De Segur: BREVI E FAMILIARI RISPOSTE ALLE OBIEZIONI CONTRO LA RELIGIONE [risp. XXIX-XXXII]

XXIX.

PERCHÈ PARLAR LATINO? PERCHÈ PARLARE UNA LINGUA SCONOSCIUTA?

R. I protestanti che hanno tutto innovato nella religione, peri primi dichiararono guerra al Ialino, senza badare che la predicazione, la sola parte del culto divino che abbiano conservato, è anche presso di noi in lingua volgare, e che così tutto ciò che essi hanno noi pure l’abbiamo. – Per il sacrifizio (che essi rigettarono e che è l’essenziale del culto) importa poco al popolo che le sue parole sacramentali che si pronunciano a voce bassa, siano recitate in francese, in italiano, ecc. o in latino o in ebraico. – Oltre che un numero considerevole di persone conoscono il latino, si provvide a tutto colla traduzione di tutte le preghiere della Chiesa. Questi libri, in numero infinito, s’adattano a tutte le età, a tutte le intelligenze, a tutti i caratteri. Certe cerimonie, certi movimenti, certi suoni conosciuti avvertono l’assistente il meno istruito di ciò che si fa e si dice nei nostri uffizi. Sempre può seguire il prete e la Messa; se egli è distratto, colpa sua. – Qual idea sublime, d’altronde, quella d’una lingua universale per la Chiesa universale! Da un capo all’altro del mondo (se si eccettuino le Chiese di rito orientale), il cattolico che entra in una Chiesa del suo rito è come in sua patria. Niente è straniero a lui. Arrivando intende ciò che intese in tutta la sua vita; può unire la sua voce a quella de’ suoi fratelli. La fratellanza che risulta da una lingua comune è un legame misterioso d’una forza immensa! Niente inoltre pareggia la dignità, la grandezza, la chiarezza, la beltà della lingua latina. È la lingua dei conquistatori dell’universo, dei Romani, è la lingua della civilizzazione, la lingua della scienza. Questa lingua è la regina delle lingue; essa meritava l’onore di diventare la lingua della religione. – Finalmente tutte le lingue, che variano (come son quelle che ancora si parlano) convengono poco ad una religione immutabile. Presso ogni moderna nazione il parlare odierno è ben differente da quello che si usava duecento, o trecent’anni orsono, ed assai più da quello, che si parlava cinque o sei secoli fa. Oltre questi grandi cambiamenti, che mutano le sembianze delle lingue viventi, ve ne sono molti altri, che sembrano poco importanti, ma infatti Io son molto. Cosi in tutti i giorni l’uso cambia il senso delle parole, e sovente le guasta per licenza. Se la Chiesa parlasse la nostra lingua, potrebbe dipendere dalla sfrontatezza d’un bello spirito il rendere la parola più sacra della liturgia o ridicola, o indecente. Per tutti i riguardi immaginabili, la lingua della religione deve esser messa fuori del dominio dell’uomo. – Ecco perché la Chiesa cattolica parla il latino.

XXX.

PERCHÈ I PRETI FANNO PAGARE I LORO SERVIGI? NON SI DEVON VENDERE LE COSE DI DIO.

R. Ciò è vero, e voi avreste gran torto di credere che i preti vendano le cose sante, i sacramenti, la messa, etc., perché pagate, quando voi domandate quest’uffizio dal loro ministero. La ragione di quest’usanza cosi spiacevole a primo aspetto, è giustissima, come ve la spiego in due parole. Il prete non è prete per sé, ma per Dio, e per i suoi fratelli. Egli è l’uomo di Dio, e l’uomo di tutti, incaricato di salvare eternamente le anime de’ suoi fratelli, loro facendo conoscere, amare, e servire Dio. – Consacrandosi interamente ad una cosi sublime vocazione, rinuncia a tutto, alla fortuna domestica, alle gioie del matrimonio, alle dolcezze della famiglia, e così ad ogni mezzo di procacciarsi la vita, quale il commercio, il lavoro delle mani , l’industria, ecc. – Egli si consacra tutto ai suoi fratelli. È ben giusto, che in cambio di questo generale sacrificio, e della vita dell’anima, che loro dona, i fedeli contribuiscano a procurargli i mezzi d’esistenza. Benché prete egli è uomo. In tutti i secoli dopo nostro Signor Gesù Cristo, il popolo fedele ha somministrato il necessario a’suoi preti, ha variata la forma, ma la cosa fu sempre così. Non bisogna però credere, che tutto il danaro che forma la rendita delle Chiese sia per i preti. Così ne’ grandi matrimoni, ne’ pomposi funerali che sovente costano sì caro, la maggior parte di ciò che pagasi alla Chiesa, va nelle borse dei laici. Con questi mezzi inoltre si provvede alla conservazione delle Chiese, alla riparazione degli altari, alle spese necessarie del culto, al canto ecc. Vi sono taluni che s’immaginano che in quei giorni i preti prendono il pollo, cioè guadagnano grosso. È vero per niente, e prendono sovente meno il pollo di quelli che loro lo invidiano. – Lo vedete dunque, voi non pagate le cose di Dio, ma , al contrario pagate un debito di giustizia, e se posso aggiungerlo, un debito dì riconoscenza verso il prete che si è donato tutto a voi. Se alcuna volta (ciò che grazie a Dio è raro) un prete obliando la santità’ del suo stato, s’attacca troppo al denaro, fatica per la terra invece di faticare per il cielo, dovete ricordarvi, che egli è uomo, ed inclinato al male al par di voi, ma che le debolezze dell’uomo non macchiano il sacerdozio di cui è rivestito. Il prete infedele è ben colpevole, ma il suo sacerdozio rimane sempre puro. Noi l’abbiamo detto, è il sacerdozio di Gesù Cristo che niuna cosa può alterare.

XXXI.

I BENI DEL CLERO.

Sì muove frattanto una guerra accanita ai beni che gode il clero — si cercano tutti i pretesti, e tutti gli appunti per spogliarli — si va malignamente decantando la povertà degli Apostoli, e dei Vescovi nei secoli primitivi della Chiesa, per opporla alle attuali possessioni della Chiesa — Principalmente poi non cessasi dì opporre le fallaci conclusioni dell’economia politica alla conservazione delle da loro chiamate Mani morte, cioè de’ beni ecclesiastici nelle mani del clero — Miseri che s’illudono, e la passione loro impedisce d’accorgersene! — Osservate difatti come essi dimenticano il gran bene che procurano agli stati le proprietà direttamente amministrate dal clero — Il sollievo dei poveri, oltre essere un dovere cristiano, anzi un dei primi, è anche un obbligo dello stato sì stretto, che gli scrittori d’economia politica prescrissero a quest’uopo somme grosse di danaro a carico del Governo — Così si pratica in Inghilterra e in altri paesi acattolici della Germania, ove nei tempi della pretesa riforma si fecero passare nelle mani dei secolari i beni della Chiesa, e in cui non pertanto regna tuttora in tutta la sua orridezza il pauperismo. Ora ditemi: — Non viene scemato un gran peso del governo, se i beni ecclesiastici, cioè il patrimonio dei poveri, servono specialmente al loro sollievo, a cui ogni chierico deve dispensare ciò che gli sopravanza ad una decente sustentazione? — Sentite infatti uno scrittore non sospetto a questi falsi politici (Mirabeau, Ami des hommes t. A. pag. 159). « Sono le abadìe, che fauno vivere una quantità d’operai: esse dispensano le loro rendite con una saggia economia: esse lasciano un onesto assegnamento ai loro affittuari, affinchè nutriscano i poveri pei loro contorni, e nei tempi di carestia alimentino una quantità d’uomini, che senza il loro soccorso soccomberebbero sotto il peso della miseria » — Quando dunque sentite calunniare i sacerdoti per questi loro beni, mostrate a quest’insensati le opere di pietà, i luoghi d’educazione, gli ospedali, e tanti luoghi, in cui si viene in soccorso all’umanità soffrente, tutti quasi o fondati o sostenuti colle rendite ecclesiastiche, e di cui ovunque vedete l’esistenza sia nelle città, che nei borghi, e villaggi. — Dite loro, che per l’ordinario gli ecclesiastici non hanno quel forte motivo che suol distogliere dalla limosina i secolari, cioè il lusso, che pure è molto dannoso [La legge di residenza imposta dai canoni ai benefiziali prova pure quanto la Chiesa abbia a cuore oltre gl’interessi spirituali, anche il temporale bene dei popoli facendo che l’ecclesiastico spenda sul luogo ove ha il benefizio ciò che da esso ricava, mentre d’altronde ben a ragione si deplora nei laici molto ricchi l’assenteismo dalle loro terre e quindi la miseria, che ne conseguita, come quotidianamente lo va provando l’Irlanda e altri paesi d’Europa.]. Quanto dunque sarebbe contrario alla politica utilità, che fossero ingiustamente tolti dalla Chiesa e dati al governo, o venduti ai secolari i beni di essa, che sono in gran parte applicati ai soccorsi dei poveri! — Ma le rendite ecclesiastiche non circolano nel paese, quindi non arrecano vantaggio al pubblico stando nelle mani del clero: che se il governo se ne impossessasse, e le vendesse ai laici, sarebbero più proficue alla generalità dei cittadini — Speciosa falsità, che basta a distruggerla il pensare che nel mentre che i fondi dei laici restano per più secoli in una stessa stirpe, che sola ne gode, i fondi della Chiesa passano a tante famiglie, quanti sono ordinariamente gli individui, che s’ascrivono al clero — Inoltre ai beni dei laici ha dritto il solo erede; ai beni della Chiesa chiunque del popolo, che sia chiamato da Dio al sacerdozio — Il laico tesoreggia per i suoi figli; il sacerdote che è celibe è tenuto a dispensare ai poveri ciò che è superfluo al suo sostentamento. Il secolare distribuisce le rendite a capriccio; l’ecclesiastico invece secondo la norma dei canoni, che tendono al vero bene dell’umanità— Un padre di famiglia non può collocare tutta la numerosa figliolanza in decorosa condizione — ebbene, se Dio chiama alcuno dei suoi figli a quest’augusto stato del sacerdozio, avrà questi di che vivere, e ne godrà il rimanente della bisognosa famiglia. Da tutto questo ben dunque vedete quanto sia utile alla società che i fondi ecclesiastici siano posseduti, e amministrati dal clero stesso. – Ma le possessioni ecclesiastiche sono mal coltivate — non rendono ciò che dovrebbero—sarà meglio dunque darle all’attività, e al commercio dei cittadini, dei laici. — Anche qui un falso supposto mena ad una conclusione ancor più falsa — L’esperienza, e l’autorità di dotti scrittori attesta il contrario — Jay, e Rossi celebri scrittori d’economia politica affermano come i beni posseduti dai regolari, e da altre comunità ecclesiastiche sono più e assai meglio coltivati che i beni delle case secolari private, i quali per lo più son sempre mal tenuti e derelitti, massimamente quando si posseggono da dette case in gran quantità, ond’è che si vede ocularmente, che le più gran tenute dei più ricchi signori sono ordinariamente deserte, e ridotte a macchia, o ad erba solamente — Dunque se tutti fossero in mano dei laici, sarebbero meno coltivati, e quindi gran danno allo stato — I laici non tenuti come gli ecclesiastici da un dovere positivo che loro impone la Chiesa, di rendere migliori, o almeno nello stato cche si ricevettero, i beni ecclesiastici ai propri successori. Il dovere è una forza più potente che i propri comodi, e la libera volontà dei secolari a questa cultura non astretto — E poi a confessione dello stesso Mirabeau, non erano che orridi deserti gli odierni stabilimenti ecclesiastici, e noi dobbiamo, egli dice, ai primi cenobiti lo sterpamento di più della metà dell’interiore delle nostre terre — Bella gratitudine sarebbe dunque a questi benefizi del clero per la società, toglier ad essi la possessione di tali suoi migliorati, e ben coltivati fondi. – Il clero è troppo ricco, soggiungono, gli apostoli fondarono la Chiesa senza tante ricchezze — Il clero è per le cose spirituali, dunque deve astenersi dai preoccuparsi dei beni di quaggiù, deve lasciare ai laici i beni temporali — Scaltra, ed ipocrita fallacia dei nemici dei beni del clero — Osservate difatti come male si appongono— Si vuole fingere strabocchevole ricchezza dove non è che il puro necessario, ed il superfluo è tutti i giorni in memoria di benedizione, e gratitudine accolto, e ricevuto dai poveri — Guardate questi poveri di Gesù Cristo, che si affollano alla casa del beneficiato e ne partono soddisfatti nei loro bisogni, e ditemi se questa sia lussuriosa ricchezza — Quanti poi vi sono tra i sacerdoti che non hanno che il puro necessario! — E poi non ha il clero diritto ad un decoroso sostentamento, esso che esercita il più augusto dei ministeri sulla terra?—È falso poi, che gli apostoli siano stati poveri nel senso, che si vorrebbe dagli avversari — Il clero sarebbe contentissimo d’essere trattato oggidì dalla liberalità dei fedeli, come furono trattati gli apostoli dai primitivi cristiani che vendevano i loro beni, e ne portavano il prezzo agli apostoli [Act.. II. v. 54]. Se la missione del clero è tutta spirituale, se esso deve occuparsi degl’interessi eterni del popolo a lui affidato, non scema però in esso il diritto di vivere coi beni della terra, che per contrario s’accresce il dovere dei laici di sussidiare il ministro dell’altare che si impiega in officio così nobile, quale è l’eterna salvezza dei popoli — Perché dunque invece di concorrere al mantenimento del clero, si pensa oggi cotanto a levargli pur anco quei beni, che la pietà dei nostri padri loro ha dati? Il perché lo ravviserete nelle tendenze irreligiose dei nostri politici, che non contenti di sconnettere le cose civili, vorrebbero riformare la veneranda antichità di questa disciplina della Chiesa in ciò che concerne i beni da essa sempre legittimamente posseduti. – I cavilli e le obiezioni, che v’esposi e confutai, non son le sole, che escono dalla feconda sorgente che n’è l’irreligiosità politica — I tranelli di essa son multiformi e molteplici.— Saprete però resistere a tutti questi inganni se ben riterrete: 1.° che il clero per la sua dignità merita un decoroso trattamento; 2.° Che cominciando dai leviti dell’antico testamento, e venendo agli Apostoli, e ai loro successori, si vede come i fedeli fossero liberali verso di essi, in ogni tempo; 3.° Che gl’invasori dei beni ecclesiastici furono sempre creduti rei di sacrilegio.- 4.° Che i principi buoni sempre accrebbero i beni della Chiesa e ne furono ricompensati; 5.° Che i diritti, che il clero acquistò per i beni che possiede è sacrosanto quanto quello d’un privato qualunque, e che deve essere garantito e difeso dalla legge civile. 6.° Che l’opera della pietà di diciotto secoli nel sovvenire il clero ha ben più valore morale, che le strane idee dei tempi che corrono — Se, dico, riterrete tutto ciò, ben comprenderete che il disegno degli avversari dei beni del clero, altro non è se non d’avere, col mezzo della miseria, sacerdoti abbietti, ignoranti, alieni delle sagre funzioni, per ottenere infine la decadenza della Religione, e dei troni.

XXXII.

SONO I PRETI CHE INVENTARONO LA CONFESSIONE

R. Si, è facile cosa il dirlo, ma ben altra il provarlo. No non sono i preti, si è Colui che ha fatto i preti, si è nostro Signor Gesù Cristo che stabilì la confessione dei peccati come il mezzo necessario per ottenerne il perdono. – Aprite infatti il Vangelo: nel giorno stesso di sua risurrezione, nel giorno di Pasqua, i suoi apostoli erano riuniti in Gerusalemme, nel cenacolo. Tutto ad un tratto, a porte chiuse. Gesù Cristo compare in mezzo d’essi. Essi son tosto compresi da timore, prendendolo per un fantasma. Ma Egli mostrando loro le sue mani, ed il costato: « Pace a voi: come mandò me il Padre, anch’Io mando voi – e detto questo soffiò sopra di essi, e disse: Ricevete lo Spirito Santo: saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saranno ritenuti a chi li riterrete » (S. Giovanni cap. XX vers. 22.). Queste parole non hanno bisogno di commenti. Nostro Signore concede dunque a’ suoi primi preti, di cui il sacerdozio ed i poteri durano sino alla fine dei secoli, la virtù di perdonare, potere talmente assoluto, che i peccati ormai non possono essere perdonati che mediante il loro ministero, o in riguardo di questo loro ministero [Noi aggiungiamo a bello studio queste ultime parole; perché quando non puossi ricorrere al ministero di un confessore, si può ottenere da Dio la remissione dei peccati mediante un perfetto dolore. Ma uopo è che a questa contrizione perfetta sia congiunta la ferma risoluzione d’obbedire al più presto possibile al comando di Gesù Cristo che vuole che ogni grave peccato sia portato al tribunale della penitenza. Dunque non è che in riguardo del ministero dei suoi sacerdoti che Dio rimette i peccati in questi casi straordinari.]. – Ma il sacerdote non può perdonarci peccati che ignora; quando un penitente si presenta a lui, esso non sa neppure se questo penitente abbia peccato. Uopo è dunque che costui faccia conoscere la sua coscienza, dichiari i suoi peccati, di maniera che il sacerdote possa giudicare se debba perdonargli tosto, oppure ritenere i suoi peccati sino a migliore disposizione. – Or bene in ciò sta la confessione. E voi ben vedete dietro la parola sì chiara di Gesù Cristo, interpretata dal più semplice buon senso, che si è Egli che inventò la confessione. – Chi lo nega non conosce più la storia, di quello che conosca il Vangelo. Dai primi secoli del Cristianesimo si vede la confessione dei peccati, sia segreta sia pubblica, fatta al Sacerdote, e susseguita dalla assoluzione sacramentale riguardala come la condizione necessaria del perdono. Sempre e dovunque la si vede praticala come istituzione divina. – I protestanti che rigettarono la confessione perché loro recava molestia, si sono sforzati invano a trovar l’inventore umano di essa. Furonvi taluni che ignoravano talmente l’istoria della religione, che dichiararono la confessione essere stata inventata nel secolo tredicesimo dal concilio di Laterano. Sventuratamente per questi dotti l’istoria della Francia ci conservò il nome del confessore di Carlo Magno e di quello di suo figlio Luigi il Buono, che vivevano qualche cinque cento anni avanti il concilio di Laterano I. – Colui, che inventò la confessione, giova il ripeterlo, è Colui che ha inventato i concili, Colui che ha inventato la Chiesa, Colui che ha fatto la religione, Colui, che ha fatto l’uomo, il mondo, e tutte le cose, il Figlio eterno di Dio, che si è fatto uomo, nel tempo, per salvarci. Si, è per misericordia, che ci ha dato la confessione. È per meglio assicurarci del perdono dei nostri peccati e per dare così la pace all’anima nostra. Quando noi abbiamo domandato a Dio perdono di qualche mancanza, noi siamo sicuri dì aver domandato il perdono, ma non siamo sicuri d’averlo ottenuto. Quando al contrario, abbiamo udito la parola sacramentale del sacerdote : « Io t’assolvo da’ tuoi peccati in nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo, » e che d’altronde abbiamo fatto ciò che abbiamo dovuto, e potuto per parte nostra, siamo assolutamente sicuri, che la nostra anima è purificata. Gesù Cristo l’ha detto: « Saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete. » Inoltre noi riceviamo nel Sacramento della Penitenza una perfetta ed intera applicazione dei meriti del Salvatore, come in tutti i sacramenti. Gesù Cristo supplisce all’imperfezione, all’insufficienza della nostra contrizione; mentre che, abbandonati a noi stessi, noi non riceviamo la grazia di Dio, che in proporzione delle nostre disposizioni personali sempre ben povere e misere. Nostro Signore coll’ istituire la confessione de’ peccati, non fece, del resto, che trasportare nella religione uno degl’istinti, uno dei bisogni del nostro cuore nell’ordine naturale. Chiunque ha commesso una mancanza, sembra sollevato, e quasi giustificato, col confessarla. Chi non ha provato in un momento di dispiacere, il desiderio di espandere il suo cuore nel seno d’un amico? Tale è la confessione. Il peccato è il vero male, che pesi sopra un cuore onesto e retto; il sacerdote è il confidente di questo rimorso, il consolatore di questa pena. Egli fa più che sollevarla, la toglie, e gli rende la calma, e la gioia della buona coscienza! Non confesserete voi, che Dio è assai buono in quest’invenzione della confessione? Traduciamo in volgare, come ci accade alcuna volta questa parola inconsiderata: « Sono i preti, che hanno inventata la confessione. » – Essa vuol dire il più delle volte :« Io non voglio confessarmi, perché: Io sono un orgoglioso o un libertino, che ne avrei troppe a raccontare; « e che 2.° non voglio correggermi de’ miei vizi. » Voi che parlate contro la confessione, oserete dire, che io m’inganno?

Don MINO – segretario di Giuseppe Siri (S.S. Gregorio XVII)

 

 

GIUSEPPE CARD. SIRI

Arcivescovo di Genova

[futuro GREGORIO XVII]

Don Mino

(Mons. Bartolomeo Pesce)

Profilo

Ai Suoi genitori

LO STUDENTE

Don Mino era nato il 5 febbraio 1921 da Giovanni Pesce e da Elvira Mazza a Genova in Via Casaregis 18. Egli avrebbe portato fino alla fine il senso della saggezza pacata di suo padre e la educazione e finezza di sua madre. L’attaccamento ai suoi genitori fu esemplare, senza stornarlo dal suo dovere di sacerdote. Due anni prima della sua morte, un giorno a Villa Campostano, nel giardino restammo soli. Ne approfittai per fare un certo discorso, su un argomento che mi preoccupava da tempo. Volevo studiare per lui una sistemazione, che gli fosse stata congrua. Mi disse: “Non si preoccupi; vede, io non potrei sopportare la morte di mio padre o di mia madre. Del resto sento che morirò giovane”. Visse sempre del ricordo dei suoi nonni paterni e materni con una devozione commovente. Ebbe profondità e finezza di sentimento – tutta sua – verso gli zii e le zie. Il ceppo della famiglia era a Molare presso Ovada; egli non vi era nato, ma quella era la sua patria. Negli ultimi anni volle si comperasse un terreno nel Cimitero, per trovarsi tutti uniti dopo la morte. Credo però che il tono e il tipo di questo amore per il natìo loco si potrà capire quando la sua figura sarà più completamente delineata. – La sua storia comincio a narrarla da un giorno d’Ottobre quando io cominciai la mia missione di Insegnante di religione al Regio Liceo Doria nel 1937. Don Mino apparteneva alla terza B, che occupava al secondo piano l’aula a destra in fondo al corridoio prospiciente la Questura. Rivedo tutti i miei scolari d’allora e li rivedo al loro posto. Mino occupava la seconda fila da sinistra, il secondo banco a destra, che condivideva con Biagio Petraroli. – Feci il primo appello, adagio come era consuetudine, per stamparmi bene in testa nomi e fisionomie in modo da poter ritenere subito tutti, chiamarli senza alcun bisogno di registri o di piante dell’aula. Cominciai la scuola. Prima della fine avevo una certa idea degli scolari, ma tra questi ne notai uno, attentissimo con due occhi benevoli e penetranti che esprimevano un immenso desiderio di imparare quanto insegnavo. Era Mino Pesce. Quello sguardo era tale, che capii subito esserci qualcosa di non comune. Col tempo seppi che era benvoluto da tutti, che la sua casa era facilmente il ritrovo di compagni, che andavano a studiare con lui in gruppo nutrito. Come ero stato solito fare nelle scuole, nelle quali avevo prima insegnato, diedi inizio al “Focolare”, per curare meglio fuori della scuola l’anima di quei ragazzi. Corrispondevano in modo commovente. Il luogo di incontro era la mia camera in Seminario, nel corridoio dei Superiori, immediatamente prima della Tribuna della Cappella. Sapevo che i ragazzi hanno una immensa sete di verità e di giustizia, di ideali. Il focolare visse sempre per quella grande sete. Sapevano che eravamo in Seminario, che bisognava rispettare il silenzio. Arrivavano al sabato nel pomeriggio, camminavano in punta di piedi, perché bisognava passare davanti alla porta del Rettore. Nella mia camera ci stavamo assiepati in più di trenta, seduti su tutti i mobili in qualche modo senza alcun chiasso. Per anni sono venuti e non hanno mai disturbato nessuno, tanto che io non ebbi mai rimproveri o proibizioni. Dopo che si era tra loro fondata una specie di Società di san Vincenzo de Paoli, si faceva la raccolta e io conservo ancora la busta di panno azzurro che serviva a deporvi i denari. L’anima di questo focolare era don Mino. – Sui suoi compagni aveva un prestigio singolare che non venne mai meno. Il segreto di questo prestigio era la chiarezza del suo contegno, la finezza della sua educazione, l’equilibrio dell’anima sua, la prontezza a fare quello che potesse essere utile agli altri. La sua fu la classe che ricorderò di più: una parte arrivò senza spinte alla Comunione quotidiana, che comportava naturalmente il sacrificio di una molto sollecita levata. I più facevano la Comunione festiva. Ancora oggi il ricordo di quella classe non abbandona quelli che vi appartennero. – I professori erano persone per bene: due – che non sono più – sono particolarmente ricordati: il Prof. Savelli di filosofia e la Signora Settignani di matematica e fisica. Il primo era ammirato per la sua dirittura e per la forza educativa che sapeva infondere nel suo insegnamento. Aveva la statura da grande professore universitario e lo sarebbe certamente stato se si fosse piegato alla moda politica del tempo. Gli fui amico, lui frequentava per anni i Corsi di Villa Maria, nella onesta ricerca della Fede. Durante la guerra, mi pare nel 1942, verso l’estate mi giunse da lui, da Ancona, una cartolina in cui mi annunciava che si era confessato e comunicato. Era quello che attendevo: dopo un mese era morto. Pensando al Prof. Savelli ho sempre pensato essere impossibile che un uomo veramente onesto e desideroso della giustizia non arrivi alla Fede. Quest’uomo ebbe una influenza fondamentale sulla onestà di don Mino: egli lo venerò sempre e spesso di lui si parlava insieme. – La seconda era una donna unica: nubile splendida insegnante, severa, costituiva il terrore delle reclute del Liceo. Il terrore si tramutava presto in rispetto e in serietà di studio. Eppure era una santa donna: viveva leggendo le opere di Santa Teresa. A me veniva a chiedere notizia della salute di questo o quello; temeva che qualcuno patisse per mancanza di mezzi e non voleva mostrare a nessuno che aveva il cuore buono. Più di una volta sono stato strumento della sua carità accuratamente nascosta. Dava un tono a tutta la scuola. Anche questa insegnante ebbe una notevole influenza sulla formazione di don Mino. Fu da studente che lui rivelò la singolarissima capacità di fondere gli animi, di amalgamarli. Lui forse non se ne accorgeva, ma era la sua personalità buona ad imporsi. – Studiava con profondità ed allargava notevolmente la sfera di quello che imparava a scuola. Era un lettore formidabile specialmente nel settore letterario e filosofico. Alcuni compagni facevano con lui un gruppo speciale, che non si accontentava dello studio scolastico. È facile che in studenti così fatti venga a preponderare la cultura nozionistica ed altrettanta coscienza di sapere tutto. Non direi che questo possa pensarsi di quel gruppo, ora che esiste la controprova data nella vita. Per don Mino non fu certamente così. Io l’aiutavo, ma certamente egli si costruì un casellario logico mentale, nel quale le nozioni trovavano giusta collocazione per una costruzione più legata ed una sintesi più alta. Di questo dovrò parlare ancora. Nella lettura aveva il gusto delle opere che restano ed appunto perché restano si chiamano “classici”. Lo attraevano profondamente le grandi idee e le grandi sintesi. Prima ancora che in lui si manifestassero chiari i segni di una vocazione al sacerdozio, la struttura era fatta. È difficile che gli studenti si facciano delle strutture portanti ed evitino la più antipatica delle presunzioni. – Naturalmente tutto questo si perfezionò col tempo allorché entrò in Seminario e quando cominciò egli stesso l’insegnamento. Tutte le mattine era puntuale nel coretto di Santa Zita, ove io celebravo la Santa Messa alle otto.

Dopo, la scuola.

Ho sempre creduto per esperienza alla efficacia dei ritiri minimi. Li volevo in un ambiente monastico, perché avevo osservato che erano incomparabili aiuti, la consuetudine dei monaci, la divina liturgia, il canto corale, i pasti presi in silenzio insieme alla comunità. Quasi sempre i ritiri minimi, nel tempo al quale mi riferisco, si tenevano per i miei alunni alla Abbazia benedettina di San Nicolò del Boschetto. Più tardi ci si trasferiva a Sant’Andrea di Cornigliano. Le vere tappe della formazione e della vocazione di don Mino sono stati questi ritiri. Li predicavo io, facevo fare l’esame di coscienza, partecipavamo al Coro. Si finiva verso sera, prima o dopo a seconda dei casi, ma in modo che non si annoiassero mai e partissero coll’animo contento, disposti a ritornare. – Alla domenica e alle feste era sempre fedelissimo al canto dei Vespri all’Apostolato Liturgico. Viveva ancora mons. Moglia e tutti noi eravamo attratti nell’alone di quell’uomo incomparabile ed indimenticabile. Mancavamo solo quando si andava ad occuparci dei poveri nel Ricovero municipale di Borzoli. Là ci dividevamo per visitare e portare soccorsi alle diverse famiglie. Poi insieme scendevamo a piedi attraverso Coronata a Cornigliano. Erano ben più contenti che se si fossero divertiti e lo dicevano chiaro. – Le vacanze hanno una loro importanza nella breve storia che narro. Mettevo insieme un gruppetto di amici di diversa età (il più anziano, il caro signor Stefano Parodi, aveva quasi settant’anni) sceglievo la località alpina, organizzavo tutto, gite comprese e si partiva. Diversi alunni cominciarono ad unirsi a noi: il gruppo era il più eterogeneo che si potesse immaginare, preti, laici, vecchi e giovani, eppure ancora oggi ripenso con nostalgia al signor Stefano Parodi il più arguto e sereno, singolarmente saggio. Queste vacanze nella amabile mista compagnia, mi permettevano di curare meglio dal punto di vista spirituale e intellettuale il gruppetto degli studenti. Di questo gruppetto Mino era il capo ed anche il più interessato. Fu in queste vacanze che egli con una singolare tenacia, mise a punto la costruzione filosofica e lo fece in modo tale da poterne essere poi maestro a molti altri e da poter dare una particolare e forse unica caratteristica alla sua scuola d’Arte in Seminario. – Afferrava, assimilava, godeva della certezza conquistata e la sapeva comunicare ad altri. Quando si trattava di entrare in Seminario per la Teologia ed egli doveva subire l’esame integrativo di filosofia, feci per lui un riassunto della Metafisica, che in seguito credo sia servito a molti altri. Le nostre campagne oscillavano dal Trentino a Courmayeur, ma la più frequentata restò la colonia P. Semeria a Courmayeur diretta allora dall’indimenticabile Padre Cossio, Barnabita. Non dimenticherò mai più un circolo di studio tenuto in un prato di Dolonne, sullo sfondo delle Gr. Jorasses e nel quale tutti arrivarono a capire l’ammirevole contenuto dello a. 3, c. 3 della parte prima della Somma di San Tommaso. – Don Mino era uno studente al tutto singolare. Era bibliofilo, amante delle nozioni, ma molto più dell’approfondimento razionale sistematico. Obbligava con le sue interrogazioni a mettere a fuoco le questioni, senza mai sbandare. Intellettualmente egli avrebbe portato fino alla fine la fisionomia limpida e sicura del sapere, che lo avrebbe caratterizzato fra tutti. In questo tempo con alcuni indivisibili amici frequentava le migliori manifestazioni d’arte e di cultura che erano allora a Genova ed ho assistito più volte alle nutrite discussioni, che questi ragazzi seri sapevano condurre con competenza e sagacia, dopo quelle manifestazioni. – Oggi occupano tutti il loro posto nella società, ma sono certo che bene spesso ritornano a quei tempi bellissimi, anche se in una cornice di fatti che dovevano ineluttabilmente portare alla seconda guerra mondiale.

LA VOCAZIONE

Non tardai molto a capire che la spiritualità di Mino prendeva un certo indirizzo, scartava passatempi, sceglieva ambienti congeniali ad un certo tipo di vita. Io non parlai mai di quello che mi pareva intuire. Egli era felice di venire nelle solennità a fare il chierichetto all’Istituto Giosuè Signori per ragazze deficienti e abbandonate. Mi occupavo di quell’Istituto in rappresentanza dell’Arcivescovo ed ogni festa vi celebravo io una Santa Messa alle 6,30 del mattino. Penso alle Messe di Natale, che lasciarono a lui un ricordo per tutta la vita. La sua maturazione spirituale limpida e generosa era evidente. Cercò molte volte di incominciare un discorso, che doveva portare a parlare di vocazione. Io feci mostra di non capire. Fu solo all’inizio della terza liceale che egli mi fece il discorso chiaro, al quale non potevo sfuggire. Ci voleva del tempo, bisognava pregare. Intanto la maturazione cresceva, lo spirito di preghiera e soprattutto, di meditazione. Gli dissi che gli avrei comunicata la decisione a Pentecoste. Venisse con me all’Opera Giosuè Signori. Io cantai la Messa. Dopo la Messa, in sacristia gli diedi la risposta: poteva andare avanti nella via del sacerdozio. Era raggiante. Da molto tempo la sua vita sarebbe stata esemplare per il migliore seminarista, da quel giorno, come se avesse dato addio al mondo, la sua vita si affinò e raggiunse una virtù al tutto singolare. Io non ebbi mai ombra di dubbio sulla sua riuscita. Così a Ottobre di quel 1940 entrò nel Seminario Maggiore. I suoi Genitori non lo ostacolarono, pur sentendo il colpo di un inopinato cambiamento di rotta, che poteva sconvolgere i loro piani. Essi erano della sua levatura. Lui sarebbe stato per loro come per la sorella di una devozione unica, che diventò più splendente ancora col passare degli anni. Essi ritrovarono sempre in lui con una chiarezza pura il loro bambino d’un tempo. Ebbe appena, si può dire, la gioia di vederli sistemati a Pegli e quella casa porta in tutto l’impronta del suo gusto. Più tardi i suoi nipoti avrebbero avuto in lui uno zio indimenticabile, proprio per la levatura spirituale. – Mi sono chiesto molte volte quali potessero essere le lontane cause di quella vocazione, che come tutte le vere vocazioni, viene da Dio. Ma egli parlò sempre soprattutto del suo nonno paterno: lo ammirava, l’esempio di lui gli era guida, le sue massime luce. Probabilmente il merito dei padri aveva la sua parte in tutta questa vicenda. Così cominciò con entusiasmo lo studio della Teologia. La assimilò come ho visto accadere a pochi. Non sfarfallò mai nella gustosa e facile bibliografia. Approfondiva tutto e talvolta colle debite licenze faceva excursus più ampi della scuola. Egli vagliò veramente tutto il pensiero moderno alla luce della teologia, raggiungendo una meravigliosa precisione in tutto, quella che lo avrebbe reso ammirato e carissimo tra i suoi futuri alunni del Doria. – Lo ebbi alunno in primo anno per la sola Eloquenza, poi per tutto il corso della Teologia Speciale. Visse la Teologia come una contemplazione continua e come la luce per capire e misurare qualunque altra cosa. Raggiunse una sicurezza che gli permetteva di conoscere senza esitazioni o danno qualunque manifestazione del pensiero moderno. Il cammino della sua vocazione fu un cammino luminoso e sereno.

LO STATO DI SALUTE

Questo costituisce una componente veramente principale della Sua vita. Da ragazzo ebbe qualche indisposizione, ma in sostanza era un ragazzo normale e resistente. Fanciullo di poco più che dieci anni, passò diverse vacanze a Cortina d’Ampezzo. Là, da solo, girò tutte le montagne. Al sentirgli narrare le sue prodezze e la resistenza dimostrata, pareva incredibile non gli fosse successo qualcosa di grave. Egli poteva parlare di tutta la conca Ampezzana con una famigliarità che stupiva. Fu durante la guerra, mentre egli studiava teologia, che cominciò ad apparire quell’esaurimento che avrebbe costituito il merito segreto di tutta la rimanente esistenza. Nel 1942 dopo i gravi bombardamenti a tappeto del 22 e 23 Ottobre il Seminario, non colpito ma danneggiato e divenuto ormai pericoloso, fu chiuso. Poco dopo venne riaperto nei locali allora del Maremonti a Ruta, località che pareva dare una notevole sicurezza in ordine alle possibili operazioni belliche. Là, anche perché l’alimentazione era di guerra, la salute di Mino manifestò quell’abbassamento, dal quale non si sarebbe sostanzialmente rialzato. Fu visitato da un medico estero che gli trovò almeno una dozzina di malattie. La verità era nell’esaurimento nervoso. Il suo sistema neuro vegetativo era in malo arnese e fu il protagonista di una lunghissima passione, sia pure con alti e bassi. Aveva tutti i sintomi, tanto che, a chi non fosse stato edotto, lo avrebbe ritenuto affetto da chi sa quali malanni, mentre il malanno era uno. Tuttavia poté proseguire con una certa regolarità ed arrivò così sereno come sempre e felice alla sacra ordinazione che gli fu conferita nel Santuario dell’Acquasanta il 3 Giugno 1944. Io ero vescovo da un mese; lo chiesi come segretario al card. Boetto, che benevolmente me lo accordò subito. – Due anni dopo, diventato io Arcivescovo, condivise con me le fatiche. Era stremato, tanto che dopo una non lunga permanenza mia in Svizzera a titolo di riposo, decisi di lasciarlo lassù, perché pareva che l’aria e le terapie dessero per lui migliori speranze. Ma anche là i progressi furono insignificanti o assenti del tutto. Da amici di Lucerna venne consigliato di ricorrere ad un Naturarzt dell’Appenzel. Si trattava di un Signore distinto, abitante a Waldstatt, un grazioso villaggio poco distante da Appenzel. Io non sono in grado di giudicare dei metodi seguiti dal Signore di Waldstatt, però Mino seguendo le sue indicazioni riuscì a raggiungere un passabile tenore di vita. Quel bravo uomo lo prediligeva ed egli finché visse, disse di dovere la vita al Naturarzt. Vi sarebbe ritornato poi anche quando questo Signore non esercitava più e ricordo che una volta trovandoci in Svizzera andammo insieme a Waldstatt. Dopo quattordici mesi ritornò in Italia, non perfettamente guarito, ma tale da avere una vita abbastanza normale, anche se sempre più o meno sofferente. – Cominciò una vita, nella quale, pur dimostrando una singolare resistenza, facilmente doveva fare della notte giorno e viceversa con dolori e disturbi di tutti i generi che assiduamente gli tenevano compagnia. Aveva i disturbi più strani, che celava quanto poteva anche a noi di casa. La sua sensibilità gli donò una sofferenza anche per le più piccole cose. Egli celava. Tra l’altro aveva i cinque sensi incredibilmente sviluppati, sentiva e percepiva tutto. Questa situazione di ipersensibilità generale gli rendeva greve quello di cui noi neppure ci accorgevamo. I rumori erano i suoi nemici. Si trovava così esposto a tutti i malanni, che affioravano secondo le stagioni. Di influenze con febbre ne faceva almeno quattro all’anno e quasi mai duravano solo due o tre giorni. Aveva delle prostrazioni che lo facevano privo di forze ed era frequente per lui andare vicino al collasso. La penultima influenza la prese a principio del 1969, fu lunga e se ne liberò in modo soddisfacente con una cura di vaccini. Non c’è merito ad essere sofferente, se manca una accettazione ed una virtù. Egli, nonostante questo, continuava a lavorare e, non solo rappresentava per nulla un aggravio della serenità familiare, ma ne era la luce. La pazienza, la serenità, il sorriso erano lo schermo dei suoi dolori. Questa accettazione del suo stato, assolutamente semplice e senza pose, questa serenità comunicativa a tutti, fatta di Fede e di coscienza, costituisce l’aspetto più grande della sua figura morale. – Bisogna farsi un’idea di quello che lo affliggeva. Per anni ed anni quasi mai mangiò a tavola, tale era la debolezza che lo prendeva. Il pranzo o la cena gli era servita stando lui su una sedia a sdraio per essere in nostra compagnia. E questa era sempre piacevole. Molte volte era costretto a consumare i pasti a letto. Molte notti erano bianche. La ragione di questa debolezza? Si prodigava per tutti e per tutto; anche quando non stava bene, continuava a ricevere, a trattare pratiche. Egli era assolutamente incapace di sbrigare le persone. Doveva servirle tutte fino all’esaurimento; quando era fuori per scuola o per altri motivi facilmente al suo rientro trovava gente che lo aspettava per qualche motivo. Egli, anche sentendosi mancare, senza dare alcun segno di peso o fastidio, ascoltava tutti. Così quando rincasava, non era neppure in grado di mangiare e, spesso doveva attendere sul letto che gli ritornassero le forze. Il sabato era una giornata campale. Nel pomeriggio riceveva nei locali della Segreteria: ascoltava, confessava, consigliava ed erano alunni suoi recenti e lontani, professionisti … Quando rincasava noi eravamo spesso a tavola da un pezzo. – Quando i suoi nervi non reggevano, era per lui un supplizio trattare cogli altri; eppure continuava a ricevere. Il suo ufficio d’arte sacra (egli ne era il titolare) potrebbe raccontare molte cose su questo punto. Parlava poco dei suoi guai; se lo faceva era per rispondere alle nostre affettuose domande o riderci sopra. E quando in casa, tutti, (notare la parola ”tutti”) avevamo qualcosa andavamo da lui. Era il pacificatore di tutte le dure esperienze e di tutte le ansietà. Si rianimava veramente solo in montagna, in alto. Dopo che abbiamo presa l’abitudine di passare le nostre magre vacanze sulle pendici della Bisalta in quel di Peveragno, facilmente di buon mattino, all’alba, partiva per esplorare, cercare sentieri, strade che permettessero le gite oltre i duemila metri. Egli conosceva perfettamente, le valli alpine della provincia di Cuneo e noi abbiamo compiuti degli itinerari noti a pochi, ma scoperti da lui. La sua abitudine contemplativa lo metteva in comunione con tutto: molti animali, piante, fiori. Era felice, allora. E scopriva un’altra caratteristica della sua anima: quella di portare tutto in alto. Nei quattordici mesi in cui tra il 1947-48 restò in Svizzera dove trovò la sua relativa salute, egli conobbe tutto di quel mondo alpino, spesso meraviglioso. Ed imparò anche perfettamente il dialetto tedesco di quei monti. Quella esperienza svizzera deve essere stata assai dura per Lui, ma egli si guardò bene dal metterci a parte delle sue sofferenze: per lui andava sempre bene. I suoi amici svizzeri da allora non l’hanno mai più dimenticato. – Dalla Svizzera ritornò definitivamente sul finire della estate 1948. Nel 1953 ritenni necessario cooptare nella nostra famiglia Arcivescovile un altro giovane sacerdote (don Giacomo Barabino, ndr) che tutti conoscono e stimano. Ma per don Mino questa fu solo la occasione di riempire con altri impegni di pazienza e di carità il tempo che veniva da altri supplito nel lavoro di Segretario. Tempo non ne perse mai. Tutto questo durò, l’ho già detto, per ventotto anni! Il suo peso fu in parte notevole dovuto ai dolori morali. Egli soffriva del male altrui, soffriva dei difetti altrui, partecipava in modo singolare a tutti i dolori che hanno accompagnato il mio ministero (qui, si potrebbe percepire una eco del dramma interiore dell’Arcivescovo, ndr). Questi furono molti e non tanto a causa del Governo della Diocesi, e per le vicende della Chiesa e dell’Italia, per le quali non poteva lasciarmi insensibile la mia appartenenza al Senato della Chiesa stessa. Egli, anche se io non parlavo, indovinava le ombre nei miei occhi e silenziosamente soffriva con me. Soffriva per tutti e spesso era il solo che riusciva ad addolcire l’amarezza di tutti. Lo stato del suo sistema neuro vegetativo faceva rimbalzare nella sua anima paziente i più insignificanti episodi. Alcuni aspetti delle sue sofferenze, per lo più a me nascoste, gli venivano dall’adempimento di taluni suoi doveri … La insonnia aveva il potere di moltiplicargli tutto. Eppure pregava e taceva. Sui suoi guai aveva la capacità di scherzare. Forse lo faceva perché temeva essi pesassero su di noi.

IL SACERDOZIO

Dopo essere stato ordinato all’Acquasanta dal Cardinale Boetto, il giorno appresso 4 Giugno 1944 cantò la Sua prima Messa nella chiesa parrocchiale di Molare. Vi andai e tenni io il discorso. Ricordo che all’inizio della mia predica sentimmo passare con fracasso sulle nostre teste la formazione di bombardieri che, andavano a bombardare Torino. Verso la fine ripassò ancora sulle nostre teste per andare a bombardare Genova nella zona della bassa Polcevera. Era una giornata di eccidio, che a Molare passò serena e luminosa. Io ritornai quel giorno stesso e dovetti lasciare il mio bagaglio a Borzoli, perché oltre era interrotta la linea e, a piedi, me ne andai a Certosa a constatare i disastri, poi a Genova. Egli rimase qualche tempo in famiglia, anche perché un mese dopo dovetti scomparire perché mi si voleva, per lo meno, portare in campo di concentramento. – Don Mino il suo sacerdozio lo realizzò nell’Arcivescovado. Per capire l’anima di questa esistenza sacerdotale bisogna considerare la Sua Messa. La sentiva talmente, vi si addentrava con tale profondità da consumarvi le forze, tanto che molte volte non riusciva celebrare e doveva accontentarsi della sola Comunione. La meditazione e la preghiera duravano, negli intervalli possibili, tutto il giorno. Una volta ad una Superiora che gli riferiva dell’atteggiamento critico di un sacerdote, rispose semplicemente: “Non c’è altro che da pregare”. Questo era il suo atteggiamento costante, che spiega in lui altre cose. Le questioni ecclesiastiche e pastorali specialmente dopo che assunse la difficile Delegazione Arcivescovile per la Università, le risolveva sempre pregando. Era facile a qualunque ora trovarlo nella Cappella dell’Arcivescovado, seduto, colla testa appoggiata sul banco del coro, del tutto immerso nella orazione. Ed a fondamento di quello che faceva come sacerdote metteva la offerta delle sue sofferenze fisiche e morali. Questo mi parve, almeno, di capirlo per quanto egli fosse su questo argomento, estremamente riservato. Preghiera e sofferenza avvolsero il suo sacerdozio e gli diedero le caratteristiche, delle quali dirò appresso. – I suoi contatti con altri, anche quando avevano la apparenza di contatti culturali, d’ufficio, occasionali – ed era sempre di una comunicativa per nulla pesante – avevano uno scopo sacerdotale. Quante sono le persone che per aver avuto a qualunque titolo un contatto con lui hanno riflettuto, hanno trovata una via, hanno cessato di essere anticlericali …? Non saprei dirlo, perché sono molti e lo deduco dai frammentari accenni che arrivano a me. Tutti quelli che non solo lo hanno accostato, ma lo hanno frequentato, sono diventati migliori. Tutto quello che fece, lo fece da sacerdote. – Egli, don Mino, non ebbe mai impegno di parrocchia: né il suo ufficio, né la sua salute glielo avrebbero permesso. Lavorava moltissimo, sorprendeva anzi per la strana resistenza al lavoro; ma il diagramma delle sue forze non combaciava in genere con gli orari. Il suo sacerdozio lo esercitò anzitutto come segretario mio. Non si trattava di un impegno burocratico, come addetto di un sia pure importante ufficio; per lui tutto era un atto ministeriale. Quanto compiva era sempre un atto di Fede e taluni tratti lo davano chiaramente a vedere. L’Arcivescovo lo vedeva coll’occhio della Fede: fino all’ultimo e nonostante le mie reiterate proteste si alzava rispettosamente in piedi ovunque io entrassi. Mai prese confidenza, quella almeno che fa perdere la riverenza. Ogni suo gesto era educatissimo e fine; il contegno diceva chiaro che egli serviva il Signore, non un uomo. – La segreteria di un Vescovo è sempre un posto pericoloso e questo è tanto vero che spesso i segretari, scomparso il Superiore, finiscono ai margini di tutto. La ragione è che per forza di cose possono trovarsi immischiati nei rapporti tra il Vescovo e gli altri, possono venire sollecitati o creduti in modo inopportuno, devono spesso meditare per lasciare fuori questione il loro Superiore. È insomma un ufficio per il quale occorre virtù e saggezza. Don Mino era la discrezione personificata. Nei tanti anni, nei quali mi fu accanto, mai mi rivolse una domanda per sapere quello che avrei fatto, deciso chi avrei nominato o dei segreti di Curia. Queste cose le sapeva dagli altri. Circondava e tutelava la Autorità con una educazione perfetta, con una finezza e delicatezza esimie, con chiunque trattasse egli sapeva che doveva usare tale umanità e tale cortesia (anche con chi non la usava per lui) da trarne prestigio al Superiore. Era il riserbo in persona: mai si permise di dire agli altri quello che veniva a conoscere per ragioni di ufficio. Tutto questo testimoniava non solo di un controllo continuo, ma – come ho già detto – di un movente soprannaturale. Al suo tatto si debbono molte buone figure fatte dalla Autorità. Sapeva trattare con tutti con bontà e decoro e molti Personaggi si sono rallegrati con me per avere un tale segretario. C’erano i viaggi. – Taluni li dovetti compiere all’estero come Legato Pontificio. Il ruolo del segretario per gli alti contatti che si dovevano avere, diventava allora di una singolare importanza. Fu proprio in occasione della mia prima Legazione Pontificia in Spagna che venne nominato Cameriere Segreto di Sua Santità ed ebbe il titolo di “Monsignore”. Egli riusciva perfetto diplomatico, non solo per lo straordinario possesso delle lingue, ma per la affabilità, la cortesia e la intelligenza. In tale qualità mi accompagnò in Spagna e due volte in Belgio. Fu ammirato anche perché in situazioni simili è estremamente facile compiere dei passi falsi. Dopo la mia assunzione al Cardinalato (12 Gennaio 1953) compresi che dovevo prendere contatto e cognizione diretta degli ambienti internazionali. Cominciai una serie di viaggi attraverso i paesi cattolici d’Europa ed attraverso i Paesi di diaspora cattolica. Era preziosissimo don Mino. Egli possedeva perfettamente, parlando speditamente e scrivendo il Francese, l’Inglese, il Tedesco più il dialetto Svizzero. Ero pertanto libero da tutte le noie del viaggio e mi riuscì sempre di mantenere l’incognito ben necessario a chi va per osservare e studiare. La cosa strana era che quando compivamo tali viaggi, sia perché erano quasi sempre al nord ovest o al nord dell’Europa (e a lui il clima continentale o nordico era favorevole), sia per la eccitazione nervosa delle nuove cose da imparare, stava benissimo e poteva, alternandosi con un altro nostro collaboratore (Barabino? ndr), condurre per lunghi tratti la macchina. Io per lui non avevo il fastidio di compitare lingue e di provvedere. Lui mi faceva trovare tutto fatto. Per i sondaggi in ambienti culturali, lui era il compagno ideale. Per le opere d’arte era un vero maestro, data la sua straordinaria competenza in materia. In Inghilterra qualcuno mi chiese perché io avevo con me un segretario inglese; lui! Risposi che era genovese come me, solo parlava la lingua con tale correttezza da far credere che fosse nato a Londra. Bisogna dire che egli aveva una singolare abilità di parlare le lingue estere col più fedele accento dei diversi Paesi. – Questi viaggi con lui li potevo organizzare in modo razionale: molti mesi prima studiavamo tutto quello che poteva sapersi sulla storia, sulla geografia, sulla letteratura, sul diritto del Paese da visitare. L’incognito ci ha sempre protetto a meraviglia se eccettuiamo uno o due casi nei quali fummo in imbarazzo. Un giorno venni riconosciuto da un sacerdote italiano mentre ce ne andavamo con padre Ferrari alla Camera dei Lords a Londra. Me la cavai con una battuta e tutto finì lì. Certo sarebbe stato imbarazzante un cardinale alla Camera dei Lords. – Per don Mino accompagnare me ad acquistare le notizie od informazioni utili al mio ufficio, era sempre un atto sacerdotale. Il nunzio a Vienna del quale fummo ripetutamente ospiti, il genovese Monsignor Dellepiane, era entusiasta del mio Segretario. Anche l’Uditore (agente diplomatico facente parte della Nunziatura ndr); che, diventato a sua volta Delegato Apostolico in Indonesia, precedette di parecchi anni nella tomba don Mino. Come segretario, nel trattare cogli altri, era di una signorilità mai smentita. Credo che molta carità fatta da lui sia nota solo a Dio. Quando nel 1953 venne con noi don Giacomo Barabino (prima volta che lo nomina esplicitamente, peraltro con evidente scarso entusiasmo), per aiutarci e per sostituire don Mino nell’accompagnarmi e nei contatti ordinari, tutto rimase sereno, direi luminoso: la casa arcivescovile fu una vera famiglia. Fino al 1966 il faro della casa restò mio Padre, della cui virtù scriverò a parte; egli amò i miei segretari come figli e ne era riamato. Dopo cena, salvo i frequenti casi nei quali dovevo uscire per ragioni pastorali o dovevo ricevere gente, si stava qualche tempo tutti insieme e quello era l’unico momento di riposo che ci si concedeva dopo le dure e lunghe giornate di lavoro. Le ombre che facilmente sorgevano dai casi della giornata in quel momento, tra tanta serenità si dissipavano. Credo che sia difficile dire che cosa sia stata questa famiglia la quale comprendeva, allo stesso modo, me, mio padre, i collaboratori, chi stava in cucina, chi guidava la macchina. La carità e la serenità giuliva del mio segretario, unita alla singolare presenza di mio padre, (di Barabino non scrive nulla di particolare) hanno creato uno stile, che anche dopo i vuoti tristissimi dura, come se niente fosse accaduto. – L’altro campo della attività sacerdotale di don Mino era la scuola. La fece per molti anni in una o due sezioni, coll’insegnamento della religione al Doria. Negli ultimi anni la lasciò perché troppo onerosa per la sua salute e dati gli altri impegni; fino alla morte invece tenne la cattedra di Arte in Seminario, per la (facoltà di) Teologia. – Per la scuola al Doria, trascrivo qui, quello che scrive uno dei suoi alunni ben certo che interpreta il pensiero di quanti lo ebbero maestro. “Era amico, grandissimo e vero amico e – ciò che più conta – non solo verso le persone che gli volevano bene, applicando così alla lettera l’insegnamento evangelico. Ascoltava tutti, confortava tutti, incoraggiava tutti a guardare con fiducia il giorno seguente. A fondamento di questa sua grande disponibilità verso gli uomini, c’era la sua Fede piena illimitata, illuminata da un pensiero chiarissimo. Essa lo univa a Dio e gli permetteva di vedere negli uomini null’altro che creature Sue, bisognose di comprensione, desiderose di umanità di dignità di verità. Credeva nei suoi studenti liceali, universitari e di tutti esaltava le doti, gli aspetti positivi, mettendo sempre in secondo piano debolezze, mancanze ed altro”. E ancora: “Durante i giorni, che ho vissuto con lui sulle montagne … imparavo sempre cose nuove; mi rendevo conto che ogni minuto trascorso con don Mino era una lezione a livello della Grazia … Per don Mino, animo finissimo, non esisteva il bello fine a se stesso, ma bellezza, armonia, ordine, sintonia, purezza erano doni di Dio a disposizione degli uomini per loro sollievo ed elevazione”. – Ed ancora un ricordo della montagna cuneese: “Partiti da San Giacomo dal sentiero che si stacca dietro la casa di caccia e conduce ai due “gias Colomb”, di qua salimmo per il lago del “Vei del Buc”. Sotto un temporale con tuoni, fulmini e grandine, arrivammo al lago. Entrammo ad asciugarci in un ricovero di pastori, dove c’era un po’ di fuoco, gli levai gli scarponi inzuppati, lo guardai: era felice, con gli occhi radiosi più del solito. In quel momento, per essere arrivato fin lassù, doveva aver capito che poteva dare ancora molto di se stesso …” – Un antico scolaro di don Mino scrive: “ È stato l’unico insegnante del Liceo, che mi abbia lasciato un’impronta. Le doti, che in classe venivano messe più in luce erano la sua serenità, la sua umiltà e la sua scienza. Non ho mai visto Monsignore perdere anche per un solo istante il suo equilibrio; era fermo nei suoi propositi, ma sapeva anche ascoltare e comprendere noi giovani alunni come se avesse potuto scrutare fino in fondo nel nostro animo … Andava sempre al fondo agli argomenti da trattare, ma ci dava la impressione di aver raggiunto noi le conclusioni che ci porgeva. Ci stupiva la sua capacità di assimilare le questioni più disparate e di porgerci risposte chiare e brevi che non lasciavano ombra di dubbio. Aveva una grande erudizione ed una ancor maggiore capacità di far vivere le cose che ci diceva. Ma forse per una dote si distingueva da tutti gli altri …: era l’unico veramente rispettato ed amato, che con la sua stessa presenza ci imponeva una rigida disciplina. – È stato lui il primo insegnante che mi abbia portato ad amare lo studio ed apprendere con umiltà … Era un vero e proprio maestro, colui che trascina con la propria personalità e che non può essere dimenticato da chi lo abbia conosciuto, perché ci ha dato un esempio concreto di quanto si possa e si debba fare”; conosco molti altri compagni suoi ed alunni suoi, che dicono queste cose. Il segreto della scuola? Credo che fosse la sua anima, abitualmente unita a Dio, spoglia di ogni umano interesse e la luminosità interiore che riusciva a mantenere nonostante la prova del dolore e della debolezza continua. Certo in scuola conta l’ingegno e lui l’ebbe, come poche volte ho trovato nella mia vita; si trattava di una intelligenza apertissima, pacata, sicura, nata per la sintesi. I suoi giudizi in materia di pensiero mi hanno spesso meravigliato per la intuizione e per l’equilibrio. Tuttavia questa intelligenza non era sola. Ho trovato pochi uomini, che avessero una cultura varia ed universale come la sua. Non si esibiva mai, ma sosteneva sempre con personaggi di alta cultura una conversazione degna, ferma, illuminante. Quelli che hanno partecipato alle tavole rotonde, guidate da lui, in materia di arte, di scienza e di pensiero lo sapevano bene. Ma la cosa più grande per lui, quella che gli altri intuivano, era che lui insegnava per amore, quello di Dio. Senza una visione della costante altezza di sacrificio e di intenzione dell’anima sua è impossibile spiegare la sua scuola di religione. E le basi messe da lui, in genere resistono. Tutti vedevano che questo giovane sacerdote non aveva nemici, antipatici, avversari. Non che non ne abbia avuti, ma tutto cadeva e svaniva dinanzi alla serenità virtuosa dell’anima sua. – C’era la scuola di arte in teologia. La fece per lunghi anni. Ne fu il fondatore ed ancor oggi non è stato sostituito. Egli aveva in arte una competenza, una cultura ed un discernimento che lo fecero stimare da quanti professionisti ed artisti ebbero a fare con lui nell’ufficio curiale di arte. Per l’arte aveva una predisposizione marcatissima e congeniale. La sua sensibilità estrema gli faceva cogliere con semplicità e naturalezza quello che a molti sfuggiva. Insegnare il criterio, infondere il gusto, svegliare le recondite affinità col bello che gli alunni portavano in sé, gli era facile e quasi immediato. – A questo punto devo soffermarmi, perché una parte non indifferente del suo studio in materia era sul problema filosofico, connesso con l’arte, sulla estetica, sulla teoria del bello. La sua biblioteca d’arte testimonia fin dove sia andato a scovare opere di penetrazione, di valutazione critica, di teoria generale. Egli non poteva concepire l’arte separata dalla filosofia e vedeva nella carenza di obbiettivi principi filosofici le colpe, anche in buona fede di molti artisti alla moda. Sotto questo aspetto la sua cultura, favorita dal pieno possesso delle lingue estere, fu tale che io non ne ho conosciuto una di pari valore. Ho insistito per molti anni perché raccogliesse tutta la fondamentale teoria dell’arte e del gusto in un volume. La sua modestia lo rese sempre attento a non mettersi in mostra ed oggi ci rimane solo la speranza di poter reperire e sistemare le sue carte in modo da stampare, almeno, le sue lezioni. – Egli spaziava da signore su tutti i campi dell’arte, era sensibilissimo alla musica, aveva una stupefacente memoria musicale: per lui l’arte non era una semplice imitazione od espressione, era una vita che assommava tutto. Credo avesse ragione. Per questo mai in arte apparve come il piccolo grammatico dei termini, delle distinzioni, delle catalogazioni; per questo capì fin dove non diventa pazza tutta l’arte moderna. – Credo che se tutto il clero da vent’anni a questa parte ha un gusto più elaborato, lo si debba alla scuola d’arte del seminario fatta da don Mino. La considerazione dell’arte dà un tocco inconfondibile ed insieme rivelatore alla figura di questo sacerdote, perché in fin dei conti la sua inimitabile finezza, la sua educazione, il suo sorriso nel dolore non sono comprensibili affatto senza la presenza di una Suprema Armonia che gli diede fermezza di Fede ed ardore di carità. Noi tutti avevamo la impressione che il suo piano fosse sempre in alto. – Un campo speciale del sacerdozio di don Mino fu la Delegazione Arcivescovile Universitaria della quale fu il primo esecutore ed il primo Delegato. L’Università di Genova, per quanto in qualche settore permeata dalla presenza e dalla azione di buoni studenti cattolici, non aveva una cura spirituale generale, appropriata e diretta. D’altra parte ne era evidente il bisogno: oggi la evidenza è certamente cresciuta. Non si poteva creare una parrocchia della università, perché la grande dislocazione delle facoltà non permetteva una giurisdizione parrocchiale continua, né un solo sacerdote, anche se a tempo pieno coadiuvato da un cooperatore poteva essere sufficiente ai bisogni di una massa, che s’avvicina ormai ai ventimila. Fu così che decisi di istituire una Delegazione Arcivescovile con tutti i poteri e che potesse servirsi dell’opera di numerosi sacerdoti adatti, anche a tempo non pieno. I membri di questa delegazione per evitare questioni giurisdizionali, furono chiamati semplicemente “addetti alla assistenza spirituale degli universitari”. Altri sacerdoti furono aggregati in qualità di “ausiliari”; altri, per la competenza, in qualità di consulenti. Per cementare questo drappello di studio, sull’esempio dell’altro gruppo interessato ai lavoratori, c’era il convegno settimanale del Giovedì nella Segreteria Arcivescovile. Là si studiava, si pregava, si organizzava. Tutto è duro all’inizio. Il peso lo portò tutto don Mino fino alla vigilia della morte. Il suo pensiero era lì. È ovvio che una istituzione simile fosse ritenuta alquanto rivoluzionaria del quieto vivere di tradizioni antiche e di tale stato d’animo si provassero le conseguenze. I colloqui, gli incontri, le ore di conversazione che occuparono il tempo di questo sacerdote sofferente non si possono dire. Certo la sua resistenza, la sua tenacia e la sua pazienza furono in tutto questo eroiche. A me non disse mai male di nessuno – del resto, di chi mai ha detto male questo uomo? – . Per non turbarmi, specialmente in momenti nei quali la mia salute era dolorosamente provata, prospettò sempre quello che era oggetto di gioia e di speranza, senza tentennamenti. Gli era vicino e conforto il buon padre Alberto Boldorini, Barnabita. Tutto il peso lo teneva per sé. Io vedevo e rispettavo il merito della sua virtù. La Delegazione o DAU diventò il centro motore di talune iniziative culturali. Tra queste mi piace annoverare la iniziativa editoriale “Fonti e studi”, che pubblicò documenti originali e studi severi su aspetti interessanti la Storia Ecclesiastica di Genova. Vi collaboravano anzi dirigevano egregi docenti universitari: l’anima con don Mino era il padre Alberto Boldorini. Queste edizioni ebbero dei singolari consensi in Italia ed all’estero. – C’erano le tavole rotonde. Gli elementi della prima e forse della seconda tavola rotonda erano stati raccolti ed animati da un altro benemerito sacerdote. Ma la cosa si affermò splendidamente quando Mino assunse anche questa non comune fatica. Le tavole rotonde radunavano dei competenti su un argomento (urbanistica, arte, scienza, Fede, etc.); i componenti erano pochi, ma il risultato notevolissimo, tanto che mi parve uno degli strumenti più atti all’apostolato di livello. Il nostro intendimento era di arrivare un giorno a stampare gli elaborati di queste tavole rotonde, delle quali mi auguro la resurrezione. Molte volte finivano oltre la mezzanotte ed io non mi accorgevo neppure del ritorno di don Mino. Pensavamo ad una nostra casa editrice, che potrò realizzare quando troverò uomini competenti, disponibili da altri impegni ed obbedienti al pari di Lui. – Il suo apostolato si dilatava in tutte le direzioni, mentre egli stava sempre nella oscurità ed aumentava il peso dei suoi incontri, delle sue conversazioni. Non posso dimenticare che nei primi anni del mio Governo lo volli direttore dell’Opera Giosuè Signori, detta allora “per deficienti e abbandonate”. In seguito alla sua salute dimostrò che non poteva esercitare una tale direzione a distanza e che non la si poteva far combaciare coi suoi possibili orari. Ne lo dispensai con rimpianto, perché la cura di quelle creature l’avevo tenuta io fino alla mia nomina di Arcivescovo, avendola cominciata – me giovanissimo – nell’autunno del 1929. – Questo sacerdozio era illuminato da una pressoché continua preghiera ed era caldo di una intensa carità. Della sua carità ci ha celato tutto quello che ha potuto celare. Ora nelle narrazioni dei molti che lo piangono andiamo lentamente riscoprendo un aspetto, che prima dovevamo solo intuire e ricostruire da casuali elementi. Vi portava una semplicità ed una finezza commovente. – Il sacerdozio di don Mino ha lasciato un singolare rimpianto. La sua finezza aveva risorse commoventi per tutti. Dico per tutti, perché non fece mai differenza tra quelli che lo trattavano bene e quelli che – forse – lo trattavano male. Mai aggressivo, mai reattivo, mai vendicativo: la sua finezza era per tutti. Una luce interiore lo avvolgeva sempre e lontana da ogni discriminazione. Quanti hanno visto arrivare al momento giusto il piccolo dono, la cartolina, la rapida lettera. Fece tante cose, ma come se una regia liturgica lo sovrastasse; fece tutto in ordine al suo sacerdozio. – E questo fece mai pesare a nessuno. Esistono molti che oggi lo rivedono stupiti, in se stessi, come se fosse passato senza fare rumore.

LA INTELLIGENZA

Tutto in don Mino parve qualificato. Una componente era la sua intelligenza Non credo che questo semplice profilo sarebbe sommariamente completo se non la considerassi a parte. Era una intelligenza che voleva la ragione delle cose. Lo constatai subito quando era studente al Doria. Non si accontentava mai della piccola giustificazione di una verità e di un fatto. È per questo che diede basi granitiche alla sua Fede. Ci arrivò presto. Su tutto indagò e discusse, assetato della verità. Ma sulla verità certa, mai tornò indietro. Quando si iniziò per la Chiesa un periodo triste di discussioni e negazioni sulle cose certe, egli vide tutto, sentì tutti, ma non seguì nessun facile profeta. Chi parlava con lui finiva coll’avere – in quasi tutti i casi – (non in tutti purtroppo) la sua certezza irradiante. Era una intelligenza che conduceva diritto alle supreme giustificazioni. E qui sta la ragione della sua sicurezza. Io in questo periodo oscuro ebbi molte e gravi preoccupazioni per gli errori che si andavano insinuando, ma non ebbi mai bisogno di trattarne con lui; egli era già al mio fianco con una intuizione precisa e concludente. Tutte le questioni, anche le più periferiche, con lui o prima o poi risalivano – e spesso si trattava di un baleno – ai supremi principi. Vedeva immediatamente col colpo del maestro le crepe, le illogicità, le contraddizioni, le dispersioni. E sapeva convincere. – La intelligenza di don Mino non cercava la platea. Non ho mai vista la più piccola ricerca dell’effetto, né la più piccola compiacenza di esso quando, indipendentemente da lui, l’effetto c’era. Infatti la conoscenza di lui si diffondeva tranquilla, senza colpi e reazioni. Ho conosciuto pochi che avessero come lui chiara la situazione della cultura moderna, nella cui storia, specialmente se si trattava di arte, egli leggeva sempre la vicenda dei supremi principi. Leggeva moltissimo, ricordava, assimilava ed incasellava subito tutto il puro materiale nozionale. Per questo la conversazione con lui, oltreché piacevole, era sempre illuminante. – Aveva il gusto della letteratura finissimo, era un purista della lingua e dello stile. La ridondanza di questa intelligenza la sentivano sempre e la accoglievano quelli che avevano dimestichezza con lui o con lui vivevano, i suoi scolari soprattutto. Con tutto questo niente c’era in lui dell’intellettualoide (tipo oggi di estrema facilità), il senso pratico non gli fu mai offuscato. Teneva la amministrazione della casa e questo con perfetta accortezza, immediatezza e tatto; nei viaggi io potevo occuparmi di nulla ed attendere solamente allo scopo del viaggio stesso, perché tutto si moveva colla esattezza di un orologio per la organizzazione fatta da lui. – Aveva capacità anche nel disegno e nella pittura. Vi si esercitò in anni lontani e non ignobilmente. Poi non ne fece più nulla; non disse il perché, ma credo che ciò sia accaduto per un suo giudizio di inutilità in ordine al suo ministero sacerdotale. Aveva altro da fare. – Spaziava nei grandi problemi della Chiesa; erano gli unici che potessero interessare. Dalla grandezza di questi problemi e dal modo con cui li impostava si capiva l’altezza del suo ingegno. Spesso, quasi sempre, è l’oggetto trattato dall’intelletto che dà la vera misura del vero intelletto. Mi riesce difficile dire che cosa abbia rappresentato per me, in tempi di vero travaglio, la vicinanza di questa autentica intelligenza. Non gli sfuggivano i dettagli anzi aveva l’occhio di lince per vederli; ma prevaleva l’“insieme”. Per forza della intelligenza, da parte di tutti, il contatto con lui era sempre elevato. Egli era l’autentico “signore” per la sua intelligenza.

LA MONTAGNA

Ne parlo perché era lo specchio dell’anima sua. Ho già ricordato che da ragazzo decenne, ospite dello zio paterno a Cortina d’Ampezzo, ebbe il coraggio di girarsi ripetutamente tutte le alpi ampezzane. Solo. La forza, la linea, la maestà della montagna lo attraevano e lo esaltavano. A poco a poco questo diventò sempre più marcatamente un fatto spirituale. Lo si capiva dal fatto che egli in montagna non aveva alcun bisogno di compagnia. Non che la sopportasse; anzi era un compagno amabilissimo, ma cogli altri in realtà continuava il suo dialogo della montagna. Esultava per la purezza dell’aria, per l’irrompere della natura senza conduzione umana, per il vero silenzio, il più ricco in realtà di arcane melodie. Sono convinto che, specialmente negli ultimi anni, il suo appassionato errare per la montagna fosse fatto di contemplazione e di orazione. Non si trattava di una commozione naturalistica; egli trovava la più pura impronta materiale di Dio. La montagna aveva un potere magico su di lui; svanivano per incanto tutti i limiti impostigli dal suo travagliato sistema nervoso. Per questo lo incitavo ad andare anche quando noi si stava a Genova. Gli orizzonti, i colori, le trasparenze lo mandavano in visibilio e gli facevano dimenticare ogni malanno. Filosoficamente egli era ben certo che “ens et pulchrum convertuntur”. La bellezza della natura non cessava mai di agire su di lui, ma si trattava sempre di un influsso religioso. Se amava la fotografia, questo era certo per fissare volti cari di parenti e di amici, ma era soprattutto per fissare la epopea della montagna. Non aveva importanza per lui che fosse irritata, che fosse percossa dai tuoni e dai lampi: era la montagna e basta. Negli anni in cui si fecero le vacanze nel cuneese, la sua attrattiva era Entraque e di lì la valle di San Giacomo, che lo portava fino ad oltre il padiglione reale di caccia, perché quella valle aveva il Gelas e il Clapier, i soli monti delle Alpi Marittime che conservino veri perenni e consistenti ghiacciai. Ne conosceva i sentieri, i pastori, gli abitanti. Penso che lassù qualcuno lo ricorderà a lungo. Si preoccupava della cioccolata da portare agli amici pastori e credo che se non fosse stato per lasciare noi, lui si sarebbe adattato a viversene lassù, nelle baite. Del resto in quegli intervalli, in cui lui tornava e noi eravamo a Genova, era sempre lassù. – Dopo il primo periodo delle sue sofferenze, fu la Svizzera a dargli una relativa stabilità di salute. La amava ed amava soprattutto i monti. Se poteva raggiungeva i monti sopra Lauterbrunnen – le due meravigliose quinte davanti alle alpi bernesi – per godere della Jungfrau e di tutto il grande ammanto di ghiaccio. Conosceva tutto e finché anch’io per ragioni di quiete ho passato le mie povere vacanze in Svizzera, era lui ad organizzare una meravigliosa varietà con conoscenze perennemente nuove ed entusiasmanti. Io mi occupavo piuttosto di imparare le situazioni e le risorse dei contadini svizzeri, nella vaga e mai soddisfatta speranza di trapiantare qualcosa in Italia: lui vedeva i laghi, i fiumi, i monti. Ricordo una escursione per vedere il gruppo del Silvretta davanti a Davos, coll’attraversamento piuttosto periglioso date le misere condizioni della strada, dell’orrido di Berentritt. Le ultime sue uscite verso la montagna furono ancora una volta nella valle di San Giacomo verso il Gelas e il Clapier. Era felice perché suo cognato e sua sorella nell’assicurarsi un alloggio ad Entraque, avevano pensato a lui riservandogli una stanza. In tal modo egli senza uscire dal caldo ambiente familiare avrebbe potuto facilmente ritirarsi lassù di quando in quando. Purtroppo ne usufruì, come vedremo, una volta solo.

LA MORTE

Don Mino l’attendeva con una certa sollecitudine. Eppure era tranquillo. Me lo aveva detto due anni prima che lui sarebbe morto giovane. Era ormai arrivato al suo meriggio, sofferente e sereno. Io avevo la impressione che tutte le cose di questo mondo, dolori compresi, si fossero ormai distesi in una grande pace. La sua finezza educatissima per noi era commovente. – Lui aveva la cura di amministrare la casa Arcivescovile e questo ufficio comportava i contatti e la cura spirituale delle buone suore, che attendono alla Casa stessa. Vi era assiduo, impegnato; vi portava una gran luce. Quella luminosità serena mi impressionava. Lo trovavo facilmente nella Cappella del Righi, curvo e raccolto in quell’atteggiamento di abbandono che gli era caratteristico. Ora che ho la prospettiva del “poi” capisco che la Provvidenza se lo stava preparando. – Nel Gennaio del 1969 fu colpito dalla influenza. Non c’era alcunché di strano, perché egli era abbonato a tutti i fastidi, che le stagioni portavano con sé. Fece ricaduta e questa fu più lunga del solito. Il Dott. Boggero, suo cognato e suo medico curante, per garantirgli una reale e duratura guarigione pensò di ricorrere alle iniezioni di vaccino. Durarono parecchi mesi, anche dopo la salute recuperata, sotto questo aspetto, pienamente. La vita fluì in modo ordinario. Quando il 3 Giugno di quell’anno egli celebrò il suo giubileo sacerdotale d’argento, stava abbastanza bene rispetto agli anni precedenti. Tutto si chiuse colla celebrazione vespertina nella Cappella del Palazzo Arcivescovile. Erano presenti i suoi amati genitori, la famiglia della sorella coi nipoti; c’eravamo tutti noi. Fu una festa semplice, indimenticabile. Non mancava un gruppo di antichi suoi compagni ed amici. Subito dopo ci trasferimmo alla casa Arcivescovile del Righi. Lui non avrebbe fatto più ritorno al Palazzo Arcivescovile! Le vacanze passarono in modo normale. Don Mino poté ritornare a Peveragno a godersi qualche giorno la montagna. Si arrivò ai Santi. Egli accompagnò la sorella alcuni giorni a riposarsi nella casa di Entraque e subito dopo riprese la vita ordinaria. Si occupava fortemente della organizzazione di quanto gli era affidato. Ma fu questione di pochi giorni: l’influenza lo aggredì nuovamente. Stette alcuni giorni a letto, sempre amorosamente curato dal cognato dottore. Dopo pochi giorni era sfebbrato e tutto parve ritornato alla normalità. Egli riprese la sua consuetudine di portarsi di buon mattino dal Righi sulle alture di Genova, per godere dell’aria pura e fresca: era il fascino della montagna, che aveva sempre un benefico influsso anche sul suo usurato sistema nervoso. Penso che queste uscite mattutine, a lui sì care, abbiano provocato la ricaduta. Si era infatti a metà novembre e cominciava a far freddo. – Alla metà di novembre si rimise a letto e questa volta la febbre venne alta e violenta. Suo cognato lo curava amorevolmente. Eravamo ancora alla villa Arcivescovile del Righi dove egli occupava il piano a tetto. Ci stava lui solo, se lo era arredato e disposto lui, là stava la sua non comune biblioteca. Dalla finestra più che la città vedeva il mare, l’infinito. Noi salivamo lassù solo quando era malato. Era sempre tranquillo, sempre sorridente, grato di qualsivoglia attenzione. Questa volta il male era più serio. Il giovedì 20 Novembre il Dott. Boggero chiese il consulto col Prof. Meneghini. Lo chiamai io stesso al telefono, perché la influenza imperversava in tutta la casa ed io solo ero stato immune dalla influenza. Venne subito; era sera. Il consulto confermava la grande preoccupazione. Quella sera don Mino cominciò ad essere davanti alla morte. Era calmo. Soffriva molto per l’affanno, che facilmente lo coglieva, se qualche poco si sollevava sul letto o scendeva, dopo poco aveva sintomi di collasso. Venne la Suora per l’assistenza anche notturna. Parlava sereno e tranquillo con tutti e sorrideva a tutti. Si capiva che la sua occupazione abituale era la preghiera. In quella malattia breve abbiamo vista veramente l’anima di Mino. La sua finezza, la sua educazione, il suo perfetto equilibrio, la sua pace davanti ad un pericolo che, colla sua intelligenza prontissima, doveva certo capire più di noi. Il preoccuparsi degli altri, il ringraziare per tutto quello in cui lo si aiutava, il suo ragionar tranquillo e sereno dimostrava che da molti anni egli era unito a Dio. Non aveva mai detto male di nessuno, non aveva partecipato a nessuna passione faziosa, aveva coperto il difetto altrui anche quando questo lo faceva terribilmente soffrire. Se l’argomento portava a parlare di aspetti spiacevoli, questi si fondevano sempre in una carità senza limite, mai ostentata e mai pesante. In questi ultimi giorni abbiamo capito il riassunto della sua vita. – Aveva vissuto di Fede, continuamente, mai aveva cercato di apparire, lui, al quale erano tormento per lo stato dei nervi il più piccolo sgarbo, mai se ne era commosso. Si stava accendendo, anche per noi una luce retrospettiva, fatta di cose che una umiltà non comune aveva sempre accuratamente nascosto. È difficile dire quanto amasse suo Padre e sua Madre, la famiglia della sua cara sorella, ma, per non disturbarli e impressionarli ebbe l’eroismo di non chiederne la presenza. Io ero cieco e non pensavo che potesse morire. Lui vedeva. Si arrivò così alla mattina del 24 Novembre. Era un lunedì. Quella mattina salii a salutarlo ancora, prima di andare in Curia: l’affanno era fortissimo (mai lo avevo trovato così) e doveva parlarmi a tratti, sempre calmo e sereno. Quella mattina il Prof. Meneghini chiese la consulenza del Prof. Fieschi. È difficile dire come e con quale affetto questi medici illustri lottarono contro il male. Si trattava di polmonite doppia virale. Fu deciso l’immediato ricovero in clinica. Il Prof. Fieschi chiese in quale clinica volesse andare; egli rispose: “In quella che è più comoda a Lei”. Venne così ricoverato alla clinica di Montallegro. Io ero in arcivescovado per le solite udienze e venni avvertito. Fu un colpo. Subito nel pomeriggio andai a Montallegro, lo trovai sotto la tenda ad ossigeno, più sollevato di quella mattina. Mi chiese: “Ma che cosa dicono che ho, i medici?” Io fui interdetto e risposi con una pia scusa. Capì subito: per un attimo seguì e lesse il mio pensiero, poi evidentemente per non contrariarmi chiese più nulla e continuò a parlare per quanto poteva tranquillamente sorridendo. So che al Padre Cappellano della clinica disse poco dopo: “Non mi lascerete morire senza Sacramenti”. Ci avevo pensato subito ed avevo pregato il Padre Damaso da Celle di amministrargli i Santi Sacramenti. Andò, lo avvertì ed egli non si mostrò affatto sorpreso. Con tranquillità e serenità, con intima devozione ricevette i Santi Sacramenti. Io non riuscivo a persuadermi che il pericolo era veramente mortale, ciò nonostante volli fosse subito provveduto. Ritornai in clinica. C’era allarme tra i medici e venne richiesto il polmone artificiale per permettere al paziente di poter respirare senza troppa fatica. Non so come abbia fatto, ma, Padre Damaso riuscì a far arrivare il polmone artificiale dalla Clinica universitaria. Naturalmente si dovette procedere alla intubazione e da quel momento non passando più l’aria espirata per la gola, il paziente non poté più parlare. Le labbra e la lingua articolavano tutto ma la fonazione, mancando l’aria, non avveniva. Egli continuò a parlare così e a sorridere, sempre perfettamente presente a se stesso; per noi era uno strazio. Ogni mattina si facevano le radiografie. Esse rivelavano che l’area di respirazione dei polmoni si andava progressivamente restringendo per la spaventosa infiltrazione del virus violentissimo. Avrei dovuto capire che moriva, ma io non lo volli capire e continuavo a sperare. Lui sorrideva sempre. Al mattino del mercoledì 26 i medici decisero, per un tentativo disperato, di procedere alla tracheotomia. La lotta era tra il ciclo del virus e le risorse vitali. Se il ciclo del virus si fosse esaurito prima delle risorse vitali, sarebbe stato salvo. Io per questo continuavo fortemente a sperare. Ma, come mi fu spiegato dopo, don Mino non aveva risorse immunitarie sufficienti: ci fosse stato almeno un po’ di essudato polmonare si sarebbe potuto fare la cultura del virus e la vaccinazione (l’unica arma contro quel virus); ma essudato non c’era o non ci fu in tempo utile. Lo rividi dunque col respiratore direttamente applicato alla gola tagliata. Mi parlò a segni delle labbra, che io, stravolto come ero, non potevo capire; ma sorrideva e questo era nella piena coscienza e lucidità, testimone della pace e uniformità alla volontà di Dio, colle quali egli andava incontro alla morte. Gli amici più stretti, il cognato medico, si avvicendavano intorno a Lui, il Padre Damaso, il Padre Boldorini. Nella notte ebbe una agitazione nervosa effetto evidente della asfissia galoppante. Gli fu fatta una iniezione. Si assopì, non rinvenne più e cessò colla coscienza il sorriso. – Al mattino del giovedì 27 fu fatta l’ultima radiografia ed i polmoni apparvero completamente presi. Mi venne immediatamente riferito, ma io impenitentemente continuai a sperare. Fu verso mezzogiorno che mi venne data la terribile notizia. Mino era spirato senza riprendere conoscenza alle dodici meno dieci. Era presente il suo devoto cognato Dott. Boggero e proprio in quel momento sopraggiungeva Padre Boldorini. Diedi ordine che la cara salma venisse immediatamente trasportata e composta nel salone dell’Arcivescovado. Fu così che rividi don Mino morto, rivestito dei sacri paramenti e della casula nel salone poco dopo. Sorrideva ancora. Il concorso del Clero, dei molti scolari, condiscepoli ed amici, per visitare la salma fu imponente e si può veramente dire segnato dal pianto. Arrivarono i suoi genitori. Fu uno strazio: essi erano stati fidenti fino all’ultimo momento. Tutti capivano che avevamo perduto un uomo per nulla comune. I funerali li celebrai io nella Chiesa Metropolitana. Con me concelebrarono i sacerdoti membri della famiglia arcivescovile: Mons. Luigi Cuneo, don Alfredo Capurro Cerimoniere, don Giacomo Barabino segretario. Non invitate, spontaneamente vennero le Autorità. Noi non avevamo fatto l’invito per discrezione. La folla fu grande, la commozione intensa. Io non ebbi la forza di parlare ed il silenzio fu assai più eloquente. I Genitori di Lui, la sorella colla famiglia furono oggetto di una attenzione commossa e affettuosa. Chiesi al Padre di poterlo seppellire nel cimitero di Molare, vicino ai suoi nonni. Del resto Lui, in vita aveva fatto chiaramente capire che desiderava là il luogo del suo riposo. Là aveva trascorse tutte le sue vacanze giovanili, là aveva i ricordi più cari, là avevano vissuto e lavorato i suoi nonni, gli antenati; là restavano parenti. Così il vecchio paese lo riabbracciò e lo tenne con sé. Nella attesa di una sistemazione più acconcia e da Lui sognata, la salma riposa ora in loculo che guarda verso mezzogiorno, verso il sole. Sulla lapide è scritto solo così: Mons. Bartolomeo Pesce. Per XXIII anni segretario dell’Arcivescovado di Genova. 1921 – 1969. – Tutti noi abbiamo la impressione che ci segua dovunque e che ci protegga dal Cielo. Ci volgiamo indietro a guardarlo nel suo insieme. – Era alto di statura, slanciato, la pelle bianca, di capelli neri. I suoi occhi di colore castano avevano una straordinaria capacità di rivelare i sentimenti dell’anima e, per questo, i rapporti di tutti con Lui erano facili, immediati e tendevano a diventare profondi. Guidò nello spirito anime giovanili e tutti i suoi antichi discepoli del Doria portano e porteranno con sé la impronta di una profondità, onestà e serietà cristiane, quale da lui ebbero. I suoi condiscepoli lo riguardarono come un maestro ed era per loro un punto di incontro come se non fossero passati gli anni. I confratelli lo sentirono passare accanto a loro umile, sincero, sempre pronto a tenersi in disparte e ad essere amico servizievole. Nessuno mai si accorse esternamente che era il Segretario del Cardinale Arcivescovo di Genova. Stava alle mie spalle e vi si nascondeva. Mai pesò su nessuno. – Portava con sé la sua pena procuratagli costantemente dal suo sistema neuro vegetativo. Questa pena la nascondeva quanto poteva e per gli altri serbava in qualunque momento la giovialità che ha consolato molti. Quando tutti noi (notare il “tutti noi”) si aveva qualche rompicapo si andava da Lui. Allora si raccoglieva, pensava qualche secondo, poi rispondeva, risolveva, incoraggiava, infondeva la gioia. La sua virtù, il suo spirito di orazione che fu in un certo senso continuamente in atto, non erano affatto comuni. Non disse male di alcuno, cercò di capire tutti, fece quanto poté per risparmiare dolori agli altri, o per dirottarne il duro colpo. Ho sentito il dovere di scrivere queste poche pagine, perché molti le hanno invocate e perché molti hanno ancora bisogno di Lui! Rimane un esempio.

 

Omeopatia e Chiesa Cattolica (vera)!

La diversità di opinioni tra i cultori dell’Omeopatia ed i suoi detrattori fin dall’inizio della diffusione del metodo omeopatico, era rimasta confinata sul piano della clinica medica, della ricerca sperimentale, dei risultati terapeutici, delle possibili teorie che possono spiegare i meccanismi di azione, [dall’effetto inverso di Arndt-Schultz, cardine della farmacologia classica, ai salti quantici con emissioni frequenziali, all’informazione dell’acqua, dalla struttura molecolare dell’acqua del Prof. Del Giudice, alla emissione coerente di biofotoni sec F. A. Popp, agli studi dei fisici sovietici, etc. etc.], e le diatribe restavano comunque nell’ambito squisitamente scientifico e delle conoscenze di chimica, fisica, fisiologia medica, farmacologia. Negli ultimi anni, però, una serie di “piccoli scienziati” improvvisati ed infervorati da uno zelo esorcistico antiesoterico di stampo modernista pseudo cattolico [decisamente settario, come l’attuale apostatica falsa “chiesa dell’uomo” postconciliare Vat. II], si è scalmanata nel voler vedere la pagliuzza nell’occhio dell’avversario [non avvedendosi delle travi nei propri], accusando cioè l’omeopatia ed i professionisti che in tutto il mondo la praticano, di costituire una magia moderna l’una, e dei rozzi operatori dell’occulto gli altri, solo perché non ne comprendono principi, metodologia clinica, ed ignorano completamente le ricerche effettuate da professionisti e società mediche di serietà conclamata, in questo essendo sostenuti dai “nemici di Dio e di tutti gli uomini”, che quando scorgono qualcosa che possa aiutare l’umanità sofferente, si scagliano contro di essa con inaudita violenza. Questi nuovi “asini” moderni [senza offesa per gli asini!], non sapendo a cosa appigliarsi per denigrare un metodo terapeutico dai risultati innegabili, forse il primo in assoluto che si sia dato un assetto scientifico con i cosiddetti “proving”, cioè con il testare i possibili rimedi su soggetti sani, riportandone minuziosamente e scrupolosamente [in certi casi anche maniacali] i risultati, hanno iniziato a dire che i rimedi vengono preparati con metodiche nientemeno che … “esoteriche”, con interventi magici, e direttamente ispirati dal demonio in persona, che poi favorirebbe i risultati evidenti che si ottengono [un po’ come dire che l’aspirina ottiene dei risultati perché preparata con la polvere delle ossa dei morti!]. In questo sono appoggiati da fantasmagorici personaggi di pretesa appartenenza al corpo ecclesiastico cattolico, quasi (togliamo il quasi… ) sempre “falsi” preti mai tonsurati e quindi mai validamente consacrati, o vescovi apostati [gli eletti manichei del rito blasfemo montiniano], ed al servizio del “signore dell’universo”, cioè il lucifero-baphomet adorato nelle logge massoniche ed oggi purtroppo anche nei riti quotidiani, di sapore rosacrociano, che hanno soppiantato la santa Messa cattolica di sempre. Ora con questi personaggi, che definire “ignoranti” sarebbe per essi un onore ed un elogio eccessivo, non vogliamo parlare di cose scientifiche, visto che il loro livello è presso a poco quello della scuola dell’infanzia (senza offesa per i bambini … ), ma a causa dei tanti poveri pazienti sedicenti cattolici, ingannati e spaventati dalle terroristiche pubblicazioni che mettono in guardia dal rivolgersi all’omeopatia in quanto pratica magico-esoterica, vogliamo per loro tranquillità ricordare quanto la Santa Madre Chiesa Cattolica, per mezzo dei Santi Padri che, lo ricordiamo solo per inciso a chi eventualmente lo avesse dimenticato o facesse solo finta, è, quale successore di S. Pietro, il dolce Cristo in terra, assistito in materia di fede e di costume dallo Spirito Santo, sono l’espressione più alta della “verità” che la Chiesa stessa ha il compito di propagare infallibilmente vigilando sulle falsità, eresie, e tutto quanto possa danneggiare la vita spirituale e materiale dei fedeli cristiani. La Chiesa, corpo di Cristo [parliamo di quella “vera” ovviamente, non del baraccone da Cinecittà post-conciliabolo Vat. II della setta modernista del Novus Ordo], non può ingannare i suoi fedeli discostandosi anche di un solo millimetro dal deposito della fede insegnata da Gesù Cristo, deposito tramandato nei secoli dagli Apostoli e dai loro successori, conservato gelosamente da tutti i “veri” Papi succedutisi fino a Gregorio XVIII, felicemente regnante anche se costretto all’esilio. Osserviamo allora quale è stato l’atteggiamento dei Papi del XVIII e XIX secolo nei confronti dell’omeopatia, da Gregorio XVI a Pio XII, quelli che hanno potuto esercitare liberamente la loro funzione di Papa, prima dell’eclissi iniziata con Gregorio XVII cardinal Siri, e provvidenzialmente annunciata dalla Santa Vergine Maria nell’apparizione approvata di La Salette. Ci aiutiamo qui riportando stralci di un lavoro storico approfondito del dr. Fernando Piterà di Genova [“Breve storia dello sviluppo dell’Omeopatia in Italia”], la cui serietà professionale e la valenza indiscussa nel campo medico clinico, è tale da far arretrare sul nascere effimere contestazioni da parte di improvvisati “dilettanti allo sbaraglio”, anche se direttori di cattedre universitarie o funzionari di organizzazioni sanitarie e parasanitarie.

RAPPORTI DELL’OMEOPATIA CON LA CHIESA CATTOLICA

Sin dalla prima comparsa in Italia l’Omeopatia incontrò il favore dei movimenti cattolici e del Vaticano. La posizione del Vaticano nei confronti dell’Omeopatia era ben nota anche in Francia. Nel Giornale Omeopatico del 1875 edito a Nîmes, comparve un articolo dei Fratelli Peladan i quali scrivevano: « La Chiesa Romana lascia piena libertà alla scienza, è scritto, finché questa rimane nel campo che le è proprio. Ciò è talmente vero che mai nessuna opinione medica fu oggetto della minima censura. D’altra parte i Papi non hanno mai mostrato quell’odiosa intolleranza che l’aggruppamento degli scienziati sapienti ostinati nella loro routine hanno ostentato uno dopo l’altro contro i medicamenti eroici, contro le riforme farmaceutiche, contro le nuove scoperte, le proprietà dell’Antimonio e quelle della China, le preparazioni spagiriche, la teoria della circolazione del sangue e infine contro l’Omeopatia, la più importante delle novità mediche. Mentre molte Università e molti governi, essendo influenzati dai rappresentanti degli studi ufficiali, rifiutavano l’Omeopatia senza averne nemmeno studiato il nome e impedivano ai successori di Hahnemann di dispensare dei rimedi direttamente e liberamente – condizione indispensabile al successo in ogni località in cui non esiste una Farmacia Omeopatica specializzata, – la Corte di Roma procedeva con grande larghezza di vedute nei confronti del nuovo metodo di guarigione. Tutti quelli che considerano l’Omeopatia come una verità in medicina devono testimoniare a Pio IX tutta la gratitudine che la nostra scuola gli deve per i favori eccezionali che le ha concessi. » – Fu nel 1827 che l’Omeopatia fu introdotta a Roma dal Dottor Kinzel, un austriaco. Il metodo hahnemanniano ottenne in quella città un trionfo completo sugli avversari, cioè i partigiani della vecchia scuola allopatica. Il loro decano, il Dottor Luppi, era riuscito a convincere il Papa che era necessario proibire agli Omeopati la libera distribuzione dei rimedi a Wahle, nativo di Leipzig, omeopata, i cui numerosi e brillanti successi hanno dato alla nuova medicina un’immensa popolarità, fece invano valere i suoi privilegi di straniero e l’influenza di uno dei suoi protettori, il Barone Liedderkerke, Ambasciatore olandese. Ma, nel 1841, sebbene non possedeva nessun titolo accademico regolare, questo Medico ottenne l’autorizzazione di praticare l’Omeopatia negli Stati Pontifici da Sua Santità essendo questi, dopo essersi fatto fare un resoconto del modo in cui gli Hahnemanniani preparano le loro medicine, stato sollecitato da qualche nobile famiglia romana. [quindi il Santo Padre era a corrente per conoscenza diretta del metodo di preparazione dei rimedi – ndr.-]. Da allora Wahle vide crescere notevolmente la cerchia della sua clientela, e il convento dei Gesuiti l’adottò come Medico, concedendogli onorari doppi rispetto a quelli assegnati ai suoi predecessori allopati. Egli, in seguito alle sue energiche proteste contro il divieto di distribuire rimedi e grazie alla protezione di prelati eminenti, riuscì a rendere nulle le severe ordinanze pubblicate in proposito dalla municipalità di Roma e Bologna. Infine, nel 1842, Sua Santità, meglio istruito sul modo di preparazione dei rimedi Omeopatici, revocò in favore dei Medici Omeopatici il divieto di distribuire medicine ai malati [Sua Santità prima di decidersi in tal senso aveva perciò adottato una linea di somma prudenza imponendosi una conoscenza diretta del metodo – ndr. -]. – Per di più, nel 1852, una bolla di Pio IX sanciva, come anche il suo predecessore, il diritto agli ecclesiastici di distribuire delle medicine Omeopatiche in caso di urgenza o in assenza degli uomini dell’Arte. Tale permesso era esteso alle regioni senza medici. Il Dottor Charge di Marsiglia, in seguito agli importanti servizi resi in ospizio religioso durante l’epidemia di colera nel 1849, ha ricevuto dal Santo Padre un’onorificenza del tutto particolare: la Croce di Cavaliere di San Gregorio Magno. Inoltre, il nostro governo, che non ha potuto disconoscere la devozione di questo Medico intrepido, gli ha assegnato la Croce della Legione d’Onore e lo ha innalzato, in seguito, al grado di Commendatore dello stesso ordine. Credo che il Dottor Charge sia il primo Omeopata, per lo meno in Francia, che abbia ricevuto una decorazione pontificia. »

I PONTEFICI E L’OMEOPATIA: PAPA GREGORIO XVI DIFENSORE DELL’OMEOPATIA

Se i Pontefici Leone XII e Pio VIII si erano manifestati sempre favorevoli all’Omeopatia, fu il Papa Gregorio XVI (1831-1846) che si distinse più degli altri a difesa del metodo omeopatico, come si può rilevare dal seguente documento (simile a quello francese precedente -ndr.-): « Il metodo omeopatico ha ottenuto a Roma un trionfo completo sugli avversari partigiani dell’antica scuola. Il decano di questi, Dott. Lupi, era riuscito a persuadere il Papa Gregorio XVI che bisognava interdire agli Omeopatici la libera distribuzione dei rimedi. Il Dott. Wahle, brillante medico omeopatico, i cui numerosi e brillanti successi terapeutici hanno guadagnato all’Omeopatia la popolarità attuale, mise al servizio della causa i suoi privilegi di straniero, e l’influenza di uno dei suoi protettori: l’ambasciatore olandese, il barone di Liederkerke. Il Papa però, meglio informato del metodo di preparazione dei rimedi Omeopatici [vieve ribadito anche in questo caso che il Papa aveva personalmente acquisito informazioni – ndr. -], e sollecitato da qualche nobile famiglia romana, rese a Wahle il diritto di distribuzione. Da allora il nostro compatriota ha visto estendersi considerevolmente il cerchio della sua clientela, e il Convento dei Gesuiti al Gesù l’ha nominato Medico dell’Istituto, accordandogli onorari doppi di quelli già dati al suo predecessore allopatico. » [Estratto del Deutschen Allgemeine Zeitung, n. 827, del 22 Novembre 1844.]. – È dunque Papa Gregorio XVI che autorizza, nel 1841, il Dottor Wahle all’esercizio dell’Omeopatia, sebbene egli non possedesse alcun regolare titolo accademico conferitogli dalle Università Pontificie. Con quel riconoscimento ufficiale di Wahle l’Omeopatia si afferma sempre più, ma il decano dei medici allopatici, il Dottor Lupi, riesce a persuadere Gregorio XVI ad interdire agli Omeopatici la libera distribuzione dei loro medicinali. Dietro questa sordida manovra era evidente non soltanto l’ostilità della scuola allopatica ma anche il palese interesse dei farmacisti. Il Dottor Wahle, nativo di Lipsia, cerca allora di difendere come meglio può l’omeopatia e gli interessi dei colleghi, facendo valere i suoi privilegi di straniero e l’influenza di uno dei suoi protettori, l’Ambasciatore olandese Barone di Liederkerke, nonché quella di numerosi patrizi romani suoi pazienti. Il Papa Gregorio XVI allora si informa più dettagliatamente sul metodo di preparazione dei rimedi Omeopatici ed infine rende giustizia al Dott. Wahle concedendo a lui ed ai suoi colleghi il diritto di distribuire gratuitamente i rimedi Omeopatici ai loro pazienti, rendendo così nulle le vessatorie ordinanze delle Municipalità di Bologna e di Roma che invece lo proibivano. Wahle, inoltre, viene nominato Medico del Convento dei Gesuiti ed ottiene un salario doppio a quello già accordato al suo predecessore. In seguito Papa Gregorio XVI concede la Gran Croce di Cavaliere al Dottor Centamori, intimo amico di Hahnemann, che dedicò tutta la sua vita alla diffusione dell’Omeopatia nello Stato Pontificio. E fa ancora un gesto che certo dovette allarmare notevolmente gli allopatici: con una Bolla accorda agli ecclesiastici l’autorizzazione di somministrare rimedi Omeopatici in casi urgenti in assenza del Medico, e in tutte le località che sono sprovviste di Medici Omeopatici.

PIO IX LA CATTEDRA DI FILOSOFIA DELLA NATURA

Gregorio XVI non fu l’unico Papa a manifestare interesse per l’Omeopatia. Il suo successore, Pio IX (1846-1878) nomina nel Marzo del 1848, per interessamento del Cardinale Orioli, del Gioberti, del Ventura e del Rosmini, il Prof. Ettore Mengozzi, Medico Omeopatico, alla Cattedra di Filosofia della Natura nell’Università di Roma. Nel 1869 lo stesso Papa affida al Prof. Ladelci la Cattedra di Botanica nell’Università Pontificia di Macerata. – Papa Pio IX insignì di decorazioni e riconoscimenti Medici Omeopatici italiani e stranieri e qui ricordiamo: la Croce di San Gregorio Magno, conferita, nel 1849, al Dottor Charge di Marsiglia per i servizi resi durante l’epidemia di colera in un ospizio religioso; l’Ordine di San Silvestro conferito, nel 1855, al Conte De Guidi in riconoscimento dei suoi meriti di Medico Omeopatico; un breve Apostolico Speciale inviato nel 1847 al Dottor Perrussel, Medico Omeopatico a Parigi; nel 1862 il Dottor Ozanam di Parigi viene insignito dell’Ordine di San Gregorio e, sempre nello stesso anno, un altro Medico Omeopatico di Parigi, il Dottor Tessier, viene nominato Commendatore dell’Ordine di San Gregorio Magno. – « Il 10 Marzo 1848 venne presentata a Papa Mastai dal Cardinale Orioli, a nome dei Professori dell’Università di Roma, mentre già il sommo Gioberti, il Chiarissimo Ventura, l’Illustre Rosmini al medesimo verbalmente avevano fatta la identica commendatizia, la petizione per la nomina del Prof. Ettore Mengozzi, Medico Omeopatico, alla cattedra di Filosofia della Natura nell’Università di Roma. » – « Per la testimonianza dello stesso Cardinale Orioli, il Papa mentre scorreva con l’occhio la Petizione esclamò: “Oh! Il Prof. Mengozzi è già creato Maestro della Romana Università. Non vede, Eminenza, che sono sette i Maestri che lo desiderano?” – E soggiunse: “Dica al nostro Ministro di Pubblica Istruzione Cardinale Vizzardelli che lo munisca della nostra nomina!”. » La Petizione e la Nomina in originale si trovano presso il Notaro Camerale di Roma, Giacomo Gaggiotti; la prima registrata l’anno 1848, Atti Pubblici; la seconda registrata l’anno prima della Repubblica Romana 1849, Atti Privati. – Felice Argenti, Segretario e Cancelliere delle R.C. Apostolica. »

[Una deliberazione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione sul Libero Insegnamento della Medicina Omeopatica. Memoria del Prof. MENGOZZI, Roma, 1879, Tipografia Altero e C.].

PAPA LEONE XIII GUARITO DALL’OMEOPATIA

Anche Leone XIII (1878-1903), successore di Papa Mastai, fu nettamente a favore dell’Omeopatia e si fece curare dal Dottor Francesco Talianini, che esercitava ad Ascoli, come risulta dalla Rivista Omiopatica, (Anno XXXVIII, n. 3, 1892, pag. 99): “S.S. Papa Leone XIII che investito di lenta affezione tracheale con grave pericolo di vita allorché nell’Accademia Ecclesiastica in Roma addestravasi nelle prove per la futura grandezza, ebbe meravigliosamente ristorata e rinnovata e può ben dirsi la salute. Si che fu indubbiamente merito dell’Omeopatia e del Dott. Talianini se il sapientissimo Pontefice gode di una bene auspicata e provvidenziale longevità.”. – Il Dottor Francesco Talianini nacque a Trevi in Umbria il 21 Maggio 1776 e morì il 13 Ottobre 1857. Si laureò nell’Università della Sapienza di Roma e divenne Assistente nell’Ospedale di San Gallicano. Fu Medico condotto a Trevi, San Severino, Tolentino, Cingoli, Gubbio, Foligno e Ascoli dove fu nominato Membro della Commissione di Sanità. È concordemente ritenuto come uno dei primi Medici Omeopatici italiani. Conobbe l’Omeopatia studiando la Materia Medica Pura sulla traduzione di Romani e la traduzione dell’Organon del Dottor Bernardo Quaranta. Nel 1826 si recò a Napoli dove incontrò il Necker, Romani, De Horatiis e Mauro. Il Dott. Talianini fu il primo ad introdurre l’Omeopatia nello Stato Pontificio, dopo aver constatato a Napoli i successi terapeutici del Romani che pare gli sia stato maestro. In Ascoli rimase celebre la guarigione della Marchesa Vittoria Mosca di Pesaro che riacquistò la vista, grazie alle cure omeopatiche, dopo essere stata tenuta al buio per ben cinque anni dai medici allopatici per una grave affezione agli occhi. La Marchesa visse ancora molti anni dopo tale guarigione. Celebre fu, come già accennato, anche la guarigione di Sua Santità Papa Leone XIII, il quale, “ammalatosi di lenta affezione tracheale, con grave pericolo di vita, allorché nell’Accademia Ecclesiastica in Roma addestravasi nella prova per la futura grandezza, ebbe meravigliosamente ristorata e rinnovata la salute.” (Pompili, Rivista Omeopatica, Ottobre 1892, n. 4). – « Si che fu indubbiamente merito dell’Omeopatia e del Dott. Talianini se il sapientissimo Pontefice gode di una bene auspicata e provvidenziale longevità. » – (Dalla Rivista “La Strenna Spoletina”, del 1892: Una pagina dell’Omeopatia nell’Umbria, del Dott. Gioacchino Pompilj). Per i suoi servigi e l’alta professionalità dimostrata, il Dott. Talianini ebbe in dono dal Vaticano una medaglia d’oro, e continuamente vi era chiamato per consulti. Nel 1830 andò in Inghilterra con il Dottor Romani, al seguito del Principe Doria Pamphili, su invito di Lord Shrewsbury. Anche in Inghilterra egli ebbe molto successo e fu nominato Membro di varie Accademie.

SUA SANTITÀ PIO XII CURATO DALL’ARCHIATRA OMEOPATA

Anche, Sua Santità Papa Pio XII fu un convinto difensore dell’Omeopatia. Si legge infatti nell’Europeo del 16 Luglio 1947: “Il primo curante è Galeazzi–Lisi. Segue il metodo Omeopatico e lo applica al Papa Pio XII ”. È doveroso ricordare che questo stimabile clinico specialista, divenuto in seguito Archiatra Pontificio, fece molto per la causa Omeopatica ai tempi del C.O.R. (Centro Omeopatico Romano). La sua opera venne molto apprezzata da tutti gli Omeopati italiani. – Con tanti riconoscimenti ufficiali, la vita dell’Omeopatia nello Stato Pontificio non fu così difficile come in altre regioni d’Italia. Dopo un primo tentativo di ostacolare la libera distribuzione dei rimedi Omeopatici, fortunatamente superato grazie all’intervento di Papa Gregorio XVI nel 1842, per alcuni anni lo Stato Pontificio non si occupò più giuridicamente dell’Omeopatia. I Medici Omeopati poterono così distribuire gratuitamente i loro medicinali e non subiranno più denuncie e polemiche. – Con l’andar degli anni il numero dei Medici Omeopatici crebbe però al punto che lo Stato non poteva più restare indifferente di fronte alla quantità, sempre maggiore, di ricette mediche che passavano incontrollate direttamente dalle mani del Medico a quelle del paziente. Basandosi sul fatto che la precedente legge permetteva ai Medici Omeopatici di distribuire gratuitamente i rimedi omeopatici là dove non vi era una farmacia omeopatica, un Decreto Ministeriale Notificato il 15 Novembre 1856, (n° 53196, sull’ordinamento delle Farmacie nello Stato Pontificio) ordinava l’apertura di Farmacie Omeopatiche esclusive a Roma e in Provincia. Così là dove vi era una Farmacia Omeopatica, i Medici non potevano più distribuire gratuitamente i loro medicinali, senza incorrere nei rigori della legge.

L’OMEOPATIA ALL’OPERA PIA COTTOLENGO NELLE PAROLE DEL CHIRURGO LORENZO GRANETTI, AMICO DEL SANTO

Il Dottor Lorenzo Granetti racconta come divenne Medico Omeopatico: “Anch’io pensava come pensa la maggior parte dei medici allopatici sul merito di questa scienza; anch’io nutrii per gran tempo gli stessi pregiudizi, la medesima incredulità all’annunzio del principio hahnemanniano, Similia Similibus Curentur, quando ancora era digiuno della nuova dottrina e dei suoi risultamenti, e sentiva d’essere fondata sul principio opposto all’abituale ed invecchiato assioma – Contraria Contrriis – quantunque persone degnissime di fede mi raccontassero con entusiasmo molti casi di guarigione press’a poco miracolose.” (Giornale di Medicina Omiopatica, n. 1, 1848, pp. 155 e segg.). Queste “storie sorprendenti” lo indussero a sperimentare l’Omeopatia nella clinica chirurgica. Abbandonò salassi e sanguisughe e scelse per il trattamento Omeopatico i casi più difficili e, consigliato e guidato in principio da Omeopati esperti, ottenne anch’egli guarigioni sorprendenti. – “Io sarò eternamente riconoscente ad alcuni medici insigni di questa Capitale, che mi indussero a studiare ed a sperimentare l’Omeopatia, e ad osservare ed impiegare l’Aconito nelle febbri infiammatorie; l’Arnica nelle malattie traumatiche; la Tuja nella sicosi, il Solfo nella psora, ecc.; e difatti sono ormai più di dieci anni che nella mia vasta clinica all’Opera Pia Cottolengo, in grazia dell’Arnica, dell’Aconito, ecc. un caso solo io non posso contare d’averlo perduto. Io mi chiamerei pago se i miei colleghi, già benemeriti della Patria per i loro incessanti e gloriosi servizi resi, e che tuttora scientemente e con somma singolarità rendono ai nostri prodi difensori della Patria e della libertà italiana, prestassero attenzione all’azione specifica ed elettiva dell’Arnica, perché sarebbero meglio coronate le loro fatiche e più presto guarirebbero i loro feriti.”. Dottor Lorenzo GRANETTI, Chirurgo Direttore dell’Ospedale Cottolengo a Torino de La Medicina specifica applicata in particolare al trattamento delle lesioni organiche risultanti da violenza di corpi meccanici, massime dei proiettili di guerra. Dissertazione dedicata al prode e valoroso Esercito Piemontese. Torino, Tipografia di Enrico Mussano, 1848, pag. 8, 10. – Nel 1851 partecipò a Parigi al Congresso di Medicina Omeopatica. Nel 1855 fu nominato Medico di Re Carlo Alberto e di Casa Savoia. Fu intimo amico del Santo Giuseppe Cottolengo e Direttore Chirurgo dell’Opera Pia Cottolengo. Ebbe il coraggio di esercitare apertamente l’Omeopatia nell’Ospedale del Cottolengo in un momento particolarmente difficile. I risultati furono superiori ad ogni aspettativa e le reazioni nel campo avverso furono così numerose e violente che il Granetti fu nominato Direttore delle Terme di Acqui ed allontanato dall’Ospedale. Nel 1858 era Direttore dell’Istituto dello Spirito Santo di Nizza. Ebbe una vivace polemica con il Dott. Borelli, direttore della Gazzetta Medica Italiana. Moriva a Torino il 5 Settembre 1871.

LE CONDOTTE OMEOPATICHE NELLO STATO PONTIFICIO

Con la creazione delle Condotte Omeopatiche nello Stato Pontificio la legge implicitamente riconosceva l’Omeopatia. La prima Condotta Omeopatica ad essere istituita fu a Bevagna, in Umbria, ma il Dott. Giuseppe Bonino precisa che fu per lui il primo ad avere la prima Condotta Omeopatica perché accettò la Condotta Sanitaria in due Comuni, cioè Villar Perosa nel 1859 e nell’anno successivo a Pinasca… inotre a Montedoro in Sicilia fin dal 1862 fu istituita una Condotta Omiopatica, occupata dal Dott. Pappalardo, cui più tardi si è associato il Dott. Stonaci. (Ricordo Cronografico dell’Omeopatia in Italia, l’Omiopatia in Italia, Agosto 1907). Il Dottor Agostino Mattoli si era prodigato per anni a favore della popolazione curando i concittadini sempre omeopaticamente finché, come riconoscimento ufficiale della sua opera, fu unanimemente deliberata, il 22 Aprile 1869, nello stesso giorno del suo decesso, l’istituzione di una Condotta Omeopatica. Il 20 Dicembre 1869 (visto del 9 Luglio 1869, n. 821, della R. Sottoprefettura del Circondario) si apre così il concorso alla prima Condotta Medica Omeopatica. I concorrenti erano tre ed il vincitore, con unanime consenso, fu il Dottor Vincenzo Massimi di Teramo. Per tale avvenimento vi furono molte polemiche, specialmente ad opera del Dottor Agostino Bertani (Gazzetta Medica Italiana Lombarda, n. 3, pag. 23-24), in quanto si riteneva un sopruso da parte del Municipio di Bevagna l’imporre ai cittadini di curarsi Omeopaticamente. Tutto fu messo a tacere quando si rese noto che contemporaneamente esisteva anche una Condotta Allopatica, affatto soppressa, e che i cittadini avevano la più ampia libertà di scelta. Con il tempo la Condotta Omeopatica di Bevagna fu eliminata per il motivo, si dice, che fu impossibile trovare un successore poiché il trattamento economico era troppo esiguo e inadeguato. Il 31 Ottobre 1875 anche il Consiglio Municipale di Piperno delibera con voto unanime l’istituzione di una Condotta Medica Omeopatica, affidata al Dottor Pasi, che la tenne fino alla sua morte, avvenuta nel 1878. – Ugualmente il Dottor Carlo Berretti tenne, per 27 anni, la Condotta Medica di Paliano, fino al 1875, anno della sua morte. – Ma non sempre la situazione si risolveva in favore dell’Omeopatia e molte proposte di istituire Condotte Omeopatiche furono bocciate. Il Placci racconta infatti a proposito di una Condotta nello Stato Pontificio dove già esistevano una Farmacia ed un Medico Omeopatico. Accettando condizioni economiche più favorevoli, questo medico si trasferì in una città vicina. Rimasta la Condotta scoperta, fu bandito un concorso nel quale si esigeva espressamente che il Medico fosse perfettamente istruito nella teoria e nella pratica Omeopatica. Ma il bando fu bocciato dal Consiglio Provinciale di Sanità e gli abitanti del luogo furono costretti a ritornare alle sanguisughe, ai vescicamenti, ai cauteri, ai setoni, ai purganti, agli emetici della scuola allopatica (Giornale di Medicina Omiopatica, anno IV, 1847, Vol. XII, pag. 135).

RICONOSCIMENTI E ONORIFICENZE VATICANE CONCESSE A MEDICI OMEOPATICI:

Ripetiamo in uno schema riassuntivo alcune informazioni già ricordate in precedenza: “nel 1841 il Dott. Wahle ottiene da Papa Gregorio XVI il diritto ai Medici Omeopatici di distribuire gratuitamente i farmaci omeopatici ai pazienti rendendo così nulle le vessatorie ordinanze delle Municipalità di Bologna e di Roma che invece lo proibivano. Wahle, inoltre, viene nominato Medico del Convento dei Gesuiti ed ottiene un salario doppio a quello già accordato al suo predecessore. – Papa Gregorio XVI concede la Gran Croce di Cavaliere al Dott. Centamori, intimo amico di Hahnemann, che dedicò tutta la sua vita alla diffusione dell’Omeopatia nello Stato Pontificio. – Papa Gregorio XVI con una Bolla accorda agli ecclesiastici l’autorizzazione di somministrare rimedi Omeopatici in casi urgenti in assenza del Medico, e in tutte le località che sono sprovviste di Medici Omeopatici. – Nel 1847 Sua Santità nominò il Dott. Tessier, Medico Omeopata che introdusse l’omeopatia negli ospedali di Parigi, Commendatore dell’Ordine di S. Gregorio il Grande. – Nel 1849 Pio IX conferisce al Dott. Charge di Marsiglia, la Croce di Cavaliere di San Gregorio il Grande per gli importanti servizi resi in ospizio religioso durante l’epidemia di colera nel 1849. – Nel 1847 Pio IX invia un breve Apostolico Speciale al Dottor Perrussel, Medico Omeopatico a Parigi; – Nel Marzo del 1848, Pio IX nomina il Prof. Ettore Mengozzi, Medico Omeopatico, alla Cattedra di Filosofia della Natura nell’Università di Roma. – Nel 1855 Pio IX conferisce l’Ordine di San Silvestro al Conte de Guidi in riconoscimento dei suoi grandi meriti di Medico Omeopatico; – Nel 1862 Sua Santità Pio IX conferì le insegne dell’Ordine di S. Gregorio Magno al Dott. Ozanam, medico omeopatico a Parigi, fratello del Beato Federico Ozanam. – Nel 1869 lo stesso Papa Pio IX affida al Ladelci la Cattedra di Botanica nell’Università Pontificia di Macerata. – Per i suoi servigi e l’alta professionalità dimostrata nel curare e guarire Papa Leone XIII, il Dott. Talianini ebbe in dono dal Vaticano una medaglia d’oro, e continuamente vi era chiamato per consulti. – Nel 1947 il primo medico curante di Papa Pio XII è il Dottor Galeazzi–Lisi, medico omeopata. È doveroso ricordare che questo stimabile clinico specialista divenne infatti Archiatra Pontificio e applicava con successo il metodo omeopatico al Papa Pio XII. [In verità ci sono diverse perplessità e dubbi sull’operato di Galeazzo-Lisi, in particolare durante la malattia terminale e la morte del Pontefice!-ndr.-] – Verso la metà del secolo XIX cominciano a intravedersi i segnali, che porteranno ad una fase di declino dell’Omeopatia italiana che si prolungherà per alcuni decenni. In Italia l’Omeopatia, essendosi legata ai movimenti cattolici popolari, con l’aperto consenso delle gerarchie ecclesiastiche che favorivano tutto ciò che poteva contrapporsi al materialismo illuminista, è destinata a pagare un caro prezzo. Ben presto infatti il Prof. Ettore Giovanni Mengozzi, dovette abbandonare la Cattedra di Omeopatia presso l’Università romana, assegnatagli nel 1848 da Pio IX, per il precipitare degli eventi. Le successive vicende storiche e politiche [determinate dalle logge massoniche -ndr. -] che porteranno all’unità d’Italia, saranno realizzate contro il Cattolicesimo e l’Omeopatia italiana, essendosi troppo schierata con quest’ultimo, non poteva che essere emarginata nel nuovo clima culturale che si andava configurando. Si instraurava il regime della massoneria imperante, come al giorno d’oggi, che non si fa scrupolo di utilizzare ogni mezzo, anche il più ridicolo, come l’accusa di “stregoneria”, “magia moderna” o esoterismo, essi che adorano il baphomet, per contrastare l’espansione del metodo omeopatico, che allevierebbe le sofferenze di tanti malati costretti a curarsi “legalmente” e senza risultati con ferro [interventi chirurgici mutilanti ed inutili], fuoco [le famigerate radioterapie] e veleno [chemioterapie tossiche]. – È evidente quindi che, allora come oggi, dietro il movimento anti-omeopatia c’è la “longa” mano delle logge, braccio operante e tentacolo della piovra nemica di Dio e di tutti gli uomini, di coloro cioè che hanno per padre il diavolo. I maggiori detrattori in Italia ad esempio, sono noti frequentatori delle logge che in cambio hanno permesso loro rapide e brillanti carriere, e sono gli stessi che si sperticano al contrario nelle lodi dell’evoluzionismo e della psicanalisi, basate su teorie assurde e mai provate [-ndr.-]. Pertanto stiano sicuri i cultori e gli utilizzatori dell’omeopatia, metodica dichiarata dalla “vera” Chiesa di Cristo utile e benemerita, e cerchino caso mai di evitare pittoreschi operatori sanitari che utilizzano impropriamente l’omeopatia in associazione estemporanea con metodi dichiaratamente anticristiani, e quindi suggeriti dal nemico infernale … medicina cinese, yoga, meditazioni orientali ed occidentali, antroposofia, magnetismo e mesmerismo, psicoanalisi gnostico-cabalista, e via di seguito.

S. S. GREGORIO XVII (G. Siri): Omelia della DOMENICA DELLE PALME -1970-

S. S. GREGORIO XVII [G. Siri]

Con le letture dalla Sacra Bibbia, in particolare quelle tratte dal Vangelo, col Santo Sacrificio, comincia la grande settimana, la Settimana Santa, nella quale i fedeli sono chiamati a ricordarsi di essere stati redenti e di avere una speranza al di sopra della loro talvolta misera vita unicamente perché Gesù Cristo è andato in Croce ed è risorto. – Il primo brano del Vangelo, cantato prima della processione delle palme, ha ricordato l’ingresso solenne di Gesù in Gerusalemme. Questo ingresso è avvenuto pochi giorni prima della Sua Passione; l’ha voluto Lui. È stata un’affermazione perché il Messia era anche Re, era il successore di Davide, non per esercitare un potere nell’ordine politico, ma perché raccoglieva un’eredità su un piano ben più alto, ad un livello divino. Volle gli onori reali, perché usare quella cavalcatura era allora privilegio dei re; che si stendessero i mantelli per terra, era cosa che accadeva pei re o pei grandi trionfatori. Il canto dei fanciulli: chi mai li aveva insegnato loro? Chi mai? Eppure i fanciulli soprattutto cantarono per Lui. E così il corteo si mosse e così entrò in Gerusalemme. Se qualcheduno aveva da lamentarsi di questo, aveva risposto colle parole del Profeta: “Se qualcheduno tacerà, saranno le lingue degli infanti ad aprirsi” (cfr. Mt XXI, 16). Insomma, ha voluto che esternoamente ci fosse un trionfo. Dopo sarebbe rientrato subito nell’umiltà della Sua evangelica vita e avrebbe salito il Calvario, il vero grande trionfo, del quale aveva detto poc’anzi: “Quando sarò innalzato sul legno, allora trarrò tutto a me stesso” (Gv XII,32). Vi prego di notare questo: Gesù Cristo ha voluto il trionfo, ha voluto gli onori regali, ha voluto la acclamazione, ed è evidente che anche tutte queste cose hanno una funzione nella realizzazione del piano del Dio. – L’ultima lettura è stata lunga, perché si letto tutto il racconto della Passione secondo Marco (XIV, 1-15, 47), non, come accadeva prima, secondo Matteo. E la narrazione più breve quella di Marco. Ma io non richiamo la vostra attenzione sui particolari, perché tutta questa narrazione si stende tra l’uno e l’altro dettaglio, però si compone tutta intorno ai dolori del Cristo paziente e morente in Croce. E allora vi invito ad una considerazione di carattere generale che è questa: per riparare i peccati degli uomini è occorso tanto. Sì, la Croce! Badate bene che sarebbe occorsa anche ci fosse stato un solo peccato tra gli uomini. Non è che questa sovrabbondanza di dolore sia legata al fatto dei molti peccati, ma è legata all’entità del peccato in se stesso, e pertanto la ragione non avrebbe cambiato se il peccato fosse stato uno solo. E allora ritorniamo in noi per accogliere con umiltà, con pazienza, coll’amore, il riflesso che tutto questo deve disegnare nell’anima nostra. Vuol dire che gli atti nostri sono importanti, e forse un atto della vita, un atto di fede che manca a molti di noi nella loro vita, è quello di renderci conto che i loro atti sono importanti, anche se questo piccolo mondo per gli stessi atti non ha che il silenzio e l’oblio. Perché se a ripagare un peccato, atto di volontà, c’è voluta la Morte del Figlio di Dio, vuol dire che il peccato è una cosa grave, ma prima ancora del peccato, che un atto umano è una cosa grave davanti a Dio e cioè davanti a Colui per il Quale soltanto le cose contano. – Il riflesso che accogliamo nella nostra anima, come vedete, è semplice, è apodittico, ma è tremendo: con che sorta di prudenza, di riflessione noi dobbiamo pensare ed agire. Naturalmente tra l’uno e l’altro ci sta di mezzo il parlare, che talvolta sostituisce l’uno e l’altro a torto, perché gli atti dell’uomo prendono sempre la loro potenza da una folgorazione intellettuale interna e da un atto di volontà. Ecco, cari, la prudenza, il ritegno, la riflessione su tutti i nostri atti. Sembra che le cose colino come l’acqua, fluiscano per disperdersi nel gran mare e non è vero. I nostri atti sono importanti. Stiamoci attenti bene. E quando pensiamo, non crediamo di essere autorizzati a pensare come a noi comoda, e quando parliamo, non crediamo di essere autorizzati a parlare come a noi piace, e quando agiamo, non crediamo di essere autorizzati ad agire come a noi porta benessere e gaudio. Davanti a Dio queste cose che noi dimentichiamo, prendono dimensioni alle quali la nostra stessa intelligenza non sa arrivare e allora sia per il peccato a evitarlo, anche piccolo, sia per la virtù, anche piccola da compiere, pensiamoci bene!

DOMENICA DELLE PALME

Benedictio Palmorum

Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini. O Rex Israël: Hosánna in excélsis.

V. Dóminus vobíscum.

R. Et cum spíritu tuo.

Orémus Deus, quem dilígere et amáre justítia est, ineffábilis grátiæ tuæ in nobis dona multíplica: et qui fecísti nos in morte Fílii tui speráre quæ crédimus; fac nos eódem resurgénte perveníre quo téndimus: Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus per omnia saecula saeculorum. – R. Amen.

LECTIO Léctio libri Exodi.

In diébus illis: Venérunt fílii Israël in Elim, ubi erant duódecim fontes aquárum et septuagínta palmæ: et castrametáti sunt juxta aquas. Profectíque sunt de Elim, et venit omnis multitúdo filiórum Israël in desértum Sin, quod est inter Elim et Sínai: quintodécimo die mensis secúndi, postquam egréssi sunt de terra Ægýpti. Et murmurávit omnis congregátio filiórum Israël contra Móysen et Aaron in solitúdine. Dixerúntque fílii Israël ad eos: Utinam mórtui essëmus per manum Dómini in terra Ægýpti, quando sedebámus super oílas cárnium, et comedebámus panem in saturitáte: cur eduxístis nos in desértum istud, ut occiderétis omnem multitúdinem fame? Dixit autem Dóminus ad Móysen: Ecce, ego pluam vobis panes de coelo: egrediátur pópulus, et cólligat quæ suffíciunt per síngulos dies: ut tentem eum, utrum ámbulet in lege mea an non. Die autem sexto parent quod ínferant: et sit duplum, quam collígere sciébant per síngulos dies. Dixerúntque Móyses et Aaron ad omnes fílios Israël: Véspere sciétis, quod Dóminus edúxerit vos de terra Ægýpti: et mane vidébitis glóriam Dómini.

[In quei giorni: giunsero i figliuoli d’Israele ad Elim, dov’erano dodici fontane d’acqua, e settanta palme: e posero gli alloggiamenti vicino alle acque. E si partirono da Elim, e giunse tutta la moltitudine dei figliuoli di Israele nel deserto di Sin, che è tra Elim e Sinai, al quindici del secondo mese dopo la loro partenza dalla terra d’Egitto. E tutta la turba dei figliuoli d’Israele mormorò contro Mose ed Aronne in quella solitudine. E dissero loro i figliuoli d’Israele: Fossimo rimasti estinti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando sedevamo sopra le caldaie piene di carni, e mangiavamo il pane a sazietà: perché ci avete condotti in questo deserto per far morire tutti di fame? Ma il Signore disse a Mosè: ecco che io pioverò a voi pane dal cielo: vada il popolo e raccolga quanto basta per ogni di: onde io faccia prova di lui, se cammini o no secondo la mia legge. Ma il sesto dì ne prendano da serbare, e sia il doppio di quel che solevano pigliare per ciascun giorno. E Mosè ed Aronne dissero a tutti i figliuoli d’Israele: Questa sera riconoscerete che il Signore vi ha tratti dalla terra d’Egitto: e domattina vedrete la potenza del Signore.]

Graduale

R. Collegérunt pontífices et pharisaei concílium, et dixérunt: Quid fácimus, quia hic homo multa signa facit? Si dimíttimus eum sic, omnes credent in eum:

R. Et vénient Románi, et tollent nostrum locum et gentem.

V. Unus autem ex illis, Cáiphas nómine, cum esset póntifex anni illíus, prophetávit dicens: Expedit vobis, ut unus moriátur homo pro pópulo, et non tota gens péreat. Ab illo ergo die cogitavérunt interfícere eum, dicéntes.

R. Et vénient Románi, et tollent nostrum locum et gentem. R. In monte Olivéti orávit ad Patrem: Pater, si fíeri potest, tránseat a me calix iste. R. Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma: fiat volúntas tua.

V. Vigiláte et oráte, ut non intrétis in tentatiónem.

R. Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma: fiat volúntas tua.

Evangelium Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum.

R. Glória tibi, Dómine.

In illo témpore: Cum appropinquásset Jesus Jerosólymis, et venísset Béthphage ad montem Olivéti: tunc misit duos discípulos suos, dicens eis: Ite in castéllum, quod contra vos est, et statim inveniétis ásinam alligátam et pullum cum ea: sólvite et addúcite mihi: et si quis vobis áliquid dixerit, dícite, quia Dóminus his opus habet, et conféstim dimíttet eos. Hoc autem totum factum est, ut adimplerétur, quod dictum est per Prophétam, dicéntem: Dícite fíliae Sion: Ecce, Rex tuus venit tibi mansuétus, sedens super ásinam et pullum, fílium subjugális. Eúntes autem discípuli, fecérunt, sicut præcépit illis Jesus. Et adduxérunt ásinam et pullum: et imposuérunt super eos vestiménta sua, et eum désuper sedére tecérunt. Plúrima autem turba stravérunt vestiménta sua in via: álii autem cædébant ramos de arbóribus, et sternébant in via: turbæ autem, quæ præcedébant et quæ sequebántur, clamábant, dicéntes: Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini.

In quel tempo: Avvicinandosi a Gerusalemme, arrivato a Bètfage, vicino al monte degli ulivi, Gesù mandò due suoi discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio dirimpetto a voi, e subito vi troverete un’asina legata con il suo puledro: scioglietela e conducetemela. E, se qualcuno vi dirà qualche cosa, dite; – il Signore ne ha bisogno; e subito ve li rilascerà». Ora tutto questo avvenne perché si adempisse quanto detto dal Profeta: «Dite alla figlia di Sion : Ecco il tuo Re viene a Te, mansueto, seduto sopra di un’asina ed asinello puledro di una giumenta». I Discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro detto. Menarono l’asina ed il puledro, vi misero sopra i mantelli e Gesù sopra a sedere. E molta gente stese i mantelli lungo la strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li spargevano sulla via, mentre le turbe che precedevano e seguivano gridavano: «Osanna al Figlio di Davide; benedetto Colui che viene nel nome del Signore».]

R. Laus tibi, Christe! – S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Benedictio palmorum

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. 

Orémus. Auge fidem in te sperántium, Deus, et súpplicum preces cleménter exáudi: véniat super nos múltiplex misericórdia tua: bene dicántur et hi pálmites palmárum, seu olivárum: et sicut in figúra Ecclésiæ multiplicásti Noë egrediéntem de arca, et Móysen exeúntem de Ægýpto cum fíliis Israël: ita nos, portántes palmas et ramos olivárum, bonis áctibus occurrámus óbviam Christo: et per ipsum in gáudium introëámus ætérnum: Qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus. Per omnia sǽcula sæculórum. R. Amen.

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

V. Sursum corda. R. Habémus ad Dóminum.

V. Grátias agámus Dómino Deo nostro.

R. Dignum et justum est. Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, æterne Deus: Qui gloriáris in consílio Sanctórum tuórum. Tibi enim sérviunt creatúræ tuæ: quia te solum auctórem et Deum cognóscunt, et omnis factúra tua te colláudat, et benedícunt te Sancti tui. Quia illud magnum Unigéniti tui nomen coram régibus et potestátibus hujus sǽculi líbera voce confiténtur. Cui assístunt Angeli et Archángeli, Throni et Dominatiónes: cumque omni milítia cæléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cóncinunt, sine fine dicéntes. Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Orémus. Pétimus, Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: ut hanc creatúram olívæ, quam ex ligni matéria prodíre jussísti, quamque colúmba rédiens ad arcam próprio pértulit ore, bene dícere et sancti ficáre dignéris: ut, quicúmque ex ea recéperint, accípiant sibi protectiónem ánimæ et córporis: fiátque, Dómine, nostræ salútis remédium tuæ grátiæ sacraméntum. [Signore santo, Padre onnipotente, eterno Dio, noi ti supplichiamo che ti degni di bene ☩ dire e santi ☩ ficare questi germogli d’olivo, che facesti germinare dal legno e che la colomba al suo ritorno nell’arca portò nel becco; in guisa che chiunque ne riceverà, ottenga protezione per l’anima e per il corpo; e questo segno della tua grazia divenga, o Signore, rimedio della nostra salute.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Orémus. Deus, qui dispérsa cóngregas, et congregáta consérvas: qui pópulis, óbviam Jesu ramos portántibus, benedixísti: béne dic étiam hos ramos palmæ et olívæ, quos tui fámuli ad honórem nóminis tui fidéliter suscípiunt; ut, in quemcúmque locum introdúcti fúerint, tuam benedictiónem habitatóres loci illíus consequántur: et, omni adversitáte effugáta, déxtera tua prótegat, quos rédemit Jesus Christus, Fílius tuus, Dóminus noster. [Preghiamo. O Dio, che raduni le cose disperse e conservi quelle radunate; che benedicesti il popolo uscito incontro a Gesù con rami in mano; degnati di bene ☩ dire anche questi rami di palma e di olivo, che i tuoi servi prendono con fede in onore del tuo nome; affinché rechino la tua benedizione a quanti abitano nei luoghi in cui sono portati; e, allontanata cosi ogni avversità, la tua destra protegga coloro che sono stati redenti da Gesù Cristo, tuo Figlio, Signore nostro.] Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Orémus. Deus, qui miro dispositiónis órdine, ex rebus étiam insensibílibus, dispensatiónem nostræ salútis osténdere voluísti: da, quǽsumus; ut devota tuórum corda fidélium salúbriter intéllegant, quid mýstice desígnet in facto, quod hódie, coelésti lúmine affláta, Redemptóri óbviam procédens, palmárum atque olivárum ramos vestígiis ejus turba substrávit. Palmárum igitur rami de mortis príncipe triúmphos exspéctant; súrculi vero olivárum spirituálem unctiónem advenísse Quodámmodo clamant. Intelléxit enim jam tunc illa hóminum beáta multitúdo præfigurári: quia Redémptor noster, humánis cóndolens misériis, pro totíus mundi vita cum mortis príncipe esset pugnatúrus ac moriéndo triumphatúrus. Et ídeo tália óbsequens administrávit, quæ in illo ei triúmphos victóriæ et misericórdiæ pinguédinem declarárent. Quod nos quoque plena fide, et factum et significátum retinéntes, te, Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus, per eúndem Dóminum nostrum Jesum Christum supplíciter exorámus: ut in ipso atque per ipsum, cujus nos membra fíeri voluísti, de mortis império victóriam reportántes, ipsíus gloriósæ resurrectiónis partícipes esse mereámur. [Preghiamo. O Dio, che per meraviglioso ordine della tua Provvidenza, anche delle cose insensibili usi per esprimere l’economia della nostra salute, illumina, te ne preghiamo, i cuori dei tuoi servi, onde con frutto intendano il mistero significato nel fatto di quel popolo, che oggi per ispirazione celeste andò incontro al Redentore stendendo rami di palma e d’ulivo sul suo passaggio. I rami di palma designano i trionfi sul principe della morte; i rami d’ulivo indicano la spirituale unzione che era per venire. Quell’avventurata moltitudine presenti allora che il nostro Redentore mosso dalle miserie dell’umanità era per entrare in battaglia col principe della morte per la vita di tutto il mondo e che avrebbe trionfato con la sua stessa morte. E perciò gli presentò tali oggetti dei quali gli uni esprimessero il trionfo della vittoria, gli altri l’effusione della misericordia. Noi dunque, riconoscendo pienamente nell’avvenimento il fatto e il significato simbolico, Signore santo, Padre onnipotente, eterno Dio, umilmente ti supplichiamo per lo stesso Signor nostro Gesù  Cristo, di cui siamo membra, a farci trionfare in Lui e per Lui della morte e partecipare della sua gloriosa risurrezione.]

Orémus. Deus, qui, per olívæ ramum, pacem terris colúmbam nuntiáre jussísti: præsta, quǽsumus; ut hos olívæ ceterarúmque arbórum ramos coelésti bene dictióne sanctífices: ut cuncto pópulo tuo profíciant ad salútem. Per Christum, Dóminum nostrum. [Preghiamo. O Dio, che volesti che una colomba annunziasse alla terra la pace per mezzo di un ramo d’ulivo, degnati di bene ☩ dire questi rami d’ulivo e di altri alberi, perché siano al tuo popolo utili e salutari. Per Cristo nostro Signore.] R. Amen.

Orémus. Bene dic, quǽsumus, Dómine, hos palmárum seu olivárum ramos: et præsta; ut, quod pópulus tuus in tui veneratiónem hodiérna die corporáliter agit, hoc spirituáliter summa devotióne perfíciat, de hoste victóriam reportándo et opus misericórdiæ summópere diligéndo. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. [Preghiamo. Degnati, Signore, di bene ☩ dire questi rami di palma e d’ulivo e fa che il tuo popolo compia spiritualmente con vera devozione quanto oggi esteriormente fa in tuo onore: che esso riporti vittoria sul nemico e corrisponda con amore alla tua opera misericordiosa..] R. Amen.

Dóminus vobíscum.

R. Et cum spíritu tuo.

Orémus. Deus, qui Fílium tuum Jesum Christum, Dóminum nostrum, pro salute nostra in hunc mundum misísti, ut se humiliáret ad nos et nos revocáret ad te: cui etiam, dum Jerúsalem veniret, ut adimpléret Scripturas, credentium populorum turba, fidelissima devotione, vestimenta sua cum ramis palmarum in via sternébant: præsta, quæsumus; ut illi fídei viam præparémus, de qua, remoto lápide offensiónis et petra scándali, fróndeant apud te ópera nostra justítiæ ramis: ut ejus vestigia sequi mereámur: [Preghiamo. O Dio, che per la nostra salvezza mandasti nel mondo il tuo Figliuolo Gesù Cristo nostro Signore, onde abbassandosi sino a noi ci riportasse a te; e hai voluto che quando Egli entrò in Gerusalemme per compiere le Scritture, una turba di popolo credente gli stendesse sul cammino le sue vesti e rami di palme; fa che noi pure gli prepariamo, per mezzo della fede, la via dalla quale rimossa ogni pietra d’inciampo e di scandalo, le nostre opere gettino rami di giustizia, per così meritare di seguire le orme di Colui: …] Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Pueri Hebræorum Ant. Pueri Hebræórum, portántes ramos olivárum, obviavérunt Dómino, clamántes et dicéntes: Hosánna in excélsis. Ant. Pueri Hebræórum vestiménta prosternébant in via et clamábant, dicéntes: Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini. V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Omnípotens sempitérne Deus, qui Dóminum nostrum Jesum Christum super pullum ásinæ sedére fecísti, et turbas populórum vestiménta vel ramos arbórum in via stérnere et Hosánna decantáre in laudem ipsíus docuísti: da, quǽsumus; ut illórum innocéntiam imitári póssimus, et eórum méritum cónsequi mereámur. [Preghiamo. Onnipotente eterno Dio, che per glorificare il Signor nostro Gesù, montato sull’umile giumenta, gli mandasti incontro una moltitudine festosa, ispirandole di gettargli ai piedi vestimenti e rami di ulivo cantando Osanna in sua lode, concèdici, ti preghiamo, di imitare la loro innocenza e di aver parte anche noi al loro merito.] Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum filium tuum, qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Procedámus in pace.

R. In nómine Christi. Amen. Cum appropinquáret Dóminus Jerosólymam, misit duos ex discípulis suis, dicens: Ite in castéllum, quod contra vos est: et inveniétis pullum ásinæ alligátum, super quem nullus hóminum sedit: sólvite et addúcite mihi. Si quis vos interrogáverit, dícite: Opus Dómino est. Solvéntes adduxérunt ad Jesum: et imposuérunt illi vestiménta sua, et sedit super eum: alii expandébant vestiménta sua in via: alii ramos de arbóribus sternébant: et qui sequebántur, clamábant: Hosánna, benedíctus, qui venit in nómine Dómini: benedíctum regnum patris nostri David: Hosánna in excélsis: miserére nobis, fili David. Cum audísset pópulus, quia Jesus venit Jerosólymam, accepérunt ramos palmárum: et exiérunt ei óbviam, et clamábant púeri, dicéntes: Hic est, qui ventúrus est in salútem pópuli. Hic est salus nostra et redémptio Israël. Quantus est iste, cui Throni et Dominatiónes occúrrunt! Noli timére, fília Sion: ecce, Rex tuus venit tibi, sedens super pullum ásinæ, sicut scriptum est, Salve, Rex, fabricátor mundi, qui venísti redímere nos. Ante sex dies sollémnis Paschæ, quando venit Dóminus in civitátem Jerúsalem, occurrérunt ei pueri: et in mánibus portábant ramos palmárum, et clamábant voce magna, dicéntes: Hosánna in excélsis: benedíctus, qui venísti in multitúdine misericórdiæ tuae: Hosánna in excélsis. Occúrrunt turbæ cum flóribus et palmis Redemptóri óbviam: et victóri triumphánti digna dant obséquia: Fílium Dei ore gentes praedicant: et in laudem Christi voces tonant per núbila: Hosánna in excélsis. Cum Angelis et púeris fidéles inveniántur, triumphatóri mortis damántes: Hosánna in excélsis. Alia Antiphona. Turba multa, quæ convénerat ad diem festum, clamábat Dómino: Benedíctus, qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis. Turba multa, quæ convénerat ad diem festum, clamábat Dómino: Benedíctus, qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis.

[V. Procediamo in pace. R. Nel nome di Cristo. Amen. [Avvicinandosi il Signore a Gerusalemme, spedì due discepoli, dicendo loro: « Andate nella borgata che è dirimpetto a voi; troverete ivi legato un asinelio sul quale nessuno è montato sinora; scioglietelo e menatemelo. Se alcuno vi dirà qualche cosa, risponderete che il Signore ne ha bisogno”. I discepoli andarono, sciolsero l’asinelio e messivi sopra i loro mantelli, lo portarono a Gesù, che vi si pose a sedere. Gli uni stendevano le loro vesti sulla via; altri gettavano rami d’alberi, e quelli che seguivano gridavano: Osanna, benedetto Colui che viene nel nome del Signore, benedetto il regno del nostro padre David. Osanna nel più alto dei cieli! O Figlio di David, pietà di noi. Avendo sentito il popolo che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palma e gli andò incontro. I fanciulli gridavano: Ecco Colui che deve venire per salvare il popolo. Egli è la nostra salvezza e la redenzione d’Israele. Quanto Egli è grande ! I Troni e le Dominazioni gli vanno incontro ! Non temere, figliuola di Sion: ecco il tuo re che viene a te, assiso sopra un asinello, come è stato predetto. Salve, o Re creatore del mondo, che sei venuto a riscattarci. Sei giorni prima di Pasqua, quando il Signore venne a Gerusalemme, i fanciulli gli andarono incontro recanti in mano rami di palme e gridavano ad alta voce dicendo: Osanna nel più alto dei cieli ! Benedetto tu che sei venuto nella pienezza della tua misericordia: Osanna nel più alto dei cieli ! Una turba di popolo, recante palme e fiori, esce incontro al Redentore e rende un degno omaggio a questo vincitore trionfante. Le genti acclamano al Figlio di Dio, e in lode di Cristo fanno risuonare per l’aria un cantico: Osanna nel più alto dei cieli. Uniamoci, fedeli, alla voce degli Angeli e dei fanciulli; cantiamo al vincitor della morte: Osanna nel più alto dei cieli. Gran turba, convenuta al giorno festivo, gridava al Signore: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei cieli!]

Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium. R. Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium. Israël es tu Rex, Davidis et ínclita proles: Nómine qui in Dómini, Rex benedícte, venis. R. Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium. Coetus in excélsis te laudat caelicus omnis, Et mortális homo, et cuncta creáta simul. R. Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium. Plebs Hebraea tibi cum palmis óbvia venit: Cum prece, voto, hymnis, ádsumus ecce tibi. R. Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium. Hi tibi passúro solvébant múnia laudis: Nos tibi regnánti pángimus ecce melos. R. Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium. Hi placuére tibi, pláceat devótio nostra: Rex bone, Rex clemens, cui bona cuncta placent. R. Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.

Responsorium Ingrediénte Dómino in sanctam civitátem, Hebræórum púeri resurrectiónem vitæ pronuntiántes, R. Cum ramis palmárum: Hosánna, clamábant, in excélsis.

V. Cum audísset pópulus, quod Jesus veníret Jerosólymam, exiérunt óbviam ei.

R. Cum ramis palmárum: Hosánna, clamábant, in excélsis.

Introitus Ps XXI:20 et 22. Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam. [Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.] Ps XXI:2 Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti? longe a salúte mea verba delictórum meórum. Dio mio, Dio mio, guardami: perché mi hai abbandonato? La salvezza si allontana da me alla voce dei miei delitti. Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam. [Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Oratio V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo. Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui humáno generi, ad imitandum humilitátis exémplum, Salvatórem nostrum carnem súmere et crucem subíre fecísti: concéde propítius; ut et patiéntiæ ipsíus habére documénta et resurrectiónis consórtia mereámur. [ Onnipotente eterno Dio, che per dare al genere umano un esempio d’umiltà da imitare, volesti che il Salvatore nostro s’incarnasse e subisse la morte di Croce: propizio concedi a noi il merito di accogliere gli insegnamenti della sua pazienza, e di partecipare alla sua risurrezione.] Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum filium tuum, qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

LECTIO  Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses. Phil II:5-11

Fratres: Hoc enim sentíte in vobis, quod et in Christo Jesu: qui, cum in forma Dei esset, non rapínam arbitrátus est esse se æqualem Deo: sed semetípsum exinanívit, formam servi accípiens, in similitúdinem hóminum factus, et hábitu invéntus ut homo. Humiliávit semetípsum, factus oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltávit illum: ei donávit illi nomen, quod est super omne nomen: hic genuflectitur ut in nómine Jesu omne genu flectátur coeléstium, terréstrium et inférno rum: et omnis lingua confiteátur, quia Dóminus Jesus Christus in glória est Dei Patris. [Fratelli: Abbiate in voi gli stessi sentimenti dai quali era animato Cristo Gesù: il quale, essendo nella forma di Dio, non reputò che fosse una rapina quel suo essere uguale a Dio, ma annichilò se stesso, prese la forma di servo, fatto simile agli uomini, e per condizione riconosciuto quale uomo. Egli umiliò se stesso, facendosi ubbidiente sino alla morte e morte di croce. Perciò Dio stesso lo esaltò e gli donò un nome che è sopra qualunque nome: qui si genuflette onde nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, in terra e negli abissi; e affinché ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre.]

Deo gratias.

Graduale

Ps LXXII:24 et 1-3 Tenuísti manum déxteram meam: et in voluntáte tua deduxísti me: et cum glória assumpsísti me. [Tu mi hai preso per la destra, mi hai guidato col tuo consiglio, e mi ‘hai accolto in trionfo.]

V. Quam bonus Israël Deus rectis corde! mei autem pæne moti sunt pedes: pæne effúsi sunt gressus mei: quia zelávi in peccatóribus, pacem peccatórum videns. [Com’è buono, o Israele, Iddio con chi è retto di cuore. Per poco i miei piedi non vacillarono; per poco i miei passi non sdrucciolarono; perché io ho invidiato i peccatori, vedendo la prosperità degli empi.]

Tractus Ps. XXI:2-9, 18, 19, 22, 24, 32

Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti?

V. Longe a salúte mea verba delictórum meórum.

V. Deus meus, clamábo per diem, nec exáudies: in nocte, et non ad insipiéntiam mihi.

V. Tu autem in sancto hábitas, laus Israël.

V. In te speravérunt patres nostri: speravérunt, et liberásti eos.

V. Ad te clamavérunt, et salvi facti sunt: in te speravérunt, et non sunt confusi.

V. Ego autem sum vermis, et non homo: oppróbrium hóminum et abjéctio plebis.

V. Omnes, qui vidébant me, aspernabántur me: locúti sunt lábiis et movérunt caput.

V. Sperávit in Dómino, erípiat eum: salvum fáciat eum, quóniam vult eum.

V. Ipsi vero consideravérunt et conspexérunt me: divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt mortem.

V. Líbera me de ore leónis: et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

V. Qui timétis Dóminum, laudáte eum: univérsum semen Jacob, magnificáte eum.

V. Annuntiábitur Dómino generátio ventúra: et annuntiábunt coeli justítiam ejus.

V. Pópulo, qui nascétur, quem fecit Dóminus.

Evangelium

Pássio Dómini nostri Jesu Christi secúndum Matthǽum. Matt XXVI:1-75; XXVII:1-66. In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: J. Scitis, quid post bíduum Pascha fiet, et Fílius hóminis tradétur, ut crucifigátur. C. Tunc congregáti sunt príncipes sacerdótum et senióres pópuli in átrium príncipis sacerdótum, qui dicebátur Cáiphas: et consílium fecérunt, ut Jesum dolo tenérent et occíderent. Dicébant autem: S. Non in die festo, ne forte tumúltus fíeret in pópulo. C. Cum autem Jesus esset in Bethánia in domo Simónis leprósi, accéssit ad eum múlier habens alabástrum unguénti pretiósi, et effúdit super caput ipsíus recumbéntis. Vidéntes autem discípuli, indignáti sunt, dicéntes: S. Ut quid perdítio hæc? pótuit enim istud venúmdari multo, et dari paupéribus. C. Sciens autem Jesus, ait illis: J. Quid molésti estis huic mulíeri? opus enim bonum operáta est in me. Nam semper páuperes habétis vobíscum: me autem non semper habétis. Mittens enim hæc unguéntum hoc in corpus meum, ad sepeliéndum me fecit. Amen, dico vobis, ubicúmque prædicátum fúerit hoc Evangélium in toto mundo, dicétur et, quod hæc fecit, in memóriam ejus. C. Tunc ábiit unus de duódecim, qui dicebátur Judas Iscariótes, ad príncipes sacerdótum, et ait illis: S. Quid vultis mihi dare, et ego vobis eum tradam? C. At illi constituérunt ei trigínta argénteos. Et exínde quærébat opportunitátem, ut eum tráderet. Prima autem die azymórum accessérunt discípuli ad Jesum, dicéntes: S. Ubi vis parémus tibi comédere pascha? C. At Jesus dixit: J. Ite in civitátem ad quendam, et dícite ei: Magíster dicit: Tempus meum prope est, apud te fácio pascha cum discípulis meis. C. Et fecérunt discípuli, sicut constítuit illis Jesus, et paravérunt pascha. Véspere autem facto, discumbébat cum duódecim discípulis suis. Et edéntibus illis, dixit: J. Amen, dico vobis, quia unus vestrum me traditúrus est. C. Et contristáti valde, coepérunt sínguli dícere: S. Numquid ego sum, Dómine? C. At ipse respóndens, ait: J. Qui intíngit mecum manum in parópside, hic me tradet. Fílius quidem hóminis vadit, sicut scriptum est de illo: væ autem hómini illi, per quem Fílius hóminis tradétur: bonum erat ei, si natus non fuísset homo ille. C. Respóndens autem Judas, qui trádidit eum, dixit: S. Numquid ego sum, Rabbi? C. Ait illi: J. Tu dixísti. C. Cenántibus autem eis, accépit Jesus panem, et benedíxit, ac fregit, dedítque discípulis suis, et ait: J. Accípite et comédite: hoc est corpus meum. C. Et accípiens cálicem, grátias egit: et dedit illis, dicens: J. Bíbite ex hoc omnes. Hic est enim sanguis meus novi Testaménti, qui pro multis effundétur in remissiónem peccatórum. Dico autem vobis: non bibam ámodo de hoc genímine vitis usque in diem illum, cum illud bibam vobíscum novum in regno Patris mei. C. Et hymno dicto, exiérunt in montem Olivéti. Tunc dicit illis Jesus: J. Omnes vos scándalum patiémini in me in ista nocte. Scriptum est enim: Percútiam pastórem, et dispergéntur oves gregis. Postquam autem resurréxero, præcédam vos in Galilaeam. C. Respóndens autem Petrus, ait illi: S. Et si omnes scandalizáti fúerint in te, ego numquam scandalizábor. C. Ait illi Jesus: J. Amen, dico tibi, quia in hac nocte, antequam gallus cantet, ter me negábis. C. Ait illi Petrus: S. Etiam si oportúerit me mori tecum, non te negábo. C. Simíliter et omnes discípuli dixérunt. Tunc venit Jesus cum illis in villam, quæ dícitur Gethsémani, et dixit discípulis suis: J. Sedéte hic, donec vadam illuc et orem. C. Et assúmpto Petro et duóbus fíliis Zebedaei, coepit contristári et mæstus esse. Tunc ait illis: J. Tristis est ánima mea usque ad mortem: sustinéte hic, et vigilate mecum. C. Et progréssus pusíllum, prócidit in fáciem suam, orans et dicens: J. Pater mi, si possíbile est, tránseat a me calix iste: Verúmtamen non sicut ego volo, sed sicut tu. C. Et venit ad discípulos suos, et invénit eos dormiéntes: et dicit Petro: J. Sic non potuístis una hora vigiláre mecum? Vigiláte et oráte, ut non intrétis in tentatiónem. Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma. C. Iterum secúndo ábiit et orávit, dicens: J. Pater mi, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum, fiat volúntas tua. C. Et venit íterum, et invenit eos dormiéntes: erant enim óculi eórum graváti. Et relíctis illis, íterum ábiit et orávit tértio, eúndem sermónem dicens. Tunc venit ad discípulos suos, et dicit illis: J. Dormíte jam et requiéscite: ecce, appropinquávit hora, et Fílius hóminis tradétur in manus peccatórum. Súrgite, eámus: ecce, appropinquávit, qui me tradet. C. Adhuc eo loquénte, ecce, Judas, unus de duódecim, venit, et cum eo turba multa cum gládiis et fústibus, missi a princípibus sacerdótum et senióribus pópuli. Qui autem trádidit eum, dedit illis signum, dicens: S. Quemcúmque osculátus fúero, ipse est, tenéte eum. C. Et conféstim accédens ad Jesum, dixit: S. Ave, Rabbi. C. Et osculátus est eum. Dixítque illi Jesus: J. Amíce, ad quid venísti? C. Tunc accessérunt, et manus injecérunt in Jesum et tenuérunt eum. Et ecce, unus ex his, qui erant cum Jesu, exténdens manum, exémit gládium suum, et percútiens servum príncipis sacerdótum, amputávit aurículam ejus. Tunc ait illi Jesus: J. Convérte gládium tuum in locum suum. Omnes enim, qui accéperint gládium, gládio períbunt. An putas, quia non possum rogáre Patrem meum, et exhibébit mihi modo plus quam duódecim legiónes Angelórum? Quómodo ergo implebúntur Scripturae, quia sic oportet fíeri? C. In illa hora dixit Jesus turbis: J. Tamquam ad latrónem exístis cum gládiis et fústibus comprehéndere me: cotídie apud vos sedébam docens in templo, et non me tenuístis. C. Hoc autem totum factum est, ut adimpleréntur Scripturae Prophetárum. Tunc discípuli omnes, relícto eo, fugérunt. At illi tenéntes Jesum, duxérunt ad Cáipham, príncipem sacerdótum, ubi scribæ et senióres convénerant. Petrus autem sequebátur eum a longe, usque in átrium príncipis sacerdótum. Et ingréssus intro, sedébat cum minístris, ut vidéret finem. Príncipes autem sacerdótum et omne concílium quærébant falsum testimónium contra Jesum, ut eum morti tráderent: et non invenérunt, cum multi falsi testes accessíssent. Novíssime autem venérunt duo falsi testes et dixérunt: S. Hic dixit: Possum destrúere templum Dei, et post tríduum reædificáre illud. C. Et surgens princeps sacerdótum, ait illi: S. Nihil respóndes ad ea, quæ isti advérsum te testificántur? C. Jesus autem tacébat. Et princeps sacerdótum ait illi: S. Adjúro te per Deum vivum, ut dicas nobis, si tu es Christus, Fílius Dei. C. Dicit illi Jesus: J. Tu dixísti. Verúmtamen dico vobis, ámodo vidébitis Fílium hóminis sedéntem a dextris virtútis Dei, et veniéntem in núbibus coeli. C. Tunc princeps sacerdótum scidit vestiménta sua, dicens: S. Blasphemávit: quid adhuc egémus téstibus? Ecce, nunc audístis blasphémiam: quid vobis vidétur? C. At illi respondéntes dixérunt: S. Reus est mortis. C. Tunc exspuérunt in fáciem ejus, et cólaphis eum cecidérunt, álii autem palmas in fáciem ejus dedérunt, dicéntes: S. Prophetíza nobis, Christe, quis est, qui te percússit? C. Petrus vero sedébat foris in átrio: et accéssit ad eum una ancílla, dicens: S. Et tu cum Jesu Galilaeo eras. C. At ille negávit coram ómnibus, dicens: S. Néscio, quid dicis. C. Exeúnte autem illo jánuam, vidit eum ália ancílla, et ait his, qui erant ibi: S. Et hic erat cum Jesu Nazaréno. C. Et íterum negávit cum juraménto: Quia non novi hóminem. Et post pusíllum accessérunt, qui stabant, et dixérunt Petro: S. Vere et tu ex illis es: nam et loquéla tua maniféstum te facit. C. Tunc coepit detestári et juráre, quia non novísset hóminem. Et contínuo gallus cantávit. Et recordátus est Petrus verbi Jesu, quod díxerat: Priúsquam gallus cantet, ter me negábis. Et egréssus foras, flevit amáre. Mane autem facto, consílium iniérunt omnes príncipes sacerdótum et senióres pópuli advérsus Jesum, ut eum morti tráderent. Et vinctum adduxérunt eum, et tradidérunt Póntio Piláto praesidi. Tunc videns Judas, qui eum trádidit, quod damnátus esset, pæniténtia ductus, réttulit trigínta argénteos princípibus sacerdótum et senióribus, dicens: S. Peccávi, tradens sánguinem justum. C. At illi dixérunt: S. Quid ad nos? Tu vidéris. C. Et projéctis argénteis in templo, recéssit: et ábiens, láqueo se suspéndit. Príncipes autem sacerdótum, accéptis argénteis, dixérunt: S. Non licet eos míttere in córbonam: quia prétium sánguinis est. C. Consílio autem ínito, emérunt ex illis agrum fíguli, in sepultúram peregrinórum. Propter hoc vocátus est ager ille, Hacéldama, hoc est, ager sánguinis, usque in hodiérnum diem. Tunc implétum est, quod dictum est per Jeremíam Prophétam, dicéntem: Et accepérunt trigínta argénteos prétium appretiáti, quem appretiavérunt a fíliis Israël: et dedérunt eos in agrum fíguli, sicut constítuit mihi Dóminus. Jesus autem stetit ante praesidem, et interrogávit eum præses, dicens: S. Tu es Rex Judæórum? C. Dicit illi Jesus: J. Tu dicis. C. Et cum accusarétur a princípibus sacerdótum et senióribus, nihil respóndit. Tunc dicit illi Pilátus: S. Non audis, quanta advérsum te dicunt testimónia? C. Et non respóndit ei ad ullum verbum, ita ut mirarétur præses veheménter. Per diem autem sollémnem consuéverat præses pópulo dimíttere unum vinctum, quem voluíssent. Habébat autem tunc vinctum insígnem, qui dicebátur Barábbas. Congregátis ergo illis, dixit Pilátus: S. Quem vultis dimíttam vobis: Barábbam, an Jesum, qui dícitur Christus? C. Sciébat enim, quod per invídiam tradidíssent eum. Sedénte autem illo pro tribunáli, misit ad eum uxor ejus, dicens: S. Nihil tibi et justo illi: multa enim passa sum hódie per visum propter eum. C. Príncipes autem sacerdótum et senióres persuasérunt populis, ut péterent Barábbam, Jesum vero pérderent. Respóndens autem præses, ait illis: S. Quem vultis vobis de duóbus dimítti? C. At illi dixérunt: S. Barábbam. C. Dicit illis Pilátus: S. Quid ígitur fáciam de Jesu, qui dícitur Christus? C. Dicunt omnes: S. Crucifigátur. C. Ait illis præses: S. Quid enim mali fecit? C. At illi magis clamábant,dicéntes: S. Crucifigátur. C. Videns autem Pilátus, quia nihil profíceret, sed magis tumúltus fíeret: accépta aqua, lavit manus coram pópulo, dicens: S. Innocens ego sum a sánguine justi hujus: vos vidéritis. C. Et respóndens univérsus pópulus, dixit: S. Sanguis ejus super nos et super fílios nostros. C. Tunc dimísit illis Barábbam: Jesum autem flagellátum trádidit eis, ut crucifigerétur. Tunc mílites praesidis suscipiéntes Jesum in prætórium, congregavérunt ad eum univérsam cohórtem: et exuéntes eum, chlámydem coccíneam circumdedérunt ei: et plecténtes corónam de spinis, posuérunt super caput ejus, et arúndinem in déxtera ejus. Et genu flexo ante eum, illudébant ei, dicéntes: S. Ave, Rex Judæórum. C. Et exspuéntes in eum, accepérunt arúndinem, et percutiébant caput ejus. Et postquam illusérunt ei, exuérunt eum chlámyde et induérunt eum vestiméntis ejus, et duxérunt eum, ut crucifígerent. Exeúntes autem, invenérunt hóminem Cyrenaeum, nómine Simónem: hunc angariavérunt, ut tólleret crucem ejus. Et venérunt in locum, qui dícitur Gólgotha, quod est Calváriæ locus. Et dedérunt ei vinum bíbere cum felle mixtum. Et cum gustásset, nóluit bibere. Postquam autem crucifixérunt eum, divisérunt vestiménta ejus, sortem mitténtes: ut implerétur, quod dictum est per Prophétam dicentem: Divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt sortem. Et sedéntes, servábant eum. Et imposuérunt super caput ejus causam ipsíus scriptam: Hic est Jesus, Rex Judæórum. Tunc crucifíxi sunt cum eo duo latrónes: unus a dextris et unus a sinístris. Prætereúntes autem blasphemábant eum, movéntes cápita sua et dicéntes: S. Vah, qui déstruis templum Dei et in tríduo illud reædíficas: salva temetípsum. Si Fílius Dei es, descénde de cruce. C. Simíliter et príncipes sacerdótum illudéntes cum scribis et senióribus, dicébant: S. Alios salvos fecit, seípsum non potest salvum fácere: si Rex Israël est, descéndat nunc de cruce, et crédimus ei: confídit in Deo: líberet nunc, si vult eum: dixit enim: Quia Fílius Dei sum. C. Idípsum autem et latrónes, qui crucifíxi erant cum eo, improperábant ei. A sexta autem hora ténebræ factæ sunt super univérsam terram usque ad horam nonam. Et circa horam nonam clamávit Jesus voce magna, dicens: J. Eli, Eli, lamma sabactháni? C. Hoc est: J. Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquísti me? C. Quidam autem illic stantes et audiéntes dicébant: S. Elíam vocat iste. C. Et contínuo currens unus ex eis, accéptam spóngiam implévit acéto et impósuit arúndini, et dabat ei bíbere. Céteri vero dicébant:


 Sine, videámus, an véniat Elías líberans eum. C. Jesus autem íterum clamans voce magna, emísit spíritum. Hic genuflectitur, et pausatur aliquantulum. Et ecce, velum templi scissum est in duas partes a summo usque deórsum: et terra mota est, et petræ scissæ sunt, et monuménta apérta sunt: et multa córpora sanctórum, qui dormíerant, surrexérunt. Et exeúntes de monuméntis post resurrectiónem ejus, venérunt in sanctam civitátem, et apparuérunt multis. Centúrio autem et qui cum eo erant, custodiéntes Jesum, viso terræmótu et his, quæ fiébant, timuérunt valde, dicéntes: S. Vere Fílius Dei erat iste. C. Erant autem ibi mulíeres multæ a longe, quæ secútæ erant Jesum a Galilaea, ministrántes ei: inter quas erat María Magdaléne, et María Jacóbi, et Joseph mater, et mater filiórum Zebedaei. Cum autem sero factum esset, venit quidam homo dives ab Arimathaea, nómine Joseph, qui et ipse discípulus erat Jesu. Hic accéssit ad Pilátum, et pétiit corpus Jesu. Tunc Pilátus jussit reddi corpus. Et accépto córpore, Joseph invólvit illud in síndone munda. Et pósuit illud in monuménto suo novo, quod excíderat in petra. Et advólvit saxum magnum ad óstium monuménti, et ábiit. Erat autem ibi María Magdaléne et áltera María, sedéntes contra sepúlcrum. Munda cor meum ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen. D. Jube, domne, benedicere. S. Dóminus sit in corde tuo et in lábiis tuis: ut digne et competénter annúnties Evangélium suum: In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen. Altera autem die, quæ est post Parascéven, convenérunt príncipes sacerdótum et pharisaei ad Pilátum, dicéntes: Dómine, recordáti sumus, quia sedúctor ille dixit adhuc vivens: Post tres dies resúrgam. Jube ergo custodíri sepúlcrum usque in diem tértium: ne forte véniant discípuli ejus, et furéntur eum, et dicant plebi: Surréxit a mórtuis; et erit novíssimus error pejor prióre. Ait illis Pilátus: Habétis custódiam, ite, custodíte, sicut scitis. Illi autem abeúntes, muniérunt sepúlcrum, signántes lápidem, cum custódibus. R. Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

[In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: J. Sapete bene che tra due giorni sarà Pasqua, e il Figlio dell’uomo verrà catturato per essere crocifisso. C. Si radunarono allora i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo nell’atrio del principe dei sacerdoti denominato Caifa, e tennero consiglio sul modo di catturar Gesù con inganno, e così poterlo uccidere. Ma dicevano: S. Non però nel giorno di festa perché non sorga un qualche tumulto nel popolo. C. Mentre Gesù si trovava in Betania nella casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che portava un vaso d’alabastro, pieno d’unguento prezioso, e lo versò sopra il capo di lui che era adagiato alla mensa. Ma nel veder ciò, i discepoli se ne indignarono e dissero: S. Perché tale sperpero? Poteva esser venduto quell’unguento a buon prezzo, e distribuito [il denaro] ai poveri. C. Ma, sentito questo, Gesù disse loro: J. Perché criticate voi questa donna? Ella invero ha fatto un’opera buona con me. I poveri infatti li avete sempre con voi, mentre non sempre potrete avere me. Spargendo poi questo unguento sopra il mio corpo, l’ha sparso come per alludere alla mia sepoltura. In verità io vi dico che in qualunque luogo sarà predicato questo vangelo, si narrerà altresì, in memoria di lei, quello che ha fatto. C. Allora uno dei dodici, detto Giuda Iscariote, se ne andò dai capi dei sacerdoti, e disse loro: S. Che mi volete dare, ed io ve lo darò nelle mani? C. Ed essi gli promisero trenta monete di argento. E da quel momento egli cercava l’occasione opportuna per darlo nelle loro mani. Or il primo giorno degli azzimi si accostarono a Gesù i discepoli e gli dissero: S. Dove vuoi tu che ti prepariamo per mangiare la Pasqua? C. E Gesù rispose loro: J. «Andate in città dal tale e ditegli: Il Maestro ti fa sapere: Il mio tempo oramai si è approssimato; io coi miei discepoli faccio la Pasqua da te». C. E i discepoli eseguirono quello che aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. Venuta poi la sera [Gesù], si era messo a tavola coi suoi dodici discepoli; e mentre mangiavano, egli disse: J. In verità vi dico che uno di voi mi tradirà. C. Sommamente rattristati, essi cominciarono a uno a uno a dirgli: S. Forse sono io, o Signore? C. Ma egli in risposta disse: J. Chi con me stende [per intingere] la mano nel piatto, è proprio quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo, è vero, se ne andrà, come sta scritto di lui; ma guai a quell’individuo, per opera del quale il Figliuolo dell’uomo sarà tradito! Era bene per lui il non esser mai nato! C. Pigliando la parola, Giuda, che poi lo tradì, gli disse: S. Sono forse io, o Maestro? C. Gli rispose [Gesù]: J. Tu l’hai detto. C. Stando dunque essi a cena, Gesù prese un pane, lo benedisse, lo spezzò e lo porse ai suoi discepoli, dicendo: J. Prendete e mangiate; questo è il mio Corpo. C. E preso un calice, rese le grazie, e lo dette loro, dicendo: J. Bevetene tutti. Questo è il mio Sangue del nuovo testamento, che sarà sparso per molti in remissione dei peccati. E vi dico ancora, che non berrò più di questo frutto della vite fino a quel giorno, in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio. C. Recitato quindi l’inno, uscirono, diretti al Monte oliveto. Disse allora Gesù: J. Tutti voi in questa notte proverete scandalo per causa mia. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge. Ma dopo che sarò resuscitato, vi precederò in Galilea. C. In risposta, Pietro allora gli disse: S. Anche se tutti fossero scandalizzati per te, io non mi scandalizzerò mai. C. E Gesù a lui: J. In verità ti dico che in questa medesima notte, prima che il gallo canti, tu mi avrai già rinnegato tre volte. C. E Pietro gli replico: S. Ancorché fosse necessario morire con te, io non ti rinnegherò. C. E dissero lo stesso gli altri discepoli. Arrivò alfine ad un luogo, nominato Getsemani, e Gesù disse ai suoi discepoli: J. Fermatevi qui, mentre io vado più in là a fare orazione. C. E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a farsi triste e ad essere mesto. E disse loro: J. È afflitta l’anima mia fino a morirne. Rimanete qui e vegliate con me. C. E fattosi un poco più in avanti, si prostrò a terra colla faccia e disse: J. Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice. In ogni modo non come voglio io [si faccia], ma come vuoi tu. C. E tornò dai suoi discepoli e li trovò che dormivano. Disse quindi a Pietro: J. E cosi, non poteste vegliare un’ora con me? Vegliate e pregate, perché non siate sospinti in tentazione. Lo spirito, in realtà, è pronto, ma è fiacca la carne. C. Di nuovo se ne andò per la seconda volta, e pregò, dicendo: J. Padre mio, se non può passar questo calice senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà. C. E ritornò di nuovo a loro, e li ritrovò addormentati. I loro occhi erano proprio oppressi dal sonno. E, lasciatili stare, andò nuovamente a pregare per la terza volta, dicendo le stesse parole. Fu allora che si riavvicinò ai suoi discepoli e disse loro: J. Dormite pure e riposatevi. Oramai l’ora è vicina, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo; ecco che è vicino colui che mi tradirà. C. Diceva appunto così, quando arrivò Giuda, uno dei dodici e con lui una gran turba di gente con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore, aveva dato loro questo segnale, dicendo: S. Quello che io bacerò, è proprio lui; pigliatelo. C. E, senza indugiare, accostatosi a Gesù, disse: S. Salve, o Maestro! C. E gli dette un bacio. Gesù gli disse: J. Amico, a che fine sei tu venuto? C. E allora si fecero avanti gli misero le mani addosso e lo catturarono. Ma ecco che uno di quelli che erano con Gesù, stesa la mano, sfoderò una spada e, ferito un servo del principe dei sacerdoti, gli staccò un orecchio. Allora gli disse Gesù: J. Rimetti al suo posto la spada, perché chi darà di mano alla spada, di spada perirà. Credi tu forse che io non possa pregare il Padre mio, e che egli non possa fornirmi all’istante più di dodici legioni di Angeli? Come dunque potranno verificarsi le Scritture, dal momento che deve succedere così? C. In quel punto medesimo disse Gesù alle turbe: J. Come un assassino siete venuti a prendermi, con spade e bastoni. Ogni giorno io me ne stavo nel tempio a insegnare, e allora non mi prendeste mai. C. E tutto questo avvenne, perché si compissero le scritture dei Profeti. Dopo ciò, tutti i discepoli lo abbandonarono, dandosi alla fuga. Ma quelli, afferrato Gesù, lo condussero a Caifa; principe dei sacerdoti, presso il quale si erano radunati gli scribi e gli anziani. Pietro però lo aveva seguito alla lontana fino all’atrio del principe dei sacerdoti; ed, entrato là, si era messo a sedere coi servi allo scopo di vedere la fine. I capi dei sacerdoti intanto e tutto il consiglio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù per aver modo di metterlo a morte; ma non trovandola, si fecero avanti molti falsi testimoni. Per ultimo se ne presentarono altri due, e dissero: S. Costui disse: Io posso distruggere il tempio di Dio, e in tre giorni posso rifabbricarlo. C. Levatosi su allora il principe dei sacerdoti, disse [a Gesù]: S. Io ti scongiuro per il Dio vivo, che tu ci dica, se sei il Cristo, figlio di Dio. C. Gesù rispose: J. Tu l’hai detto. Anzi vi dico che vedrete altresì il Figlio dell’uomo, assiso alla destra della Potenza di Dio, venir giù sulle nubi del cielo. C. Il principe dei sacerdoti allora si strappò le vesti, dicendo: S. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. È reo di morte! C. Allora gli sputarono in faccia e lo ammaccarono coi pugni. Altri poi lo schiaffeggiarono e gli dicevano: S. Indovina, o Cristo, chi è che ti ha percosso. C. Pietro intanto se ne stava seduto fuori nell’atrio. Or gli si accostò una serva e gli disse: S. Anche tu eri con Gesù di Galilea. C. Ma egli, alla presenza di tutti, negò, dicendo: S. Non capisco quello che dici. C. Mentre poi stava per uscire dalla porta, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: S. Anche lui era con Gesù Nazareno! C. E di nuovo egli negò giurando: S. Io non conosco quest’uomo! C. Di lì a poco gli si avvicinarono coloro che si trovavano là, e dissero a Pietro: S. Tu sei davvero uno di quelli, perché anche il tuo accento ti da a conoscere per tale. C. Cominciò allora a imprecare e a scongiurare che non aveva mai conosciuto quell’uomo. E a un tratto il gallo cantò; allora Pietro si rammentò del discorso di Gesù: «Prima che il gallo canti, tu mi avrai rinnegato tre volte»; ed uscito di là, pianse amaramente. Fattosi poi giorno, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo congiurarono insieme contro Gesù per metterlo a morte; e, legatolo, lo portarono via e lo presentarono al governatore Ponzio Pilato. Il traditore Giuda, allora, visto che Gesù era stato condannato, sospinto dal rimorso, riportò ai capi dei sacerdoti e agli anziani i trenta denari, e disse: S. Ho fatto male, tradendo il sangue d’un innocente! C. Ma essi risposero: S. Che ci importa? Pensaci tu! C. Gettate perciò nel tempio le trenta monete d’argento, egli si ritirò di là, andando a impiccarsi con un laccio. I capi dei sacerdoti per altro, raccattate le monete, dissero: S. Non conviene metterle colle altre nel tesoro, essendo prezzo di sangue. C. Dopo essersi consultati tra di loro, acquistarono con esse un campo d’un vasaio per seppellirvi i forestieri. Per questo, quel campo fu chiamato Aceldama, vale a dire, campo del sangue; e ciò fino ad oggi. Così si verificò quello che era stato predetto per mezzo di Geremia profeta: «Ed hanno ricevuto i trenta denari d’argento, prezzo di colui che fu venduto dai figliuoli d’Israele, e li hanno impiegati nell’acquisto del campo d’un vasaio, come mi aveva imposto il Signore». Gesù pertanto si trovò davanti al governatore, che lo interrogò, dicendogli: S. Sei tu il re dei giudei? C. Gesù gli rispose: J. Tu lo dici. C. Ed essendo stato accusato dai capi dei sacerdoti e dagli anziani, non rispose nulla. Gli disse allora Pilato: S. Non senti di quanti capi d’accusa ti fanno carico? C. Ma egli non replicò parola, cosicché il governatore ne rimase fortemente meravigliato. Nella ricorrenza della festività [pasquale] il governatore era solito di rilasciare al popolo un detenuto a loro piacimento. Ne aveva allora in prigione uno famoso, chiamato Barabba. A tutti coloro perciò che si erano ivi radunati, Pilato disse: S. Chi volete che io vi lasci libero? Barabba, oppure Gesù, chiamato il Cristo? C. Sapeva bene che per invidia gliel’avevano condotto lì. Mentre intanto egli se ne stava seduto in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: S. Non aver nulla da fare con quel giusto, perché oggi in sogno ho dovuto soffrire tante ansie per via di lui! C. Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani sobillarono il popolo, perché fosse chiesto Barabba e fosse ucciso Gesù. In risposta allora il governatore disse loro: S. Chi volete che vi sia rilasciato? C. E quei risposero: S. Barabba. C. Replicò loro Pilato: S. Che ne farò dunque di Gesù, chiamato il Cristo? C. E ad una voce, tutti risposero: S. Crocifiggilo! C. Disse loro il governatore: S. Ma che male ha fatto? C. Ed essi gridarono più forte, dicendo: S. Sia crocifisso! C. Vedendo Pilato che non si concludeva nulla, ma anzi che si accresceva il tumulto, presa dell’acqua, si lavò le mani alla presenza del popolo, dicendo: S. Io sono innocente del sangue di questo giusto; è affar vostro! C. E per risposta tutto quel popolo disse: S. Il sangue di lui ricada sopra di noi e sopra i nostri figli! C. Allora rilasciò libero Barabba; e, dopo averlo fatto flagellare, consegnò loro Gesù, perché fosse crocifisso. I soldati del governatore poi trascinarono Gesù nel pretorio e gli schierarono attorno tutta la coorte; e lo spogliarono, rivestendolo d’una clamide di color rosso. Intrecciata poi una corona di spine, gliela posero in testa, e nella mano destra [gli misero] una canna. E piegando il ginocchio davanti a lui, lo deridevano col dire: S. Salve, o re dei Giudei. C. E dopo avergli sputato addosso, presagli la canna, con essa lo battevano nel capo. E dopo che l’ebbero schernito, gli levarono di dosso la clamide, gli rimisero le sue vesti, e lo condussero via per crocifiggerlo. Nell’uscire [di città], trovarono un tale di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a pigliare la croce. E arrivarono a un luogo, detto Golgota, cioè, del cranio. E dettero da bere [a Gesù] del vino mescolato con fiele; ma avendolo egli gustato, non lo volle bere. E dopo che l’ebbero crocifisso, se ne divisero le vesti, tirandole a sorte. E ciò perché si adempisse quello che era stato detto dal Profeta, quando disse: «Si sono divisi i miei abiti ed hanno messo a sorte la mia veste». E, postisi a sedere, gli facevano la guardia. E al di sopra del capo di lui, appesero, scritta, la causa della sua condanna: – Questi è Gesù, re dei Giudei -. Furono allora crocifissi insieme con lui due ladroni: uno a destra ed uno a sinistra. E quelli che passavano di li, lo schernivano, crollando il capo, e dicevano: S. Tu che distruggi il tempio di Dio e che lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso; se sei il Figlio di Dio, scendi giù dalla croce. C. Parimenti anche i capi dei sacerdoti lo deridevano, beffandosi di lui cogli scribi e cogli anziani del popolo, e dicendo: S. Salvò gli altri, e non può salvare se stesso. Se è il re d’Israele, discenda ora dalla croce, e noi gli crederemo. Confidò in Dio. Se vuole, Iddio lo liberi ora! O non disse che era Figliuolo di Dio? C. E questo pure gli rinfacciavano i ladroni che erano stati crocifissi con lui. Si fece poi un gran buio dall’ora sesta fino all’ora nona. E verso l’ora nona Gesù gridò con gran voce: J. Eli, Eli, lamma sabacthani; C. cioè: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed alcuni che erano li vicini, sentitolo, dissero: S. Costui chiama Elia! C. E subito uno di loro, correndo, presa una spugna, l’inzuppò nell’aceto, e fermatala in vetta a una canna, gli dette da bere. Gli altri invece dicevano: S. Lasciami vedere, se viene Elia a liberarlo. C. Ma Gesù, gridando di nuovo a gran voce, rese lo spirito. Si genuflette per un momento. Ed ecco che il velo del tempio si divise in due parti dall’alto in basso; e la terra tremò; e le pietre si spaccarono, le tombe si aprirono, e molti corpi di Santi che vi erano sepolti, resuscitarono. Usciti anzi dai monumenti dopo la resurrezione di Lui, entrarono nella città santa e comparvero a molti. Il centurione poi e gli altri che con lui facevano la guardia a Gesù, veduto il terremoto e le cose che succedevano, ne ebbero gran paura e dissero: S. Costui era davvero il Figliuolo di Dio. C. C’erano pure lì, in disparte, molte donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea per assisterlo, tra le quali era Maria Maddalena, e Maria di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo. Essendosi poi fatta sera, arrivò un uomo, ricco signore di Arimatea, chiamato Giuseppe, discepolo anche lui di Gesù. Egli si era presentato a Pilato per chiedergli il corpo di Gesù; e Pilato aveva dato ordine che ne fosse restituito il corpo. E, presolo, Giuseppe lo avvolse in un lenzuolo pulito, e lo pose in un sepolcro nuovo, che si era già fatto scavare in un masso; e, dopo aver ribaltata alla bocca della tomba una gran lapide, se ne andò. Erano ivi Maria Maddalena e l’altra Maria, sedute di davanti al sepolcro.]

OMELIA

Omelia della Domenica delle Palme

[del Canonico G.B Musso -Vol I., 1851]

-Gesù conosciuto e sconosciuto-

Dopo lo stupendo miracolo operato da Gesù Cristo in richiamare a vita Lazzaro già da quattro giorni putrido, e fetente nel suo sepolcro, miracolo di tanta evidenza e di tanta fama in Gerosolima, che non poteva né mettersi in dubbio, né tenersi occulto, si presenta Gesù alle porte di questa città, sedente sopra un giumento, in aria, come già predisse un dei suoi profeti, ed in contegno di re pacifico e mansueto. Ed ecco tutto il popolo uscirgli incontro, memore di tanti altri veduti prodigi, ed accoglierlo colle più vive rimostranze di applauso, di ossequio e di trionfo. Con palme alla mano, con ispiegar lungo la via le proprie vesti, con giulive acclamazioni Lo festeggiano, Lo riconoscono figliuol di Davide, re d’Israele, e come da Dio mandato Lo colmano di benedizioni: “Hosanna filio David: benedictus qui venit in nomine Domini”. Ma oh dell’umana incostanza condizion deplorabile! Dopo tre giorni si cangia la scena. Gesù non è più conosciuto, che sotto le nere sembianze di malfattore, e reo di morte. Questo tragico avvenimento volesse il cielo che non si rinnovasse anche al presente. Da tutte le creature è stato riconosciuto Gesù per Figlio di Dio, come son per dimostrarvi; si riconosce tuttavia per tale da’ suoi cristiano, e pure in pratica viene sconosciuto ed oltraggiato da molti, massime in quel Sacramento, ove dimora realmente presente. Gesù dunque riconosciuto in sua vita da tutte le sue creature per vero Dio, sarà la prima parte della nostra spiegazione, diretta a ravvivare la nostra fede. Gesù nella SS. Eucaristia non conosciuto, ed oltraggiato da molti suoi cristiani, sarà la seconda, diretta a compungere il nostro cuore, e a riformare la nostra condotta in un punto di tanta importanza. Incominciamo.

I. Sta Gesù ancora nascosto nell’utero materno, ed è riconosciuto da Giovanni, racchiuso anch’esso nel seno materno. Lo conosce Elisabetta, e se ne congratula con Maria, sua Vergine Madre. Lo conosce Zaccaria, e Lo benedice per la sua discesa dall’alto a visitare e a redimere il popolo suo, e tutta l’umana generazione, come già fu predetto per bocca dei suoi santi profeti. Nasce Gesù in Betlemme, e discendono gli angeli a cantarne le glorie, ed accorrono i pastori ad adorarLo bambino. Una stalla, che stella chiamasi di Giacobbe secondo il linguaggio delle divine scritture, Lo da a conoscere ai re dell’oriente, che sotto la sua scorta vengono a prostrarsi ai suoi piedi, e coi misteriosi loro doni Lo riconoscono vero Dio, vero uomo, re d’Israele, re del cielo e della terra. Erode, Erode anch’egli colla crudelissima strage di tant’innocenti fanciulli, promulga la fama del suo regal nascimento in tutto l’impero romano, ed in tutte le più remote nazioni. Fa così servire l’Altissimo l’empietà dei suoi nemici alla manifestazione di sua gloria. Che dirò di Simeone? Questo santo vecchio, assicurato dallo Spirito Santo che non avrebbe la morte, se prima non vedeva con gli occhi propri l’unto del Signore, Lo prende tra le sue braccia, se Lo stringe al seno, e Lo chiama Salvatore, da Dio mandato per la salute dei popoli, lume a diradare gli errori del gentil esimo, e la gloria di Israele. Si aggiunse a Simeone Anna la profetessa, e anch’essa ne parla a tutti gli astanti, che aspettavano la redenzione di Israele, come già cominciata nel fanciulletto Gesù. Cresce Egli in età, e fin dai dodici anni cominciano a vedere in lampo di sua divina sapienza gli stupefatti dottori. Ammirano in seguito, i sacerdoti e scribi, e i saggi dell’ebraismo l’incomparabile dottrina, in Chi non mai apprese lettere, o veduto maestro, e come sapeva leggere nella loro mente i pensieri, e scoprire nel loro cuore l’invidia, l’ipocrisia, ed ogni più maliziosa intenzione. Così a questi lumi non avessero chiusi gli occhi con ribelle superba volontà! – Sentono la virtù dell’uomo-Dio le creature insensate, “quae faciunt verbum ejus. Nelle nozze di Cana in Galilea l’acqua si cangia in vino. Si fa solido sotto i suoi piedi il mare. Ubbidiscono al suo comando il mare, i venti e le procelle. Ad una sua imprecazione inaridisce sull’istante la sterile ficaia. Al tocco delle sue mani vedono i ciechi, parlano i muti ad un atto di sua volontà, ed esaltano la sua beneficenza, son raddrizzati gli storpi, son mondati i lebbrosi, sono prosciolti gli ossessi. Gli infermi di ogni genere, di ogni età, di ogni sesso, ravvisano in Lui un potere sovrumano ed esaltano la sua beneficenza. Per la moltitudine dei pani nel deserto, le turbe saziate s’invogliano di farlo re. Che più? Lo conoscono, Lo temono gli stessi demoni, e usciti dai corpi invasati ad alta voce Lo confessano Figliuol di Dio. Lo conosce la morte, e vivi Gli abbandona il figlio della vedova di Naim, la figlia del principe della Sinagoga, e Lazzaro quatriduano. – Più chiara ancor risplende la luce, e la cognizione del divin Salvatore nelle tetre e dolorose vicende della sua passione e della sua morte. Sentirono pure le turbe, ad arrestarLo nell’orto, la forza di una sua parola, che le gettò rovesciate a terra; sentì pure l’iniquo discepolo Giuda il pungente rimorso, e confessò traditore se stesso, e Gesù sangue innocente. Provvidenza superna guida la man di Pilato a scrivere l’elogio di Lui crocifisso, Lo chiama re dei Giudei e per conseguenza Lo dà a conoscere pel Messia da noi aspettato, e da tutte le genti. L’invoca dalla sua croce Disma il buon ladro col nome di suo Signore, e Lo prega di aver memoria di sé, all’entrar nel suo regno. Sente quella gran voce il Centurione, impossibile a tramandarsi da un Crocifisso nell’atto del suo spirare, e Lo dichiara altamente vero Figliuol di Dio, “vere filius Dei erat iste. Il sole che nel suo morire si oscura per un non naturale eclisse, le tenebre che si spargono sulla faccia dell’universo, il gran tremuoto che scuote orribilmente la terra, le pietre che si spezzano, il velo del Tempio che si squarcia, i sepolcri che si aprono, i morti che risorgono e si fan vedere nella santa città, non dan forse manifeste prove di conoscere e di compiangere il loro Creatore? Lo conoscon le turbe che discendono dal Calvario battendosi il petto. E Nicodemo, che Lo conobbe vivente, Lo riconosce defunto. Si aggiunge ad esso Giuseppe d’Arimatea (l’un principe, l’altro senatore) e con santo ardimento chiede a Pilato il corpo di Gesù Nazareno, ed entrambi rendono segnalata la loro fede con deporLo di croce, e darGli onorevolissima sepoltura. – A finirla, tutte le nazioni dell’uno e dell’altro emisfero han piegato la fronte al Figliuol di Dio crocifisso. Tutti i fedeli han detto, e dicono tuttora con Pietro, “Tu es Christus filius Dei vivi, tutti L’adorano, e Lo riconoscono vivo e vero nell’augustissimo Sacramento, ove Egli volle restar con noi fino alla consumazione dei secoli. Si avverò quel che predisse Malachia Profeta, che dall’oriente all’occaso grande è il suo nome, ed ad onor del suo nome si offre in ogni luogo sacrificio ed oblazione immacolata. “Ab ortu solis, usque ad occasum, magnum est nomen meum in gentibus, et in omni loco sacrificatur et offertur nomini meo oblation munda (Malac. I, 11).

II. Ora chi il crederebbe? Quest’Uomo-Dio così palese, così manifesto è un Dio ignoto ad una gran parte dei suoi cristiani. Vide S. Paolo nei contorni di Atene un altare, in fronte al quale leggevasi questa iscrizione, “Ignoto Deo”: ed entrato nell’Areopago alla presenza di quei sapienti: “quel Dio, cominciò il suo discorso, quel Dio che onorate senza conoscerLo, son qui ad annunziarvi”.- “Quod ignorantes colitis, hoc ego annuntio vobis (Act. XVII, 23). Oh per quanti e quanti cristiani si potrebbe scrivere la stessa epigrafe sui tabernacoli, ove Gesù Cristo realmente dimora! Questo Dio, questo gran Dio, è un Dio ad essi affatto conosciuto, “Ignoto Deo”. Dio sconosciuto, perché entrano in Chiesa per tutt’altro fine che per adorarLo. “Dio sconosciuto”, perché della sua casa fan meno conto che di una sala profana, perché in quel luogo santo alle preghiere sostituiscono le ciarle, alla devozione lo svagamento, alla pietà il libertinaggio, alla modestia l’inverecondia e lo scandalo: perché lasciano correre gli anni e le Pasque senza accostarsi a riceverLo; perché assistono al Sacrificio tremendo o in piedi, come i Giudei sul Calvario, insultando Gesù sulla croce, o con piegar un ginocchio, come i soldati nel Pretorio, disprezzatori di Gesù coronato di spine. A rivederci al suo tribunale! Questo Dio ignoto si farà ben conoscere nel finale giudizio a chi non Lo conobbe, e a chi non volle conoscerLo, “cognoscetur Dominus iudicia facies (Ps. IX). – Ma per noi, diran taluni, per noi non è un Dio ignoto. Noi Lo crediamo realmente presente nell’adorabile Sacramento, e ci disponiamo a riceverLo alla sacra mensa nella prossima Pasqua. Vi risponde l’evangelista Giovanni: voi dite di conoscere Dio, ma se non osservate i suoi comandi, siete mentitori, siete bugiardi. “Qui dicit se nosse eum, et mandata eius non custodit, mendax est(I Giov. II, 4). Dite di conoscere Dio, e volete disporvi a riceverLo nella pasquale Comunione; conoscerete ancora la dignità, la grandezza, il merito di un tanto Ospite. Or bene, qual luogo Gli preparate? Il vostro cuore? Ma se il vostro cuore non è retto con Dio, se il vostro cuore per l’ingiustizia è una spelonca di ladri, se per la disonestà una cloaca di immondezze, se per l’odio è un covile di serpenti, se vi abita il peccato mortale, se lo possiede il demonio, vorrete in questo albergare l’Agnello di Dio senza macchia, il Santo dei santi, l’Autore di ogni santità? Dirò che conoscete Dio quando a Lui vi appresserete con un cuore mondo per l’innocenza o mondato e lavato con lagrime di contrizione sincera. Quando un sincero dolore delle vostre colpe sarà accompagnato da ferma, stabile ed efficace risoluzione di non più peccare, e per più non peccare, porrete in pratica i mezzi necessari che vi allontanino dal peccato, quali sono la custodia dei sensi, la fuga delle occasioni, l’uso della preghiera, la lettura dei libri devoti, la frequenza dei Sacramenti, la memoria dei novissimi e delle massime eterne. Dirò che conoscete Dio quando, oltre le indicate disposizioni, prima di accostarvi all’altare di Dio, vi sarete riconciliati con i vostri fratelli, quando avrete dato la pace ai vostri nemici, quando avrete restituito la fama, e, potendo, la roba altrui; quando una fede viva, un’umiltà profonda, un amore, un desiderio ardente di unirvi a Dio, vi accompagneranno all’eucaristico divino convito. Questo sì che sarà conoscere Dio in spirito e verità! Sarà questo un segno, fedeli miei, un segno di gran consolazione per voi, segno che vi caratterizzerà pecorelle del gregge di Gesù Cristo. Io, dice Egli, conosco le mie pecore, ed esse conoscono me, loro buon Pastore: “Ego cognosco oves meas, et cognoscunt me meæ” (S. Giov. X, 14); e siccome Io veggo che da esse veramente sono conosciuto, così ora do loro in pegno, e darò poi il premio dell’eterna vita, et Ego vitam æternam do eis” (S. Giov. X, 28): ove la sua grazia ci conduca.

Credo

Offertorium V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Ps LXVIII:21-22.

Impropérium exspectávit cor meum et misériam: et sustínui, qui simul mecum contristarétur, et non fuit: consolántem me quæsívi, et non invéni: et dedérunt in escam meam fel, et in siti mea potavérunt me acéto. [Oltraggio e dolore mi spezzano il cuore; attendevo compassione da qualcuno, e non ci fu; qualcuno che mi consolasse e non lo trovai: per cibo mi diedero del fiele e assetato mi hanno dato da bere dell’aceto.]

Secreta Concéde, quæsumus, Dómine: ut oculis tuæ majestátis munus oblátum, et grátiam nobis devotionis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat. [Concedi, te ne preghiamo, o Signore, che quest’ostia offerta alla presenza della tua Maestà, ci ottenga la grazia della devozione e ci acquisti il possesso della Eternità beata.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Communio Matt XXVI:42.

Pater, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum: fiat volúntas tua. [Padre mio, se non è possibile che questo calice passi senza chi lo beva, sia fatta la tua volontà.]

Postcommunio S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus. Per hujus, Dómine, operatiónem mystérii: et vitia nostra purgéntur, et justa desidéria compleántur. [O Signore, per l’efficacia di questo sacramento, siano purgati i nostri vizi e appagati i nostri giusti desideri.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

SALMI SUL NOME DI GESU’

Hymnus

Jesus dulcis memoria,

Dans vera cordi gaudia:

Sed super mel, et omnia

Eius dulcis præsentia.

Nil canitur suavius,

Nil auditur iucundius,

Nil cogitatur dulcius,

Quam Jesus Dei Filius.

Jesu, spes pœnitentibus,

Quam pius es petentibus,

Quam bonus te quarentibus,

Sed quid invenientibus?

Nec lingua valet dicere,

Nec litera exprimere,

Expertus potest credere,

Quid sit Jesum diligere.

Sis, Jesu, nostrum gaudium

Qui es futurum præmium.

Sit nostra in te gloria,

Per cuncta semper sæcula. Àmen.

-J-

I.. Antiph. In nomine Jesu,

Salmo XCIX

Jubilate Deo, omnis terra; servite Domino in lætitia. Introite in conspectu ejus in exsultatione.

Scitote quoniam Dominus ipse est Deus; ipse fecit nos, et non ipsi nos; 

Populus ejus, et oves pascuae ejus. Introite portas ejus in confessione, atria ejus in hymnis; confitemini illi.

Laudate nomen ejus, quoniam suavis est Dominus; in æternum misericordia ejus, et usque in generationem et generationem veritas ejus. Gloria Patri, et Filio, etc.

 I. Antiph, In nomine Jesu, omne genuflectatur cœlestium, terrestrium ed infernorum.

-E-

II. Antiph. Ego autem in Domino gaudebo, et exultate in Deo Jesu meo.

Salmo XIX

Exaudiat te Dominus in die tribulationis; protegat te nomen Dei Jacob.

Mittat tibi auxilium de sancto, et de Sion tueatur te.

Memor sit omnis sacrificii tui, et holocaustum tuum pingue fiat.

Tribuat tibi secundum cor tuum, et omne consilium tuum confirmet.

Lætabimur in salutari tuo; et in nomine Dei nostri magnificabimur.

Impleat Dominus omnes petitiones tuas; nunc cognovi quoniam salvum fecit Dominus christum suum.

Exaudiet illum de caelo sancto suo, in potentatibus salus dexteræ ejus.

Hi in curribus, et hi in equis; nos autem in nomine Domini Dei nostri invocabimus.

Ipsi obligati sunt, et ceciderunt, nos autem surreximus, et erecti sumus.

Domine, salvum fac regem, et exaudi nos in die qua invocaverimus te.

Gloria Patri, et Filio, etc. etc.

 II. Antiph. Ego autem in Domino gaudebo, et exultate in Deo Jesu meo.

-S-

III. Antiph. Sanctum et terribile.

Salmo XI

Salvum me fac, Domine, quoniam defecit sanctus, quoniam diminutæ sunt veritates a filiis hominum.

Vana locuti sunt unusquisque ad proximum suum; labia dolosa, in corde et corde locuti sunt.

Disperdat Dominus universa labia dolosa, et linguam magniloquam.

Qui dixerunt: Linguam nostram magnificabimus; labia nostra a nobis sunt. Quis noster dominus est?

Propter miseriam inopum, et gemitum pauperum, nunc exsurgam, dicit Dominus. Ponam in salutari; fiducialiter agam in eo.

Eloquia Domini, eloquia casta; argentum igne examinatum, probatum terræ, purgatum septuplum.

Tu, Domine, servabis nos, et custodies nos a generatione hac in æternum.

In circuitu impii ambulant: secundum altitudinem tuam multiplicasti filios hominum. Gloria Patri, etc.

 III. Antiph. Sanctum et terribile Nomen eius: initium sapientiæ timor Domini.

-U-

Antiph. Vocabis Nomen eius Jesum.

Salmo XII.

Usquequo, Domine, oblivisceris me in finem? usquequo avertis faciem tuam a me?

Quamdiu ponam consilia in anima mea, dolorem in corde meo per diem?

Usquequo exaltabitur inimicus meus super me? respice, et exaudi me, Domine Deus meus.

Illumina oculos meos, ne umquam obdormiam in morte; nequando dicat inimicus meus: Prævalui adversus eum.

Qui tribulant me exsultabunt si motus fuero; ego autem in misericordia tua speravi.

Exsultabit cor meum in salutari tuo. Cantabo Domino qui bona tribuit mihi; et psallam nomini Domini altissimi.Gloria Patri, et Filio, etc. etc.

 Antiph. Vocabis nomen eius Jesum, ipse enim salvum faciet populum suum a peccatis eorum.

-S-

V. Antiph. Sitivit anima mea.

Salmo CXXVIII

  Sæpe expugnaverunt me a juventute mea, dicat nunc Israel;

Sæpe expugnaverunt me a juventute mea; etenim non potuerunt mihi.

Supra dorsum meum fabricaverunt peccatores; prolongaverunt iniquitatem suam.

Dominus justus concidit cervices peccatorum. Confundantur, et convertantur retrorsum omnes qui oderunt Sion.

Fiant sicut foenum tectorum, quod priusquam evellatur exaruit,

de quo non implevit manum suam qui metit, et sinum suum qui manipulos colligit.

Et non dixerunt qui præteribant: Benedictio Domini super vos. Benediximus vobis in nomine Domini. Gloria Patri, et Filio etc. etc.  

Antiph. Sitivit anima mea ad Nomen sanctum tuum, Domine.

Hymnus.

Jesu rex admiràbilis.

Et triumphator nobilis,

Dulcedo ineffabilis

Totus desiderabilis.

Quando cor nostrum visitas,

Tunc lucet et veritas

Mundi vilescit vanitas,

Et intus fervet charitas.

Jesu dulcedo cordium,

Fons vivus, lumen mentium,

Excèdens omne gàudium.

Et omne desiderium.

Jesum omnes agnòscite.

Amorem eius poscite:

Jesum ardenter quærite,

Quærendo inardescite.

Té nostra, Jesu, vox sonet,

Nostri te mores exprimant;

Te corda nostra diligant

Et nunc, et in perpetuum. AMEN

V.- Sit Nomen Domini benedictum.

R.- Ex hoc nunc et usque in sæculum.

OREMUS.

Deus, qui Unigenitum Filium tuum costituisti humani generis Salvatorem, et Jesum vocari iussisti, concede propitius, ut cuius sanctum Nonem veneramur in terris eius quoque aspectu perfruamur in coelis. Per eundem Christum Dominum nostrum. Amen.

Chi recita ogni giorno i 5 Salmi le cui lettere iniziali compongono il nume di Gesù (Jesus) con gli Inni e le Orazioni, lucra l’indulgenza di 7 anni e 7 quarantene per ogni volta; ed in ogni mese Indulgenza Plenaria, in un giorno ad arbitrio, in cui confessato e comunicato pregherà al solito — Chi li recita frequentemente nell’anno, guadagna Indulgenza Plenaria nei giorni della Circoncisione (1 gennaio), del SS. Nome di Gesù ( Domenica 2 dopo l’epifania), e nella festa di Gesù Nazareno (23 ottobre ), purché confessato e comunicato pregherà come al solito — Possono tutte applicarsi alle Anime del Purgatorio [Pio VII, 13 giugno 1815 e 13 novembre 1821].

 

 

 

 

I SETTE DOLORI DELLA VERGINE MARIA

Il Venerdì della prima settimana di Passione si commemorano i Sette Dolori della Santa Vergine Addolorata. Trascriviamo una preghiera-novena

IN ONORE DEI DOLORI DI MARIA SS.

[da: “il Giardino Spirituale –Napoli 1903- imprim.]

(Comincia il Mercoledì dopo la Domenica IV di Quaresima; ed il Venerdì dopo la 1 Domenica di Settembre.)

Deus in adjutorium, etc. Gloria Patri, etc.

I-Regina de’ Martiri, Addolorata Maria, per quell’intenso dolore che provaste in udire, dal santo vecchio Simeone la predizione della passione e morte del vostro divin Figliuolo Gesù, dolore che portaste nel cuore sino alla morte dello stesso vostro Figliuolo divino; vi prego di ottenere anche a me la memoria continua della passione e morte di Gesù, ed un continuo e vero dolore dei miei peccati che ne furono la, causa, sino all’ultimo punto di vita mia. Àve Maria etc.

II. – Regina dei Martiri, Addolorata Maria, per quell’acerbo dolore che provaste in sentire che Erode voleva dar morte a Gesù, ancor bambino, onde vi convenne di notte, tra mille incomodi e strapazzi, fuggire in Egitto col vostro sposo Giuseppe e col bambino Gesù; vi prego ottenermi grazia di soffrire qualunque, più grave incomodo e pena per conservar vivo Gesù nel .mio cuore, e non farlo mai offendere dagli altri. Ave Maria, etc.

III. Regina de’Martiri, Addolorala Maria, per quell’acuto dolore che sentiste allorché in Gerusalemme smarriste il vostro Figliuolo Gesù, e per tre giorni con ansia ne andaste in cerca, finché ritrovatolo nel Tempio, non più da Voi si discostò; vi prego ottenermi grazia che io non perda mai Gesù col maledetto peccato, e che sia sempre a Lui unito con l’amore sino all’ultimo respiro di vita mia. Ave Maria, etc.

IV. – Regina dei Martin, Addolorata Maria, per quell’intenso dolore che provaste in sentire che il vostro Figliuolo Gesù era stato catturato e condannato alla morte, e per quel più acerbo dolore che sentiste allorché sulla via del Calvario Lo rincontraste anelante sotto il pesante legno della Croce; vi prego d’impetrarmi, che io porti la croce del mio stato con quello stesso spirito con cui la portò Gesù Cristo, ed in unione con Lui, uniformandomi perfettamente al suo divino volere in tutte le cose sino all’ultimo respiro di vita mia. Ave Maria, etc.

V. – Regina dei Martiri, Addolorata Maria, per quell’eccessivo dolore che vi penetrò il cuore, allorché vedeste il vostro divin Figliuolo Gesù inchiodato alla Croce, ed innalzato su di essa spasimare per tre ore tra immensi dolori, sino a spirare la benedetta sua anima nelle mani del Padre; ottenetemi, vi prego, che pei meriti della passione e morte del vostro Figliuolo Gesù io faccia una santa morte, assistito da Voi e da Gesù, e nelle vostre mani spiri l’anima mia. Ave Maria, etc.

VI. – Regina dei Martiri, Addolorata Maria, per quell’acerbo dolore che provaste nel vedere ferito da una lancia il cuore di Gesù Cristo già morto, ferita che fu sentita tutta dall’anima vostra, che non sapeva dipartirsi dal cuore di Gesù, vi prego ottenermi dal vostro Figlio, che ferisca Egli il mio cuore con un dardo dal suo amore, in modo che non mi possa più separare da Lui nel tempo e per tutta l’eternità. Ave Maria, etc.

VII. Regina dei Martiri, Addolorata Maria, per quell’estremo dolore che soffriste allorché vedeste il corpo divino del vostro Figlio Gesù, schiodato dalla Croce, esser riposto nel sepolcro, dove rinchiudeste pure il vostro amante cuore; vi prego di ottenermi che io seppellisca con Gesù l’uomo vecchio e le mie passioni tutte, e mi rivesta dell’uomo nuovo, formato ad immagine dello stesso Gesù, di modo che meriti la vostra protezione in vita, la vostra assistenza in morte, e sia partecipe della vostra gloria in cielo. Ave Maria, etc.

ANTIPHONA.

“Cum vidisset Jesus Matrem stantem iuxta Crucem, et discipulum. quem diligebat, dicit Matri suæ ; Mulier, ecce filius tuus. Deinde dicit discipulo: Ecce Mater tua”.

  1. Regina Martyrum, Ora prò nobis.
  2. Quae Juxta crucem Jesu constitisti.

OREMUS.

“Deus in cuius passione, secundum Simeonis prophetiam dulcissimam animam gloriosæ Virginis et Matris Mariæ doloris gladius pertransivit; concede pròpitius, ut qui dolores eius venerando recolimus, passionis tuæ effectum felicem consequamur Qui vivis et regnas per omnia sæcula sæculorum. Àmen”.

De Segur: BREVI E FAMILIARI RISPOSTE ALLE OBIEZIONI CONTRO LA RELIGIONE [risp. XXV-XXVIII]

XXV.

NON MACCHIA L’ANIMA CIÒ CHE ENTRA NEL CORPO. DIO NON MI DANNERÀ PER UN PEZZO DI CARNE. LA CARNE NON È PIÙ CATTIVA NEL VENERDÌ, E NEL SABATO , CHE NEGLI ALTRI GIORNI.

R. Avete totalmente ragione. Non è la carne, che danni; la carne non è più cattiva in un giorno, che in un altro. – Ciò che danna è la disubbidienza, che fa mangiare la carne. Ciò che è cattivo al venerdì, ed al sabato è la violazione d’una legge, che non esiste per gli altri giorni, è il rivoltarsi contro l’autorità legittima dei pastori, a cui noi tutti dobbiamo ubbidire come a Colui medesimo, che li invia, « Andate, son io che vi mando, chi vi ascolta, ascolta me, chi vi disprezza, disprezza me. » – Non si tratta dunque di carne, né di giorno, né di stomaco; si tratta del cuore, che pecca ricusando di sottomettersi ad un comando obbligatorio e facile. – Oltre il grande e generale motivo di osservare tutte le leggi della Chiesa, noi possiamo aggiungere che queste leggi non sono fatte a caso per capriccio, ma che esse son fondate sopra sagge ed importantissime ragioni. – Così la legge dell’astinenza, di cui l’applicazione è più frequente, è destinata a richiamare incessantemente alla memoria dei cristiani la passione, le pene, la morte del loro Salvatore; essa è la pratica pubblica della penitenza dei cristiani ecc. – Non avvi che un uomo superficiale o ignorante che possa riguardare questa istituzione come inutile. Non si può credere nella pratica quanto questa sola osservanza del magro al venerdì ed al sabato impedisca l’anima di sortire dalle idee religiose. – Le leggi della Chiesa nel mentre che obbligano sotto pena di peccato, sono lungi dall’essere dure e tiranniche. La Chiesa è una madre, e non una padrona imperiosa. Basta che per un motivo grave non possiate usare di magro, perché ne siate per ciò stesso dispensato! La malattia, la debolezza del temperamento, la grande fatica del lavoro, la povertà, In difficoltà grande di procurarsi alimenti magri sono motivi che dispensano dal magro. Per non illudersi, è tuttavia buona cosa consultare il parroco o il confessore interprete della legge. Questa osservazione, che si estende a tutte le leggi della Chiesa, mostra quanto saggia e moderata è l’autorità che le fa. Rispettiamola dunque dal fondo del nostro cuore; lasciamo ridere quei che non se ne intendono, e adempiamo senza mormorare comandamenti sì semplici, sì saggi e sì utili alle nostre anime.

XXVI.

DIO NON HA BISOGNO DELLE MIE PREGHIERE. SA BENE CIÒ CHE MI BISOGNA SENZA CHE GLIELO DOMANDI.

R. Avete totalmente ragione. Ma avreste totalmente torto di concludere che vi potete dispensare dal pregare. Dio non ha bisogno delle vostre preghiere, è vero. Le vostre preghiere e i vostri omaggi per niente cambiano la sua immutabile beatitudine Ma Egli esige da voi questi omaggi, queste adorazioni, questi ringraziamenti, queste preghiere; perché voi, sua creatura e suo figlio, gliele dovete. Egli ha diritto sul vostro pensiero di cui è l’Autore, vuole che lo dirigiate verso Lui; ha diritto egualmente all’amore di questo cuore, che vi ha dato, e vuole che liberamente glielo rendiate amandolo. – Dio conosce tutti i vostri bisogni. È pur verissimo. Ma non è affinché Egli li conosca che bisogna che voi glieli esponiate. È perché non perdiate di vista la vostra impotenza senza il suo soccorso; si è affine di rammemorarvi continuamente la vostra dipendenza. – Si è per voi che è ordinata la preghiera, non per Lui. Egli vuole che voi preghiate, primieramente perché è giusto che voi adoriate il vostro Dio, che pensiate a Colui, che sempre pensa a voi, che amiate Colui, che è il bene supremo, ed il vostro ottimo benefattore; e in secondo luogo perché è buono, utile, ed anche necessario per voi il pregare. – Qual cosa avvi di più grande, qual cosa di più dolce, di più semplice, di più facile, che la preghiera! È la più nobile occupazione dell’uomo in questo mondo, è ciò che nobilita, innalza, e rende degne d’un essere ragionevole tutte le nostre occupazioni. – II più nobile oggetto del pensiero umano è l’applicarlo a Dio. Ciò che solo può pienamente soddisfare il nostro cuore si è l’unirlo al Dio d’infinita bontà, d’infinita perfezione, d’infinito amore. È il figlio, che parla al suo amatissimo Padre. È l’amico, che conversa familiarmente coll’amico. – È il colpevole perdonato, che ringrazia teneramente il suo Salvatore; è il peccatore debole e infermo che domanda misericordia a quel Dio, che ha detto: « Giammai rigetterò colui che viene a me. » – La preghiera è la consolazione di tutte le nostre pene. È il tesoro della nostra intima felicità, che nulla ci può rapire. Perché la preghiera è in noi, essa è noi stessi. È noi stessi mentre pensiamo a Dio, e l’amiamo. Si deve dire della preghiera ciò, che si dice dell’amor di Dio. È una cosa così dolce, che Dio imponendocene l’obbligazione non fa che comandarci d’esser felici. Così nostro Signore Gesù Cristo che è venuto in questo mondo per renderci felici col renderci buoni, nulla tanto ci raccomanda quanto la preghiera: « Pregate incessantemente, disse, e non vi stancate punto. » Cioè avvezzate la vostra anima a pensare a Dio e ad amarLo sopra tutte le cose. La preghiera è il fondamento della vita cristiana. Pregate dunque di tutto cuore; non solo colla bocca, ma dall’intimo dell’anima. Siate fedele nel principio e nel terminare del giorno a rendere a Dio il vostro figliale omaggio [Non vi aspettate niente, diceva un giorno s. Vincenzo de Paoli, da una persona che non fa mattina e sera le sue preghiere]. Pregate nelle vostre pene, nei vostri pericoli, nelle vostre tentazioni. Pregate dopo le vostre mancanze per ottenerne il perdono. Pregate nelle principali circostanze della vita. – Intrecciate la preghiera alle vostre azioni giornaliere. Per essa niente havvi di piccolo avanti a Dio, con essa niente è perduto per il paradiso. Sarete puro e buono se praticherete la preghiera. Il vostro cuore godrà la pace. In mezzo alle miserie della vita avrete questa gioia interiore che ne addolcisce le amarezze; e quando il tempo della vostra prova sarà terminato, voi raccoglierete il frutto della vostra fedeltà. O Servo buono e fedele, vi dirà Gesù Cristo, perché nel poco sei stato fedele, ti farò padrone del molto; entra nel gaudio del tuo Signore » (s. Matteo cap. XXV).

XXVII.

A CHE PREGARE LA S. VERGINE ED 1 SANTI? C0ME POSSONO ESSI ASCOLTARCI?

R. Come voi potete ascoltarmi? — Colle mie orecchie! — Ben lo so; non è ciò che vi domando. Vi domando come voi potete ascoltarmi colle vostre orecchie? Io muovo le mie labbra, esse agitano un poco d’aria; quest’aria entra nelle vostre orecchie e si ferma a un piccolo osso coperto di pelle chiamalo il ..Ed eccovi che intendete ciò che vi dico! Come accade egli ciò? Qual relazione tra questo poco d’aria che colpisce il timpano e il mio pensiero, che si manifesta alla vostra anima? — Se noi non fossimo testimoni di ciò in tutti i giorni, non vi potremmo credere. È ben certo però che la cosa è realmente cosi. – Or bene quando m’avrete detto come voi che siete a due passi distante da me, potete intendere ed entrare in relazione con me quando vi parlo, allora pure vi dirò come la santa Vergine ed i Santi che sono nel cielo, possano intendere le mie preghiere e corrispondervi. Lo stesso Dio che fa sì che m’intendiate, fa pur sì che m’intendano quando loro chiedo d’intercedere per me appresso di Lui. – In qual maniera ciò vien operato da Dio? M’importa poco il saperlo. Ciò che so, è, che la cosa è così; si è che Dio fa conoscere alla beata Regina degli Angeli e degli uomini, a quella che ha sollevata, sola tra tutte le creature, alla dignità prodigiosa di sua Madre, a quella che ci lasciò per Madre, per Avvocata, per Protettrice, morendo sulla croce, che fa, dico, conoscere alla santa Vergine le preghiere, le necessità dei suoi figli che ricorrono alla sua materna protezione; si è ch’Egli ascolta sempre quella che ama sopra tutte le fatture delle sue mani, e ch’esso viene ancora a noi per mezzo di essa, come già ei venne un giorno nella sua Incarnazione; si è che il mezzo più sicuro d’arrivare a Gesù, è di ricorrere a Maria che ci introduce appresso il suo Figlio e nostro Dio, coprendo cosi colla sua protezione la nostra indegnità e le nostre imperfette disposizioni… Ciò che so si è che non avvi nulla di più dolce, di più soave, di più consolante che l’amare la santa Vergine, confidarle le proprie pene, e offrirle il proprio cuore. – Si è che il suo culto rende migliori, rende casti, puri, dolci, umili; fa amare la preghiera, dona la gioia e la pace dell’anima… – Ciò che so, è, che amando e servendo Maria, io non fo altro che imitare, ed ahi troppo imperfettamente, il mio stesso Salvatore Gesù. Egli il primo amò la sua Madre, sì buona e sì santa, sopra tutte le creature; Egli il primo l’ha servita colle sue mani, Le ha reso ogni sorta di onori, di offici, d’obbedienza. Ed avendomi Egli detto la vigilia della sua morie: « lo vi diedi l’esempio, affinché ciò che Io ho fatto, voi lo facciale, » io cerco d’amare con tutte le mie forze la s. Vergine Maria, che Egli ha così perfettamente amata, e ciò solo m’incresce, di non avere in me il cuore di Gesù per amarla come merita d’essere amata. – Ciò, che ora diciamo della santa Vergine, fatta proporzione, si applica al culto dei Santi. I santi non sono punto la Madre di Dio, ma sono suoi amici fedelissimi e figli i più cari. Egli li ama, come se Io meritano, assai più di noi, i quali non possiamo valere gran cosa. – Domandando adunque a questi Santi, e beati fratelli di pregare per noi, facciamo una cosa tutta naturale. Noi facciamo come un figlio disubbidiente che prega un suo fratello più savio di lui di domandar al lor padre un favore, una grazia. Ciò che sarebbe negato ad uno, non lo sarà per certo all’altro. Non è qui il luogo di fare un trattato sul culto della santa Vergine e dei Santi. Ma è sempre il luogo di dire, che l’odio contro questo culto è stato l’impronta universale di tutte l’eresie, di tutte le rivolte religiose;che non si abbandona giammai Maria senza tosto lasciare Gesù; che parimenti non si scema giammai questo culto per diventar migliori. Ciò, che conviene dire si è, che i poveri Protestanti son ben da compiangere, di non conoscere, di non amare la lor Madre!,., di non onorare Colei, che Gesù Cristo ha prescelta, ha amata, ha unita inseparabilmente al mistero della sua incarnazione, al mistero della sua culla, ai misteri della sua infanzia, della sua vita nascosta, della sua vita pubblica , al mistero desuoi dolori, e della nostra redenzione; Colei, a cui nel cielo fa parte dei misteri adorabili della sua gloria , della sua maestà. – Essi devono tremare, allorché osservando tutti i secoli cristiani, non ne trovano uno solo, che non condanni il lor silenzio, e che non abbia avverata la profetica parola della medesima Vergine: «Tutte le generazioni mi chiameranno beata » (S. Luc. cap. IV). – Quale religiosa emulazione per celebrare, ed onorare la Madre in tutti i popoli, che hanno conosciuto, ed adorato il Figlio! In nessun luogo si trova questo Cristo solitario sognato da Lutero, Calvino, e dagli altri, ma il Cristo tale, quale si mostrò all’occhio dei Profeti, quale compare nel Vangelo, figlio della Vergine, formato della sua carne, e del suo sangue, portato lungo tempo nel suo seno, e sulle sue braccia , adempiendo per trentanni verso dì Essa i doveri del figlio il più sommesso, spirante sotto i suoi occhi, e riposante ancora nelle sue braccia pria di passare dalla croce al sepolcro… – Interroghino questi figli senza madre, questi figli senza viscere, questi disprezzati di Maria, interroghino tutte le età cristiane! Non troveranno una sola delle grandi voci del Cristianesimo dai primi successori di Pietro sino a Pio IX, dagli Ignazi, Irenei, Epifani, dai Cirilli, Ambrogi, Agostini sino a Bossuet, Fénelon e Segneri, che non abbia intonato un inno di lode a Maria; non un uomo illustre nelle scienze, nella letteratura e nelle belle arti che non le abbia consacrata alcuna delle sue veglie! – Alieni da questo amore, i poveri protestanti, che rigettano Maria, non apriranno essi gli occhi, e non domanderanno finalmente a se stessi, se la vera famiglia, se la vera Chiesa di Gesù Cristo non è quella in cui la santa Vergine è cosi figlialmente amata ed onorata?

XXVIII.

PERCHÈ NON VI SONO PIÙ MIRACOLI ?

Un miracolo è un fatto sensibile che sorpassa evidentemente le forze della natura. È una cosa che Dio solo può fare, che manifestali suo intervento in una maniera straordinaria nelle cose di questo mondo. « Perché non ve ne sono più? » Si dice. A ciò io faccio due risposte; 1° Ve ne sono ancora e molti. 2.° È ben naturale che ve ne siano meno che nei primi secoli del Cristianesimo.

1° Ve ne sono ancora. Io che vi parlo in questo libretto, potrei dirvi che ne ho veduti, e che vidi inoltre molte persone su cui eransi operati miracoli autentici, quali sono la guarigione istantanea da malattie incurabili. Ma preferisco citarvi un fatto di una portata più generale. Un inglese protestante era a Roma sotto il Pontificato di Benedetto XIV. Ei ragionava con un Cardinale sulla religione cattolica, assalendola assai vivamente, e rigettando soprattutto come falsi i miracoli operati per l’intercessione de’ Santi. Poco dopo il Cardinale fu incaricato di esaminare le carte relative alla beatificazione di un servo di Dio. Egli le rimise un giorno al protestante, raccomandandogli di esaminarle con attenzione e di dirgli il suo parere sul grado di fede che meritavano quelle testimonianze. – Dopo qualche giorno, l’inglese riporta i processi verbali. « Or bene, Signore, gli domanda il prelato, qual è la vostra impressione riguardo a queste carte? » — «In mia fede, Eminenza, confesso che non ho niente a dire; e se tutti i miracoli dei santi che la vostra Chiesa canonizza o fossero così certi come questi, ciò mi darebbe a riflettere… Dio solo può fare queste cose, e bisognerebbe confessare che egli è con voi. » — «In verità? gli replicò il cardinale, or bene noi siamo più difficoltosi che voi, a Roma, perché queste prove non ci sembrarono convincenti, e la causa è rigettata. » – L’inglese fu sì colpito da questo procedere, diesi istruì più profondamente nella fede cattolica, ed abiurò il Protestantismo pria di abbandonar Roma. – Ora questa severità straordinaria esiste tuttora nei processi di canonizzazione de’ santi. E come a nostri giorni si canonizzano santi, egualmente che si è fatto in tutti i secoli (L’ultima canonizzazione ha avuto luogo nel 1839!). Il Papa Gregorio XVl dichiarò Santi il Beato Alfonso de Liguorit e quattro nitri Servi di Dio), e che d’altronde non se ne canonizza alcuno senza un rigoroso esame che provi almeno cinque miracoli operati per sua intercessione, noi siamo dunque in dritto d’affermare, che vi sono ancora dei miracoli.

2.° Rispondo in secondo luogo: Vi sono meno miracoli, che sul cominciare del Cristianesimo, e così deve essere per tre ragioni: 1.° Perché lo scopo vero dei miracoli cessò, cioè: La conversione del mondo, e la fondazione della Chiesa cattolica. 2.° Perché il cessar di questo scopo non avendo potuto aver luogo senza miracoli, ed innumerevoli miracoli, attesta per sempre il fatto medesimo di questi miracoli. L’evidenza della divinità della Religione cristiana manifestata con grandi prodigi, ha solo potuto convincere i pagani così sensuali, ed i giudei così ostinati: 1.° della divinità di Gesù Cristo, povero e crocifisso, 2.° della verità della sua dottrina totalmente opposta alle loro idee più inveterate, 3.° della divina missione degli Apostoli, e dei loro successori. – –

3.° Perché noi abbiamo al presente sott’occhi una prova così splendida della divinità di nostra fede, quanto l’erano i miracoli per i primi cristiani: voglio dire le profezie del Vangelo, e il loro compimento nel mondo. Vi sono due fatti soprannaturali, e divini, che provano la divinità del Cristianesimo: 1.° I miracoli di Gesù Cristo, e de’suoi inviati, 2.° Il compimento delle profezie del Vangelo. – I primi cristiani vedevano i miracoli, ma non vedevano il compimento delle profezie, che faceva il loro Maestro; erano essi obbligati tuttavia di credervi fermamente (Credere è l’ammettere la verità d’una cosa sulla testimonianza altrui) a motivo dei miracoli, che vedevano. – Noi non vediamo i miracoli, che han veduto i nostri Padri; ma vediamo il compimento delle profezie del Vangelo (Per esempio la profezia della distruzione di Gerusalemme, della dispersione ed insieme della conservazione del popolo Giudeo attraverso dei secoli, la profezia delle persecuzioni e del trionfo della Chiesa: la perpetuità del sovrano pontificato di S. Pietro e dei suoi successori Capi della Chiesa ecc.), e ciò che noi vediamo ci fa facilmente ammettere i miracoli, che noi non abbiamo veduti. – I miracoli evidenti facevano ammettere ai primi cristiani il compimento certo delle profezie; il compimento evidente delle profezie ci fa ammettere la realtà certa dei miracoli. – Il miracolo era la prova dei primi cristiani; la profezia, al contrario è in nostra prova, a noi, per l’evidenza del fatto divino del suo compimento. Ed osserviamo che questa prova tratta dal compimento delle profezie è forse più perentoria che quella tratta dai miracoli, in questo senso che il tempo ne accresce la forza di giorno in giorno. Così la stabilità della sede di s. Pietro, la permanenza della dispersione, ed allo stesso tempo della conservazione de’ Giudei nel corso di diciannove secoli, son fatti che ben più colpiscono che se solo da tre o quattro secoli sussistessero. E se il mondo dura ancora qualche migliaio d’anni, questa prova della divinità della religione sarà ancora più convincente dopo tre o quattro mila anni di quel che sia al presente. Non fa dunque meraviglia che vi siano meno miracoli ora che ai primi secoli del Cristianesimo (Notisi ancora, che i miracoli operati nei primi secoli della Chiesa sono pur efficacissimi argomenti per noi, i quali, se non con i propri occhi, come i nostri maggiori, ma certamente per mezzo d’inconcussi documenti storici li conosciamo.).

LA “vera”CHIESA -2-

[Catechismo di Perseveranza – vol. II; cap. XXV, Torino 1988]

Iddio vuole che tutti giungano a salvezza; essi non vi possono giungere che mediante Gesù Cristo, vale a dire, colla cognizione e coll’esercizio della vera Religione, di cui Gesù Cristo è l’anima e il fondatore1 [“Omnes homines vult salvos fieri, et ad agnitionem veritatis venire”. Ad Tim. II, 4. —“Non est in alio nullo salus. Nec enim aliud nomen est sub coelo datum hominibus, in quo oporteat nos salvos fieri”. Act.. IV, 12]; ma Gesù Cristo e la vera Religione non si trovano che nella vera Chiesa, ed è quivi soltanto ch’Egli insegna, spande le sue grazie, comunica il suo spirito: dunque è evidente, che di necessità esiste una vera Chiesa, la qual cosa ne dimostrano di pieno accordo la fede e la ragione.

Necessità della Chiesa. Nostro Signore solennemente promise di stabilire una Chiesa, colla quale Egli sarebbe stato sempre sino alla fine dei secoli [“Christus dilexit Ecclesiam et seipsum tradidit pro ea.” – Eph. V, 2]; Esso ha ingiunto di risguardare come pagani e pubblicani tutti coloro che ricusassero ascoltare questa Chiesa; egli è morto per istabilirla e per comunicarle quella santità, di cui essa doveva essere l’unico canale sino al finire del mondo; dunque se non vuolsi sostenere l’orribile bestemmia, che il Figlio di Dio ne ha ingannati, non stabilendo punto, che per un tempo limitato quella Chiesa, che aveva promesso di stabilire e di stabilire per sempre, minacciandoci l’inferno se non ascoltiamo una Chiesa che non ha esistito, o che non esiste più; sarà forza ammettere l’esistenza e l’esistenza perpetua d’una sola e vera Chiesa. La ragione, d’accordo coi dettati della fede, ne suggerisce, che siccome il Signor Nostro non doveva restar per sempre visibile sulla terra, così ei doveva provvedere alla perpetuità della sua Religione. Ciò posto, non era assai a tant’uopo lasciarci un codice scritto di leggi: un libro, e specialmente un corpo di leggi abbisogna d’interpretazione; è dunque evidente che il Signor Nostro dové stabilire un’autorità, e a parlar propriamente, una Chiesa cui incombesse l’ufficio di spiegare autenticamente la sua Religione, e di farla praticare. – Perciò, se non si vuol negare al Figlio di Dio quel tanto di buon senso, che pur concedesi all’ultimo fra gli uomini, è giuoco forza ammettere ch’esso ha stabilito una vera Chiesa per conservare intatto il deposito di sua dottrina.

Visibilità della Chiesa. Questa vera Chiesa deve in ogni tempo esser visibile, fieramente per la ragione poc’anzi riferita, vale a dire, che Iddio vuole la salute di tutti gli uomini, e la salute non è possibile che nel grembo della Chiesa; donde si deduce per logica necessità che la Chiesa in tutte le occasioni e in tutte le età dev’essere visibile, affinché tutti possano discernerla e divenire suoi membri. – In secondo luogo, perché Iddio ha dichiarato apertamente ch’ella sarebbe visibile a tutti i popoli. Per organo dei Profeti, Egli la paragona ad una città immensa, edificata sulla vetta di alta montagna, esposta agli sguardi di tutte le nazioni, rifulgente di tutta la luce della verità, di modo che tutte le tribù della terra potranno camminare dietro la sua luce, come camminano allo splendor del sole [Michea IV, Isa. LX.]. Finalmente, perché essendo la Chiesa una società d’uomini, riuniti per l’esteriore professione di una medesima fede, per la partecipazione ai medesimi Sacramenti e alle stesse cerimonie pubbliche, per la sommissione ai medesimi capi, è impossibile altresì che non sia visibile. Così la pensarono tutti i Padri; così la pensa ancora il più volgare buon senso.

III. Infallibilità della Chiesa. La vera Chiesa deve essere infallibile. Intendesi per infallibilità il privilegio di non potersi ingannare, né ingannare gli altri nell’ammaestrarli. La prova che la vera Chiesa è infallibile e ch’ella non può altrimenti essere, è la più agevole di ogni altra. – Quattro domande metteranno tale verità in piena evidenza, 1° Nostro Signor Gesù Cristo è Egli infallibile? Niuno certo oserebbe dubitarne. 2° Ha Egli potuto comunicare la sua infallibilità a quelli che ha inviato per insegnare agli uomini? Niuno può muoverne dubbio, attesoché, essendo Dio, Egli può tutto. 3° Ha Egli comunicato la sua infallibilità ai suoi Apostoli, ed ai loro successori? Senza fallo, perché ha loro detto: « Andate, insegnate, io sarò con voi sino alla fine dei secoli ». 4° Doveva esso comunicare la propria infallibilità ai suoi Apostoli, e loro successori? Sì, lo doveva, poiché senza di ciò non avremmo avuto alcun mezzo per conoscere con certezza la vera Religione. Eppure Iddio vuole che da noi si conosca con certezza la vera Religione, poiché vuole, sotto pena della dannazione, che noi la pratichiamo, e che siamo pronti a morire, piuttostoché revocare in dubbio alcuna delle verità ch’essa insegna: la vera Chiesa è dunque infallibile. – Se ella non lo fosse, è facile vedere quali mostruose conseguenze converrebbe ammettere. – 1° Non esisterebbe mezzo alcuno per conoscere la vera Religione. A guisa di fanciulli noi piegheremmo ad ogni vento di dottrina, e invano perciò sarebbe venuto Gesù Cristo sulla terra per insegnare agli uomini la via del Cielo: ed i nostri fratelli separati ce ne offrono un esempio irrefragabile. Presso di loro non v’ha più nulla di certo: quante teste altrettante dottrine: prova manifesta che la Bibbia sola non basta. La Bibbia è un libro che vuol essere spiegato, e spiegato da un’autorità infallibile per divenire una regola obbligatoria di fede e di condotta, II° Il Signor Nostro stesso, orribile a dirsi!, sarebbe al di sotto di un onest’uomo, atteso ché non avrebbe mantenuto la sua parola: dopo aver promesso di parlar sempre per organo degli Apostoli e dei loro successori, non ne farebbe nulla, lasciandoli spacciar delle prette menzogne. III° Gesù Cristo sarebbe il più barbaro e il più ingiusto di tutti i tiranni; egli ne avrebbe intimato, sotto minaccia dell’inferno, di ascoltare degli uomini, che potrebbero trascinarci nell’errore e guidarne al precipizio. Vedasi dunque quante bestemmie debbano sostenere, e quali spaventose conseguenze siano costretti ad ammettere coloro che ardiscono di negare l’infallibilità della Chiesa. – Deh! noi almeno, docile gregge dell’ovile divino, seguiamo fedelmente i nostri Pastori; ed oggi, più che mai, professiamo verso di loro la più perfetta sottomissione. Crediamo ciò ch’essi credono, approviamo ciò che approvano, rigettiamo ciò che rigettano, condanniamo ciò che condannano. – Figli della Chiesa, diciamo come i Padri nostri: « Tutto quello che noi sappiamo si è, che dobbiamo credere alla Chiesa, e morire ben anco per la sua fede; ma noi non sappiamo disputare [“Si quis autem videtur contentiosus esse: nos talem consuetudine non habemus, ncque Ecclesia Dei”. I Cor. XI, 16] ». Allontanandosi da questo canone, gli eretici naufragarono nella fede; indocili a tale avvertimento, una moltitudine di spiriti presuntuosi si credettero capaci di discutere intorno alle verità della Religione, e, anteponendo il proprio giudizio a quello dei primi Pastori della Chiesa, per seguire il loro spirito privato, caddero miseramente in quel precipizio che si erano da se medesimi scavato.

IV. Note della vera Chiesa. Rimane adesso a conoscere la vera Chiesa. Ora, per discernerla dalle false Chiese, non basta che ella sia visibile, poiché molte altre società religiose lo sono egualmente; non basta ch’ella sia infallibile, poiché l’infallibilità è una prerogativa che le altre sette si appropriano esse pure, ovvero l’attribuiscono ad ognuno de’suoi membri. Che cosa è dunque necessario? È uopo che la vera Chiesa, la legittima sposa dell’Uomo-Dio, mostri sulla sua fronte contrassegni così splendidi, caratteri sì perfettamente inimitabili, che a nessun’altra setta sia dato contraffarli od arrogarseli. Ora queste note non possono essere che quelle della stessa verità, e se ne annoverano quattro principali: I° L’Unità; II° la Santità ; III° l’Apostolicità; IV° la Cattolicità.

L’UNITÀ. L’unità è il carattere essenziale della verità, imperocché Iddio è uno e la verità è Iddio rivelato all’uomo, il Salvatore ha pregato perché la sua Chiesa fosse una; Egli l’ha rappresentata sotto l’immagine di un ovile governato da un solo pastore, d’una casa in cui dimora un solo capo, d’un corpo i cui membri sono tutti perfettamente uniti [Giov. I, 12]. Perciò la vera Chiesa dev’essere una; una nella sua fede, una nelle sue leggi, una nelle sue speranze, una nel suo Capo [Idem XVII, 10, 11, 16.].

LA SANTITÀ. La santità è il carattere essenziale, la perfezione per eccellenza di Dio; la qual santità in Dio esclude l’idea medesima del male e dell’errore. La vera Chiesa deve dunque essere santa; santa nelle sue massime, santa nei suoi dogmi, nei suoi sacramenti, nei suoi precetti, santa nello scopo che si propone di ottenere, santa nei suoi membri; dì santità resa visibile dai miracoli, affinché tutti, così dotti come ignoranti, possano riconoscerla. Tale si è la Chiesa che Gesù Cristo volle ottenere alla sua morte: Cristo, dice S. Paolo, amò la Chiesa, e diede per lei se stesso, affine di santificarla e renderla vestita di gloria, senza macchia, e senza grinza e farla santa e immacolata [Efes. V, 25, 27].

APOSTOLICITÀ. Discendere dagli Apostoli, ed essere stata da loro predicata, ecco il carattere della verità; imperciocché ad essi confidò il Salvatore tutte le verità, ch’Egli stesso aveva attinte nel seno del Padre suo, verità che svolgevano, raffermavano e completavano tutte quelle che Iddio aveva rivelate fin dalla creazione del mondo. Ad essi Egli commise l’ufficio di annunziarlo per tutta la terra: la vera Chiesa deve dunque partire dagli Apostoli, e risalire fino agli Apostoli.

LA CATTOLICITÀ. La verità è una e la stessa in tutti i tempi e in tutti i luoghi; ciò ch’è vero in Europa non può essere falso in Asia ; ciò ch’è vero oggi non poteva essere falso ieri. Si deduce che essendo tutti gli uomini fatti per la verità, ella deve essere accessibile a tutti, e trovarsi dovunque si trovano degli uomini. Dunque la vera Chiesa, che sola possiede la verità, deve abbracciare tutti i tempi, tutti i luoghi, tutte le verità insegnate dal Signore Nostro G. C. Tali sono le note che deve necessariamente avere la vera Chiesa; queste sono indispensabili affinché tutti possano riconoscerla; ma con queste altresì è impossibile di non riconoscerla e di non discernerla da tutte le altre società.

Verità della Chiesa Romana. Percorrete adesso il giro del mondo, studiate tutte le società religiose ch’esistono presso i differenti popoli, cercate quella che fra tutte vi presenterà questi quattro caratteri; essa, essa sola è la vera Chiesa. Ora questo viaggio è stato fatto, non una volta sola, ma sì bene migliaia di volte; non da un uomo, ma da milioni di uomini, e sempre ha offerto il seguente risultato: i quattro caratteri della vera Chiesa convengono alla Chiesa Romana, e non convengono che a lei sola.

L’unità. La Chiesa Romana è una nella fede e nel suo ministero. E primieramente una nella sua fede. Supponiamo che si potesse evocare dalle tombe in un’ora medesima un Cattolico di ciascuno dei diciotto secoli che ci hanno preceduto, un Cattolico di Oriente, uno dell’Occidente, uno dell’Asia, l’altro dell’Europa; e che noi domandassimo a tutti questi Fedeli che vissero senza conoscersi, senza vedersi, morti gli uni cento anni fa, altri mille, altri mille e cinquecento, altri mille ottocento: Qual è la vostra fede? Ognuno per parte sua reciterebbe lo stesso Simbolo, il Simbolo che noi recitiamo tutti i giorni, e che si recita egualmente ai quattro angoli della terra. Quest’accordo così perfetto, questa perpetua unità rapiva già d’ammirazione i primi Padri della Chiesa, e già essi adoperavano un tale argomento per dimostrare agl’eretici ch’erano nell’errore. « Sebbene sparsa per tutta la terra, diceva S. Ireneo, la Chiesa conserva la fede apostolica con estremo zelo, e come se abitasse una sola e medesima casa; ella crede della stessa maniera, come se tutti i suoi membri non avessero che uno stesso spirito ed uno stesso cuore, e con mirabile accordo ella professa ed insegna la stessa fede, come se avesse una sola bocca. I linguaggi sono bensì diversi fra loro, ma la fede è una dappertutto. Le Chiese di Germania, delle Gallie, dell’Oriente, dell’Egitto non pensano, non insegnano colla minima varietà » [Adversus Hæres. C. 10, n.2] – Quanto non dobbiamo andare alteri di professare la fede degli Apostoli, dei Martiri, dei più grand’ingegni che il mondo abbia giammai conosciuto! Quale consolazione! Quale malleveria! Ma questo vanto non è proprio delle società separate dalla Chiesa; in esse, variazioni ognora rinascenti, contraddizioni senza numero. Le professioni di fede succedonsi senza interruzione, le sètte particolari si moltiplicano come foglie sugli alberi. Nella sola città di Londra e nei suoi dintorni si contano oggigiorno cento nove religioni diverse. La stessa divisione si riscontra in Alemagna, nella Svizzera, in America, in tutti i paesi sedicenti Evangelici. E lo sminuzzamento è giunto a tale, che un ministro protestante diceva non ha molto, ch’egli era in grado di scrivere sull’unghia del pollice tutto quello ch’era obbietto di comune credenza fra i riformati. [Questo è ciò che diceva, nel 1820, Harms de Kiel. – Il Protestantismo non è dunque la vera Chiesa, poiché non serba unità di dottrina [V. Bossuet, Le Variazioni. — Cobbet, Riforma d’Inghilterra. — Scheffmacher, Lettere, etc. etc.]; e lo stesso deve dirsi del Maomettismo, del Giudaismo, e di tutte le altre società religiose che si spartiscono il mondo.La Chiesa cattolica è una nel suo ministero e nei suoi Sacramenti, vale a dire, che tutti i suoi figli, soggetti alla stessa autorità, sono uniti mediante la partecipazione ai medesimi Sacramenti, al medesimo Sacrificio , alle stesse preghiere, allo stesso culto. Discorrete le regioni tutte del mondo, interrogate i Cattolici che le abitano, e dovunque voi troverete su questo punto l’accordo più perfetto. Allo scopo di mantenere questa divina unità il Signor Nostro Gesù Cristo istituì un ministero sparso per tutte le parti della sua Chiesa, ma dappertutto altresì animato da un solo spirito, cui spetta di predicare ed insegnare la fede, di amministrare i Sacramenti, celebrare i santi riti; a dir governare e pascere tutto il gregge, e tale ministero fu da Lui distinto in diversi ordini, che formano perciò una gerarchia. In tutti i luoghi abitati, città, borgate altro, volle che vi fosse un Ministro di ordine subalterno; ed in ogni provincia un Ministro di ordine superiore, che dicesi Vescovo, al quale sono sottomessi i Pastori inferiori, e che comunica coi Vescovi degli altri paesi. Tutti i Vescovi sono in rapporto di sommissione col sovrano Pontefice, capo supremo della Chiesa. Rivestito di un primato d’onore, egli è collocato su tutti gli altri, all’oggetto di essere da tutti ravvisato come il centro di unità a cui fan capo tutte le Chiese della terra; rivestito di un primato di giurisdizione, egli può colla sua autorità separare gli erranti dall’unità, o ricondurvi i traviati. In tal guisa questo ministero forma fra tutti i Cattolici sparsi sulla terra un magnifico legame d’unione: tutti essendo riuniti ai loro Pastori, e questi fra loro col Pastore dei Pastori, necessariamente ancora sono tutti gli uni agli altri congiunti.Nulla di somigliante nelle sètte separate. Non subordinazione generale fra i loro ministri; non altro centro d’unità tranne il potere temporale che li tien strettì sotto il suo freno; a tal che la gerarchia, la quale nella Chiesa cattolica finisce nel Papa, Vicario del Signor Nostro Gesù Cristo, termina nei paesi protestanti nella persona di un re, e talvolta in una regina, ignari della scienza divina, e pur nonostante arbitri supremi della Chiesa di Dio e delle coscienza umana. Più disuniti fra loro di quello che lo siano colla Chiesa, si accusano, si diffamano, si condannano; sempre fra loro in guerra, non sono uniti che coll’odio comune contro la vera Chiesa, perché tutti li colpisce dello stesso anatema. Quindi nessuna unità di culto; gli uni ammettono due sacramenti, gli altri tre: gli uni hanno un culto senza simbolo, gli altri un culto diverso; sicché il protestante, uscito da quell’angolo della terra ovee regna la setta a cui appartiene, è straniero al resto del mondo!

2° La Santità. La Chiesa Romana è santa neii suoi dogmi, santa nella sua morale, nei suoi Sacramenti, nel suo culto; ond’è che si può sfidare l’avversario il più accanito, purché imparziale, a ritrovare nella sua magnifica costituzione un iota che non sia eminentemente adatto a rischiarare la mente, a purificare il cuore, e sollevare l’uomo a Dio. Niuna setta, vuoi antica, vuoi moderna, può vantare questo primo genere di santità, perché tutte hanno dato, e carezzano ancora ignobilmente dal loro lato accessibile qualcuna delle tre indi passioni umane: l’orgoglio, l’ambizione, la voluttà. La Chiesa Romana è santa nel suo Capo che è Gesù Cristo; santa nei suoi fondatori che sono gli Apostoli; ma santo non fu mai verun fondatore di eresie. Troppo è noto qual fosse primi secoli la santità di Ario, di Manete e degli altri eresiarchi. Chi furono nei tempi moderni i corifei dei protestanti? Lutero, Calvino, Zuinglio, tre ecclesiastici apostati, ed i tre uomini più scandalosamente impudichi del secolo sedicesimo. E si potrà credere che Iddio abbia scelto cotali uomini per riformare la sua Chiesa? Santa è la Chiesa cattolica in gran numero di Papi e di Vescovi; santa finalmente in buon numero di Fedeli. Basta gettare uno sguardo su d’un martirologio, o su d’un calendario per vedere quanto grande sia la schiera dei Santi che si sono formati nella Chiesa, anche negli ultimi secoli. E fuori ancora di quelle innumerevoli legioni di Santi, che risvegliano la generale ammirazione per l’eroiche loro virtù, ed ai quali i popoli non hanno potuto ricusare omaggi solenni, esiste una moltitudine assai più grande ancora di coloro che si santificarono colla pratica di virtù oscure celate agli occhi degli uomini! – La santità dei figli della Chiesa è vera, poiché Iddio ha operato splendidissimi miracoli affine di manifestarla. Ora i miracoli operali dai Santi ebbero luogo in tutti i secoli, e succedono tuttavia al di d’oggi nella sola Chiesa cattolica. Le sètte separate non possono dunque addurre la condotta regolare dei loro seguaci come una prova della santità di loro dottrina; avvegnaché Iddio non ha giammai confermato con alcun miracolo le loro virtù; mentre i Protestanti medesimi confessano la verità dei miracoli operati dai Santi della Chiesa cattolica, e segnatamente da S. Francesco Saverio. [Vedi il celebre viaggiatore protestante Tavernier]. Per altro, affinché la Chiesa Romana sia santa, e madre dei Santi; affinché ella abbia diritto di presentare la propria santità come un carattere di sua verità, non è necessario che tutti i suoi membri siano santi. Il Signor Nostro Gesù Cristo ha paragonato la sua Chiesa ad una rete in cui si trovano pesci buoni e cattivi; ad un’aia in cui la paglia è mescolata al grano: laonde basta che tutti i membri della Chiesa siano stati santi, e tutti realmente lo furono nel giorno del loro battesimo; e che buon numero d’essi abbiano perseverato nella loro santità, e che Iddio abbia manifestata la loro santità coi miracoli.

La Cattolicità. La Chiesa Romana è cattolica per triplice cattolicità: primieramente per cattolicità di dottrina. Essendo essa l’erede di tutte le verità rivelate, la Chiesa Romana uniformandosi al comando del divino suo Maestro, insegna senza distinzione, senza eccezione, senza aggiunte, senza diminuzione tutto quello che il Signor Nostro si degnò di rivelarle. Ella non si fa lecito, alla guisa degli eretici, di portare una mano sacrilega sulle Scritture, e scegliere a capriccio fra le verità a lei affidate in deposito, accettando le une, rifiutando le altre; no, ella riceve, conserva ed insegna con uguale zelo tutti i dogmi e tutti i precetti del suo Sposo divino. Ad onta di tutti gli sforzi, gli eretici antichi e moderni , aventi per ausiliari i filosofi e gli empi, non hanno mai potuto provare che la Chiesa cattolica abbia mutato, accresciuto, diminuito, e molto meno inventato una sola delle verità che propone da credere all’universo: i Padri apostolici parlavano come i Sacerdoti dei nostri giorni. [Vedi NEWMANN ministro Anglicano, di fresco convertito, nella opera Lo svolgimento della Dottrina Cristiana.] – In secondo luogo cattolicità di tempo. Rivelate ai primi Padri nostri, trasmesse dai Patriarchi, sviluppate sotto l’antica Legge, completate mediante 1’Evangelo, confidate agli Apostoli dallo stesso Uomo-Dio, propagate per mezzo loro in tutte le parti dell’universo, trasmesse fino a noi per costante tradizione, le verità insegnate dalla Chiesa Romana risalgono fino ai primi giorni del mondo, e saranno col ministero di lei annunziate a tutte le future generazioni, sino alla consumazione dei secoli. Il suo Simbolo è il Simbolo del genere umano, nel significato, che tutto ciò che presso qualsiasi nazione riscontrasi di vero gli appartiene, come il ramo appartiene all’albero, le membra al corpo, i raggi al sole. – Da ultimo cattolicità di luoghi. Scorrete l’universo, visitate le quattro o cinque parti del mondo; passate dalla China alle nordiche spiagge dell’America, dall’Africa alle regioni settentrionali dell’Europa, e dappertutto ritroverete dei Cattolici. Per ammirabile disposizione di sua Provvidenza, Iddio volle che così fosse, affinché ad ogni ora del giorno e della notte risuonasse sulle labbra di qualche persona il Simbolo cattolico. Questa recitazione non è interrotta più di quanto sia il Sacrificio dei nostri altari, mercé cui il sangue divino non ha cessato un solo istante nel dorso di diciotto secoli di scorrere su qualche punto del globo. Allorché la notte ricopre de’suoi veli una parte della terra, e il Sacerdote discende dall’ altare, cessando eziandio il Fedele di ripetere il simbolo, ecco nascere il giorno per un altro emisfero, il Sacerdote salire all’altare, e i nostri fratelli Cattolici ripetere la professione di nostra fede: e così avverrà sempre con successione invariabile sino alla fine dei tempi [Vedi JAUFFRET, p. 288]. Ma voi non ritroverete dovunque degli eretici, o dei membri di una società separata. Cattolicità di luoghi! La Chiesa Romana a guisa del sole scorre l’orizzonte dell’universo; la sua luce si levò successivamente sulle diverse contrade del globo: l’eresia non mai. Cattolicità di luoghi! La Chiesa Romana è la più numerosa di tutte le società separatamente considerate. Il Maomettismo, 1’Idolatria, il Protestantismo, si dividono in una infinità di sètte, ciascuna delle quali è ben lontana dall’avere tanta copia di partigiani, quanti Fedeli conta la Chiesa cattolica. – Cattolicità di luoghi! Essere una come Dio è uno; essere dovunque come Iddio è dappertutto senza cessare di essere uno; tale si è la Chiesa Romana. L’unità nell’universalità stessa, ecco il carattere splendidissimo che la distingue e che si chiama Cattolicità. – « Siccome non esiste che un solo Episcopato, scriveva, sono ornai diciassette secoli, San Cipriano, così non trovasi che una sola Chiesa la quale abbraccia la vasta moltitudine dei membri che la compongono. – A quel modo che un’indicibile quantità di raggi si vedono partire dal sole sebben non v’abbia che un solo centro di luce; e infiniti rami sorgono sopra un sol tronco d’albero, il quale tutti li sostiene, immobilmente fisso colle sue radici al suo; a quella guisa che da una stessa sorgente escono più rivi che risalgono alla comune origine, sebbene diversi fra di loro per la copia delle acque che ne ricevono; così pure si stendono i Fedeli per tutta la terra, tale è l’immagine della Chiesa cattolica. – La luce divina che la penetra coi suoi raggi abbraccia il mondo intero, viene da centro unico che diffonde i suoi chiarori in ogni luogo, senza che sia lesa l’unità di principio: la sua fecondità inesauribile propaga i suoi talli per tutta la terra; spande lontano abbondevol dovizia delle sue acque; per ogni dove è lo stesso principio, la stessa origine, la stessa madre, che palesa la propria virtù mediante il numero dei suoi figli [De Unit. Eccles.]. L’Apostolicilà. La Chiesa Romana è apostolica, vale a dire, che risale agli Apostoli; eglino sono i suoi maestri, i suoi fondatori. Si distinguono due sorta di apostolicità: apostolicità di dottrina, e apostolicità di ministero. La Chiesa Romana è apostolica nella sua dottrina, vale a dire, che crede ed insegna, e ha sempre creduto ed insegnato la dottrina che ricevé degli Apostoli. Risalite d’età in età sino al giorno in cui il Figlio di Dio disse ai dodici Missionari evangelici: Andate, insegnate a tutte le nazioni; voi troverete la stessa istruzione, la stessa credenza, lo stesso Simbolo che noi recitiamo; voi l’udrete echeggiare nelle vaste basiliche di Nicea e di Costantinopoli; ne intenderete gli accenti sotto le vòlte illuminate delle catacombe: colà si amministrò lo stesso Battesimo, la stessa Eucaristia, gli stessi Sacramenti: colà si credé nel medesimo Dio, nel medesimo Gesù Cristo suo Figlio: colà si sperò lo stesso Cielo, si temette lo stesso inferno. – Questa venerabile antichità, questa non mai interrotta successione è l’eterna vergogna degli eretici. Per convincerli di errore basta chieder loro: Che cosa si creava quando voi siete nati? Non sorse mai eresia che non trovasse la Chiesa cattolica in attuale possesso della dottrina contraria alla vostra: è questo un fatto pubblico, costante, universale, senza eccezione. Così la decisione è agevole; non resta a velarsi se non che qual fede fiorisse quando son comparsi gli eretici; in qual fede fossero essi medesimi stati allevati nel grembo della Chiesa, ed a pronunziare su questo solo fatto, che non è dubbioso o nascosto, la loro condanna! [BOSSUET, nella Prima Istruzione Pastorale sulle promesse della Chiesa, num. 35. « Avviene tutto giorno, continua il dotto Vescovo, un fatto deplorabile per essi, e che non è lor dato di celare; voglio dire la loro novità. Niuno può cangiare i secoli trascorsi, né crearsi dei predecessori, o fare in modo di essere stato trovato in possesso. La sola Chiesa cattolica riempie tutti i secoli precedenti con una continuità che non può esserle contrastata. La Legge precede il Vangelo; la successione di Mosè e dei Patriarchi non costituisce che una sola serie con quella di Gesù Cristo. Essere aspettato, venire, essere riconosciuto da una posterità che dura quanto il mondo, tale si è il carattere del Messia che noi crediamo. Era ieri, e oggi, sarà per tutti i secoli de’secoli » – Disc, intorno alla Star. Univers., p. II, verso il fine]. – O nostri fratelli! O voi che vi siete separati dall’ unità cattolica, voi non avete dunque il carattere essenziale della vera dottrina, vale a dire, l’apostolicità. Qual è la vostra antichità? Forse quella di trecent’anni? No, v’ingannate; voi non avete che l’antichità della vostra opinione. Ieri voi la scriveste sulla carta, oggi stesso, questa mattina, voi l’avete mutata: ecco la vostra antichità! – La Chiesa Romana è apostolica nel suo ministero; e questo fatto, evidente come l’esistenza del sole, è la prova più palpabile ch’ essa è la vera Chiesa. Il Signor Nostro disse a San Pietro: Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa. Per trovare la vera Chiesa basta dunque cercare quale fra esse risale fino a Gesù Cristo, e di cui San Pietro è il fondamento. Ora, niuna setta antica o moderna può arrogarsi questo glorioso privilegio, niuna ascende fino ai giorni del Salvatore, niuna ha San Pietro per fondamento. La sola Chiesa Romana, e le Chiese uscite dal suo seno possono additare l’ordine e la successione dei loro Vescovi sino agli Apostoli, oppure fino ad uno degli uomini apostolici che furono dagli Apostoli inviati; e per tal modo le Chiese veramente apostoliche autenticano la legittimità di loro origine. Cominciando dal nostro Santo Padre, Papa Pio IX felicemente regnante, si risale per successione non interrotta di 258 Papi fino a San Pietro fondatore della Romana Chiesa: giunti a San Pietro noi siamo a Gesù Cristo; e cosi delle altre Chiese cattoliche. Tutte ad un modo ci additano alla loro testa un Apostolo, o un inviato degli Apostoli, che le ha fondate, e che incomincia la catena della tradizione. Dalle Chiese primitive hanno le altre attinto la sana dottrina, e l’attingono tuttavia a misura che si formano. Perciò a buon diritto anche le nuove sono annoverate fra le Chiese cattoliche di cui elleno sono figlie; tutte quindi sono apostoliche, e tutte insieme non formano che una sola e medesima Chiesa. Il Sommo Pontefice ed i Vescovi sono adunque i successori degli Apostoli; e da essi hanno avuto l’origine e l’autorità di predicare la dottrina di Gesù Cristo. Ma altrettanto non può dirsi degli eretici; avvegnaché l’Evangelo sia stato in principio predicato ne’ loro paesi dagli Apostoli, o dagli uomini apostolici, non per questo essi possono appropriarsi l’apostolicità; separandosi dalla Chiesa Romana essi hanno rotto la catena dell’apostolica successione. Nissuno li ha inviati; da se medesimi si son fatti apostoli delle nazioni. « Chi siete voi? può dire la Chiesa a tutti questi novatori, ed ai Protestanti per esempio; da qual tempo e d’onde siete voi venuti? Dove eravate prima del secolo sedicesimo? Or sono quattrocent’anni, nessuno parlava di voi, non eravate conosciuti nemmeno di nome. Che fate voi in casa mia, mentre non siete de’ miei? A che titolo, o Lutero, abbatti le mie foreste? Chi ti diede facoltà, o Calvino, di deviare i miei canali? Con qual diritto, o Zuinglio, sconvolgi i miei confini? Come osate voi pensare e vivere quivi a vostro talento? Questi sono i miei averi; io ne sono da lungo tempo in possesso; sono essi mia proprietà; io nasco dagli antichi possessori, e provo la mia discendenza con autentici documenti. Io sono l’erede degli Apostoli, e ne godo il retaggio secondo le disposizioni del loro testamento, e conforme al giuramento che ho prestato.Quanto a voi, essi vi hanno disconosciuti e diseredati come stranieri, come nemici. Ma perché siete voi stranieri e nemici degli Apostoli? Bramate saperlo? Perch’essi non vi hanno inviato; perché la dottrina che ciascuno di voi ha inventato od adottato a capriccio, è direttamente opposta alla dottrina degli Apostoli ». [TERTULL., Praescript. — Vedi i testi dei Padri sulle Note della Chiesa in NATAL. ALEX., De Symb.]. – Per le quali cose la Chiesa Romana è una, santa, cattolica, apostolica; ella sola porta scolpiti in fronte i caratteri della vera Chiesa; ella sola dunque, ad esclusione di tutte le altre, è la vera sposa di Gesù Cristo, la colonna e il fondamento della verità. – Ma esiste ancora un’altra nota della vera Chiesa, ed è il fatto preannunziato dal Salvatore medesimo, allorché disse: “E sarete in odio a tutti per causa del nome mio”. [S. Matth. X, 22; Marc. XIII, I3; Luc. XX1, 17]. Cercate dunque fra tutte le società religiose quella che è esposta all’odio di tutte le altre, all’odio del mondo intero, e voi avrete la vera sposa dell’Uomo-Dio; voi la ravvisate alla corona di spine che porta perpetuamente infissa sul suo capo. Ma questa corona dolorosa nessuna setta l’ha portata, nessuna desidera di portarla; è un diadema che orna la fronte della sola Chiesa Romana. O Cattolici, miei fratelli, che tremate talvolta allo scroscio spaventoso di un mondo che si sconquassa e va in rovina, invece di turbarvi, pensate piuttosto che le tempeste, le quali assalgono oggidì la Chiesa, sono ammirabilmente acconcie a corroborare la vostra fede. Che cosa provano queste novelle persecuzioni che succedono a tante altre che precedettero, se non che la Chiesa Romana, madre vostra, non ha cessato di essere la sposa fedele del Dio del Calvario? Sin tanto che il diadema delle tribolazioni splenderà sull’augusta sua fronte, ella, siatene certi, non avrà fatto né col mondo, né col vizio, né coll’errore veruna adultera alleanza. Più sarà viva la persecuzione, e più vivo ancora sarà lo splendore della sua inviolabile fedeltà, più ella sarà degna della vostra fiducia e del vostro amore. – Il nono articolo del Simbolo finisce con questa frase: Io credo la comunione dei Santi. Queste parole, siccome spiegazione di quello che precede, non formano un articolo particolare, ma sono tuttavia di un’importanza grandissima: perciocché da una parte fanno conoscere la Chiesa nella sua vita intima; e dall’altra esprimono il primo dei quattro grandi vantaggi che la Chiesa ne procura. – Pronunziando le parole, io credo la comunione dei Santi, la nostra lingua proclama altamente la più magnifica fraternità che possa idearsi, il comunismo più bello, il solo vero, il solo possibile, il solo desiderabile; professando noi per tal modo di credere con una sicurezza pari alla nostra felicità all’esistenza ed alla bontà infinita di Dio:

– .1° Che tutti i membri della Chiesa, tanto quelli che godono nel Cielo, come quelli che sono viatori sulla terra, e quelli che sono nel Purgatorio, sono uniti fra di loro e colle tre Persone della Santissima Trinità con vincolo intimo, efficace e permanente [Jon. c. 1]; – 2° Che questa unione non consiste unicamente nella comunione di fede, di speranza, di carità; ma eziandio nella partecipazione ai medesimi Sacramenti, mediante i quali il Signor Nostro Gesù Cristo, il Santo dei Santi, diffonde i meriti della sua passione e della sua vita su tutti i membri della Chiesa che degnamente li ricevono; e che questa fraterna unione ha la sua origine nel battesimo, per cui nasciamo figli di Dio, ed è alimentata e conservata specialmente dalla santa Eucaristia, atteso ché il cibarsi dello stesso pane e il bere lo stesso vino fa di noi tutti un corpo stesso [“Unus panis et unum corpus multi sumus, qui de uno pane et de uno calice partecipamus”, 1. Cor. X, 17]; – 3° Che per virtù di tale unione tutti i beni spirituali della Chiesa sono comuni fra i Fedeli, siccome le sostanze di una famiglia fra i figli; in guisa che le grazie interiori e i doni esteriori che ciascuno riceve, le buone opere che ciascuno mette in pratica giovano meravigliosamente a tutto il corpo e ad ogni membro della Chiesa. – 4° Che per virtù di tale unione tutti i Fedeli della terra hanno tra di loro tutte le grazie ad essi concesse, tutte le buone opere da loro esercitate, siccome ad esempio l’assistenza al santo Sacrifìcio della Messa, le confessioni, le comunioni, le meditazioni, le pie letture, le limosine, le mortificazioni, le preghiere, giovano, in una certa misura, a tutti quelli che si trovano in istato di grazia. E diciamo in una certa misura, imperocché i frutti delle buone opere non possono tutti comunicarsi. Ora, le buone opere del giusto producono tre effetti: il merito, la soddisfazione, l’impetrazione.

.I] merito è l’effetto delle buone opere, in quanto che producono un accrescimento di grazia, e un diritto nel Cielo ad un grado maggiore di gloria. Il merito è personale a chi fa l’opera buona, né può essere comunicato agli altri. Esso inoltre non si può acquistare che dall’uomo viatore e in istato di grazia; perché solo in colui che è in possesso della grazia può essa venire aumentata; gli abitatori del Cielo e quelli del Purgatorio non possono più meritare, quantunque siano in istato di grazia.

.II] La soddisfazione è l’effetto delle opere buone in quanto che ottengono la remissione delle pene temporali dovute al peccato. Soltanto l’uomo sulla terra ed in istato di grazia può soddisfare: i Santi più non abbisognano di soddisfazione; e le anime purganti, a parlare propriamente, non soddisfanno: sarebbe più esatto il dire ch’esse “soddissoffrono”. Gli uomini in istato di peccato mortale non possono più soddisfare, attesoché non è loro dato di ottenere la remissione della pena dovuta al peccato, prima di aver ottenuto la remissione del peccato medesimo. La soddisfazione non può dunque loro essere applicata, ma bensì può esserlo alle anime giuste in istato di grazia e alle anime del Purgatorio. E questo si fa coll’offrire la soddisfazione, ossia il merito satisfattorio delle buone opere a scarico di colui del quale si desidera diminuire il debito contratto pel peccato.

III] L’impetrazione è l’effetto delle buone opere in quanto che ottengono da Dio speciali favori. A rigore i soli giusti possono impetrare, perché i soli giusti hanno qualche diritto ad essere esauditi; atteso ché egli è convenevole e conforme alla ragione che Iddio, giusta le sue promesse, faccia la volontà di que’ suoi servi fedeli, i quali da parte loro si studiano di compire quella del loro padrone [“Voluntatem timentium faciet et deprecationem eorum exaudiet”. Psal. CXLIV]. Perciò che risguarda i peccatori, sebbene Iddio abbia dichiarato di non ascoltarli [“Peccatores Deus non exaudit. Joan. IX, 51. — D. Th. 2, 2, q. 85, art. 16], essi possono tuttavia ottenere con impetrazione meno rigorosa; vale a dire, che dietro movimenti imperfetti di fede e di speranza si dispongono alla grazia e all’amicizia di Dio, e gli domandano qualche favore. La loro impetrazione non ha altro fondamento che l’infinita misericordia di Dio. – Questo terzo effetto delle opere buone, cioè l’impetrazione, si può comunicare non solo a tutti membri della Chiesa, giusti e peccatori, ma può estendersi ancora a tutti coloro che non sono in modo alcuno membri della Chiesa, quali sarebbero gli infedeli, i giudei, gli eretici, gli scismatici, gli scomunicati; imperciocché si può domandare la loro conversione, ed esercitarsi in opere buone, affine di ottenerla. – Ma quale diversità, qui potreste richiedere, corre dunque sotto questo rapporto fra i Fedeli e gl’Infedeli? La diversità in ciò consiste, che questi ultimi rimangono privi delle preghiere pubbliche della Chiesa eccettuato il Venerdì santo, e che non profittano delle buone opere private, se non in quanto si fanno espressamente per loro; laddove i Fedeli si vantaggiano delle pubbliche preci, e traggono aiuto naturalmente dalle buone opere particolari di tutti i membri della Chiesa, anche quando non si abbia espressa intenzione di applicarle a loro; e la ragione si è questa, che tutti i Fedeli sono membri viventi di un medesimo corpo. Così, per servirmi di un paragone, allorché la bocca mangia e lo stomaco digerisce, tutte le altre membra ne risentono sollievo; ed egualmente allorché un giusto compie un’opera buona, tutti gli altri giusti ne sono confortati [Montagne, Tractat. de Gratia; Ferraris, art. Merit. et Peccat. — D . Th., 1-2, q. 155, ecc.]. – Noi abbiam detto un’opera buona, perciocché tutte quelle che ne hanno l’apparenza, non sono tali realmente. Difatti si distinguono tre sorta di opere: le opere vive, che sono quelle dell’uomo in istato di grazia, e sono profittevoli a tutti i membri vivi della Chiesa. Le opere morte, e sono quelle dell’uomo in istato di peccato mortale, e che non servono né a soddisfare né a meritare, ma solamente ad ottenere da Dio che usi misericordia, e converta a penitenza colui che le fa. Finalmente le opere mortificate, vale a dire, quelle che furono fatte in istato di grazia, ma il cui merito è coperto e come estinto per effetto del peccato mortale che le ha seguite: esse rivivono allorquando colui che le ha fatte ritorna nello stato di grazia [Vedi il celebre Catechismo Spagnuolo del P. Gaetano delle Scuole Pie]. Per render complete le spiegazioni precedenti, noi aggiungeremo che il Signor Nostro, nella sua qualità di Capo, distribuisce il frutto prezioso delle buone opere ai diversi membri vivi del corpo mistico, in proporzione dei loro bisogni e dei loro meriti. Rispetto ai peccatori, essi appartengono ancora alla Chiesa per mezzo della fede e della speranza; ma privi come sono della carità, rimangono membri morti, né partecipano ai suoi beni spirituali, se non nel senso, che Iddio, avendo riguardo alle preghiere dei giusti, accorda talvolta ai peccatori la grazia di conversione, oppure sospende le punizioni che si sono meritate [S. August., De vera Relig., c. 5 et 6. — Id., Tract. XXXII in Joan. — S. Ambr., lib.I, De Offic, c. 29]. 5° Noi professiamo che in virtù dell’unione, cui i Fedeli della terra hanno coi Santi del Cielo, i primi ottengono da Dio, ad intercessione dei secondi, molte grazie per se medesimi e per gli altri Fedeli, allorché li invocano, li onorano e si studiano d’imitarli; 6° Che in virtù dell’unione che i Santi della terra e del Cielo hanno coi Santi del Purgatorio, queste anime tormentate troveranno sollievo nelle preghiere, nelle elemosine, nelle indulgenze, e nel Sacrificio Agustissimo dell’Altare, offerto nell’intenzione di giovare alle medesime [S. August., De cur. gerend. prò mort.]. Un’ ammirabile similitudine adoperata dallo Spirito Santo medesimo ci offre la idea la più magnifica e la più commovente di questa unione fra loro di tutti i membri della Chiesa, e fa conoscere ad un tempo persino ai fanciulli medesimi tale intiera comunicazione di beni fra i Fedeli: la similitudine è tratta dal corpo umano [I Cor. XII, 1; Ephes. IV, 7; Rom. XII, 6]. Nel corpo umano v’hanno molte membra, e non formano nullameno che un solo corpo. Non tutte per altro hanno la stessa funzione, ciascuno ha la sua: il piede cammina, l’occhio vede, l’orecchio ode; ciò non ostante queste operazioni particolari non si riferiscono direttamente all’utile del membro che le compie, ma sì bene all’armonia ed al vantaggio universale del corpo e di tutte le altre membra; onde a prò di tutto il corpo il piede cammina, l’occhio vede, l’orecchio ode. Egualmente nel corpo della Chiesa havvi molti membri. I Fedeli che vivono sulla terra, le Anime del Purgatorio, i Santi del Cielo, i Cattolici dell’Europa, quelli dell’Asia, dell’Africa, dell’America, dell’Oceania; quelli, in una parola, di tutte le parti del mondo, e siano quanto esser si vogliano remote, sono membri della Chiesa, e non formano che un solo e medesimo corpo. Tutti però non hanno la stessa funzione: gli uni sono Vescovi, gli altri Sacerdoti, Religiosi o Religiose; taluni sono Dottori, Predicatori, Consolatori; altri padroni, altri servi; ciascuno ha il suo stato e le sue incombenze, che tutte son rivolte al bene generale del corpo e di tutti i membri. Perciò è che a vantaggio di tutta la Chiesa il Sacerdote predica ed amministra i Sacramenti, il Dottore insegna, la Religiosa prega e consacra se stessa al soccorso de’ suoi fratelli, ed i semplici Fedeli adempiono quegli obblighi cui piacque alla Provvidenza di imporre alla loro condizione particolare. – Nel corpo umano le membra sono talmente unite, che non si tosto una d’esse, anche la più debole e la meno importante, viene a provare una sensazione di piacere o di dolore, subito le altre tutte risentono gli effetti di questo piacere o di questo dolore, a motivo dell’unione e della simpatia che la natura ha posto fra di loro. – Similmente nel corpo della Chiesa, approfittando noi dei beni accordati a ciascuno dei nostri fratelli, dobbiamo pure partecipare ai dolori che li affliggono, rallegrarci con quelli che si rallegrano, piangere con quei che piangono. Sarebbe mai possibile che l’unione stabilita tra di noi dalla grazia fosse meno efficace, nel renderci sensibili i dolori ed i gaudi altrui, che la naturale simpatia per far sentire a tutte le membra del corpo il piacere od il dolore di cui è affetto ciascuno di loro? Nel corpo umano v’ha un capo che regge tutte le membra ed influisce su ciascuno di esse mediante le emanazioni che trasmette; un cuore da cui parte il sangue, e dov’esso ritorna per purificarsi, riscaldarsi e ripartire di nuovo; ed oltracciò il corpo è animato, vivificato da un’anima che gli comunica il movimento, la bellezza, la forza. Così pure nel corpo della Chiesa v’ha un Capo, il Signor Nostro Gesù Cristo, il quale regge tutti i membri, ed influisce sopra ciascuno colle sue grazie; un cuore che è la santa Eucaristia, donde parte l’amore, ed ove ritorna per purificarsi, accendersi e ripartire di nuovo; finalmente un’anima, che è lo Spirito Santo, il Quale si diffonde per tutte le parti di questo corpo meraviglioso, e gli conferisce la beltà, la forza, la vita; la vita di grazia sulla terra, la vita di gloria nell’eternità. – Alla vista di questo corpo magnifico, non possono risvegliarsi nell’anima nostra che tre sentimenti: un sentimento d’ineffabile gratitudine per farne parte; un sentimento di profondo timore di esserne resecato, o di non diventare che membro morto; un sentimento di tenera ed attiva compassione per gl’infedeli, gli eretici, gli scismatici, e per tutti coloro che non ci appartengono. – A compiere la spiegazione del nono articolo del Simbolo cattolico più non resta che di esporre la ragione e il significato dell’ultima parola, la comunione dei Santi. Tutti i membri della Chiesa son detti santi; primieramente perché la santità è lo scopo della nostra vocazione alla fede, e l’obbligo strettissimo che ne fu imposto a tutti col Battesimo [“Hæc est enim voluntas Dei sanctificatio vestra”. « Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione ». II Thessal. IV,5]; in secondo luogo perché i giusti partecipano più specialmente alla meravigliosa comunione sovra descritta; in terzo luogo perché i peccatori stessi rinvengono nella medesima potenti mezzi di santificazione; finalmente perché questa comunione dei Santi della terra ne conduce all’eterna e generale comunione dei Santi, degli Angeli, e di Dio medesimo nel Cielo. Guai dunque a coloro che si fanno scacciare da questa società, fuori della quale non si dà salute! La Chiesa lo fa suo mal grado; ma essa può farlo, essendo investita dell’autorità di scomunicare. – Nulla di meglio stabilito, che la legittimità di questo formidabile potere: gli Apostoli lo hanno adoperato; i Concili, i sommi Pontefici ed i Vescovi seguirono il loro esempio nel corso dei secoli, tutte le volte che lo credettero necessario [I Cor. V. — Baron. art. 55, 998, ecc.]. – Forseché il padre di famiglia non ha il diritto di metter fuori di casa il figlio scandaloso e ribelle? Forseché il pastore non ha diritto di cacciare dall’ovile la pecora indocile e scabbiosa? I giudici ed i magistrati non scacciano forse tutto giorno dalla società i malandrini pericolosi ed ostinati? Perché dunque la Chiesa, che è la società la più perfetta, non dovrebbe godere di egual diritto? – Tranne la sentenza del Signor Nostro Gesù Cristo nel dì del finale giudizio, nulla deve ispirarci timor più grande della scomunica. Coloro che ne rimangono colpiti trovansi privi di tutti i beni spirituali che sono nella Chiesa; non possono ritornare fra le sue braccia materne, se non dopo aver fatto la loro sottomissione, data soddisfazione a quelli che hanno offeso, o spogliato, ed ottenuta l’assoluzione dal Superiore che ha podestà di concederla; e se per loro sventura muoiono senza essersi riconciliati colla Chiesa, restano privi dell’ecclesiastica sepoltura, e di tutti i suffragi della Chiesa in sollievo dei trapassati. – Spessissimo ancora si è veduto la scomunica produrre effetti sensibili sui colpevoli; quindi nei secoli di fede, i re, i potenti ed i popoli non hanno temuto nulla quanto questa folgore spirituale. – Lo stesso Napoleone, che ostentava di disprezzare il fulmine che l’aveva percosso, ne era per altro palesemente tormentato; talvolta ancora il suo esasperamento non conosceva misura. Negl’impeti del suo aspetto andava sclamando: Finalmente crede forse il Papa che la sua scomunica farà cadere le armi dal braccio dei miei soldati? Ora tutto il mondo sa che dall’epoca della scomunica la stella di Napoleone cominciò ad impallidire, e che la sua vita divenne una serie continua di disastri. Di più gl’istorici della campagna di Russia, narrando la tremenda catastrofe, dicono tutti in precisi termini: Le armi cadevano dalle mani dei soldati [De Segur; de La Baume, etc. etc..]. – I filosofi non mancheranno di dire che fu il gelo e non la scomunica che faceva cader le armi di mano ai soldati. Ottimamente; ma il freddo chi lo aveva mandato? Chi ha fatto scendere il termometro a grado sì micidiale? Foste voi forse, o filosofi? Ovvero Colui che impera agli elementi con autorità più dispotica di quella di Napoleone alla grande armata? Quel Dio che tiene soggetti gli elementi, è Quegli stesso che disse alla Chiesa ed al Papa: Colui che disprezza voi, disprezza me medesimo: io stritolerò come vetro colui che ardirà resistermi. Nè rivoluzioni, nè civilizzazione, nè possanza alcuna può togliergli o circoscrivere il suo potere [“Et nunc, Reges, intelligite, erudimini qui iudicatis terram” Ps. II, 10]. –

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio di avermi reso partecipe di tutti i beni spirituali di vostra santa Chiesa; non vogliate giammai permettere ch’io meriti d’esserne privato. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose e il prossimo come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore, io amerò la Chiesa come un figlio ama la propria madre.

Un’ENCICLICA al giorno toglie IL MODERNISTA APOSTATA di torno: ACCEPIMUS PRÆSTANTIUM

In questa enciclica di S. S. Benedetto XIV, viene sottolineata l’importanza e la necessità di un elemento liturgico, oggi considerato dagli apostati modernisti come un “optional” da antiquariato di cui frequentemente fare a meno, anche perché, essi dicono, non serve più al sacerdote (per altro al giorno d’oggi una finta e tragica maschera dell’antichiesa), il quale essendo rivolto al popolo, non fissa più il suo sguardo su di Esso: il “crocifisso sull’altare” tra i candelabri, che non vengono più posti sul tavolaccio da fast food ove si compirebbe “coram populi” la transustansazione (fortunatamente solo da pochi ben stagionati ottuagenari prelati e con formula quantomeno dubbia). La rigorosa osservanza delle regole ecclesiastiche, come possiamo notare nel documento rivolto ai “novatori” del tempo, costituisce un elemento fondamentale nel culto divino, che non può essere, a proprio arbitrio, gestito con superficialità, noncuranza o con invenzioni estemporanee di carattere sacrilego. Ecco quanto il Santo Padre all’epoca prescriveva e tuttora vige nella “vera” chiesa Cattolica.

Benedetto XIV

Accepimus praestantium

Abbiamo appreso dalle testimonianze di uomini insigni che già da tempo è stata introdotta in alcune città della giurisdizione ecclesiastica un’abitudine che permette la devozione e favorisce il sentimento religioso, ma che si oppone agli ordinamenti della Chiesa e alla consuetudine dei più. Noi stessi abbiamo osservato ciò in alcune Chiese di questa Nostra città di Roma, e parimenti in altre che sono sottoposte ai Vescovi suburbani. Sembrerebbe che Noi mancassimo al Nostro dovere, se di questo non venissero avvertiti coloro che da Noi sono stati nominati ministri per la direzione spirituale di questa città, e gli altri, che hanno cura delle anime reggendo episcopati suburbani, o la sede episcopale di un’altra città nella Giurisdizione Pontificia. – Sugli Altari che sono stati eretti tramite le comunità cristiane, e sui quali avviene per tradizione il rito sacro, davanti ad una tavola più grande, la quale mostra o dipinta oppure intagliata l’immagine del Santo, al cui nome e ricordo è stato consacrato l’Altare, ha cominciato ad essere aggiunta un’altra tavola più piccola, sulla quale il ritratto di un altro Santo o è rappresentato a colori oppure è inciso sul bronzo, nel legno o nel marmo; conseguentemente viene rimossa la Croce, la quale deve essere posta tra i candelieri, accanto alle Rubriche. Affinché, in verità, non rimanga ignoto ad alcuno che il rito sacro non può essere compiuto, se la Croce con l’immagine del Santissimo Crocifisso non è posta sopra l’Altare, da qui un Crocifisso assai piccolo viene posto sopra la tavola minore, affinché né si presenti facilmente agli occhi del sacerdote celebrante, né possa essere quasi distinto da nessun altro, a meno che questi non scruti accuratamente, o sia stata esposta in realtà l’immagine del Crocifisso sopra l’Altare. – In verità non disapproviamo il fatto che il medesimo Altare sia dedicato al nome e alla memoria di più Santi, o il fatto che siano dipinti su una tavola più grande uno solo o anche più Santi, o infine il fatto che un’altra tavola più piccola sia collocata più in basso, o in un altro qualunque modo, dove uno o più Santi sono esposti alla venerazione dei fedeli. In nessun modo possiamo permettere che la Messa venga celebrata su questi Altari, che sono privi dell’immagine del Crocifisso, o dove la stessa è posta in modo non consono davanti al Sacerdote celebrante, o sia così minuta da sfuggire quasi allo sguardo dello stesso Sacerdote e del Popolo presente; ciò infatti è contrario alle Leggi e alle istituzioni della Chiesa, che sono raccolte nei codici e nelle altre norme ecclesiastiche: ciò è anche massimamente contrario alla sacra antichità e anche alla consuetudine delle Chiese orientali. Pertanto è certissimo che sono violate le leggi della Chiesa, se solo una piccola immagine del Crocifisso è posta dinnanzi ad una tavola più piccola, oppure alla statua del Santo, che vi è posta sopra, per essere venerato dai fedeli. – Nelle Rubriche del Messale, sotto il titolo Sulla preparazione dell’Altare e dei suoi paramenti, si leggono queste parole: “Sopra l’altare sia posta nel mezzo la Croce, e almeno due candelieri con le candele accese da una parte e dall’altra dei suoi lati. Nel Pontificale Romano Sulla consacrazione dell’eletto a Vescovo, quando vi è la predica dall’Altare, dove il Vescovo da consacrare attende al rito sacro fino all’Offertorio, compiuto il quale la Messa continua su un altro Altare, dove il Vescovo che consacra compie il rito sacro, in quel Pontificale si tenga presente questo: “Nella cappella più piccola destinata all’Eletto, la quale deve essere separata dalla più grande, sia aggiunto un Altare con la Croce e due candelieri. Inoltre il Cerimoniale dei Vescovi, dopo aver fatto menzione al libro I, cap. 12, dei candelieri e delle candele, aggiunge: “Nel mezzo di questi sarà collocata una Croce del medesimo metallo e fattura, molto alta, così che il piede della Croce eguagli l’altezza dei vicini candelabri e tutta la Croce stessa si elevi al di sopra dei candelieri con l’immagine del Santissimo Crocifisso rivolta verso la parte anteriore dell’Altare. – Noi stessi abbiamo parlato di questa vecchia usanza di collocare la Croce sull’Altare, quando si compie il rito sacro, nei Nostri scritti Sul sacrificio della Messa, che da Noi sono stati composti in Italiano; molti poi ne abbiamo aggiunti, quando gli stessi, tradotti in latino, sono stati pubblicati una seconda volta. A questi aggiungiamo anche che, soprattutto a motivo dell’antichità di questa usanza, una grandissima devozione è stata sempre dedicata alla Croce, la quale è collocata al centro dell’Altare, quando si celebra la Messa; gli stessi rinnovatori più ostili hanno avuto grande paura ad allontanarla dal centro, quando consacrano l’Eucaristia; di ciò è testimone il Gretser nel suo Trattato sulla Croce, al cap. 13, tomo I di quell’edizione, che alla fine è stata stampata. – In verità, se osserviamo l’usanza degli orientali, i Greci hanno stabilito di porre presso la porta principale del Santuario, da entrambi i lati, le immagini di Cristo Signore e della Beata Vergine, e sopra l’Altare la Croce assieme al libro dei Santi Vangeli. Nella liturgia copto-araba, che, desunta dai manoscritti Codici Vaticani, è stata stampata nell’anno 1736 nel Collegio Urbano della Propaganda Fide, a p. 33 si prescrive al Sacerdote celebrante di impartire al popolo la benedizione con la Croce, che poi la baci e che la porga ad un diacono, perché la collochi sopra l’Altare. Infine il rito siriano dei Maroniti stabilisce precisamente le stesse disposizioni che abbiamo indicato più sopra e che sono prescritte nelle Rubriche del Messale Romano. Infatti il Patriarca Stefano così scrive: “Codesta usanza si sviluppò in tutte le Chiese, così che il simbolo della salutifera Croce è posto sopra l’Altare” (libro 2, trattato 2, 4). Anche il Sinodo nazionale, che è stato convocato nell’anno 1736 sul monte Libano e che Noi stessi abbiamo convalidato con la Lettera apostolica Sulla sacrosanta Messa, così stabilisce: “Sull’Altare sia collocata, nel mezzo, la Croce; ai suoi lati, almeno due candelabri con le candele accese, da una parte e dall’altra” (§ 2, cap. 13). – Gli scrittori che hanno spiegato i sacri riti intraprendono alcune discussioni: anzitutto se sia sufficiente porre la nuda Croce sull’Altare, o se sia opportuno nello stesso momento aggiungere l’immagine del Crocifisso. In verità le Rubriche del Messale citano la sola Croce. Tuttavia, dal momento che il Cerimoniale dei Vescovi ricorda nello stesso momento la Croce e il Crocifisso, e dal momento che ciò è conforme ad una comune consuetudine della Chiesa, nessun sapiente dubiterà perciò che questo parere debba essere apprezzato. Così la pensano il Gavantus e Claude La Croix, il quale nella sua opera Sulla Messa ammette che in forza del tradizionale comune uso, senza l’immagine del Crocifisso appesa alla Croce, il rito sacro non può avvenire, se non lo abbia impedito una necessità, come, all’inizio della storia della Chiesa, quando i fedeli temevano di incitare grandemente i gentili all’ira se avessero esposto Cristo Crocifisso da adorare pubblicamente (lib. 6, § 2, n. 318). Tuttavia esponevano apertamente la Croce ornata in moltissimi modi e apponevano alla Croce, inciso o dipinto, l’Agnello, la cui immagine sempre è stata associata all’amatissimo Salvatore, affinché almeno in quel modo mostrassero l’immagine del Crocifisso; ciò tuttora si osserva in alcune Chiese di questa Città ed è dimostrato anche dalla testimonianza di Magrio nel suo Iero lessico, sotto la voce Crux. – In secondo luogo si esamina se il Crocifisso appeso alla Croce debba essere posto sull’Altare, anche se il Salvatore nostro Crocifisso appaia dipinto o scolpito su una tavola più grande dell’Altare. Il Gavantus è senz’altro d’accordo; in verità altri lo giudicano minimamente necessario, purché tuttavia il Crocifisso o dipinto o scolpito su una più grande tavola sia in primo piano davanti alle altre figure ivi rappresentate. Così sono del parere Pasqualigus (cf. Il Sacrificio della Messa, quest. 716), Quarto (cf. Rubriche del Messale, § 1, tit. 20, dub. 10) e Giribaldo (cf. Sui Sacramenti e il Sacrificio della Messa, cap. 9, dub. 2, n. 20). A questo parere parimenti si è conformata la Congregazione dei Sacri Riti, come risulta dalla risposta che la stessa ha reso nota nell’anno 1663 e che Meratus esamina attentamente (cf. La preparazione dell’Altare, n. 6; Indice dei Decreti, stesso tomo, § 2, n. 400). – In terzo luogo si discute se il Crocifisso deve essere collocato sull’Altare (quando vi viene celebrata la Messa) dove è posto il Tabernacolo, in cui è contenuta la Pisside con le Sacre Particole; tanto più se davanti al medesimo Tabernacolo è sempre posta una piccola Croce con l’immagine del Salvatore Crocifisso. Infatti nel Cerimoniale dei Vescovi si legge: “Non è sconveniente ma massimamente decoroso, che sull’Altare, dove si trova il Santissimo Sacramento, non si celebrino Messe, usanza che crediamo sia stata osservata da tempo antico. Nel vecchio Cerimoniale, al tempo del Pontificato di Clemente VIII, si leggeva: “Consuetudine che vediamo esser stata osservata da tempo antico“. Pur tuttavia ciò sembra ad alcuni del tutto inaccettabile, per il fatto che, come essi stessi argomentano, nelle antiche Chiese veniva costruito un unico Altare, o la Divina Eucaristia non era in essi custodita, oppure nessuna Messa vi veniva celebrata. Al contrario, coloro che conoscono ed approfondiscono tale consuetudine, ritengono che essa sia stata praticata anticamente quando la Sacra Eucaristia era conservata in una cappella della Chiesa, o in un elegante armadio fissato al muro, come anche ora osserviamo nella Basilica della Santa Croce in Gerusalemme. Dello stesso parere è il Mabillon (cf. Museo Italico, tomo I, p. 89, e tomo II, p. 139). Ma ciò che al presente genera difficoltà e nulla risolve nell’esame dell’esposta controversia è il fatto che, secondo l’uso corrente, la Sacra Eucaristia è conservata nel Tabernacolo posto sopra un Altare della Chiesa sul quale, senza regola, viene celebrata la Messa, dopo che è stato accuratamente esaminato il testo del Cerimoniale, dal momento che è stato riconosciuto che ciò non contrasta assolutamente con la suddetta celebrazione, come valuta Christianus Lupus al tomo XI della più recente edizione del trattato Sulle sacre processioni, p. 356. Pertanto dal momento che Noi stessi esaminiamo altrove questa controversia nei sopracitati scritti su Il sacrificio della Messa, § 4, sett. 1, 18 abbiamo apprezzato il parere di coloro i quali ritengono che il Crocifisso deve essere posto tra i candelieri e che una piccola Croce, fissata al Tabernacolo, non è sufficiente perché non sia violata la Rubrica; come spiegheremo più sotto. La medesima norma è stata stabilita dalla Congregazione dei Sacri Riti nell’anno 1663, come si legge nell’Indice dei Decreti, presentato dal Meratus, dove si trovano queste parole: “Una piccola Croce con l’immagine del Crocifisso posta sopra il Tabernacolo, nel quale (sull’Altare) è custodito il Santissimo Sacramento, non è sufficiente durante la celebrazione della Messa: nel mezzo dei candelieri deve essere collocata un’altra Croce” (§ 2, tomo I, n. 400). – In quarto luogo si discute se il Crocifisso è bene sia posto tra i candelabri, quando si termina il rito sacro su quell’Altare, dove la Divina Eucaristia non è chiusa nel Tabernacolo, ma è esposta alla pubblica venerazione dei fedeli. La Congregazione dei Sacri Riti il giorno 14 maggio 1707 ha ritenuto che ciò sia indispensabile. Infatti era stato chiesto: “Se sopra l’Altare, sul quale è stato esposto il Santissimo Sacramento, la Croce debba essere collocata secondo la consuetudine. Così allora è stato risposto: “Giammai bisogna tralasciare di porre la Croce con l’immagine del Crocifisso. Ricordiamo inoltre che quando Noi stessi (occupavamo allora la carica di Coadiutore del Promotore della Fede) abbiamo partecipato alla medesima Congregazione, in occasione di quella decisione i voti sono stati vari e discrepanti; ci volle prudenza, perché la stessa decisione non vedesse la luce. La questione è stata di nuovo sollevata all’inizio del Nostro Pontificato il giorno 2 settembre 1741 nella medesima Congregazione dei Sacri Riti, la quale, dopo aver esaminato il tutto con scrupolo, ha decretato che qualunque Chiesa mantenesse anche per l’avvenire l’usanza che fino ad allora aveva praticato. In verità, a favore della rimozione della Croce dall’Altare mentre vi si celebra la Messa, e l’Eucaristia vi è esposta alla pubblica venerazione, poco importa che alcuni ritengano che è sconveniente che l’immagine di Cristo si trovi nel luogo, in cui Cristo stesso in forma di pane è realmente presente e da tutti è visto sotto la medesima specie di pane. Ciò senza dubbio avviene ogni volta in cui il Sacerdote, compiendo il rito sacro su qualsiasi Altare, consacra l’Eucaristia; e giammai la Chiesa ha ritenuto che si debba decidere che, compiuta la consacrazione, la Croce sia rimossa dall’Altare. Analogamente per coloro i quali sostengono che la Croce deve essere necessariamente sull’Altare su cui è stato esposto il Sacramento alla pubblica venerazione, se la Messa vi viene celebrata: a nulla può giovare il fatto che nella pubblica esposizione dell’Eucaristia sono indicati il trionfo e la gloria del Salvatore, mentre nella Messa è rievocata la sua morte; la Chiesa, tanto durante la Messa, nella quale si consacra l’Eucaristia, quanto nella conclusione delle preghiere, le quali sono recitate alla presenza della medesima ormai consacrata ed esposta apertamente alla venerazione dei fedeli, si serve egualmente della stessa Colletta composta da san Tommaso d’Aquino: “Dio, che lasciasti a noi il ricordo della tua passione entro il mirabile Sacramento, concedi, Ti chiediamo, che noi veneriamo i sacri misteri del tuo Corpo e del Tuo Sangue, così che sentiamo sempre in noi il frutto della tua redenzione (cioè della passione e della morte)”. Stando così le cose e dal momento che gl’interpreti e gli scrittori di riti, per i motivi che sono stati riferiti, hanno espresso diversi pareri, non possono essere sufficientemente raccomandati i Decreti che accortamente e sapientemente sono stati emessi dalla predetta Congregazione dei Sacri Riti, appunto perché ogni Chiesa o Diocesi possa mantenere la propria consuetudine; così come nulla venga modificato in quella Diocesi, dove la Croce suole essere posta sull’Altare, mentre viene celebrata la Messa, anche se la sacra Eucaristia sia pubblicamente esposta; né venga incoraggiata una nuova disciplina in quella Diocesi, dove si è affermata già da tempo una consuetudine ad essa contraria. – Abbiamo accuratamente esposto tutte queste questioni, non certo per preparare sull’argomento un completo trattato, ma perché tramite queste fosse conosciuto e osservato quanto sia alieno dai sacri riti ciò che molti hanno compiuto alla leggera e senza riflessione, cioè di celebrare il rito sacro presso Altari, sui quali la Croce non si elevi sopra i candelabri, ma soltanto un piccolo Crocifisso sia affisso alla tavola di qualche Santo che, o dipinto o scolpito, era solitamente aggiunto alla tavola maggiore dell’Altare. – Se, infatti, in conformità delle Rubriche del Messale, la Croce deve essere posta tra i candelabri; se, in conformità del Cerimoniale dei Vescovi, la Croce con l’immagine del Crocifisso deve elevarsi al di sopra dei candelabri; se in conformità del pensiero della Congregazione dei Sacri Riti, un piccolo Crocifisso infisso al Tabernacolo non è giudicato sufficiente, quando la Messa viene celebrata presso l’Altare, dove la Pisside con le Sacre Particole è chiusa nel Tabernacolo; se nella presente non si tratta dell’Altare, su una tavola del quale l’immagine del Salvatore Crocifisso è mostrata in primo piano ai fedeli, e nemmeno dell’Altare sul quale la Sacra Eucaristia è esposta alla pubblica adorazione, non vi può essere nessuno che non veda che il procedimento di cui si discute, recentemente introdotto e praticato da singole persone con particolare aggressività, debba essere assolutamente disapprovato per quanto esposto, tanto più, quando dal piccolo Crocifisso affisso alla tavola di quel Santo che è posto sopra l’Altare, certamente non consegue quell’utilità che stabilisce la Chiesa, allorché decide che la Croce deve essere collocata tra i candelabri. Su quest’argomento l’eccellentissimo cardinale Bona così lasciò scritto: “Dalla vista della Croce è richiamata alla memoria del Sacerdote celebrante la passione di Cristo, passione della quale questo Sacrificio è la vera immagine e la reale rappresentazione, esprimendo in modo incruento la morte cruenta del nostro Salvatore; quantunque in modo diverso, viene presentato lo stesso Sacrificio che fu offerto sulla Croce. Con queste ultime parole è indicata la dottrina ortodossa, espressa dal Concilio di Trento (Rerum liturgicarum, lib. I, cap. 25, n. 8). – Pertanto, Voi tutti, Venerabili Fratelli, a cui indirizziamo questi scritti apostolici, impedite con tutta l’anima che si insinui nelle vostre Diocesi la consuetudine, che più sopra abbiamo spiegato. Se la stessa si fosse già affermata, utilizzando prima la mitezza e poi la severità, se fosse necessario, sradicatela fino in fondo. Si tratta del Sacrificio della Messa; perciò nessuno di voi ignora che dal Concilio di Trento è stata attribuita ai Vescovi ed agli Ordinari dei diversi luoghi quell’autorità in forza della quale, anche come delegati della Sede Apostolica, possano correggere le cattive abitudini, che si oppongono al rito della celebrazione della Messa; così chiaramente si desume nel decreto della sessione 22 Sulle cose da osservare e da evitare nella celebrazione della Messa. Né a voi è ignoto che non vi è alcun privilegio o immunità, che possa essere concesso a coloro che non si attengono a questa disposizione, affinché siano puniti dalla vostra autorità, con pene da voi irrogate. In questo modo si è espressa più volte la Sacra Congregazione interprete del Concilio di Trento, richiamandosi al Decreto del medesimo Sinodo che poco fa abbiamo ricordato. Ciò testimonia Fagnanus: “In generale la Sacra Congregazione ha stabilito che anche i Regolari fossero compresi in questo Decreto, quantunque esclusi; tutti coloro che erano stati esentati saranno tenuti ad osservare scrupolosamente nella celebrazione delle Messe le norme disposte dagli Ordinari; a ciò potranno essere costretti con pene e censure ecclesiastiche da irrogarsi dagli stessi Ordinari” (De officio Ordinarii, cap. Grave, n. 46). – Noi, in verità, con questa Lettera confermiamo di nuovo quell’autorità, della quale già siete stati insigniti. Resta da ricordare che Noi non siamo del parere che voi portiate via dal centro le immagini dei Santi, che sono state poste sopra la predetta tavola maggiore dell’Altare, dal momento che non mancheranno gli invidiosi, i quali, per infliggere una macchia al vostro sentimento religioso, divulgheranno fra il popolo che voi non siete trasportati verso quel Santo da alcuna devozione, la cui immagine sottraete alla venerazione dei fedeli. Questo vi prescriviamo: che in alcun modo permettiate che il rito sacro venga celebrato presso Altari nei quali il Crocifisso non si elevi tra i candelabri, in modo che il Sacerdote che celebra e il popolo che assiste al Sacrificio possano guardare agevolmente lo stesso Crocifisso, cosa che non può avvenire, se è mostrata ai fedeli solamente una piccola Croce fissata ad una tavola minore. Se tale corruzione non si è estesa sensibilmente nella Diocesi, facilmente potrà essere estirpata, se privatamente i Superiori delle Chiese informeranno di ciò i Regolari o i Secolari. Ma se si è diffusa ampiamente per la Diocesi, allora necessariamente da voi dovrà essere promulgato un editto, che si conformi a questa Nostra Lettera. – Tralasciamo di scrivervi di più: Noi vi stimiamo degni di lode quanto a prudenza e a dottrina. Sappiate con certezza che il Nostro appoggio, ogni qualvolta sarà necessario, non vi mancherà mai se lo chiederete per condurre a buon fine questa disposizione. Frattanto, alle Vostre Fraternità e ai Popoli affidati alla vostra cura impartiamo molto amorevolmente l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 16 luglio 1746, anno sesto del Nostro Pontificato.