II DOMENICA dopo PASQUA

Introitus Ps XXXII:5-6. Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini coeli firmáti sunt, allelúja, allelúja.

[Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Ps XXXII: 1. Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio. [Esultate, o giusti, nel Signore: ai buoni si addice il lodarlo.]

V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. – R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini coeli firmáti sunt, allelúja, allelúja [Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Oratio

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo. Orémus. Deus, qui in Filii tui humilitate jacéntem mundum erexísti: fidelibus tuis perpétuam concéde lætítiam; ut, quos perpétuæ mortis eripuísti casibus, gaudiis fácias perfrui sempitérnis.

[O Dio, che per mezzo dell’umiltà del tuo Figlio rialzasti il mondo caduto, concedi ai tuoi fedeli perpetua letizia, e coloro che strappasti al pericolo di una morte eterna fa che fruiscano dei gàudii sempiterni].

Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum filium tuum, qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Petri II:21-25 Caríssimi: Christus passus est pro nobis, vobis relínquens exémplum, ut sequámini vestígia ejus. Qui peccátum non fecit, nec invéntus est dolus in ore ejus: qui cum male dicerétur, non maledicébat: cum paterétur, non comminabátur: tradébat autem judicánti se injúste: qui peccáta nostra ipse pértulit in córpore suo super lignum: ut, peccátis mórtui, justítiæ vivámus: cujus livóre sanáti estis. Erátis enim sicut oves errántes, sed convérsi estis nunc ad pastórem et epíscopum animárum vestrárum. [Caríssimi: Cristo ha sofferto per noi, lasciandovi un esempio, affinché camminiate sulle sue tracce. Infatti Egli mai commise peccato e sulla sua bocca non fu trovata giammai frode: maledetto non malediceva, maltrattato non minacciava, ma si abbandonava nelle mani di chi ingiustamente lo giudicava; egli nel suo corpo ha portato sulla croce i nostri peccati, affinché, morti al peccato, viviamo per la giustizia. Mediante le sue piaghe voi siete stati sanati. Poiché eravate come pecore disperse, ma adesso siete ritornati al Pastore, custode delle ànime vostre]. R. Deo gratias.

Omelia

II DOMENICA DOPO PASQUA

[Bonomelli, Om. Vol II, XVII]

Queste poche sentenze si leggono nella prima lettera di S. Pietro. Voi dovete sapere che del Principe degli Apostoli ci rimangono soltanto due lettere, la seconda brevissima, che sono, come potete bene immaginare, un vero tesoro di dottrina sacra. La prima lettera fu scritta da S. Pietro in Roma, allorché si trovava colà con Marco, suo interprete e scrittore del Vangelo che porta il suo nome, dopo la fuga dal carcere di Gerusalemme, narrata nel capo XII degli Atti apostolici. La lettera fu scritta circa dodici anni dopo l’Ascensione di nostro Signore, e indirizzata alle varie Chiese già stabilite nell’Asia Minore, nelle provincie del Ponto, della Galazia, della Cappadocia e della Bitinia. – L’argomento di questa lettera, somigliantissima in ogni cosa a quella di S. Paolo ai Romani ed agli Efesini, è pratico e semplicissimo. Egli esorta i nuovi credenti, la maggior parte dei quali doveva essere di Ebrei convertiti poc’anzi, ad informare la loro vita secondo i principii del Vangelo, incoraggiandoli a tollerare l’odio, le vessazioni e le persecuzioni colla speranza del premio e a ricambiare i tristi, i nemici colla carità affine di guadagnarli. Premesse queste comuni, ma non inutili osservazioni, è da venire alla interpretazione dei cinque versetti, che sopra vi ho riportati; S. Pietro nei versetti, che precedono, con l’affetto d’un padre amorosissimo esorta quei novelli cristiani, usciti dal mosaismo e dal paganesimo, a nutrirsi, come bambini, del latte della divina parola, a star fermi sulla pietra fondamentale, che è Cristo, a raffrenare le cupidigie, e con una santa vita a guadagnare i pagani; poi ricorda loro il dovere di vivere sottomessi alle podestà della terra: eccita i servi ad ubbidire ai padroni anche cattivi e, se è necessario, a gloriarsi di soffrire ingiustamente. A questo punto pervenuto colle sue esortazioni, S. Pietro, come S. Paolo, mette innanzi ai suoi cari, il grande, l’eterno, l’incomparabile modello di tutte queste virtù, che è Gesù Cristo, e così continua: “Gesù Cristo ha patito per noi, lasciandovi esempio, affinché seguitiate le sue orme”. È egli possibile, o cari, vivere sulla terra ed esercitare la virtù senza patire nel corpo e nello spirito, dal mondo, dai nemici e da noi stessi? No: vivere ed esercitare la virtù vuol dire lottare, e per conseguenza soffrire: chi pensa altrimenti si inganna ad occhi aperti. Ora Iddio, per nostro conforto ed ammaestramento, volle che il Figliuol suo Gesù Cristo ci camminasse innanzi per l’aspra via; Egli ha patito, e più di tutti gli uomini, ed ha patito, non per sé, ma sì per noi, soddisfacendo per noi alla divina giustizia. È questo il primo scopo della Passione e morte di Gesù Cristo, pagare il prezzo dovuto pel nostro riscatto. Noi eravamo colpevoli: ai colpevoli è dovuta la pena, perché la giustizia lo vuole: al nostro luogo si mette l’amabile Gesù, e quella pena, che doveva cadere sopra di noi, cade sopra di Lui, come disse sì bene Isaia: “Disciplina pacis nostra, super eum,” onde il suo patire affranca noi. – Ma la Passione e la morte di Gesù Cristo ha un altro scopo strettamente congiunto al primo, ed è quello di darci esempio nel cammino della Croce. Esortare, incoraggiare altri colla parola a correre animosamente la gran via della croce, è bella e santa cosa, ma facile: mettersi per essa e percorrerla è opera assai più difficile, ma più efficace, e Gesù Cristo la volle compire. Vedetelo: Egli soffre nel corpo, cominciando dalla culla alla tomba: soffre il freddo, il caldo, la fame, la fatica nell’officina, nei viaggi della sua vita pubblica: soffre la povertà e tutto ciò che necessariamente va congiunto colla povertà: soffre le percosse, i flagelli, in una parola, la morte di croce. Ma i dolori del corpo sono ben poca cosa in confronto di quelli che soffre nello spirito. Egli è Dio e l’anima di Gesù, rischiarata perennemente dai fulgori della divinità, vede ogni cosa con perfetta certezza e chiarezza: occhio umano non vide, né vedrà mai più addentro le cose divine ed umane dell’occhio di Gesù. Egli vede l’ignoranza degli uomini, le loro colpe, la malignità dei suoi nemici, le iniquità tutte, che allagano la terra: vede il passato, il presente, il futuro: vede la rovina di tante anime, opera delle sue mani, e per le quali immola se stesso: vede la gloria del Padre suo conculcata: vede la propria dignità e maestà di Figlio di Dio disconosciuta, calpestata. Qual dolore! quale strazio pel suo cuore! Dolore e strazio tanto più crudele ed atroce in quanto che nessuno lo comprende e pochissimi lo raddolciscono, ed Egli è costretto a divorarlo in silenzio: Gesù è veramente l’uomo dei dolori! l’uomo dei dolori continui, intimi, ineffabili nel corpo e nello spirito, e come tale Egli raccoglie sopra di sé gli occhi di tutta questa immensa progenie di Adamo, che va incessantemente dolorando in questa via di esilio e, Lui rimirando, si conforta e apprende come ha da patire. Ah fratelli miei! Se allorché il dolore si aggrava sopra di noi e quasi ci schiaccia non avessimo dinanzi agli occhi questo Gesù l’uomo dei dolori, il re dei martiri, che sarebbe di noi? Rimirar Lui santo, innocentissimo, eppure saziato di obbrobri, agonizzante sulla croce, è sentirci confortati a correre la via dei patimenti, ch’Egli ha segnato col suo sangue! Sappiamo per fede che “Gesù non fece peccato alcuno, né sulle sue labbra fu mai trovata frode.” Con questa osservazione san Pietro rincalza la verità. Noi tutti soffriamo più o meno, ma nessuno di noi soffrirà mai come Gesù Cristo; è già un argomento efficacissimo ad imitarLo: ma vi è di più. Noi soffriamo e alcune volte soffriamo assai. Ma chi siamo noi? Povere creature, e Gesù è il Figlio di Dio! Quale confronto! Non basta: noi soffriamo e sia pure moltissimo. Chi siamo noi? Non solo povere creature, ma peccatori, e se poniamo sulla bilancia da una parte i nostri dolori, e dall’altra i nostri peccati, troviamo che questi di gran lunga superano quelli, e che se Iddio volesse proporzionare i dolori ai peccati nostri, noi ne saremmo certamente schiacciati. Eppure, Gesù che sofferse quel cumulo di dolori atrocissimi, che dicemmo, era santo, innocente, immacolato: ombra di colpa non fu mai, né poteva essere in Lui, perché l’Uomo-Dio non può peccare. Quale incoraggiamento per noi a patire, avendo innanzi agli occhi tanto modello, per noi rei di tante colpe e meritevoli d’ogni supplizio! – Né qui si ferma il Principe degli Apostoli. Dopo d’aver confortati noi peccatori a patire coll’esempio di Gesù innocentissimo, tocca del modo con cui Gesù patì, e in questo pure vuole che ci modelliamo sopra di Lui. “Gesù oltraggiato, non oltraggiava; soffrendo, non minacciava.” Con queste parole il sacro Scrittore credo abbia voluto abbracciare tutta la vita di Gesù, senza alludere a qualche fatto particolare: Gesù fu crudelmente oltraggiato allorché i Giudei più volte e pubblicamente lo dissero amico dei pubblicani e dei peccatori, bevitore, samaritano, posseduto dal demonio, eccitatore di tumulti, nemico di Cesare, malfattore, seduttore, bestemmiatore, peggiore d’un ladrone e d’un omicida; eppure Gesù a tanti insulti, a sì sanguinose ingiurie non oppose che il silenzio e risposte piene di dignità e di mansuetudine: a chi Lo straziava non fece minacce, ma come agnello si lasciò condurre alla morte. Ecco come pativa Gesù, l’innocentissimo Gesù, ed ecco come dobbiamo patire noi pure. Ma che avviene, o cari? che vediamo noi? che facciamo? Troppo spesso alla più lieve offesa, e forse non sempre immeritata, ci risentiamo, leviamo alti lamenti, mettiamo a rumore il vicinato, gridiamo, strepitiamo, vogliamo giustizia, sbuffiamo d’ira, rompiamo in insulti e, non piaccia a Dio, in bestemmie, in imprecazioni! Oh come abbiamo bisogno di meditare il divino modello, Gesù Cristo, che oltraggiato, non oltraggiava, soffrendo, non minacciava! Come è bella, nobile e degna di ammirazione la calma tranquilla e dignitosa del cristiano in faccia a chi lo offende ed insulta! La pazienza e la carità non vietano che domandiamo giustizia e riparazione delle offese ricevute, e in certi casi può essere un dovere l’esigerla, ma è sempre indegno del cristiano rispondere coll’ingiuria all’ingiuria, colle invettive alle invettive. S. Pietro, proseguendo a parlare del supremo nostro modello, Gesù Cristo, dice: “Gesù si rimetteva in mano di colui che Lo giudicava ingiustamente.” Ponete mente, o dilettissimi, a queste parole: “Gesù si rimetteva in mano di colui che Lo giudicava ingiustamente.” Esse vi dicono, che Gesù Cristo patì e morì, non forzatamente, ma liberamente: Egli stesso si diede in mano de’ suoi nemici, incatenò, se posso dirlo, la sua onnipotenza, e lasciò che facessero ogni lor volere della propria Persona. L’aveva detto in termini Gesù Cristo: “Io metto l’anima mia per ripigliarla: niuno me la toglie, ma la do da me stesso, ed ho potere di darla e di ripigliarla” (Giov. x, 15 seg.). Non poteva più chiaramente affermare la sua libertà di patire e non patire, di morire e non morire. E invero: se Gesù Cristo non fosse stato perfettamente libero e di patire e di morire, non sarebbe stato perfetto uomo, la sua Passione non avrebbe avuto merito alcuno e sarebbe stato ridicolo il proporlo a noi come esempio da seguire. Chi è colui, in balia del quale Gesù si diede e che Lo giudicò ingiustamente? Accennandosi qui un giudice ingiusto, in singolare, che pronunciò sentenza contro Gesù Cristo, sembra fuor di dubbio che questi sia Pilato. E’ vero, Lo giudicarono Anna, Caifa, i capi del popolo, Erode, e Lo giudicarono ingiustissimamente; ma di quelli, ancorché più colpevoli, S. Pietro non si cura, perché la loro sentenza non poteva essere eseguita, se quella di Pilato non si aggiungeva: onde fu la sua che trasse a morte Gesù Cristo, e perciò di lui particolarmente si parla. — Gesù si commise alla mercé di Pilato, giudice straniero e pagano: in lui riconobbe un potere, che veniva dall’alto (S. Giov. XIX, 11), ancorché ingiustamente ne usasse. – Apprendiamo, o cari, da queste parole di S. Pietro non solo a rispettare l’autorità, in chiunque essa risieda, ma eziandio a soffrire ingiustizie, se questa ce le fa soffrire. Chi mai sulla terra soffrì ingiustizia più scellerata di quella, che Gesù Cristo sofferse da Pilato? Riconosciuto innocente, flagellato, coronato di spine e condannato alla croce: eppure Egli si diede nelle sue mani, limitandosi a dirgli: “Chi mi ha dato nelle tue mani è reo di maggior peccato, perché lo faceva per odio. – Soffrire l’ingiustizia non è approvarla, e noi possiamo bene rispettare l’autorità e condannare i suoi abusi. Lo so, ciò è difficile, perché l’ingiustizia, che si soffre dalla autorità, è congiunta con essa per forma che ai nostri occhi sembra formare con essa una sola cosa: ma pure è necessario non confondere queste due cose se non vogliamo renderci colpevoli. Voi avete o aveste i vostri genitori: l’autorità paterna e materna, che dopo la divina è la prima, era ed è in essi e voi la rispettaste e la rispettate. Se, per sventura vi fosse stato o vi fosse abuso in loro, qual era e quale sarebbe il vostro dovere? Avreste voi il diritto di disconoscerla? Giammai. Voi potreste e dovreste riprovare in cuor vostro l’abuso della loro autorità, ma rispettarla sempre, perché essa è cosa divina. Ragguagliata ogni cosa, è ciò che dobbiamo fare con qualunque autorità, allorché vien meno a se stessa. Nell’antica legge il sommo sacerdote, una volta all’anno, compiva il rito solenne del capro emissario: egli poneva le mani sul suo capo, confessava i peccati suoi e del popolo, e li poneva sul capro, e questo era abbandonato nel deserto (Levit. XVI, 21). Qui S. Pietro accenna a quel rito misterioso, che adombrava Gesù Cristo, il quale tolse sopra di sé, volontariamente i peccati di tutti gli uomini, li portò sulla croce e nel suo corpo, ossia nei patimenti del suo corpo, e nel sangue che sparse li espiò e li cancellò. Egli è il vero Giacobbe, che si copre della pelle del capretto, anzi è il vero capro emissario, che carico dei delitti del mondo [Non è necessario avvertire che più volte nelle Scritture la parola peccato è presa non a significare il reato, il disordine morale, ma l ‘effetto del peccato, che è la pena. Qui si dice che Gesù Cristo portò i peccati nostri sulla croce, nel suo corpo, cioè portò sulla croce ed espiò la pena dovuta al peccato.], esce dal mondo, è sollevato sull’alto della croce, muore come reietto, anzi come maledetto, e in sé riconcilia il cielo e la terra, secondo la frase di san Paolo. Allorché Gesù morì per noi sull’albero della croce e nel suo sangue spense il peccato, noi fummo sciolti dal giogo del peccato stesso, fummo come morti ad esso, e cominciammo a vivere alla giustizia risanati dalle sue lividure. Spieghiamoci meglio. Un uomo è condannato alla morte: un altro uomo innocente, mosso a pietà di lui, si offre a morire in suo luogo: la morte dell’uno è la vita dell’altro: il colpevole, compiuta la giustizia, cessa d’essere colpevole, è riabilitato, è giusto: egli è come morto ai suoi delitti, rivive alla virtù, all’onestà, alla giustizia. Il colpevole è ciascuno di noi; Gesù Cristo si offre a pagare per noi, paga col suo sangue, ed eccoci riabilitati, giustificati, risanati colle sue lividure. – S. Pietro dopo aver messo innanzi agli occhi dei suoi figliuoli il sommo modello dell’amore e del perdono, Gesù Cristo, chiude la sua esortazione, rivolgendo loro queste bellissime parole: ” Voi eravate come pecorelle smarrite: ma ora vi siete rivolte al pastore e al vescovo delle anime vostre.” Voi, pochi anni or sono, eravate ancora Giudei e Gentili; correvate le vie dell’errore: eravate simili a quelle povere agnelle, che si allontanano dall’ovile, ai smarriscono nei fitto d’un bosco o nella immensità del deserto, e che ad ogni istante possono essere sbranate dalle belve feroci: Dio ebbe pietà di voi: vi chiamò, colla sua grazia vi trasse dolcemente a sé, e voi ubbidiste, vi rivolgeste a Lui, al pastore, al Vescovo delle anime vostre. — Gesù Cristo è il Pastore delle anime in quanto le guida ai pascoli della vita, le difende dai lupi che le insidiano: è vescovo [Vescovo “Episcopus”, significa propriamente chi sovraintende ad altri in qualunque ufficio: ora si usa esclusivamente per indicare il Vescovo, il maggiore dei gradi gerarchici], cioè veglia sopra di loro, le regge, le custodisce. Egli fu Pastore e Vescovo degli Apostoli e dei discepoli, dei credenti, finché visse mortale sulla terra, ed è Pastore e Vescovo sempre nella persona di quelli che continuano l’opera sua attraverso ai secoli. Queste parole di agnelle, di pastore e di vescovo richiamano alla nostra memoria i doveri che tutti abbiamo, io vostro pastore, voi agnelle dell’ovile di Cristo. A me i doveri di ammaestrarvi e di camminare innanzi a voi coll’esempio d’una vita irreprensibile: a voi di ascoltarmi e seguirmi: adempiamoli fedelmente e tutti dal Principe dei pastori, dal Vescovo dei vescovi, avremo la nostra mercede.

Alleluja

Allelúja, allelúja Luc XXIV:35. Cognovérunt discípuli Dóminum Jesum in fractióne panis. Allelúja [I discepoli riconobbero il Signore Gesú alla frazione del pane. Allelúia]. Joannes X:14. Ego sum pastor bonus: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ. Allelúja. [Io sono il buon Pastore e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Allelúia.]

Evangelium

Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen. Jube, Dómine, benedícere. Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen. V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem. R. Gloria tibi, Domine! Joann X:11-16. “In illo témpore: Dixit Jesus pharisaeis: Ego sum pastor bonus. Bonus pastor ánimam suam dat pro óvibus suis. Mercennárius autem et qui non est pastor, cujus non sunt oves própriæ, videt lupum veniéntem, et dimíttit oves et fugit: et lupus rapit et dispérgit oves: mercennárius autem fugit, quia mercennárius est et non pértinet ad eum de óvibus. Ego sum pastor bonus: et cognósco meas et cognóscunt me meæ. Sicut novit me Pater, et ego agnósco Patrem, et ánimam meam pono pro óvibus meis. Et alias oves hábeo, quæ non sunt ex hoc ovili: et illas opórtet me addúcere, et vocem meam áudient, et fiet unum ovíle et unus pastor”. [In quel tempo: Gesú disse ai Farisei: Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la vita per le sue pecore. Il mercenario invece, e chi non è pastore, cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, e lascia le pecore, e fugge; e il lupo rapisce e disperde le pecore: il mercenario fugge perché è mercenario, e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e queste conoscono me, come il Padre conosce me, ed io il Padre. Io dò la vita per le mie pecore. E ho delle altre pecore, le quali non sono di quest’ovile: anche quelle occorre che io raduni, e ascolteranno la mia voce, e sarà un solo ovile e un solo pastore].

Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Omelia della Domenica II dopo Pasqua

[Canonico G.B. Musso, 1851, vol. II -imprimatur-]

– Gesù Buon Pastore –

   “Ego sum pastor bonus”, dice nell’odierno Vangelo secondo la Volgata Cristo nostro Signore, e secondo il testo greco: “Ego sum ille pastor bonus! quasi dir voglia: “Io son quel buon Pastore veduto in ispirito dai Patriarchi, predetto dai Profeti, e figurato in Abele, in Giacobbe, in Davide, tutti pastori amatissimi della propria greggia”. Il buon pastore mette la vita per sue pecorelle. Ma il mercenario, che non è, e non merita il nome di pastore, al vedere appressarsi il lupo abbandona l’armento, si dà alla fuga, onde il lupo fa strage, rapisce, disperde le spaventate agnelle. E perché pratica così vilmente il mercenario? Appunto per questo che egli è mercenario, prezzolato, a cui le pecore non appartengono, ed altro non ha a cuore che il proprio vantaggio. Io però, che sono il vero e buon Pastore, Io che conosco ad una ad una le mie pecorelle, e da esse son conosciuto, Io per la loro salvezza son pronto a dare e darò la mia vita, “animam meam pono pro ovibus meis”. – Così parla, così dipinge sé stesso l’amorosissimo nostro Redentore. Seguiamo, uditori fedeli, l’evangelica allegoria, e vediamo quanto è mai buono questo nostro divin Pastore, e quanto noi dobbiamo essere sue docili e buone pecorelle. Merita ogni attenzione il dolce argomento.

I – Per il peccato del nostro incauto progenitore Adamo, eravam noi come tante pecore erranti, “omnes nos quasi oves erravimus(Isaia LV, v, 6). Immaginate una greggia percossa e dispersa da fulmine tremendo aggirarsi per balze e per dirupi senza guida, senza pastore, non può questa altro aspettarsi che il precipizio o le zanne del lupo. Tal’era la condizione infelice dell’umana nostra natura, “omnes nos quasi oves erravimus”. Quando il Figliuol di Dio, mosso a pietà di noi, lascia le novantanove pecorelle, ossia, come spiegano dotti Spositori, i nove cori degli Angeli, e viene quaggiù in cerca della pecora smarrita, cioè della perduta umana generazione, e viene, “saliens in montibus transiliens colles”(Cant. II, 8), vale a dire, dal cielo nel seno della Vergine Madre, da questo nella grotta di Betlemme, da Betlemme in Egitto, indi a Nazaret, e finalmente in Gerosolima. Qui osservate com’Egli adempie col fatto quanto aveva già detto colle sue parole, che per la salute delle sue pecorelle sacrificherà la sua vita. Animam mea pono pro ovibus meis”. – Vedete voi quella turba di fanti, di sgherri con faci, con lanterne, con bastoni, con spade avvicinarsi all’orlo degli ulivi? In capo a questa masnada è Giuda traditore. Ecco il lupo. Che fa il buon Pastore in tal cimento? Di sé non curando, pensa soltanto a sottrar dalle loro mani i suoi cari. Va incontro al capo ed alla schiera, e, “chi cercate voi?- dice intrepido e fermo – se Gesù Nazzareno, Io son quel desso, lasciate però andare in pace i miei discepoli”, “sinite hos abire” (Joan. XXVIII, 8). Così avvenne: Gesù resta fra le funi e le ritorte, e i suoi discepoli si salvano colla fuga. – Ecco il buon Pastore in mano dei lupi rabbiosi tratto ai tribunali, legato ad una colonna. Oh Dio! quale ne fanno sanguinosissimo scempio! Ed Egli intanto va dicendo in suo cuore: questo mio sangue laverà le macchie delle mie pecorelle, sarà il balsamo per le loro ferite, sarà il prezzo del loro riscatto, e la morte, a cui mi avvicino, darà ad esse la vita, “animam meam pono pro ovibus meis, et ego vitam æternam do eis(Jonn. X). – Era tanto l’amor di Davide ancor pastorello per la paterna greggia, che qualora orso o leone giungeva a rapire una qualche agnella, armato di tutto se stesso se gli scagliava contro, e ghermitolo per la gola, gli toglieva dalle zanne la palpitante preda. Tanto fece per noi il divino nostro Pastore; con questa differenza però, che Davide acquistò nome di valoroso e di forte, e Gesù Pastor buono, fu computato tra gli scellerati, e qual malfattore crocefisso. – Sembrerà questa l’ultima prova dell’amor di Gesù nostro buon Pastore verso di noi suo gregge avventuroso. Ma no: compiuta l’umana redenzione, rotta la catena della nostra schiavitù, prima di separarsi da noi per ascendere al Padre, udite con quai sentimenti e con qual cuore prende a parlare a Simon Pietro. Simone figliuol di Giovanni, gli dice, mi ami tu più di tutti questi, che qui son presenti? Simon Joannis, diligis me plus his(Joan. XXI)? “Signore – Pietro rispose –  sì che io Vi amo, e voi lo sapete.” – “Se veramente tu mi ami, ripiglia Gesù, dammi prove dell’amor tuo con pascere gli agnelli della mia greggia, “pasce agnos meos”. Ma tu mi ami davvero? soggiugne Gesù per la seconda volta. “Ah Signore – ripete Simon Pietro – Voi vedete il mio cuore, mi protesto che Vi amo”. “Se dunque tu mi ami, pasci i miei agnelli”, “pasce agnos meos”. Con una terza domanda Gesù l’interroga: Pietro, tu mi ami? “Mio Signore – risponde Pietro turbato e confuso – Voi lo chiedete a me? Niuna cosa è al vostro sguardo nascosta, Voi siete lo scrutatore dei cuori: e meglio di me sapete che Vi amo”. “Conoscerò –  conchiude Gesù – il tuo amore per me dalla cura che avrai di pascere le mie pecorelle”, “pasce oves meas”. Breve fu il suono di queste parole, ma a quale e quanto grave senso si estendono! Pietro, parmi dir volesse, tu sei quella pietra, che ho posta per fondamento della mia Chiesa. A te, primo fra i miei Apostoli, e mio vicario, ho dato in modo tutto singolare le chiavi del regno dei cieli, e con esse la potestà suprema di sciogliere e di legare con giudizio irrefragabile pronunziato sulla terra, ed approvato nel cielo. Ma ciò non basta. Ti costituisco da questo istante Pastore universale di tutto il gregge che mi son formato col mio Vangelo, co’ miei sudori, collo sborso di tutto il sangue mio. Tu pascerai non solo i miei agnelli, ma come Pastor dei pastori anche le pecore madri, “pasces oves meas”. Pasci dunque gli uni e le altre con guidarle all’erbe salubri, e ai limpidi fonti. Pasce colla dottrina, colla predicazione, coll’esempio, coi sacramenti: difendi la mia e la tua greggia e da quei lupi, che l’assalgono a viso aperto, e da quei che si ascondono sotto la pelle di agnelli: ad un cuore che mi ama, o Pietro, Io devo affidarla, e non ad altri darne il governo, che a un cuore che abbia dell’amore per me, “pasce agnos meos, pasce oves meas”.

II Che dite, che vi pare, uditori del cuore, dell’amore, della bontà del divino nostro Pastore? Che cura, che impegno, che sollecitudine, che tenerezza per noi! Quale ora dovrà essere la nostra corrispondenza? Ecco, Egli è il nostro buon Pastore, dobbiam noi essere sue fide e buone pecorelle. E come? Egli stesso nel suo Vangelo ce n’insegna il modo. “Oves meæ – dice – vocem meam audiunt(Joan. X. 27). Le mie pecorelle ascoltano la mia voce e l’apprezzano, ascoltano i miei avvisi e li seguono, ascoltano i miei precetti e gli osservano, ascoltano le mie ispirazioni e le accolgono, ascoltano la voce dei miei ministri e la rispettano, ascoltano la parola da loro annunziata e ne profittano. “Oves meæ voce meam audiunt”. È questo un segno, che sono pecorelle del mio ovile quelle anime che ascoltano e si pascono della mia parola letta nei libri, predicata dai pergami; e a tenore delle verità e delle massime ch’essa propone, emendano la vita, regolano il costume, raffrenano le passioni, adempiono la legge, praticano la virtù, edificano il prossimo, santificano sé stesse, “oves meæ vocem meam audiunt”. – Ma che segno sarebbe se invece si ascoltasse più volentieri la voce dei bugiardi figliuoli degli uomini, che promuovono dubbi circa la fede, che spargono massime ereticali, che bestemmiano quel che ignorano? Che sarebbe se più piacessero i laidi discorsi, i motti maliziosi, le favole oscene, le scandalose novelle? Di queste pecore infette, rognose, direbbe Gesù, io non sono il Pastore, esse non appartengono al mio ovile, “non sunt ex hoc ovili”(Joan. X, 16). Le pecore inoltre hanno in sommo orrore il lupo, orror tale, che al solo sentirne gli ululati, sebbene difese da ben chiuso e riparato ovile pure si vedono ritirarsi negli angoli più remoti, e tremar da capo a piedi, tanto è l’orrore e lo spavento di questo loro nemico. È tale, ascoltanti, l’orror vostro, il vostro spavento per il peccato, nemico dell’anima vostra? Ne temete il pericolo, ne fuggite l’aspetto? Buon segno, miei cari, se è così, buon segno; voi siete pecorelle del gregge di Cristo. Perseverate ad odiarlo, ad abbominarlo, e dite sempre col reale profeta: “Iniquitàtem odio habui et abominatus sum” (Ps. CXVIII). – Altra proprietà delle pecore, dice Cristo Signore, è il seguitare il proprio pastore, di cui conoscono la voce e la persona, “oves illum sequuntur” (Joan.). Siamo disposti a seguir l’orme del nostro Pastore Gesù Cristo? Beati noi, arriveremo a buon termine. Chi mi seguita, dice Egli, non cammina fra le tenebre dell’errore, “qui sequitur me, non ambulat in tenebris(Joann. VIII, 12). Ma chi vuol venir dietro a me, convien che neghi se stesso e le proprie voglie, che si addossi la propria croce, e calchi le mie pedate; “Si quis vult post me venire, abneget semetipsum, tollat crucem suam, et sequatur me(Luc. IX, 23). E che vuol dire, interroga S. Agostino, questo sequatur me? Vuol dire imitare i suoi esempi, “quid est me sequatur, nisi me imitetur? (Tract. 51, in Jo.). Chi corre la vita del piacere non imita Gesù, che va per quella del Calvario. Gli esempi di questo nostro Pastore sono di umiltà e di mansuetudine, di pazienza, di carità; non può esser sua pecorella chi non è imitatore delle sue virtù. – La pecora finalmente dà il latte e la lana come in retribuzione al pastore che la guida, la pasce, la governa e la difende. Gesù buon Pastore, o fedeli, anche Egli vuol da voi, e vi chiede il latte e la lana; ma non per sé. Vi chiede il latte, cioè la cristiana educazione della vostra prole. I sentimenti di pietà, di timor di Dio, di religione, di rettitudine, di onestà, ed altre buone e sante massime, sono quel latte, che dovete istillare nel cuor de’ vostri figliuoli. I salutari avvisi, i saggi consigli, le dolci ammonizioni ai vostri inferiori, ai vostri eguali, anche questo è latte, col quale S.Paolo avea pasciuti i suoi figli rigenerati in Cristo Gesù, lac potum dedi (I Cor. V, 2), e che Gesù aspetta da voi. – Aspetta da voi, e vi domanda anche la lana per coprire tanti suoi poverelli mezzo ignudi, esposti al rigor delle stagioni, tremanti, intirizziti dal freddo. Oh Dio! Se il vostro cuore non si commuove, in vista di tanta miseria, come potete sperare di essere riguardati da Gesù Cristo in qualità di sue pecorelle? Visitate, visitate la vostra casa, aprite i guardaroba, o facoltosi, e vi troverete tante vesti rimesse, quanto per voi inutili, tanto pei poveri necessarie. Per carità coprite Cristo ignudo nei vostri ignudi fratelli. Imitate S. Martino ancor catecumeno, S. Filippo Benizio, S. Giovanni Canzio, S. Tommaso da Villanuova, e tanti altri caritatevoli servi di Dio, che si trassero le vesti di dosso per coprire l’altrui nudità. Contrassegno più chiaro, carattere più certo di nostra predestinazione non vi è di questo, qual è spargere le viscere della nostra carità verso i bisognosi nostri fratelli. – Ma il vestire non basta, conviene anche cacciar la fame, la fame, dico, che fa andar pallidi tanti vecchi cadenti, tante vecchierelle tremanti, tanti storpi impotenti, che fa languire tanti infermi sulla paglia, che fa gemere tante famiglie che non han cuore a mostrar faccia. – Ravviviamo la fede, cristiani miei cari. Nel giorno estremo, nella gran valle saranno dai capri separate le agnelle, e alla destra parte da Gesù benedette; quelle agnelle, dissi, che avranno dato ascolto alla sua voce, che avranno seguito i suoi esempi, avuto in orrore il peccato e dato il latte di cristiana educazione alla prole e la lana a soccorso degl’indigenti. A queste Cristo Signore rivolto in aria dolcissima, “venite a me, dirà loro, voi avete camminato sull’orme mie, voi mi siete stati fedeli, mi avete pasciuto famelico, e coperto ignudo, venite, per voi non son giudice, sono e sarò per sempre il vostro buon Pastore, venite ai pascoli, venite ai fonti di eterna vita, il mio regno sarà il vostro ovile; voi sarete sempre mie, Io sempre vostro. Vogliamo noi, uditori, goder di simile sorte? Siamo buone, fide, docili pecore, e sarà Gesù nostro buono ed eterno Pastore!

Credo

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Ps LXII:2; LXII:5 Deus, Deus meus, ad te de luce vígilo: et in nómine tuo levábo manus meas, allelúja.

Secreta

Benedictiónem nobis, Dómine, cónferat salutárem sacra semper oblátio: ut, quod agit mystério, virtúte perfíciat. [O Signore, questa sacra offerta ci ottenga sempre una salutare benedizione, affinché quanto essa misticamente compie, effettivamente lo produca]. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Communio Joannes X:14. Ego sum pastor bonus, allelúja: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ, allelúja, allelúja [Io sono il buon pastore, allelúia: conosco le mie pecore ed esse conoscono me, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

S. Dóminus vobíscum. – R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Præsta nobis, quaesumus, omnípotens Deus: ut, vivificatiónis tuæ grátiam consequéntes, in tuo semper múnere gloriémur. [Concédici, o Dio onnipotente, che avendo noi conseguito la grazia del tuo alimento vivificante, ci gloriamo sempre del tuo dono.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Sacramento dell’ORDINE -2-

Sacramento dell’ORDINE -2-

[J. –J. Gaume, Catechismo di perseveranza. Vol. II cap. XLIV– Torino 1881]

Ordini minori. — Ostiarii: loro funzioni. — Cerimonie e preghiere che ne accompagnano l’ordinazione. — Lettori: loro funzioni. — Cerimonie e preghiere che ne accompagnano l’ordinazione. — Esorcisti: loro funzioni. — Cerimonie e preghiere che ne accompagnano l’ordinazione. — Accoliti : loro funzioni. — Cerimonie e preghiere che ne accompagnano l’ordinazione. Ordini maggiori: Suddiaconato; funzioni dei Suddiaconi. — Preghiere e cerimonie della loro crdinazione. — Diaconato ; funzioni dei Diaconi. — Preghiere e cerimonie della loro ordinazione. — Sacerdozio; funzioni e potestà dei Sacerdoti. — Cerimonie e preghiere della loro ordinazione. — Benefizi sociali del Sacramento dell’Ordine.

La Lezione precedente vi ha mostrato le relazioni degli Ordini fra di loro, e coll’augustissima Eucaristia. Egli è perciò tempo di spiegare partitamente ciascuno di essi.

– Il primo degli Ordini minori che si riceve dopo la cerimonia della tonsura è quello di Ostiario. Se nel palazzo di un re tutti gl’impieghi sono onorevoli, nella casa di Dio tutti i Ministri sono santi; donde nasce, che la Chiesa consacra tutti coloro a cui vengono affidati. L’Ordine dell’Ostiario era nei primi secoli indispensabile poiché non tutti erano Cristiani. Era ufficio degli Ostiarii d’impedire ai pagani di entrare nelle chiese, di nuocere ai fedeli, di profanare i santi Misteri. Dovevano inoltre far rimanere ciascuno nei luoghi destinati, tenere il popolo diviso dal clero, gli uomini dalle donne, far osservare il silenzio e la modestia, annunziare le ore della preghiera, custodire fedelmente il tempio, conservarlo con ogni accuratezza pulito ed ornato, provvedere a che nulla andasse perduto, aprire e chiudere a tempo debito le porte sì della chiesa che della sacristia, finalmente aprire il libro al Ministro che predicava. Scorgesi da ciò, che riunendo tutti questi uffici, l’incarico non era troppo leggiero: l’Ostiariato conferivasi a persone di età matura [FLEURY, Istituzioni di Diritto Canonico, part. I]. – Tutte codeste incombenze trovansi rammemorate nelle preghiere e nelle cerimonie della ordinazione. Dopo che il Vescovo le ha spiegate agli Ostiarii, l’Arcidiacono conduce i medesimi alle porte della Chiesa e facendola chiudere ed aprire, pone fra le loro mani la corda delle campane onde suonino qualche tocco, riconducendoli poscia a’ piedi dell’ altare. Cotali cerimonie che potrebbero forse sembrare superflue a chi non ne conosce né l’origine né il significato, agli occhi del Cristiano pio ed istruito si mostrano sommamente rispettabili. – Esse gli ricordano la santità della casa di Dio, la tremenda maestà dell’augusto Sacrificio, la gloriosa antichità della Chiesa, e finalmente quei giorni felici di fede e d’innocenza, che saranno eterno obbietto della nostra ammirazione e del nostro rammarico. Il Vescovo termina l’ordinazione degli Ostiarii chiedendo per essi al Signore la celeste benedizione e la grazia che possano santamente esercitare il loro ufficio, onde essere ammessi un giorno coi suoi eletti nel soggiorno della gloria eterna.

– L’ordine dei Lettori è più nobile di quello degli Ostiarii, giacché si riferisce più immediatamente all’Eucaristia. I Lettori, spesse volte più giovani d’età che non gli Ostiarii, servivano come segretari i Vescovi ed i Sacerdoti, e s’iniziavano al sapere, leggendo e scrivendo sotto la loro direzione. In tal guisa si addestravano agli studi quelli che vi si mostravano più abili, e che potevano poscia giungere al Sacerdozio. Le loro funzioni erano grandemente necessarie, poiché sempre fu costume di leggere nelle chiese le Scritture dell’antico e del nuovo Testamento, tanto nel tempo della Messa, quanto ancora degli altri uffici e principalmente della notte. Leggevansi eziandio ne’ primi secoli le epistole degli altri Vescovi; gli atti dei Martiri, le omelie ed i sermoni, come è pure usanza de’ nostri giorni, colla sola diversità, che in oggi tale ufficio è adempiuto da tutti i Ministri che risiedono in coro, mentre nei primordi apparteneva ai soli Lettori. – Fra la nave della Chiesa, che conteneva i fedeli ed il coro, ove risiedevano i Ministri dell’altare, vi era un palco a cui salivasi mediante sette od otto scalini, circondato da balaustrata e capace di contenere otto persone.. Questa specie di tribuna, era detta ambone, dacché vi si saliva per due gradinate e guardava tanto verso i l popolo che verso i Sacerdoti. Chiamavasi anche col nome di Jube, dalla circostanza che Lettore, innanzi di cominciare a leggere chiedeva al Vescovo la benedizione con le parole: Jube, Domine, benedicere; e di questa voce jube spesso ripetuta si valse il popolo per indicare il luogo destinato ai Lettori. Questa tribuna vedesi ancora in alcune antiche chiese, e serviva, come si è detto, alla predicazione ed alle altre letture religiose. – I Lettori erano altresì incaricati della custodia dei libri sacri, ufficio assai pericoloso in tempo di persecuzione. La formula della loro ordinazione, tolta come quelle degli altri Ordini inferiori dal quarto Concilio di Cartagine celebrato l’anno 398, ricorda ch’essi devono leggere per colui che predica, cantare le laudi, benedire il pane ed i nuovi frutti. Il Vescovo nell’ordinarli, dopo di aver chiesto per essi la grazia di poter compiere degnamente le sante funzioni, fa ai medesimi toccare un libro di sacre Letture e pronunzia in tal tempo le seguenti parole: « Ricevete questo libro e siate lettori della parola di Dio; se voi adempirete con fedeltà un tale incarico voi avrete parte fra quelli che sino dal principio hanno con saviezza dispensato la divina parola ».

– Il terzo degli Ordini minori è quello dell’Esorcista. Uffizio degli Esorcisti si è quello di scacciare i demoni. Nei primi secoli del Cristianesimo frequentissimi erano gli ossessi, fra i pagani specialmente; e di questo noi abbiamo le prove autentiche nei Evangeli, negli atti degli Apostoli e nei Padri della Chiesa. Come attestato del più gran disprezzo pel nemico dell’umano genere e pel suo potere, la Chiesa attribuiva l’incarico di scacciarlo a’ suoi Ministri inferiori. Questi, nel solenne Battesimo esorcizzavano i catecumeni, e facevano uscire dalla Chiesa, innanzi che fosse fatta l’oblazione dei doni sacri, coloro che non si comunicavano, vale a dire, i catecumeni stessi e gli energumeni. In oggi la podestà di esorcizzare è riserbata ai soli Sacerdoti, né questi pure possono valersene senza avere espressa licenza dal Vescovo. Essendo il numero degli ossessi divenuto più ristretto, dacché il Signor Nostro Cristo ha debellato la possanza infernale, è stato mestieri, per evitare ogni impostura, di agire con più cautela, oculatezza ed autorità. Ed ecco perché la Chiesa, mentre ha conservato gli usi della sua venerabile antichità, ha limitato il potere di esorcizzare, né concede un tale ufficio se non se a’ Sacerdoti specialmente a ciò destinati, e dopo eziandio di aver fatto ad essi subire rigorosi e minutissimi esami [Spirito delle cerimonie, p. 133]. – Terminate le preghiere dell’ordinazione, il Vescovo fa posare agli Esorcisti la mani sul messale, e dice: « Ricevete ed imparate questo libro, ed abbiate il potere di imporre le mani agli energumeni, sia battezzati, sia catecumeni ». Scongiura poscia il Signore con fervide preghiere a volerli proteggere affinché adempiano santamente le loro funzioni, e qual medici irreprensibili risanino gli altri, dopo di essersi eglino stessi risanati.

– Il quarto degli ordini minori è quello di Accolito. La parola Accolito vuol dire seguace, ossia colui che accompagna. L’Ordine degli Accoliti è il più nobile dei quattro Ordini minori. Ne’ tempi antichi gli Accoliti erano giovani, di età fra i venti e i trent’anni, destinati a seguire ognora il Vescovo e a star pronti a’ suoi ordini. Portavano dovunque le sue ambasciate, recavano le Eulogie e talvolta l’Eucaristia, e servivano all’altare sotto la dipendenza de’ Diaconi. In oggi che son mutate le circostanze, il Pontificale non attribuisce loro altro ufficio che quello di portare le torce, accendere i ceri e preparare l’acqua ed il vino pel Sacrificio. – Nella cerimonia della loro ordinazione, il Vescovo ammonisce gli Accoliti di risplendere nella Chiesa, come faci ardentissime, mediante l’esempio di tutte le virtù; di farsi specchio immacolato ai fedeli, di condurre vita purissima, di essere, a dir breve, degni di presentare l’acqua ed il vino all’altare del Signore. Fa loro in seguito toccare un candeliere sostenente un cero, nonché un’ampolla vuota, dicendo: « Ricevete questo candeliere e questo cero, e non obliate giammai che nel nome del Signore voi siete eletti per accendere le fiaccole nella Chiesa. Ricevete quest’ampolla; essa deve servire per presentare l’acqua e il vino al Sacrificio del sangue di Gesù Cristo ». – Tali sono i quattro Ordini minori; tali erano nei tempi andati gli uffici che conferivano. – Non è a credersi che i Santi, i quali hanno governato la Chiesa nei primi tempi, cercassero soltanto dilettevole occupazione nel regolare con tanta cura il culto esteriore, e nello stabilire Ordini speciali per distribuire minutamente anche le più piccole incombenze. No; essi avevano compreso l’importanza di tutto ciò che colpisce i nostri sensi, come sarebbero, ad esempio, la beltà de’ luoghi, l’ordine delle congregazioni, il silenzio, il canto, la maestà delle cerimonie. Tutte queste cose aiutano anche le persone più spirituali ad innalzarsi a Dio, e sono poi assolutamente necessarie agli idioti per dar loro una grande idea della Religione, e per farne loro amare l’esercizio. Quando vediamo che il primo tempio di Gerusalemme, in cui non si conservava che l’Arca dell’Alleanza, e il secondo tempio egualmente, in cui più non si trovava, erano regolarmente amministrati da migliaia di Leviti; quando sappiamo che ivi le cerimonie si compievano colla massima pompa e maestà, noi dobbiamo provare estrema confusione nel vedere le nostre chiese, entro le quali riposa il Corpo di Gesù Cristo, e le sante nostre funzioni governate con tanta negligenza, da non poter gareggiare per questa parte di confronto con quei templi antichi! È sventura dei tempi, che ai giorni nostri coloro che sono insigniti degli Ordini minori possano di rado compierne gli onorevoli uffici. – Anticamente ogni chiesa aveva i suoi Chierici, laddove in oggi i Leviti vivono nei seminari onde prepararsi al Sacerdozio; e perciò nelle parrocchie, i Sacerdoti, i Diaconi, i Suddiaconi, i semplici Chierici, ed i laici persino, adempiono le funzioni che a quelli spetterebbero. Il Concilio di Trento avrebbe bensì desiderato che si fosse potuto ritornare all’antica disciplina pel maggior profitto dei fedeli; ma questo voto non si poté finora effettuare. Per altro, nel mentre si aspettano giorni più propizi, la Chiesa ha conservato i santi Ordini minori come monumento prezioso dell’antica disciplina, e come scala che conduce alla santità, e da percorrersi perciò dai Leviti che aspirano agli Ordini sacri [Spirito delle cerimonie, p. 146].

– Il primo degli Ordini maggiori o sacri è il Suddiaconato, Ad esso fu donato queste grado dal tempo in cui la Chiesa ha impesto al medesimo l’obbligo di conservare la castità [II più celebre ed il più autorevole degli storici protestanti dell’Alemagna moderna, Enrico LUDES, soprannominato il padre della Storia » Alammanica, non esita ad asserire quanto segue nel Volume VIII della sua — Istoria del Popolo Germanico — pubblicata nel 1833: « Noi andiamo debitori di tutto ciò che siamo e di tutto ciò che possediamo al celibato ecclesiastico; tutto egli ci ha conservato: l’intelligenza, la coltura dello spirito, il progresso, in una parola, del genere umano ». – Veggesi pure COBBET, Storia della riforma in Inghilterra; — l’Abate JAGÉR. Del Celibato ecclesiastico; le Memorie di Religione, Morale e letteratura di Modena, n. 47-48, 283]. Per lo innanzi il Suddiaconato annovera vasi fra gli Ordini minori, ed i Suddiaconi non erano che i segretari dei Vescovi, i quali li adoperavano nei viaggi e negli affari ecclesiastici. Essi erano incaricati delle elemosine e della amministrazione dei beni temporali, e fuori della Chiesa compievano le funzioni medesima dei Diaconi. Ai Suddiaconi ordinariamente si confidava la gestione dei patrimoni di San Pietro [Si chiamavano con tal nome i beni donati alla Chiesa di Roma] nelle diverse parti della Cristianità in cui erano collocati. Amministratori di queste sostanze sotto l’autorità dei Papi, eseguivano ad un tempo i loro comandi anche rispetto ad importantissimi affari ecclesiastici: e tali erano, per cagione d’esempio, il correggere gli abusi in quelle Provincie in cui erano situati i beni, il vegliare sulle congregazioni conciliari, trasmettere d’ordine del Pontefice parziali avvisi ai Vescovi riguardanti la loro condotta, e finalmente riferire con esattezza al Papa gli avvenimenti del paese in cui risiedevano [Si vedano le Lettere di San Gregorio]. – In oggi il ministero dei Suddiaconi è limitato al servizio dell’altare ed all’assistenza del Vescovo e del Sacerdote nelle ecclesiastiche solennità. Essi preparano gli ornamenti, i vasi sacri, il pane, il vino, l’acqua pel Sacrificio; cantano l’Epistola alla Messa solenne, tengono aperto innanzi al Diacono al tempo debito il libro degli angeli, servono il Diacono in tutte le sacre funzioni, ed è appunto per ciò che sono detti Suddiaconi; inoltre danno a baciare il libro dell’Evangelo al celebrante ed ai fedeli, preparano pel Diacono all’altare il calice e la patena, mettono l’acqua nel calice dopo che il Diacono vi ha posto il vino, versano l’acqua sulle mani del Sacerdote celebrante, lavano le animette, i corporali ed i purificatoi. – Maestose sono le cerimonie dell’ordinazione del Suddiacono. Vittime volontarie, che si presentano per fare a Dio un eroico sacrificio, stanno in atto di chi rinunzia al mondo ed alle sue speranze; tutto dimostra in essi la consacrazione e la natura di questo sacrificio. Assumono primieramente il contegno d’uomini che si apparecchiano a partire; un bianco pannolino, chiamato amitto, ricopre loro il capo, come il caschetto il capo del guerriero; un camice bianco li riveste interamente, simbolo di virtù specchiata; un cordone loro cinge le reni, contrassegno di castità; portano sul braccio sinistro una funicella, espressione della gioia del loro cuore; tengono in una mano il manipolo, emblema delle fatiche che li aspettano; nell’altra un cero acceso, immagine vivissima della loro carità. In tal modo preparate ed ornate, queste giovani vittime aspettano silenziose l’istante del Sacrificio. Ed ecco il Pontefice, rappresentante di Gesù Cristo, rivolger loro queste parole: « Miei figli dilettissimi, voi qui vi presentate per ricevere il Suddiaconato. Riflettete seriamente, e ponderate con tutta l’attenzione qual sia il peso a cui bramate sottoporvi. Voi siete tuttora liberi, siete tuttora in tempo di rimanervi nella vita laicale; ma ricevuto che abbiate quest’Ordine, non potrete giammai retrocedere dall’obbligo che state per assumere. Voi apparterrete a Dio per tutta la vostra vita, dovrete servirlo fedelmente, conservare la castità, ed esser pronti in qualunque ora pel ministero della Chiesa. Vi ripeto che siete ancora in tempo…. ma se perseverate nel vostro santo proposito, avvicinatevi». – Dopo tali parole, se gli aspiranti si sentono il coraggio e la forza di obbligarsi per tutta la vita, fanno un passo avanti. Passo immenso! che mette fra essi e il mondo uno spazio insuperabile. Ed a mostrare che sono per sempre morti al mondo ed alle sue speranze, si prosternano al suolo, e colla faccia volta a terra danno un eterno addio a questa terra medesima che abbracciano, ai loro parenti, agli amici, protestando che sono oramai, come Melchisedech, quell’antica figura del Sacerdozio cristiano, senza padre, senza madre, senza genealogia. – Ma chi donerà loro la forza sovrumana di cui abbisognano per sostenere tutto il tempo della vita questo eroico sacrificio? Quel Dio medesimo che ha ispirato la loro volontà. Ed ecco la ragione per la quale il Vescovo e tutto il popolo, inteneriti e in certo modo spaventati dalla grandezza dell’obbligo che assumono, cadono ginocchioni ed implorano su queste nobili vittime la benedizione del Cielo. Rivolgonsi alle tre Persone dell’augustissima Trinità, alla Vergine potentissima. agli Angeli, ai Patriarchi, ai Profeti, agli Apostoli, ai Martiri, ai Confessori, a tutta la Corte celestiale. Poscia il Vescovo sorge, benedice e consacra tutte queste vittime, facendo tre volte su di loro il segno della Croce. – Tutto è ormai compiuto, le vittime sono immolate; esse si rialzano, giacché devono vivere e continuare per tutto il tempo avvenire il sacrificio testé consumato. Il Vescovo prega tutti i fedeli presenti ad orare per questi novelli ministri che interamente si consacrano al loro servizio. Indica poscia ai Suddiaconi le funzioni del loro Ordine, del quale conferisce loro gli attributi facendo toccare il calice e la patena [Pare che il toccare, ossia la tradizione del calice e della patena costituisca tutta la materia dell’Ordine del Suddiaconato nella Chiesa Latina. Eugenio IV lo insegna nel decreto agli Armeni: “Subdiaconatus confertur per ealicis vacui cum patena vacua superposita traditionem”. Nella Chiesa Greca la materia del Suddiaconato è l’imposizione delle mani che il Vescovo fa sulla testa degli ordinandi, mentre la forma è la preghiera che è da lui nello stesso tempo recitata: null’altro ritrovasi nei loro Eucologii, vuoi antichi, vuoi moderni, cui possa darsi il nome di materia o di forma. – Mettendo loro l’amitto sul capo, così si esprime: «Ricevete questo amitto, che simbolizza la mortificazione della Croce, in nome del Padre, del Figliuolo, dello Spirito Santo; cosi sia » . La vigilanza sulle proprie parole e sui propri sensi saranno quind’innanzi gli obblighi e le virtù del novello Suddiacono. – Il Pontefice loro mette poscia sul braccio sinistro il manipolo e dice: «Ricevete questo manipolo; esso vi richiama alla memoria il frutto delle buone opere. Nel nome del Padre, ecc. »: indi li riveste della funicella, proferendo le parole: « Vi doni il Signore la tunica della felicità e il vestimento della fede. Nel nome del Padre, ecc. ». Finalmente loro porge il messale, pronunziando queste parole: «Ricevete il libro delle Epistole, e insieme la podestà di leggerle nella Chiesa, tanto pei vivi, quanto pei defunti. Nel nome del Padre, ecc. ». Tale si è, in compendio, l’ordinazione dei Suddiaconi. Noi ora chiediamo se v’abbia cosa più acconcia di questa per penetrare il popolo di rispetto profondo verso la santa Eucaristia e verso i suoi Ministri, e nello stesso tempo più efficace per insegnare ad essi le virtù che son necessarie alla santa e sublime loro vocazione? Questi salutari avvertimenti continuano nell’ordinazione dei Diaconi. Ascoltiamoli con religiosa attenzione.

– La parola Diacono significa servitore. Gli Apostoli ordinarono i primi Diaconi nella circostanza delle mormorazioni che si suscitarono tra i fedeli di Gerusalemme per la distribuzione delle elemosine, e confidarono loro l’incarico di vegliare all’amministrazione ed al regolamento delle mense con cui le vedove ed i poveri erano provveduti di quanto abbisognava al loro corporale sostentamento; attesoché i poveri, fin dal nascere della Chiesa, furono l’oggetto delle sue più affettuose sollecitudini. Esonerati in tal modo gli Apostoli da quell’ufficio affidato ai Diaconi, poterono dedicarsi interamente alla predicazione del Vangelo ed alla preghiera. Per altro non fu questo né l’unico e neppure il fine principale dell’istituzione de’ Diaconi; essi ben presto si videro chiamati a più nobili e più sante funzioni. – Ai servigi che dovevano essi prestare alle mense che alimentavano il corpo, si aggiunse l’amministrazione della Tavola santa nella quale si distribuiva ai fedeli l’Eucaristia per nutrimento spirituale delle anime. Né guari stette che venne loro conferito eziandio l’ufficio di predicare la parola divina e di conferire il Sacramento del Battesimo. Noi leggiamo infatti che Santo Stefano e San Filippo si dedicarono con molto zelo a tale ministero, che divisero in un cogli Apostoli; senza che per altro i Diaconi cessassero per questo dall’incarico primiero di governare le mense, alle quali le vedove ed i poveri gratuitamente si assidevano lutti i giorni. I Diaconi nei primi tempi del Cristianesimo, incaricati di sacre funzioni, ministri della Chiesa e degli Apostoli, accompagnavano i Vescovi in tutte le circostanze, vegliavano alla loro custodia quando predicavano, li seguivano ai Concili, li assistevano nelle ordinazioni e nell’amministrazione degli altri Sacramenti. I Vescovi non offrivano punto il Sacrificio senza essere assistiti dai Diaconi; siccome il glorioso San Lorenzo rammentò al pontefice San Sisto, allorché questi veniva condotto al martirio: «Padre santo, ei gli disse, dove n’andate senza il vostro Diacono? Giammai non avete offerto il Sacrificio senza di lui ». Erano i Diaconi che leggevano alla Messa il Vangelo, siccome è loro ufficio anche ai giorni nostri; essi presentavano al Sacerdote il pane ed il vino che dovevano esser cangiati nel corpo e nel sangue del Salvatore. Né soltanto amministravano il Battesimo, dispensavano le elemosine e vegliavano al nutrimento delle vedove e dei poveri: era inoltre loro obbligo di visitare e sollevare i Confessori ed i Martiri che gemevano nelle prigioni, onde esortarli, consolarli, animarli a soffrire coraggiosamente per la fede. Ai tempi nostri le funzioni dei Diaconi son limitate al servigio dell’altare in cui offrono l’augusto Sacrificio i Vescovi ed i Sacerdoti, ed a cantare l’Evangelio nelle Messe solenni. – Rispetto all’ordinazione dei primi Diaconi, i fedeli di Gerusalemme scelsero fra loro sette uomini di buona riputazione, pieni di Spirito Santo e di sapienza, e li condussero davanti gli Apostoli, i quali, fatta orazione, imposero loro le mani [Atti, VI, 5-6]. Donde scorgesi che in allora, siccome al presente, le cerimonie della loro ordinazione consistevano nell’orazione e nell’imposizione delle mani. Allorché il Vescovo è seduto sul suo faldistorio nel mezzo dell’altare, l’Arcidiacono gli dice : « Mio reverendo Padre, la santa Chiesa cattolica, madre nostra, vi domanda di conferire a questi Suddiaconi l’ufficio del Diaconato.— Sapete voi, risponde il Prelato, ch’essi ne siano degni?—Lo so, risponde l’Arcidiacono, e ne faccio testimonianza, per quanto è dato di conoscerlo all’umana debolezza. — Sia ringraziato Iddio, risponde il Vescovo. Poscia rivolgendosi al clero ed al popolo, loro dice: Coll’aiuto di Dio e del Salvator nostro Gesù Cristo noi scegliamo questi Suddiaconi per innalzarli alla dignità di Diaconi. Se alcuno ha contr’essi qualche reclamo da esporre, si avanzi arditamente e parli; ma non dimentichi lo stato suo. E ciò detto, si ferma qualche istante onde lasciare ai fedeli il tempo di rispondere. – Codesto avviso rammemora l’antica usanza della Chiesa, giusta la quale il clero ed il popolo erano consultati intorno alle ordinazioni dei sacri Ministri; in oggi le necessità dei tempi indussero la Chiesa a cangiar di sistema su questo punto di disciplina, ed a riserbare ai soli superiori l’incarico di esaminare gli aspiranti sulle loro doti e sulla loro vocazione. Ciò nondimeno per conservare, quant’è possibile, il rito antico, e per assicurarsi che l’eletto è veramente irreprensibile, la Chiesa ha stabilito delle pubblicazioni che si fanno prima di cominciare i discorsi parrocchiali, nonché la cerimonia che precede, siccome abbiamo detto poc’anzi, l’ordinazione dai Diaconi e dei Sacerdoti. – Se i fedeli non inoltrano alcuna lagnanza, il Vescovo si rivolge agli ordinandi, e loro ricorda la dignità dell’Ordini che sono per ricevere, le incombenze che vi sono annesse e le virtù che tali uffici esigono. Il Vescovo comincia poscia la lettura di un prefazio, che è come l’introduzione alla grand’opera che sta per compiere, ed arrestandosi ad un tratto a mezzo del medesimo, impone la mano destra sul capo di ogni ordinando, e gli dice: «Ricevi lo Spirito Santo onde aver forza di resistere al demonio ed alle sue tentazioni ». Non impone ad essi ambedue le mani, a fine di mostrare che i Diaconi non ricevono lo Spirito Santo con quella pienezza con cui lo ricevono i Sacerdoti. Compiuta questa cerimonia e terminato il prefazio, il Vescovo porge a ciascuno dei Diaconi la stola, simbolo della podestà che vien loro conferita: « Ricevi, egli dice, dalla mano di Dio, questa bianca stola, ed adempì il tuo ministero: Iddio è onnipossente, Egli aumenterà in te la sua grazia ». La stola del Diacono non è indossata alla guisa istessa con cui se ne rivestono i Sacerdoti, e ciò per mostrare che non hanno l’istessa dignità. Il Vescovo li veste in seguito della dalmatica: pronunziando le parole : « Ti doni Iddio il vestito della salute, e l’indumento della gioia, e per la sua potenza ti ricopra mai sempre colla dalmatica della giustizia. Così sia ». Finalmente il Vescovo presentando al Diacono il libro degl’Evangeli, gli dice: « Ricevi il potere di leggere gli Evangeli nella Chiesa pei vivi e pei defunti, in nome del Padre, ecc. ». L’ordinazione finisce colla preghiera del Vescovo e del popolo, che uniscono le loro voci ed i cuori onde invocare sui nuovi eletti protezione del Signore.

– All’ordinazione dei Diaconi tiene dietro quella dei Sacerdoti. – Offrire il santo Sacrifizio; benedire il popolo nella Messa, nelle assemblee e nell’amministrazione dei Sacramenti, onde attirare sopra di lui le grazie del Cielo; presiedere alle adunanze che si tengono nella Chiesa per rendere a Dio il culto che gli è dovuto; predicare la divina parola di cui sono i banditori; battezzare ed amministrare gli altri Sacramenti, e quelli in ispecial modo che sono stati stabiliti per la remissione dei peccati: ecco quali furono, sino dai primordi della Chiesa, e quali sono ancora ai giorni nostri le funzioni dei Sacerdoti. Soltanto, nei primi secoli, la predicazione fu riserbata ai Vedovi, e ciò fino al tempo di San Giovanni Crisostomo e di Sant’Agostino, i quali idempirono cotale ministero per comando dei loro Vescovi, sebbene non fossero allora che semplici Sacerdoti. Laonde gli offici dei Preti sono di due sorta: gli uni riguardano il corpo naturale del Signor Nostro Gesù Cristo; gli altri riguardano il suo corpo mistico ch’è la Chiesa. Non esistono funzioni più auguste, né poteri più formidabili. – Prima di confidarli ad essi, il Vescovo, assiso nel mezzo dell’altare sul suo faldistorio, vuole assicurarsi se ne sono degni. Mio reverendo Padre, gli dice l’Arcidiacono, la santa Chiesa cattolica, madre nostra, domanda che voi consacriate Sacerdoti questi Diaconi che io vi presento. — « Sapete voi, ripiglia il Vescovo, ch’essi ne siano meritevoli? » Ed avuta risposta favorevole dall’Arcidiacono, il Prelato così prosegue: « Sia lodato il Signore. » Rivolgendosi poscia al popolo, e ricordandogli che il suo spirituale vantaggio esige che egli abbia de’ santi Sacerdoti, lo interroga, onde conformarsi all’antica disciplina della Chiesa, come la pensi de’ novelli Diaconi [L’elezione di San Basilio è un esempio illustre che ci dimostra fin dove spingevasi nei primi secoli della Chiesa la deferenza che i Vescovi avevano per la scelta e pei suffragi del popolo nelle ordinazioni, e come ancora vi si opponessero, allorquando si accorgevano che tali opposizioni erano suggerite dalla passione o dall’intrigo, anziché dall’osservanza delle regole, e dallo zelo per la gloria di Dio e pel vantaggio de’ fedeli]. Se nessuno si alza per reclamare, il Pontefice s’indirizza ai Diaconi, e li ammonisce sulla natura, sull’origine e sulle funzioni sublimi del Sacerdozio. I Preti, ei dice loro, sono i successori dei settantadue vegliardi, che Mose per comando di Dio, aveva scelti onde l’aiutassero nel suo ministero, amministrassero la giustizia, e vegliassero sull’osservanza dei dieci Comandamenti. – Questi vegliardi non erano che la figura de’settantadue discepoli che Gesù Cristo mandò a due a due per predicare ed istruire colla parola e coll’esempio. « Siate degni, o miei cari figli, soggiunge il Pontefice, di essere gli aiutanti di Mosè e dei dodici Apostoli, vale a dire, dei Vescovi cattolici, figurati da Mosè e dagli Apostoli, e stabiliti per governare la Chiesa di Dio ». – Dopo questa esortazione comincia maestosa cerimonia della prostrazione. Innanzi di essere ammesso al Battesimo l’uomo dové per tre volte rinunciare a satana; e così pure prima di venir ammesso al Sacerdozio, il Cristiano deve per tre volte rinunziare alla terra, alla carne ed al sangue. Egli è soltanto dopo di aver fatto questa triplice rinunzia che gli si apre l’adito per giungere fino al santo altare. Seguita poscia l’imposizione delle mani. Il Vescovo in silenzio impone le mani sul capo di ogni Diacono, e tutti i Sacerdoti assistenti all’augusta cerimonia rivestiti della sacra stola, imitano il suo esempio. Il Vescovo risale quindi all’altare, e rivolgendosi verso gli ordinandi stende sovr’essi le mani, imitato in ciò da tutti i Sacerdoti, e recita nello stesso tempo una preghiera colla quale scongiura il Signore a donar loro il suo Santo Spirito e la grazia del Sacerdozio. – La podestà di conferire gli Ordini sacri non spetta che al Vescovo, ed egli solo come consacrante può imporre le mani. Se i Sacerdoti presenti all’ordinazione impongono con lui, ciò è solo per conformarsi all’uso della Chiesa primitiva; uso venerabile che ricorda come l’Episcopato ed il Clero formino un solo Sacerdozio. Il Vescovo mette quindi sul petto degli ordinandi in forma di croce la stola, che a grado di Diaconi portavano sulla spalla sinistra, e loro dice: «Ricevete il gioco del Signore : Il suo giogo è dolce, e soave è il suo peso ». Li riveste poscia della pianeta, loro rivolgendo queste parole: « Ricevete l’abito sacerdotale, simbolo della carità » . E il sacerdote sarà per ciò un uomo di carità, anzi la carità personificata. La pianeta che il Vescovo porge ai Sacerdoti, non è distesa dal lato posteriore, ma rimane avvolta sulle spalle. Essi non hanno ancora ricevuto tutta la grazia del Sacerdozio; allora soltanto deve essa distendersi compiutamente, quando il Vescovo avrà ad essi conferito il potere di rimettere i peccati. – Dopo la recita di un bel prefazio, che annunzia un’opera sublime, il Vescovo intona il Veni creator, onde chiamare sugli ordinandi lo Spirito santificatore con tutti i suoi doni. Mentre il coro prosegue nel canto dell’inno, il Pontefice consacra le mani dei nuovi Sacerdoti mediante copiosa unzione coll’olio de’ catecumeni. Egli dice intanto: « Degnatevi, o Signore, di consacrare e di santificare queste mani colla santa unzione e colla vostra benedizione ». Fa poscia il segno della croce, e continua: « Possa, nel nome di Gesù Cristo Signor Nostro, esser benedetto tutto ciò ch’essi benediranno, e consacrato e santificato tutto ciò che consacreranno e santificheranno». Ognuno degli ordinandi risponde : « Così sia ». – Si legano dopo di ciò le mani dei nuovi Sacerdoti con un nastro, e le dita consacrate sono disgiunte dalle altre col mezzo di una fettuccia di pane che servirà a purificarle; il Vescovo fa loro poscia toccare il calice, in cui v’ha e vino ed acqua, e fa toccare egualmente la patena sulla quale è un’ostia, loro dicendo nello stesso tempo: « Ricevete il potere di offrire a Dio il Sacrificio e di celebrare la Messa, tanto pei vivi quanto pei defunti». Ed eccoli Sacerdoti per sempre secondo l’ordine di Melchisedech! La prima funzione del Sacerdote è di offrire il Sacrificio, e tosto essi l’offrono in compagnia del Vescovo. La Messa celebrata in tal modo ricorda il rito praticato nei primi secoli: allorché in tutte le chiese non si faceva che un officio solo, il Vescovo stava all’altare, e tutti i Sacerdoti offrivano insieme con lui. Compiuta la Comunione, il Vescovo recita il bellissimo responsorio, composto colle parole che il Salvatore nell’effusione del suo cuore rivolse agli Apostoli, dopo di averli fatti partecipi del suo corpo e del suo sangue: « Io non vi chiamerò più miei servitori, o amici dilettissimi, poiché sapete tutto ciò che ho fatto in mezzo a voi. Voi siete i miei amici; fate quello che vi ho comandato». – Il Vescovo, dopo aver pronunziate queste parole, si assicura della fede dei novelli Sacerdoti facendo loro recitare il Simbolo degli Apostoli. Essi sono inviati per predicare; essi devono annunziare la fede in tutta la sua purezza. I nuovi eletti vengono poscia a prostrarsi a piedi del Prelato, ed egli impone loro le mani, dicendo: « Ricevete lo Spirito Santo: saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saranno ritenuti a chi li riterrete »; ed a fine di mostrare ai medesimi la pienezza della loro podestà scioglie la pianeta tuttora avvolta sulle spalle, dicendo: « Iddio vi rivesta del manto della innocenza »; vale a dire, siate puri e santi onde render santi anche gli altri. – Esige poscia da ciascuno d’essi rispetto ed obbedienza, perciocché la Chiesa è bella e terribile come esercito schierato a battaglia. Cotal dote di beltà e di forza non può sussistere senza l’ordine, né l’ordine senza subordinazione. Questa per altro è dolce e mite nella Chiesa, ed è rivolta a fare di tutti i cuori de’ suoi Ministri un cuor solo ed un’anima sola, poiché si fonda interamente sulla carità. Ed ecco perché il Vescovo, finite tutte queste nobili e splendide cerimonie, dona il bacio di pace a tutti i novelli Sacerdoti. Ripetiamolo ancora una volta: si tenga dietro al complesso di tutte queste magnifiche cerimonie, e poi si dica se il culto cattolico non soddisfaccia ad un tempo la ragione, il cuore ed i sensi! Che potremmo ora dire dell’importanza del Sacramento dell’Ordine? – Una sola parola basta per provare la sua necessità sociale: non esiste società senza Religione, non Religione senza Sacerdoti, non Sacerdoti senza il Sacramento dell’Ordine; dunque senza il Sacramento dell’Ordine non può esistere società. E con questo intendo di dire vera società, vale a dire, consorzio d’uomini fra loro legati per conservare e perfezionare il loro essere fisico, intellettuale, morale. – Le società antiche, tranne la giudaica, erano piuttosto aggregazioni d’individui vincolati dalla forza, e non aventi altro scopo che l’esistenza e lo svolgimento degli interessi materiali. Le società protestanti, se, pur son degne di tal nome, non vanno debitrici del loro perfezionamento, per quanto il posseggono, che a quelle tradizioni cattoliche cui hanno conservate; giacché i popoli non possono vivere che per le verità cristiane; e vero cristianesimo non esiste fuori della Chiesa, né è che dal Sacerdozio cattolico debbono i nostri fratelli separati riconoscere la loro vita sociale, ossia tutto quello che loro rimane di credenze e di costumi.

Preghiera

O mio Dio, che siete tutto amore, ringrazio che abbiate stabilito diversi Ordini di Ministri nella vostra Chiesa. Ciò è per vostra gloria e per mia salute: concedetemi la grazia di poter essere figlio docile e rispettoso di questa Chiesa così santa, così bella, così tenera pei suoi figli. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose e il prossimo come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore avrò il più profondo rispetto per le persone consacrate a Dio.

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(Nota redazionale: Questo è il vero sacerdozio cattolico istituito dalla Chiesa di Cristo da secoli e millenni. Tutto ciò che si discosta dal conferimento di questo Ordine Sacro, definito infallibilmente ed irreformabilmente dal Santo Concilio di Trento, non si può definire cattolico, ma è blasfemo e sacrilego. Questo vale per la setta del Novus Ordo, che ha usurpato l’etichetta di “cattolica”, che non le appartiene più da tempo e serve per ingannare gli sprovveduti, nonché per le sette senza giurisdizione e missione canonica, lupi e briganti, melma che cola dal sepolcro imbiancato del massone Lienart [si, il grande eletto, il cavaliere Kadosh, l’iniziato perfetto, il cavaliere dell’aquila bianca e nera, quello di Nekam Adonai !!] e dello psicopatico famelico Thuc! Che Dio conservi la Chiesa Cattolica e le dia nuovamente splendore e visibilità … non praevalebunt …!)