Bernardo, tra le tenebre di questa terra sgombrano le nuvole, riede il sereno, chetano i turbini e fiorisce la pace, quando s’invoca Maria: Maria nella quale tutto innamora, il nome, il grado, la grazia, la gloria, la dignità. Tutto questo è verissimo e io mi glorio di predicarlo, né tacerò le glorie e le misericordie di tanta Madre, finché il cuore nel petto mi palpita, e si snoda alla parola la lingua. Con tutto ciò dilettissimi dopo avere detto Maria, provatevi a dire Cuore di Maria; voi sentite subito di avere detto qualche cosa di più caro, di più tenero, di più soave che dicendo semplicemente Maria. Accade a noi o Madre benedetta quando menzioniamo il tuo Cuore quello che ci accade quando menzioniamo il Cuore del tuo Figliuolo. Io dico Gesù, e il nome di Gesù è miele alle labbra, melodia alle orecchie, giubilo al cuore, ma se dopo avere detto Gesù passo innanzi e dico Cuore di Gesù, sento l’anima mia essere percossa di affetti insoliti verso il mio Redentore e me ne rendo questa ragione. Quando io dico Gesù mi si rappresenta al pensiero nella pienezza della sua magnificenza della sua potestà il Verbo incarnato. Lo vedo quindi non solamente uomo ma Dio, non solamente amico e fratello ma Pontefice e Re. non solamente Padre ma Giudice. Non così quando dico Cuore di Gesù. Il cuore è simbolo dell’amore, è sede dell’amore. è organo dell’amore. Chi dico cuore dice amore, chi vede il cuore vede l’amore, e quando nomino il Cuore di Gesù, sparisce il giudice, il re, l’onnipotente a cui ogni ginocchio si curva in Cielo ed in terra, e vedo solo l’amante delle anime, il Pastor buono, il vero padre ed amico dell’uman genere morto in croce per me. E anche in questo o Madre benedetta, voi vi rassomigliate al vostro Figliuolo. Io dico Maria, e nominandovi vedo Voi tutta quanta. Non vedo solamente la più amabile e misericordiosa creatura che abbia fatto il Signore, ma vedo ancora la augusta Regina della terra e del Cielo, l’innalzata al consorzio della Trinità sacrosanta, la piena e soprappiena di santità. E allora sento di amarvi, ma all’ amore si mesce la riverenza, e per alta ammirazione la mia fronte si curva davanti a Voi. Eppure noi abbiamo bisogno di accostarci a Maria con fidanza filiale. E però passiamo avanti e diciamo Cuore di Maria. Ed ecco alla menzione del cuore sparisce la grande, la regina, la sublime, la tutta santa, e altro più non vediamo fuorché la Madre piena di misericordia e di amore. Vengono quindi al dolce richiamo del tuo cuore vengono gli uomini al tuo cospetto o Maria e ti raccontano i loro dolori e ti partecipano le gioie, ti svelano le proprie miserie e ti chiedono le tue ricchezze, i nostri peccati, i nostri peccati medesimi non ci sgomentano vedendo il tuo cuore, e scuoprendoli a te, sentiamo rilevarsi l’anima e speriamo la misericordia e il perdono. E questo è il motivo perché in questi miseri tempi Maria ha svelato straordinariamente il suo cuore. Ha voluto alla nostra generazione pervertita dalla empietà offrire un’esca dolcissima e un porto di salute e di pace. E gli uomini hanno inteso quest’arte di amore, e veduto il Cuor di Maria come trovato avessero un centro di attrazione invincibile, a quello sono corsi e in quello hanno trovato vita, salute, grazia, ogni bene: e più facile sarebbe contare le stelle del cielo e le arene del mare che le misericordie e le grazie d’ogni maniera, che la devozione al suo cuore ha espugnato a Maria. No, quando si fa capo al suo cuore, Maria non resiste.

2. Ma entriamo alquanto più addentro e scandagliamo la ragione intima di tanta forza di attraimento che esercita sugli uomini il Cuore benedetto di Maria e la troveremo, per così dire, naturale nell’ordine soprannaturale della grazia. Mi aiuti Maria perchè il concetto della mente esprima adeguatamente la lingua. Uno degli spettacoli più misteriosi e più teneri che la natura appresene è l’amore dei figliuoli verso la madre, e viceversa l’amore della madre verso i figliuoli. Feri questo spettacolo la mente e gli occhi del divino Crisostomo, e lo espresse con viva eloquenza così. Mostra a un pargoletto lattante ancora e ignaro di tutto una regina coronata di gemme e vestita di oro dall’una parte, dall’altra mostragli la sua madre avvolta nei cenci e coperta di povertà e di squallore e vedrai. Nulla intende quel piccioletto nulla conosce, ma con tutto ciò non cura la regina, la sprezza, la sdegna, la risospinge, ma non così con la madre. Si ravviva tutto vedendola, brilla, sorride, e protendendo verso di essa coll’animo la persona, si scaglia e quasi si avventa per abbracciarla. Che è mai questa attrattiva, questo impeto e questa foga che rapisce quell’animo inconsapevole verso la madre? Che sia, non domandare che io non lo so, so che è cosa verissima e potentissima ed è un senso, un istinto ideato dalla mente divina e dalla divina mano inserito nell’anima, che stabilisce, corrobora, illegiadrisce le relazioni naturali tra figlio e madre, tra madre e figlio. Essendo così, qual luogo tiene Maria nell’ordine mirabile della redenzione e della grazia? Tiene il luogo di madre. Mirabil cosa Gesù Cristo è venuto in terra per stabilire tra gli uomini una famiglia collegata con i vincoli dell’amore e della fede, la quale in terra si inizi, e si consumi e perfezioni nel Cielo. In questa famiglia è un Padre ed è Dio, un primogenito ed è Gesù Cristo, fratelli moltissimi di ogni popolo, d’ogni tribù, di ogni lingua. Ma alla buona economia della casa è richiesto che ogni famiglia abbia una madre, che divida col padre l’autorità, che vegli con occhio amoroso la prole, e soprintenda agli uffici più intimi e più delicati di casa. Ora Dio non ha voluto che a questa gran famiglia della sua Chiesa una madre mancasse, ed ottima di tutte le madri le ha dato Maria. E Madre la saluta la Chiesa, e il vocabolo col quale ogni cristiano appella Maria è il dolce nome di Madre. Né questa è squisitezza o esagerazione mistica, ma verissima dottrina cattolica: e i Padri di tutti i secoli con consenso pienissimo insegnano che come Gesù Cristo è il nuovo Adamo miglior dell’antico, capo del genere umano rigenerato, così è Maria l’Eva novella madre per grazia di tutti quelli che Gesù Cristo rigenerò alla salute; e sono celebri i paralleli che tra Eva e Maria tessono Ireneo, Epifanio, Agostino e Bernardo. Voleva quindi ogni ragione che come nell’ordine della natura Dio inserisce nei figli un attraimento arcano verso la madre per cui anche il pargoletto inconsapevole la discerne tra mille e a lei corre e in lei si abbandona, così nell’ordine della grazia un affetto arcano, una propensione quasi istintiva fosse inserita verso Maria. E questo affetto, questa propensione, lo Spirito Santo medesimo inserisce nei petti cristiani sino da allora che nel santo Battesimo muoiono all’antico Adamo e rinascono al nuovo Adamo che è Gesù Cristo. In quelle acque sacrosante nelle quali veniamo rigenerati, insieme con la grazia santificante e con gli abiti delle virtù soprannaturali che ci si infondono, ci si infonde ancora l’abito dell’amore a Maria. E per negare che questo affetto ce lo troviamo quasi inserito nel cuore, bisogna chiudere gli occhi alla luce, bisogna negare quello che ci dice ragionando altamente nel nostro cuore l’intimo senso. Pigliate quel pargoletto e quella pargoletta che pendono ancora dal seno materno, mostrate loro la immagine di Maria. Vedrete un’arcana simpatia, una tenerezza, una propensione, un attraimento di quell’anima innocente verso la benedetta fra le donne. Insegnategli a giungere le tenere mani e a balbettare con labbro infantile Maria, e vedrete con quanta facilità con quanto diletto quel dolce nome si stampa in quella memoria e in quel cuore, e dal cuore viene sul labbro, e sarete costretti a dire che lo Spirito Santo diffuso nei loro cuori generi questo affetto, generato lo nutrisca, nutrito lo perfeziona. Quindi è che questo affetto, se il peccato e l’iniquità non lo spengono, insieme colla fede cresce con gli anni e ci appresenta quello spettacolo che tutto giorno e agli altri porgiamo noi stessi, e noi stessi ammiriamo negli altri. – Se ci stringe un pericolo, chi invochiamo per soccorso? Maria. Se ci rallegra una consolazione chi ringraziamo per gratitudine? Maria. Se un affanno ci preme, chi invochiamo per refrigerio? Maria. Se ci assedia una necessità a chi ci volgiamo per sovvenimento? A Maria. Si vede, o si vede e si tocca con mano in questa gran famiglia cristiana quello che si vede in ogni ben composta famiglia, e come in quella in ogni necessità, in ogni pena, in ogni consolazione i figli fanno capo alla madre e tratti quasi da una dolce necessità ne la chiamano a parte, cosi anche in questa. E come nella famiglia un figlio che non ama la madre, che la disconosce e le fa villania si ha in conto di mostro snaturato e maledetto dagli uomini e da Dio; così fra i cristiani quelli che non amano, che non curano, che hanno alieno e avverso l’animo da Maria, sono pochi perché sono mostri, e i mostri non sono mai un gran numero. Anche fra i Cristiani di vita prodigata e perduta troverete di rado alcuno che non serbi nel petto qualche scintilla di amore a Maria, e questo è pegno di salute e ancora di misericordia, e basta perché non se ne debba disperare la conversione. Ma se qualcuno se ne trova, o Dio, guai a lui; fa orrore, mette spavento appunto come un mostro, e fra i segni di riprovazione non ce n’è alcuno che sia più terribile di una non so quale alienazione e avversione di animo da Maria. Questa avversione questo allenamento si è sempre visto negli eresiarchi più atroci e più empì, e Lutero diceva, siccome è noto, tutta l’anima mia si ribella e non posso patire in pace che mi si dica che la mia speranza è Maria. Infelice, cui il demonio invasava il petto del veleno e dell’odio che lo consuma contro la sua nemica. Quest’odio vediamo rinnovellato ai dì nostri nei settari che si sono venduti alle congreghe d’inferno, e fanno guerra a Maria ne bestemmiano il nome, ne distruggono il culto e le immagini, anime reprobe e destinate all’inferno. Da questi infuori regna in tutti i cuori cattolici l’amore, la tenerezza e una propensione filiale verso Maria. Ma che dico solo tra i cattolici? Domandate donde trae suo principio la conversione degli eretici alla Chiesa cattolica e sentirete che il primo passo fu un pio affetto che sentirono nascersi in petto verso Maria. Interrogate il missionario che si aggira per le barbare spiagge dell’Australia e della Polinesia come fa ad attrarre a se quei barbari e di bestie farli uomini e di uomini cristiani? Sotto un padiglione di verzura adorna di veli e di fiori che dà il paese, campeggia una cara immagine di Maria. Il selvaggio dal folto dei macchioni e dal cupo degli antri dove si intana vede quella cara sembianza e si accosta, e attonito domanda chi sia quella matrona sì augusta e sì amabile? Ode che è la Madre di Dio, e tirato e vinto quasi da catena amorosa dal nome di Maria è condotto a Gesù Cristo e alla Chiesa. Non vi faccia meraviglia. L’anima, disse sapientemente Tertulliano, è naturalmente cristiana, e avendo col Cristianesimo proporzione sì grande, non può non avere propensione naturale verso chi è la Madre di Gesù Cristo e del Cristianesimo, delle membra e del capo. Ma se Maria è la Madre universale andate al suo cuore. La madre più che altro si governa col cuore, e se volete espugnarla ragionate poco e date opera di guadagnarle il cuore: guadagnato il cuore è già vinta. Maria è madre andiamo al suo cuore, preghiamola pel suo cuore, espugniamo il suo cuore: la impresa è facile, ed otterremo ogni cosa.

3. Ma Dio che tanto amore ha infuso e propensioni affettuose così mirabili nel cuore del popolo cristiano verso Maria, avrà poi lasciato imperfetta l’opera sua, e non avrà acceso una fiamma di amore corrispondente nel cuore di tanta Madre? Voi intendete bene che questa mia domanda significa questo. Se ci ama Maria, e il vostro cuore ha risposto a quest’ora, se ci ama Maria? E non è il medesimo dire Maria e dire la più tenera e amorosa di tutte le madri? Le opere di Dio sono perfette nell’ordine della natura, ma nell’ordine della grazia sono perfette infinitamente di più. Ora la natura con la sua mano innesta nel petto dei figli l’amore verso la madre, ma nel cuore delle madri inserisce un amore molto più veemente molto più tenero, molto più sviscerato e costante. Vedrete quindi moltissimi figli disamorati delle loro madri, ma madri che non amino i figli le troverete rarissime, e appena qualcuna che vi metterà come snaturata sdegno e ribrezzo. Ora volendo Dio dare in Maria al mondo una madre, inserì nel cuore degli uomini un grande amore di Lei, ma nel cuore di Lei accese verso di noi un amore che non ha paragone altro che coll’amore che per noi arde nel cuore di Gesù. E per questo affetto cominciò il signore l’opera sua fino da quando questa futura Madre di Dio e degli uomini fu concetta, e le collocò in petto un cuore somigliante a quello che da Lei preso avrebbe Gesù, perché Maria, dice sapientemente S. Efrem Siro, è un’opera fatta solamente pel Verbo incarnato, di forma tale che se il Verbo non si fosse dovuto incarnare Maria non sarebbe stata nel mondo introdotta. A questo cuore poi lavorato apposta per amare gli uomini, Gesù medesimo che creato lo aveva, dette con la sua mano stessa la perfezione e la tempera, e lo empié del suo amore medesimo e lo scaldò della sua medesima fiamma. E chi ne può dubitare? – Gesù prese carne dei sangui purissimi sgorgati dal Cuore di Maria, Gesù albergò nove mesi nel santuario verginale dell’utero di Maria, e quei due cuori palpitarono di un medesimo palpito e vissero di una medesima vita. Che faceva quei nove mesi che tenne compresso il claustro delle viscere materne, che dico il Cuore di Gesù? Ardeva di amore smisurato ed ineffabile verso i figliuoli degli uomini. Come dunque non doveva accendere il cuore di Maria del suo medesimo ardore e temperarlo alla fucina delle fiamme che consumavano il suo? Ma che sarà stato poi durante quei trentatré anni che Ella dimorò con Gesù pellegrina celeste sopra la terra? Ci dice il Vangelo che questa Verginella prudente teneva sempre gli occhi in quel modello divino e tutto esaminava notava tutto, e quello che Gesù faceva e quel che diceva, e le comunicazioni mirabili col Padre, e le predilezioni verso i figliuoli degli uomini, e le propensioni, e i desideri e gli affetti, e nulla le sfuggiva e faceva tesoro di tutto, e tutto conservava dentro al suo cuore e tutto ponderava, tutto pensava, tutto seco medesima conferiva con diligenza celeste. Conservàbat omnia verbo hæc in corde suo. (Luc. II, 51) Avete udito? Teneva assiduamente il suo cuore alla scuola del Cuore di Gesù e lo formava su quel modello divino con sollecitudine tenera, gelosa, assidua, squisita. Conservabat omnia, verbo, haec in corde suo. E che altro da quel Cuore poteva imparare il tuo cuore o Maria fuor che ad amare quantunque immeritevoli, quantunque ingrati i figliuoli degli uomini? Ma che fa mestiere procedere per argomenti a mostrare l’amore di Maria verso gli uomini? Basta aver occhi per vedere com’Ella tutti mirabilmente fornisce gli uffici di ottima madre. A che prove conoscete se una madre ama veramente i figliuoli? Alle opere. Vedete non vive altro che per la sua famiglia, altro non cerca, di altro non si briga, non pensa ad altro. Ora in ogni famiglia ben ordinata, chi guardi bene vedrà che essendoci una madre e un padre sono tra questo quasi domestico magistrato compartiti gli uffici. L’autorità paterna è un’autorità grave e robusta, la materna, amorosa e soave, il padre sopraintende ai negozi che escono fuori delle pareti domestiche, e regola le relazioni esterne della famiglia, la madre è una autorità casalinga a cui appartengono le cure tenui ed interne. Alle cure grandi e rilevanti attende il padre, la madre dà opera alle incombenze minute. Però la madre si tiene davanti da mane a sera la sua famigliola e vede tutto, tutto procura, nulla le sfugge. Al modo medesimo passano le cose in questa gran famiglia della Chiesa, dice Bernardo. Ci è Dio nostro Padre e Gesù Cristo nostro fratello e da loro scende ogni bene. Ma ci è anche una madre a cui appartiene il governo e l’economia domestica di questa famiglia ed essa è Maria. Si tiene Essa però davanti tutti i figli della santa Chiesa cattolica, e tutti ci vede, ci conosce tutti, tutti ci custodisce, tutti ci veglia, vede tutte le nostre necessità, indaga i bisogni e pensa e provvede. E questo povero figlio è peccatore, è peccatrice questa povera figlia: e questo è tribolato, quest’altra è afflitta: e quale è infermo e quale in pericolo: a questo tende insidie il demonio, quest’altro il mondo lusinga: questa sta per cedere a un seduttore, quell’altro incatenano i lacci di una occasione: vede Maria vede, il cuore materno s’intenerisce, l’amore la sollecita e non ha pace. Si volge al Figlio, si appresenta al trono della Trinità sacrosanta, e supplica e implora a questo la conversione, la salute a quell’altro, a chi la forza e la grazia, a chi la speranza, a chi la consolazione, a chi lo scampo e la vita, a chi la vittoria contro il maligno in vita e in morte. Però è sempre attorno pel Paradiso, e i santi Padri leggiadramente la chiamano del Paradiso la faccendiera, però come nella famiglia i figlioletti chiamano più la madre che il padre, così nella Chiesa cattolica si chiama Maria continuamente, Maria, Maria. Non udite? Maria si grida dal mare se minaccia procella, e se l’onda è tranquilla le si insegna a salutarla stella del mare: Maria si invoca dalla terra o volgono prosperi e felici i successi o corrono torbidi e avversi. Dai letti del dolore si chiama Maria, nelle angustie e nelle distrette Maria s’invoca. Ed Ella? Ed Ella come colei che tota suavis est ac piena misericordiæ, che tutta è soave e piena di misericordia, omnibus sese exorabilem, dice Bernardo, omnibus clementissimam præbet, omnium necessitatibus amplissimo quodam miseratur Con quel suo cuore buono, largo, benfatto, generoso, benefico, a tutti si porge esorabile, clementissima a tutti, e con amplissimo affetto s’intenerisce alle necessità di tutti. Però ogni tempio, ogni lido, ogni terra, ogni spiaggia è piena dei monumenti e dei voti che attestano, che cuore sia quello di Maria, e quei monumenti e quei voti gridano in loro linguaggio, Maria ha un cuore grande, tenero, gentile, benefico: chi fa capo a quel cuore non patisce ripulsa: omnium necessitatibus amplissimo quodam miseratur affectu.

4. E perché Maria fosse tale Dio volle esercitare e perfezionare col dolore il cuor suo immacolato, verginale, santissimo, innocentissimo. Avrete sentito dire che Maria dal momento che divenne Madre di Dio divenne madre ancor di dolore, e portò sempre infitta nel mezzo al cuore una spada. È verissimo e così fu, e così conveniva che fosse. Perché osservate. Una madre buona e degna di questo nome ama tutti egualmente i figliuoli suoi: non ha parzialità per nessuno: sono tutti frutti delle sue viscere, li ama tutti ad un modo. Ma se tra i figli alcuno ne sia pel quale sperimenti più tenerezza qual è? È quello per cui ha molto patito. Il cuore di ogni madre è fatto così, il dolore patito genera amore, e il figliuolo delle lacrime e del dolore è il figliuolo prediletto. Essendo così, Dio che ci ha dato per figli a Maria, e ha costituito Lei nostre madre perché tutti ci avesse in grado di prediletti ha voluto che tutti fossimo per Lei figli di dolore. Già fin da quando aperse le sue viscere al Verbo di Dio intese che quel figliuolo destinato ad essere vittima del genere umano sarebbe per lei figliuolo di lacrime: ma lo intese anche meglio poco di poi. Aveva appena da quaranta giorni partorito Gesù e madre fortunata e incomparabile portava al tempio il frutto delle sue viscere, quando torbido e rabbuffato le si fece incontro un vegliardo per nome Simeone e presole di tra le braccia il bambino, questo bambolo, esclamò, è posto in ruina e in resurrezione di molti, e in bersaglio di contradizione: e tu donna preparati perché per conto di lui una spada ti trapasserà il cuore da parte a parte. Intese allora Maria tutto il mistero e capì che quel figlio all’età di trentatré anni le morirebbe crocifisso. Povero cuore da quel giorno in poi non ebbe più lieta un’ora, e come Gesù dal presepio al calvario ebbe sempre nel cuore la croce, così tu o Maria avesti sempre nel cuore la spada. Cresceva Gesù, crescendo in età sempre diveniva più vezzoso, più giocondo, più bello, lo irraggiava la sapienza, lo infiorava la grazia, Dio e gli uomini si compiacevano in esso, le spose e le madri di Sion ti predicavano beata, e tu tacevi: ma chi ti avesse letto nel cuore avrebbe letto le parole della desolata Noemi: non mi chiamate felice ma amara perché il Signore mi ha ripiena di amaritudine: e il significato di queste parole si sarebbe inteso quel giorno che ti sarebbe conferito il grado di Madre degli uomini. Orsù dilettissimi, rispondete: quando e dove Maria veramente ci partorì e diventò madre nostra? Nel gran giorno del dolore là sul Calvario. Stabat iuxta crucem Jesu Mater ejus (Ioan. XIX, 25.) Pendeva Gesù dalla croce sanguinolento olocausto: ai piedi della croce stava Maria. Presso Maria, rappresentante nostro, stava Giovanni. Maria trambasciava di dolore, Gesù la vide, e additandole Giovanni le disse: ecco il tuo figliuolo, e a Giovanni: ecco la madre tua. Allora divenne Maria madre nostra, e in Giovanni tutti quanti ci accettò per figliuoli, e Gesù consumò l’opera gettandole in petto una parte di quella fiamma che nel suo Cuore allora ardeva per noi. Coraggio o carissimi, coraggio: Maria ci ama, siamo suoi figli e non figli in qualunque modo, ma figli del suo dolore, e però prediletti, e quando ci vede ricordandosi quel che ha patito s’intenerisce, il suo cuore non regge più e dimentica tutto e solo sente le voci dell’amore. Tutta la terra è piena delle misericordie di Maria verso i figliuoli degli uomini che si cantano in ogni lingua, si magnificano da ogni labbro. Come mai in tal Regina tanto amore verso una generazione scortese, ingrata, villana? Non vi stupite gli uomini sono figliuoli del suo dolore. Nessuno dunque abbia temenza di accostarsi a Maria. Ogni temenza sarebbe irragionevole. Andate pure e sappiate che quando un figliuolo la supplica, il cuor suo non resiste. Guardatela ha il cuore in mano e par che vi dica son io sì, son io, son vostra madre, accostatevi e vedrete che cuore è questo.

5. E però è che la santa Chiesa tutti invita, tutti sprona a rifuggire al Cuor di Maria: ma di preferenza appresenta quel cuore ai peccatori, che pei peccatori sembra che sia aperto principalmente in questi tempi novissimi, onde la devozione al Cuore di Maria è ordinata principalmente alla conversione dei peccatori. Intendo, intendo. Datemi una madre tenera, sviscerata quanto volete dei suoi figliuoli, datemela a vostro talento imparziale verso tutti i frutti delle sue viscere: vedrete con tutto ciò, che se uno dei suoi figliuoli o le cade infermo e il morbo si aggrava, o geme prigioniero, o vaga tribolato e ramingo sembra che questa madre muti natura. Non sembra più imparziale né eguale con tutti i figli: sembra invece che dimentichi tutti gli altri, che non li curi: tutte le sollecitudini sembrano essere pel figliuolo che tribola e che patisce, sembra che in lui si concentri tutto l’affetto. La vedete quindi o assisa di dì e di notte alla sponda del letto molcere le angosce e alleviare i dolori del caro infermo, o sollecita di sapere le novelle del prigioniero diletto, e dell’amato ramingo, di altro non favella se parla, ad altro non pensa se tace, non ode volentieri che si parli di altri fuorché di loro. Sono tribolati, hanno ragioni sovrane sul cuor materno. Ora chi sono in questa gran famiglia che Dio ha dato a Maria i poveri peccatori? Sono figli prigionieri, sono figli raminghi, son figli infermi. Infermi della pessima malattia del peccato, raminghi ed esuli dalla casa del Padre, prigionieri del diavolo già condannati all’inferno. Li vede Maria e ne sa la miseria incomparabile, e il suo Cuore materno si strugge e si consuma di dolore e di amore. Poveri figli non sanno quello che fanno, sono ciechi, sono travolti da infelicissimo errore: si perdono e non intendono il loro male. Ah! il Cuor di Maria non ha pace, grida mercé al suo Figlio, li cerca, li scuote, li sollecita, li invita, li alletta, e con tenere voci da mane a sera li chiama, e poiché non ascoltano si volge ai figli fedeli, e voi, dice, voi aiutatemi, se mi amate, aggiungete la vostra voce alla mia, e uniti insieme riconduciamo al Padre questi profughi sconsigliati e cari. Peccatori, sentite a quando a quando quelle voci al cuore, quelle grida della coscienza lacerata, quegli impeti, quegli impulsi a tornare al Padre? Sono le voci di Maria che vi chiama, ah! se avete cuore umano nel petto consolate il dolore e rasserenate il cuore di questa Madre. Su rispondete, parlate. Quem fructum habuistis in quibus nunc erubescitis? (Rom. VI, 21.) Vi è messo conto a partirvi dalla casa del Padre? A mettervi per le vie tribolate dell’iniquità? A cambiare il giogo di Gesù colla catena del diavolo? O cari anni della vostra innocenza! O giorni felici della coscienza serena! Allora passavano i dì tranquilli, allora correvano placide e dolci le notti, allora guardavate il cielo con lieto sembiante, allora invocavate con dolce affetto i nomi di Gesù e Maria, il presente era giocondo, non vi atterriva il futuro, la pace del cuore si dipingeva nell’occhio sereno e nel volto. E ora? E ora non ci è più pace. Torbidi i giorni, tetre le notti, la coscienza s’indraga siccome un serpe, pochi momenti di ubriaca voluttà e poi tempesta e fremito nel cuore, e il tumulto e la rabbia del cuore vi si dipinge negli occhi torvi, nel volto arroncigliato, nelle parole rabbiose, nei modi protervi. Su dunque sorgete, poveri assetati di pace, tornate al Padre. Ma vi manca la lena, il giogo del peccato vi grava verso la terra, vi stringe i piedi la catena inveterata di satana. Ecco vi si apre in buon punto il Cuor di Maria. Alzate gli occhi: guardate quella benedetta sembianza, contemplate quegli occhi, quel cuore, quel dolce atto d’invito e poi non confidate se vi riesce. O sì, sì confidiamo, confidiamo tutti o Maria. Il tuo nome infonde fiducia, rincuora la tua sembianza, ma se contempliamo il tuo Cuore, forza è che ci diamo per vinti, perché esercita un’attrattiva che ci trascina. Trahe nos dunque trahe nos Maria … Mostraci, mostraci cotesto Cuore. In odorem curremus unguentorium tuorum, (Cant. IV, 10.) correremo all’odore dei tuoi profumi, e riconciliati con Dio e salvi con Te e per Te, cominceremo nel tempo e continueremo nella eternità a cantare o clemens, o pia, o dulcis virgo Maria.

 

CONOSCERE SAN PAOLO (2)

CONOSCERE SAN PAOLO

[F. Prat, S. J.: La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

Il vaso di elezione. (2)

III. LA VIA DI DAMASCO.

1. APPARIZIONE DEL CRISTO. — 2. ORIENTAMENTO TEOLOGICO.

1. Il martirio di Stefano non aveva fatto altro che stimolare di più la sua sete di sangue cristiano. Non contento di assistere al supplizio delle vittime, penetrava nelle case, ne strappava gli abitanti, uomini e donne, per trascinarli nelle prigioni. Ben presto, per mancanza di vittime, la persecuzione si estingueva a Gerusalemme, e Saulo dovette portare altrove la sua rabbia insaziata. Egli supplicò il sommo sacerdote (Era forse ancora Caifa, deposto nel 36) perché lo investisse di una missione ufficiale per cercare, nelle sinagoghe di Damasco, i discepoli occulti di Gesù e per condurli incatenati al Sinedrio. Qui lo attendeva il dito di Dio. – Essendo la conversione di San Paolo, dopo la risurrezione del Salvatore, il miracolo meglio affermato, il più ribelle a qualunque spiegazione naturale e perciò il più incomodo al libero pensiero, non bisogna stupirsi che la critica razionalistica abbia fatto sforzi disperati per attenuarne la forza dimostrativa. Come per la risurrezione di Gesù Cristo, si è tentato di mettere in disaccordo le testimonianze. Nel Libro degli Atti vi sono tre narrazioni della visione di Damasco; una è fatta da San Luca per conto suo (Act. IX, 1-13), e le altre due sono messe in bocca di San Paolo (Act. XXII, 3-21; XXVI, 12-20). Come tutti ammettono, le tre narrazioni concordano su tutti i punti di qualche importanza: l’occasione, il luogo, l’ora dell’accaduto, la luce abbagliante che improvvisamente avvolse la carovana, il dialogo tra Paolo prostrato a terra e la voce misteriosa, la sua cecità temporanea, il suo battesimo, la sua guarigione, l’orientamento affatto nuovo che ad un tratto fece di un persecutore un Apostolo. Si vanno scrutando, per trovarci contradizioni, i particolari più insignificanti, certe minuzie che si avrebbe vergogna di rilevare in una storia profana, circostanze estranee al fatto in sé e riguardanti soltanto le impressioni provate dai compagni dell’attore principale, le quali sono necessariamente soggettive e forse diverse. Il più curioso è il trovare tali obbiezioni proprio in quei critici i quali suppongono che l’autore abbia composto i discorsi degli Atti per metterli d’accordo col suo racconto! Bisognerebbe almeno scegliere tra due mezzi di opposizione che si escludono a vicenda; poiché o San Luca compose egli stesso i discorsi che mette in bocca ai suoi personaggi, e allora non è il caso di parlare di antilogie né di contradizioni; oppure egli li ha inseriti nel suo racconto, a titolo di documenti, nonostante le differenze che potevano offrire con la sua narrazione, e allora bisogna riconoscere e lodare altamente i suoi scrupoli di storico. – Si nega il miracolo dell’apparizione, senza prendersi la pena di spiegare questo altro miracolo di ordine morale, ancora più inesplicabile se si nega il primo, cioè la conversione di Paolo. Tutta la vita dell’Apostolo, la serietà del suo fariseismo, la fermezza incrollabile della sua fede cristiana, protestano contro qualunque sistema che voglia fare di lui un allucinato, un esaltato. Protestano con non minore forza i suoi scritti (I Cor. IX, 1; I Cor. XV, 8; Gal. I, 15). Nella sua conversione non vi sono tappe, non vi è una marcia graduale verso la fede: Gesù Cristo lo ha preso d’improvviso nella sua corsa. Il colpo che lo atterrò fu un colpo fulmineo, irresistibile; non vi fu nulla che lo presagisse e che lo preparasse, ma fu puramente effetto della grazia onnipotente. Supponete forse che avesse prima relazioni con i cristiani! Egli li conosceva soltanto come il carnefice conosce le sue vittime. Egli della loro dottrina non sapeva nulla, eccetto questo: che era incompatibile con la Legge di Mose, inconciliabile con il giudaismo, perciò odiosa e degna di sterminio; questo gli bastava e non cercava di saperne di più. Direte forse che avesse qualche esitazione, qualche ansietà, qualche rimorso? Egli stesso vi risponde che non sentiva nessun turbamento, nessuna inquietudine, che credeva sinceramente di servire Dio, che era in buona fede e che alla sua ignoranza deve l’aver ottenuto misericordia. Dinanzi a tali affermazioni precise, le ipotesi faticosamente accatastate dai critici razionalisti non possono reggersi. Per sopprimere un miracolo, si fabbrica un miracolo psicologico ancora più meraviglioso: è meglio non cercare di spiegare ciò che è inesplicabile. – Certamente la grazia incontrava nella ricca natura di Paolo un terreno propizio e germi preziosi. Le forti convinzioni al servizio della passione si possono più facilmente volgere al bene, che non lo scetticismo armato d’indifferenza. Dio entra più facilmente nei cuori e nelle menti che non hanno peccato contro la luce. Il bisogno innato di giustizia e il profondo sentimento della sua impotenza inclinavano spontaneamente quell’anima verso la dottrina cristiana dove queste due tendenze dovevano trovare soddisfazione e riposo.

2. L’apparizione di Damasco esercitò su la teologia dì San Paolo un’influenza molteplice di cui conviene qui notare alcuni tratti. Una delle teorie più ardite e più originali dell’Apostolo è l’incorporazione al Cristo, in virtù della quale il Cristo è tutto in tutti, e tutti sono una cosa sola con lui. Ma questa teoria non è già contenuta in germe in quella domanda di Gesù: « Saulo, perché mi perseguiti? ». Paolo non assaliva direttamente la persona di Gesù Cristo: dunque vi è tra Gesù e i suoi un’identità misteriosa, se nel colpire i discepoli si colpisce il Maestro. – Nella conversione di Paolo, l’opera della grazia è tangibile, il cambiamento è improvviso: è un lampo che abbaglia, è l’adesione rapida alla chiamata divina di una volontà che quasi non ha coscienza di avere acconsentito. Chi ha conosciuto una simile crisi, ha il sentimento più preciso, l’intuizione più viva, che tutto l’onore di quel cambiamento viene da Dio; egli si figura l’operazione della grazia come fulminante, la fede come un atto di obbedienza, libero sì, ma che fatto una volta vi getta ad un tratto in un nuovo mondo di diritti e di doveri, di obblighi e di privilegi. È appunto la fede dell’Epistola ai Galati e dell’Epistola ai Romani, quella fede attiva in cui il cuore ha la stessa parte della mente, quella fede che mette in rivoluzione tutto l’essere, invade tutte le potenze dell’anima e in un istante orizzonta tutta la vita. – Finalmente il Cristo intraveduto lascia nella memoria di Paolo un ideale indimenticabile: da quel momento il suo sguardo resta immobilmente fisso sul modello impareggiabile. Egli aspira e vuole che si aspiri alla misura, alla pienezza del Cristo; non sarà possibile mai neppure avvicinarlesi, ma che importa? bisogna tendervi sempre. La morale di Paolo è tutta imbevuta di quel ricordo vivente e invece di proporci l’esempio di Gesù nella sua vita mortale, c’invita a imitare il Cristo risuscitato e glorioso. – Sarebbe troppo però il far derivare tutta la teologia di San Paolo dal fatto della sua conversione, sia pure fecondata dall’esperienza religiosa. La visione di Damasco è la più chiara e la più intima delle rivelazioni, ma è soltanto la prima, e l’esperienza religiosa può trarre da un fatto soltanto quello che esso contiene realmente. La fede cristiana non si riduce a un’impressione soggettiva, e i nostri dogmi non sono i prodotti arbitrari e relativi della coscienza individuale: l’attenuare fino a tal segno il compito della rivelazione è cosa contraria alla verità e alla formale testimonianza dell’Apostolo, come vedremo dai fatti.

IV. RIVELAZIONE PROGRESSIVA.

1. LA SERIE DELLE RIVELAZIONI. — 2. ELABORAZIONE DELL’ELEMENTO DIVINO. — 3. SENSO E DIREZIONE DEL PROGRESSO.

1. Né la natura né la grazia non procedono a salti, perciò l’educazione di Paolo, come quella degli altri Apostoli, non si doveva compiere in un giorno. Se il suo principio fu segnato da una crisi subitanea, lo sviluppo ulteriore ebbe un corso normale e progressivo; se la visione di Damasco fu l’esca di una sintesi teologica, la sintesi stessa sarà il frutto di una rivelazione lenta e continua. La voce gli aveva detto: « Alzati, entra in città: là ti sarà indicato ciò che devi fare (Act. IX, 6) ». Anania fu per quella volta il canale delle comunicazioni celesti. Dopo il Battesimo, il neofito si ritira nel deserto dell’Arabia, sia per meditare la rivelazione ricevuta, sia per disporre l’anima sua a nuove illustrazioni celesti. La voce gli parla ancora, tre anni dopo, nel Tempio di Gerusalemme (Act. XXII, 18). Il cielo s’incarica sempre d’illuminarlo e di condurlo: per rivelazione, va a perorare presso gli Apostoli la causa dei Gentili (Gal. II, 2); lo Spirito di Dio gli proibisce di predicare in Asia (act. XVI, 6), gli chiude le frontiere della Bitinia (Act. XVI, 7) e lo spinge irresistibilmente in Macedonia (ivi, 9, 10); lo incoraggia e lo consola a Corinto, dopo la disdetta di Atene (Act. XVIII, 9); lo riconduce per forza a Gerusalemme, nonostante la prospettiva di una lunga prigionia (Act. XX, 22); poi, quando ogni speranza di vedere Roma sembra perduta, gliene ripete l’assicurazione (Act. XXIII, 11). Insomma, la Provvidenza lo conduce sempre quasi per mano. Essa mostra la stessa sollecitudine così per istruirlo come per guidarlo; ma l’illuminazione divina saggiamente graduata, si scopre soltanto a poco a poco: « Io ti sono apparso, gli è detto la prima volta, per costituirti ministro e testimonio delle cose che tu hai vedute e di quelle che ti manifesterò ancora (Act. XXVI, 16) ». Sono visioni innumerevoli di cui Paolo avrebbe diritto di essere orgoglioso, se non preferisse gloriarsi della sua debolezza la quale dà maggior gloria al suo Maestro; visioni sublimi di cui piacque al Signore temprare l’eccesso e smorzare lo splendore con dare alla sua carne un pungiglione, messaggero importuno di Satana (II Cor. XII, 1). Oh! Perché non ci è dato di riprodurre tutta la serie di tali illustrazioni celesti? L’Apostolo fa allusione una volta a un rapimento al terzo cielo ove intese parole ineffabili che all’uomo non è possibile né permesso proferire (II Cor. XII, 4). Quella grande estasi che lasciò in Paolo un’impressione duratura, ma di cui non riuscì mai a spiegarsi il modo, coincide presso a poco con gli inizi del suo apostolato effettivo. Era forse una preparazione immediata alle missioni tra i Gentili e una visione più intima della verità che stava per predicare a loro? Non lo sappiamo: ma il fatto è che egli costantemente rivendica alla sua predicazione un’autorità e un’origine divina. « Vi dichiaro, scrive ai Galati, che il Vangelo annunziato da me non è secondo l’uomo. Difatti io non l’ho né ricevuto né imparato dagli uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo (Gal. I, 11-12) ». Il valore di questa dichiarazione dipende un poco dal senso che si dà a ciò che San Paolo chiama il suo vangelo. Quando egli afferma di aver esposto ai fedeli di Gerusalemme e, in particolare, ai suoi colleghi nell’apostolato il vangelo da lui predicato ai Gentili, dice che essi non vi trovarono nulla da riprendere né da completare (Gal. II, 2), intende forse parlare di tutta la catechesi cristiana, compreso il ciclo dei dogmi elementari, il compendio della morale, la simbolica dei sacramenti con il racconto sommario della vita e della morte di Gesù? Non ci sembra probabile, perché c’erano troppi punti comuni affatto fuori di questione. Paolo intende certamente per suo vangelo la forma che prendeva il messaggio della salute passando dal giudaismo alla gentilità, la forma caratteristica della sua predicazione in mezzo ai Pagani. Sarebbe dunque in prima linea l’eguaglianza degli uomini nel disegno della redenzione, l’ammissione dei Gentili nella Chiesa alla pari con gli Ebrei, l’abolizione della Legge mosaica, la libertà che ne deriva per tutti, specialmente per i cristiani venuti dal paganesimo, la giustificazione degli uomini per mezzo della fede, indipendentemente dalle opere della Legge, l’incorporazione dei fedeli al Cristo per mezzo del Battesimo, l’unione di tutti in Lui, la comunione dei santi che ne è il corollario, insomma tutte le proprietà del Corpo mistico del Cristo. – Quando ai Romani rivolge l’augurio di essere confermati nel « suo vangelo », Paolo identifica questo vangelo col Mistero, prima nascosto ed allora svelato (Rom. XVI, 25), mistero di cui le Epistole della prigionia ci spiegano il segreto e ci danno la definizione. L’Apostolo riferirebbe dunque alla rivelazione immediata di Gesù Cristo soltanto quei punti particolari della sua predicazione, per i quali i giudaizzanti lo accusano di predicare un vangelo diverso da quello dei Dodici. È vero che la dottrina del corpo mistico ha molte ramificazioni, e può essere che l’istituzione dell’Eucaristia, l’indissolubilità del matrimonio e il destino dei giusti nel giorno della parusia, riguardo le quali Paolo sembra che rivendichi a sé una rivelazione speciale, ne derivino in linea retta. Egli stesso indica chiaramente il rapporto che vi è tra la comunione dei fedeli con il corpo del Salvatore e la loro unione nel corpo mistico: « Noi siamo uno stesso pane, uno stesso corpo, perché tutti noi comunichiamo con uno stesso pane (I Cor. X, 17) ». Poco dopo afferma che ha « ricevuto dal Signore quello che alla sua volta (I Cor. XI, 23) ha trasmesso » ai neofiti di Corinto, cioè il fatto e il modo dell’istituzione dell’Eucaristia. Ora non ci sembra possibile che si debba intendere questo ricevere per un ricevere mediante intermediari, poiché in tal caso Paolo non differirebbe per nulla dall’ultimo dei credenti; bisogna dunque che Gesù Cristo gli abbia comunicato direttamente questo mistero. Per gli altri due punti indicati sopra, sarebbe permesso il dubbio. Quando l’Apostolo dice: « Ordino alle persone coniugate — non io ma il Signore — che la donna non si separi dal marito e il marito non mandi via sua moglie (I Cor. VII, 10-11) », egli può alludere al precetto del Salvatore, scritto nel Vangelo; tuttavia il senso mistico del vincolo coniugale che figura l’unione del Cristo con la Chiesa (Ef. V, 32), depone in favore di una rivelazione immediata. In quanto alla dichiarazione fatta ai Tessalonicesi « su la parola del Signore (I Tess. IV, 15) », riguardo alla sorte dei giusti che vedranno il giorno della parusia, può essere che si tratti di una parola pronunziata da Gesù durante la sua vita mortale e trasmessa per tradizione, benché tale ipotesi non sia molto verisimile. Anche qui noi incliniamo ad ammettere una rivelazione diretta, tanto più che la risurrezione dei giusti e la glorificazione dei viventi dipendono intimamente, per San Paolo, dalla teoria del corpo mistico. – Occorre andare più innanzi e riferire alla stessa fonte divina tutto ciò che l’Apostolo ha predicato, anche quello che facilmente poteva apprendere da intermediari, come la vita, i miracoli, i discorsi di Gesù? A noi non sembra; in tal caso Paolo sarebbe stato molto più favorito che i suoi colleghi nell’apostolato, che dovettero apprendere, dal racconto di altri, molti fatti di cui non erano stati testimoni oculari. La Provvidenza che non fa mai nulla d’inutile, anche nel miracolo pratica una certa economia di mezzi. Certamente, secondo la saggia osservazione di Estio, al Signore non sarebbe costato di più l’insegnargli in un istante tutte le verità della fede cristiana, che il convertirlo miracolosamente; tuttavia Dio volle servirsi del ministero di Anania,, affinché nessuno disprezzi il magistero umano, vedendo il Dottore delle Genti catechizzato da un uomo: in questo non vi è nulla di contrario alle pretese di Paolo. « Egli ha ricevuto tutti gli elementi della fede, come gli altri catecumeni, al momento del suo battesimo; ma il Cristo si riserva d’insegnargli egli stesso i misteri più profondi del Cristianesimo ».

2. L’azione della luce divina sull’intelligenza dell’uomo non è meno misteriosa che l’azione della grazia su la sua volontà. Come si distinguomo le verità infuse dalle cognizioni acquisite naturalmente? Di dove viene al profeta la certezza che ha inteso Dio e che ne annunzia esattamente il messaggio? Non sapremmo dirlo e appena possiamo concepirlo. Come osserva San Tommaso seguendo Sant’Agostino, i profeti dell’Antico Testamento erano illuminati ordinariamente da emblemi o da simboli di cui una luce interiore spiegava loro il significato; il loro linguaggio colorito, immaginoso, pieno di allegorie e di parabole ha conservato la traccia indelebile di quella maniera di rivelazione. In San Paolo non vi è nulla di simile: la sua mente riceve direttamente e riflette come uno specchio il raggio divino; egli comprende per intuizione il disegno della redenzione; penetra l’essenza e la ragione di essere del gran Mistero. Se talora le sue rivelazioni sembrano rivestire una forma sensibile, se si rappresenta la Chiesa come un corpo di un organismo perfetto, o come un albero che cresce indefinitamente, o come un tempio che lancia verso il cielo le sue linee armoniche, si vede subito che tali immagini non hanno né rilievo né costanza, che si mescolano e si confondono, che la fantasia non riesce a ricostruirle, che sono reminiscenze dell’Antico Testamento e che, ben lungi dal restare nella mente di Paolo allo stato di visione, sono invece lo sforzo di un’idea che si vuol rendere concreta. Quello che più volentieri l’Apostolo augura ai suoi discepoli, è l’intelligenza chiara della verità, e quando rivendica a sé la comprensione dei misteri, egli esprime con la parola più esatta l’azione di Dio sopra di lui. – Non già che un avvenimento provvidenziale non favorisca lo schiudersi della rivelazione, o che la ragione non intervenga alla sua volta per fecondarla: la mente di Paolo non era né passiva né inerte. L’esagerata accondiscendenza di Pietro gli fece comprendere il pericolo della conservazione della Legge nelle chiese miste; le pretese dei giudaizzanti gli fecero afferrare, meglio e prima che agli altri, il principio e le conseguenze dell’eguaglianza cristiana; la negazione e il dubbio erano spesso l’urto in cui si accendeva la luce soprannaturale. Insomma, quello che distingue le sue rivelazioni è il carattere individuale e l’opportunità. La questione presente, non occorre dirlo, non ha nessun senso per i teologi razionalisti i quali sopprimono le rivelazioni di fatto, se anche le mantengono di nome. Gli uni, infeudati al panteismo di Hegel, fanno evolvere le idee di Paolo da movimenti continui e da soprassalti insensibili. Essendo tutto l’essere contenuto nelle sue cause prossime, il progresso non è altro che il risultato del conflitto di due elementi contrari ridotti all’unità da un principio superiore. Chiunque si sforza di ricostruire la teologia di Paolo su questi dati hegeliani, la cerca tutta quanta nei suoi elementi preesistenti, cioè nell’ellenismo greco, nel giudaismo rabbinico, nella mescolanza di entrambi in dosi più o meno disuguali, senza tuttavia negare che questo fondo primitivo non si sia potuto arricchire con l’analisi del suo contenuto o con un procedimento dialettico. Perciò Paolo altro non sarebbe che un idealista, un sognatore ozioso il quale passa la sua vita nel mettere insieme concetti e nel fabbricare sistemi: precisamente il rovescio dell’uomo ispirato e pratico che ci è mostrato dalle sue meravigliose Epistole. – Il tempo però ha fatto giustizia di queste fantasie che non reggono alla prova dei fatti. Presentemente i teologi razionalisti, imbevuti di kantismo, predicano più volentieri il procedimento psicologico. La dottrina di Paolo, dicono essi, « non è una teologia speculativa, dedotta logicamente da un’idea generale, ma una teologia veramente positiva il cui punto di partenza è la reltà interiore della fede ». Con la fede, e soprattutto con l’amore, Paolo s’identifica con il Cristo. « Egli è divenuto membro del Cristo; è posseduto da lui; ha la sicurezza invincibile che il Cristo è non solo la causa, ma l’autore sempre attivo della sua vita spirituale e del suo pensiero ». Quello che prova nella sua vita personale, « l’Apostolo lo ritrova e lo indica come una legge nella storia dell’umanità ». Riassumendo, « il pensiero di Paolo ha sempre seguito la sua esperienza religiosa e non l’ha mai preceduta. Nato nella sfera della vita individuale, il suo pensiero si è elevato, per via di generalizzazione, alla sfera sociale e storica; e siccome tendeva con uno sforzo incessante verso l’unità e gli ultimi principi, è arrivato finalmente a svolgersi nella sfera metafisica… Le vedute storiche dell’Apostolo nascevano dalla sua antropologia; le sue idee speculative, dalla sua costruzione della storia, e tutti questi sviluppi insieme erano nella sua fede primitiva, come la pianta è nel germe che la produce (De Sabatier)». Andando a fondo in queste metafore, si trova questo: Paolo dà un corpo ai suoi sentimenti, generalizza la sua esperienza, rende oggettiva l’idea che egli si fa del Cristo. Su che cosa poggi questa idea, a che cosa risponda questo sentimento, che cosa valga questa esperienza, poco importa: la teologia di Paolo si riduce a un’impressione soggettiva. – Tutti questi inventori di teorie oltrepassano apertamente i limiti delle loro attribuzioni. Il compito dei teologi non è quello di sostituire se stessi all’Apostolo né d’immaginare quello che egli doveva dire o quello che essi avrebbero detto al posto suo, né di cercare per quale via egli sia giunto alla sua concezione del mondo soprannaturale, supponendo che egli si muova nel dominio dell’irreale e del chimerico. Se vi è una cosa certa, è che Paolo non è né hegeliano né kantiano: bisogna dunque prenderlo come è, e non sarebbe possibile riconoscerlo nelle ricostruzioni laboriose e arbitrarie del suo pensiero. Quali anatemi non avrebbe fulminato contro questi interpreti indegni dell’opera sua, egli che scriveva ai Galati. « Il mio Vangelo non l’ho ricevuto da un uomo né imparato dagli uomini, ma per rivelazione di Nostro Signor Gesù Cristo! ».

3. Noi concepiamo ben diversamente il progresso del vangelo di Paolo. Esso non è né un sentimento che si rende oggettivo né un’idea che si sviluppa con l’analisi; l’impulso viene di fuori, dall’ispirazione divina che si adatta agli avvenimenti esteriori. Non dimentichiamo che l’Apostolo non scrisse un’esposizione sistematica delle sue dottrine, non tenne il diario delle sue rivelazioni, ma tutte le sue Epistole sono lavori di polemica o lettere di direzione, scritte secondo che richiedevano le circostanze speciali; che se esse spiegano la sua predicazione, la suppongono sempre e perciò rispecchiano le difficoltà in cui veniva a incontrarsi la diffusione della fede, e di lavorio interno che accompagnò lo sviluppo del Cristianesimo. Il progresso che esse manifestano, è dunque parallelo allo stesso progresso della vita della Chiesa primitiva; ed è questo appunto che ne costituisce per noi la maggiore importanza. – Al momento della loro conversione, i neofiti davano un assenso incondizionato alla predicazione apostolica. Essi ricevevano la parola di Paolo non come una parola umana, ma come la parola di Dio, quale era realmente e nella sua origine e nel suo oggetto. A nessuno veniva in mente di discutere il suo insegnamento, e fa stupire il vedere con quanta facilità le popolazioni pagane accettavano il monoteismo; la morale cristiana s’imponeva subito per l’evidenza della sua perfezione; il compito del Redentore non pare che abbia sollevato nessuna seria obbiezione. Ma l’esposizione drammatica della fine del mondo colpiva le fantasie e commoveva i cuori e talora lasciava un certo turbamento nelle menti. Molti credevano di essere prossimi all’ora suprema, si preparavano all’imminente venuta del Giudice, speculavano sui relativi vantaggi dei morti e dei viventi; parecchi arrivavano al punto di trascurare le cure delle cose terrene, divenute insignificanti in confronto con gli imminenti interessi eterni. – Le lettere ai Tessalonicesi attestano appunto queste vive apprensioni, e siccome esse sono il solo documento che ci resti di quel tempo, potremmo essere tentati di credere, con un’illusione di prospettiva assai naturale, che la catechesi apostolica fosse soltanto un’escatologia, invece di essere un breve compendio del dogma e della morale. Ma perché l’articolo che riguardava la fine del mondo aveva fatto su gli uditori un’impressione così forte, l’Apostolo, nei suoi primi scritti, è obbligato a ritornare mille volte su l’argomento della parusia. Forse in seguito si regolò in modo da evitare la ripetizione di simili malintesi. Quel periodo di fede semplice di fiducia assoluta non poteva durare sempre. La questione delle osservanze legali che era stata messa avanti al primo momento della predicazione di Gesù e che aveva precipitato la rottura tra lui e i farisei, doveva per molto tempo essere il problema vitale della Chiesa nascente. Il compromesso conchiuso a Gerusalemme non aveva soddisfatto i giudaizzanti; la controversia di Antiochia, risortasi col trionfo delle idee di Paolo, non li sconcertò affatto. L’Apostolo li incontrava dappertutto sui suoi passi: in Galazia, a Corinto, a Efeso, come ad Antiochia e a Gerusalemme. Non appena egli aveva fondato una cristianità, essi si affrettavano a seguire le sue piste e ad opporgli una missione contraria; le sole chiese della Macedonia sembrano essere sfuggite alla loro propaganda sfrenata. Per combattere efficacemente il Vangelo di Paolo, essi osavano prendersela contro di lui, contestare il suo apostolato, abbassarlo molto sotto i Dodici, lasciandogli soltanto quel compito secondario che non si rifiutava agli apostoli di second’ordine, a un Apollo o ad un Barnaba. Per un anno intero Paolo ebbe da lottare contro quegli sleali avversari; ma non dobbiamo dolerci di questo, perché le sue quattro Epistole maggiori sono il frutto di quella lotta. Se in esse occupa una gran parte la polemica, non poteva essere altrimenti; tuttavia l’Apostolo mantiene la controversia molto più in alto che le meschine questioni personali; egli risale alla fonte della grazia e all’origine del peccato; analizza la natura della giustificazione e il valore della fede; studia l’impotenza della Legge e la necessità di una redenzione comune a tutti: egli sta su le più alte cime dei principi da cui risolve, per via di corollari, i più oscuri problemi. Ma questo è soltanto uno degli aspetti della sua dottrina durante quella fase del suo insegnamento. Mentre le mene dei giudaizzanti lo obbligavano a dilucidare l’armonia dei due Testamenti e la subordinazione dell’antica economia al Vangelo, sorgevano nella Chiesa molti dubbi teorici e pratici su diversi punti della catechesi primitiva. La prima Epistola ai Corinzi ci dà un’idea dei numerosi casi di coscienza che l’Apostolo doveva spesso risolvere, o a voce o per iscritto, per spiegare e completare la sua predicazione, e si può tenere per certo che il trattamento dei cristiani scandalosi, il ricorso ai tribunali pagani, la questione delle vittime sacrificate agli idoli, il velo delle donne, la celebrazione dell’agape e dell’Eucaristia, l’uso dei carismi, il dogma della risurrezione, il modo di organizzare le collette, non sono le sole questioni che egli risolve nelle nascenti cristianità. – Incominciava appena a calmarsi la controversia dei giudaizzanti, quando una nuova eresia sorse a minacciare la purezza del Vangelo. La fede prendeva contatto con la scienza profana, e già si era pronunziata la parola filosofia; ma non si trattava della filosofia greca, sempre un po’ razionale anche nei suoi errori; si trattava invece di una teosofia orientale assai più pericolosa, perché di contorni meno precisi e perciò meno facile a confutarsi. Soprattutto la persona e il compito del Cristo preoccupavano le menti; si voleva sapere che cosa Egli era prima della sua apparizione su la terra; quali rapporti lo univano a Dio, al mondo, all’umanità; qual era il suo grado in mezzo a quelle legioni di esseri soprannaturali, mediatori tra Dio e l’uomo, di cui le fantasie orientali popolavano i cieli. Nelle sue Epistole della prigionia, Paolo non solo sodisfa a quei desideri di sapere e di comprendere, ma innalza il Cristo a tale altezza, che a Lui non si può più paragonare nulla; lo mette nel seno stesso di Dio, come fa Giovanni del sue Logos, in modo da formare con Dio un’unità indivisibile. Poi, prendendo da questo occasione per meglio spiegare le funzioni del Cristo nell’ordine della salute, lo presenta come la fonte universale della grazia, come il principio dell’unione tra tutti i fedeli, e completa così la teoria del corpo mistico già abbozzata prima. Nuove parole, o adoperate in un significato affatto nuove soprascienza, mistero, pleroma, capo della Chiesa – provano quella muova corrente di idee che ha la sua espressione più completa nella formula In Christo Jesu. – Parecchi critici dei nostri giorni mettono in dubbio l’autenticità delle Pastorali, perché in esse non trovano verificata la legge del progresso quale è da essi concepita: « Con l’Epistola ai Filippesi, essi dicono, si ferma il progresso vivente; con le lettere pastorali incomincia la tradizione conservatrice ». Ma questo appunto non corrisponde forse alle condizioni delle cose? Paolo che vede avvicinarsi la sua fine, sente il bisogno di organizzare le chiese da cui la morte lo separerà, e di difenderle contro l’invasione di dottrine estranee: egli non pensa più a creare, ma a conservare, e la sua parola d’ordine sarà d’ora innanzi: « Custodite il deposito della fede e della tradizione ». Egli ha combattuto la buona battaglia ha finito la sua corsa; non attende più altro che la corona incorruttibile dell’apostolato e del martirio.

CONOSCERE SAN PAOLO (1)

CONOSCERE SAN PAOLO

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

Il vaso di elezione. (1)

— SAULO DI TARSO.

1. L’AMBIENTE E L’UOMO. — 2. LA SCUOLA ELLENISTA DI TARSO.

1. Se l’azione divina sulla volontà e l’intelligenza fosse soltanto un impulso meccanico, se l’uomo ispirato fosse soltanto un’arpa che suona sotto le dita di Dio, o una penna che scrive le parole dello scrittore celeste, sarebbe inutile il cercare quale fu la fisonomia e l’ambiente dell’agiografo; ma questi non è materia inerte né strumento inanimato: egli sente, vuole e pensa, e i suoi pensieri e i suoi sentimenti non possono fare a meno di colorire la rivelazione che li penetra, come un fluido colorisce il raggio luminoso che lo attraversa. Isaia ed Ezechiele non ripetono con lo stesso tono lo stesso messaggio divino, e non è questione soltanto di vocabolario; in qualunque traduzione, le visioni di Osea non somiglieranno mai a quelle di Amos, e nessuno non scambierà mai un capitolo di San Marco con una pagina di San Giovanni. Perciò tutti gli esegeti giustamente proclamano la necessità di studiare il carattere individuale degli scrittori sacri con le loro abitudini mentali, con la forma ordinaria del loro pensiero, con la loro educazione e la loro condizione sociale, con le circostanze esterne della loro vita e della loro azione. – Di un uomo, e soprattutto di uno scrittore, si avrà sempre una conoscenza molto imperfetta, finché non si conosce il centro intellettuale e morale in cui è cresciuto. Da questo centro abbiamo il linguaggio, questo meraviglioso strumento dell’attività mentale, l’associazione incosciente e la forma abituale dei pensieri con un patrimonio più o meno ricco di concetti elaborati durante parecchie generazioni prima di arrivare fino a noi; e tutto questo messo insieme costituisce il temperamento dell’anima, come il sangue, la razza, il regime e il genere di vita formano il temperamento del corpo. L’educazione qualche volta modifica, più spesso rinforza questo primo fondo di atavismo; la stessa ispirazione divina non lo elimina, poiché la grazia, ben lungi dal sopprimere la natura, l’innalza e la trasforma, pure lasciandole la sua impronta e la sua individualità perfettamente distinta. – Per la sua nascita e per la sua educazione, Saulo ci fa prevedere una natura complessa in cui si uniranno tutti i contrasti. « Ebreo di nascita, nativo di Tarso e cittadino romano » (Atti, XXI, 29. Cfr. Atti, XXII, 3; XXII, 27.), tale è il suo stato civile che egli stesso denunzia al magistrato incaricato d’istruire il suo processo. Secondo San Girolamo, Giscala fu la culla della sua famiglia (De Viris illustr., 5.): anche il tredicesimo Apostolo sarebbe dunque un galileo. Allora, come oggi, gli Ebrei erano i più cosmopoliti degli uomini. Perseguitati in Palestina da poteri rivali, oppressi dagli invasori, attratti fuori dall’esca del guadagno e dall’istinto del commercio, avevano disseminato le loro colonie in ogni parte dell’impero. Sicuri di trovare dappertutto, presso i loro connazionali, accoglienza, soccorsi e protezione, al più leggero allarme cambiavano paese: l’universo era la loro patria. In quei tempi Tarso era una delle città più fiorenti dell’Asia. Colmata di favori da Poma, libera ed esente da imposte dal tempo di Pompeo il Grande, metropoli della Cilicia dal tempo di Augusto, essa doveva alla sua magnifica posizione la fortuna di essere un centro commerciale di prim’ordine. Dalle alture vicine alla città, sopra i boschetti di palme, l’occhio abbracciava ad un tempo le cime nevose del Tauro, le bianche vele del Mediterraneo, che un fiume allora navigabile, il Cidno, portava fin sotto le sue mura, e finalmente tutta la Cilicia Campestre solcata da innumerevoli canali e coperta di messi. – Quel panorama ridente e grandioso non pare abbia lasciato alcuna traccia nella fantasia di Paolo il quale più tardi attraverserà i luoghi più meravigliosi per le bellezze della natura o per la magia dei ricordi, senza mostrare nessuna ammirazione, senza arricchire il suo stile di un paragone o di un colore qualunque. Sotto questo aspetto egli è il contrario dei Profeti e degli Evangelisti. Si è voluto spiegare questo fenomeno o con una debolezza congenita di vista o con la mancanza del dono dell’osservazione. Il fatto sta che la natura morta non dice nulla a quella mente riflessiva e assorta nello spettacolo della lotta dolorosa di cui l’anima sua è il teatro e il premio. Egli non vede la natura inanimata se non nelle sue relazioni con l’uomo: il suo regno è la psicologia. Da molto tempo si è notato che le sue metafore sono prese quasi tutte, non dallo spettacolo e dalle attività del mondo fisico, ma dalle manifestazioni esterne della vita umana. Egli osserva con attenzione e descrive con finezza i giochi ellenici, i soldati romani agili sotto il peso delle armi, i mercati orientali formicolanti di schiavi, e anche i grandi edifizi, tempi e palazzi, dove si rivela la potenza e l’ingegno dell’uomo. Mentre le figure prese dalla vita dei campi non hanno gran rilievo, le espressioni tecniche del teatro o dello stadio, e soprattutto il suo linguaggio militare, offrirebbero argomenti di studio curiosi e istruttivi.

2. Verso l’età di sei anni, il fanciullo ebreo frequentava la scuola. Le scuole celebri abbondavano a Tarso, e in esse si studiavano tutte le scienze, specialmente la filosofia. Su questo punto quelli di Tarso rivaleggiavano con i sofisti di Alessandria e di Atene e avevano anche fama di superarli. Era loro specialità il fornire i precettori ai padroni del mondo: il precettore di Augusto, Atenodoro lo Stoico, era di Tarso; quello di Marcello e di Tiberio, anche, ed entrambi vennero a morire nella loro città natale, carichi di oro e di onori: dove la scienza frutta denaro, non manca mai di seguaci. Non da questi retori Paolo imparò gli elementi delle lettere; il suo greco non è quello delle scuole, ma è una lingua presa dall’uso delle conversazioni, viva, immaginosa, pittoresca, ammirabile per espressione, per originalità e vivacità, ma estranea ai precetti delle grammatiche ufficiali. Dove si trovavano abbastanza numerosi, gli Ebrei avevano le loro scuole particolari da cui erano banditi severamente i libri pagani e dove lo studio principale, se non l’unico, era la Bibbia: soltanto nella Diaspora essa si leggeva in greco. A tale scuola dovette essere mandato Saulo da suo padre, fariseo rigido. – Che egli abbia molto frequentato gli scrittori profani, non bastano a dimostrarlo le tre sue citazioni di poeti. Siccome Arato era della Cilicia e forse di Tarso, è possibile che l’Apostolo prenda direttamente da lui la frase citata dinanzi all’Areopago: « Perché noi siamo della sua stirpe ». Ma quell’emisticchio scorrevole e armonioso era di quelli che i versificatori introducevano volentieri nelle loro composizioni quando l’argomento vi si prestava: lo incontriamo difatti anche nell’Inno di Cleanto a Giove (Atti, XVII, 2). Il verso della Taide di Menandro, che questi, come si crede, avrebbe preso da Euripide, non era che una massima proverbiale di uso comune, e la forma che gli dà San Paolo, secondo i migliori manoscritti, prova che egli non era molto familiare col ritmo del trimetro giambico (I Cor., XV, 33). – Finalmente il motto satirico: « Cretesi, perpetui bugiardi, male bestie, ventri oziosi », che si legge negli Oracoli di Epimenide e, in parte, nell’Inno a Giove di Callimaco, doveva essere spesso lanciato contro i Cretesi dai loro nemici e dai loro rivali. Come si vede, ciascuno di questi tre testi si trova almeno in due autori diversi (Tito I, 12). – Nessun libro profano ha lasciato negli scritti di San Paolo una traccia sensibile della sua influenza. Sembra che l’Apostolo non abbia mai letto le elucubrazioni teosofiche del suo gran contemporaneo Filone di Alessandria, e non deve fare meraviglia, tanto sono diverse le loro mentalità. Si riferiscono talora a Filone le espressioni « immagine di Dio, primogenito della creazione », applicate al Cristo preesistente, ma è assai più naturale cercarne la fonte prima nel Libro della Sapienza. Paolo non s’ispira neppure dagli altri filosofi. La sua morale, insieme con profonde divergenze, ha qualche punto comune con quella degli stoici, e in questo, se si vuole, si potrebbe vedere un ricordo della sua educazione. I filosofi di quel tempo, specialmente quelli di Tarso e della Cilicia, facevano professione di stoicismo, e può essere che l’Apostolo, nella sua età matura, abbia discusso con essi, ma non vi è nulla, né per le idee né per la terminologia, che indichi chiaramente che egli sia stato alla loro scuola, e non occorre neppure avvertire che la sua pretesa corrispondenza con Seneca è semplicemente una frode letteraria o lo sciocco divertimento di qualche spirito ozioso. – Insomma, questa prima dimora a Tarso non lasciò su la sua intelligenza una traccia profonda; la sua famiglia non si lasciò penetrare dall’atmosfera esterna, e suo padre, Ebreo di antico stampo, sembra che abbia poco gustato la coltura ellenica e le abitudini sociali del mondo greco-romano. Più tardi Paolo potrà chiamarsi « Ebreo figlio di Ebrei, fariseo figlio di farisei », tanto si sentirà estraneo all’ellenismo. Ma un giorno ritornerà a Tarso, nell’età matura, quando la grazia divina lo avrà mutato; allora noterà le ridicolaggini di quei pretesi filosofi che fanno professione di vendere la sapienza, le loro cabale, le loro meschine gelosie, le ingiurie ignobili che si scambiano a vicenda, la loro avidità del guadagno, la loro corruzione mal celata, la loro superbia insopportabile fondata su una grande ignoranza. Il ritratto che, nell’Epistola ai Romani, ci fa di quei pazzi che si dicono saggi, non sembra tanto una copia fatta a memoria, quanto piuttosto un quadro dal vero. Nelle diverse dimore che fece nella sua città natale, si familiarizzò con i Settanta. Egli conosce la Bibbia nelle due lingue, ma quasi sempre la cita in greco, o perché la versione dei Settanta gli fosse davvero familiare, o piuttosto perché, scrivendo egli in greco, gli viene più naturalmente alla memoria il testo greco dei Settanta. – Secondo un calcolo più o meno esatto, ma giusto nel risultato generale, su ottantaquattro citazioni, trentaquattro concordano esattamente con i Settanta, trentasei se ne scostano pochissimo, dieci presentano differenze notevoli, due sono prese dall’ebraico, ma suppongono presente alla mente dell’autore il testo dei Settanta, finalmente due soltanto sono traduzioni affatto indipendenti o appartenenti ad altra versione. Insomma, l’Apostolo non si allontana dalla versione generalmente accettata e le resta fedele anche in casi in cui ci pare gli sarebbe convenuto allontanarsene. – Sotto il nome di Settanta, comprendiamo tutti i libri ammessi nel canone alessandrino che era quello degli Ebrei ellenisti. Paolo lesse certamente il Libro della Sapienza da cui s’ispira nell’esporre la prova filosofica dell’esistenza di Dio, e nel descrivere la panoplia delle virtù cristiane. Anche la similitudine del vasaio e altre simili, ci dicono la stessa cosa. Le relazioni con il Libro dell’Ecclesiastico, meno evidenti, bastano, secondo noi, a rendere probabile la dipendenza letteraria. L’erudizione di Paolo non è libraria: egli possiede a fondo una sola scienza, la religione rivelata; conosce un solo libro, la Bibbia.

AI PIEDI DI GAMALIELE.

1. LA SCUOLA EBRAICA D I GERUSALEMME. — 2. Uso DELL’ ANTICO TESTAMENTO. — 3. SAULO IL FARISEO.

1. Saulo aveva circa tredici anni, quando andò a Gerusalemme per compiervi la sua educazione, e non sappiamo se ve lo accompagnarono i suoi parenti. Circa quarant’anni più tardi, il figlio di una sua sorella stabilita nella città santa, gli salverà la vita. Già conosciamo le abitudini di viaggiare degli Ebrei di quei tempi e dobbiamo abituarci sempre più ai continui cambiamenti di posto che la storia del secolo apostolico segna a ogni pagina. Il fanciullo era destinato all’arte dello scriba, professione ambigua che preparava a tutte le carriere e apriva la via a tutti gli onori: lo scriba era ad un tempo avvocato e procuratore, magistrato e giureconsulto, consigliere e predicatore, uomo di legge e uomo di chiesa, letterato, retore e grammatico. Gli studenti di Gerusalemme erano allora divisi tra due scuole rivali i cui fondatori, Hillel e Shammai, di leggendaria memoria, personificano agli occhi della posterità, l’uno le vedute ristrette e la grettezza di mente, l’altro le idee larghe di un liberalismo illuminato; ma se dobbiamo credere alla Mishna, la fonte più autorevole delle tradizioni ebraiche, non vi è nulla che provi tale contrasto. – I dissensi si riferivano a minuzie, per esempio alla questione se un uovo fatto di sabato si potesse mangiare nel giorno stesso, oppure se il fiocco a vari colori, chiamato zizith in ebraico, fosse obbligatorio anche per il vestiario della notte. Eccetto queste inezie, le due scuole erano d’accordo: entrambe mantenevano la stretta osservanza della Legge, ricevevano le tradizioni rituali e storiche sovrappostesi alla Thora scritta, erano insomma imbevute del più puro fariseismo. Tuttavia, se possiamo mettere innanzi una differenza, forse la scuola d’Hillel tendeva generalmente verso l’interpretazione meno rigorosa. – Il successore d’Hillel, erede dei suoi principi, se non del suo sangue, era allora Gamaliele il Vecchio, venerabile agli occhi dei Cristiani perché difese gli Apostoli, senza che la sua riputazione postuma ne soffrisse presso i suoi correligionari. Gamaliele è rimasto il tipo ideale del fariseo: « Dopo la sua morte, dice la Mishna, non vi è più rispetto alla Legge; la purezza del fariseismo è morta con lui ». Del resto la sua storia è molto oscura, ed egli è spesso confuso col suo omonimo e nipote Gamaliele II, testimonio della rovina del Tempio e della suprema agonia del popolo ebreo. Il giovane Saulo venne dunque a sedersi ai piedi del Rabban Gamaliele, come onorevolmente era chiamato. Égli veniva a iniziarsi faticosamente alla scienza sacra proprio nel centro della vita nazionale, nel momento in cui Gesù, di sette od otto anni più vecchio di lui, progrediva in grazia e in sapienza, in un angolo oscuro della Galilea. Ci siamo potuto domandare se e quanto il paese natio abbia influito sul pensiero di Paolo; ma per Gerusalemme il dubbio non è possibile. Tarso è la sua patria civile dove riceve, col titolo invidiabile di cittadino romano, quella lingua ellenica che lo fa in certo modo cittadino dell’universo; ma Gerusalemme è la patria dell’anima sua, la patria della sua intelligenza come pure, e più ancora, del suo cuore. Verso Gerusalemme egli convergerà sempre nel corso del suo pellegrinaggio terrestre ed ha pienamente coscienza di avere là ricevuto l’impronta indelebile della sua formazione religiosa e morale; là veramente egli fu istruito ed educato ai piedi di Gamaliele, ed era a una buona scuola. Nonostante le loro sottigliezze puerili e le loro inconseguenze pratiche, i farisei erano i veri depositari della scienza sacra e gl’interpreti più autorevoli della legge divina: Gesù, loro avversario implacabile, doveva rendere loro questa testimonianza, che bisognava seguire il loro insegnamento senza imitarne la condotta.

2. La scuola ebraica era annessa alla sinagoga, e l’istruzione che vi si dava era esclusivamente religiosa. Matematica, geografia, storia profana, filosofia, non esistevano per l’ebreo ortodosso; per lui vi era soltanto la morale, il diritto positivo e la storia sacra, e tutto questo era la Bibbia. Compitandola s’imparava a leggere, e molti scribi la sapevano a memoria, come la sanno anche oggi alcuni pochi Israeliti. Noi vediamo Paolo che la cita sempre a memoria, e anche quando non la cita, il suo linguaggio è un tessuto di reminiscenze inconsapevoli o volute. Il suo stile, come quello di San Bernardo e di Bossuet, è tutto impregnato di espressioni bibliche le quali scaturiscono spontaneamente dai suoi ricordi, il che suppone una conoscenza particolareggiata e minuziosa, frutto di lunghi anni di studio. – Il fiume della rivelazione che ha la sua sorgente sul Sinai, o piuttosto nell’Eden, era continuato a scorrere, sempre accresciuto di nuove rivelazioni, fino alla soglia dell’era cristiana. Gli Ebrei contemporanei degli Apostoli parlavano di Dio, della sua infinita trascendenza, della sua potenza creatrice, della sua provvidenza paterna, in termini che il Cristianesimo non dovette rigettare. La dottrina dei novissimi — retribuzione dei giusti, pene riservate ai cattivi, risurrezione dei morti, giudizio finale — non aveva che da fare qualche leggero progresso per passare nel Vangelo. Altrettanto si può dire del dogma della caduta originale. La maniera di ravvisare la Scrittura come parola di Dio, come espressione della sua intelligenza e della sua volontà, poteva essere accettata senza modificazioni dai banditori della nuova fede. Non ci fermeremo su questa eredità ricevuta dai profeti né sul patrimonio di verità religiose accumulato nel corso dei secoli fino al giorno in cui la luce del Vangelo venne ad ecclissare la fiaccola della Sinagoga: sono senza dubbio fondi assai ricchi, ma non appartengono propriamente al Dottore delle genti. – Non possiamo invece dispensarci dal cercare, negli scritti dell’Apostolo, le tracce della sua educazione rabbinica alla scuola di Gerusalemme. Alla tradizione ebraica egli deve il senso tipico della Scrittura, l’impiego del senso chiamato accomodatizio e l’uso frequente dell’allegoria. – Siccome l’Antico Testamento è come la base del Nuovo, è naturale che lo Spirito Santo, autore di tutta la Bibbia, gli abbia dato un senso profetico o figurativo che risulta e dai racconti stessi e dal modo di narrarli. Questo senso che si sovrappone alla lettera della Scrittura, si chiama senso spirituale, e noi chiamandolo tipico, abbiamo il doppio vantaggio di evitare un equivoco e di conformarci alla terminologia di Paolo. L’Apostolo afferma che il primo Adamo era il tipo di Gesù Cristo, l’Adamo futuro, e sviluppa questa tipologia in due passi celebri (Rom. V, 12-19; I Cor. XV, 22, 45, 49). Così pure la sorte degli Israeliti nel deserto aveva un carattere tipico e fu scritta con lo scopo d’istruirci. Questi fatti figurativi rivestono perciò un significato spirituale che il racconto letterale non diminuisce affatto. Così pure la Legge di Mosè era l’ombra delle realtà future il cui corpo, la sostanza e il vero essere s’identificano con l’economia cristiana (Col. II, 17). Finalmente l’istituzione del matrimonio, ristabilito da Gesù Cristo nella sua unità e nella sua indissolubilità primitive, non pare misteriosa se non per il suo valore simbolico (Ef. V, 32). Non dobbiamo tuttavia credere che San Paolo riconosca il senso tipico soltanto quando ne pronunzia il nome: per lui la Sinagoga è la figura della Chiesa (I Cor. III, 16; II Cor. VI, 16), i sacrifizi antichi, specialmente l’agnello pasquale, sono figure del Cristo (I Cor. V, 7; Eph. V, 2), e certi suoi argomenti non hanno valore se non si ammettono i due significati, il letterale e il tipico, voluti entrambi e affermati dallo Spirito Santo. Non andiamo però agli eccessi: quando l’Apostolo si vanta di predicare soltanto dove ancora non si è udito il nome del Cristo (Rom. XV, 20-21), quando esorta i Corinzi a fare la limosina per stabilire tra i Cristiani quell’eguaglianza che regnava tra gli Ebrei nel raccogliere

la manna (II Cor. VIII, 14-15), e si appoggia, in tutti e due i casi, a un testo biblico, con la formola solenne di citazione, non siamo obbligati ad ammettere che egli veda in quei due testi un senso tipico, come se lo Spirito Santo, con l’aiuto del senso letterale e oltre a questo, avesse inteso di predire la colletta in favore di Gerusalemme o di limitare il campo di azione di Paolo. Qui vi è accomodazione pura e semplice. È privilegio dei predicatori l’adoperare così la Scrittura, e tutti hanno il diritto di esprimere i propri pensieri con le parole dei Libri santi; la formola di citazione non muta nulla né al diritto né al privilegio. – Si chiama accomodatizio, non propriamente un significato scritturale, ma l’applicazione di un testo biblico ad un fatto o ad un caso simile. Il Salmista aveva detto, parlando dei cieli, che celebrano alla loro maniera la gloria del Creatore: La loro voce risonò sopra la terra; E le loro parole, fino ai confini del mondo. San Paolo applica queste parole, senza formola di citazione, ma con manifesta allusione al versetto del Salmista, alla predicazione degli Apostoli (Rom. IX, , 18 citando il Ps. XVIII). Certi interpreti si credono obbligati a conchiuderne che, essendo ancora vivo Paolo, il Vangelo era stato predicato in tutto il mondo (San Giovanni Grisostomo), o che almeno vi era conosciuto di fama (San Tommaso). I più ci vedono soltanto un’iperbole: un’iperbole che sarebbe troppo forte se le parole in questione fossero dell’Apostolo, ma che è invece naturalissima dal momento che si tratta di una semplice allusione. Poiché l’allusione non pretende di essere vera alla lettera, ma le basta un rapporto di proporzione o di analogia. – L’accomodazione più prolungata è quella che occupa un capo della seconda ai Corinzi (II Cor. III, 14-15). Essa si fonda sul racconto dell’Esodo, secondo il quale Mosè parlava a Dio a faccia scoperta, ma se la copriva con un velo per parlare al popolo. Paolo ne trae una doppia applicazione, metà per analogia e metà per contrasto. I predicatori ndel Vangelo — e anche, in una certa misura tutti i Cristiani, trattano con Dio faccia a faccia e sono a poco a poco trasformati nell’immagine di Dio; ma quando si rivolgono al popolo, non si coprono con un velo, simbolo di timore e di servilismo. Al contrario gli Ebrei contemporanei hanno il cuore coperto di un fitto velo, come Mosè al ritorno dalle sue conversazioni celesti; ma un giorno, quando si convertiranno al Signore, getteranno quel velo, come Mosè quando andava a parlare con Dio. – L’esempio seguente di accomodazione oratoria è ancora più notevole, perché modifica molto il testo che adopera e vi mescola un’apparenza di argomentazione. Paolo applica alla legge di grazia un passo in cui si tratta della Legge mosaica, e lo fa per dimostrare che il nuovo regime è superiore all’antico: La giustizia (che nasce) dalla fede, parla così: non dire nel tuo cuore: Chi salirà al cielo? È (per) far discendere il Cristo. Oppure: Chi discenderà negli abissi? È per risuscitare il Cristo dai morti. Essa dica dunque: La parola è vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore. È la parola della fede che noi predichiamo. Perché se tu confessi con la bocca il Signore Gesù, e se tu credi nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, tu sarai salvo (Rom. X., 6-9). – A prima vista questo uso della Scrittura è tanto arbitrario, che sconcerta: non solo il testo è riassunto e citato a brani, ma è modificato a bello studio. Invece di: Chi passerà di là dai mari? Paolo mette: Chi discenderà negli abissi? per preparare la sua applicazione alla risurrezione del Cristo. Poi presenta tre interpretazioni del genere midrash, che non sembrano suggerite dal testo, e finalmente rivolge contro la Legge quello che la Scrittura aveva detto della stessa Legge. Queste difficoltà sono distrutte o almeno molto attenuate dalle seguenti osservazioni: Paolo non argomenta, ma non fa altro che esporre e illustrare il carattere della nuova legge; egli non cita neppure la Scrittura, ma si limita a mettere in bocca della Giustizia personificata quello che Mosè aveva detto della Legge. – Il testo del Deuteronomio era divenuto quasi proverbiale per far intendere che una cosa era possibile e facile. La conclusione di San Paolo — che la fede è più facile e più accessibile che la Legge — è incontestabile, e la sua maniera di spiegare la cosa è un’accomodazione oratoria delle più legittime. Essa viene a dire: Mosè ha detto della Legge, che per conoscerla non occorre né salire al cielo né passare i mari, e questo conviene, a più forte ragione, al Vangelo. Infatti non occorre salire al cielo per farne discendere il Cristo, poiché il Cristo si è già incarnato; non occorre discendere negli abissi per trarne fuori il Cristo, poiché il Cristo è risuscitato da morte; basta credere di cuore e confessare con la bocca che Egli è il Signore e che è risuscitato. – Saremmo pure inclinati a vedere un esempio di accomodazione oratoria nel passo in cui Agar e Sara figurano i due testamenti (Gal. IV. 21-31). È un tipo biblico oppure un simbolo? In altri termini, lo Spirito Santo nell’ispirare l’autore sacro che ha scritto la storia di Abramo, voleva insegnarci il carattere differente delle due alleanze, oppure permetterci soltanto di servircene per meglio comprenderlo! Tale è la questione. San Paolo non parla di tipo, ma di allegoria; e se la maggior parte degli esegeti antichi stanno per il significato spirituale, si sa che essi danno a questo termine un significato molto elastico. – I rabbini solevano appoggiare sopra un testo della Bibbia qualunque opinione tradizionale così storica come giuridica, e questo appunto era l’oggetto dell’esegesi. Si distinguevano sei specie di prove, e le loro suddivisioni le facevano arrivare a tredici: l’a fortiori, l’analogia, la conseguenza, otto specie di analisi, il contesto e i luoghi paralleli. Parecchie di tali prove mancano di rigore; in materia positiva, l’a fortiori non è decisivo; l’analogia non è che una ragione di convenienza; il senso conseguente non è sempre un senso scritturale. Il più curioso si è che i rabbini non si lasciavano ingannare dai loro metodi di cui vedevano benissimo i lati deboli. Quando Rabbi Simeone sosteneva che se le donne Ammonite e Moabite erano ammesse nella Sinagoga da cui erano esclusi per sempre gli uomini del loro paese, le Egiziane a più forte ragione si potevano ammettere, si affrettava a invocare la halacha (tradizione), per tagliar corto con l’obbiezione che viene suggerita dall’argomento a fortiori. Avendo la tradizione, agli occhi dei rabbini, un valore indipendente dal testo biblico con cui si cercava di puntellarla, la prova scritturale diventava una semplice formalità. Si poteva, occorrendo, farne a meno e accontentarsi del remez (allusione); ma sempre ci voleva qualche cosa. L’abuso del remez doveva fare dell’esegesi ebraica un giochetto arbitrario e puerile. – Dinanzi a una citazione biblica di San Paolo, bisogna dunque domandarsi prima di tutto se vi è allusione o accomodazione o applicazione letterale o vera argomentazione, e in quest’ultimo caso, se l’argomento è scritturale o teologico oppure oratorio. La formola come sta scritto non indica sempre un’argomentazione propriamente detta, e lo stesso certamente si deve dire per la formola poiché sta scritto o per la particella “dunque” messa in principio di una conclusione che segue immediatamente una citazione scritturale. Resta allora da esaminare qual è il punto preciso che San Paolo vuole stabilire e sotto quale aspetto particolare egli considera il suo testo, perché spesso non tutto è da provare in una affermazione complessa, e frequentemente vi sono, in un testo portato come prova, mille circostanze indifferenti al punto che si vuole mettere in luce. – L’agiografo, anche quando si appoggia alla Scrittura, può argomentare come oratore più che come teologo, e la sua prova può non essere strettamente scritturale; o piuttosto non sarebbe tale se, a differenza del teologo o del predicatore ordinario, la conclusione dell’autore ispirato non avesse un valore assoluto indipendentemente dalle sue argomentazioni. Mosè aveva detto: « Non mettere la fusoliera al bue che trebbia il grano (I. Cor. IX cit. da Deut. XXV, 11-14) », e Paolo ne deduce che l’operaio apostolico può vivere del Vangelo. Questo è un argomento a fortiori che si è trovato presso i rabbini, ma la conclusione non è, strettamente parlando, un senso scritturale; sarebbe quello che i teologi chiamano un senso conseguente. Eccetto che si voglia adottare la teoria dei sensi multipli di Sant’Agostino, per costituire un senso scritturale non basta che una cosa ci sia suggerita dalla lettura della Bibbia né che la si possa trarre per mezzo della deduzione teologica od oratoria. La prova oratoria non sempre si risolve in un rigoroso sillogismo; l’analogia, la comparazione, la similitudine, tutto ciò che fa entrare più profondamente il pensiero nella mente dell’uditore, ve lo fissa e ve lo scolpisce, gli serve di schiarimento o d’illustrazione, si può chiamare prova oratoria, ma non è un argomento alla maniera di Aristotele. Ma perché si dovrà vietare allo scrittore sacro l’uso di procedimenti letterari che sono di diritto comune? Nessuno può liberarsi completamente dai metodi del suo tempo e della scuola dove si è formato. Se dal linguaggio e dalla forma del pensiero dei profeti è facile riconoscere la differenza delle loro condizioni sociali e della loro coltura intellettuale, perché si vorrebbe che San Paolo sia esente dalla stessa legge? L’interesse della verità non esigeva punto che egli disapprendesse tutto ciò che aveva imparato.

3. In quel tempo Saulo si faceva notare per il rigore del suo fariseismo: « Io ero, dice, pieno di zelo per (la Legge di) Dio (Act. XXII, 3) … Io vissi da fariseo, secondo la setta più rigida della nostra religione (Act. XXVI) ». Quando i suoi avversari si faranno scudo della loro fedeltà scrupolosa alla Legge, egli risponderà: « Io pure ero fariseo, persecutore della Chiesa per zelo, irreprensibile dal lato della giustizia legale (Fl. III, 6) ». La vita del fariseo, racchiusa come in una fitta rete dalle seicento tredici prescrizioni del codice mosaico rinforzate da tradizioni senza numero, era una servitù intollerabile. Le purificazioni rituali prescritte dopo le impurità contratte col solo contatto di oggetti impuri, riempivano parecchi trattati del L’ultimo libro della Mishna (Seder Teharoth), di ben dodici trattati, è tutto consacrato a tali minuziose prescrizioni; impossibile uscire di casa, mangiare, fare un’azione qualunque, senza esporsi a mille infrazioni, e la paura di cadervi paralizzava la mente e toglieva il senso superiore della moralità naturale. Tutta la religione degenerava in un meschino formalismo: l’uomo era tentato di credersi l’artefice della propria giustizia e, dovendo tutto a se stesso, diventava creditore di Dio. A che pro il pentimento, la preghiera umile e ardente, i sospiri verso il cielo, del peccatore e del pubblicano? Egli, non era forse il giusto che digiunava due volte la settimana, il lunedì e il giovedì, secondo il costume della sua setta, che pagava esattamente la decima della menta, dell’anice e del cumino, che non dimenticava mai nessun rito tradizionale! Il fariseismo nutriva l’amor proprio, la superbia e la presunzione, e fomentava anche l’ipocrisia. L’ideale del fariseo era elevato, ma egli per arrivarci aveva soltanto la sua superbia; mancando questa, l’unico mezzo che gli restava era di dissimulare le sue mancanze o di farle passare per virtù dinanzi al volgo (‘am haarez), oggetto del suo timore e del suo disprezzo. A quali stratagemmi e a quali cavilli ricorre per temperare il rigore del digiuno, per moderare l’incomodo del sabato! Infatti il trattato Erubin permette di stabilire un domicilio fittizio al termine del riposo sabbatico, per prolungare di altrettanto il viaggio permesso, e di unire, in modo fittizio, parecchi domicili per portare alimenti dall’uno all’altro, senza infrangere la legge del riposo. Il fariseo cercava di riscattare le sue concessioni e le sue miserie con un’intolleranza feroce: Paolo, scoraggiato di trovarsi così lontano dal suo ideale di perfezione legale, si fece persecutore per zelo e per rimorso. Egli custodiva gli abiti dei lapidatori di Stefano, forse perché non era in grado di essere il giudice o il carnefice del martire; ma nel suo foro interno sanzionava e approvava tutto. La passione lo agitava con troppa violenza, per poter ascoltare le parole del santo diacono; ma ancorché le avesse ascoltate, quel discorso interrotto bruscamente dalla morte non lo avrebbe commosso. Nelle sue lettere non troviamo nessuna allusione a quell’avvenimento: egli si ricorda soltanto di aver perseguitato la Chiesa del Cristo. I suoi quattro accenni a quel deplorevole passato sono della massima importanza per giudicare del suo stato psicologico nel momento della sua conversione: « Io perseguitalo senza misura e devastavo la Chiesa di Dio, sorpassando per (l’esaltazione del) mio giudaismo la maggior parte dei miei contemporanei (Gal. I, 13-14). Io sono l’ultimo degli Apostoli e non sono degno del nome di apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa del Cristo (I Cor. XV, 2). Fui in altri tempi un bestemmiatore e un persecutore, un insultatore; ma ho ottenuto misericordia perché agivo per ignoranza nell’infedeltà (I Tim., 13). Fariseo secondo la Legge, persecutore della Chiesa per zelo, irreprensibile dal lato della giustizia che viene dalla Legge (28) ». Nel discorso che rivolge agli abitanti di Gerusalemme dopo la sua cattura (29), e in quello che pronunziò dinanzi al procuratore Festo assistito dal re Agrippa (30), ricorda benissimo la parte da lui presa nel martirio di Stefano, ma senza lasciar capire che provasse allora altro sentimento che il piacere di un desiderio soddisfatto. Del resto tutti i particolari sembrano confondersi nella sua memoria come la visione molesta di un incubo terrificante.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI APOSTATI MODERNISTI DI TORNO: QUAM RELIGIOSA

In questa breve Enciclica, S.S. Leone XIII prende posizione netta ed irrevocabile sull’introduzione della legge sul matrimonio civile in Perù. Il Santo Padre espone brevemente, ma con fermezza, il concetto che il Matrimonio, essendo stato innalzato da Gesù Cristo alla dignità Sacramentale, non è “affare” da gestirsi da una qualsiasi autorità che non sia la Chiesa di Cristo, la Chiesa Cattolica, se non limitatamente agli effetti puramente civili. Non si tratta quindi di nessuna novità dottrinale particolare [come potrebbe del resto un Papa “vero” modificare la dottrina che scaturisce dal deposito della fede? … solo un’antipapa potrebbe farlo!], ma semplicemente un richiamo elementare alla legge divina ed ecclesiastica. – Questo deve essere per noi occasione di meditazione sulle leggi attualmente promulgate in tutti gli Stati cosiddetti “civili” [tutto l’Occidente ed in buona parte pure l’Oriente europeo, il continente americano nella quasi totalità, ed oggi anche le nazioni asiatiche ed africane modernamente massonizzate], in realtà “gulag” gestiti imperiosamente da entità più o meno invisibili dedite tutte ai culti satanici ed adoratori del baphomet-lucifero gnostico-massonico. La cosa che dovrebbe poi stupire gli attuali “sedicenti” cattolici, cioè gli aderenti alla setta neo-gnostica modernista del “novus ordo” vaticano, è come questi esponenti della “quinta colonna” usurpanti i sacri palazzi, abbiano completamente modificato il loro orientamento rispetto alla dottrina insegnata da Cristo e dalla sua Chiesa, in tutti i luoghi teologici, giungendo a eliminare ogni “impedimento”, rendendo il legame rapidamente solubile con pronta riammissione ai sacramenti [per fortuna falsi ed affidati a mai-preti e non-vescovi giammai consacrati secondo le norme canoniche da sempre vigenti], addirittura sventolando il “divorzio cattolico breve”, più breve pure di quello laico-massonico, ed aprendo addirittura, in modo blasfemo e beffardo, agli abomini del matrimonio omosessuale, avendo preventivamente abolito, con un colpo di spugna netto, il “peccato che grida vendetta agli occhi di Dio”: la sodomia conclamata e praticata, benedetta invece come pratica di amore, e … non giudicabile ?! Ora ci chiediamo: ma cosa deve farvi vedere di più il Signore, per farvi capire l’inganno in cui siamo tutti coinvolti, inganno che ci porterà inesorabilmente al fuoco eterno … anche questo ripulito con un colpo di spugna ignifuga? Cosa deve farvi vedere di più il Crocifisso Risorto per convincervi che il tempo dell’anticristo, attraverso i suoi “illuminati” vicari, è già in piena opera, visto che il paolino “kathecon” è impedito ed “in vincoli”, sorvegliato a vista da carcerieri crudeli? E allora diciamola tutta: anche a noi tutti fa comodo essere “modernizzati”, poter fare le porcate di ogni tipo che Gesù e la sua Chiesa ha sempre condannato, anche a noi tutti fa comodo chiudere gli occhi per non essere additati come retrogradi e trogloditi, solo perché amiamo il Cristo e la sua legge, avendo poi la coscienza ripulita dalla partecipazione ai falsi sacramenti sacrileghi ed al rito del baphomet festivo, in cui il Sacrificio di Cristo viene spudoratamente offerto al signore dell’universo, cioè al lucifero delle logge massoniche. E ai “novissimi” nessuno ci pensa più, anzi … ma che so’ i “novissimi”, abiti alla moda lanciati da qualche sarto satanista … come tutti gli altri? Ma a breve [chi prima, chi dopo … ma è questione di anni, visto che nessuno è materialmente immortale] tutti saremo giudicati dal Tribunale di quel Cristo che abbiamo abiurato, dal quale abbiamo apostatato, che abbiamo bestemmiato in tutti i modi, con blasfemie e sacrilegi mai apparsi sotto la luce del sole … neanche quelli del culto di Mitra e dell’eliocentrismo fantascientifico! … Quam ob causam increpa illos dure, ut sani sint in fide, non intendentes judaicis fabulis, et mandatis hominum, aversantium se a veritate. [Tit. I, 13-14].

Leone XIII

Quam religiosa

Lettera Enciclica

La legge del matrimonio civile in Perù
16 agosto 1898

Con quanta religiosa fermezza nel conservare la fede cattolica si raccomandi l’illustre nazione del Perù, con quale ossequio, con quale identica volontà sia congiunta con Noi e con la sede apostolica, questo certamente lo hanno fatto conoscere parecchi segni, fra i quali giova qui ricordare le preghiere a Noi rivolte, affinché mandassimo nelle vastissime regioni di questo paese dei presbiteri per intraprendere sacre missioni e dei membri di congregazioni religiose, per l’attività e la solerzia dei quali si alimentasse la religione e la pietà e di giorno in giorno continuamente crescesse. E non è disgiunto da gioia il ricordo di quell’affollatissimo convegno cattolico che, due anni fa, si è tenuto nella città principale di questo paese, con uomini provenienti da ogni parte della regione, illustrissimi per dottrina, virtù, posizione, patrimonio, convegno dal quale scaturì un rinnovato e gradito ardore degli animi. Costoro infatti non ebbero il minimo dubbio di proclamare con pubbliche dichiarazioni, con quale zelo desiderassero fare progredire la religione dei padri, con quale ossequio e amore avrebbero seguito con costanza questa cattedra di Pietro. Noi poi, venerabili fratelli, non abbiamo mai tralasciato l’occasione di testimoniare la Nostra singolare benevolenza verso questa popolazione cattolica, con l’aggiunta di esortazioni, e con la presentazione di testimonianze certamente non oscure della Nostra assai grata disposizione dell’animo. Fra quelle certamente di maggior valore, non vogliamo tralasciare il fatto che, dagli onori e privilegi particolari concessi dalla sede apostolica al suo presidente, allo stato peruviano stesso ne è venuta una grande autorità e dignità. Questi onori poi, davano a Noi la sicura speranza che, come i vostri antenati per meritarseli operarono in modo insigne, così in seguito coloro che avessero governato la nazione non avrebbero usato un impegno minore per conservarli, e con la propria fermezza nella difesa della fede cattolica avrebbero comprovato che tutte quelle cose erano state loro conferite giustamente. È con dolore quindi che abbiamo appreso che in questa nazione è stata di recente promulgata una legge che, con il pretesto di regolare i matrimoni fra non cattolici, di fatto introduce il matrimonio cosiddetto “civile”, anche se questa legge non riguarda tutte le categorie di cittadini. E inoltre, messa da parte l’autorità della Chiesa, tale modalità civile è permessa per i matrimoni misti, anche quando la Sede Apostolica, per motivi gravissimi e per la salvezza eterna della famiglia cristiana, non abbia ritenuto opportuno dispensare in qualche caso dalla legge che vieta il matrimonio per disparità di culto. – Gravemente colpiti da queste cose che sono state compiute contro il rispetto dovuta alla Nostra dignità e contro il potere da Dio conferito al Nostro supremo ministero, eleviamo la voce apostolica, venerabili fratelli, e sproniamo il vostro zelo, affinché, provvedendo alla sicurezza dei fedeli del Perù, facciate in modo che la dottrina cattolica del matrimonio sia conservata integra e incorrotta. – Noi poi, preoccupati di tutto il popolo cristiano, come lo richiede la logica del dovere apostolico, non abbiamo mai trascurato di insegnare spesso e di prescrivere molte cose riguardanti la santità del matrimonio: non si può separare dalla religione e ridurre al rango delle cose profane una funzione naturale trasformata in sacramento da Cristo, autore della nuova alleanza; preceduta dal sacro rito, la vita dei coniugi è più tranquilla e felice; la concordia domestica è rafforzata; i figli sono meglio educati; si provvede in modo più conveniente alla stessa sicurezza dello stato. Abbiamo trattato tutto questo argomento più diffusamente e con ogni diligenza, nella lettera apostolica Arcanum divinae sapientiae consilium, dove abbiamo anche cercato di richiamare alla memoria dei fedeli cristiani sia la vigile sollecitudine che la Chiesa, la migliore custode e protettrice del genere umano, ha usato per custodire l’onore e la santità del matrimonio, sia quali siano, in questo ambito, le cose che possono a buon diritto stabilire e giudicare coloro che governano lo stato. Non intendiamo a questo punto, e non è necessario, riferire tutti gli insegnamenti che sono già a vostra conoscenza. Non riteniamo fuori luogo però, ricordare ancora una volta che coloro che governano lo stato hanno potere sulle questioni umane che derivano dal matrimonio e che sono di ordine civile; ma che sopra il matrimonio cristiano in se stesso, il loro diritto e la loro autorità sono nulle. Devono quindi accettare che sia sottomessa alla giurisdizione della Chiesa una cosa che non è stata posta in essere da una autorità umana. Una volta che il contratto nuziale sia compiuto in modo legittimo, cioè come Cristo lo ha istituito, allora ad essi sarà permesso di considerare se ne consegue qualcosa che interessa il diritto civile. È infatti dottrina cattolica, dalla quale nessuno può recedere senza la perdita della fede, che al matrimonio dei cristiani è sopravvenuta la dignità di Sacramento. – Quindi da nessun’altra autorità che non sia la divina autorità della Chiesa può essere governato e regolato, e nessuna unione coniugale può essere ritenuta valida e fondata, se non è stata contratta secondo la sua legge e la sua disciplina. Da questo si comprende facilmente che, dove è stata nel modo dovuto promulgata la legge Tridentina del capitolo Tametsi (Denzinger 1813-1816) qui debbono ritenersi invalidi i matrimoni conclusi contro le sue prescrizioni. Nello stato del Perù, quella legge Tridentina non solo è stata promulgata, ma ha avuto a lungo vigore nell’uso ed è stata osservata in modo fedelissimo fino a questi ultimi tempi. – Non vi è quindi nessun motivo perché la Sede Apostolica fortissimamente non voglia che sia legittimamente mantenuta la disciplina introdotta. – Queste cose, venerabili fratelli, insegnando al gregge a voi affidato, esponetele nel modo più ampio e più chiaro, affinché non sfugga a loro nulla di questa cosa gravissima, che interessa moltissimo la loro salvezza eterna. Desideriamo anche che voi, con autorità e con saggezza, siate talmente efficaci presso coloro che in questo stato sono preposti alla formazione delle leggi, ed entriate così nelle loro grazie, che questi si persuadano, ad esempio per la popolazione cattolica, nella cui mente si trovano gli illustri esempi di virtù dei beati Turibio e Rosa, a modificare pubblicamente il loro pensiero e la loro volontà. – Per cui risulti necessario che mai si allontanino nel formulare le leggi dai precetti della chiesa, osservati a buon diritto i quali, si produce anche la stessa felicità naturale dei popoli. E si impegnino così ad operare affinché il recente decreto sia emendato al più presto ed eliminato, e affinché le leggi civili sul matrimonio non presentino nulla di discorde dalla dottrina e dalle istituzioni della Chiesa. – Nel frattempo, fiduciosi nella speranza dell’aiuto divino e confidando nel vostro zelo e nella vostra solerzia, a voi, venerabili fratelli, a tutto il clero e al popolo a ciascuno affidato, impartiamo con grande amore nel Signore l’apostolica benedizione, auspice dei doni celesti e testimone della Nostra benevolenza.

DOMENICA XIII DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XIII dopo PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LXXIII:20; 19; 23
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te. [Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]
Ps LXXIII:1
Ut quid, Deus, reppulísti in finem: irátus est furor tuus super oves páscuæ tuæ?
[Perché, o Signore, ci respingi ancora? Perché arde la tua ira contro il tuo gregge?]

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te. [Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, da nobis fídei, spei et caritátis augméntum: et, ut mereámur asséqui quod promíttis, fac nos amáre quod præcipis.
[Onnipotente e sempiterno Iddio, aumenta in noi la fede, la speranza e la carità: e, affinché meritiamo di raggiungere ciò che prometti, fa che amiamo ciò che comandi.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti S. Pauli Apóstoli ad Gálatas. [Gal. III:16-22]
“Fratres: Abrahæ dictæ sunt promissiónes, et sémini ejus. Non dicit: Et semínibus, quasi in multis; sed quasi in uno: Et sémini tuo, qui est Christus. Hoc autem dico: testaméntum confirmátum a Deo, quæ post quadringéntos et trigínta annos facta est lex, non írritum facit ad evacuándam promissiónem. Nam si ex lege heréditas, jam non ex promissióne. Abrahæ autem per repromissiónem donávit Deus. Quid igitur lex? Propter transgressiónes pósita est, donec veníret semen, cui promíserat, ordináta per Angelos in manu mediatóris. Mediátor autem uníus non est: Deus autem unus est. Lex ergo advérsus promíssa Dei? Absit. Si enim data esset lex, quæ posset vivificáre, vere ex lege esset justítia. Sed conclúsit Scriptúra ómnia sub peccáto, ut promíssio ex fide Jesu Christi darétur credéntibus”.

Omelia I

 [Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV Omelia I .- Torino 1899]

“Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua prole; non dice: Ed alle proli, come parlando a molte, ma come ad una: e dalla sua prole, la quale è Cristo. Ora io dico così: La legge, venuta dopo quattrocento trent’anni, non poté annullare un patto prima fermato da Dio, sicché restasse senza effetto la promessa. Perché, se l’eredità è per legge, non è più per la promessa. Eppure Dio la conferì ad Abramo per promessa. Perché dunque fu data la legge? Fu essa aggiunta in grazia delle trasgressioni, promulgata per angeli, per mezzo di un mediatore, finché non fosse venuta la prole, alla quale era stata fatta la promessa. – Ora mediatore non è di uno; eppure Dio è uno. Sarà dunque la legge contraria alle promesse di Dio? No. Ma se fosse stata data una legge capace di dare la vita, se ne avrebbe di fatto la giustificazione. Ma la Scrittura ha racchiusa ogni cosa sotto peccato, affinché la promessa di fede fosse data per Gesù Cristo ai credenti „ (Ai Galati, capo III, 16-22).

Anzitutto, o carissimi, devo dirvi che questi sette versetti della Epistola odierna che vi ho recitati, sono difficili ad intendersi, e voi stessi, udendoli, ve ne sarete accorti. La difficoltà ed oscurità di queste sentenze si deve far dipendere da varie cause. Primieramente si tratta dei rapporti tra la legge antica mosaica e la legge evangelica, e si accenna alla efficacia di questa sopra quella, verità a quel tempo assai contrastata: in secondo luogo si fa un’allusione di volo ad alcuni oracoli dell’antico Testamento, per noi oscuri; se ne deducono conseguenze d’alta importanza, con una concisione tutta propria dell’Apostolo. Finalmente il modo di fraseggiare e di argomentare qui usato da S. Paolo, è così rapido e serrato, e il giro del periodo sì involuto e duro, che rende faticoso il seguirlo ed afferrarne il significato. Ma se voi avrete la bontà di tenermi dietro con tutta l’attenzione, nutro fiducia di farvi comprendere perfettamente la dottrina dell’Apostolo, e troverete ampia mercede della fatica durata. Dio con la sua grazia, faccia sì che la mia parola sia semplice e chiara, e la vostra mente aperta e docile a riceverla. – La lettera di S. Paolo ai Galati si può dividere in tre parti: nella prima difende se stesso contro coloro che lo accusavano di aver alterato o frainteso il Vangelo e prova la sua missione divina; nella seconda svolge l’insegnamento dogmatico intorno alla giustificazione; nella terza inculca alcune verità morali pratiche. Il tratto che vi devo spiegare appartiene alla parte dogmatica, che aveva una importanza grande e pratica allorché l’Apostolo scriveva la sua lettera. Un cenno storico necessario. Molti Ebrei della Galazia, convertiti prima da S. Paolo, sedotti da falsi maestri, erano entrati nella persuasione che, per salvarsi, fosse necessario unire alla fede cristiana l’osservanza della legge mosaica in ogni sua parte, e nominatamente il rito della circoncisione. L’Apostolo vuol dissipare questo errore gravissimo, che rendeva perpetuo il giudaismo e tra gli altri argomenti, S. Paolo, parlando ad Ebrei, ricorda che Abramo fu giustificato dinanzi a Dio con la fede che prestò alla parola di Lui, non con la legge mosaica che non esisteva e che venne assai più tardi. E come Abramo piacque a Dio, non per la osservanza della legge mosaica, ma sì per la fede, così anche i veri suoi figli si giustificarono con la fede. Qui cominciano le sentenze, che dobbiamo interpretare: “Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua prole: non dice alle proli, come parlando a molte, ma come ad una: ed alla sua prole, che è Cristo. Ecco come ragiona S. Paolo: “La Scrittura c’insegna che Abramo piacque a Dio e si santificò allorché credette alla sua parola ed ubbidì ad essa, lasciando la patria sua: Dio allora gli fece una promessa solenne, assoluta, dicendogli: “Tutte le genti saranno benedette in te, cioè riceveranno come te e allo stesso modo la mia grazia. „ Ora allorché Abramo ricevette la grazia, non vi era né la legge di Mose, né la circoncisione: dunque si giustificò non in forza della legge mosaica e della circoncisione, ma per la fede che ebbe e per l’ubbidienza sua alla parola di Dio; ma Dio promise che allo stesso modo si sarebbero giustificate tutte le genti, o Gentili; “… dunque, o Galati, per piacere a Dio si esige la fede e l’obbedienza ai voleri divini, ma non l’osservanza della legge di Mosè”; e S. Paolo avverte che la promessa della giustificazione fu fatta non solo ad Abramo, ma anche alla sua “prole”, non proli, perché si indicava Cristo e tutti quelli che nella fede si sarebbero mostrati figli di Cristo. L’Apostolo prosegue argomentando così: “La legge venuta dopo 430 anni non poté annullare il patto già stabilito da Dio, sicché rimanesse la promessa senza effetto: „ che è quanto dire: la legge di Mosè, data da Dio sul Sinai, venne 430 anni dopo; ora, se fosse necessaria l’osservanza di questa legge per essere figli di Dio, Dio stesso avrebbe annullata la promessa od il patto stretto con Abramo in forza del quale i Gentili dovevano ricevere la benedizione alla maniera stessa di Abramo. Se la grazia divina venisse a noi dalla legge di Mosè, allora non verrebbe secondo la promessa fatta ad Abramo; eppure questa grazia fu promessa da Dio fuori e prima della legge, e la promessa di Dio sta e deve stare, come sta e deve stare un testamento a cui non è lecito né aggiungere, né levare una sillaba. È questo l’argomento, sottile sì, ma valido, dell’Apostolo. – Ora qualche osservazione acconcia ai nostri bisogni. In questi versetti si parla della giustificazione ottenuta da Abramo, e che doveva ottenersi dai suoi figli secondo lo spirito, mediante la fede in Cristo. Che cosa è questa giustificazione? È la grazia, è una forza stabile, che penetra tutta l’anima, la trasforma, la abbellisce e stampa in essa l’immagine di Dio e le dà il diritto di vederlo un giorno ed amarlo svelatamente ed essere felice della sua stessa felicità. Vedete un ferro: esso è di per sé freddo ed oscuro: fate che il fuoco, un fuoco potente lo investa; diventa non solo caldo, ma rovente e lucente senza cessare d’essere ferro: ciò stesso avviene dell’anima che riceve la grazia di Dio: non cessa d’essere anima, ma acquista doti e qualità ammirabili; diventa bella della bellezza di Dio, forte della sua forza stessa, e perciò i suoi atti acquistano un valore sovrumano. Quest’anima si dice giustificata, cioè fatta giusta e retta dinanzi a Dio, bella di quella bellezza ch’Egli vuole in lei, e perciò cara a Lui ed oggetto dell’amor suo: essa diviene partecipe della stessa divina natura, come il fiore è partecipe della bellezza del sole che lo colora ed abbellisce. Questa giustificazione o grazia divina non può essere il frutto delle opere nostre, né merito dei nostri sforzi, come non è merito del fiore l’essere abbellito dal sole: è dono, tutto e puro dono di Dio: tutto il nostro merito sta nel riceverlo, ancorché, ricevutolo, possiamo e dobbiamo accrescerlo con la nostra cooperazione. Questa grazia, che è il massimo dei doni di Dio, noi la riceviamo per i meriti di Gesù Cristo, nel quale e per il quale soltanto, come altrove scrive S. Paolo, siamo arricchiti d’ogni bene spirituale. – Seguitiamo l’Apostolo: “Voi direte, così egli fa parlare i Galati: Se la legge mosaica con tutte le sue prescrizioni e con la stessa circoncisione, non ci riconcilia con Dio e non ci santifica, che vale essa? Perché ci fu data? Qual pro di questa legge, che pure viene da Dio? Quid igitur lex?” — Risponde tosto l’Apostolo con la sua forma sì concisa: “Vi dico che la legge mosaica fu aggiunta alla promessa fatta ad Abramo, a causa delle trasgressioni del popolo d’Israele, il quale per la sua lunga dimora in Egitto, era caduto in tanta ignoranza ed in tanto pervertimento, che spesso faceva il male senza nemmeno conoscerlo: (Lex) posìta est propter transgressiones“. Spieghiamo un po’ meglio, se almeno ci vien fatto, la mente dell’Apostolo, che qui può parere oscura. – Abramo si giustificò innanzi a Dio, credendo alle sue parole e promesse ed ubbidendo ai suoi voleri; alla stessa maniera potevano e dovevano giustificarsi tutti i suoi discendenti: bastava che credessero alle divine promesse fatte ad Abramo e operassero conformemente ad esse, ma che avvenne? I suoi discendenti crebbero in gran numero, divennero un gran popolo in Egitto: a poco a poco dimenticarono le promesse avute per Abramo: caddero ripetutamente nell’idolatria e si resero colpevoli di gravissimi delitti. Che fece allora Iddio? Viste le male inclinazioni del popolo e le sue miserande cadute, nella sua misericordia gli diede la legge con tutto quel cumulo di minute prescrizioni ond’essa è ripiena: (Lex) propter transgressionea posita est. Questa legge di timore era un aiuto possente dato al popolo per tenerlo sulla via della verità e mantenere viva in lui la memoria delle promesse divine; questa legge, come poco appresso dice lo stesso Apostolo, era la guida, il pedagogo che doveva condurre Israele a Cristo e prepararlo al suo Vangelo (vers. 25). “La legge mosaica, soggiunge Paolo, fu promulgata dagli Angeli, per mezzo di un mediatore, che è Mosè. „ Da queste parole apprendiamo che la legge data sul Sinai, fu data per mezzo degli Angeli: Ordinata per angelos, e che dagli Angeli la ricevette Mosè, il quale fu poi il mediatore tra Dio e il popolo: In manu mediatoris. Forse alcuno tra voi dirà: Noi abbiamo sempre udito dire che Mosè  ricevette la legge da Dio stesso: come sta che qui S. Paolo ci insegna che Mosè la ricevette dagli Angeli? Nessuna difficoltà, o carissimi. Ciò che Iddio fa per mezzo degli Angeli o dei suoi ministri, dicesi fatto da Lui stesso, perché Egli ne è la causa principale. Non diciamo noi che Dio santifica il bambino nel Battesimo, scioglie dai peccati l’adulto, benché il Battesimo sia conferito dal ministro, e la penitenza amministrata dal Sacerdote ? Similmente le Scritture sante ci dicono che la legge fu data a Mosè, ora da Dio ed ora dagli Angeli, ed è l’una e l’altra cosa. E qui è superfluo il ciò che altre volte ebbi a dire, cioè Dio nelle opere tutte che compie fuori di sé, anche le più alte, suole usare come strumento le cause seconde, Angeli ed uomini, perché in tal guisa apparisce meglio la sua grandezza e la sua gloria, e perché eleva alla dignità di cause le creature, le nobilita e le rende più simili a sé. Impariamo dunque ad  venerare questi spiriti eccelsi, gli Angeli che stanno tra Dio e noi, e che sono i ministri ordinari dei suoi voleri sulla terra. E fino a quando doveva durare la legge di Mosè, data in aiuto delle promesse fatte prima ad Abramo? Finché fosse venuto il seme a cui aveva promesso — Donec veniret semen cui promiserat, „ E chi è questo seme? Non occorre il dirlo, è Cristo, nel quale avrebbe avuto compimento la benedizione promessa ad Abramo. Allorché il fanciullo diventa uomo, cessa l’opera del pedagogo: dunque alla venuta di Cristo doveva cessare la legge, e cessò. –  Continua S. Paolo e scrive: “Ora mediatore non vi fu per uno, eppure Dio è uno. „  È una sentenza che ha bisogno di essere chiarita, e così mi pare si possa chiarire: Dio è uno solo e Padre di tutti gli uomini, e tutti li vuol salvi, e la sua volontà è eterna ed immutabile: agli Ebrei diede la legge in aggiunta alla promessa per condurli a salute, e la diede per Mosè, come per un mediatore: a quelli che non sono Ebrei provvede Egli stesso, ponendo a loro capo Cristo stesso, e in Lui unificando i figli di Abramo ch’ebbero il mediatore in Mosè, ed i Gentili, che chiama a sé senza l’opera di Mosè. In altri termini: come gli uomini si salvavano senza la legge, prima di Mosè, per la fede in Cristo ventura, così ora si salvano senza la stessa legge, purché credano in Cristo già venuto: la legge di Mosè fu un aiuto temporaneo dato da Dio ai soli Ebrei. La conseguenza pratica di questo insegnamento dell’Apostolo nei versetti citati, si riduce in sostanza a stabilire questo punto fondamentale: la salute per tutti gli uomini, Giudei e non Giudei, prima e dopo Cristo, sta riposta unicamente in Cristo, Salvatore universale. Egli comparisce sulla terra nel mezzo dei tempi: una parte dell’umanità lo precede: l’altra viene dopo di Lui e continuerà, fino alla fine dei tempi: quella prima parte guarda a Cristo venturo con la fede nelle promesse divine, come Adamo, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, o con la fede aiutata dalla legge mosaica, come Mosè, Davide e tutti i profeti; la seconda parte guarda a Cristo venuto, e a Lui si unisce con la fede, che opera per la carità. Per tal modo Cristo è il gran centro di tutta l’umanità, e in Lui si appuntano tutti gli sguardi, tutti i desideri e tutti gli amori di quelli che cercano e vogliono la salvezza. Fratelli e figliuoli carissimi! Gesù Cristo è la luce delle nostre menti, è la forza delle nostre volontà, è la nostra vita. Tutti dunque uniamoci a Lui, perché solo per Lui abbiamo accesso a Dio, come scrive altrove San Paolo. Ma come  possiamo unirci a Lui, sì che la sua vita divina si spanda in noi? Eccovelo. L’anima nostra si svolge tutta negli atti di quelle due potenze che le sono proprie e caratteristiche: l’intelligenza e la volontà. L’intelligenza è ordinata al possesso della verità, come l’occhio è ordinato a ricevere la luce: e la volontà tende necessariamente ad amare, come i polmoni a respirare. Ora Gesù Cristo, autore e consumatore dalla fede, per mezzo della Chiesa, ci presenta le verità che sono la luce dalla nostra intelligenza, ci mostra se stesso, come oggetto degno di tutto il nostro amore. Ebbene:  appuntiamo la nostra intelligenza in queste verità che sgorgano da Cristo, come i raggi emanano dal sole; volgiamo il nostro cuore a Gesù, come il fiore volge il suo calice al sole che lo colora, e posiamolo in Lui, ed ecco compiuta la nostra unione con Gesù Cristo. Dietro alla mente ed al cuore, con la fede e con la carità intimamente uniti a Gesù Cristo, verranno le opere, verrà il corpo stesso, fedele esecutore di ciò che si conosce e si vuole od ama. Congiunti mente e cuore a Gesù Cristo nel tempo, lo saremo nella eternità. Ma è da passare alla spiegazione degli ultimi due versetti della nostra Epistola. “Sarà dunque la legge contraria alle promesse di Dio? No. „ — È una nuova difficoltà che l’Apostolo, secondo il suo stile sì conciso e vibrato, muove a se stesso. La legge di Mosè, come sopra si è stabilito, non dava la grazia e la santificazione per se stessa, ma questa veniva soltanto dalla fede salda alle promesse divine; ora l’essere aggiunta la legge di Mosè alle promesse divine, fa sì che sembri non bastevole la fede, e che la giustificazione derivi dalla legge stessa. In altra forma: l’aggiunta della legge mosaica alle promesse divine arguirebbe il difetto di queste e la necessità e sufficienza di quella. No, no, risponde Paolo, quasi inorridito: Absit. Se la legge mosaica avesse avuto virtù di santificarci per se stessa, allora sarebbe vero che è contraria alle promesse, perché la giustificazione ci verrebbe dalla legge e non dalle promesse divine e dalla fede alle medesime. Resta dunque verità indubitata, che la legge mosaica non può sostituire la fede nell’opera della nostra giustificazione, e che fu soltanto un aiuto temporaneo dato agli Ebrei, per renderla più sensibile e conservarla finché venne Cristo, che la rese inutile. – Siamo all’ultima sentenza dell’Apostolo: “Ma la Scrittura ha racchiusa ogni cosa sotto peccato, affinché la promessa di fede fosse data per Gesù Cristo ai credenti. „ Non ve lo dissimulo, o carissimi; anche quest’ultima sentenza è dura ad intendersi per la forma del dire e per la struttura del periodo: ma questo è il senso: No, la legge di Mosè non è contraria alle promesse di giustificare gli uomini con la fede in Gesù Cristo; anzi serve di mezzo a compirle. In qual modo? La legge mosaica data agli Ebrei tolse forse le trasgressioni ed arrestò le colpe loro? No; anzi crebbero a dismisura fino all’eccesso di mettere a morte il Figliuolo di Dio: la legge mosaica mise in piena luce la debolezza dell’uomo, e gli fece sentire dopo sì lunga prova la necessità dell’aiuto divino, e che solo per la fede in Gesù Cristo poteva giustificarsi. Questa dottrina dell’Apostolo mi richiama al pensiero ciò ch’egli stabilisce nei primi tre capi della sua lettera ai Romani, e particolarmente nel terzo (vers. 20). S. Paolo mostra con robusta eloquenza, che tanto i Gentili con la sola ragione e con la sola forza della natura, come gli Ebrei con la loro legge mosaica, non poterono piacere a Dio, e che tanto quelli che questi, dovevano confessare la loro impotenza assoluta nell’opera della propria giustificazione, ed erano forzati a riconoscerla soltanto da Gesù Cristo, e così nessuno possa gloriarsi dinanzi a Dio e tutti soggiacciamo al suo giudizio (Rom. III, 19). Tutti, Gentili ed Ebrei, sono peccatori: tutti egualmente, per piacere a Dio e salvarsi, hanno bisogno della fede in Gesù Cristo (Rom. III, 22, 23, 27, 29, 30). Deh! che questa fede, che riceveste nel santo Battesimo, che fu nutrita dalla parola di Dio e dai Sacramenti, che è la radice della nostra santificazione e che opera per la carità, sia sempre viva nei vostri cuori [Comprendo molto bene che il testo dell’Apostolo è oscuro e che anche dopo la mia spiegazione rimangano molti punti non abbastanza chiariti. Mi studierò di esporre in breve e più chiaramente il pensiero dell’Apostolo. S. Paolo vuol dimostrare che la legge mosaica per sé non salva e che salva la fede in Dio e in Gesù Cristo. Come lo mostra? Udite. Abramo si giustificò col credere a Dio e alle sue promesse: quelle promesse e quella fede furono anteriori alla legge di Mosè e alla circoncisione: dunque la legge di Mosè e la circoncisione, per sé, non sono necessarie, perché l’uomo si giustificò senza di esse con la fede allo promesse divine. Vanne la legge, venne la circoncisione. Perché? A che servono? Unicamente come aiuto e mezzo per avvivare la fede nelle divine promesse, attese le debolezze e la infedeltà d’Israele. La legge mosaica e la circoncisione non tolse dunque nulla alla efficacia della fede nelle divine promesse. Ora è venuto il termine delle divine promesse: Cristo. Via dunque la legge mosaica, via la circoncisione, ch’erano soltanto un aiuto per tenerci saldi alla fede nelle divine promesse: si leva l’impalcatura quando la fabbrica è compiuta. Così parmi spiegato meglio il testo apostolico].

Graduale
Ps LXXIII:20; 19; 22.

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum: et ánimas páuperum tuórum ne obliviscáris in finem.
[Signore, abbi riguardo al tuo patto: e non dimenticare per sempre le ànime dei tuoi poveri.,+

Exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam: memor esto oppróbrii servórum tuórum. Allelúja, allelúja
[
V. Sorgi, o Signore, e difendi la tua causa e ricordati dell’oltraggio a Te fatto. Allelúia, allelúia].

Alleluja

Ps LXXXIX:1
Dómine, refúgium factus es nobis a generatióne et progénie. Allelúja. [O Signore, [Tu fosti il nostro rifugio in ogni età. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XVII:11-19

In illo témpore: Dum iret Jesus in Jerúsalem, transíbat per médiam Samaríam et Galilaeam. Et cum ingrederétur quoddam castéllum, occurrérunt ei decem viri leprósi, qui stetérunt a longe; et levavérunt vocem dicéntes: Jesu præcéptor, miserére nostri.
Quos ut vidit, dixit: Ite, osténdite vos sacerdótibus. Et factum est, dum irent, mundáti sunt. Unus autem ex illis, ut vidit quia mundátus est, regréssus est, cum magna voce magníficans Deum, et cecidit in fáciem ante pedes ejus, grátias agens: et hic erat Samaritánus. Respóndens autem Jesus, dixit: Nonne decem mundáti sunt? et novem ubi sunt? Non est invéntus, qui redíret et daret glóriam Deo, nisi hic alienígena. Et ait illi: Surge, vade; quia fides tua te salvum fecit.” 

OMELIA II

 [Mons. Bonomelli: ut supra; vol. IV, Omelia II.- Torino 1899]

“Avvenne che, nel muovere alla volta di Gerusalemme, Gesù passava attraverso la Samaria e la Galilea; ed essendo entrato in un certo villaggio, gli si fecero incontro dieci lebbrosi, i quali si fermarono da lontano e levarono la voce, dicendo: “O Gesù maestro, abbi pietà di noi”. E vedutili, disse loro: “Andate e mostratevi ai sacerdoti”. E avvenne, che nell’andare, furono mondati. Ed uno di quelli, vedutosi mondato, torna indietro, glorificando Dio a gran voce. E gittossi con la faccia per terra, ai piedi di Lui, ringraziandolo, e questi era samaritano. Allora Gesù, rispondendo, disse: Non furono forse dieci i mondati? E dove sono gli altri nove? Non si è trovato chi tornasse a dar gloria a Dio se non questo straniero? Egli disse: Levati su e vattene: che la tua fede ti ha salvato!” (S. Luca, XVII, 11-19).

Il miracolo della resurrezione di Lazzaro, sì strepitoso, sì evidente, operato da Gesù sulle porte di Gerusalemme, aveva messo sossopra il Sinedrio. I capi dei farisei e del popolo, radunati a concilio sotto la presidenza di Caifa, avevano deliberato di metterlo a morte. Gesù allora (Giov. XI, 54) lasciò Gerusalemme e Betania e si ritrasse ad Efrem, cittadella sui confini della Giudea. Poco appresso lasciò anche Efrem, prese la via della Samaria, risalì fino in Galilea e di là discese nella valle del Giordano e ripigliò il cammino verso Gerico e Gerusalemme, poco prima dell’ultima Pasqua. Fu in questo viaggio, che precedette di pochi giorni la sua morte, che avvenne il fatto, o meglio, il miracolo, che vi ho narrato. Esso non presenta difficoltà alcuna: ma si presta ad applicazioni morali non prive di pratico interesse, meritevoli della vostra pia attenzione. – Narra un viaggiatore moderno di aver trovato, sulla via che da Giaffa mette a Gerusalemme, una turba di pezzenti. Essi, scrive il viaggiatore, erano senza capelli, senza naso, senz’occhi, e tendevano verso di lui le braccia senza mani: non parlavano, ma mugolavano nella gola parole impossibili ad intendersi. Erano lebbrosi che vivevano rilegati fuori dell’abitato, in certi casolari abbandonati; nessuno toccava né loro, né i loro abiti od utensili. I tocchi dalla lebbra, oggi assai rari anche in Oriente, erano numerosi al tempo di Cristo. Questa terribile malattia, comune allora in Oriente, passò in Occidente al tempo delle Crociate e vi si diffuse in modo che si eressero molti ospitali per i lebbrosi. Oggidì in Occidente è quasi scomparsa, ma non sono rari i casi in Oriente, massime in Palestina e se ne hanno in altre parti del mondo. Era ed è una conseguenza del difetto d’ogni pulizia. Mosè aveva stabilito le regole più minute e più severe da osservarsi quanto ai lebbrosi od anche solo sospetti d’essere colti dal fiero morbo. Il sacerdote, ch’era anche medico, doveva esaminare l’infermo sospetto di lebbra: trovatolo caso dubbio, lo separava finché cessasse il dubbio. Se non era lebbra, lo lasciava libero; se la lebbra si manifestava, lo separava totalmente dalla società: se guariva, ciò che accadeva raramente, il lebbroso doveva presentarsi al sacerdote, il quale, accertata la guarigione, nella sua qualità anche di medico, gli permetteva di ritornare in mezzo alla società. Mosè si può considerare come il primo legislatore, che contro il propagarsi delle malattie contagiose (e contagiosa in sommo grado era la lebbra) stabilì la più assoluta separazione. Mandate innanzi queste semplici osservazioni, veniamo al fatto narrato dal Vangelo. Avvenne che nel muovere alla volta di Gerusalemme, Gesù passava attraverso la Samaria e la Galilea. „ La Samaria divide la Giudea dalla Galilea, tantoché non si poteva passare dall’una all’altra provincia senza attraversare la Samaria, o fare un lungo giro ad oriente, di là del Giordano. – ” Essendo entrato, in un certo villaggio, gli si fecero incontro dieci lebbrosi. „ Noi ignoriamo il nome di questo villaggio che il Vangelo non ha nominato; ma secondo ogni verosimiglianza è il villaggio che oggi si chiama Diennin (V. P. Didon, Vita di Gesù Cristo, vol. 1, pag. 140), a metà strada tra Nazaret e Sichem. Presso il villaggio gli si fecero incontro dieci lebbrosi. Non deve far meraviglia trovarne dieci insieme, sia perché, come dissi, allora in Palestina erano più frequenti che al presente i casi di lebbra, sia perché, cacciati dai luoghi abitati ed andando qua e là a guisa di vagabondi, era naturale che gl’infelici si cercassero a vicenda, per temperare nella convivenza, che sola era loro possibile, lo strazio dei loro dolori e l’affanno e la desolazione dell’isolamento inesorabile a cui erano condannati. Il trovarsi tra loro un Samaritano prova che si erano mossi insieme, dandosi quasi la posta, da vari paesi. Quei miseri avevano certo dovuto udire più volte pronunziare il nome di Gesù, come quello di un gran profeta, d’un gran maestro, anzi del Messia aspettato. La fama dei miracoli operati da lui, certamente era giunta ai loro orecchi, e con essa era nata nel loro cuore la speranza d’essere per Lui risanati. Per chi è percosso da grave infermità è tanto naturale aprir l’animo ala speranza della guarigione, anche quando sembra impossibile! Pensate se non lo dovessero aprire questi sventurati, che di Gesù, della sua bontà e della sua potenza avevano udite tante meraviglie! Io credo che qualche persona, impietosita di quegli infelici e bramosa di vedere un miracolo, corresse a loro, e stando da lungi, li chiamasse e gridasse loro che Gesù di Nazaret, l’operatore di tanti miracoli, si avvicinava al villaggio; ch’Egli poteva guarirli; che non dovevano lasciar sfuggire sì bella occasione; che corressero a Lui, che lo pregassero, che lo supplicassero a risanarli: era sì buono, che li avrebbe esauditi, come altri ne aveva esauditi! Immaginate voi se quei poveretti avevano bisogno d’altri conforti. Essi, unitisi insieme, e forse sorreggendosi pietosamente gli uni gli altri, si collocarono sulla via per dove passava Gesù, e appena lo videro o l’udirono avvicinarsi, rispettando la legge, che li obbligava a starsene lontani: “Levaverunt vocem suam — si misero a gridare come più e meglio potevano. „ E che dicevano essi quei tapini? Qual era il grido, lamentevole, quale la preghiera ardente, che rivolgevano a Gesù, agitando le braccia? Uditela: “O Gesù maestro, abbi pietà di noi” – = — Jesu præceptor, miserere nostri. „ Lo chiamano col suo nome proprio e sì dolce, e vi aggiungono il titolo d’onore: “Maestro – Rabbi, „ che gli si dava dal popolo e che a Lui sì bene conveniva. Il loro grido, la loro preghiera è sì bella, sì semplice e sì eloquente, che altra più naturale e più efficace non si può immaginare. È questa la preghiera che il bisogno e la stessa natura mettono sulle labbra dell’uomo, ed è quella che dovrebbe risonare sulle nostre ogni qualvolta ci prostriamo dinanzi a Dio: Signore, abbiate pietà di me: Miserere mei, Deus. E la confessione della nostra miseria, è l’espressione della nostra fiducia in Dio: è il grido dell’umiltà e della speranza, le due ali con le quali voliamo a Dio. Allorché, o carissimi, siamo afflitti, desolati e gemiamo sotto il peso dei nostri dolori, e talvolta non sappiamo come pregare, prostriamoci dinanzi a Dio e ripetiamo spesso questa sì breve e sì santa preghiera: “Signore, abbiate pietà di me. „ I poveri lebbrosi non gridano a Gesù: Liberaci, o Maestro, da questa lebbra, mondaci da queste schianze e fetide piaghe onde siamo coperti: essi le mostrano e a chi ha cuore, basta mostrare i bisogni per essere esauditi. Io credo che, come al solito, gran folla di popolo accompagnasse Gesù, desiderosa di vedere il miracolo. Gli occhi di tutta quella moltitudine si fissavano avidamente ora sopra il divino Maestro, ed ora sui dieci sventurati; il silenzio doveva essere profondo, vivissima l’aspettazione. Gesù fermò gli occhi pieni d’amore e di tenerezza sopra di essi, mostrando che sentiva al vivo i loro dolori, e poi con voce amorevole e che mostrava i loro voti dover essere fatti paghi, disse: “Andate, mostratevi ai sacerdoti — Ite, ostendite vos sacerdotibus. „ Perché mai Gesù Cristo non volle mondare immediatamente, lì sul luogo, quei dieci lebbrosi, come fece quasi costantemente ogni volta che fu richiesto di qualche miracolo? Perché volle che questi lebbrosi se ne andassero e si mostrassero ai sacerdoti? Non è mestieri il far osservare che Gesù poteva operare i miracoli come meglio stimava, e nessuno aveva il diritto di imporgli il modo di operarli: ma non è temerità investigare con umiltà e riverenza, perché ha voluto tenere questo modo insolito con i dieci lebbrosi, e noi lo facciamo seguendo l’insegnamento dei Padri e degli interpreti più autorevoli. – Secondo la legge di Mosè (Levit., c. XXIV) era uffizio dei sacerdoti, come poc’anzi accennai, il verificare l’esistenza della lebbra e la sua guarigione; e Gesù, per rispetto alla legge, e fors’anco per disarmare con quell’atto di deferenza i sacerdoti, che sapeva essergli nemicissimi, Gesù mandò quei lebbrosi ai sacerdoti per mettere alla prova la loro fede ed ubbidienza, e in tal guisa far loro quasi meritare il miracolo. Finalmente, penso io, voleva che gli stessi sacerdoti, suoi nemici, fossero testimoni del miracolo, e così aprissero gli occhi alla verità. Certamente è poi da credere, che Gesù pronunziò queste parole : “Andate e mostratevi ai sacerdoti, „ in modo che i lebbrosi compresero benissimo che la guarigione era sicura, e non per virtù dei sacerdoti, ma di Lui che li mandava ai sacerdoti. Onde lieti partirono per recarsi dai sacerdoti, e … “avvenne che nell’andare furono mondati. „ Senza dubbio dal contesto del Vangelo è chiaro: la loro guarigione avvenne in un istante, benché dei particolari intorno al modo non vi sia un solo cenno: Et factum est, dum irent mundati sunt. – Voi vedete che la certezza del miracolo non potrebb’essere maggiore. Si tratta d’una malattia visibile a tutti e notissima, e la cui guarigione era assai rara: e quando pure lunga cura, ed era progressiva, non mai repentina; qui il risanamento avvenne sulla via, ad un tratto, in tutti i dieci egualmente, in quella che ubbidiscono al comando di Cristo: non si applica nessun rimedio, non precede la minima cura. Il fatto si compie all’aperto, sulla via pubblica e, credo, sotto gli occhi di molti che li dovevano seguire, se non altro, per una certa curiosità. Si tratta non di un solo lebbroso mondato, ma di dieci; d’uno o di due forse si poteva dubitare che fossero allucinati, o come che sia ingannati o ingannatori: ma dieci allucinati, tutti ingannati o ingannatori, e ingannatori senza motivo, contro ogni interesse proprio, calpestando la propria coscienza, esponendosi ai più gravi pericoli, questo, o cari, è troppo, è impossibile. La guarigione pertanto dei dieci lebbrosi, quale ci è narrata dal Vangelo, considerata in ogni sua parte, col solo lume del senso comune, apparisce un fatto indubitato, e per conseguenza un’opera evidentemente sovrumana, in una parola, un vero miracolo. – E qui mi parrebbe di lasciare imperfetto e manchevole il commento di questo miracolo evangelico, se lasciassi da banda un’altra osservazione od applicazione che vedo toccata da tutti gli interpreti cattolici, e che torna sempre opportunissima. La lebbra, onde quei meschini erano coperti e orribilmente malconci e disfatti, era figura del peccato: il guasto che la lebbra faceva dei corpi, coprendoli di macchie schifose e piaghe puzzolenti e gangrenose e dimorandoli vivi, lo fa il peccato dell’anima nostra. A guisa di immonda lebbra la copre, altera in essa o bruttamente svisa la bella immagine di Dio e la rende deforme ed abominevole ai suoi occhi. Chi la monderà da tanta bruttura? Chi farà cadere quelle pustole fetenti, che tutta la insozzano? Chi chiuderà le sue piaghe, che menano un lezzo intollerabile? Chi ristorerà in essa la immagine di Dio e farà rifiorire l’antica sua bellezza? Dio solo, o carissimi, può ciò fare, perché come Egli solo col Battesimo ha creato queste capolavoro di bellezza, che è l’anima adorna della sua grazia, così Egli solo può rifarlo, rifondendo la stessa grazia: lo può e lo vuole col più acceso desiderio. Dio può mondarla dalla lebbra del peccato e rivestirla della sua prima bellezza, infondendo in essa la sua grazia direttamente, senza bisogno di qualsiasi mezzo o strumento; chi potrebbe dubitarne? Ma Dio vuol fare tutto questo, associando a sé l’uomo, dirò meglio, il sacerdote, e usando di lui, come di strumento, in maniera che  senza il suo concorso, Egli ordinariamente non fa nulla. Dio vuole sciogliere il peccatore dalla lebbra del suo peccato e rifarlo suo figliuolo per adozione mercè l’opera del Sacerdote. Udite ciò che Cristo dice ai dieci lebbrosi, che con le lacrime agli occhi gli chiedono la guarigione: ” Andate, mostratevi ai sacerdoti. „ Così Egli dice a noi tutti peccatori, che gli chiediamo la guarigione dell’anima nostra, il perdono dei nostri peccati: ” Sì, io vi monderò della vostra lebbra; io vi perdonerò le vostre colpe e vi rivestirò dell’ammanto prezioso della grazia; ma andate, e mostratevi ai Sacerdoti — Ite, ostendite vos sacerdotibus. „ Chi mai potrebbe lagnarsi di questa condizione impostaci per avere il perdono delle nostre colpe? Non è Egli il padrone assoluto, al cui impero nessuno può sottrarsi? Non poteva Egli imporci condizioni assai più dure e gravose? E non dovremmo noi anche in tal caso essergli grati della misericordia usata? E chi ne può dubitare? Infine ci dice: “ Andate, mostratevi ai Sacerdoti, „ cioè aprite loro il vostro cuore, i penetrali della vostra coscienza: anch’essi, questi Sacerdoti, per ottenere il perdono delle loro colpe, sono sottoposti alla stessa legge, e devono, come voi, manifestare la propria coscienza ai fratelli loro, ed avendo essi pure bisogno di carità, la useranno tutta con voi. Non temete di palesar loro le vostre debolezze e le vostre colpe; esse rimarranno sepolte per sempre nel loro cuore. E non sarà piccolo il vantaggio che voi ritrarrete, manifestando le vostre coscienze ai Sacerdoti: voi sarete obbligati a studiare e conoscere meglio voi stessi, le vostre passioni, le vostre tendenze: il rossore che proverete scorrendo le vostre colpe sarà parte di quella penitenza che dovreste fare, e sarà un valido ritegno al trascorrere delle passioni, e umiliando l’orgoglio troppo naturale del vostro cuore, vi renderà più saldi e più generosi nelle lotte quotidiane che dovrete sostenere. Non vi incresca adunque di ubbidire, come i dieci lebbrosi, al comando, non degli uomini, ma di Gesù Cristo, di andare e mostrarvi ai Sacerdoti con la Confessione, e così essere mondati dalla lebbra del peccato. – Voi dovete sapere che il Vangelo nella narrazione dei fatti è oltre ogni dire conciso: accenna appena le cose più necessarie, e le altre le lascia sottintendere ai lettori. Senza fallo, allorché Gesù Cristo disse ai dieci lebbrosi: “Andate, mostratevi ai sacerdoti, „ ancorché nol dicesse, lasciò loro intendere che certamente sarebbero stati mondati, e perciò la loro fede fu piena, la loro obbedienza fu pronta e cieca, e se ne andarono. Mentre se ne andavano, ad un trattò si videro cadere le squame della lebbra, chiudere le piaghe aperte e rifiorire la carne e perfettamente risanati. Stupiti si guardavano a vicenda, e quasi non sapevano credere ai propri occhi. Potete immaginare la gioia di questi poveri lebbrosi, che testé si vedevano cacciati dalla convivenza sociale, condannati ad una morte inesorabile ed atrocissima, ed ora si vedono ritornati in vita e liberi di rientrare in seno alle loro famiglie. La guarigione dovette avvenire in un istante, come dicevo, e per loro non poteva esservi ombra di dubbio che l’autore del miracolo era Gesù Cristo. L’istantanea e prodigiosa guarigione dalla lebbra di quei tapinelli, è figura di quell’altra istantanea e che Gesù Cristo opera in noi mercé della sacramentale Confessione. Allorché noi, guidati dalla fede, ubbidiamo al comando di Gesù Cristo, e confessiamo schiettamente le nostre colpe al suo ministro: allorché egli alza la sua mano e pronunzia le sante parole: “Io ti assolvo, „ la lebbra del peccato sparisce dall’anima nostra, ed essa è rivestita della bellezza divina, ond’era stata nel santo Battesimo arricchita. Ah! se in quell’istante i nostri occhi potessero vedere ciò che avviene nell’anima nostra e la sua meravigliosa trasformazione, la nostra gioia per fermo non sarebbe inferiore a quella onde furono ricolmi i dieci lebbrosi. –  Ritorniamo alla narrazione evangelica. Visto il miracolo che fecero, che dissero i dieci lebbrosi? Noi immaginiamo che tutti e dieci, senza esitare un solo istante, dovessero rifare la via e a gran corsa ritornare a Gesù, che non doveva essere lontano, e ringraziarlo e benedirlo, e narrare a tutti ciò ch’Egli aveva operato in loro; ma non fu così. Nove proseguirono il loro cammino, come se nulla fosse, e certo si recarono dai sacerdoti, affinché, accertata la guarigione, secondo la legge di Mosè, e fatta l’offerta, fosse loro dato di ritornare nelle loro famiglie (Gesù Cristo comandò ai lebbrosi di mostrarsi ai sacerdoti, non solo, credo io, perché la legge lo voleva e per far palese com’Egli la rispettava, ma perché essi stessi potessero e dovessero vedere con i loro occhi il miracolo per Lui operato e ne fossero testimoni.), il decimo per contrario, appena si vide mondato, ritornò sui suoi passi, corse da Gesù, si buttò ai piedi di Lui, con la faccia sul suolo: Cecidit in faciem suam ante pedes ejus, ringraziandolo senza fine: Gratias agens. E chi era egli questo lebbroso, che solo dei dieci ritornava a Gesù per attestargli la sua gratitudine? Il Vangelo non lo tacque: “Egli era samaritano — Et hic erat samaritanus.” I Giudei, come altra volta ebbi occasione di osservare, odiavano, abbominavano i Samaritani, e li tenevano in conto non solo di erranti e pagani, ma peggio ancora, se era possibile. Eppure Gesù non fece differenza alcuna nel miracolo operato; Egli guarì il Samaritano come gli altri nove che erano giudei, combattendo e distruggendo in tal guisa il pregiudizio nazionale, e mostrando come il Vangelo avrebbe stabilito il regno della carità universale. Poco prima il Salvatore (capo X, 33), ad un dottore della legge, alla presenza delle turbe giudaiche, nella persona di un Samaritano, aveva proposto il modello della carità fraterna; qui, in un Samaritano vero e reale, ci mette innanzi il tipo della gratitudine. Si direbbe che Gesù Cristo disponeva a bello studio le cose in modo da umiliare l’orgoglio degli Ebrei e distruggere il loro inveterato pregiudizio contro dei Samaritani. Credo anche non inutile avvertire un’altra cosa, che mostra il perché il buon Samaritano solo se ne tornò a Gesù, ed è questa: Egli troppo bene sapeva che se si fosse presentato ai sacerdoti, l’avrebbero dispettosamente respinto e rifiutato la sua offerta, appunto perché samaritano; e sapeva d’altra parte che quel Gesù che l’aveva mondato con tanta prontezza e bontà, l’avrebbe anche amorevolmente accolto, e che in fine valeva meglio ringraziare chi l’aveva con sì strepitoso miracolo risanato, che presentarsi al tempio e ai sacerdoti, che nulla avevano fatto, né potevano fare… Il buon Samaritano stava ai piedi di Gesù, e, come meglio poteva, con gli atti e con le parole, e, credo, anche con le lacrime, mostrava la sua gratitudine e benediceva il divino Maestro. Questi lo accoglieva con ogni amorevolezza, lo guardava con occhio pieno d’amore, e taceva; gli Apostoli e le turbe meravigliati gli facevano corona, aspettando pure che Gesù parlasse, e finalmente parlò e disse: “Non furono forse dieci i mondati? E gli altri nove dove sono? „ Voi lo comprendete, o dilettissimi: in queste domande di Gesù si sente un cotale accento di dolore, di mestizia, di nobile e tranquillo lamento, che va dritto al cuore, e che un lungo discorso difficilmente potrebbe esprimere. “Io so bene d’averne risanati dieci: ora come avviene che ne vedo un solo? Gli altri nove dove sono essi? „ Le parole di Cristo non erano rivolte né al Samaritano, né agli Apostoli, ma sono una forma di soliloquio, che fa seco stesso. Dopo un breve silenzio molto significante Gesù riprese, ed in modo solenne, girati intorno gli sguardi, disse: “Dunque non si è trovato chi tornasse a dar gloria a Dio, se non questo straniero! „ Di dieci lebbrosi un solo sentì il dovere di ringraziare chi li aveva sì prodigiosamente risanati, e, per di più, quest’uno non era un figlio di Abramo, ammaestrato dalla legge e dai profeti, ma uno straniero, un Samaritano! Non vi sfugga una osservazione, che mi sembra assai grave: in questo luogo Gesù, in modo abbastanza chiaro, afferma, sé essere Dio, perché dice: “Non si è trovato chi tornasse a dar gloria a Dio che questo straniero; „ ora lo straniero ch’era tornato a dar gloria o ringraziare, com’era suo dovere, dava gloria a Gesù Cristo, e Lui ringraziava: Gesù Cristo adunque parlava da Dio. – Una delle offese più cocenti, una delle ferite più dolorose che un’anima nobile e delicata possa ricevere, è senza dubbio l’ingratitudine delle persone beneficate, massime se queste hanno con essa vincoli speciali di parentela od amicizia, e se i benefizi sono grandi e segnalati. Avea ragione S. Bernardo di scrivere, che l’ingratitudine sopra ogni altra cosa spiace a Dio, particolarmente nei suoi cari figliuoli; che l’ingratitudine chiude la porta alla grazia, e che, quasi vento infuocato, dissecca la fonte della pietà, la rugiada della misèricorda, i ruscelli della grazia (Serm. 51). Non è vero, o cari, che allorché voi avete coscienza di aver colmato di benefizi un amico, di aver teneramente amato i vostri figli e sudato per essi, e li trovate sconoscenti, o anche solo indifferenti, vi sentite trafitti nella parte più intima del cuore ed esclamate: Oh gli ingrati! — Ebbene: da ciò misurate l’offesa che noi facciamo a Dio allorché sì malamente usiamo dei suoi benefizi. Questi, pel numero, per la qualità, per la durata, per la grandezza, per l’amore di chi li concede, non potrebbero essere maggiori. La vita che abbiamo, tutto ciò che alla vita è congiunto, la sua conservazione ad ogni istante, tutti i mezzi per conservarla e perfezionarla: la fede, la grazia, i sacramenti, la vita futura che ci promette ed offre, sono tali e tanti benefizi, che superano al tutto ogni umano comprendimento. Eppure a tanti benefizi, a tanto amore come abbiamo noi corrisposto? Me ne appello a voi. Noi ci lagniamo sì spesso di trovare uomini ingrati, e i nostri benefici sono quasi sempre un nonnulla: con quanta maggior ragione Dio può lagnarsi di noi, che tante volte lasciamo passare, non dico le ore e i giorni, ma le settimane, i mesi e gli anni senza dirgli: “O Signore, vi ringrazio della vita che mi avete accordato; della fede che mi avete dato, dei tanti benefizi che mi avete concessi! Questa gratitudine la dovremmo in ispecial maniera mostrare a Dio quando ci monda dalla lebbra dei nostri peccati nel Sacramento della Penitenza. In questo bagno salutifero Gesù Cristo ci monda dalla lebbra del peccato e ci adorna del manto glorioso della sua grazia; sarebbe mai, o dilettissimi, che a somiglianza dei nove lebbrosi, uscendo da questo lavacro purificatore, non ci recassimo ai piedi dell’altare, dove Gesù dimora nell’augusto Sacramento, e prostrandoci alla sua presenza col buon Samaritano, non lo ringraziassimo e levassimo a cielo la sua bontà e misericordia? Ah! se non lo facessimo, saremmo pure ingrati, e Gesù a ragione; potrebbe dire: E questo lebbroso, ch’io ho mondato nel mio sangue, non è venuto a ringraziarmi? Tanti pagani e Gentili ringraziano i loro idoli di quei benefizi che credono d’aver ricevuto da loro; tanti musulmani pubblicamente s’inginocchiano per benedire quel Dio, ch’ essi sì imperfettamente conoscono; tanti eretici e scismatici, che vivono nei loro errori, sollevano a me le loro mani e mi ringraziano a gran voce dei doni loro concessi; e i figli della Chiesa, i miei figli, prosciolti per me dai loro peccati, risanati dalla lebbra che li divora, non si curano tampoco di ringraziarmi. Ogni giorno al mattino ed alla sera, porgiamo a Dio il tributo della nostra riconoscenza, ringraziandolo degli innumerevoli benefizi onde ci è largo, e più particolarmente ogni volta che nel Sacramento della Penitenza ci mondiamo dalla lebbra del peccato, ricordandoci che il mezzo più efficace di ottenere grazie da Dio è quello di mostrarci grati di quelle ricevute. “Allora Gesù Cristo, così S. Luca chiude il suo racconto, disse al Samaritano: Levati e vattene, che la tua fede ti ha salvato. „ Tu hai creduto alle mie parole: tu, ubbidiente, andavi per mostrarti ai sacerdoti, secondo il mio comando: premio della tua fede e della tua ubbidienza è stata la guarigione; più grato de’ tuoi compagni, venisti a ringraziarmi; or levati e vattene. ,, Gesù qui, come in tanti altri luoghi del Vangelo, attribuisce la guarigione del lebbroso alla fede: certo la causa principale di quella guarigione era la bontà e la onnipotenza di Gesù Cristo; ma da queste parole apparisce che vi ebbe anche parte la fede del lebbroso stesso, tantoché è da dire, che se il lebbroso non avesse avuto questa fede, non sarebbe stato nemmeno risanato. Quantunque le parole di Cristo: ” La tua fede ti ha salvato, „ direttamente si riferiscano alla guarigione del corpo, è comune sentenza degli interpreti, che si riferiscano anche alla guarigione dell’anima, sia perché non è esclusa, sia perché era costume di Gesù Cristo risanare coi corpi anche le anime, sia finalmente perché la condotta del povero samaritano, i suoi ringraziamenti, la sua gratitudine sì altamente lodata dal Salvatore, non ci lasciano dubbio della sua pronta e sincera conversione. L’esempio di questo avventurato samaritano ci stia sempre dinanzi alla mente: egli ottenne insieme la salute del corpo e quella dell’anima: la ottenne dalla bontà del divino Maestro, ma non senza la propria cooperazione, per testimonianza di Cristo: ” La tua fede ti ha salvato. „ Noi pure otterremo la salvezza dell’anima nostra, ma a patto di prestare fedelmente la nostra cooperazione, radice della quale è la fede viva: Fides tua te salvum fecit.

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps XXXIII:15-16
In te sperávi, Dómine; dixi: Tu es Deus meus, in mánibus tuis témpora mea.
[O Signore, in Te confido; dico: Tu sei il mio Dio, nelle tue mani sono le mie sorti.]

Secreta
Popitiáre, Dómine, pópulo tuo, propitiáre munéribus: ut, hac oblatióne placátus, et indulgéntiam nobis tríbuas et postuláta concedas. [Sii propizio, o Signore, al tuo popolo, sii propizio alle sue offerte, affinché, placato mediante queste oblazioni, ci conceda il tuo perdono e quanto Ti domandiamo.]

Communio
Sap XVI:20
Panem de coelo dedísti nobis, Dómine, habéntem omne delectaméntum et omnem sapórem suavitátis.
[Ci hai elargito il pane dal cielo, o Signore, che ha ogni delizia e ogni sapore di dolcezza.]

Postcommunio
Orémus.
Sumptis, Dómine, coeléstibus sacraméntis: ad redemptiónis ætérnæ, quǽsumus, proficiámus augméntum.
[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, ricevuti i celesti sacramenti, progrediamo nell’opera della nostra salvezza eterna.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XXIV)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXIV

LA VITA E LA MORTE.

La lunga vita dei patriarchi. — Perché Dio ci lascia morire? — E dacchè Dio ci lascia morire, è poi gran male il suicidio? — E il duello? — Che dire del martirio e delle penitenze di certi santi? — La penitenza non è un attentato alla vita? – La cremazione.

— Ora vorrei sapere se sia vero che Adamo, il primo uomo, visse novecento e trent’anni, e tutti i primi uomini vissero come lui per lunghe età?

Verissimo, la Scrittura ne fa fede.

— Ma quegli anni non erano forse di gran lunga più brevi dei nostri?

Fin dai tempi di S. Agostino, taluni sorpresi di tanta longevità pretesero di ridurre egli anni allo spazio di trentasei giorni. Ma ciò erroneamente, perché l’autore del Genesi parlando altrove dell’anno enumera il primo, il secondo, il settimo, il decimo mese, ciò che mostra che intendeva parlare di uno spazio presso a poco uguale al nostro, ossia come pare probabilissimo di uno spazio di dodici mesi lunari, corrispondenti a 354 giorni.

— Ma una tale longevità non è fisicamente impossibile?

Nelle presenti condizioni di natura l’uomo certamente non può giungere ad una età antica quanto quella dei patriarchi benché anche oggi vi siano casi di vite lunghe fino a 190 anni e anche di più. Ma probabilmente prima del diluvio, le condizioni climateriche erano differenti da quelle d’oggidì, la qual circostanza, se non fu l’unica cagione, ebbe forse una grande efficacia sulla lunga vita dei primi uomini.

— Ho inteso. Ma perché Iddio dopo d’averci data la vita ci lascia morire? Io dico: « O la vita è un male, e allora perché Dio ce l’ha data? o è un bene, e allora perché ce la toglie? »

Tu dici così, perchè così hai letto in un cattivo romanzo. Ma non ti avvedi che questo specioso dilemma è tutto basato sul falso? Che la vita sia un bene e non un male non ci vuole un gran comprendonio a capirlo. – Dio, ch’è buono, non dà certamente agli uomini una cosa cattiva. Con tutto ciò la vita non è certamente il bene fine, ma il bene mezzo di un altro bene infinitamente maggiore, la beatitudine eterna, alla quale Dio, perché padrone di fare quel che vuole, ha stabilito che si arrivi passando per la morte. E avendo stabilito così ci fa forse Egli qualche torto, o si regola forse contrariamente alla sua bontà? Che anzi non ci dà prova maggiore di bontà in tal guisa, he lasciandoci vivere sempre in questo mondo? Supponi che tuo padre ti avesse dato dieci lire, dicendoti: Se te ne servirai a bene e le farai fruttare, dopo quel certo tempo che piacerà a me ti ripiglierò quelle dieci lire per dartene centomila: dimmi tuo padre avrebbe fatto male a darti quelle dieci lire? e in seguito ti farebbe un torto a togliertele per dartene centomila? – Capisci adunque quanto sia falso il dire quel che dice quel romanziere: « O la vita è un male, eccetera, eccetera ».

— So però essere verissimo, che Dio vuole che noi ci conserviamo la vita. Come dunque mediare questa sua volontà colla morte, di cui ci lascia essere vittime?

Questa conciliazione è la più facile che vi sia. Dio vuole certamente che noi ci conserviamo la vita, e vuole cioè che per parte nostra non ci togliamo sì gran dono, che desso ci ha fatto, avendocelo dato perché lo impieghiamo ad operare il bene per tutto quel tempo che Egli vuole lasciarci quaggiù. Ma passato questo tempo Egli vuole altresì, che noi ci rassegniamo alla morte, dalla quale ci lascia colpire per farci entrare nella eternità.

— Dacché adunque Iddio ha stabilito che noi tutti dobbiamo morire, non sarà proprio mai lecito che l’uomo si dia da se stesso la morte? Ho inteso dire varie volte che taluno nel togliersi la vita ha fatto un’ottima cosa, degnissima di lode!

Così pur troppo la pensa il mondo; ma si sa lo spirito mondano è diametralmente opposto allo spirito cristiano. Epperò non mai e poi mai sarà lecito il suicidio, ma sempre deve riguardarsi come un gravissimo delitto. In tutte le creature vi è una forza naturale, istintiva ed indistruttibile, che le spinge a far di tutto per conservare la propria esistenza. Epperò questa forza bisogna riconoscere che Dio stesso l’ha posta nelle sue creature come una legge di natura, cui anche l’uomo deve sottostare. Oltreché con la legge di natura Iddio ha pur proibito il suicidio nella legge positiva; giacché in quel « 5° Non ammazzare » è chiaro che Dio proibisce all’uomo non solo di ammazzare gli altri, ma ancora se stesso. Chiunque pertanto si dà la morte, viola gravissimamente un doppio precetto del Signore, senza nulla dire dell’ingiustizia, che commette verso della famiglia e della società.

— Come? Che chi si uccida violi la legge di natura e positiva lo intendo; ma non capisco come si renda pure ingiusto verso la famiglia e la società.

Rifletti che ogni uomo fa parte di una famiglia e di una società. E tanto all’una come all’altra egli è legato con dei diritti e dei doveri, che non deve disconoscere e rinnegare. Se pertanto egli si dà la morte, che cosa fa? Calpesta questi diritti e questi doveri, spezza violentemente i vincoli di sposo, di padre, di figlio, getta il disonore sulla famiglia, cui appartiene, priva la medesima e la società della propria esistenza e della propria opera.

— Tutto ciò è giusto; ma quando la vita, a cagione dei dispiaceri, dei dolori, dei contrasti, delle infermità, del disonore e di altre simili miserie diventa insopportabile non è meglio allora farla finita?

Primieramente ti osservo che la vita a cagione delle sue tribolazioni diventa insopportabile a coloro soltanto, che mancano di sentimenti cristiani. Chi nutre nel suo cuore tali sentimenti, anche in mezzo ai più acerbi dolori, non ostante che possa provare dei fremiti di natura contrari alla rassegnazione, non di meno o poco o tanto sa farsi violenza e sopportare la vita anche più dura. – In secondo luogo ti dirò che se fosse lecito di fronte alle tribolazioni della vita darsi la morte, in tutto il mondo si presenterebbe del continuo lo spettacolo del suicidio, perché vi è forse qualcuno, che durante la vita possa sfuggire del tutto i dolori fisici o morali? – Da ultimo ti assicuro che per quanto siano gravi le tribolazioni della vita non possono mai superare il bene della esistenza. Colui pertanto, che dinanzi ai dispiaceri, ai disgusti, al disonore e simili si dà la morte, è un vile miserabile, degno del massimo biasimo.

— Un vile miserabile? E non vi sono stati vari uomini grandi, che si suicidarono?

Se essi apparvero o furono tali per le grandi opere, che compirono durante la vita, senza dubbio lasciarono di essere tali allora che in tal guisa se la tolsero, perché la vera grandezza d’animo, come riconobbero gli stessi pagani, sta nel saper sopportare generosamente i disagi d’ogni genere, cui si va incontro quaggiù. – Se poi vi sono dei romanzieri, che esaltano il suicidio di questi così detti grandi,, gli è perché ancor essi hanno perduto il senso morale e tentano di farlo perdere eziandio agli altri.

— Eppure quanti ai giorni nostri, eziandio tra la gioventù, per un contrasto qualsiasi, si tolgono la vita!

Sì, ciò è verissimo pur troppo, ed è la dolorosa conseguenza dell’ambiente ateo, che si è andato formando in questi ultimi tempi. Si è posta da banda la fede, si sono scossi i principi della moralità negando la coscienza e insegnando il turpe materialismo, si è predicato quale unico scopo della vita il piacere, e poi sui giornali, sui romanzi, sui teatri, talora nelle stesse scuole, si è preso a fare l’apologia del suicidio: quindi nessuna meraviglia che questa piaga funesta si sia andata e vadasi allargando sempre più.

— Che si dovrebbe fare per rimediare a tanto male?

Si capisce: bisognerebbe combatterne e rimuoverne le cause. Bisognerebbe anzitutto ravvivare quanto più è possibile la fede e la pratica della religione; bisognerebbe poi proibire la pubblicazione di romanzi, di scritti, di articoli, di racconti, ove il suicidio è messo in mostra e quasi esaltato; bisognerebbe risvegliare il buon senso morale, sì che si abbia a riconoscere il gran delitto che il suicidio è, e l’infamia con cui merita di essere colpito; bisognerebbe che gli stessi poteri umani, come colpiscono di disonore i ladri e gli assassini, così facessero del suicida, che del ladro e dell’assassino è peggiore assai.

— Ella dice bene. Ma dacché siamo entrati in questo argomento, desidererei ora sapere qualche cosa di ciò che mi pare assai affine al suicidio, vale a dire del duello.

Tu hai ben ragione di dire che il duello è affine al suicidio, perché nel duello, che è un combattimento convenuto fra due, col pretesto di avere una riparazione d’onore, l’uomo senza alcuna vera necessità si espone al pericolo di essere ferito od ucciso contro la stessa legge di natura e quella positiva, di cui ti ho già parlato, e che ci impone di conservare la vita e ben anche l’integrità delle nostre membra.

— Dunque il duello è anch’esso un male grave?

È un male gravissimo, e tanto più ai giorni nostri. Che a questa rea pratica si abbandonassero quei barbari rozzi ed ignoranti, di cui parla Cicerone, i quali rimettevano la sentenza delle loro liti non già al tribunale, ma al ferro; che vi si abbandonassero gli stessi uomini civili nel medio evo, in cui tanti pregiudizi ed errori ottenebravano le menti, è cosa abbastanza spiegabile; ma che con la tanta luce e civiltà, di cui si vantano i tempi nostri, vi siano ancora di coloro così barbari e così sciocchi ad un tempo da mettere il loro onore sulla punta d’una spada o sopra una palla di rivoltella è del tutto inesplicabile e sommamente condannevole.

— Ma quando alla fin fine non vi è altro mezzo per avere soddisfazione d’un oltraggio ricevuto, mi pare che il duello non sia poi il gran male, che ella dice.

Come? Non vi è altro mezzo per avere soddisfazione d’un oltraggio ricevuto? Non vi sono forse i tribunali a cui ricorrere? Non vi sono dei giudici, delle leggi? E soprattutto poi per un cristiano non vi è il dovere di perdonare? – Ma via, mettiamo pure come tu di’, che alle volte cioè non vi sia altro mezzo per avere soddisfazione di un oltraggio ricevuto; forse che il duello serva a dare questa soddisfazione? Ecco: tu hai offeso me ed io ti sfido a duello. Tu accetti. Nel giorno, nell’ora e nel luogo convenuto, con le armi in mano e con i nostri padrini, o testimoni, ci troviamo a batterci. Tu sei coraggioso, forte e destro nel maneggiare la spada. Io invece sono timido, fiacco e poco esperto nella scherma. Al primo scontro tu mi ferisci, e se il duello è stato convenuto a primo sangue, i padrini c’intimano l’alt, se no, ripetiamo gli scontri, in seguito ai quali io da te sbudellato casco per terra e me ne vo all’altro mondo. Che riparazione d’onore ho avuto io? E dopo che tu m’avrai ferito od ammazzato, cessa forse d’esser vero che tu mi abbia offeso? – Ma supponiamo pure che per caso o per valentia o destrezza maggiore, sia io il primo a ferir te, e che compiuto così il duello a primo sangue noi ci riconciliamo tra le congratulazioni dei nostri padrini, o che pure trattandosi di duello a ultimo sangue, io riesca a far te freddo cadavere, resta forse così dimostrato che io sono stato da te offeso e che io ho avuto riparazione dell’offesa, che mi hai recato? Niente affatto: resta dimostrato che io nel battermi con te ho dispiegato una valentia, una destrezza, una forza superiore alla tua, e null’altro. Di maniera che il mio onore rimane offeso come prima, e non è stato per nulla riparato. E così non serve assolutamente né a dare soddisfazione d’un oltraggio ricevuto, né a decidere una lite, né a indicare dove stia il torto e dove la ragione, a meno che si voglia credere questa grande bestialità, che la ragione sempre da parte del più forte e che il torto spetta sempre al più debole. Vedi adunque come il duello oltre ad una barbarie, ad una violazione della legge naturale e positiva, sia ancora una stoltezza inesplicabile.

— Il suo ragionamento è giustissimo. Non comprendo però perché sia lecita la guerra, alla fin fine non è che un grande duello fra due popoli, e che non sia lecito battersi in due soli.

Vedi, caro mio: la guerra per un popolo, che sia stato offeso ne’ suoi diritti, non avendo esso più altro mezzo per difenderli, è necessaria ed anche giusta. Certamente, se i popoli non avessero in generale apostatato da Dio, potrebbero anche dirimere i loro contrasti e le loro liti ricorrendo all’arbitrato del Vicario di Gesù Cristo, del Papa, come molte volte in passato si fece. Ma pur troppo oggidì si è arrivati al punto di escludere proprio lui solo, il Papa, dai Congressi ed arbitrati di pace. Ad ogni modo torno a dirti che la guerra per parte di quel popolo, che giustamente crede violati i suoi diritti, diventa necessaria per la difesa e conservazione dei medesimi. Ma il duello non potrà mai e poi mai riguardarsi come necessario, essendovi altri mezzi per decidere sulla ragione e sul torto dei due litiganti, e quindi non potrà mai contestarsi come cosa giusta.

— Eppure oggidì chi sfidato a duello non accetta, è reputato vile, e se si tratta di un militare ho inteso dire che viene punito.

Così è purtroppo. Ma il vero vile è colui, che si fa schiavo di un uso il più barbaro, il più irragionevole e colpevole che vi sia ancora, e non sa levarsi su al di sopra di queste stupide idee del mondo. E se nell’esercito si punisce chi sfida a duello e chi sfidato non lo accetta, si cade nella più strana e deplorevole contraddizione.

— Ciò è verissimo.

E dopo tutto comprendi come la Chiesa abbia stabilito, nell’ordine suo, pene gravissime contro i duellanti e tante volte abbia levato la voce contro il loro delitto.

— Comprendo tutto. Mi viene però in mente una difficoltà. Se non è lecito esporsi in duello al pericolo di restar anche solo ferito, e se tanto meno è lecito di togliersi col suicidio la vita, che cosa si dovrà dire anzitutto di certi martiri, che da per se stessi si sono gettati nel rogo o tra le fiere per essere privati della vita?

Si deve dire, epperciò riconoscere, che questi martiri, non fecero ciò coll’intendimento di darsi la morte contro il volere di Dio, ma in quella vece per una specialissima ispirazione, per un movimento straordinario della grazia divina, che li spinse a compiere nel loro martirio un atto di vero eroismo; giacché da tutte le circostanze, che accompagnano il loro martirio, risulta chiaro, che nel gettarsi essi medesimi in braccio alla morte mirarono a sottrarsi al vituperio e al pericolo di peccare.

— Ho inteso. E di quegli altri santi poi si accorciarono la vita coi digiuni, con le penitenze, con le flagellazioni e simili, che si deve pensare?

Anzi tutto a questo riguardo bisognerebbe poter dimostrare davvero il fatto, che certi si siano accorciata la vita con le austerità da te indicate; giacché le statistiche dimostrano che gli uomini dediti alle austerità ordinariamente menano una vita più lunga degli altri. In secondo luogo se realmente nella Chiesa vi furono taluni santi, che sembrino avere spinto le loro penitenze oltre i confini della moderazione, sta anche a loro discolpa una ispirazione peculiare, che essi certamente ebbero da Dio, il quale, padrone com’è della vita d’ogni uomo, voleva santificarli per quelle vie straordinarie allo scopo, che gli altri apprendessero da loro la necessità di fare almeno le modiche penitenze, che insegna il catechismo, e la mortificazione della carne a vantaggio spirito.

— La penitenza adunque e la mortificazione, che predica la Chiesa, non è un attentato alla vita?

Se fosse come tu dici, o dirò meglio come avrai inteso a dire, la penitenza e la mortificazione cristiana sarebbe contraria alla legge morale. Epperò Gesù Cristo, che tanto l’ha raccomandata affine di raffrenare i sensi, avrebbe fatto contro alla sua stessa divina legge. E tutti i santi che la praticarono, avrebbero sbagliato e sbaglieremmo anche noi nell’onorarli.

— Ma insomma come conciliare il dovere di conservare la propria esistenza e di non recare offesa neppure alle nostre membra con la penitenza e con la mortificazione?

Ciò non è così difficile come tu pensi. A tal fine non bisogna dimenticare che nel composto umano l’anima è superiore al corpo, il quale è fatto per quella e non quella per questo. In secondo luogo bisogna osservare che non solo la fede, ma pure l’esperienza dimostra che tra l’anima e il corpo vi è antagonismo, giacché i sensi vorrebbero spesso soddisfazioni, che la retta ragione condanna, e le chiedono talvolta così imperiosamente, che senza una grande virtù non è cosa facile renderli rassegnati al diniego. In terzo luogo fa d’uopo ricordare che gli istinti dell’appetito sensitivo col diniegare loro fermamente e di spesso ciò che domandano, e col frenarli ed affliggerli ben anche con la mortificazione e penitenza, a lungo andare si domano, la natia lor violenza a poco a poco si spunta, come avviene del cavallo indomito, che col morso e con altre pene umilianti ed afflittive alla fine si riduce ad obbedire al cenno del cavaliere. Epperò la penitenza e la mortificazione fanno sì che la nostra esistenza diventi quale deve essere, dignitosa e virile, ricca di onestà e di virtù. – E così sta, che per una parte noi siamo in dovere secondo il formale precetto di Dio di conservare la vita e le forze per l’adempimento dei nostri obblighi, e che per l’altra, senza punto ledere le nostre forze, almeno gravemente sì da renderci inetti al disbrigo dei nostri impegni, dobbiamo valerci dei digiuni, delle astensioni da certi cibi, delle mortificazioni dei nostri sensi e di quelle pratiche, che pigliano il nome di penitenza, per condurre una vita conforme alla nostra dignità umana e alla nostra grandezza cristiana. – Dunque sai ciò che piuttosto attenta alla nostra vita ed alle nostre forze? Sono certi vizi nefandi, sono le golosità, l’intemperanza nel mangiare e nel bere, la crapula, l’ubriachezza, certe scommesse insensate che taluni fanno a chi più mangia e più beve, certe mode di vestire che stringono troppo il corpo e lo comprimono, ed altre simili cose. Ed è contro di ciò, che devesi giustamente inveire ma non contro la penitenza e la mortificazione cristiana.

. — Anche questo l’ho inteso. Avrei ora un’ultima domanda a farle. Perché la Chiesa di fronte alla morte non vuole saperne di cremazione?

La Chiesa non vuole la cremazione e severamente la proibisce, non già perché essa sia veramente contraria al dogma o alla morale cristiana, ma perché ella vede che con il pretesto della cremazione si vorrebbero aboliti i cimiteri, dall’esistenza dei quali tanto bene ne deriva al popolo cristiano; perché ella vuole maggiormente rispettato il corpo umano, differendone quanto più le è possibile la dissoluzione e impedendo atti irriverenti verso di esso; perché ella desidera che più a lungo ci rimanga impressa nella mente anche l’immagine materiale dei trapassati e più a lungo ci ricordiamo di pregare per essi, ciò che più difficilmente avverrebbe, quando non ci trovassimo dinanzi che ad un pugno di cenere.

— Tutto ciò va bene; ma non è forse vero che l’abbruciare i cadaveri sarebbe più igienico che il sotterrarli!

Così si dice, ma così non è affatto. Le più accurate indagini hanno dimostrato che l’inumazione, anche igienicamente considerata, deve preferirsi alla cremazione. Senti che cosa dice in proposito Paolo Mantegazza, non sospetto certo di tenerezza per la Chiesa: « Queste povere carni umane non hanno alcun che di specifico, che le renda più pericolose nella loro-putrefazione che i frusti dei cavoli, e le ossa delle nostre bistecche, e i nostri mazzi di fiori, e lasciatemelo pur dire, i nostri escrementi. Ma, calcolate di grazia tutto il nostro pandemonio escrementizio e domestico, che ogni uomo produce intorno a sé, e facilmente troverete che ogni uomo vivo, in un solo anno produce cento volte almeno di più di materia putrescente che un uomo morto… ». E tutta questa materia non è sepolta sotto terra come il calunniato cadavere umano, ma è gettata sui nostri orti e sulle nostre campagne! » – Davvero, caro mio, che per una parte c’è veramente da ridere al considerare le contraddizioni, in cui cadono taluni per far valere le loro opinioni. I rosticcieri moderni se la pigliarono così calda contro i cimiteri, come luoghi d’infezione! (Nota bene però, che a Parigi ve ne sono ben dodici nell’interno della città, senza timore d’infezione alcuna), e li vogliono lontani dalle Chiese parrocchiali e dalle abitazioni, e poi proprio nel mezzo delle città e dei paesi lasciano i gazometri, le fogne, gli stallaggi, le fabbriche di colla, le conce di pelli, le fosse per la macerazione del lino e della canapa, e cento altre cose simili, che appestano l’aria davvero, e sono causa non di rado di febbri maligne.

— Già è veramente così.

Lascia adunque la cremazione alla massoneria, che l’ha inventata, e tienti alla legge della Chiesa, che vuole all’ombra della Croce le nostre tombe confortate dal pianto cristiano e dalle preghiere.

LA VIA CRUCIS DI S. LEONARDO DA PORTO MAURIZIO

VIA CRUCIS

Questo esercizio della Via Crucis rappresenta il viaggio doloroso di Gesù Cristo, quando andò con la Croce sulle spalle a morire sul Calvario per nostro amore; per cui questa devozione deve essere praticata con tanta tenerezza, pensando di accompagnare il Salvatore con le nostre lacrime per compatirlo e ringraziarlo. – Fin dall’inizio del Cristianesimo nei luoghi stessi della Passione si vollero distinguere, con segni e monumenti particolari (poi chiamati Stazioni), i vari punti dov’erano avvenuti l’incontro di Gesù con sua Madre, il colloquio con le donne, le diverse cadute, l’episodio dell’uomo di Cirene, ecc.: sono quelle 14 Stazioni di Gerusalemme rappresentate poi in altrettanti quadri, per soddisfare in qualche modo la devozione di tutti, anche di coloro che non potevano e non possono andare nella Città santa. – Furono i Francescani, custodi dei Luoghi santi, a diffondere in tutto il mondo la pratica della Via Crucis. In Italia, fu san Leonardo da Porto Maurizio a farla nascere ed amare. Nato nel 1676, predicò al popolo ininterrottamente per 43 anni, fino alla morte, percorrendo tutta l’Italia. – Ottenne dal Papa di poter erigere la Via Crucis anche nelle chiese non francescane e ne fondò personalmente ben 572. Di queste la più famosa è quella del Colosseo, a ricordo dell’Anno Santo del 1750. Si usa accompagnare la Via Crucis con lo Stabat Mater di Iacopone da Todi, o con altri canti.

INDULGENZE:

VIA CRUCIS

194

Fidelibus, qui sive singulatim sive in comitatu, saltem corde contrito, pium exercitium Viæ Crucis, legitime erect, ad præscripta Sanctae Sedis, peregerint, conceditur:

Indulgentia plenaria quoties id egerint;

Alia Indulgentia plenaria, si eodem die quo memoratum pium exercitium peregerunt, vel etiam infra mensem ab eodem decies peracto ad sacram Synaxim accesserint;

Indulgentia decem annorum prò singulis stationibus, si forte incœptum exercitium, quavis rationabili causa, ad finem non perduxerint.

Easdem indulgentias lucrari valent:

a) Navigantes, carceribus detenti, infirmi et illi qui morantur in partibus infìdelium aut legitime impediuntur, quominus pium exercitium Viæ Crucis forma ordinaria peragant, dummodo manu tenentes Crucifixum a saceriote, legitima facultate munito, ad hoc benedictum, saltem corde contrito ac devote recitent, cum pia recordatione Passionis Domini, viginti Pater, Ave et Gloria, unum nempe prò qualibet statione, quinque in sanctorum Domini nostri Iesu Christi Vulnerum memoriam et unum urta mentem Summi Pontificis. Quod si omnes præscriptos Pater, Ave et Gloria ex rationabili causa recitare nequiverint prò indulgentia plenaria, partialem indulgentiam decem annorum prò singulis Pater cum Ave et Gloria recitatis consequi valent.

b) Infirmi, qui vi morbi absque gravi incommodo vel difflcultate pium exercitium Viae Crucis nec in forma ordinaria nec in forma supra statuta scilicet per recitationem viginti (20) Pater, Ave et Gloria peragere possunt, dummodo cum affectu et animo contrito osculentur vel etiam tantum intueantur in Crucifixum ad hoc benedictum, eis a sacerdote vel ab aliqua alia persona exhibitum, et recitent, si possint, brevem aliquam orationem vel precem iaculatoriam in memoriam Passionis et Mortis Iesu Christi Domini nostri (Clemens XIV, Audientia 26 ian. 1773; S. C. Indulg., 16 sept. 1859; S. Pæn. Ap., 25 mart. 1931, 20 oct. 1931, 18 mart. 1932 et 20 mart. 1946). 

[1) Plenaria per ogni volta. 2) parziale di 10 anni ogni stazione, quando per ragionevole motivo si dovesse interrompere il pio esercizio.

È necessario e sufficiente: 1) Che la Via Crucis sia stata eretta legittimamente; 2) percorrere le 14 Stazioni; quando per il numero dei fedeli non si può percorrere le Stazioni, basta alzarsi e inginocchiarsi mentre il Sacerdote o chi per lui percorre la Via Crucis; 3) avere il cuore contrito.

Non è necessario: leggere le considerazioni; recitare il Pater, Ave, Gloria; pregare per le intenzioni del Papa; confessarsi o comunicarsi. Ma chi fa la comunione in quel giorno, acquista un’altra indulgenza plenaria. Si può interrompere il pio esercizio per confessarsi o comunicarsi senza perdere le indulgenze se qualcuno poi vuol fare più di una volta la Via Crucis in una chiesa, per guadagnare ogni volta l’indulgenza non è necessario che esca dalla chiesa.

Crocifìssi e Via Crucis. Chi è impedito di recarsi in chiesa (malati, carcerati, viaggiatori, operai) può acquistare le indulgenze; 1) tenendo in mano, o almeno indosso, un crocifisso composto di una croce di qualunque materiale (tranne piombo, stagno, vetro) col Cristo appeso alla croce e benedetto da chi ne ha il potere. 2) Recitando 14 Pater, Ave, Gloria e pensando alle rispettive Stazioni o alla Passione in generale; altri 5 alle 5 piaghe di N. Signore; 1 secondo le intenzioni del Santo Pontefice (20 totali). Per i malati gravi è sufficiente baciare o guardare il suddetto crocifisso con amore e contrizione, e recitare una breve preghiera o giaculatoria in onore della Passione. – Per offrire la Via Crucis per le anime del Purgatorio, invece del GloriaPatri, si reciti il Requiem.].

#     #     #

In ginocchio davanti all’altar maggiore, baciando la terra quando si è soli, oppure profondamente inchinato, adorando la S. Croce, e con l’intenzione di guadagnare le indulgenze per sé o per le anime del Purgatorio, dirai:

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum

Orèmus

Clementissimo mio Gesù, infinitamente buono e misericordioso, eccomi prostrato ai tuoi piedi, pieno di dolore e tutto compunto, perché ti ho offeso, perché ho offeso te, mio grande bene. Gesù mio amabilissimo, provoca il mio cuore, e nel riflettere alle tue pene fammi partecipare in lacrime al tuo dolore. Ti offro questo santo viaggio in onore di quello dolorosissimo che tu facesti per me, indegno peccatore, mentre ora sono risoluto a cambiar vita. – Ti offro questo santo viaggio per ricevere le indulgenze concesse a chi pratica questo pio esercizio, e ti supplico umilmente di far sì che mi sia utile per ottenere la tua misericordia nella vita e la gloria eterna.

Amen.

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate Che le piaghe del Signore Siano impresse nel mio cuore!

Con te vorrei, Signore,

oggi portar la Croce;

nel tuo dolor atroce

io ti vorrei seguire. –

-Ma sono infermo e stanco

donami il tuo coraggio,

perché nel gran viaggio

non m’abbia a smarrire.

#    #    #

Tu col divin tuo sangue

vieni segnando i passi,

ed io laverò quei sassi

con molto lacrimare –

– Né temerò smarrirmi

nel monte del dolore,

quando il tuo santo amore

m’insegna a camminare.

PRIMA STAZIONE

– Gesù è condannato a morte –

“Stabat Mater dolorósa Juxta Crucem lacrimósa, Dum pendébat Filius.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

In questa prima Stazione si rappresentano la casa e il Pretorio di Pilato, dove il nostro buon Gesù ricevette l’ingiusta sentenza di morte. Considera l’ammirabile sottomissione dell’innocente Gesù nel ricevere una così ingiusta sentenza, e sappi che i tuoi peccati furono i falsi testimoni che la sottoscrissero; e le tue bestemmie, le tue mormorazioni, i tuoi discorsi scorretti indussero il giudice a proferirla. Se così è, rivolgiti verso l’amoroso tuo Dio, e più con le lacrime del Cuore che con l’espressione della lingua, digli:

« Caro Gesù mio, che amore senza fondo è mai il tuo! Per una creatura indegna hai sofferto prigione, catene, flagelli, fino ad essere condannato a morte! Tanto basta per ferirmi il cuore, e piango amaramente i miei peccati che ne sono la causa. E per questa strada dolorosa me ne andrò piangendo, sospirando, e ripetendo: Gesù mio misericordia, Gesù mio misericordia!».

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate Che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Se il mio Signor diletto

a morte hai condannato,

spiegami almen, Pilato

qual fu il suo fallire. –

– Che poi se l’innocenza

error da te s’appella,

per colpa così bella

potessi anch’io morire!

SECONDA STAZIONE

– Gesù è caricato della Croce –

“Cùjus ànimam geméntem, Contristàtam et doléntem, Pertransivit gladius.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Questa seconda Stazione rappresenta il luogo dove l’amatissimo Gesù fu caricato del pesante legno della Croce. Considera come Gesù si abbraccia alla santa Croce. E con quale mansuetudine soffre le percosse e gl’insulti di gente scellerata. Mentre tu, impaziente, cerchi di scappare dal più piccolo dolore, e fuggi dal portare la croce della vera penitenza. Non sai che senza la Croce in Cielo non si entra? Piangi pure la tua cecità, e rivolto al tuo Signore digli così:

« A me, e non a te caro Gesù mio, spetta questa Croce Pesantissima, Croce che fu fabbricata da tanti miei peccati. Caro Salvatore, dammi la forza di abbracciare tutte le croci che meritano le mie gravissime colpe. Anzi, fa’ che io muoia abbracciato, alla santa Croce, innamorato della Croce, e ripeta più e più volte, insieme alla tua diletta Teresa: «O patir, o morire, o patire o morire!».

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate Che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Chi porta il suo supplizio

Ma se Gesù si vede

so che ne appar ben degno:

di croce caricato, –

– so che la pena è segno

paga l’altrui peccato

del già commesso errore,

per l’immenso suo amore.

TERZA STAZIONE

– Gesù cade la prima volta –

“O quam tristis et afflicta, Fuit illa benedicta, Mater Unigèniti!”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

In questa terza Stazione si rappresenta la prima caduta di Gesù sotto la Croce. Considera come l’afflittissimo Gesù, indebolito per il continuo spargimento di sangue, cade per la prima volta a terra. Guarda come le guardie lo percuotono con pugni, con calci, e con schiaffi. Eppure il paziente Gesù non apre bocca, soffre e tace; mentre tu, appena ti capita una piccola contrarietà, subito maledici e ti lamenti, forse bestemmi. Detesta una volta per sempre la tua impazienza e superbia, e prega il tuo afflitto Signore così:

« Amato Redentore mio, ecco ai tuoi piedi il più perduto peccatore che vive sulla terra: quante cadute! Quante volte sono precipitato in un abisso d’iniquità! Porgimi la tua santa mano affinché mi rialzi. Aiuto, Gesù mio, aiuto! Perché in vita non cada mai più, ed in morte mi assicuri l’affare della mia eterna salute. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate, che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Chi porta in pugno il mondo

a terra è già caduto,

e non gli si porge aiuto:

oh, ciel, che crudeltà! –

– Se cade l’uomo ingrato

subito Gesù conforta,

e per Gesù è morta

al mondo ogni pietà.

QUARTA STAZIONE

– Gesù incontra sua Madre –

“Quæ mærèbat et dolébat, Pia Mater dum vidébat, Nati pœnas inclyti.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

In questa quarta Stazione si rappresenta il luogo dove Gesù s’incontrò con la sua Madre afflitta. Che dolore trapassò il cuore a Gesù! Che spada ferì il cuore a Maria, quando s’incontrarono! Che ti ha fatto il mio Gesù? (dice Maria dolente), che male ti ha fatto la mia povera Madre? (dice l’appassionato Gesù). Lascia il peccato che è la causa delle nostre pene. E tu cosa rispondi?

« O Figlio divino di Maria, o santa Madre del mio Gesù: eccomi ai vostri piedi umiliato e contrito! Confesso che sono io quel traditore che ha fabbricato col peccato, il coltello di dolore che ha trapassato i vostri tenerissimi cuori. Me ne pento con tutto il cuore, e vi chiedo misericordia e perdono. Misericordia, Gesù mio, misericordia; Maria santissima, misericordia! Fate che mediante una così grande misericordia io non pecchi più, e mediti notte e giorno le vostre pene, i vostri dolori. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate, Che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Sento l’amaro pianto

Della dolente Madre

Che gira tra le squadre

In cerca del suo Bene –

– Sento l’amato Figlio

che dice: Madre addio

più forte del dolor mio

il tuo mi passa il cuore.

QUINTA STAZIONE

– Gesù è aiutato dal Cireneo –

“Qui est homo, qui non fleret, Matrem Christi si vidéret, in tanto supplicio?”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

In questa quinta Stazione si rappresenta il luogo ove Simone Cireneo fu obbligato a prendere la croce di Gesù. Considera che tu sei il Cireneo che porti la Croce di Cristo, o per apparenza o per forza, perché sei troppo attaccato alle comodità di questo mondo. Risvegliati per una volta e solleva il tuo Signore dal grande peso, caricandoti di buon cuore di tutti i travagli che ti vengono addosso. Metti l’intenzione di vederli soffrire non solo con pazienza, ma con rendimento di grazie al tuo Dio, che pregherai così:

« O Gesù mio, ti ringrazio delle tante e buone occasioni che mi dai di patire per te e di meritare per me. Fa’, o mio Dio, che soffrendo con pazienza ciò che ha apparenza di male, faccia acquisto di beni eterni. Se non altro, ricevi l’offerta del mio pianto qui con te, per essere fatto poi degno di venire a regnare ancora insieme a te. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate, che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Se delle tue crude pene

son io, Signore, il reo,

non deve il Cireneo

la Croce tua portare. –

– S’io sol potei per tutti,

di Croce caricarti,

potrò nell’aiutarti

per uno sol bastare.

SESTA STAZIONE

– Gesù è asciugato dalla Veronica –

“Quis non posset contristàri, Christi Matrem contemplari, Doléntem cum Filio?”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

In questa sesta Stazione si rappresenta il luogo dove la santa Veronica asciugò con un panno il volto benedetto di Gesù. Considera in quel sudario l’estenuato sudore del tuo Gesù, e spinto dall’amore cerca di fartene un espressivo ritratto nel tuo cuore. Felice te, se vivrai con il volto del tuo Signore scolpito nel cuore! Più che fortunato, se con il Signore impresso nel cuore morirai! E per essere meritevole di un tanto bene, prega così:

«Tormentato mio Salvatore, imprimi, te ne supplico l’effige del tuo santo volto nel mio cuore, così che giorno e notte pensi sempre a te. Con la tua dolorosa passione sotto gli occhi, voglio piangere i miei peccati e con questo pane di dolore voglio nutrirmi fino alla fine, detestando sempre la mia vita cattiva. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate, che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Così vago è nel tormento

Il volto del mio Bene

Che quasi a me diviene

amabile il dolore. –

– In Cielo che sarai

se in quel velo impresso,

da tante pene oppresso

spiri così dolce amore?

SETTIMA STAZIONE

– Gesù cade la seconda volta –

“Pro peccàtis suæ gentis vidit Jesum in torméntis, et flagéllis sùbditum.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Questa settima Stazione rappresenta quella porta di Gerusalemme detta « Giudiziaria » dove Gesù cadde a terra per la seconda volta. Considera il tuo Signore disteso per terra, abbattuto da dolori, calpestato dai nemici, deriso dal popolo. Pensa che la tua superbia gli ha dato la spinta per cadere, il tuo orgoglio l’ha così buttato a terra. Abbassa una volta la testa, e con dolorosa contrizione del tuo passato, proponi per il futuro di umiliarti ai piedi di tutti. Di’ al tuo Signore:

« O santissimo mio Redentore, nonostante che ti veda caduto per terra, ti confesso in questo momento come Onnipotente. Ti prego di abbassare i miei pensieri pieni di superbia, di ambizione e di stima di me stesso. Fammi camminare sempre con la testa bassa, e abbracciare con umiltà vera l’abbiezione e il disprezzo. Con umiltà vera che a te piace, potrei riuscire a sollevarti da questa dolorosa caduta. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate, che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Sotto i pesanti colpi

della cattiva scorta,

un nuovo inciampo porta

a terra il mio Signore. –

– Più teneri dei cuori

siate voi duri sassi,

né più intralciate i passi

al vostro Creatore.

OTTAVA STAZIONE

– Gesù consola le donne di Gerusalemme –

“Vidit suum dulcem Natum Moriéndo desolàtum, Dum emisit spiritum.” 

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Questa ottava Stazione rappresenta il luogo ove Gesù incontrò e consolò le donne di Gerusalemme, afflitte e addolorate. Considera che tu hai un doppio motivo di piangere: per Gesù che patisce tanto per te, e per te stesso che non sei capace di godere se non l’offendi. Alla vista di tante pene, ancora fai il duro e non vuoi spargere lacrime di compassione. Almeno nel vedere Gesù, manifesta una così grande pietà a quelle povere donne, fatti coraggio, e tutto addolorato e compunto digli:

« Amabilissimo mio Salvatore, perché questo mio cuore non si scioglie tutto in lacrime di vero pentimento? Caro Gesù mio, ti chiedo lacrime, lacrime di dolore, lacrime di compassione. Con le lacrime agli occhi, e con il dolore nel cuore, vorrei meritare quella pietà che hai dimostrato alle povere donne. Concedimi quest’ultima consolazione: che guardato te con occhi pietosi in vita, possa sicuramente vedere te nell’ora della mia morte.

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate, che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Figlio, non più su queste

Piaghe che porto impresse,

ma sui figli e su voi stesse

v’invito a lacrimare. –

– Tenete il vostro pianto,

o sconsolate donne,

per quando l’empia Sion

vedrete rovinare.

NONA STAZIONE

– Gesù cade la terza volta –

“Eja, Mater, fons amóris, Me sentire vim dolóris, Fac ut tecum lùgeam.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Questa nona Stazione rappresenta il luogo, ai piedi del monte Calvario, dove il buon Gesù cadde la terza volta. – Quanto fu penosa questa caduta del buon Gesù! Guarda con che rabbia quell’Agnello mansueto viene trascinato da lupi rabbiosi; guarda come lo percuotono, lo calpestano, fino a farlo macerare tutto nel fango! Maledetto peccato, che maltratta il Figlio di un Dio! Merita le tue lacrime un Dio oppresso, un Dio calpestato. Spezza il tuo cuore, e piangendo digli così:

« Onnipotente mio Dio, che con un sol dito sostieni il cielo e la terra, chi mai ti ha fatto così brutalmente cadere? Sono state le mie prolungate, ripetute iniquità. Io ti ho accresciuto tormenti a tormenti, con accumulare peccati a peccati. Ma eccomi compunto ai tuoi piedi, risoluto a farla finita. E con le lacrime e sospiri ripeto cento e mille volte: «Mai più peccare, mio Dio, mai più, mai più ».

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate, che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

L’ispido Monte guarda

il Redentor piangente,

e sa che inutilmente

per molti deve salire. –

– Quest’orribile pensiero

così forte il cuor gli tocca

che languido trabocca,

e si sente di morire.

DECIMA STAZIONE

– Gesù è spogliato delle vesti –

“Fac, ut àrdeat cor meum, in amando Christum Deum, ut sibi complàceam.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Questa decima Stazione rappresenta il luogo dove Gesù fu denudato e gli diedero da bere del fiele. Considera, anima mia, il tuo Gesù tutto lacero e ferito, mentre gli danno da bere del disgustoso e amaro fiele. Ecco come paga Gesù con la sua nudità, la tua immodestia e la tua vanità esteriore; con la sua amarezza la tua voglia di godere. Non ti muovi a pietà? Gettati ai piedi del tuo Gesù denudato, e digli così:

« Afflitto mio Gesù, che orribile contrapposto è questo? Tu sei tutto sangue, tutto piaghe, tutto amarezze; ed io tutto diletti, tutto vanità, tutto dolcezze! No, che non sto camminando bene, no! Ti prego, fammi cambiar strada, fammi cambiar vita, in modo che d’ora in poi non possa gustare altro che la santissima tua Passione, ed arrivare a godere con te le delizie del santo Paradiso. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate, che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Mai l’arca del Signore

Del velo si vide senza,

ed ora nuda la Potenza

si vede e senza velo? –

– Se dell’Uomo le membra

or ricoprire non sanno,

dimmi, mio Dio che fanno

tutti gli Angeli nel Cielo?

UNDICESIMA STAZIONE

– Gesù è inchiodato sulla Croce –

“Sancta Mater, istud agas, Crucifixi fige plagas, cordi meo vàlide.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Questa undicesima Stazione rappresenta il luogo dove Gesù fu disteso ed inchiodato sulla Croce, alla presenza di sua Madre. Considera il sovrumano dolore che soffrì il buon Gesù nel sentirsi trapassare e rompere dai chiodi le vene, le ossa, i nervi e la carne tutta. Come mai non ti senti struggere di tenerezza alla vista di tante pene, che sono il riflesso delle tue ingratitudini? Almeno sfoga il dolore col pianto, così:

« Clementissimo Gesù mio Crocifisso per me, batti e ribatti questo mio duro cuore col tuo santo amore e timore. – Poiché i miei peccati furono i chiodi che crudelmente ti trafissero, fa’ sì che il mio dolore sia come un carnefice che trafigge e inchioda le mie passioni non regolate. Così, per mia buona sorte, vivendo e morendo crocifisso con te in terra, potrò venire a regnare glorioso con te. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Vedo sul duro tronco

disteso il mio diletto,

e il primo colpo aspetto

dell’empia crudeltà. –

– Quelle divine mani

che per il bene son fatte

ora il martello le batte

senz’ombra di pietà.

DODICESIMA STAZIONE

– Gesù muore in Croce –

“Tui Nati vulnerati, Tam dignàti prò me pati, Pœnas mecum divide.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Questa dodicesima Stazione rappresenta il luogo più adorabile del mondo intero, dove fu piantata la croce, con sopra Gesù crocifisso. – Alza gli occhi, e guarda l’amatissimo Gesù che pende da tre chiodi, guarda il suo Volto divino moribondo, osserva come prega per chi l’offende, dona il Paradiso a chi lo chiede, affida la Madre a Giovanni, raccomanda al Padre la sua anima, e poi muore chinando la testa. Dunque, è morto il Figlio di Dio. È morto in Croce per me? E tu che fai? Vedi di non partire di qua se non pentito e compunto; e abbracciato alla Croce di Gesù digli così:

« Mio amato Redentore, io lo so, e lo confesso, che i miei peccati sono stati i carnefici più spietati, e che ti hanno tolta la vita. Non merito il perdono, perché sono io quel traditore che ti ha crocifisso. Ma l’anima mia si consola nell’ascoltarti pregare per i tuoi carnefici. Eccomi se così è, eccomi pronto a perdonare chiunque mi offenda; sì, mio Dio, per amore tuo perdono tutti, abbraccio tutti, desidero il bene di tutti. Anch’io spero sentirmi dire da te: “Oggi sarai con me in Paradiso!”. Amen. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Veder l’orrenda morte

Del suo Signor non vuole,

così si copre il sole

e mostra il suo dolore. –

– Trema commosso il mondo,

il sacro velo si spezza

piangono con tenerezza

i duri sassi ancora.

TREDICESIMA STAZIONE

– Gesù deposto dalla Croce –

“Fac me tecum pie flere, Crucifixo condolére, donec ego vixero.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Questa tredicesima Stazione rappresenta il luogo dove Gesù fu deposto dalla Croce in grembo a sua Madre. Considera quale spada di dolore trapassò il cuore della sconsolata Signora quando ricevette fra le braccia suo Figlio morto. Alla vista di tante ferite si rinnovarono in lei tutti gli spasimi del suo tenero cuore. Ma la spada più acuta che la trafisse è stato il peccato; il peccato ha tolto la vita al suo caro Figlio. Piangi dunque il maledetto peccato, e mescolando le lacrime con quelle di una Madre addolorata, dille:

« O Regina dei martiri, fammi capace di capire e compatire insieme le tue pene, ed averle sempre presenti nel mio cuore. Fa’, o gran Signora, che giorno e notte pianga tante mie enormi colpe che ti procurarono tanta sofferenza. Piangendo, amando e sperando, voglio morire con te, per vivere eternamente con te.

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Tolto di Croce il Figlio

le materne braccia stende

l’afflitta Madre e prende

nel grembo il morto bene. –

– Versa con gli occhi il cuore

in lacrime disciolto,

bacia quel freddo volto

e se lo stringe al seno.

QUATTORDICESIMA STAZIONE

– Gesù è posto nel Sepolcro –

“Quando corpus moriétur, Fac, ut ànimæ donétur, Paradisi glòria. Amen.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

In questa ultima Stazione si rappresenta il Sepolcro, dove fu posto il corpo morto del santo Redentore. – Considera quali furono i pianti di Giovanni, della Maddalena, delle Marie e di tutti i seguaci di Cristo quando lo chiusero in quel Sepolcro. Considera la desolazione del cuore addolorato di Maria nel vedersi privata del suo amato Figlio. Alla vista di tante lacrime dovresti finalmente trovare la spinta per vergognarti di aver manifestato così poco sentimento di pietà, durante questo santo viaggio. Muoviti e bacia la pietra che ricopre la tomba, fa’ uno sforzo grande per lasciar là il tuo cuore, e prega il tuo defunto Signore: « Pietosissimo Gesù mio, che per solo mio amore hai voluto compiere un viaggio tanto doloroso, ti adoro defunto e rinchiuso nel santo Sepolcro. Ma ti vorrei anche rinchiuso nel mio povero cuore, unito a te, per risorgere ad una nuova vita. Con viva fede, con ferma speranza, con amore ardente, potrò morire con te, morire per te,  per  vivere con te per tutti i secoli dei secoli. Amen. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Tomba che chiudi dentro

Il mio Signor già morto,

finché non sarà risorto

non partirò da te. –

– Alla spietata morte

allora dirò con gioia:

dov’e la tua vittoria

il tuo potere dov’è?

V. Salva nos Christe Salvator.

R. Qui salvasti Petrum in Mari, mìserére nobis.

Oremus

Deus, qui nos inclita Passione Filii tui per viam Crucis ad œtérnam Gloria pervenire docuisti: concede propitius; ut, quem piis ad Calvàriœ locum sociàmus afféctibus, in suis étiam triùmphis perpetim subsequàmur. Qui tecum vivit et regnat in sæcula sæculórum. Amen.

V. Divinum auxilium maneat sempre vobiscum.

R. Amen.

BEFFE DEI CATTIVI

BEFFE DEI CATTIVI

[E.Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide, vol. I, S.E.I.- TORINO, 1930]

1. In tutti i tempi i cattivi si sono burlati dei buoni. — 2. Per i cattivi non vi è nulla di sacro. — 3. Perché i cattivi deridono i buoni? — 4. Le beffe degli empi ricadono su loro. — 5. I buoni devono andar gloriosi delle beffe dei tristi. — 6. Verrà il tempo del trionfo per i giusti. 

1. In tutti i tempi i cattivi si sono burlati dei buoni. — Durante i cento anni che Noè impiegò a costruire l’arca, egli non cessò mai di avvertire gli uomini che facessero penitenza, perché sarebbe avvenuto un diluvio universale; ma gli uomini corrotti si ridevano di lui e gli davano la baia… Lot avvisò i Sodomiti che un diluvio di fuoco stava per seppellirli, e ne fu beffato. I Profeti parlano e comandano, esortano e minacciano nel nome del Signore; ma gli empi volgono in derisione le loro parole… Arrivato Gesù alla casa dell’Arcisinagogo, quando udì i suonatori di flauto e la folla che menava chiasso, disse: « Via di qua, perché la fanciulla non è morta, ma dorme ». A quest’annunzio si levò un universale bisbiglio sarcastico e beffardo (Matth. IX, 24). « Noi siamo, dice il Profeta, l’obbrobrio ai nostri vicini, favola e derisione in bocca alle genti che ci circondano » (Psalm. LXXVIII, 4) e volto a Dio diceva: «Voi ci avete resi oggetto d’insulto ai nostri vicini e di scherno ai nostri avversari » (Psalm. LXXIX, 7). E Gesù Cristo diceva di se medesimo per bocca del Profeta: « Io fui il loro ludibrio » (Psalm. LXXIII, 12). E come furono dai malvagi trattati gli Apostoli? « Noi siamo disprezzati come gente dappoco, scriveva il grande Apostolo; fino al presente soffriamo fame, sete, e nudità; schiaffeggiati, sfrattati, maledetti, perseguitati, ingiuriati; siamo considerati come la spazzatura del mondo ed il rifiuto della società » (I Cor. IV, 10-13). Da Gesù Cristo insultato sul Golgota, fino al presente, i cattivi hanno sempre disprezzati i buoni…

2. Per i cattivi non vi è nulla di sacro. — Quel sant’uomo di Giobbe in mezzo ai patimenti, coperto di piaghe, perfino sul letamaio è canzonato dai malvagi, ed anche dai suoi pretesi amici… Tobia diventa cieco, ed ecco i parenti, gli intimi suoi deridere la sua condotta e dirgli: « Dov’è la tua speranza, per cui facevi tante limosine e sepolture? » (Tob. II, 16). La sua donna anch’essa rinfacciargli che apertamente vane erano le sue speranze e vedersi alla prova dei fatti che cosa giovassero le sue limosine (Ibid. II, 22). – Non hanno forse i cattivi messo in ridicolo Gesù Cristo, tutta la sua vita? si burlarono de’ suoi miracoli, de’ suoi benefizi, della sua divina dottrina, della sua sublime morale. Ma al tempo della sua passione gl’insulti e le oltraggiose beffe toccarono il colmo. L’oltraggia Giuda vendendolo per il prezzo d’uno schiavo, trenta denari, e baciandolo. L’oltraggiano gli Apostoli abbandonandolo; l’oltraggiò Pietro, disconoscendolo e rinnegandolo. E gli schiaffi, e gli sputi, e la corona di spine, e lo scettro di canna, e lo straccio di porpora, e l’Ecce homo, e i pontefici, e i giudici, e i re, e i soldati, e la plebaglia, tutto concorre a gettare sopra di lui lo scherno e il ridicolo sino all’ultimo suo respiro… Gli empi si burlano della parola di Dio, della religione, della pietà, della Chiesa, dei Sacramenti, della legge di Dio, delle domeniche e delle feste, delle sacre cerimonie, del culto delle cose sante, di Dio, de’ Santi, del dogma, della morale, della vita, della morte, del giudizio, del Paradiso, dell’inferno, del tempo, dell’eternità; addentano, sbranano, calunniano, bestemmiano tutto ciò che ignorano.

3. Perché i cattivi deridono i buoni? — « Parlano con arroganza, e beffardamente di tutto, dice il Salmista, perché sono operai di iniquità » (Psalm. XCIII, 4). Agli Apostoli, ch’erano dai loro connazionali derisi, Gesù annunziava che se avessero appartenuto al mondo, il mondo li avrebbe amati come cosa sua; ma non essendo essi del mondo, perché Egli li aveva scelti dal mondo, perciò il mondo li odiava e li insultava. “Il servo non è da più del padrone. Ora se il mondo ha perseguitato me, perseguiterà anche voi, ma tutto ciò egli farà per il mio nome, perché non conosce Colui che mi ha mandato” (Ioann. XV, 15-21). – «La semplicità del giusto è schernita», dice Giobbe (Iob. XII, 4). Così grande è la perversità degli empi, che non hanno pace fino a tanto che non abbiano reso gli altri malvagi e perversi come loro: per ciò canzonano i buoni chiamandoli falsi devoti, baciapile, colli torti, ipocriti, ecc. Questo linguaggio poi e questa condotta è provocata dalla diversità dei costumi e della vita. Veggono essi, i cattivi, che il loro vivere dissipato, le loro sregolatezze, sono rimproverate e condannate dalla vita virtuosa, assegnata ad esemplare dei buoni: quindi se ne ridono, li beffano, li insultano, li oltraggiano, guardandoli quali censori dei loro disordini, quali sferze che li flagellano. E questo notava già S. Prospero il quale scriveva che tutti quelli i quali vogliono vivere piamente in Gesù Cristo, hanno da aspettarsi insulti e scherni, dalla parte degli empi; saranno chiamati pazzi che gettano via i beni presenti, aspirando e desiderando solo i beni futuri. Dio permette questo per accrescere la corona de’ buoni. Tali disprezzi e scherni ricadranno in capo ai malviventi quando la loro abbondanza si cangerà in penuria, e il loro orgoglio in confusione (In Sent. el Epigr. e. XXXII). « Nella bocca dell’insensato sta la verga dell’arroganza », leggiamo nei Proverbi (Prov, XIV, 3). L’orgoglio rende altezzoso ed insolente. Gli orgogliosi s’innalzano sopra gli altri, li deridono, li scherniscono, li oltraggiano… Il malvagio carico di peccati si diporta come se avesse autorità sui buoni: pretende che gli sia lecito malmenare e calpestare tutti… « Gli empi, dicono i Proverbi, detestano chi rettamente vive (Prov. XXI, 27).

4. Le beffe degli empi ricadono su loro. — Le insolenti ed ingiuste beffe dei malvagi si volgono contro di loro per umiliarli e condannarli; poiché mettono in luce l’ignoranza, l’odio, la malvagità, la corruzione del loro cuore… « Rovina se stesso chi strazia il buono » (Prov. XX, 25) : e « pronto è il giudizio per il derisore, e il martello che lo deve percuotere», dicono i Proverbi (Prov. XIX, 29). « Una beffa, una maledizione pazientemente sofferta, ricade sul suo autore, dice S. Agostino, e rimane illeso quegli contro di cui fu lanciata »; e S. Ambrogio soggiunge che è convinto e punito di follia chi scaglia contumelie. Dio delle vendette, Signore Iddio delle vendette, manifestatevi, grida il Salmista. Alzatevi, o giudice della terra, date la mercede che si meritano, ai derisori superbi. E fino a quando, o Signore, e fino a quando gli empi si vanteranno? fino a quando vomiteranno insulti? fino a quando parleranno alteramente, e imbaldanziranno tutti questi artefici d’iniquità? Essi calpestano il vostro popolo, o Signore, desolano la vostra eredità. Strozzano la vedova e l’orfano, uccidono lo straniero, dicendo: « Non ci vedrà il Signore». O uomini stupidi, e quando mai intenderete? Quegli che formò il vostro orecchio non vi udirà, o chi formò il vostro occhio non vi vedrà? Colui che punisce le nazioni non vi castigherà? Colui che insegna agli uomini la scienza non comprenderà? (Psalm. XCIII, 1-10),

5. I buoni devono andar gloriosi delle beffe dei tristi. « Le ingiurie e gli scherni sono la porzione di coloro a cui sta riservata la gloria », dice S. Ambrogio. Dividere gli oltraggi, le beffe, le burle con Noè, coi Patriarchi e coi Profeti, con Gesù Cristo e con i suoi Apostoli, coi Martiri, coi Confessori, con le Vergini, coi Santi di tutti i secoli, con la Chiesa, è il più grande onore, la più sublime gloria, la più bella ricompensa che possa toccare ad un uomo… Sì, è cosa onorevole e gloriosa venir burlato, deriso, criticato, morso dai malvagi, dagli uomini corrotti, spudorati, scandalosi, empi; perché questo prova che non li imitiamo, e il non imitarli ridonda a nostro sommo onore. Disgraziato colui che è lodato da una bocca macchiata!…

6. Verrà il tempo del trionfo per i giusti. — I cattivi si ridono de’ buoni perché non ne scorgono l’interiore bellezza, ma la vedranno il dì del giudizio: allora conosceranno chi sono i giusti, i quali compariranno ai loro occhi, non più oscuri, vili, spregevoli, ma risplendenti di gloria e di maestà, perché simili a Dio ed a Gesù Cristo… ma se ne accorgeranno troppo tardi… Al presente i malvagi vedono e disprezzano i buoni, ma in quel giorno il Signore schernirà loro, come dice la Sapienza (Sap. IV, 18) « Allora i giusti si leveranno con coraggio contro quelli che li insultarono, derisero, tormentarono, e tolsero il frutto dei loro lavori. A questa vista gli empi impallidiranno e tremeranno per lo spavento. E tocchi da cordoglio, diranno con affannosi sospiri: Questi sono coloro i quali noi una volta riguardavamo come oggetto di derisione e ponevamo esempio di obbrobrio. Noi stolti, la loro vita stimavamo insensatezza, ed il loro fine disonorato : ed ecco che essi hanno posto tra i figliuoli di Dio, e parte coi santi. Dunque noi smarrimmo la via di verità, e non rifulse per noi la luce della giustizia, e non si levò il sole dell’intelligenza. Ci stancammo nella via d’iniquità e di perdizione, battemmo strade disastrose e non conoscemmo la via del Signore. Che giovò a noi la superbia? e la ostentazione delle ricchezze qual pro a noi fece? Tutte quelle cose si dileguarono come ombra, e come passeggero che va in fretta. Come una nave valica le onde agitate senza lasciare traccia del suo passaggio, né solco aperto dalla sua carena nei flutti… Così noi, nati che fummo, tosto cessammo d’essere, e niun segno di virtù potemmo mostrare, e nella nostra malvagità ci consumammo (Sap. V, 1-14). Qui i cattivi si dichiarano da se medesimi colpevoli di un triplice errore: 1° l’essersi sviati dal sentiero del vero…; 2° di non aver veduto la luce della giustizia, della prudenza, della carità, perché l’hanno disprezzata, volendo rimanere nelle tenebre della concupiscenza e delle passioni…; 3° di non avere aperto l’occhio al sole che è Gesù Cristo, vera luce la quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo; perché gli hanno tenuto chiuso il loro cuore… Insensati derisori, voi pensavate che la vita de’ giusti non fosse che un giuoco (Sap. XV, 12). Guardate ed osservate ora dove si trovano essi, e dove vi trovate voi!…

MESSA DELL’ASSUNZIONE (2018)

MESSA DELL’ASSUNTA 2018

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ap XII:1
Signum magnum appáruit in cœlo: múlier amicta sole, et luna sub pédibus ejus, et in cápite ejus coróna stellárum duódecim [Un gran segno apparve nel cielo: una Donna rivestita di sole, con la luna sotto i piedi, ed in capo una corona di dodici stelle].
Ps XCVII:1
Cantáte Dómino cánticum novum: quóniam mirabília fecit. Cantate al Signore un càntico nuovo: perché ha fatto meraviglie.
Signum magnum appáruit in coelo: múlier amicta sole, et luna sub pédibus ejus, et in cápite ejus coróna stellárum duódecim [Un gran segno apparve nel cielo: una donna rivestita di sole, con la luna sotto i piedi, ed in capo una corona di dodici stelle].

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui Immaculátam Vírginem Maríam, Fílii tui genitrícem, córpore et ánima ad coeléstem glóriam assumpsísti: concéde, quǽsumus; ut, ad superna semper inténti, ipsíus glóriæ mereámur esse consórtes.
Onnipotente sempiterno Iddio, che hai assunto in corpo ed ànima alla gloria celeste l’Immacolata Vergine Maria, Madre del tuo Figlio: concédici, Te ne preghiamo, che sempre intenti alle cose soprannaturali, possiamo divenire partecipi della sua gloria.

Lectio
Léctio libri Judith.
Judith XIII, 22-25; XV:10
Benedíxit te Dóminus in virtúte sua, quia per te ad níhilum redégit inimícos nostros. Benedícta es tu, fília, a Dómino Deo excelso, præ ómnibus muliéribus super terram. Benedíctus Dóminus, qui creávit coelum et terram, qui te direxit in vúlnera cápitis príncipis inimicórum nostrórum; quia hódie nomen tuum ita magnificávit, ut non recédat laus tua de ore hóminum, qui mémores fúerint virtútis Dómini in ætérnum, pro quibus non pepercísti ánimæ tuæ propter angústias et tribulatiónem géneris tui, sed subvenísti ruínæ ante conspéctum Dei nostri. Tu glória Jerúsalem, tu lætítia Israël, tu honorificéntia pópuli nostri.
[Il Signore ti ha benedetta nella sua potenza, perché per mezzo tuo annientò i nostri nemici. Tu, o figlia, sei benedetta dall’Altissimo più che tutte le donne della terra. Sia benedetto Iddio, creatore del cielo e della terra, che ha guidato la tua mano per troncare il capo al nostro maggior nemico. Oggi ha reso cosí glorioso il tuo nome, che la tua lode non si partirà mai dalla bocca degli uomini che in ogni tempo ricordino la potenza del Signore; a pro di loro, infatti, tu non ti sei risparmiata, vedendo le angustie e le tribolazioni del tuo popolo, che hai salvato dalla rovina procedendo rettamente alla presenza del nostro Dio. Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu la gloria di Israele, tu l’onore del nostro popolo!]

Graduale
Ps XLIV:11-12; XLIV:14
Audi, fília, et vide, et inclína aurem tuam, et concupíscit rex decórem tuum. [Ascolta, o figlia; guarda e inclina il tuo orecchio, e s’appassionerà il re della tua bellezza.]

ALLELUJA

Omnis glória ejus fíliæ Regis ab intus, in fímbriis áureis circumamícta varietátibus. Allelúja, allelúja. [V. Tutta bella entra la figlia del Re; tessute d’oro sono le sue vesti. Allelúia, allelúia].
V. Assumpta est María in cœlum: gaudet exércitus Angelórum. Allelúja. [Maria è assunta in cielo: ne giúbila l’esercito degli Angeli. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc 1: 41-50
“In illo témpore: Repléta est Spíritu Sancto Elisabeth et exclamávit voce magna, et dixit: Benedícta tu inter mulíeres, et benedíctus fructus ventris tui. Et unde hoc mihi ut véniat mater Dómini mei ad me? Ecce enim ut facta est vox salutatiónis tuæ in áuribus meis, exsultávit in gáudio infans in útero meo. Et beáta, quæ credidísti, quóniam perficiéntur ea, quæ dicta sunt tibi a Dómino. Et ait María: Magníficat ánima mea Dóminum; et exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo; quia respéxit humilitátem ancíllæ suæ, ecce enim ex hoc beátam me dicent omnes generatiónes. Quia fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus, et misericórdia ejus a progénie in progénies timéntibus eum.”

[In quel tempo: Elisabetta fu ripiena di Spirito Santo, e ad alta voce esclamò: Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno! Donde a me questo onore che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, infatti, che appena il tuo saluto è giunto alle mie orecchie, il bimbo ha trasalito nel mio seno. Beata te, che hai creduto che si compirebbero le cose che ti furono dette dal Signore! E Maria rispose: L’ànima mia magnifica il Signore, e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore, perché ha guardato all’umiltà della sua serva; ed ecco che da ora tutte le generazioni mi diranno beata. Perché grandi cose mi ha fatto colui che è potente, e santo è il suo nome, e la sua misericordia si estende di generazione in generazione su chi lo teme.]

OMELIA DELL’ASSUNTA

 La Festa dell’Assunzione

[J. Thiriet: Prontuario evangelico. Libr. Arciv. G. Daverio, MILANO, 1917 -impr.]

“Quæ est ista, quæ ascendit de deserto, delicùs affluens, innixa super dilectum suum?”  (Cantic. VIII, 5 ).

L’assunzione e l’esaltazione di Maria nel cielo hanno degnamente coronato la sua vita ammirabile: la festa dell’Assunzione è una delle più solenni che si celebrino in suo onore. Oggi la Chiesa ci invita a celebrarla con la più viva letizia: « Gaudeamus omnes in Domino… O gloriosa Domina, excelsa super sidera ».

Consideriamo le tre fasi di questo mistero:

1. la morte preziosa di Maria;

2. la sua risurrezione;

3. la sua assunzione e il suo trionfo in cielo.

— Il transito prezioso di Maria Ss.

1. — Gesù, morendo, aveva affidato i suoi discepoli alle materne sollecitudini della Madre sua: volle adunque che, dopo la sua ascesa al Cielo, rimanesse Maria ancor lungo tempo sulla terra per consolarli, per istruirli, e per dirigere i primi fedeli: occorreva che da parte sua completasse, a bene della Chiesa, quello che ancor mancava alle sofferenze di N. S. G. C.

2. — E Maria, nonostante ardentemente desiderasse di ricongiungersi al suo Figliuolo, sempre obbediente, chinò il capo ai voleri del suo Figliuolo. – Vuole la tradizione che Maria, dopo l’Ascensione di Cristo al Cielo rimanesse sulla terra per una ventina d’anni all’incirca ricevendo ogni dì la S. Comunione, glorificando il suo Dio con atti di purissimo amore, e di completa conformità ai suoi voleri, e aumentando ogni dì più il capitale de’ suoi meriti.

3. — Concepita senza peccato originale, doveva essere esentata dalla legge di morte. Il Signore invece aveva stabilito ch’Ella morisse, com’era morto il suo Figliuolo G. C. la santità per eccellenza… che gli somigliasse nella morte come gli era stata somigliante nella vita, e s’offrisse, come lui, in perfetto oloucasto. – Finalmente doveva esserci di modello in questa grande partenza per l’eternità e costituire per noi una sorgente di consolazione.

4. — Ma la morte non dovendo essere un castigo per Maria, ecco che sen venne a Lui non in quella maniera con cui s’affaccia al letto dei figli dell’uomo, cioè preceduta da angosce, da malattie, da spasimi e da crisi agoniche… La sua morte fu un estasi, un rapimento; Maria morì d’amore… L’amor di Maria era radicato m Dio Padre, il Quale aveva fecondato il suo seno, sicché Ella diede alla luce il Verbo divino fatto carne, che amò come suo proprio figliolo. L’amor di Maria era un amor di madre per il suo figliuolo, era l’amor d’una santa per il suo Dio. Vinta dall’amor di Dio, l’anima sua si separò dal corpo, senza scosse e senza dolore.

5. — Vuolsi che l’Arcangelo Gabriele l’abbia prevenuta della sua vicina morte. A quest’annunzio naturalmente avrà risposto col solito suo ritornello: Ecce ancilla Domini etc… Narra S. Giov. Damasceno, che gli Apostoli, avvertiti dell’imminente transito di Maria, siano convenuti nella cameretta ove stava adagiata su di umile letticiuolo. Tutti erano presenti, meno Giacomo il minore che aveva già subito il martirio, e Tommaso che arrivò troppo tardi. Maria vedendoli, li avrà benedetti con effusione di cuore, e avrà fatto loro delle raccomandazioni, quali sa fare una madre nell’atto di staccarsi da’ suoi figliuoli.

6. — S. Giovamii Damasceno soggiunge che N. S. venne dal cielo, seguito da parecchie legioni di Angeli, per accogliere l’anima della Madre sua.

7. — Quando dette l’ultimo respiro, gli Angeli, continua a dire S. Giov. Damasceno, riempirono l’aere di dolcissime armonie, come quando nacque Gesù-Cristo. Gli Apostoli, che rappresentavano tutta la Chiesa, si fecero venerabondi intorno alla salma di Maria; e disposero pel suo seppellimento, che pare, secondo una tradizione, abbia avuto luogo nella valle di Giosafat.

— Risurrezione della SS. Vergine.

1. — Trascorsi tre dì dal seppellimento, ecco arrivare Tommaso, il quale manifesta il suo vivo desiderio di vedere per l’ultima volta le sembianze della Madre sua. — Pietro e Giovanni lo fecero pago — e andarono insieme ad aprire la tomba. Ma, oh! prodigio: il sepolcro non racchiudeva più la salma di Maria …. in fondo ad esso c’era un lenzuolo e le vesti in cui era stato avviluppato il corpo di Maria: il corpo era scomparso…. Gli Apostoli proruppero in lodi, ringraziando il Salvatore che di tal modo aveva glorificato la Madre sua — (Leggansi nel Breviario Romano le lezioni IV. V. VI. del quarto giorno nell’ottava dell’Assunzione — 18 Agosto).

2. — Era giusto che Maria fosse esente dalla corruzione del sepolcro, preservata dalla colpa orignale, per singolare privilegio, preservata dalla colpa originale: giacché solo all’uom peccatore fu detto: morrai… ma inoltre: Tu ritornerai nella polvere… donde sei stato cavato. Ancora: era conveniente che non dovesse cadere preda della putredine e dei vermini quella carne che era immacolata, e della quale era stata formata quella del Verbo Incarnato… Iddio aveva disposto che l’arca di Mosè, che doveva racchiudere la mamma (figura di N. S. G. C.) fosse costrutta di legno incorruttibile: poteva adunque essere soggetta alla corruzione l’Arca vera e vivente, che aveva rinchiuso nel suo grembo il Santo dei Santi? ». Il Cielo, scrive S. Agostino, merita meglio della terra di conservare un tesoro sì prezioso…. – Gesù, infinitamente possente, ha potuto preservare il corpo di Maria SS. dalla corruzione, come aveva preservato l’anima sua dal peccato originale. Se l’ha potuto, dunque realmente l’ha fatto, perocché è sovranamente buono ». Spettava alla giustizia di Dio, nonché alla sua sapienza, alla sua bontà, ed al suo amore il compimento di questo miracolo in favore di Maria.

III. — Assunzione e trionfo di Maria.

1. — Dopo la sua risurrezione, Cristo rimase sulla terra quaranta giorni per istruire i suoi Apostoli e fortificare la loro fede. Ma per Maria, una volta risorta, non c’erano le stesse ragioni per differire la sua partenza da questa terra. In cielo era vivamente desiderata ed attesa: la potenza divina la elevò al cielo; Gesù la presentò al suo Eterno Genitore. Quale trionfo per Maria! Gli Angeli, il cielo tutto eruppero in quel cantico: « Quæ est ista, quæ ascendit de deserto, deliciis affluens, innixa super dilectum suum? … O gloriosa Domina, excelsa super sidera »•

2. — Ricordiamo gli onori che resero Assuero ad Ester, coronandola regina, e Salomone alla madre sua Bersabea, facendola assidere su di un trono accanto al suo…. ma queste non sono che pallide figure di quello che ha fatto Gesù verso la madre sua, e la SS. Trinità verso Maria: la realtà è di gran lunga superiore alla figura! Tota pulchra es, … tota pulchra es … le avrà detto Iddio. Veni coronaberis…. secondo i tuoi meriti, e l’amor mio… Poi dandole per vestimento il sole, la luna come sgabello ai suoi pie (siccome la vidde Giovanni nella visione di Patmos), la fece sedere su di un trono più elevato di tutti gli altri, ed ordinò che tutti chinassero il capo, e piegassero le ginocchia al pronunciarsi del nome di Maria. La costituì Regina del Cielo e della terra, degli Angeli e degli uomini.

3. — A questa dignità sovrana Iddio aggiunse un potere senza limiti … I poteri della terra sono circoscritti all’ordine materiale… spesse volte sono distruttori o oppressori…- o almeno effimeri…. che cosa è mai la più grande longevità della vita umana? Inoltre il potere di Maria è universale nella sua estensione, e tocca il mondo, vuoi nell’ordine spirituale, come in quello materiale; è un potere eminentemente benefico, non l’esercita che per fare del bene, e per distruggere il male… è un potere senza limiti, quanto alla sua durata, perché Maria autorevolmente comanderà finché Dio sarà Dio, finché avrà il diritto di dire al Verbo Incarnato, assiso alla destra del Padre suo: Filius meus es tu, ego… genui te. Maria che in terra si chiamò l’ancella del Signore, in cielo è stata costituita Regina, Avvocata e Protettrice!

Conclusione. — Esultiamo per il trionfo e per la gloria accordata alla Madre nostra! Raddoppiamo la nostra fiducia in Dio! Se Iddio l’ha fatta sì potente, l’ha costituita tale, perché c’aiutasse e ci soccorresse nei nostri bisogni spirituali e temporali. O Signora, o Madre nostra, otteneteci la grazia di vivere santamente, di imitare le vostre virtù, di morire piamente fra le vostre braccia, affinché possiamo salire là ove Voi siete, per lodare insieme a Voi la Ss. Trinità, che vi ha così esaltata e glorificata.

Offertorium
Orémus
Gen III:15
Inimicítias ponam inter te et mulíerem, et semen tuum et semen illíus.[Porrò inimicizia tra te e la Donna: fra il tuo seme e il Seme suo.]

Secreta
Ascéndat ad te, Dómine, nostræ devotiónis oblátio, et, beatíssima Vírgine María in coelum assumpta intercedénte, corda nostra, caritátis igne succénsa, ad te júgiter ádspirent.
[Salga fino a Te, o Signore, l’omaggio della nostra devozione, e, per intercessione della beatissima Vergine Maria assunta in cielo, i nostri cuori, accesi di carità, aspirino sempre verso di Te.]

Communio
Luc 1:48-49
Beátam me dicent omnes generatiónes, quia fecit mihi magna qui potens est. [Tutte le generazioni mi diranno beata, perché grandi cose mi ha fatto colui che è potente.]

Postcommunio
Orémus.
Sumptis, Dómine, salutáribus sacraméntis: da, quǽsumus; ut, méritis et intercessióne beátæ Vírginis Maríæ in coelum assúmptæ, ad resurrectiónis glóriam perducámur.
[Ricevuto, o Signore, il salutare sacramento, fa, Te ne preghiamo, che, per i meriti e l’intercessione della beata Vergine Maria Assunta in cielo, siamo elevati alla gloriosa resurrezione.]