DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (7)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (7)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed.Brescia, 1957.

CAPITOLO TERZO

L’INABITAZIONE DELLA TRINITÀ

(I)

« La mia occupazione continua è rientrare “nell’intimo”e perdermi in Coloro che sono qui ».

1) La santa della divina inabitazione — 2 La sua dottrina dell’inabitazione divina — 3) Il luogo di questa presenza: il centro più profondo dell’anima — 4) Suoi atti essenziali: l’attività della fede; l’esercizio dell’amore. – 5) Nella fede pura — 6) Primato dell’amore. — 7) La Pratica: fare atti di raccoglimento – 8) Piccolo catechismo della Presenza di Dio — 9) Progresso nella presenza di Dio —10) I due principali effetti di questa presenza: l’oblìo di sé e l’unione trasformante — 11) Ah! se potessi dire a tutte le anime!

Il silenzio non è che una condizione della vita vera. Col mistero del l’inabitazione della Trinità, ci troviamo al punto centrico della dottrina e della vita di suor Elisabetta, che è veramente la santa dell’inabitazione divina. Ed anche in questo, ella fu carmelitana. Se c’è una Verità cara alla dottrina mistica del Carmelo, è proprio questo mistero e questa certezza; che Dio è presente in noi e che, per trovarlo, bisogna rientrare « nell’intimo », in questo nostro regno interiore, Tutta la vita spirituale sì riassume qui. – Nel suo « Cammino di perfezione », commentando il Pater, santa Teresa nota, con profonda osservazione, che Dio non è soltanto in cielo, « ma nell’intimo dell’anima nostra» e lì bisogna sapersi raccogliere per cercarlo e scoprirvelo. Nel « Castello interiore », questa presenza della Trinità santa segna il punto culminante della sua mistica; le anime giunte all’unione trasformante vivono abitualmente in unione alle Persone divine, e trovano, in questa « Società Trinitaria », le gioie più beatificanti della terra. Anche san Giovanni della Croce ne fa il punto di convergenza di tutta la sua teologia mistica, specialmente degli stati spirituali più elevati. Egli diceva spesso per devozione la Messa votiva della santissima Trinità; e, durante la celebrazione del santo Sacrificio, l’anima sua, irresistibilmente rapita da questo mistero, con difficoltà si sottraeva all’estasi. La tradizione del Carmelo è rimasta fedele all’insegnamento di questi due grandi Maestri spirituali; e non è raro incontrare nei chiostri teresiani delle anime la cui vita di silenzio è tutta orientata verso il mistero trinitario. La stessa santa Teresa di Gesù Bambino non si offrì vittima all’Amore proprio il giorno della festa della Trinità? E la sua offerta all’Amore misericordioso fa parte di una preghiera essenzialmente trinitaria: « O mio Dio, Trinità beata, al fine di vivere in un atto di amore perfetto, mi offro al tuo Amore misericordioso come vittima di olocausto » (Storia di un’anima.). – Bisogna però riconoscere che suor Elisabetta della Trinità ricevette una grazia tutta speciale per vivere di questo mistero. Dio, che la predestinava alla missione di ricondurre le anime nel profondo di se stesse per prendervi coscienza delle divine ricchezze del loro Battesimo, fece di lei, veramente, la santa dell’inabitazione della Trinità.

1) Nella prima pagina del suo taccuino di fanciulla, aveva trascritto in carattere diverso questo pensiero di santa Teresa: « Bisogna che tu mi cerchi in te » (Santa Teresa a Monsignor Alvaro di Mendoz). Verso l’età di 19 anni, ella si sentiva « inabitata ». E spesso ripeteva ad un’amica: « Mi sembra che Egli sia qui », e faceva il gesto di stringerlo fra le braccia, di premerlo sul suo cuore. « Quando vedrò il mio Confessore domanderò che cos’è mai quello che accade in me ». Da allora, rassicurata sulla verità di questo mistero di fede, si seppellì senza timore nelle profondità di se stessa, per cercarvi i suoi « Tre ». – Le testimonianze di questo periodo non ci lasciano alcun dubbio che Elisabetta, prima ancora della sua entrata in chiostro, non fosse già « presa » dal mistero della divina inabitazione, e in un grado non comune. Era il tema delle sue confidenze intime: «La Trinità era il suo Tutto » (Testimonianza di un’amica). All’inizio di questa rivelazione subitanea che illuminò tutta la sua vita, ella non poteva tacerne. Qualche mese più tardi, non ne parlava quasi più; ma piuttosto si sentiva che era « presa » dalla Trinità. Questa espressione di un testimonio dice molto bene la passività dell’anima sua sotto l’azione dello Spirito Santo, dopo le prime grazie mistiche del ritiro del 1899. « Perdiamoci in questa Trinità santa, in questo Dio tutto amore. Lasciamoci trasportare in quelle regioni superne in cui non c’è più che Lui, Lui solo! » (Lettera a M. G… . 1901). « Dio in me, io in Lui, sia il nostro motto. Come è bella questa presenza di Dio in noi, nell’intimo santuario delle anime nostre! Qui noi Lo troviamo sempre, anche quando il sentimento non avverte più la sua presenza. Ma Egli è qui lo stesso; è qui, mi piace tanto cercarlo. Oh, non lasciamolo mai solo! Sia, la nostra vita un’orazione continua. Chi mai potrebbe rapircelo? Chi potrebbe anche solo distrarci da Colui che ci ha prese interamente, che ci fa tutte sue? » (Lettera a M. G. 1901). – Suor Elisabetta, dunque, ha già trovato la formula della sua vita; e otto giorni dopo la sua entrata in Convento, non farà che trascriverla, nel formulario che le si chiederà di riempire. — Qual è il vostro motto? — Dio in me; io in Lui. Al Carmelo, questa vita alla presenza di Dio è considerata come un’eredità sacra che si fa risalire al Patriarca Elia: « Io sto sempre alla presenza di Jahveh, il Dio vivo » (III Re, XVII, 1). È l’essenza stessa del Carmelo. Tutti gli spogliamenti, tutti i silenzi, tutte le purificazioni non hanno che uno scopo: serbare l’anima libera di applicare tutte le sue potenze a questa continua presenza di Dio. Suor Elisabetta, dunque, trovò su questo punto tutta una dottrina spirituale divenuta familiarissima nell’ambiente in cui doveva vivere. E fu, per la sua vita interiore, l’inizio di una fioritura stupenda. Fin allora, Elisabetta era stata una fanciulla tutta pura, molto pia, alla quale il Signore, in premio della sua fedeltà eroica, aveva elargito qualche tocco mistico; ma le mancava ancora una dottrina ed una formazione spirituale. L’incontro col Padre Vallée aveva stabilito con tutta certezza l’anima sua nella luce intravista; la lettura assidua di san Giovanni della Croce le dette una dottrina; l’ambiente religioso fece il resto. – Ella stessa, studiando il suo nuovo maestro spirituale, ne segnava con cura i punti che trattano della natura e degli effetti di questa misteriosa ma reale e sostanziale presenza della Trinità santa nell’anima. E, per una grazia tutta singolare, seppe trovare, in questa presenza delle tre divine Persone nel profondo dell’anima sua, « il suo cielo in terra », il segreto della sua santità eroica. – E, anzitutto, il suo nome trinitario la rapiva. « Non vi ho detto ancora il mio nome al Carmelo? Maria Elisabetta della Trinità. Sento che questo nome racchiude una vocazione particolare. Non è vero che è molto bello? Io amo tanto questo mistero della santissima Trinità; è un abisso nel quale mi perdo » (Lettera al Canonico A… – 14 giugno 1901.). – « Io sono Elisabetta della Trinità, cioè Elisabetta che scompare, che si perde, che si lascia invadere dai Tre” » (Lettera:-a-G. de G. 20 agosto 1903). Fu la parola d’ordine della sua vita di Carmelitana. « La mia occupazione continua è rientrare nell’intimo e perdermi in Coloro che vi abitano… Lo sento così vivo nell’anima mia, che basta io mi raccolga per trovarlo qui, dentro di me. Ed è tutta la mia felicità » (Lettera al Canonico A… – 15 luglio 1903). « Viviamo con Dio come con un amico. Rendiamo tutta viva la nostra fede, per unirci a Lui attraverso tutte le cose. È ciò che fa i santi. Noi portiamo il nostro cielo in noi; poiché Colui che sazia i beati nella luce dell’eterna visione, a noi si dona nella fede e nel mistero. Ma è sempre Lui. Io ho trovato sulla terra il mio cielo; perché il cielo è Dio, e Dio è nell’anima mia. Il giorno in cui l’ho compreso, tutto per me si è illuminato; vorrei svelare questo segreto a tutti quelli che amo, perché anch’essi aderiscano sempre a Dio, e si realizzi, così, la preghiera di Cristo: « Padre, che essi siano consumati nella unità » (Lettera alla signora De S… – 1902). Per quel fenomeno di accentramento familiare a tutte le anime dominate da una grande idea, suor Elisabetta riconduce tutto al pensiero che regna in lei, sovrano. Le feste liturgiche apparentemente meno collegate al mistero trinitario di cui essa vive nel profondo dell’anima, vi si riallacciano per una trasposizione che le viene naturalissima. Il Natale ce ne dà un esempio caratteristico. « Il Natale al Carmelo!… È veramente singolare. La sera, mi sono messa in coro, e là ho trascorso la mia veglia, insieme alla Vergine santa, nell’attesa del piccolo Dio che questa volta sarebbe nato, non più nel presepio, ma nell’anima mia, nelle nostre anime, perché Egli è Emmanuele, il « Dio con noi» (Lettera alla zia R… – 30 dicembre 1903.). La sua ispirazione poetica trova in questa abitazione divina nel profondo dell’anima il suo motivo fondamentale: O Beata Trinitas La grazia di Dio ti inondi e ti invada spandendosi in te come un fiume di pace; nell’ampie sue onde tranquille ti immerga! Che nulla d’estraneo ti sfiori mai più. Nell’intima pace di questo mistero sarai visitata da Lui, dal tuo Dio; e là ti festeggio in silenzio o mia Madre, la Trinità Santa adorando con te. Laudem Gloriæ – Giugno 1906 (A una Madre del Carmelo di Digione.). – Nella ricorrenza del 29 luglo, festa delle suore converse, scrive: « Il giorno di santa Marta, abbiamo festeggiato le nostre buone sorelle dal velo bianco. In onore della loro santa Patrona, vengono dispensate per quel giorno dal loro ufficio, per potersi dedicare con Maddalena ai dolci riposi della contemplazione. E tocca alle novizie sostituirle nei lavori della cucina. Io mi trovo ancora in noviziato, perché vi restiamo per tre anni dopo la professione; ho passato quindi una bella giornata presso il fornello. Avendo — come si dice — il mestolo in mano, io non sono andata in estasi come la mia Madre santa Teresa, ma ho creduto alla divina presenza del Maestro che era in mezzo a noi, e l’anima mia adorava nel centro di se stessa Colui che Maddalena aveva saputo riconoscere sotto il velo della umanità » (Lettera alla zia R… – Estate 1905). Le sue lettere sono piene di consigli sulla presenza di Dio: « L’anima vostra sia il suo santuario, il suo riposo su questa terra, in cui Egli è tanto offeso » (Lettera alla signora De B… – 17 agosto 1905). « Che Egli faccia dell’anima vostra un piccolo paradiso ove possa riposarsi deliziosamente; toglietene tutto quello che potrebbe ferire il suo sguardo divino. Vivete lì, insieme a Lui. Ovunque voi siate, qualsiasi cosa facciate, Egli non vi lascia mai; dunque rimanete voi pure con Lui, sempre. Entrate nell’intimo dell’anima vostra: sempre ve Lo troverete, impaziente di farvi del bene. Io rivolgo a Dio, per voi, la preghiera che san Paolo faceva per i suoi quando chiedeva « che Gesù abitasse, con la fede, nei loro cuori, affinché fossero radicati nell’amore » (Efesini, III-17). Queste parole sono così profonde, così misteriose! Oh, sì! quel Dio che è tutto Amore sia la vostra perpetua dimora, la vostra cella e il vostro chiostro in mezzo al mondo. Ricordatevi sempre che Egli è lì, nel centro più intimo dell’anima vostra, come in un santuario dove vuole essere amato fino alla adorazione » (Lettera alla signora De B… – Estate 1905). Sebbene adattato alle varie persone e circostanze, è però lo stesso pensiero fondamentale che ritorna sempre: la vera vita è nel profondo dell’anima, con Dio. Qui, essa ritrova coloro che ama, e qui sta il segreto della gioia che ha fatto della sua vita un paradiso anticipato. Suor Elisabetta della Trinità fu veramente l’anima di un’idea. Quando, ogni domenica, nell’Ufficio di « Prima », la Chiesa poneva sulle sue labbra il « Quicumque », essa, come già la Madre sua santa Teresa, si sentiva rapita verso questo mistero dei misteri dove l’anima sua viveva sempre. E ogni domenica era da lei consacrata all’onore della santissima Trinità. All’avvicinarsi poi della festa della Trinità santa, si sentiva pervasa da una grazia irresistibile; e, per molti giorni, la terra non esisteva più per lei. « Questa festa dei « Tre » è proprio la mia festa; per me, non ve n’è un’altra che le somigli; né io avevo mai capito così bene il mistero e tutta la vocazione che racchiude il mio nome. E in questo grande mistero ti do convegno, perché esso sia il nostro centro, la nostra dimora. Ti lascio con questo pensiero del Padre Vallée che formerà il soggetto della tua orazione: — Che lo Spirito Santo ti porti al Verbo, il Verbo ti conduca al Padre, e possa tu essere consumata nell’Unità, come il Cristo e i nostri santi » (Lettera alla sorella – Giugno 1902). In tal modo, gli anni e le grazie della sua vita religiosa la seppellivano ogni giorno più nel profondo di se stessa con Colui che. ad ogni istante, col suo contatto, le comunicava la vita eterna. I minimi avvenimenti tradivano la presa di possesso, piena, di quest’anima da parte della Trinità. Le viene comunicata la nascita di una nipotina, e subito esulta in uno slancio verso la Trinità: « Abbiamo fatto una vera ovazione alla piccola Bettina. Questa mattina, in ricreazione, la nostra reverenda Madre così buona, era tutta lieta di mostrarci la sua fotografia, e tu puoi pensare come batteva il cuore della zia Elisabetta. Margherita mia. come l’amo, questo piccolo angelo! L’amo, io credo, quanto la sua mammina. E non è dir poco. E poi, sai: mi sento tutta penetrata di rispetto dinanzi a questo piccolo tempio della Trinità santa. La sua anima mi appare come un cristallo che irradia la Divinità; se le fossi vicina, mi metterei in ginocchio per adorare Colui che dimora in lei. Vuoi abbracciarla per la sua zia Carmelitana e poi prendere la mia anima con la tua, per raccoglierti presso la tua creaturina? Se fossi ancora tra voi, come vorrei cullarla, vezzeggiarla! Ma il Signore mi ha chiamata sul monte santo perché io sia il suo angelo e la circondi di preghiera. Di tutto il resto, ne faccio serenamente il sacrificio, per Lei »; (Lettera alla sorella – Marzo 1904.). Nelle sue conversazioni in parlatorio, nelle sue lettere, con la mamma, con la sorella, con le amiche, con tutti quelli che la avvicinano, ella si fa apostola di questa presenza divina nell’anima, con discreta ma instancabile perseveranza. « Pensa che tu sei in Lui, che Egli si fa tua dimora quaggiù. E poi, che Egli è in te, che Lo possiedi nell’intimo del tuo essere, che in ogni ora del giorno e della notte, in ogni gioia, in ogni prova, tu puoi trovarlo lì, così vicino, così intimo! È il segreto della gioia; il segreto dei santi. Essi sapevano tanto bene di essere il tempio di Dio e che, unendosi a questo Dio, si diviene «uno stesso spirito con Lui », come dice san Paolo. Quindi si muovevano sempre sotto la Sua irradiazione (Lettera. a M. L. M… – 24 agosto 1903). – Bisognerebbe moltiplicare le citazioni. A chi studia da vicino l’evolversi di quest’anima, appare chiaro come il mistero della Trinità divenga sempre più intensamente la verità dominatrice della sua vita, mentre tutto il resto dilegua e scompare. – Il 21 novembre, festa della Presentazione di Maria santissima al Tempio, tutte le Carmelitane rinnovavano i voti della loro santa professione. Mentre suor Elisabetta pronunciava di nuovo, con le compagne, la formula dei suoi santi voti, si sentì trasportata da un movimento irresistibile della grazia verso la Trinità santa. Rientrata in cella, prese la penna e, sopra un semplice foglio di quaderno, senza esitazione, senza la minima correzione, tutta di getto, scrisse la sua celebre « Preghiera », come un grido che erompe dal cuore.

« O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi interamente, per fissarmi in Te, immobile e quieta come se la mia anima già fosse nell’eternità. Nulla possa turbare la mia pace, né farmi uscire da Te, o mio Immutabile, ma che ad ogni istante, io mi immerga sempre più nelle profondità del tuo mistero. Pacifica l’anima mia; rendila tuo cielo, tua prediletta dimora e luogo del tuo riposo. Che, qui, io non ti lasci mai solo; ma tutta io vi sia, vigile e attiva nella mia fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata alla tua azione creatrice. O amato mio Cristo, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il tuo cuore, vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti… fino a morirne! … Ma sento tutta la mia impotenza; Ti prego di rivestirmi di Te, di identificare tutti i movimenti della mia anima a quelli dell’anima tua, di sommergermi, di invadermi, di sostituirti a me, affinché la mia vita non sia che un riflesso della Tua vita. Vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore. O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passar la mia vita ad ascoltarti, voglio rendermi docilissima ad ogni tuo insegnamento, per imparare tutto da Te; e poi, nelle notti dello spirito, nel vuoto, nell’impotenza, voglio fissarti sempre e starmene sotto il tuo grande splendore. – O mio Astro adorato, affascinami, perché io non possa più sottrarmi alla tua irradiazione. O Fuoco consumante, Spirito d’amore, discendi in me, perché si faccia nell’anima mia quasi una incarnazione del Verbo! Che io Gli sia un prolungamento di umanità, in cui Egli possa rinnovare tutto il Suo mistero. E Tu, o Padre, chinati verso la tua povera piccola, coprila della tua ombra, non vedere in essa che il Diletto nel quale hai posto tutte le tue compiacenze. O miei « Tre », mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità nella quale mi perdo, io mi abbandono a Voi come una preda. Seppellitevi in me, perché io mi seppellisca in Voi, in attesa di venire a contemplare nella Vostra Luce l’abisso delle Vostre grandezze ».

21 novembre 1904.

C’è voluta tutta una vita di santità per comporre una tale preghiera, una delle più belle del Cristianesimo, e un carisma speciale per farla sgorgare dal cuore. Quante anime religiose ne vivono, da mesi ed anni, senza provarne mai stanchezza! Mentre, nel silenzio, mormorano questa preghiera, suor Elisabetta, fedele alla sua missione, induce queste anime nel raccoglimento, le aiuta ad uscire da se stesse con un movimento semplicissimo e pieno di amore e, così pacificate, le porta e le abbandona alla Trinità.

Dopo il 1904, data in cui compose la sua « Elevazione alla santa Trinità » Dio la visitò col dolore; e ancora e sempre in questa presenza divina, ella attinse la forza del suo eroismo sorridente. E, nell’ora suprema, si rivolge alle sue amiche, ai suoi cari, con una tenerezza ancora più intensa, per lasciare loro in testamento la sua cara devozione ai « Tre ». – «…Vi lascio la mia fede nella presenza di Dio, del Dio tutto Amore che abita nelle anime nostre. Mi è caro confidarvi che questa intimità con Lui «dentro di me» è stato il bel sole che ha illuminato la mia vita, facendo di essa quasi un paradiso anticipato. Ed è la forza che mi sostiene oggi, nel dolore. Io non ho paura della mia debolezza, perché il Forte è in me, e la sua virtù è onnipotente. E opera, dice l’Apostolo, più di quanto possiamo sperare » (Lettera alla signora De B… – 1906.). Uguale testamento, e più commovente ancora, alla sorella: « Sorellina mia, sono felice di andare lassù, per essere il tuo angelo. Come sarò gelosa della bellezza dell’anima tua, che ho già tanto amata, qui, sulla terra! Ti lascio la mia devozione ai « Tre ». Vivi con Essi nell’intimo, nel cielo dell’anima tua. Il Padre ti coprirà della sua ombra, ponendo come una nube fra te e le cose della terra, per custodirti tutta sua; e ti comunicherà la sua potenza perché tu l’ami di un amore forte come la morte. Il Verbo imprimerà nell’anima tua, come in un cristallo, l’immagine della sua stessa bellezza, affinché tu sia pura della sua purezza, luminosa della sua luce. Lo Spirito Santo ti trasformerà in un’arpa mistica dalla quale, al tocco divino, si sprigionerà un magnifico cantico dell’Amore. Allora, sarai tu la « lode di gloria » che io sognavo di essere sulla terra. Tu mi sostituirai. Io sarò « Laudem gloriæ » dinanzi al trono dell’Agnello, e tu « Laudem gloriæ » nel centro dell’anima tua » (Lettera alla sorella – 1906). – La dimora di Dio nel centro più profondo della sua anima fu, per suor Elisabetta, il segreto della sua rapida santità. Si può ben credere alla testimonianza che ce ne ha lasciata lei stessa, solo pochi giorni prima della sua morte: « Lassù, in seno all’Amore, penserò attivamente a voi: per voi chiederò — e sarà il segno della mia entrata in cielo — una grazia di unione intima col Maestro divino. È il segreto che ha trasformato la mia vita, ve lo confido, in un paradiso anticipato: credere, cioè, che un essere che si chiama l’Amore, abita in noi ad ogni istante del giorno e della notte e che Egli ci chiede di vivere «in società » con Lui» (Lettera alla signora G. De B… – 1906).

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (8)

LA GRAZIA E LA GLORIA (1)

LA GRAZIA E LA GLORIA (1)

O

La filiazione adottiva dei figli di Dio studiata nella sua realtà, nei suoi principi, il suo perfezionamento e il suo finale coronamento.

Del R. P. J-B. TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. , Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

Opera depositata conformemente alle leggi, nel maggio, 1901

Nuove edizione riveduta e corretta

TOMO PRIMO

PARIS – P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 10

INTRODUZIONE

Non c’è discendente di una stirpe nobile che non legga con compiacimento i titoli e le gesta dei suoi antenati. Se ha un cuore grande, il legittimo orgoglio che concepirà delle sue origini, lo stimolerà più energicamente di qualsiasi altro motivo a vivere una vita che corrisponda al lustro della sua nascita. Come erede degradato di un grande nome, non dimenticherà ciò che furono i suoi padri, e si lusingherà di trovare nel loro merito un brillante velo per coprire la propria nullità. Perché, per uno strano contrasto, noi Cristiani che siamo, in virtù del nostro Battesimo, della razza di Dio, i suoi figli adottivi, i fratelli di Gesù Cristo il Verbo Incarnato suo unico Figlio, ignoriamo, o almeno conosciamo così poco la grandezza e la gloria contenute in questi titoli? Dove sono quelli che li meditano, quelli che sanno apprezzarsi e glorificarsi, come dovrebbero? Si scires donum Dei. Se tu conoscessi il dono di Dio, disse Nostro Signore a quella donna di Samaria (Gv. IV, 10)! Ahimè, non ci sono forse molti, non nelle tenebre in cui questa donna era nata, ma nella piena luce del Vangelo, che meritano sia questo rimprovero che questa lamentela? Chiedete non a quegli uomini che non hanno nulla di cristiano se non il carattere del loro Battesimo e il loro nome, ma a quelli che si vantano di mantenere la loro fede, e persino di praticarla, come intendano la loro filiazione divina e questo stato di grazia, il più stimabile dei doni dopo quello della gloria celeste. Alla loro risposta, Gesù Cristo non potrebbe ancora ripetere: « Se tu conoscessi il dono di Dio! »? Quello che di solito pensano è che si sia in pace con Dio, che i peccati siano perdonati e che un giorno, se nuove gravi colpe non lo impediranno, si godrà della felicità eterna. Ma per quanto riguarda questo rinnovamento, così meraviglioso e così divino che avviene nei cuori, questa rigenerazione che trasforma la natura e le facoltà dei figli adottivi nel loro intimo, questa deificazione che fa dell’uomo un dio, tutti questi doni che sono prerogativa della creatura giustificata, della creatura glorificata, quanti pochi fedeli li conoscono, e quanti pochi li meditano ancora! La conseguenza che ne segue naturalmente è che stimiamo poco ciò che conosciamo troppo poco; e che non abbiamo né energia né vigore per acquisire, conservare e aumentare questo tesoro misconosciuto. Un figlio di re che non conosca né i suoi natali, né i pensieri elevati che essi esigono da lui è l’immagine di troppi Cristiani. Ecco perché il grande Papa San Leone fece questa forte esortazione ai fedeli del suo tempo: « Riconosci, o Cristiano, la tua dignità e, divenuto partecipe della natura divina, non tornare alla tua antica bassezza con una condotta sregolata. Ricorda di quale corpo tu sia membro e qual sia la tua testa. Ricordati come sei stato tratto dal potere delle tenebre al regno della luce, e come il santo Battesimo ti abbia consacrato come tempio dello Spirito Santo » (S. Leone, Serm. 21, par. 20, in nativit. Dom. 1, c. 4). Figlio di Dio, renditi degno con la tua vita di un tale Padre e di un’origine così regale! – Devo proprio dirlo? Mi sembra che se il popolo fedele sia troppo ignorante di questi tesori soprannaturali, di cui il Padre delle misericordie lo ha così liberalmente riempito, potremmo senza ingiustizia darne la colpa, almeno in parte, a coloro che per vocazione sono responsabili della loro istruzione: essi parlano troppo poco di questi misteri della grazia e della gloria; e, quando ne parlano, lo fanno in termini così generali, così vaghi, così imprecisi, a volte così torbidi, che l’ascoltatore è spesso più affascinato dalla bellezza del loro linguaggio, che penetrato dai pensieri che dovrebbe esprimere. – Non si dica, come a volte accade, che questi argomenti siano troppo sublimi per essere messi alla portata dei semplici fedeli: … essi non hanno né il tipo di cultura intellettuale né le abitudini di riflessione necessarie per afferrare le idee che si cercherebbe di comunicare loro. Questa è una scusa che non regge all’esempio degli Apostoli e alla loro esplicita dottrina. – Le epistole di Paolo, per non parlare delle altre, cosa sono se non una costante predicazione dei misteri ineffabili della grazia e della filiazione divina? Ed è per tutti i Cristiani che il grande Apostolo ha scritto le sue lettere ispirate. Io so bene che, secondo l’istituzione del Maestro, Egli ha affidato ai pastori la missione di interpretarli ai comuni credenti. Ma questo dimostra chiaramente quale dovrebbe essere, oggi come allora, il ruolo di coloro che sono incaricati dell’ufficio di promulgare e spiegare il contenuto dei nostri Libri sacri. – Indicare la mancanza di cultura della maggior parte dei Cristiani come motivo per non entrare in queste profondità, è ignorare la parentela che queste verità hanno in qualche modo con la loro fede; è dimenticare che tutti noi “non abbiamo ricevuto lo spirito di questo mondo, ma lo Spirito che è di Dio, affinché conosciamo i doni che Dio ci ha dato” (1 Cor: XI,-42); è infine trascurare l’azione dello Spirito divino, che apre interiormente l’intelligenza dei fedeli per far loro ascoltare le sante verità che vengono loro annunciate. So bene che la scienza della fede non è un privilegio di molti. Ma quello che so anche è che, se non spetta a tutti entrare ugualmente nella comprensione dei misteri della grazia e della gloria; se gli stessi più dotti non possono, senza avventata presunzione, sperare di penetrare tutti i segreti quaggiù, c’è certamente un grado di conoscenza a cui tutti i Cristiani possano arrivare, purché siano istruiti con il tipo e la chiarezza di linguaggio che si adatti alla loro debolezza. Questo è quello che pensavano i Padri, e tra tutti l’immortale dottore S. Agostino, che non aveva paura di mostrare gli splendori del Verbo e le profondità di Dio davanti agli occhi dei suoi pescatori di Ippona. Era anche lo stesso pensiero che ispirava San Paolo quando pregava « … il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di Lui. Possa Egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi abbia chiamati, quale tesoro di gloria racchiuda la sua eredità fra i santi e quale sia la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l’efficacia della sua forza » (Efesini I, 17-19). – Se è sempre stato necessario pregare affinché lo Spirito Santo desse ai Cristiani questa luce divina e insegnasse loro con cura diligente le verità che essa deve incidere nei loro cuori, forse mai questa necessità è apparsa più urgente di quanto lo sia al momento attuale, perché mai i doni soprannaturali della grazia e della gloria sono stati più universalmente attaccati, distorti o fraintesi come ai nostri giorni. Per non parlare dell’eresia razionalista che li considera come un beneficio di Dio che si è liberi di ricevere o rifiutare, quand’anche non distorca la loro natura o neghi del tutto la loro esistenza, per cui c’è stata nel nostro secolo, anche all’interno del Cattolicesimo, una scuola di pensiero che vede nell’ordine della grazia poco più di un aiuto dato da Dio per l’adempimento dei suoi precetti, e non so quale stato di perfezione morale, privo di qualsiasi dono soprannaturale insito nel profondo delle anime (Hermes e la sua scuola Cf. P. Kleutgen, Theol. der Vorzeit, II Band, 1). Anche se questo errore, combattuto vittoriosamente dai sostenitori della pura dottrina, non ha più un posto al sole, Dio voglia che non se ne trovi mai traccia nelle opere destinate a dare ai fedeli i precetti della vita cristiana. Essi errori conservano ancora tutta la loro attualità. Le gravi parole che uno dei più notevoli interpreti dei nostri libri sacri, Cornelio della Pietra, scrisse nel XVII secolo nel suo commentario al profeta Osea « pochi uomini apprezzano il dono della grazia per il suo valore. I predicatori e gli insegnanti di scienza sacra dovrebbero spiegarla, come abbiamo fatto noi, e inculcare una profonda conoscenza di essa nel popolo. In questo modo i fedeli e i santi imparerebbero che essi sono i templi viventi dello Spirito Santo, e che portano Dio stesso nei loro cuori; che essi debbano, quindi, camminare divinamente alla sua presenza, e vivere una vita degna di un tale Ospite che li accompagna tutti e li guarda ovunque » (Cornel. a Lap., in Osee, 1, 10). Si dirà che in un’epoca in cui il genio dell’uomo si sforza di sollevare i veli che ci nascondono i misteriosi segreti della terra e del cielo, in cui persino i bambini, a torto o a ragione, vengono iniziati a tante conoscenze profane, la scienza delle grandi opere che Dio fa o prepara nel cuore dell’umanità rigenerata, cioè la più bella, la più alta delle scienze, oltre che la più feconda, una scienza infine che racchiude l’intera economia della Religione fondata da Dio fatto uomo, sia fra tutte la più negletta? – Io non ignoro che siano state scritte opere eccellenti su questo argomento. Credo, tuttavia, che quello che propongo al lettore sarà di qualche utilità, non fosse altro che per il merito di abbracciare in tutta la sua ampiezza un soggetto così fecondo. – È ai miei fratelli nel Sacerdozio che mi rivolgo più in particolare. La conoscenza che essi hanno della scienza sacra non mi permetterebbe di offrire loro un’esposizione semplice e rudimentale, tale da essere appropriata per il fedele comune. Per questo mi sforzerò di approfondire le verità della nostra fede, di trarne le conseguenze e di spiegarle, nella misura compatibile con la loro profondità e la mia debolezza. È anche per questo che mi appellerò così spesso ai nostri Libri santi, ai decreti dogmatici della Chiesa, agli scritti dei Padri, ai principali dottori della scienza teologica, e specialmente al maestro per eccellenza, San Tommaso d’Aquino. Se a volte ci sono questioni che siano così astratte da richiedere teologi professionisti per capirle correttamente, saranno o totalmente scartate o più spesso rigettate in appendice. Non so se mi stia lusingando, ma mi sembra che, grazie a questa precauzione, la presente opera non rimarrà inavvicinabile per coloro che non hanno frequentato le nostre scuole teologiche. Spero che essi vi troveranno cibo per la loro intelligenza e considerazioni per i loro cuori che alimenteranno in loro i sentimenti di una solida pietà. Papa S. Leone Magno ha riassunto in due parole tutto il mistero della nostra elevazione soprannaturale per la grazia e la gloria: « Il dono che supera tutti i doni è che Dio chiami l’uomo suo figlio, e che l’uomo chiami Dio suo Padre » (S. Leo, Serm. VI de Nativit. Domini). Queste due parole riassumeranno anche tutto il soggetto di questo lavoro: perché è alla nostra filiazione divina che intendo collegare ciò che Dio ha fatto e farà per noi in questo ordine della grazia, il capolavoro della sua sapienza, della sua potenza e della sua bontà. – Per non superare i limiti di questa introduzione, indicherò brevemente i punti fondamentali che dobbiamo affrontare. Prima di tutto, stabiliremo il fatto della nostra filiazione soprannaturale e mostreremo l’altezza incomparabile a cui la grazia ci innalza. Diremo poi qual sia la natura di questa stessa filiazione, e su quali principi, sia creati che increati, essa poggi. Poi studieremo la perfezione che essa può ricevere nelle anime giuste, e i mezzi con cui la crescita spirituale avvenga in noi; infine considereremo la perfezione finale dei figli di adozione, cioè il completo compimento della grazia del tempo nella gloria dell’eternità. – Un esame su tutto l’insieme delle materie, ci permetterà di stabilire chiaramente le nozioni tanto necessarie ai tempi d’oggi, della natura e della grazia, del gratuito e del soprannaturale. – Indubbiamente, tutto ciò che avremo da dire nella continuazione delle nostre spiegazioni, non sarà dogma cattolico. La fede che cerca la comprensione di ciò che crede “fides quærens intellectum“, senza mai smettere di avere gli occhi invariabilmente fissi sulla verità rivelata, non teme di fare appello ai lumi della ragione scientifica e di proiettare i suoi raggi sull’oggetto della sua fede, per illuminarne il senso e la portata. Ma, a Dio piacendo, non trarremo alcuna conclusione, né daremo alcuna teoria che sia in contrasto con gli insegnamenti dello Spirito Santo, tanto avremo in cuore di affidarci costantemente, in tutto ed ovunque, alla dottrina dei Padri e Dottori più autorevoli della Chiesa di Dio. Permettetemi di concludere prendendo in prestito alcune delle parole che Sant’Agostino rivolgeva ai suoi lettori all’inizio della sua grande opera sulla Trinità: « Che ognuno di coloro che leggono queste pagine vada avanti con me, se condivide la mia certezza; se esita dove io esito, cerchi con me; se riconoscerà di essersi smarrito, torni da me, e mi richiami alla verità se mi vede in errore. Entriamo dunque insieme e, per così dire, mano nella mano, nella via della carità, raggiungendo Colui del quale è scritto: “Cercate sempre il suo volto: Quærite faciem ejus semper” (Salmo, CIV, 4). Perciò, nel nome del Signore, iniziamo l’opera intrapresa per la sua gloria » (S. August, de Trinit.: L. I, n. 5-6).

LA GRAZIA E LA GLORIA (2)

LO SCUDO DELLA FEDE (212)

LO SCUDO DELLA FEDE (212)

LA VERITÀ CATTOLICA (X)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. E libr. Sales. 1878

ISTRUZIONE X.

LA CREAZIONE

(Conferenza 1°)

La dottrina cattolica – e l’incredulità.

Io mi rallegro con voi, i quali, benché istruiti e, in ogni maniera di buona coltura educati, venite alla Dottrina Cristiana. Certamente la Madre Chiesa, ha cose da dirci che fan bene anche ai figliuoli più colti e dottissimi: e poi la benignità con cui voi le ascoltate è una edificazione a tutto il buon popolo della nostra grande famiglia. Del resto però, quando gli uomini di genio corrono in seno a questa santa Madre, si direbbe che la Chiesa li sollevi tra le sue braccia in un’atmosfera più sublime, in cui il gran Padre di tutti i lumi riveli ammirande cognizioni anche nella scienza umana. Difatti, ella Si può onorare dei più celebri dotti, che sono stati da Lei educati. Mentre al contrario anche uomini di svegliate menti, abbandonata la dottrina della Chiesa, e abbandonato Iddio, che è benedetto in eterno, cadono nel reprobo senso, e diventano capaci di ogni più trista ribalderia: ché certo la peggiore delle ribalderie è tentare di cacciar Dio dall’universo da Lui Creato, lasciare gli uomini senza il pensiero di Dio a buttarsi a rotta in tutti i delitti. Lo vedrete nelle seguenti istruzioni, o conferenze sopra argomenti, che trattai già insieme con tutto il popolo nostro. Però, se con esso adoperai certi riguardi, ed accennai solo gli errori in modo, che non li intendesse chi li ignorava affatto; rispettando così la loro ingenua semplicità della fede; con voi mostrerò chiaramente di riscontro alla verità cattolica i mostruosi errori della incredulità, colle parole istesse degl’increduli: e potrete vedere chiaramente come gl’increduli fanno contro alla ragione ed al buon senso; e come la vera scienza li confuta così sodamente, da dovere restare confusi. Essi attaccano la verità sotto la maschera della scienza; e noi a visiera alzata respingeremo gli attacchi colle armi, che ci porgono in mano ì più grandi e veri scienziati. Userò più che il linguaggio scientifico, i modi della lingua parlata, per avere in pronto poi all’occasione risposte chiare da dar subito la rimbeccata a chi si crede di essere dotto per ciò solo, che si vanta incredulo. – Questo vuole s. Paolo e raccomanda lo Spirito Santo di dar risposta allo stolto, perché non appaia di essere sapiente: responde stulto iuxta stultitiam eius ne sapiens sibi videatur. Voi intanto nell’aridezza dell’argomento consolatevi il cuor con Gesù, il Quale si degna di porre le sue delizie nel trattare Cuore a cuore con noi; e la tenerezza del suo amore vi farà gustare soavemente più, che non possa la nostra parola, la cattolica verità. In questi argomenti io poi ho ancor più bisogno della vostra tolleranza: e quando mi udirete studiar modi i più naturali, per esprimere le difficoltà più grandi col candor della semplicità popolare, se non corrispondo al merito vostro e alla vostra scienza, compatitemi col dirmi almeno « povero padre vorrebbe farsi tutto per tutti! »

Dio ha creato in principio il cielo e la terra. Questa è la prima verità, il dogma fondamentale rivelato da Dio che va d’accordo colla ragione nostra, la quale ne è così convinta, che debbe dire « è certamente vero! »: e il senso comune di tutti gli uomini se ne mostra così persuaso, che la traduce in pratica in ogni parte del mondo: la scienza poi la dimostra in modo, che gli increduli col negarla, si mostrano di parlar contro ogni ragione, e di rinnegare il buon senso comune: così l’incredulità resta dalla vera scienza confusa. Nel conferire con voi in queste istruzioni fermo subito la vostra attenzione sopra tre punti di questa verità fondamentale: cioè sopra la creazione in generale: sopra l’ordine della creazione dei varii generi delle cose create: e sopra la creazione particolare dell’uomo. Anche la Parola del Signore porge occasione a distinguere questi tre punti, e a trattarne separatamente; perché la dice: che Dio in principio creò il cielo e la terra; poi che ordinò la creazione, e creò le piante e gli animali; e che finalmente creò l’uomo. In questa istruzione tratterò del primo punto, della creazione; in cui pare che Dio, per adattarsi al nostro modo d’intendere, voglia dire, che prima ebbe preparato il materiale, per formarne poi i vari generi delle creature, e quindi mettervi l’uomo a dominare sopra esse. Dio così pertanto fa conoscere che ogni cosa creata esiste per Lui, coll’annunciarci che tutto l’universo in principio fu da Lui creato. Ora vedrete come questa verità va pienamente d’accordo colla nostra ragione. Uno dei primi lumi della ragione, con cui noi acquistiamo le nostre cognizioni, è questo lume, il quale fa conoscere alla nostra mente in sul principio, quando appena comincia a ragionare: che, se vi è una cosa fatta, certo qualcun la fece: quindi è verità che tutti intendono, (e che la scienza annuncia come un assioma): che l’effetto suppone sempre la causa. Ecco perciò che, appena noi cominciamo ad usar la ragione, nel contemplarci d’intorno questo spettacolo del mondo creato, la prima cosa che dobbiam dire, e che diciam naturalmente, senza quasi accorgerci, per essere ragionevoli, è che vi debb’essere il Creatore. Poi nell’osservare per poco la grandezza del mondo creato, dobbiamo comprendere che debb’essere ben grande questo Creatore Iddio. Quando poi sentiamo a dirci dalla Parola di Dio, che Egli il Signore creò dal principio il cielo e la terra « oh sì veramente, deve dire la ragione umana, sì che lo credo! Ben me n’era subito accorto anch’io, e già lo intendeva da me con quel lume di cognizione che trovo in me e che il Signore mi diede; e vedendo dappertutto l’impronta della grandezza e dell’onnipotenza e di una bontà infinita che fa tante cose buone e le conserva, io m’immaginava già, che Dio Creatore doveva essere Onnipotente e buono senza fine. – Sia benedetto il Signore che mi ha detto colla più chiara parola: che fu Egli che dal principio tutto creò! » Siccome poi la ragione è in tutti gli uomini, e forma quel fondo di cognizioni e di sentimenti che dànno il buon senso comune al genere umano; così gli uomini di tutte le nazioni mostrano in pratica di credere naturalmente la gran verità, che vi è Dio, il Creatore del cielo e della terra: e la traducono in atto nella vita umana colla pratica delle religioni in tutte le parti del mondo. Ché si ha un bel girare il mondo universo, egli è un fatto, da per tutto si trova sempre, che tutti gli uomini e bianchi e neri e di colori svariati credono in qualche modo in Dio. Eh sel considerano presente; gl’innalzano tempii e altari per adorarlo, gli fan sacrifizii, affinchè perdoni loro le colpe, di che li accusa la coscienza; l’invocano nei loro bisogni, lo chiamano alla testa dei loro eserciti nei cimenti delle battaglie, gli attribuiscono la parte della gloria delle loro vittorie, insomma lo pregano che gli accompagni in tutta la vita. Invocano Dio pei bambini che nascono, invocano Dio nei lor matrimoni, invocano Dio, massime, in quell’ora, in cui l’uomo sente il nulla della sua impotenza, in quell’ora, in cui si vede spalancato dinanzi l’abisso dell’eternità. Dio alla morte sta davanti immenso, come l’eternità istessa: e tranne quei pochi, che il demonio tien già seco incatenati per lo inferno, perché ostinati fino al ridicolo, sopra morte anche i nemici di Dio più arrabbiati a combatterlo in vita, per lo più, se hanno tempo, si gettano ai piè di Lui, per implorare la sua Misericordia. Si può dire che la gran famiglia degli uomini, in mezzo alle umane ingiustizie, riposa alquanto al pensare che tutto il bene viene da Dio. È Dio adunque la ricchezza dell’umanità. Per questo il genere umano lascia cinguettare gl’increduli; ma continua sempre ad adorar Dio Creatore di tutto. Così la ragione, il buon senso vanno d’accordo col credere questa grande verità rivelata da Dio: che tutto viene da Lui, che creò il cielo e la terra. Dimostrerovvi adesso come la scienza prova questa grande verità, fondamento di tutte le cognizioni dello scibile umano. Attendete: io qui chiamo scienza l’osservazione, lo studio e la chiara cognizione acquistata delle cose e dei fatti, ed insieme anche la ricerca delle cause che li hanno prodotti. Ebbene qui appunto comincerò a notarvi che la scienza in prima osserva che la materia è per sé immobile ed indifferente alla quiete, e al moto, cioè che questi oggetti materiali che cadono sotto i sensi, e che chiama tutti insieme col nome di materia, sono per sé senza movimento, e che allora solo si muovono, quando una forza li scuote dalla loro inerzia, e li fa muovere. Osserva, per esempio, che i ciottoli stan li per terra immobili, che i mattoni collocati nel muro stanno da secoli fissi là dentro, vede il monte stabilmente là fermo sempre; ma però, quando una forza potente getta il ciottolo, egli va in quella direzione, per cui è gettato, e il mattone salta fuori del muro, quando un colpo di martello fa balzare; e se la mano dell’uomo stacca dalla costa del monte un pezzo di rocca e ne forma una ruota, quella ruota di sasso gira gira, finché una forza la fa girare, e gira sempre, finché la resistenza dell’aria, una forza maggiore vince la prima forza, e la trattiene. Quindi la scienza conchiude (lo afferma Laplace, tutt’altro che buon credente; ma pur scienziato): che la materia non può darsi movimento, perché non ha in sé la ragione di muoversi in questo o in quell’altro senso. Si muove quando è spinta dalla forza, e si muove nella direzione della forza. Lo stato della materia adunque per sé è l’inerzia e sta immobile (Sisteme du mond. 1 Tom. III, cap. XI). Udite un altro scienziato: (Roberto Ardigò. La Psicologia come scienza positiva) la materia, per sé, il moto non l’ha, prima di averlo ricevuto. Avendolo lo mantiene, finché non urta; non avendolo, non lo genera; e non può averlo, se non è, per così dire, versato in essa dal di fuori. Una palla non si muove sul bigliardo se prima non riceve la spinta dalla stecca. Il modo onde la palla è per tal modo investita, è dovuto interamente alla spinta ricevuta. E fatta astrazione dall’attrito del piano su cui scorre, vi dura inalterato; finché non s’imbatte nell’altra e la colpisce e quindi le comunica il suo movimento. E tanto glie ne comunica quanto ne perde. Se lo comunicasse tutto, se ne priverebbe affatto, e si fermerebbe. La scienza adunque osservando, che la materia si lascia muovere sempre da una forza che sia potente ad eccitarla al moto, con ragione pronuncia: che la materia è immobile, ed è indifferente a star quieta, od a muoversi in una, o in altra maniera. Venitemi appresso nelle osservazioni della scienza, la quale considera in secondo luogo: che la materia non solo è inerte ed indifferente al moto; ma che anche da sé sola è incapace a pigliarsi una figura più che un’altra. Difatti, la morta materia si lascia maneggiare da chi vuole, e lasciatemi usare la istessa espressione, dirò ancora, è indifferente a prendere una forma, una figura qualunque da chi è capace da dargliela. Voi vedete la creta che avete sotto dei piedi, è terra informe. Essa si lascia impastare dal vasaio, e resta vaso di brutta o bella figura, finché non lo rompa un’altra forza. Mentre quel po’ di creta istessa, in mano di un bravo artista, diventa un bel modellino di statua, e resterà forse nel museo per secoli tanto più ammirata, quanto è più grande il genio dell’artista che l’ha plasticata. Così il marmo bianco a Carrara è un’informe montagna; ma, se quella montagna si lascia cavar le viscere d’informe sasso, nei laboratori di quegli ingegnosi riceve la forma d’un grazioso augellino in atto di spiccare il volo, o di un orrido serpe attortigliato, o di un fiore che par che tremi leggero. Ma se poi quel blocco di sasso cade sotto le mani di Michelangelo, diventa il Mosè la più gran bella statua del mondo, e nella Chiesa di S. Pietro in Vincoli sta. Ora vedendo che questa morta materia pigliò così belle forme svariate, ed è sole, luna, pianeti e terra che tutti van roteando sempre in moto; che questa morta materia si muove nelle piante e negli animali e che tutto è moto nell’universo, la scienza esclama con Aristotile « oh quanto è grande il Motore che fa muovere tutto! » Platone, il più gran genio dell’antica filosofia, contempla estatico questo ordinamento dell’universo divinamente architettato: e adora rapito il grande Architetto che « geometrizza sempre, così bellamente….. » Galileo studiando nello spazio del cielo, dei pianeti la rapidità che spaventa il pensiero cerca il gran punto d’appoggio, da cui partono quei movimenti, e adora la Mano di Dio. Newton scopre le leggi che fan roteare la terra (questa è eresia antibiblica, come già più volte sottolineato e parto informe di quella pseudoscienza basata sull’ipse dixit senza una prova a favore ma mille contrarie), i pianeti intorno al sole e quei milioni di mondi nel firmamento, intorno a quelle miriadi di soli, e cercando il centro da cui vanno mossi tutti quei soli coi loro mondi intorno a loro china la gran testa e adora annichilito 1’Onnipotenza di Dio: e fino Arago il grande astronomo moderno (meschino vissuto in questi poveri tempi, in cui fin dai fanciulli sì dimentica Iddio, e ridotto a confessare alla morte di non avere avuto mai tempo a pensare a Lui!) pure dalla scienza era costretto ad ammettere « che il movimento di rotazione primitivo della nebulosità non trovasi dipendente da sole attrazioni: questo movimento sembra supporre l’azione di una forza impulsiva primordiale. (Elogio del Laplace) ». La scienza adunque proclama: che la materia è formata, plasticata, e messa in movimento; vi è dunque chi la formò, chi le fece pigliar forma e figura, chi la fece e la fa muovere, la scienza insomma solennemente proclama; che Dio in principio creò il cielo e la terra. Così la scienza, d’accordo col buon senso universale del genere umano, a tutto rigore di ragione, conferma questa, la prima verità, dogma fondamentale rivelato da Dio stesso: la Creazione viene da Dio. –  Ma contro la parola di Dio, contro la ragion nostra e contro il sentimento universale di tutto il genere umano, si levano su audacemente alcuni increduli, e dicono « non è vero che Dio creò il cielo e la terra in principio; ma la materia, di cui tutto è composto, è sempre stata, la materia è eterna: ed essa da sé sola colle sue forze e colle sue leggi forma il mondo universo. » Ebbene or vi debbo, come ho detto, mostrare che la vera scienza dimostra che gl’increduli parlano contro ragione e par che abbiano perduto il buon senso. Noi vogliamo dimostrarci con loro tolleranti al possibile: e per dar prova di non voler per poco aggravar le accuse contro di loro, ripeteremo le loro stesse parole nel mostrare i loro errori. E subito qui per avvicinarci a trattare con loro alla buona, supponiamo per ora, com’essi pretendono, di tenere per certo solamente quello che non sorpassa la forza e la sfera del senso, e che noi possiamo provare colla sola ragione, come vuole (Buchner nell’Opera Materia e forza, che citeremo a pagine in queste conferenze). Essi mettendoci innanzi come verità certissima: che eterna è la materia, eterne le forze e eterne le leggi, pare che essi, secondo la loro massima stabilità, dovrebbero provare questa supposta verità coi sensi e colla ragione. Essi no; Ci propongono subito in sul principio da credere articoli di un certo lor credo diverso dal credo, ehe ci propone Iddio. Però anche noi, benché non siamo filosofi, no; ma sol poveri cristianelli col nostro po” di ragione e di buon senso abbiamo il diritto di domandar: perché dobbiamo credere a loro? e perciò vorremmo porre innanzi un po’ di questione, come dicono, pregiudiciale, e sarebbe questa. Abbiamo da credere al credo di Dio, o al credo degl’increduli? Noi diremo subito la nostra ragione, per cui crediamo alla Parola di Dio. Noi ci troviam qui creati in mezzo di tutte queste cose del mondo; e abbiam subito con buona ragione creduto che vi debb’essere un Creatore, e vedendo come questo Creatore benedetto provvede ai bisogni di tutte le creature, abbiam pensato che avrà provveduto anche a noi uomini al bisogno che abbiamo di essere istruiti, come dobbiam vivere, pel fine per cui siamo creati. Trovandoci poi appena nati, per grazia di Dio, tra le braccia della Madre Chiesa; con tanto bisogno di saper qualche cosa, abbiamo creduto a Lei, che c’ insegnò le belle cose, che ci fan tanto bene, per ben regolarci. Poi conoscendo che, quello che Ella insegna da credere, va tanto d’accordo colla ragione e col buon senso, e vedendo come i grandi uomini e dottissimi, anzi i migliori degli uomini, lo provano colla scienza, noi confessiamo candidamente che abbiamo creduto com’ella insegna: che in principio Iddio creò il cielo e la terra. Ma per farci credere a voi, come volete, che crediamo, voi dovete provarlo colla prova dei sensi e colla ragione, e poi darci una guarentigia, per assicurarci che (in questa, certamente la più importante delle questioni) sia il più sicuro per noi, credere a voi che lo negate. Del resto tra il credo di Dio, che tante ragioni provan per vero; e il credo vostro senza ragione; noi siam persuasi che sia più ragionevole credere a Dio. Mentre poi la scienza dimostra chiaramente: che non è vero quello che voi volete farci credere. Ve ne daremo le prove pigliando ad esaminare gli articoli del vostro credo, che sono tre:

Articolo 1° La materia è eterna.

Articolo 2° Le forze che muovono la materia sono eterne.

Articolo 3° Le leggi che le governano sono eterne.

Cominciamo adunque dal più solenne enorme errore che gl’increduli fingon di credere, anzi pongon per fondamento di tutti i loro errori: la materia è eterna. Ebbene la scienza ci dice che non è vero che la materia sia eterna, e lo prova. In vero: eterno è ciò che non ha principio, che non ha fine, che dura sempre, e che non si muta mai. Quindi, se la materia fosse eterna, dovrebbe essere sempre stata quale è, e non mutarsi mai. Ma, dice uno scienziato « tutto nell’interiore della terra, tutto nella superficie attesta che ebbe cominciamento e che ha un fine » (Nero Beoubée). Egli è certo dice il gran dotto Cuvier (Rivol. del globo) che fu un tempo che non erano né le piante, né gli animali nella terra; ma apparvero ad una certa epoca. Ma che? anche noi ci riconosciamo che non siamo sempre stati, no. Al men queste anime nostre, fossero pur materiali, come voglion a dispetto d’ogni ragione, però sentiamo che esistono ed hanno forze, e che prima non erano: dunque vi sono cose che prima non erano, che cominciarono ad essere e si van sempre mutando. Perciò, quando anche tutto fosse materia, questa materia però non sarebbe sempre stata qual è: quindi non è eterna. Bene dice qui un gran dotto e buon professor alla nostra università di Torino il Sig. Caucy. La scienza si riduce a ciò che insegna la fede: la materia non é eterna; e se le divine scritture non ci avessero chiaramente rivelata questa verità nel primo, più antico, e noi diremo: nel più grande Libro del mondo, noi saremmo costretti ad ammetterlo come filosofi fisici (Sept: Lecon de phis. gen. Iournal le Mond. pag. 25). – Ma vi è un’altra ragione. Quel che è eterno, ed è sempre stato così e sarà sempre l’istesso, non ha confini che lo misurino, né limiti che lo circondino, e quindi non deve avere né una forma, né una figura. Poiché, e chi avrà fatto pigliar una forma, una figura alla materia che sarebbe sempre stata; com’è? Ma ora la terra, il sole, le stelle, e tutte le cose che noi vediamo hanno limiti, una forma, una figura; vi è dunque chi li limitò, chi fece loro pigliare la forma e la figura che hanno. Dunque, la materia di cui esse sono composte non è sempre l’istessa, dunque non è eterna. Eh sì! vorrebbero essi gl’increduli contro ogni ragione, darci d’intendere che la materia non ha limiti ed è infinita. E da vedere come si sforza quel Signor tale (Buchner) e coi microscopi i più potenti, per farci vedere i più minuti insettucci che formicolano nell’aria; e poi coi più forti telescopi farci vedere su pel firmamento, stelle Sopra stelle, e passare oltre alle stelle, per slanciarci là su fin tra una materia nebulosa e confusa; come è confusa la fantasia degl’increduli. Ma noi osserveremo che si ha un bell’aggiungere a fantasia minuti esseri e di lor altri più minuti ancora, e mondi sopra mondi; ma saran sempre cose materiali, che han sempre figure limitate, e quindi hanno un confine, e non sono infiniti. E come se ai numeri uno, due e tre, si aggiungessero milioni sopra milioni di numeri, si troverebbe sempre una somma di tanti milioni di numeri, e non mai una somma senza numeri ed infinita; così, se oltre le cose materiali che conosciamo, si venissero a conoscere altri milioni di cose materiali e finite anch’esse, non si troverà mai una materia infinita. Vogliamo aggiungere ancora che se la materia fosse infinita, occuperebbe, tutto lo spazio; e allora niuna cosa materiale mai si potrebbe muovere. Perché muoversi vuol dire passare da un luogo in un altro dentro lo spazio. Ecco, io muovo la mia mano, e da qui in basso la metto in alto. Vi è dunque un vuoto nello spazio da potere e spingere l’aria all’una e altra parte, per mettervi in mezzo la mano là. Che, se voi riempite un vaso di liquido ben compresso, per agitar che si faccia, il liquido resta sempre immobile dentro. Ma gli oggetti materiali si muovono fra loro: dunque vi è uno spazio, dunque non vi è la materia che occupi tutto lo spazio: ma ogni cosa di materia occupa lo spazio entro i limiti, che sono i fini suoi. Perciò la materia come non è infinita, così la materia non è eterna. A dir vero che certi increduli (Buchner p. 70) vorrebbero con una certa lor scienza che chiamano trascendentale portarci fuori della ragione. E ci dicono chiaro: che noi non dobbiamo cercare l estensione della materia nelle massime e nelle minime sue parti: giacché (sono proprio tutte parole di Buchner,) in nessuna parte della materia potete conoscere il fine e l’ultima espressione. È impossibile formarci un’idea esatta: (egli dice dell’atomo, cioè della materia): Avvegnaché noi non sappiam nulla né della sua grossezza, né della sua forma, né della sua posizione. (Materia e forza). Ma deh; se voi sapete nulla, né della posizione, né della forma, né della grossezza, nè dell’estensione, né del fine, né dell’ultima espressione della materia: eh che cosa saprete di una materia che, dite: non è né lunga, né larga, né grossa, e di essa non si conoscono per ciò né le parti, né l’espressione, né il fine? Non conoscendo niente di tutto questo nella materia, che cosa sapete della materia che dite eterna? Voi sapete niente. Dunque il primo Articolo del credo degl’increduli è fondato sul saper niente!… ce lo dice la scienza, o Signori, – Il secondo articolo del credo degl’increduli è: che le forze che muovono la materia sono così unite con essa che non si può concepire un atomo di materia senza che abbia la sua forza. (Moleschott.) Ma noi stando alla loro massima o legge di non ammettere per vero e certo quello che sorpassa la forza e la sfera dei sensi e che non si può dimostrare colla ragione, li pregheremo di farci conoscere coi sensi e colla ragione, in primo luogo che cosa sia la forza? In secondo luogo, se la forza sia una sol cosa colla materia, o se sia diversa della materia. In terzo luogo se la forza sia sempre stata unita alla materia e se in quella loro eternità vi sia stato un momento, in cui non erano insieme? e come operano le forze nella materia? – Diteci adunque in prima che cosa è la forza? Noi confessiamo di non saperlo. Io sento e vedo che muovo le mie membra, mi accorgo, che il sole si muove sopra la terra; ma non conosco la forza di questi movimenti. Cercai nei libri dei dotti, ma da quel che ho potuto conoscere la forza da lor si confonde coi movimenti. Ma i movimenti sono effetti prodotti dalla forza; non son essi la forza. Che cosa è dunque mai questa forza? Egli (Moleschott) che dice che non è la forza di Dio che dà l’impulso, né un essere separato dalle materiali sostanze delle cose « ma la proprietà inseparabile immanente da tutta l’eternità » egli ben conoscerà che cosa sia questa forza, per potere assicurare francamente non essere cosa di Dio; ma della materia! Ebbene si dica che cosa è dunque questa forza?….. Ma se è inutile, (gli scrittori della rivista dei due mondi 1 gennaio 1869 uomini del suo partito. a quel che pare; e che pretendono di saperla ben lunga), è inutile, dicono essi; cercare che cosa sia la forza. La ricerca delle forze ha offuscato l’origine della matematica. Noi non vediam che fenomeni; quanto alle cause son fenomeni anch’esse. — Oh che dite mai?….. fenomeni anche le forze?. Ma fenomeni vuol dire fatti; dunque le forze, che sono cause dei movimenti, non son che fatti, e i movimenti sono fatti; così non avremo che fatti e fatti. Ma e chi cominciò a produrre questi fatti? Quando i fatti sono prodotti uno dall’altro, non sono che come gli anelli d’una catena; ma la ragione ed il buon senso fanno intendere che da un anello all’altro si deve salire al primo anello. E gl’increduli così dotti non vogliono accorgersi che da un fatto all’altro, dai movimenti alle forze si deve salire al primo fatto, alla prima forza, come al primo anello della catena!… Ah che il buon senso e la ragione sono già saliti al primo anello, e lo trovarono in mano di Dio! Deh che gl’increduli non rinneghino se stessi: e quando domandano che cosa è la forza? Diano la risposta che vuol la ragione e che il cuore sospira. « La forza prima di tutte le forze è Dio » Io mi spiegherò con un fatto. Ho veduto nella esposizione universale di Parigi un grande orologio, in cui si vedevano ben più di trenta quadranti, in ciascuno dei quali un indice segnava le varie fasi ed i modi in cui si può misurare il tempo. Negli ordigni di ciascun quadrante, una piccola molla particolare faceva muovere quegl’indici. Ma tutte quelle molle, perché davano quei movimenti? perché vi era una gran molla che dava movimento a tutto. Così di tutti i movimenti dell’universo vi è una causa prima, un gran principio. Dice opportunamente il buono e dottissimo Bonnet (nel suo gran libro: La contemplazione della natura:) l’universo dipende essenzialmente da questa Causa, invano cercheremo noi altrove la ragione di ciò che è…….. Fare l’universo eterno è ammettere una successione infinita di esseri infiniti. Ricorrere all’eternità del moto è mettere un effetto eterno, (cioè per dirlo noi più popolarmente; è un voler darci d’intendere che vi sian fatti e fatti e sempre fatti, senza che nessun li abbia fatti!…). Conchiudiamo adunque con questo bravo scrittore, che, poiché esiste l’universo, vi ha di fuori dell’universo una Ragione Eterna della sua esistenza. Così parla la vera scienza, o Signori. – Ma noi domandiamo in secondo luogo agl’increduli che assicurano di conoscere essi che eterna è la materia, eterne sono le forze; almeno ci dicano se esse sono una sola cosa, o se siano due cose diverse? Se sono una sol cosa, allora non avrem che materia; perché adunque due nomi diversi? Ma poi anche noi osserveremo: che la forza è troppo diversa dalla materia: perché la materia è inerte, la forza si muove; la materia è passiva, la forza è attiva; la materia è pesante e sta, ma le forze senza peso volano e fan volare anche la materia. Dunque sono diverse al tutto. Ma se sono diverse, ci dicano almeno gli increduli: se le forze da lor credute eterne, sono sempre state unite alla materia? Ma noi risponderemo loro: che noi conosciamo evidentemente che vi sono forze che prima non erano. Si conosce proprio nella terra sotto gli strati sovrapposti, che vi fu un tempo in cui essa non aveva la forza di far vivere gli animali. É certo, che prima non era nella terra un’altra forza; vogliam dire la forza di creature ragionevoli che facessero variare il corso dell’acqua per innaffiare campi, coltivare la terra con istrumenti inventati, né la forza di assoggettare gli animali a prestare il loro servigio. Così possiamo conchiudere che in questo mondo di materiali cose in prima non v’eran forze le quali si svilupparono poi in certe epoche. Signori, così dimostrano le osservazioni della scienza, che queste forze non erano eterne. –  Quindi, finalmente domanderemo agli increduli, ad essi che pretendono di conoscere le forze unite alla materia, di spiegarci in qual modo le forze operino sulla materia. Per noi esporremo loro tre ipotesi: La prima: se quelle forze movevano la materia di conserva andando parallele fra loro? In questo caso non si sarebbero incontrate mai, e non avrebbero mai unito un atomo coll’altro per formare i corpi. La seconda: se andavano divergenti o convergenti? Noi osserveremo che, se andavano coi loro movimenti divergenti e senza unione fra loro, lasceremo agl’increduli di correre appresso al movimento eterno nello spazio infinito. Se erano divergente ed unite dimodoché una per esempio attirava la materia ad un centro, l’altra forza la spingeva in altra direzione come sono le due forze centripeta e centrifuga: allora la materia doveva pigliare una via di mezzo e segnar, come dicono, la risultante: e avremmo tutti gli atomi sempre in rotazione. La terza: se queste forze andavano forse libere e senza ordine? Allora avremmo miriadi e miriadi di forze, le quali con processo meccanico e fortuito (Buchner) spingendo sempre ogni atomo di materia come proprietà indivisibili sempre unite necessariamente alla materia inesorabilmente in moto (Moleschott) e in questo caso ciascuna forza spingendo il proprio atomo avrebbe prodotto la confusione eterna e non mai formato il mondo ordinato nel tempo. Sarebbe dunque l’eterno caos, come è un vero caos di confusione la mente di chi non vuol riconoscere Dio Creatore Onnipotente e Sapientissimo di tutto l’universo. In tanto noi vogliamo conchiudere: che cosa sanno gl’increduli intorno alla forza?…. sanno essi che cosa sia la forza? No. Sanno essi come le forze esercitan la loro azione sulla materia? No. — Ma che cosa sanno infine della forza? — Niente. Ma adunque il secondo articolo del loro credo è fondato sul saper niente! — Tanto può rinfacciare la scienza a quei signori increduli…..

Il terzo loro articolo è che vi son leggi eterne. Bene s’accorgono anch’essi che la materia e le forze sole produrrebbero l’eterna confusione e voglion farci credere che vi sian eterne leggi. E noi domandiamo prima di creder loro che ci faccian conoscere che cosa sono le leggi. Le leggi, dicono essi, sono una ferrea inesorabile necessità immutabile che domina l’attività della materia, regolano il movimento (Buchner p. 83), producono la formazione organica e il mondo non è che il risultato di tentativi, che vanno con processi fortuiti. (sempre nell’opera Materia e Forza). Ma la buona logica prima di tutto osserva; che, se vi son leggi vi debba essere un legislatore da cui emanano; e se queste leggi sono immutabili ed inesorabili, e vanno con ferrea necessità, bisogna dire appunto per questo, che obbediscono al Creatore legislatore che le ha date, e le mantien stabili, per conservar l’ordine dell’universo. Perché chi ha buon senso intende che le leggi sono ordini e norme, che sono date, da chi mira a conseguire un fine. Poi osserveremo in secondo luogo; che se queste leggi andassero con processi sempre in tentavi infiniti, non arriverebbero mai a formar qualche cosa di finito, perché chi va e non si ferma mai non arriva mai al fine del suo viaggio. Ma noi vediamo che le leggi che muovono la materia e dirigono le forze, sono ordinate a conseguire tanti fini particolari e li conseguono. Leggi fan muovere la materia nelle piante per farle vegetare e mantenere la specie: e le piante vegetan, mettono fuori i semi, li lasciano cader giù consegnandoli alla terra perché si sviluppino in piante novelle. Le piante così disseccano, perché hanno ottenuto il loro fine. Leggi dirigono l’istinto degli animali, e gli animali vivono, sentono, generano i loro simili e conseguiscono tutto il lor fine. Vi è un genere solo di creature le quali sono regolate da tante leggi; e non conseguiscono tutto il lor fine in terra. Siamo noi uomini che non otteniamo tutto il nostro fine in terra, diciamolo consolati, perché il nostro fine è conoscere, amare, adorare il Creatore che ci vuol con Lui beati per sempre in cielo; noi lo sentiamo che questo è il nostro fine…. Oh! ma voi ridete forse della nostra fede: e parlate fieri in nome della scienza? Ebbene noi vi risponderemo colla scienza di uomini dei più dotti. Sì, dice il gran Bacone da Verulamio (Novum organum) quando la mente umana considera separatamente le cause seconde, può talora fermarvisi e non uscire dall’ateismo; ma se progredisce oltre per riconoscere il lor legame e la loro concatenazione, si vede costretta di ricorrere ad una Divinità e ad una provvidenza divina. Perché, dice Marsilio Ficino (Teologia Platonica) gli elementi animati da forze contrarie non potrebbero formare un tutto saviamente armonizzato se non dipendessero da un principio: i limiti e i confini hanno bisogno di essere indirizzati ad un oggetto determinato per virtù di un regolatore sovrano: se fossero abbandonati a se stessi, per la necessità della lor natura opererebbero in senso opposto di, quell’intento……. L’intento non è conosciuto da quelle attività, ma vi dev’essere una Sapienza che ve lo conduca, come il sagittario indirizza la freccia. V’è un grande disegno, adunque dice Agassy tanto dotto (Fisiol. comp.) in tutta la creazione perfettamente maturato da principio invariabilmente proseguito. E questa opera di Dio infinitamente savio, il Quale governa la natura secondo le leggi immutabili. Noi osserveremo col sig. Bonnet dottissimo per tutto dell’ordine e dei fini; ma questi ordini e questi fini sono un effetto, quale n’è il principio?…….. Diciamo che se esiste l’universo, vi è fuori dell’universo una Ragione Eterna della sua esistenza. Così le forze intorno a cui noi studiamo, conchiude il professore Franceschi (Scienza e filosofia) in fisica in chimica e via discorrendo, son tutte forze subordinate, partono da principii, vale a dire da leggi, per servire a determinati fini; ma il principio dei principii, il fine dei fini riconducono ad uno Spirito ad una Mente Prima. È vero adunque, dice Ermanno Urlicci, che i risultamenti a cui vanno gli odierni studi della natura, anzi che riescire al panteismo, al materialismo, all’ateismo, provano il contrario, cioè che Dio è il creator della natura. Noi vogliamo conchiudere col Sig. Chamminy (Cristianesimo liberale) che la ragione ci fu data, perché Dio ne fosse il grande oggetto. Poiché il dire che vi siano leggi senza che vi sia mai stato legislatore è un ammettere effetti senza la loro causa, è un ammettere fatti senza che nessuno li abbia fatti a dispetto della ragione. Adunque il dire che vi siano leggi le quali sono ordinate a conseguir un gran fine, e, che conseguiscano il più gran fine, qual è l’ordine dell’universo, senza che vi sia mai stato un Ordinatore e Sommo Ordinatore, è un rinnegare la ragione … Increduli,…. il terzo articolo del vostro Credo non solo è fondato sul saper niente; ma è fondato sul negar la ragione del genere umano !… Per essere increduli bisogna rinnegar la ragione! – Ma lasciamo, lasciamo, che un grand’empio (Rousseau) perché ha talento di cui abusò tanto; non volle però rinnegare la propria ragione del tutto. Io mi umilio, e dico: Essere degli esseri io sono perché tu sei: egli è un innalzarmi alla mia sorgente il meditarti continuamente. L’uso della mia ragione più degno sì è quello d’annichilarmi dinanzi a Te. Assorgiamo adunque che tutto c’invita al primo, al sovrano legislatore, che modera, regola le creature a conseguir il fine colle sue leggi. Assorgiamo a Dio. Udite il gran Newton (lib. III Ottica) l’origine dice egli, di tutte le cose non può attribuirsi che all’intelligenza e alla sapienza di un Ente potentissimo, esistente sempre, presente ovunque, il quale ordinò a suo piacimento tutte le parti dell’universo, molto meglio che l’anima nostra il proprio Corpo che le è congenito. — L’armonia, dice ancora, è il prodigio di un tanto ordine, nelle terre, nei mari e nei cieli non da cagioni meccaniche e non da anime mondane, ma dalla potenza, dal consiglio, dall’arbitrio e dalla dominazione deriva del sommo imperatore Iddio, il quale non è già egli il mondo, lo spazio e la durazione; ma è necessario, eterno, immenso, infinito, presente dovunque per virtù e per sostanza, tutto uniforme e simile a Sé solo, tutto intelletto, tutto forza e tutto azione; e non a guisa di uomo, ma in sublimità divina, vietata a sguardo mortale, e manifestata solo negli effetti e nelle beneficenze per eccitamento dell’adorazione nostra e della virtù… Increduli, la scienza, la vera scienza grande vi confonde!…. Convertitevi!…. Dio benedetto! quale consolazione per un buon Cattolico sentire espressioni di Newton, un dei più grandi scienziati del mondo, che van tanto d’accordo colle espressioni di un gran Santo (le più filosofiche benché egli non si crede d’esser filosofo), san Bernardo che chiama Dio un Lume eterno, una Virtù Onnipotente, Una Volontà benevolentissima, Iddio insomma che creò il mondo per manifestare che Egli è il sommo Bene. Tanto è vero che la più grande e vera scienza conduce gli uomini a Dio, e confonde la stoltezza degli increduli cheli vorrebbero d’accordo col demonio da Lui allontanare. Qui anche vogliamo aggiungere che sì veramente questa credenza in Dio illumina la scienza. Difatti, con una gran mente, con un gran cuore e con la fede in Dio a quali sublimi vedute, a quali scoperte può essere elevato il genio umano, e quali grand’opere egli può fare. Galileo….. scopriva le leggi del moto; del pendolo; ma, quando vide la lampada oscillare la quale gli dié la spinta alla sublime scoperta, egli era in ginocchio in quel momento nella Cattedrale di Pisa a pregare Iddio! Newton…. scoprì le leggi della rotazione dei mondi del firmamento; ma studiava con rispetto la parola di Dio e faceva modo di provar coi calcoli la verità della Profezia di Daniele della morte del Figliuol di Dio fatto uomo! Keplero… scriveva la grand’opera sulla astronomia; ma la terminava con un inno al Creatore ringraziandolo « di aver rivelato con tutta la forza che Dio gli aveva dato, la sua gloria nella creazione (l’unica cosa buona di quest’opera è appunto l’inno al Creatore – ndr, -); colla speranza e santa gioia di goder un giorno nella gloria della luce eterna, dopo d’aver contemplato tanta luce nel tempo. » Volta, il più gran fisico che dava in mano al progresso il principio di tutto il gran movimento moderno; l’elettricità: ma dall’Università di Pavia andava alla parrocchia a insegnar la dottrina ai fanciulli. Comprendeva il progresso dell’umanità cominciare dal conoscere Iddio! E Linneo… il più dotto naturalista del mondo (Introitus) rapito in santo entusiasmo esclamava:

Oh Jehova Quam magnifica sunt opera tua!

Vir insipiens non cognoscit ea.

Stultus non animadvertit ea.

Avete capito? è uno stolto chi non conosce che l’universo è creato per la gloria di Dio. (Sistem. imp. nat): perchè fînis creationis telluris est gloria Dei. –

Deh oda il Sig. Moleschott quegli uomini grandi e dottissimi, che seppero spingere al più alto termine la ragione umana nello studio della scienza: e noi vorremmo che si temperasse nel suo ardimento, con cui proclama in nome della scienza: che il processo meccanico e fortuito abbia bandito l’idea di Dio e dell’intervento sopra naturale (Moleschott)! O tutti, che negate Dio in nome della scienza, ecco ciò che dice la scienza per mezzo di uomini che sono degni di esserne i rappresentanti, ai quali voi dovete degnarvi a far di cappello: se pur l’orgoglio, che vi fece sorgere contro l’Altissimo, non vi fa credere d’essere voi la scienza incarnata!.. Ricordatevi che quei grandi avevan nome (Newton, Keplero, Linneo, Volta. Essi fecero le grandi scoperte e scrissero le grandi opere, e voi……. E non fa sdegno leggere in tanti articoli di giornali e discorsi da cattedra vilipendere col nome di superstiziosa ignoranza la fede in Dio Creatore di tanti, di quasi tutti, e certo dei più grandi dotti del mondo universo, e del genere umano ?… Però può un fanciullaccio salire su di un mucchio di paglia, anche tutto in marciume e gridare « guardate, come son grande! » Ma non vogliamo noi essere i bimbi di ammirarli, benché si sono innalzati su di un mucchio di vecchi errori già confutati: anche che ascendano in una nube di confusione trascendentale in faccia a quei sommi. A quelli potremmo aggiungere tanti grandi luminari in altre scienze; aggiungere poi con tanta consolazione i migliori uomini del mondo, i Santi, e poi tutti gli onesti, lasciandovi della loro parte la ribaldaglia dei commetti-male, che non credono a Dio. Essi con tutta la loro boria di scienza, per noi sono meschini meschini! Noi si, ci prostreremo con quei bravi nel subisso del nostro nulla ad adorar Dio; e avremo compassione di voi, Sig. Moleschott, che avvilite l’anima vostra, che non è volgare, ad adorare la materia; sì avrem compassione sentendovi dire con tanta edificazione, le vostre orazioni colle mani giunte »  o metamorfosi della materia sacra parola! Al sol pronunciarla sentiam destarci nel petto un senso di profonda venerazione!…… (La circolazione della vita, lettera III). Noi tutti sentiamo nascerci nel petto un senso di venerazione verso Dio! Ma Dio non è materia morta, ma è una Virtù Onnipotente; Dio non è forza cieca, ma è un Lume Eterno; Dio non è legge eterna, ferrea necessità senza scopo, ma è una Volontà e Provvidenza benevolentissima, è il Sommo Bene che crea gli esseri per communicar del ben suo. Che se voi poi dite la materia eterna, onnipotente e sapientissima, e l’adorate per tale, vi risponderemo che voi, per la smania di combattere Iddio, Gli cambiate il nome; ma a vostro dispetto adorate Iddio Medesimo. Non vi accorgete, dice Seneca (che pur era un filosofo che viveva alla corte dell’imperatore Nerone, ma pur non ostante di quella mefitica atmosfera ancor conservavasi il buon senso), non intendete che mutate il nome di Dio? Che cosa è mai questa materia, natura eterna, intelligente, che ha forza onnipotente, che regge con leggi l’universo, fuorchè Iddio? Non intelligis mutare nomen Dei? Quid est aliud natura (materia) quam Deus? Ma se poi siete ostinati a voler dire: che materia, che forze, che leggi hanno creato l’universo; la scienza si ritira e lascia al buon senso di dare la sentenza su questa, che proponiamo per ischerzo, questione: — se sia più ragionevole il dire : che Dio Eterno, Onnipotente, Sapientissimo, Provvidentissimo e Sommo Bene abbia creato il mondo, o dire che il mondo sia stato creato da tre orbi, che dall’eternità giuocano le bastonate, la materia, le forze e le leggi. Ma almen fossero tre orbi, che avessero un lumicino di ragione, ché saprebbero forse misurarsi tra di loro certi colpi per benino! Signori no: tre orbi muti, irragionevoli, che vanno con tentativi infiniti senza saper dove vanno, hanno formato e cieli e terra, e piante e animali, e tante anime buone che hanno ancor buon senso! E il buon senso conchiude, quel che prova la ragione e la scienza: che in principio Iddio ha creato il cielo e la terra: e il genere umano non si curando di chi lo nega, adorerà sempre il Creatore Iddio.

Esame.

Nell’accompagnare la scienza che rende omaggio all’Eterno Creator del tutto, noi ci trovammo sempre dinnanzi e ci siam reso famigliare il pensiero dell’eternità, e adorammo la grande idea di Dio. Ora ogni verità meditata esige da noi un dovere; è il dovere che esigono queste due grandi verità, Dio e l’eternità, è di dar gloria a Dio Creatore e di mettere noi, giacché Egli ci destina, in salvo nella sua beatitudine eterna. Come adempimmo noi a questo dovere universale della vita? Forse i nonnulla del tempo ci rubarono i pensieri dovuti a Dio e all’eternità?… Poveri noi! che non siamo sorpresi dall’eternità, senza aver avuto tempo a pensarvi! Che non accada a noi come al dotto Archimede! Egli era tutto nei suoi studi e sprofondato nelle difficoltà del calcolo, non si era accorto che la sua città di Siracusa era già presa dai nemici, non udiva il fragor dei palazzi che cadevano incendiati a rovina, non sentiva i gemiti dei cittadini che gli morivano tutti d’intorno, non s’accorgeva che entrava furente il soldato per ammazzarlo! Sol quando quegli alzò la mazza per colporlo, alzò la faccia…. ahi! vide solo il colpo di morte e cadde colpito da quello. – E forse non avviene a tanti e tanti, che occupati negli studi e nel far roba, non s’accorgono che già li sorprende la morte? Non han tempo neppur di dire: « Gesù e Maria!…» ah sono già nell’eternità senza il pensiero di Dio! …

Grande avviso per la Pratica.

Dio, Dio è il Creator di tutto che ci vuole seco beati. Facciamo tutto a gloria di Dio per mettere per mettere in Lui in salvo l’anima nostra nella eternità di Dio.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (22)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (22)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni

ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO V.

ART. III. — IN CHE MODO ASSISTERE ALLA SANTA MESSA.

Dacché la quantità dei frutti che ricaviamo dalla santa Messa dipende in gran parte dal fervore delle nostre disposizioni, si deve cercare che queste disposizioni siano più perfette possibili. Dobbiamo quindi entrar nello spirito delle preghiere della Messa e del loro intreccio, essendo questo il mezzo migliore di unirci ai sentimenti della Chiesa e del divino suo Capo. Lasciando i troppo minuti particolari, ci contenteremo di indicare qui il principio che ci deve guidare e il metodo che possiamo seguire assistendo al santo Sacrificio.

1° I] principio direttivo.

Il fine del santo sacrificio della Messa è di farci entrare nei sentimenti di Gesù Sacerdote e Vittima. Se la Chiesa ci pone sotto gli occhi il Sacrificio del nostro Capo, è perché noi sue membra possiamo unirvi il Sacrificio nostro, onde il tutto riesca accetto a Dio Padre Onnipotente. Quindi il modo migliore di sentire la Messa è di unirsi alle disposizioni del divin Crocifisso presente sull’altare. Gli è per questo che la Chiesa, fin dall’offertorio, invita i fedeli a unire il loro sacrificio a quello della Vittima divina e a pregare perché questo doppio sacrificio sia accetto a Dio. Gli è per questo che nel Prefazio vuole che levino i cuori a Dio, per ringraziarlo, benedirlo, lodarlo, e proclamare la sua santità, onde potersi accostare a questa perfezione ideale. E quando il Sacerdote leva in alto l’Ostia, non lo fa forse per rammentarci che Colui il quale fu levato per noi in croce ci invita e ci aiuta a portar la nostra croce dietro a Lui? – Ci sono di quelli che seguono attentamente la Messa, che l’accompagnano con molti pii affetti, ma che poi, usciti di Chiesa, dimenticano la lezione pratica data loro dal divin Crocifisso, e si lagnano delle noie, del lavoro, dei patimenti, come se la via del paradiso non fosse la via dolorosa battuta dal divino Maestro. Non si prendano abbagli: Gesù ripete innanzi ai nostri occhi il vivo ricordo della sua passione e morte per animarci a camminar sulle sue orme, perché ci risolviamo a portare quotidianamente la nostra croce come Egli portò la sua. Assistere alla Messa non vuol dire soltanto effondere il cuore in santi affetti, ma vuol anche dire entrare nei sentimenti del divin Salvatore; vuol dire offrire a Dio, unendoci a Gesù, le nostre pene, le nostre angustie, gli sforzi necessari per adempiere a ogni costo il nostro dovere; vuol dire prender la propria porzioncina della croce di Gesù; vuol dire accettare di esser vittima, di sodisfare per i peccati propri ed espiare, occorrendo, gli altrui; vuol dire attingere negli esempi del divino Maestro e nella grazia che ci largisce, la forza necessaria per calcarne le orme e imitarne le virtù. Intesa a questo modo, la Messa sarebbe veramente anche il sacrificio nostro come è quello di Cristo, e i nostri patimenti verrebbero ad associarsi ai suoi per non formare insieme che una sola e medesima ostia gratissima a Dio e santificantissima per noi e per le persone che ci sono care. – Questo appunto intese Gesù quando istituì l’Eucaristia sotto forma di Sacrificio e di Comunione. Molti credono che l’uno sia del tutto indipendente dall’altra. Non è così: la Comunione è il compimento normale del Sacrificio, perché destinata a effettuare l’unione del Capo colle membra e a trasfonderci i sentimenti e le disposizioni di Gesù-Ostia. Il nostro principio è quindi semplicissimo: per assistere bene alla Messa bisogna unirsi a Gesù-Ostia, e per unirsi bene a Gesù-Ostia bisogna comunicarsi. Così l’avevano intesa i primi Cristiani; e a questo c’invita il Concilio di Trento: « Il sacro Concilio bramerebbe che tutti coloro che assistono al Sacrificio, vi partecipassero ». – « Perché – dice Bossuet – il sacro Concilio brama questo (Médit. sur l’Evang., I partie, LXIV jour) se non perché lo brama Gesù stesso? O voi tutti che assistete alla Messa, corrispondete a questo desiderio della Chiesa… Se non frequentate ancora molto la Comunione, piangete almeno, gemete; riconoscete tremando che il Cristiano dovrebbe vivere in modo da potersi comunicare tutti i giorni ». Che se non possiamo comunicarci sacramentalmente, facciamo almeno la comunione spirituale, ed entriamo quanto più ci è possibile nei sentimenti della vittima divina; è questo il modo migliore di assistere alla Messa.

2° Metodo per assistere alla Messa.

Vi sono, è vero, molti metodi di assistere fruttuosamente alla Messa (Si trovano nei libri di pietà; ed è bene usare ora l’uno ora l’altro per evitar l’abitudine), e dovrà dirsi il migliore per ognuno quello che gli riesce meglio. Ma il più conforme allo spirito della Chiesa, e il più fruttuoso in sé è di associarsi al celebrante, recitando con lui dal fondo del cuore almeno alcune di quelle venerande formole di preghiera che si trovano nel Messale (diciamo alcune; perché vi sono anime che gusteranno di più queste preghiere e ne trarranno maggior vantaggio se, in cambio di volerle recitar tutte, ne assaporeranno lentamente alcune soltanto), delle quali le più antiche risalgono alle prime età cristiane. Ma per recitarle bene è necessario intenderne il senso e capirne l’intreccio. – Non possiamo spiegare qui per minuto tutte le preghiere del Messale né dire il significato di tutte le cerimonie. Ma il darne una sintesi e il rilevarne l’idea maestra, agevolerà ai fedeli l’intelligenza dell’atto religioso a cui prendono parte e li aiuterà ad entrar meglio nei sentimenti di Gesù e della sua Chiesa. Ora l’idea dominante è che la Messa è una vivente rappresentazione del dramma del Calvario; onde occorre fin dal principio figurarsi vivamente la scena del Calvario quale è descritta dal Vangelo.

A) Tutto ciò che precede l’Offertorio è come una preparazione al Sacrificio e chiamavasi una volta Messa dei catecumeni, perché essi, che non potevano ancora assistere alla Messa propriamente detta, avevano diritto di partecipare a queste preghiere preparatorie. Vi dominano tre sentimenti:

a) Innanzi tutto la penitenza: ritto a piè dell’altare, il Sacerdote fa la confessione, diciamo così, di tutto il popolo cristiano (Confiteor) e implora umilmente dal Dio delle misericordie il perdono dei suoi peccati. Nel salmo Judica me Deus, chiede a Dio che lo stacchi sempre più dall’uomo ingiusto e fallace, che faccia risplendere all’anima sua la luce della verità, perché possa salire al santo altare e trovarvi il gaudio, il conforto, la salute. Il Confiteor è l’umile confessione dei suoi peccati, onde ottenerne il perdono per la virtù del divino Sacrificio; gli assistenti gli si associano per implorare la misericordia divina, Misereatur, Indulgentiam. Così riconfortato, il Sacerdote sale all’altare insieme col popolo cristiano che lo accompagna in ispirito, e implora di nuovo, pei meriti dei santi, la remissione di tutti i suoi peccati, Aufer a nobis, Oramus te Domine. – Gli stessi sentimenti esprime nel Kyrie eleison, rivolto alle tre divine Persone della santissima Trinità perché tutte e tre concorrono alla nostra santificazione.

b) Nel Gloria in excelsis echeggiano i sensi di amore e di riconoscenza del peccatore perdonato diretti alle tre divine Persone e in particolare all’Agnello di Dio che rimette i peccati del mondo. Seguono calde preghiere per partecipare ai frutti del sacrificio (Collectæ).

c) L’Epistola e il Vangelo ci pongono dinanzi agli occhi la parola di Dio, quella parola di vita che illumina e fortifica le anime. E noi vi diamo adesione piena ed intiera nel Credo, espressione di quella fede sincera e generosa che intende di mettere in pratica ciò che crede. – Questi pii sentimenti non possono che disporre bene l’anima alla grande azione che si verrà ora svolgendo.

B) Il Sacrificio propriamente detto comprende tre atti, tre atti di donazione e di amore: l’offerta della vittima, la sua immolazione, e la comunione che ci unisce alla vittima immolata.

a) L’Offertorio. Il Sacerdote primieramente offre la materia del Sacrificio, il pane e il vino che già rappresentano il corpo e il sangue di Gesù Cristo; li offre in espiazione dei peccati del popolo cristiano e per la salute di tutto il genere umano. E sapendo che i fedeli sono il Corpo mistico di Cristo, li offre tutti e offre insieme se stesso, uniti colla vittima principale, in ispirito di umiltà e col cuore contrito; supplicando la santissima Trinità di accettare quest’offerta di tutto il Cristo mistico e invitando i fedeli ad associare le loro preghiere alle sue, Orate, fratres. Oh! Non dobbiamo starcene semplici spettatori in quest’offerta! Gesù, nostro capo, si offre tutto, si distacca dalle creature e da se stesso per darsi a Dio e riconoscere la somma sua dipendenza da lui; dobbiamo anche noi entrare nei suoi sentimenti, distaccarci anche noi dalle creature e da noi stessi per darci interamente a Dio. Se non riusciamo a spezzare di un sol tratto tutti i nostri vincoli, studiamoci almeno d’infrangerne qualcuno ogni giorno: Gesù ci verrà in aiuto colla virtù del suo Sacrificio. Ripetiamo con un’anima santa: (Madre MARIA di Gesù, Lettres, p. 236) « Vogliamo tenerci nascosti in questo calice divino come la goccia d’acqua che il Sacerdote mescola col vino dell’altare, affinché le nostre umili riparazioni e il nostro sacrificio si mescolino col Sacrificio del nostro Salvatore e così dell’offerta sua e della nostra non si faccia che un’unica offerta ».

b) Il Prefazio preludia all’azione propriamente detta, all’immolazione mistica della Vittima. Con un magnifico dialogo tra il sacerdote e il popolo cristiano, veniamo invitati a levare il cuore a Dio, a ringraziarlo di tutti i suoi benefici, specialmente del beneficio che compendia tutti gli altri, dell’Eucaristia. « Quando – dice sant’Agostino – quando sentite il sacerdote dirvi in alto i cuori e voi rispondete li teniamo sollevati al Signore, fate in modo che la vostra risposta sia sincera e conforme a verità. Si tratta di cose divine: sia così come dite: ciò che dice la lingua non disdica la coscienza ». (Sermone citato da M.DE LA TAILLE, Mysterium fidei, p. 345). – Il Sanctus ci rammenta che fine primario del Sacrificio è proclamare la grandezza e la santità di Dio. Ma il Te igitur ci mostra che fine secondario è la partecipazione delle anime a questa divina santità; ecco perché preghiamo per tutti i grandi interessi della Chiesa, per il Papa, per i Vescovi, per il popolo cristiano, e specialmente per coloro che offrono o per cui si offre la Messa, e per gli assistenti. E poiché la Chiesa militante è in comunione colla Chiesa trionfante, nel Communicantes ci associamo alla Vergine Maria che ci diede Gesù, ai santi Apostoli, ai Martiri, a tutti i Santi, membri insigni del Corpo mistico di Cristo, per potere colla loro intercessione trar vantaggio dalla Messa a nostra santificazione e a nostra salute eterna. – All’Hanc igitur il sacerdote giunge le mani, le stende sul calice e sull’ostia, e offre nello stesso tempo sé e gli assistenti insieme colla grande Vittima, onde essere pei suoi meriti preservati dall’eterna dannazione e annoverati nel numero degli eletti: grazia suprema che non potremo mai chiedere troppo.

Siamo al momento solenne della Consacrazione. Il Sacerdote, prendendo ora più che mai il posto del sommo Sacerdote Gesù, pronuncia lentamente, religiosamente, sommessamente quelle parole stesse che Gesù pronunciò nell’ultima Cena. Ed ecco che schiudonsi i cieli e Gesù scende sulla terra e si nasconde sotto le specie del pane e del vino. Vi è tutto intero, col corpo, col sangue, coll’anima, colla divinità. Il Sacerdote lo leva in alto, lo offre alla santissima Trinità come Ostia pura, santa, immacolata, come pane santo della vita eterna e calice della salute perpetua. I fedeli, umilmente prostrati e associati agli Angeli e ai Santi che attorniano il tabernacolo, adorano in silenzio il Verbo incarnato, Gesù-Ostia, e per mezzo suo adorano, glorificano, benedicono, lodano Dio Creatore e Santificatore, e tutte e tre le divine Persone. Ma soprattutto offrono le adorazioni e gli ossequi della Vittima infinitamente accetta al Padre, lieti di poterlo così glorificare come si merita. Con piena confidenza quindi supplicano 1’Altissimo di volgere benigno lo sguardo a questa Vittima più santa di quelle che offrirono un giorno il giusto Abele, il patriarca Abramo, il sacerdote Melchisedech; e fidenti pregano l’Onnipotente che dia ordine che quest’Ostia sia recata per mano dell’Angelo santo dinanzi al trono della divina sua Maestà, affinché tutti quelli che partecipano al Sacrificio e alla Comunione siano ricolmi di ogni celeste benedizione. Il nostro cuore può quindi ripetere con san Tommaso d’Aquino:

« O Memorial della Passion di Dio,

Vivo pan che la vita all’uom puoi dar,

Viva sempre di te lo spirto mio,

Le tue delizie fammi ognor gustar ». (Inno Adoro te devote).

Anche i fedeli defunti vengono ricordati e si chiede che tutti, ma specialmente coloro per cui viene applicata la Messa, entrino presto nel luogo del refrigerio, della luce e della pace (Memento etiam…). – E dacché il peccato è il solo ostacolo alla visione di Dio, si prega che noi poveri peccatori (Nobis quoque peccatoribus) possiamo ottenerne il perdono dalla divina misericordia e avere un dì parte alla gloria dei santi col venire ammessi nel loro beato consorzio. Tutte queste grazie si chiedono per Gesù Cristo, per cui ci vengono tutti i beni, la creazione, la santificazione, la vita soprannaturale. Quindi per Lui, con Lui, in Lui, rendiamo a Dio Padre onnipotente unitamente allo Spirito santo e santificatore ogni onore e ogni gloria. – Abbiamo così dato un pallido compendio di quel Canone della Messa in cui Gesù s’immola misticamente per richiamarci l’immolazione cruenta del Calvario e trarci seco all’amor della croce. Saremmo ingrati se non entrassimo amorosamente nel suo spirito di vittima! Oggi molte anime, sull’esempio della cara santina Teresa del Bambin Gesù, si offrono vittime di amore per sopportare tutti i patimenti che piacerà al Signore di mandare. Se non ci dà l’animo di fare altrettanto, offriamoci con Gesù almeno per adempiere meglio i doveri del nostro stato, per accettare con maggior rassegnazione ed amore le tribolazioni e gli affanni che Dio ci manda, per fare quotidiani progressi in qualche virtù, per praticare quelle mortificazioncelle e quelle piccolezze che tengono vivo lo spirito di amore e di sacrificio. Saremo allora anche noi vittime, sebbene imperfettamente; e partecipando ai patimenti del Salvatore, ne parteciperemo pure la gloria. È questo, del resto, lo scopo della terza parte della Messa, ossia della Comunione.

c) Col Pater comincia la preparazione alla Comunione. Membri del Corpo mistico di Gesù,ripetiamo con santa confidenza la preghiera chec’insegnò Egli stesso, la più bella preghiera delmondo, il Pater noster. Porgiamo con Lui alPadre celeste i nostri doveri religiosi, bramandoche il suo nome sia conosciuto, amato e glorificato,che il suo regno si estenda su tutto il mondo,che si faccia la sua volontà sulla terra comesi fa nel cielo. Imploriamo con lui tutte le graziedi cui abbiamo bisogno, specialmente quel paneeucaristico che compendia tutti gli altri doni;lo supplichiamo che ci perdoni i peccati passati;che ci preservi da quelli che potremmo commetterenell’avvenire; che ci dia quella pace che superaogni intelligenza (Fil. IV, 7) e che prepara l’unione intimae permanente con Gesù. – Perdono, pace,unione chiediamo pure nell’Agnus Dei e nelletre preghiere che seguono.Viene allora la santa Comunione. Confessando,come il centurione, la propria indegnità mafidenti nella divina misericordia, il Sacerdote, edopo di lui il popolo fedele, mangiano e bevonoil corpo e il sangue del Salvatore, e si unisconocoll’intimo dell’anima a tutta la Persona di Gesùe ai più intimi suoi sentimenti, e per lui a Diostesso, alle tre divine Persone della santissimaTrinità. L’arcano sacro dell’unione è consumato:noi non facciamo più che un cuore solo eun’anima sola con Gesù, e non facendo Lui cheuna cosa sola col Padre e collo Spirito Santo,ecco avverata la preghiera del Salvatore nell’ultimaCena; « Io in essi e tu in me; affinché siano perfettamente uni, e che conosca il mondo che tu mi mandasti, e che amasti loro come amasti me… Feci noto ad essi il tuo nome e lo farò noto ancora, affinché l’amore con cui amasti me sia in loro e sia io pure in loro » (S. Giov. XVII, 25, 26).Oh! momenti deliziosi in cui il nostro cuore batte all’unisono col cuore di Gesù! Adoriamo, lodiamo, benediciamo con lui quel Dio che hafatto in noi cose sì grandi. E lui pure adoriamo perché è nostro Dio, e tanto più devotamente l’adoriamo quanto più umilmente si nasconde e si annienta per noi. Dopo questa silenziosa adorazione, apriamo l’orecchio del cuore per ascoltare l’Amico, lo Sposo, il Maestro, che si degna di trattenersi con noi; e raccogliamo amorosamente anche le più piccole parole, i più piccolidesideri del nostro Diletto. Ci pare in quel momento di essere pronti a concedergli tutto, a non rifiutargli nulla; ci pare che lo sforzo a perseverare nel bene più non ci spaventi; ci pare di non essere più soli, di sentirci attaccati a Cristo come i tralci al ceppo della vite, di ricevere da Lui vita e forza. Anche noi, come i discepoli d’Emmaus (S. Luca, XXIV, 32), ci sentiamo dentro ardere il cuore mentre Ei ci parla,e siamo pronti a lavorar con Lui in tutto il corso della giornata.Volentieri offriamo allora l’anima tutta; le creature non hanno più attrattiva per noi; cessa per un momento o almeno diminuisce il nostro egoismo; vogliamo Dio, la sua gloria, la sua volontà, anche se ci chiede austeri sacrifici. Gli è che Gesù vive in noi col suo spirito di santità, di fortezza, di pazienza, di dolcezza, d’umiltà, di carità. Memori però della nostra debolezza, lo supplichiamo di rassodare in noi il suo regno e la sua vita, di restar con noi secondo la sua promessa, onde, pieni del suo Spirito, adempiere gli ordinari nostri doveri con raddoppiato ardore, intesi unicamente a piacere a Dio. Ma, confessiamolo pure, non sempre sentiamo questi ardori; alle volte pare che l’aridità e la noia ci invadano l’anima e la coprano di fitte tenebre, volendo così Dio provare la sincerità del nostro amore e farci sentire la nostra impotenza. È una ragion di più per tenerci strettamente uniti a Gesù, a Gesù-Vittima. Egli pure passò per la tristezza e per la noia, specialmente quando nell’orto degli Olivi si vide carico dei nostri peccati. Tanto amaro gli parve quel calice che pregò per un momento che s’allontanasse da Lui; ma poi, subito rifattosi, soggiunse: « Padre, non la mia volontà si faccia, ma la tua » (S. Luc. XXII, 42). E così si rassegna l’anima che, nel momento stesso della Comunione, è invasa dall’aridità: sa di meritarlo, e, pur pregando che il calice dell’amarezza si allontani, amorosamente l’accetta unendosi a Colui che per lei bevette il calice sino alla feccia. Una cosa sola ella chiede, che non avvenga mai che sia separata da Colui che è la sola sua felicità come è la sola fonte della sua perfezione. Ebbene, quest’umile sottomissione, tanto più meritoria quanto più penosa, glorifica Dio e santificare questa povera anima più che tutte le proteste di amore fiorite al calore della consolazione. Ottima cosa pure l’unirsi agli atti di riconoscenza e di amore della santissima Vergine, la più perfetta adoratrice di suo Figlio. Se il nostro cuore è freddo, se non possiamo trarne una sola scintilla di amore, possiamo almeno offrire a Gesù quanto di più tenero e di più generoso è nel  cuore immacolato di sua Madre, tutti i suoi più affettuosi sentimenti. Questo Figlio divino ne resterà innamorato; e allora noi lo supplicheremo di trasfonderci alcuni di questi sentimenti così perfetti. E diremo pure a questa buona Madre: Giacché siete Voi che avete rapito il cuore di Gesù per darlo a noi, rapite ora il cuore nostro per darlo a Gesù, giacché il vostro cuore è la copia vivente del suo Cuore divino, rendete la povera anima nostra simile alla vostra, onde possa assomigliare un poco a quella di vostro Figlio.

C) Colla Comunione, che così intimamente ci unisce a Dio, termina il Sacrificio propriamente detto. Ma, in quel modo che la Messa propriamente detta è preceduta da preghiere preparatorie, così è giusto che sia pur seguita da alcune altre preghiere che servano di conclusione. Sono brevi preghiere che chiedono istantemente che il corpo e il sangue di Gesù producano in noi effetti durevoli facendoci entrare sempre più addentro nelle disposizioni di Nostro Signore e nello spirito della festa che corre. – Il Sacerdote poi, baciato l’altare che rappresenta Gesù Cristo, benedice il popolo cristiano, o meglio chiede al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo di benedirlo. Rammentiamoci che le benedizioni di Dio non sono, come quelle degli uomini, semplici auguri ma producono ciò che significano, e che per Dio benedire è fare del bene. L’ultimo Vangelo è come un compendio di tutta la Messa. Ci presenta il Verbo divino che vive da tutta l’eternità nel seno del Padre, che vi attinge la vita nella originaria sua fonte, che si fa uomo, che colma di grazia e di verità l’anima umana del Salvatore; e poi Gesù che viene ad abitar fra noi e a vivere in noi coi suoi tesori di vita per comunicarceli con santa prodigalità. È tutto il mistero dell’Incarnazione che si rinnova e si sintetizza nell’Eucaristia; nulla di meglio per chiudere questo sublime dramma che è il sacrificio della Messa.

CONCLUSIONE. Se vogliamo un perfetto modello dei sentimenti che debbono animarci nell’assistere alla santa Messa, non cerchiamone altro fuori di Maria ai piedi della croce. Ritta in piedi, in atteggiamento di sacrificatrice, Ella offre il Figlio e offre se stessa vittima con Lui, perché Dio sia glorificato e gli uomini salvati. Prende parte al dolori e alle disposizioni interiori della Vittima divina: soffre nel cuore tutti i tormenti, tutti gli obbrobri, tutte le umiliazioni che Gesù soffre nel corpo e nell’anima. È martire in sommo grado, perché soffre di più a veder patire il Figlio che se patisse ella stessa tutte quelle angosce. Ed è liberamente martire, perché, sapendo che questo Sacrificio è necessario alla gloria di Dio e alla salute nostra, dà il suo consenso all’opera riparatrice compita dal Figlio e lo dà amorosamente, lieta di cooperare alla nostra redenzione. Quanto fecondi non sono quindi i suoi dolori! Patendo con Gesù e colle sue intenzioni, Maria avrà poi parte alla distribuzione della grazie da Lui meritate e sarà, in modo secondario e dipendente dal Figlio, mediatrice universale di grazia. E Gesù, a manifestar questo suo ufficio, le dà prima di spirare, per figlio san Giovanni e in san Giovanni tutti i Cristiani. – Quando dunque assistiamo alla Messa, trasportiamoci in ispirito sul Calvario, inginocchiamoci umilmente presso Maria, Madre del Salvatore e Madre nostra, e supplichiamola di trasfonderci in cuore qualche cosa dei sentimenti che la animavano a piè della Croce. Le strofe dello Stabat Mater ci suggeriranno ottime preghiere su questo punto:

Madre mia, fonte d’amore, / Fa che il grande tuo dolore / io senta e teco lacrimi. / Fa che tutto arda il cuor mio / Nell’amor di Cristo Dio, / Tal ch’io gli sia gradevole. / Santa Madre, in questo cuore / Deh! le piaghe del Signore / Validamente infiggimi! /Del tuo Figlio vulnerato, / Che è per me sì tormentato, / Le pene condividimi. / Fa ch’io pianga piamente, / Fammi a Cristo condolente, / Fin che mi duri il vivere. / Alla croce io teco stare / E il mio cuore associare / Nel pianto a te desidero. / Delle vergini o preclara, / Deh! non essermi più amara, / Fammi con teco piangere! / Fa ch’io porti la sua morte, / Fammi a lui in patir consorte / E di sue piaghe memore. / Sta alle piaghe io vulnerato, / Sta alla croce inebriato / E al sangue del tuo Unico.

È chiaro che entrare in questi sentimenti di Maria è un corrispondere al desiderio di Gesù, che volle che la Messa fosse un memoriale e una rappresentazione vivente della sua passione; è un partecipare ai sentimenti di Gesù stesso e un ricevere copiosamente i frutti del santo Sacrificio; è un serbarsi unito al divin Crocifisso in tutto il corso del giorno, offrendo con Lui e per Lui tutte le nostre azioni come altrettante vittime immolate dall’ubbidienza e dall’amore. La nostra vita allora si trasforma: in cambio di correr dietro al piacere come fanno i mondani, ci attacchiamo al dovere come Gesù si attaccò alla croce. La croce è per noi il divin Crocifisso; la abbracciamo amorosamente e presto conosciamo per esperienza la verità di quelle parole dell’Imitazione (Imit. L. II, c. 12, II, 2): « Nella croce è salute, nella croce è vita, nella croce è difesa dai nemici; nella croce è infusione di celeste soavità, nella croce è vigore di mente, nella croce è gaudio di spirito; nella croce è somma di ogni virtù, nella croce è perfezione di santità ». Ecco dunque che il Sacrificio della Messa ci fa amare e portare da forti la croce, e la croce è la via regia della perfezione cristiana.

CONCLUSIONE GENERALE.

È dunque pienamente vero che le grandi verità cristiane che siamo venuti esponendo sono verità che generano nell’anima la cristiana pietà.

1) Ci dicono l’infinita bontà e l’infinita sapienza del Padre che, volendoci adottare per figli, c’invia l’unico suo Figlio, il suo Verbo, e lo fa uomo come noi, perché, divenuto nostro fratello senza cessar d’esser Dio, ci possa comunicare una partecipazione di quella vita divina che attinge nel seno della divinità. Ci dicono l’amore infinitamente generoso di questo Dio fatto Uomo che, vissuto e morto per noi, ci monda dai nostri peccati e ci fa entrare nella famiglia divina coll’elevarci alla dignità di figli adottivi di Dio e incorporarci a quel Corpo mistico di cui egli è il Capo e noi le membra. Ci dicono l’amore santificatore dello Spirito Santo. Figli adottivi di Dio, membra e fratelli di Gesù Cristo, siamo pure templi dello Spirito Santo. Spirito di luce e di amore, che procede dal Padre e dal Figlio, viene ad abitare nell’anime nostre, le orna della grazia santificante che è vera partecipazione alla vita divina; v’infonde le virtù e i doni, e colla sua grazia attuale ci aiuta a coltivare tutto questo organismo soprannaturale inseritoci nel più intimo dell’anima. S’incomincia così a intravvedere la natura e la nobiltà di questa vita soprannaturale che, pur rispondendo a un arcano e profondo sospiro del nostro cuore posto gratuitamente in noi dal Padre celeste, supera tutte le nostre capacità naturali, tutte le nostre esigenze, tutto ciò che avremmo mai potuto desiderare nei più ambiziosi nostri sogni. Ci erompe allora dal cuore quel grido di riconoscenza e di amore: « Sia ringraziato Dio dell’ineffabile suo dono! Gratias Deo super inenarrabile dono eius » (IICor. IX, 15). Vedendo ciò che fanno per noi le tre divine Persone, desideriamo, vogliamo render loro amore per amore; e pensiamo che non potremo mai far troppo, che non faremo mai abbastanza per corrispondere alla infinita loro bontà. Se quindi Gesù ci chiede che siamo perfetti come è perfetto il Padre celeste, capiamo bene che nobiltà impone doveri e che con sforzi energici e costanti dobbiamo correggere i nostri difetti, acquistare le cristiane virtù, e accostarci così quanto più è possibile a quella perfezione ideale. Per riuscirvi, bisogna certo darci interamente a Dio; ma come potremmo negar qualche cosa a Colui che ci dà il proprio Figlio e con Lui tutti i suoi tesori? Ci diamo quindi a seguir Gesù Cristo, perfetto modello di vita cristiana. E Gesù ci dice, è vero, che bisogna rinunziare a noi stessi e portar la nostra croce; ma chi generosamente nol farebbe vedendo che il divino Maestro ci precede nella via regia del Sacrificio e che porta una croce molto più pesante della nostra, quella croce che avremmo dovuto portare noi per ragione dei nostri peccati? Ci sentiamo pure indotti a non negar nulla allo Spirito Santo che vive in noi e non può santificarci se non chiedendoci di collaborare prontamente e attivamente con Lui. Ma come dir di no a Colui che è il primo colla sua grazia ad aprirci la via, a suggerirci ciò che dobbiamo fare, e aiutarci a farlo? Ma poi, ad agevolarci il lavoro, non abbiamo forse gli esempi e i meriti di Gesù e l’intercessione così efficace di Colei che, essendo Madre di Gesù e Madre nostra, è la più potente delle mediatrici? È veramente così: la considerazione, la meditazione, la contemplazione dei misteri di Gesù, fonte della nostra vita soprannaturale, ci trae davvero con impeto irresistibile alla pratica delle più belle virtù.

2) Ma questo Gesù, che è pure il nostro Sommo Sacerdote, vuole farci partecipare anche al suo Sacerdozio e al suo Sacrificio. Comunica quindi ai suoi Sacerdoti il suo carattere sacerdotale e i suoi poteri e dà loro tal pienezza di grazia da diventare anch’essi arcani canali che, in nome suo e per i suoi meriti, distribuiscono alle anime la grazia; il che fanno coi sacramenti e col santo Sacrificio della Messa. Riescono così ad essere ai fedeli coadiutori possenti, mediatori secondari, dispensatori dei divini misteri. In sostanza noi non abbiamo da invidiar nulla ai contemporanei di Gesù: i Sacerdoti fanno discendere sull’altare per noi il Redentore, ci associano al suo Sacrificio e al suo Sacerdozio, ce lo danno nella santa Comunione e ci danno con Lui tutti i tesori celesti. A trarne profitto, si richiede, è vero, che ci uniamo al suo Sacrificio, perché nella nuova Legge il Sacerdote è nello stesso tempo sacrificatore e vittima; ma chi ricuserebbe di immolarsi con Colui e per Colui che quotidianamente s’immola per noi e ci applica i frutti del suo Sacrificio? per Colui che, coll’esempio e colla preghiera dei suoi rappresentanti visibili, ci agevola in modo singolare il nostro dovere? – Anche la Vergine santissima che, pur non avendo il carattere sacerdotale, fu associata in modo così eminente agli uffici del Figlio Sacerdote, invita coi suoi esempi e colle sue preghiere i fedeli a compiere gli uffici e i doveri del mistico sacerdozio a cui partecipano anche loro. Assistendo alla santa Messa a questo modo, non passivamente ma attivamente, come si addice a coloro che sono in un certo grado iniziati al regale sacerdozio di Cristo, i Cristiani ottengono una più larga parte dei frutti della Redenzione. Uniti al Sommo Sacerdote e ai visibili suoi rappresentanti sulla terra, sorretti dalla Madre di questo Sommo Sacerdote, investendosi dei sentimenti della vittima divina e prendendo parte alle sue disposizioni e alle sue virtù, divengono anch’essi, a loro modo, rappresentanti di Cristo, e possono sperare di avere in cielo parte alla sua gloria in quella misura che prendono parte sulla terra al suo Sacrificio. Membri del suo Corpo mistico, parteciperanno allora più che mai alla sua vita, e con Lui contempleranno e ameranno Dio per tutta l’eternità.

F I N E

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (6)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (6)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed.Brescia, 1957.

CAPITOLO SECONDO

L’ASCESI DEL SILENZIO

« Qual è il punto della Regola che preferite? ».

«Il silenzio »

1) La santa del silenzio — 2) Il silenzio esteriore – 3) II silenzio interiore — 4) Divinum silentium.

Due sono gli elementi fondamentali che costituiscono la essenza di ogni santità: lo spogliamento di sé e l’unione con Dio; e sempre, sotto le sfumature più varie, li troviamo nella vita dei santi. In una carmelitana, l’aspetto negativo riveste la forma di una separazione assoluta. Il Carmelo è il deserto. Dio solo. Ma, tra le anime carmelitane stesse, ciascuna vive in maniera tutta propria questa dottrina del « nulla » della creatura e del « Tutto » di Dio, tanto cara a san Giovanni della Croce, il dottore mistico del Carmelo. Ogni stella differisce dall’altra, non solo per grandezza, ma per una sua luce tutta propria, per un suo particolare splendore. Dio è multiforme nei suoi santi. E vano sarebbe voler fare entrare in un identico stampo due santi di una medesima famiglia religiosa: sotto i caratteri comuni, essi nascondono differenze irriducibili. Ora, il compito del teologo che scruta le profondità di un’anima, soggetto del suo studio, è appunto quello di ben discernere tali differenze. Discernere equivale a vedere più chiaramente. Sono state spesso accostate, oppure contrapposte, santa Teresa di Gesù Bambino e suor Elisabetta della Trinità. Le loro vie sono essenzialmente diverse. La carmelitana di Lisieux effonde su tutto l’universo cattolico con gesto luminosamente stupendo i suoi petali di rose sfogliate per amore; ha insegnato al mondo moderno a ritornare fanciullo per avvicinarsi a Dio. La carmelitana di Digione compie la missione sua presso le anime interiori; suor Elisabetta della Trinità fu la santa del silenzio e del raccoglimento.

1) A 15 anni, nelle sue poesie, Elisabetta Catez sognava la solitudine col suo Cristo: «Vivere con Te, solitaria!… » (Poesie – Agosto 1896). E nel suo diario di fanciulla, a 19 anni, scrive: « Presto sarò tutta tua; vivrò nella solitudine, sola con Te, non occupandomi che di Te, non vivendo che con Te, non conversando che con Te » (Diario – 27 marzo 1899.). E d’estate, in campagna, la sua più grande gioia era ritirarsi nei boschi solitari (Lettera alla signora A… – 29 settembre 1902). Entrata in convento, la solitudine carmelitana la rapisce: « Sola col Solo » è, infatti, tutta la vita del Carmelo. – La carmelitana è essenzialmente una eremita contemplativa, che ha per patria il deserto di Carith e per rifugio la cavità della roccia. – Non già che essa dimentichi le anime che si perdono; — anzi, santa Teresa stabilì la sua riforma alla vista dei disastri causati dall’eresia di Lutero — ma la testimonianza che la carmelitana deve dare a Dio è quella del solitario, il cui sguardo permane fisso su di Lui solo, in un ardente oblìo di tutto il resto: attestazione silenziosa, ma quanto commovente, che la divina Bellezza, ed essa sola, merita tutta l’attenzione di un’anima elevata dalla grazia fino al consortium della vita trinitaria. Dio solo basta. L’opera sua di apostolato è quella della preghiera che tutto ottiene. Un’anima sola che si eleva fino all’unione trasformante è più utile alla Chiesa ed al mondo, di una moltitudine di altre anime che si agitano nell’azione. Suor Elisabetta della Trinità fu il tipo della contemplativa silenziosa la cui azione apostolica si espande, per sovrabbondanza, su tutto l’universo. Fin dal primo giorno, la si vide penetrare a fondo in quello spirito di silenzio e di morte che, al Carmelo, è condizione essenziale di ogni vita divina. Nutriva un culto particolare per il patriarca Elia, il primo fra gli uomini che condusse vita eremitica e a cui Dio aveva comandato di fuggire dai luoghi abitati e di nascondersi, lungi dalla folla, nel deserto: « Parti di qui, e sta ritirato in Carith » (III Re, XVII:3); Elia che aveva insegnato ai monaci eremiti della santa montagna del Carmelo a liberarsi da tutto ciò che non è Dio, per starsene alla sola presenza del Dio vivo, eliminandone ogni altra. Vivere da eremita come Elia, l’uomo solitario e santo, abitare in povere celle, come i monaci del monte Carmelo vivevano nelle cavità della roccia presso la fontana del Profeta, fu il desiderio più caro al cuore di Teresa. « Il genere di vita che noi bramiamo di condurre », scrive la santa nel Capo XIII del « Cammino di perfezione », non è soltanto quello dei religiosi, ma anche quello degli eremiti ». —. « Ricordiamo i nostri santi Padri, gli eremiti di altri tempi, dei quali noi cerchiamo di imitare la vita. Quali sofferenze non hanno dovuto sopportare, e in quale isolamento! ». – Seguendo la valorosa Riformatrice, le sue prime figlie si internavano nel deserto del Carmelo. « La solitudine era tutta la loro gioia », ci dice santa Teresa. « Mi assicuravano che mai erano annoiate e stanche di rimanere sole. Una visita, fosse pure dei loro fratelli e sorelle, costituiva per esse un tormento. Quella poi che aveva maggiore possibilità e agio di rimanere a lungo in eremitaggio, si riteneva la più felice ». Silenzio e solitudine: ecco il più puro spirito del Carmelo. « Potrete avere dimore e case in luoghi solitari… Ciascuna avrà la sua cella separata… Rimanga, ognuna, nella propria cella o vicino ad essa, meditando giorno e notte la divina legge e vegliando in orazione » (La santa Regola). « Nel tempo in cui le suore non saranno in comunità, od occupate negli uffici della comunità, ciascuna rimanga da sola nella sua cella o nel romitaggio che la Madre Priora le avrà permesso… Se ne stiano nei luoghi del loro ritiro, formandosi a quello spirito di solitudine per ottenere il quale la regola ordina che ciascuna stia appartata. Vi sia un terreno in cui si possano costruire degli eremitaggi, affinché esse vi si ritirino per fare orazione, come solevano i nostri santi Padri. Non vi sia nessun luogo in cui si riuniscano per lavorare insieme, per timore che ciò dia occasione a rompere il silenzio » (Costituzioni). – Suor Elisabetta della Trinità possedeva in un grado straordinario questa attrattiva del silenzio che fugge da tutto il creato per stare sempre alla presenza del Dio vivo, in fide. Tutta la sua ascetica si accentra nel silenzio inteso nel senso universale e che costituisce, per lei, la condizione più fondamentale e necessaria ad un’anima che vuole elevarsi fino all’unione divina. Senza volere imporre al suo pensiero degli schemi troppo rigidi, incompatibili con le libere ispirazioni alle quali suor Elisabetta si abbandonava sotto la mozione dello Spirito, si possono ritrovare, nella linea del suo pensiero, tre silenzi: silenzio esteriore, silenzio interiore, e infine un silenzio tutto divino, che è uno degli effetti più sublimi dei doni dello Spirito Santo, e in cui l’anima è puramente passiva. Mancandogli un nome tutto proprio che lo definisca, potremmo chiamarlo, ispirandoci ad uno dei suoi scritti: «silenzio sacro », « silenzio di Dio » analogo al « divinum silentium » delle opere di san Giovanni della Croce.

2) Il silenzio esteriore non è il più necessario, anzi, in alcune circostanze, non è nemmeno possibile. Ma alla anima rimane, anche allora, una grande risorsa: rifugiarsi nell’intimo di se stessa, in quella interiore solitudine senza della quale è impossibile possedere l’unione con Dio. E tuttavia il silenzio esteriore deve essere custodito il più possibile, perché favorisce quello interiore e, in linea normale, a quello conduce. L’amore del silenzio conduce al silenzio dell’amore. – Suor Elisabetta amava la clausura: i colloqui inutili, in parlatorio, erano un tormento, per lei. In molte circostanze, ricorderà ai suoi, con dolcezza ma insieme con fermezza, questo punto della Regola, e con fedele osservanza, si asterrà dalla corrispondenza nel periodo dell’Avvento e della Quaresima, a meno che lo scrivere non le diventi un dovere, perché comandatole dall’obbedienza. Dobbiamo quindi, quanto più da vicino analizziamo le circostanze, riconoscere come una disposizione veramente provvidenziale l’averci ella potuto lasciare tante lettere. Malgrado il suo desiderio di restarsene silenziosa dietro le grate del suo Carmelo. Silenzio col di fuori; e silenzio pure dentro il monastero, nei rapporti con le sue consorelle. Più volte, si impegnò in gare di silenzio; e le due o tre mancanze di cui doveva a si derivavano sempre da un motivo di carità. – A questo spirito di silenzio restò fedele sino all’ultimo giorno. « Una volta — racconta una suora — avevo ottenuto il permesso di portarle qualche cosa in infermeria e di restare con lei fino al termine della ricreazione. Fui accolta con grande effusione di gioia. Ma, appena suonata la campana, essa con dolcezza e con un bel sorriso rientrò nel silenzio; e capii che quella conversazione non doveva prolungarsi. Nulla di rigido vi era in lei; ma la fedeltà prevaleva su tutto ». Le sue preferenze erano sempre per il silenzio. Le suore giovani sapevano così bene che era quello il suo programma unico; …e, in occasione di qualche novena o alla vigilia dei ritiri spirituali, le insinuavano con malizia birichina: « Silenzio, nevvero? Silenzio!… ». Ed ella annuiva sorridendo. Quando, sapendola malata, la Madre Priora le raccomandava di restare il più possibile all’aria aperta, suor Elisabetta sceglieva l’angolo più solitario. « Invece di lavorare nella celletta, me ne sto, come un eremita, nell’angolo più deserto del nostro grande giardino; e vi trascorro ore deliziose. Sento la natura così piena di Dio! Il vento che scuote i grandi alberi, gli uccellini che cantano, il bel cielo azzurro, tutto mi parla di Lui» (Lettera alla mamma – Agosto 1906.). Ma il silenzio più caro era per lei quello della sua celletta: che chiamava « il suo piccolo paradiso » e dove le era delizioso rifugiarsi. « Un pagliericcio, una povera sedia, un leggìo sopra un’asse: ecco tutto il mobilio. Ma è pieno di Dio; e vi passo ore tanto belle, sola con lo Sposo divino! Taccio e Lo ascolto. Fa tanto bene imparare tutto da Lui! E poi… Lo amo » (Lettera alla signora A… – 29 giugno 1903.). – Apprezzava, fra tutte, le ore del silenzio rigoroso della notte. Oh, come amava il suo Carmelo immerso in questo alto silenzio! « Il Carmelo è un angolo di paradiso: si vive nel silenzio e nella solitudine, sole con Dio solo » (Lettera a M. L. M… – 26 ottobre 1902). Due o tre volte all’anno, dove più e dove meno, secondo l’abitudine dei vari monasteri, vengono concesse alle Religiose le così dette « licenze », cioè il permesso di scambiarsi delle visite nelle celle, come facevano un tempo gli eremiti del deserto. Suor Elisabetta aderiva con garbo a questa usanza voluta da santa Teresa, perché le suore si infiammassero a vicenda nell’amore dello Sposo; anzi, proprio in tale circostanza, ricevette una delle grazie più grandi della sua vita: il suo nome di « lode di gloria ». Ma chi non vede come, per l’umana debolezza, questi incontri che dovrebbero essere colloqui di fiamma, possono degenerare in chiacchiere dissipanti? Pura perdita per l’unione divina, scopo unico del Carmelo. Quindi, suor Elisabetta ritornava con gioia al suo caro silenzio, amato sopra tutte le cose. E scriveva alla sorella: « In occasione delle elezioni, abbiamo avuto licenza, cioè potevamo, durante la giornata, farci scambievolmente delle brevi visite. Ma, sai, la vita della Carmelitana è il silenzio » (Lettera alla sorella – Ottobre 1901).

3) Ma il vero silenzio della Carmelitana è il silenzio dell’anima, silenzio in cui essa trova il suo Dio. Discepola fedele di santa, Teresa e di san Giovanni della Croce, suor Elisabetta si esercita a far tacere le sue potenze, e ad isolarsi da tutto il creato. Con ardore inesorabile, immola tutto: lo sguardo, il pensiero, il cuore. « Il Carmelo è come il cielo: bisogna separarsi da tutto, per possedere Colui che è tutto » (Lettera alla mamma – Agosto 1903). – Questa separazione totale dalle creature attirava già appassionatamente il suo cuore di fanciulla: « Facciamo il vuoto, distacchiamoci da tutto; non vi sia più che Lui, Lui solo » (Lettera a M. G… – 1901). « Separiamoci dalla terra, solleviamoci da tutto il creato, da tutto il sensibile »(Lettera a M. G… – 1901). – Costretta a frequentare riunioni e feste mondane, l’anima sua, sottraendosi al tumulto, si elevava fino a Dio. « Mi sembra che nulla ci può distrarre da Lui, quando per Lui solo si agisce, stando sempre alla sua santa presenza, sempre sotto quel divino sguardo che penetra nelle intime profondità dell’anima. Anche in mezzo al tumulto del mondo, si può ascoltarlo, nel silenzio di un cuore che vuole essere unicamente suo » (Lettera al Canonico A… – 1 dicembre 1900). – Suor Elisabetta aveva una devozione particolare per santa Caterina da Siena, non solo per la prodigiosa azione apostolica svolta dalla santa al servizio della politica pontificia, ma anche per la dottrina della. grande mistica domenicana sulla « celletta interiore », costante rifugio della vergine senese in mezzo alle agitazioni umane. Questo silenzio interiore, tanto caro a suor Elisabetta doveva assumere rapidamente in lei la forma di una ascesi universale, e prendere un posto eminente nella sua vita mistica. È puro Vangelo: chi vuole elevarsi a Dio con la orazione deve far tacere in sé le agitazioni vane del di fuori e il tumulto del di dentro, deve ritirarsi nel più profondo di se stesso e là, nel segreto, raccogliersi « a porte chiuse » (S. Matteo, VI-6) dinanzi al Volto del Padre. Così pregava Cristo nelle lunghe notti silenziose della Palestina, quando se ne andava solitario, a sera, sulla montagna, per rimanervi fino al mattino « in orazione con Dio » (S. Luca, VI, 12). Anacoreti e Padri del deserto dei primi secoli della Chiesa dimostrano efficacemente, con la loro vita sottratta ad ogni inutile contatto, l’azione purificatrice del silenzio nella concezione primitiva dell’ascetica cristiana. Il deserto li conduceva al silenzio dell’anima in cui abita Dio. Suor Elisabetta ha compreso questa verità evangelica in un senso tutto carmelitano, secondo la sua grazia personale: silenzio di tutte le potenze dell’anima vigilate e custodite per Dio solo. Nessun tumulto nei sensi esterni, nell’immaginazione, nella volontà. Non vedere nulla. Non ascoltare nulla. Non gustare nulla. In nulla arrestarsi, che possa distrarre il cuore o ritardare l’anima nella sua ascesa verso Dio. E, prima di tutto, sorvegliare gli sguardi. Non diceva il divino Maestro: « Se il vostro occhio vi è ragione di scandalo, strappatelo; perché, se l’occhio è semplice, tutto il corpo è puro e vive nella luce »? (S. Matth. VI, 22). L’impurità e una folla di imperfezioni derivano da questo difetto di vigilanza sugli sguardi. Davide, che ne aveva fatto la dolorosa esperienza, supplicava Iddio di « ritrarre i suoi occhi dalle vanità della terra » (Ps. CXVIII, 37) dove l’anima sua era venuta meno. – L’anima vergine non si permette un solo sguardo che non sia rivolto al Cristo. Il silenzio dell’immaginazione e delle altre potenze dell’anima non è meno necessario; è tutto un mondo interiore di sensazioni e di impressioni che portiamo dovunque con noi, e che ad ogni istante minaccia di sopraffarci. Anche in questo campo deve esercitarsi l’ascesi del silenzio. L’anima che si trastulla ancora coi suoi ricordi. « che va dietro a un desiderio qualsiasi » (Ultimo ritiro – 2° giorno) estraneo a Dio, non è un’anima di silenzio, quale la voleva suor Elisabetta della Trinità. Rimangono in lei delle « dissonanze » (Ibid.), delle sensibilità che fanno troppo rumore, e non lasciano salire a Dio il concerto armonioso che dalle potenze dell’anima dovrebbe elevarsi a Lui senza interruzione. L’intelletto, a sua volta, deve far tacere in sé ogni umano rumore. « Il minimo pensiero inutile » (Ibid.) sarebbe una nota falsa che bisogna eliminare ad ogni costo. Un intellettualismo raffinato che lasci troppo libero giuoco all’intelligenza è un ostacolo sottile al vero silenzio della anima, in cui essa trova Dio nella fede pura. E suor Elisabetta della Trinità, come il suo maestro san Giovanni della Croce, si mostra intransigente su questo punto. « Bisogna estinguere ogni altra luce » (Ultimo ritiro – 4° giorno.) e giungere a Dio, non per mezzo di un sapiente edificio di bei pensieri, ma nella nudità dello spirito. – Silenzio, soprattutto, nella volontà. È la facoltà dell’amore: in essa è in giuoco la nostra santità. E con ragione san Giovanni della Croce riferisce alla volontà le ultime purificazioni che preparano all’unione trasformante. Niente, niente, niente, niente, niente, lungo la salita; e, sulla Montagna, niente (Opere di san Giovanni della Croce.). Suor Elisabetta ha voluto seguire il suo maestro spirituale fino a questo punto estremo del Carmelo. Invita l’anima che vuol giungere all’unione divina, e fortemente la sollecita ad elevarsi al di sopra dei propri gusti, anche i più spirituali, fino a spogliarsi di ogni volontà personale: « Non sapere più nulla… non fare più differenza alcuna fra sentire e non sentire, godere e non godere » (Il paradiso sulla terra -2.2), mantenersi risoluta a tutto superare, per unirsi a Dio solo nell’oblìo e nello mento totale di se stessa. – Suor Elisabetta della Trinità aveva spinto fino a questo punto il suo ideale di silenzio e di solitudine assoluta, lungi da tutto il creato; e noi sappiamo che le ultime ore della sua vita ne furono la realizzazione vivente. Bisogna dunque intenderla come lei, questa ascesi del silenzio, e intenderla nel suo senso profondo. « Non è una separazione materiale dalle cose esteriori, ma una solitudine dello spirito, un distacco assoluto da tutto ciò che non è Dio» (Il paradiso sulla terra – 4a orazione.). « L’anima silenziosa, di fronte a tutte le vicende della vita esteriore come nella sua vita intima, rimane ugualmente indifferente; le supera, le oltrepassa, per riposarsi, al di sopra di tutto, nel seno stesso del suo Dio ». È la notte descritta da san Giovanni della Croce; è la morte ad ogni attività naturale. « L’anima che aspira a vivere in contatto con Dio, nella fortezza inespugnabile del santo raccoglimento, deve essere spogliata, distaccata, separata da tutte le cose, almeno in ispirito » (Il paradiso sulla terra – 5a orazione.). È il silenzio assoluto. alla presenza di Dio solo. Suor Elisabetta della Trinità ha consacrata tutta una elevazione dell’ultimo suo ritiro a cantare questa condizione beata dell’anima che il silenzio interiore ha reso perfettamente libera. – « Vi è un altro canto di Cristo, che io vorrei ripetere incessantemente: « Per te custodirò la mia fortezza » (Salmo LVIII-10 – Isaia, XXX-15). E la mia regola mi dice: « La tua forza sarà nel silenzio ». Dunque, serbare la propria forza per il Signore mi pare che significhi fare l’unità nel nostro essere per mezzo del silenzio interiore; raccogliere tutte le proprie potenze per applicarle al solo  esercizio dell’amore; avere quell’occhio semplice che permette alla luce di irradiarci » (Ultimo ritiro – 2° giorno). Un tale silenzio assorbe tutto. « Un’anima che scende a patti col proprio io, che si occupa delle sue sensibilità, che va dietro a un pensiero inutile, a un desiderio qualsiasi, quest’anima disperde le proprie forze: non è concentrata in Dio. La sua lira non vibra all’unisono; e quando il divino Maestro la tocca, non può trarne armonie divine. Vi è ancora troppo di umano, e si produce una dissonanza. L’anima che si riserba ancora qualche cosa del suo regno interiore e le cui potenze non sono tutte « raccolte » in Dio, non può essere una perfetta lode di gloria; essa non è in grado di cantare senza interruzione il « canticum magnum » di cui parla san Paolo, perché in lei non regna l’unità. E invece di proseguire la sua lode attraverso tutte le cose, in semplicità, bisogna che si affanni continuamente a radunare le corde del suo strumento disperse un po’ da per tutto » (Ultimo ritiro – 2° giorno.) Vi è un altro silenzio che l’anima non ha il potere di produrre con la propria attività, ma che Dio stesso opera in lei se rimane sempre fedele, e che costituisce uno dei frutti più elevati dello Spirito Santo: il divinum silentium degli scritti di san Giovanni della Croce. Le potenze non errano più, disperse in cerca delle cose. L’anima non sa più che Dio. È l’unità. – « Come è indispensabile questa bella unità interiore all’anima che vuol vivere quaggiù la vita dei beati, cioè degli esseri semplici, degli spiriti! Mi sembra che proprio a questa unità mirava il Maestro quando parlava alla Maddalena dell’« unum necessarium » (S. Luca, X-42). E come l’aveva compreso bene la grande santa! L’occhio dell’anima sua illuminato dalla fede aveva riconosciuto il suo Dio sotto il velo dell’umanità; e, nel silenzio, nell’unità delle potenze, ascoltava la parola ch’Egli le diceva. Poteva veramente cantare: « L’anima mia è sempre nelle mie mani» (Salmo CXVIII-109,) e soggiungere la breve parola: « Nescivi!» (Cantica VI). Sì, ella non sapeva più niente altro che Lui. Potevano far rumore, potevano agitarsi intorno a lei: «Nescivi! ». accusarla: « Nescivi! ». Nemmeno le ferite recate al suo onore erano capaci, più delle cose esteriori, di farla uscire dal suo sacro silenzio. Così è dell’anima entrata nelle fortezze del santo raccoglimento. – Con l’occhio aperto alle chiarezze della fede, scopre il suo Dio presente, vivente in lei; ed ella, a sua volta, si tiene così fedelmente presente a Lui nella sua bella semplicità, che egli la custodisce con cura gelosa. Possono sopraggiungere le agitazioni esterne, le interne tempeste; può venire intaccato il suo onore: « Nescivi! ». Dio può celarsi, può sottrarle la sua grazia sensibile: « Nescivi! ». E, con san Paolo, esclama: « Per suo amore, ho tutto perduto » (Filippesi, III-8). Allora, il Signore è libero, libero di effondersi, di donarsi a suo beneplacito; e l’anima, così semplificata e unificata, diviene il trono dell’Immutabile, perché l’unità è il trono della Trinità santa » (Ultimo ritiro – 2° giorno.). – San Giovanni della Croce, in un passo celebre, fa allusione al silenzio della Trinità. « Dio Padre non ha che una Parola: il suo Verbo; e la pronuncia in un eterno silenzio… ». In questo silenzio della Trinità, suor Elisabetta ha trovato l’esemplare del suo: «Si faccia, nell’anima, un profondo silenzio, eco di quello che è un canto nella Trinità» (Alla sorella). – L’unione trasformante fa entrare in questo silenzio di Dio. Nell’anima tutto si acquieta: più nulla della terra, più nessun’altra luce che la Luce del Verbo, nessun altro amore che l’eterno Amore. Ed essa, l’anima, riveste i « costumi divini ». La sua vita, superando e dominando da tanta altezza tutte le terrene agitazioni, partecipa alla vita immutabile, « … immobile e tranquilla — secondo la espressione di suor Elisabetta — come se già fosse nella eternità ». Per un tocco speciale dello Spirito Santo, uno dei tocchi più segreti, la sua vita è trasportata nell’immutabile e silenziosa Trinità. Mediante la fede, quaggiù, ma per uno degli effetti più sublimi del dono della sapienza, l’anima vive di Dio, alla maniera di Dio, tutta trasfusa in Lui. Essa più non ascolta che l’eterna Parola: la generazione del Verbo e la spirazione dell’Amore. L’universo tutto quanto è per lei come se non fosse. Giunto a questo grado, il silenzio è il rifugio supremo dell’anima di fronte al mistero di Dio. « Di questo silenzio « pieno, profondo », parlava Davide quando esclamava: « Il silenzio è la tua lode » (Ps. LXV, 2). Sì; è la lode più bella, perché è quella che cantasi eternamente in seno alla tranquilla Trinità » (Ultimo ritiro – 2° giorno). I « divini costumi » sono l’esemplare delle virtù dell’anima giunta a tali vette. E fino ad esse suor Elisabetta della Trinità si era elevata negli ultimi giorni della sua vita, dimentica di sé, spoglia di tutto, per cercare il suo ideale di silenzio e di solitudine in seno a Dio. « Siate perfetti come il vostro Padre Celeste è perfetto » (S. Matth. V, 48). E san Dionigi ci dice che « Dio è “il grande solitario”. Il mio Maestro mi chiede di imitare questa perfezione, di rendergli omaggio con l’essere io pure solitaria ». L’Essere divino vive in un’eterna, in un’immensa solitudine; e, pur interessandosi ai bisogni delle sue creature, non ne esce mai, perché non esce mai da se stesso. E questa solitudine altro non è che la sua Divinità. Perché nulla possa farmi uscire da questo bel silenzio interiore, sono necessarie le stesse condizioni, sempre: lo stesso isolamento, la stessa separazione, lo stesso spogliamento. Se i miei desideri, i miei timori, le mie gioie, i miei dolori, se tutti i movimenti provenienti da queste quattro passioni non saranno perfettamente regolati e orientati a Dio, io non sarò solitaria; vi sarà del tumulto in me. È dunque necessaria la calma, il sonno delle potenze, l’unità dell’essere. « Ascolta, figlia mia, porgi l’orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre; e il Re amerà la tua bellezza» (Salmo XLIV-11). Questa chiamata mi sembra che sia un invito al silenzio: « Ascolta, porgi l’orecchio… ». Ma, per udire, bisogna dimenticare la casa paterna, cioè tutto quello che ha relazione con la vita naturale, quella vita della quale vuol parlare l’Apostolo quando dice: « Se vivrete secondo la carne, morrete » (Rom. VIII, 13). « Dimentica il tuo popolo »; è cosa più difficile, mi sembra, perché questo popolo è tutto quel mondo che fa parte di noi stessi: è la sensibilità, sono i ricordi. le impressioni, ecc…, l’îo, in una parola. Bisogna dimenticarlo, abbandonarlo. E quando l’anima ha fatto questo strappo, quando è libera da tutto ciò, allora il Re s’innamora della sua bellezza, perché la bellezza, soprattutto quella di Dio, è unità » (Ultimo ritiro – 10° giorno). – « Il Creatore, vedendo il silenzio bellissimo che regna nella sua creatura, considerandola tutta raccolta nella sua solitudine interiore, si innamora della sua bellezza; e se la porta in quella solitudine immensa, infinita, in quel luogo spazioso cantato dal Profeta, che altro non è se non Lui stesso » (Ultimo ritiro – 11° giorno). Questa solitudine suprema stabilisce l’anima nel silenzio stesso della Trinità. E proprio qui si rifugia suor Elisabetta, nel volo sublime con cui termina la sua preghiera, per perdersi, fin da questa vita, nella tranquilla e immutabile Trinità. «O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi interamente, per fissarmi in Te, immobile e quieta, come se la mia anima già fosse nell’eternità. Che nulla come possa turbar la mia pace né farmi uscire da Te, o mio Immutabile, ma che, ad ogni istante, io penetri sempre più nelle profondità del Tuo Mistero… O miei «tre», mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, immensità nella quale mi perdo, io mi abbandono a Voi come una preda; seppellitevi in me perché io mi seppellisca in voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra Luce l’abisso  abisso delle Vostre grandezze ».

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (7)

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (21)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (21)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni

ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO V.

ART. II. — GLI EFFETTI DELLA SANTA MESSA.

La santa Messa, essendo sostanzialmente lo stesso Sacrificio della croce, produce i medesimi effetti. Ha anzi il vantaggio di applicare a ognuno di noi i frutti della redenzione secondo le nostre disposizioni e la parte più o meno grande che prendiamo all’offerta del santo Sacrificio. Conviene quindi approfondire su questo punto la dottrina della Chiesa, onde poter ricavare dalla Messa i maggiori vantaggi. Diremo quindi :

1°) quali sono gli effetti della Messa;

2°) chi sono coloro che partecipano ai frutti della Messa;

3°) in che misura vi partecipano.

1° Quali sono gli effetti della santa Messa.

Questi effetti, come quelli del Sacrificio della croce, si compendiano in due parole: glorificar Dio e santificare gli uomini.

A) Il primo dovere dell’uomo è certamente di glorificar Dio: da Lui creato e santificato, ricolmo di ogni specie di beni naturali e soprannaturali, ei deve innanzi tutto adorare il suo Creatore e ringraziare il supremo suo Benefattore. Ma troppo spesso l’uomo dimentica questo suo dovere, unicamente sollecito di ottenere nuovi benefici. Ë ingiustizia ed ingratitudine; ma è anche negligenza dei propri interessi; perché il mezzo migliore per ottenere nuovi favori è di riconoscere umilmente quelli che si sono già ricevuti. Ora la santa Messa ci offre il mezzo più efficace di adorare e di ringraziar Dio. Dio ha diritto ad ossequi infiniti; ma come potremo renderglieli noi che abbiamo piena coscienza di essere creature finite e imperfette? Coll’assistere piamente alla Messa. Allora infatti il Verbo Incarnato, i cui ossequi hanno valore infinito per ragione della infinita dignità della sua Persona e dell’infinito valore della Vittima da Lui offerta, mette a nostra disposizione le sue adorazioni e i suoi ringraziamenti, così che noi possiamo farli nostri e presentarli a Dio per glorificarlo. Quando il Sacerdote, in nome di tutta la Chiesa, leva l’ostia e il calice verso il cielo, noi possiamo dire a Dio: « O Padre, io mi riconosco debitore alla vostra divina Maestà di milioni e milioni di debiti: debiti di adorazione, di gratitudine, di amore; e sono incapace di pagarveli. Ma vi offro gli ossequi infiniti che vi porge il vostro divin Figlio immolato in questo momento sull’altare. Sono ossequi che mi appartengono, perché, sebbene indegno, sono membro di quel Corpo mistico di cui Egli è il Capo. Accettate dunque, o Padre misericordioso, accettate questi atti di adorazione, di gratitudine, di amore che Gesù vi offre così in nome mio come in nome suo. Vi unisco quanto vi è di meglio nel mio cuore così povero e così miserabile; con Lui, per Lui e in Lui, io vi adoro, io vi ringrazio, io vi lodo, io vi amo. Volgete innanzi tutto lo sguardo agli ossequi suoi e non considerate i miei se non come atti di uno dei suoi membri; graditeli per rispetto suo e siate benedetto, amato e glorificato per tutta l’eternità ». Possiamo star sicuri che una tale offerta sarà bene accolta da Dio; perché, come è giustamente dichiarato dal Concilio di Trento (Sess. XXII, c.1), la Messa è quell’ostia purissima che nulla può macchiare, neppure l’indegnità o la malizia di coloro che l’offrono. Quale consolazione per noi il poter così glorificar Dio come si merita!

B) Ma possiamo inoltre ottenere per noi e per i nostri fratelli tutte le grazie di cui abbiamo bisogno.

a) Il primo nostro desiderio è quello di essere perdonati. Abbiamo offeso Dio ed essendo Dio maestà infinita, l’offesa nostra ha qualche cosa di infinito che da soli non possiamo riparare. Anche qui il santo Sacrificio viene a supplire la nostra impotenza; perché è nello stesso tempo propiziatorio e soddisfattorio, È propiziatorio, vale a dire che ci rende Dio propizio e lo inclina a misericordiosamente perdonarci. – Certo la Messa non purifica direttamente l’anima del peccatore come fa il Sacramento della Penitenza, ma se uno vi assiste con divozione o se gli viene applicata, può, in virtù dei meriti di Cristo, ottenere il dono della contrizione e quindi il perdono dei peccati. È quello che spera la Chiesa quando fa dire al Sacerdote, in nome del popolo cristiano: « Accogli, o Padre santo, quest’ostia immacolata che io ti offro per i peccati, le offese e le negligenze mie senza numero » (pregh. dell’Offertorio). Infatti, poiché nella santa Messa tutta la Passione del Salvatore viene posta sotto gli occhi del Padre, Ei si sente appagato e sodisfatto oltre ogni credere; e, abbassando sui di noi il misericordioso suo sguardo, perdona e purifica le anime sinceramente contrite e umiliate. Questo Sacrifizio è anche soddisfattorio, vale a dire che rimette infallibilmente ai peccatori pentiti una parte almeno della pena temporale dovuta ai loro peccati, in proporzione delle disposizioni più o meno perfette con cui assistono alla Messa. – Questa remissione della pena si applica non solo ai vivi, ma anche alle anime del Purgatorio. Quando si fa celebrar la Messa o vi si assiste per loro, la virtù del sangue di Gesù scende, rugiada benefica, a dar refrigerio a quelle povere anime, alleviarne i patimenti e abbreviarne il tempo della espiazione. Quanto è dolce per noi il pensare che possiamo con questo mezzo recar conforto a quei cari defunti che attendono con brama così accesa il giorno della loro liberazione! Temporaneamente separati da quel Dio che amano e che solo li può rendere beati, ci supplicano di abbreviare il tempo della loro espiazione. Rammentiamoci che la Messa è il mezzo più efficace per rispondere alle supplichevoli loro voci.

b) Ma abbiamo pure grazie da chiedere per noi e per gli altri, così per il presente come per l’avvenire. Continuo è il bisogno che abbiamo dell’aiuto di Dio per vincere le tentazioni, per adempiere i nostri doveri, per progredire nella virtù. E se apriamo gli occhi della fede e dell’amore, quanti infedeli e quanti eretici da ricondurre all’ovile! quanti peccatori da convertire! Quanti giusti da santificare! Sentiamo tutta la nostra impotenza a conseguire tutti questi fini, perché per un verso la grazia di cui abbiamo bisogno è essenzialmente gratuita e per l’altro le nostre preghiere non hanno che scarso valore a ottenere aiuti da noi non meritati. Ebbene ecco la Messa che soccorre alla nostra incapacità. Gesù, presente sull’altare, prega continuamente per noi e per tutti i bisogni della Chiesa; prega con gemiti inesplicabili, e le sue preghiere sono sempre esaudite per ragione dei suoi meriti infiniti. Se quindi facciamo nostre le preghiere di Colui di cui siamo le membra e vi uniamo le nostre suppliche, come già più sopra spiegammo, o non si avrà da avverare la promessa di nostro Signore: « In verità, in verità vi dico… qualunque cosa domanderete al Padre in nome mio, lo farò; affinché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa in nome mio, lo farò » (S, Giov., XIV, 13-14). – Quando nella santa Messa preghiamo con Gesti e per mezzo di Gesù, non preghiamo forse in suo nome? e non siamo quindi sicuri di essere esauditi? Ecco una ragione molto forte per eccitare la nostra confidenza nella preghiera.

2° Chi sono coloro che partecipano ai frutti della Messa.

Partecipano ai frutti della Messa tutti coloro pei quali fu offerto il Sacrificio della Croce, cioè tutti i membri del Corpo mistico di Gesù Cristo, o lo siano di fatto perché incorporati a Lui col Battesimo, o lo siano solo di diritto; vale a dire tutti coloro che vivono sopra questa terra, perché, se non hanno ancora ricevuto il Battesimo, sono però chiamati a riceverlo. Ne vengono esclusi soltanto i dannati perché  irrevocabilmente separati dal Salvatore. Lasceremo i fedeli defunti, di cui abbiamo già detto una parola parlando dell’effetto soddisfattorio della Messa, e non ci occuperemo qui che dei viventi.

A) Tutti sono chiamati a partecipare ai frutti del santo Sacrificio della Messa. Nella Chiesa primitiva si inculcava praticamente ai fedeli questa verità col recitare per le varie classi di persone molteplici preghiere a cui gli assistenti si associavano coll’Amen finale; cosa che si fa ancora il Venerdì santo dopo il canto del Passio. Oggi, perché la Messa riesca più corta; queste lunghe orazioni vennero soppresse, ma se ne conservò lo spirito, offrendo esplicitamente l’ostia santa non solo per tutti i Cristiani, ma anche per tutto il mondo: « Ti offriamo, o Signore, il calice salutare, supplicando la tua clemenza che ascenda al cospetto della divina tua Maestà in odore di soavità per la salute nostra e per quella di tutto il mondo! » (Offertorio, offerta del calice. Si vedano le preghiere per l’offerta del pane e quelle che si recitano al Memento dei vivi). – Scende dunque ogni giorno, e a ogni istante del giorno e della notte, una pioggia di grazie sul mondo, perché non vi è momento in cui in qualche parte della terra non venga offerto il Sacrificio santificatore. Non è forse un gran conforto il pensare che riceviamo continuamente vantaggio spirituale da tutte le Messe che si dicono sulla faccia della terra? Ma non fermiamoci a una gioia che potrebbe parere alquanto egoista. Studiamoci di avere un cuor largo come quello di Cristo: abbiamo desideri e ambizioni ampie quanto il mondo, affinché, quando assistiamo alla Messa, o in persona o in ispirito, le nostre preghiere non si fermino a noi e a quelli che sono dei nostri, ma siano veramente cattoliche, cioè universali. Chiediamo, sì, grazie per noi e per i nostri, ma chiediamone pure per tutti gli uomini, perché Dio sia conosciuto e amato da tutta la terra. Non è forse ciò che ci suggerisce Nostro Signore nel Pater: « Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra »?

B) Ma se tutti i viventi ricevono vantaggio dalla Messa, non tutti però lo ricevono nella stessa misura. La regola che governa la dispensa delle grazie è questa: posto che tutte le altre condizioni siano pari, uno riceve in proporzione del concorso prestato alla celebrazione del santo Sacrificio.

a) Chi, dunque, riceve di più è il Sacerdote che dice la Messa, perché è il rappresentante di Gesù, Sommo Sacerdote, e vi presta il concorso più attivo ed efficace. A lui è riserbato il frutto specialissimo, ossia tutto quel complesso di grazie che gli danno modo di trasformarsi in un altro Cristo, di pensare, di parlare, di operare, di vivere, come Nostro Signore stesso se fosse al suo posto. Gli è per questo che il Pontificale gli raccomanda così istantemente di imitare ciò che fa all’altare e di vivere vita talmente santa da poter ripetere con san Paolo: « Vivo, ma non più io, vive in me Gesù Cristo » (Gal. II, 20). Se lo rammenti quando sale al santo altare, e celebri degnamente e religiosamente, accompagnando colla mente e col cuore le parole che pronuncia ed eccitando dentro di sé i sentimenti di Colui di cui è ministro e rappresentante.

b) Il chierico o l’inserviente che serve la Messa riceve più grazie dei semplici assistenti quando procuri di animarsi bene dello spirito del suo ufficio, appunto perché ha parte più attiva nel santo Sacrificio. È cosa molto importante che si inculchi questa verità ai chierichetti scelti per cotesto servizio. Si troveranno allora più facilmente dei volenterosi che, invece di annoiarsi o trastullarsi durante la Messa, penseranno a coglierne copiosi frutti.

c) Vi hanno pure una parte maggiore quelli che offrono insieme col Sacerdote, vale a dire coloro che danno la limosina perché si dica la Messa secondo la loro intenzione, o che colla loro generosità contribuiscono alle spese del culto. È una cosa che si deve ricordare, sempre però con prudenza, al popolo cristiano, perché si mostri generoso così per i defunti come per il mantenimento della casa di Dio.

d) Vengono poi i fedeli che assistono alla Messa, il cui vantaggio è in proporzione della divozione ed attività con cui vi assistono. Lo dice chiaro la Chiesa, che mette sul labbro del Sacerdote queste parole: « Ricordati, o Signore… di tutti i circostanti, dei quali è a te cognita la fede e nota la divozione ». (Canone della Messa; Memento dei vivi.). Si rammentino queste cose ai fedeli, affinché non restino puramente passivi alla Messa, ma, consapevoli della parte attiva che vi hanno, recitino anch’essi con attenzione ed amore le sublimi preghiere suggerite dalla Chiesa.

e) Vi sono poi di quelli che non possono esser presenti di corpo al santo Sacrificio, ma vi assistono col cuore e collo spirito: sarà, per esempio, una madre di famiglia che non può lasciare i figli e le faccende domestiche; sarà un vecchio a cui le forze non permettono più di recarsi in chiesa; sarà un infermo inchiodato su un letto di dolore; saranno tante anime buone che il lavoro assiduo tiene forzatamente lontane dalla chiesa. Ebbene, sappiano tutti costoro che possono partecipar largamente ai frutti della Messa, se vi assistono col cuore, unendosi al Sacerdote che celebra e specialmente a Gesù-Ostia. Questo pensiero sarà per loro di grande consolazione e di grande vantaggio.

f) Da ultimo anche le persone che non pensano a unirsi al santo Sacrificio non rimangono totalmente prive dei suoi frutti: la Chiesa prega anche per loro ed esse ricevono grazie secondo che hanno l’anima aperta ai doni di Dio.

3° In che misura partecipiamo ai frutti della Messa,

In teoria i frutti del santo Sacrificio della Messa sono senza limiti. Tutte le grazie, come spiega bene san Paolo sul principio della Lettera agli Efesini, ci vengono per mezzo di Cristo Redentore, il quale, essendosi immolato per noi sul Calvario, ci meritò tutti gli aiuti di cui abbiamo bisogno per glorificare Dio e per santificarci. Ora la Messa, come fu detto, non è altro in sostanza che il sacrificio del Calvario continuato sui nostri altari in nome della Chiesa dai rappresentanti visibili del Sommo Sacerdote; la Messa quindi per sé ha la stessa efficacia del Sacrificio del Calvario: nel Sacrificio del Calvario Gesù acquista i meriti, nel Sacrificio della Messa li applica. In pratica però quest’applicazione si fa sempre in modo limitato, in una misura che dipende dal Sacerdote che celebra, da colui per cui si celebra, e, in ultima analisi, dalla libera e misericordiosa volontà di Dio.

a) Il Sacerdote principale che offre il santo Sacrificio è lo stesso Nostro Signore, e per questo verso l’offerta è necessariamente efficace, perché il Padre non può non esaudire il Figlio. Anche la Chiesa, essendo la sposa di Cristo, interviene nell’offrire la vittima divina; ora la Chiesa è santa e la sua preghiera, come la sua offerta, è sempre benignamente accolta da Dio. Ma il ministro che celebra in nome della Chiesa e i fedeli che si associano al Sacerdote non sono tutti egualmente degni dei favori divini; si dovrà quindi tener conto, in quella misura che Dio solo conosce, del fervore e della santità del celebrante e degli assistenti. Abbiamo dunque qui un fattore incognito e variabile, che può aumentare o diminuire l’applicazione dei frutti della Messa. È una ragione di più perché Sacerdote e assistenti si uniscano il più perfettamente possibile ai sentimenti di Gesù Cristo e della Chiesa.

b) È chiaro che bisogna tenere anche conto delle disposizioni di coloro per i quali viene offerta la Messa. L’uomo, finché vive sulla terra, rimane libero di accettare o di ricusare, a suo arbitrio, le grazie di Dio. Può aprirvi l’anima più o meno ampiamente e corrispondervi con maggiore o minore generosità. Quindi, benché i frutti della Messa siano per sé infiniti, la loro applicazione a questa o a quell’anima può esser nulla, se quest’anima ricusa assolutamente di aprirsi alla divina operazione; e può essere scarsa se non vi si apre che molto imperfettamente. Cosa da richiamarsi alla mente quando, facendo celebrar Messe per questa o per quella persona, non se ne scorgono che pochi frutti. Non è però da scoraggirsi: il frutto della Messa non è mai interamente perduto; se non giova a questa o a quella persona, in questo o quel dato momento, Dio sa trarne partito per altre anime e specialmente per quelle che hanno fatto generosamente offrire il santo sacrificio.

c) Se l’uomo è libero nell’accettazione dei doni divini, tanto più libero è Dio nella distribuzione di questi suoi doni. Dio, in virtù della sua sapienza e della sua misericordia infinita, tiene certamente contro di tutte le preghiere, specialmente di quelle che si fanno al santo altare; e a tutti coloro che pregano e che si offrono in unione colla Vittima divina concede con santa prodigalità le grazie necessarie alla salute. Dio però non si lega alla legge dell’uguaglianza: a chi dà dieci talenti, a chi ne dà cinque, a chi uno, secondo i disegni della sua sapienza. « O non posso io fare del mio ciò che voglio? » (Matth. XX, 15), dice Gesù nella parabola evangelica; quasi volesse dire: « puoi tu forse farmi rimprovero di dar più all’uno che all’altro quando ognuno riceve quanto e più di quello che gli è dovuto? ». Dio infatti vuole la gerarchia così nell’ordine soprannaturale come nell’ordine naturale, vuole che ci siano anime più sante e anime meno sante, perché in questa varietà nell’unità sta la bellezza dell’universo, e solo per mezzo della gradazione dei doni si palesa nelle creature l’infinita perfezione di Dio. Ciò che ci deve stare a cuore è di far fruttare i doni di Dio, qualunque siano. Il giorno del giudizio ognuno riceverà secondo le sue opere. Mostriamoci intanto sempre grati a Dio anche delle minime grazie che benignamente ci comparte, trafficandole meglio che possiamo. – Aggiungeremo terminando che l’efficacia della Messa è maggiore di qualsiasi altra preghiera. La Messa ha sempre un valore speciale che le viene dall’offerta e dalla preghiera di Cristo e della Chiesa: onde supera sempre e di molto il merito proprio di ogni nostra offerta. La Messa, essendo il sacrificio del Calvario perpetuato, è la fonte più copiosa delle grazie che Dio continuamente versa sulla Chiesa e sulle anime. È lei che merita al Sacerdote le grazie che quotidianamente applica alla santificazione propria e a quella delle anime che gli sono affidate; lei che trae ai piedi del pulpito l’incredulo e il peccatore dove si convertono; lei che fa che il Cristiano trionfi delle più seducenti tentazioni; lei che sostiene il coraggio di coloro che, al focolare domestico e nell’officina, debbono praticare virtù semplici ma eroiche; lei che conduce le anime generose alle cime dell’unione mistica; lei insomma che applica a ognuno di noi i frutti della Redenzione. Non potremo quindi meditare mai abbastanza le parole dell’Imitazione (Imit. IV, 5, 2): « Quando il sacerdote celebra, onora Dio, rallegra gli Angeli, edifica la Chiesa, aiuta i vivi, procura riposo ai defunti e fa se stesso partecipe di tutti i beni ». È il caso di ripetere con san Paolo (Hebr. IV, 16): « Appressiamoci dunque con fiducia al trono della grazia per ottenere misericordia e trovar grazia ad aiuto opportuno ».

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (21)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (5)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (5)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed.Brescia, 1957.

CAPITOLO PRIMO

ITINERARIO SPIRITUALE

III

VERSO L’UNIONE TRASFORMANTE

Quando, il 21 novembre 1904, suor Elisabetta della Trinità compose di getto, senza la minima correzione, la sua elevazione sublime alla Trinità non aveva ancora raggiunte le ultime vette dell’amore. E non a caso, fino dalla seconda frase della sua preghiera, immediatamente dopo il primo atto di adorazione alla Trinità, suor Elisabetta, ricadendo su di sé, implora: « Aiutami a dimenticarmi interamente! ». Dopo tre anni di vita religiosa, un ostacolo fin allora insormontabile ingombra la sua vita spirituale: il proprio io. Non è giunta ancora a quel distacco sovrano delle anime che, dimentiche di se stesse, non hanno più altra occupazione che amare. Ebbene, sarà questo l’impegno e il lavoro degli ultimi due anni: lavoro, dapprima, lento e faticoso, sostenuto per diciotto mesi da fedeltà nascoste; poi rapido, quasi fulmineo, quando, dalla sera della domenica delle Palme, Dio, piombando su di lei come sulla sua preda, verrà a compiere Egli stesso nel corpo e nell’anima sua la divina opera di distruzione e di consumazione. Giungerà allora all’unione trasformante, non sul Thabor, ma, come l’aveva desiderato, nella somiglianza a Gesù Crocifisso e nella conformità alla Sua morte. È la fase più sublime di questa vita, ed è quella che ci rimane da analizzare. Da molti mesi, suor Elisabetta della Trinità soffriva di un malessere così penoso che, senza il soccorso di Dio, avrebbe dovuto soccombere. Addetta com’era all’ufficio di portinaia, doveva fare un vero sforzo per salire i primi gradini della scala, quando veniva chiamata; non si reggeva in piedi. « La mattina, dopo la recita delle Ore minori — confesserà poi alla sua Madre Priora — mi sentivo già spossata e mi domandavo come avrei potuto arrivare fino a sera. Dopo Compieta, la mia viltà giungeva al colmo, tanto che ebbi a volte la tentazione di invidiare una mia consorella dispensata dal Mattutino. Il tempo del silenzio rigoroso lo passavo in una vera agonia; la univo a quella del mio divino Maestro, standomene vicina a Lui. presso la grata del coro. Era un’ora di puro patire che mi otteneva però la forza per il Mattutino che recitavo, riacquistando una certa facilità di applicarmi a Dio. Ma poi, mi ritrovavo nella mia impotenza; e, protetta dall’oscurità risalivo alla meglio in cella, appoggiandomi al muro » (Ricordi). AI principio della Quaresima del 1906. dopo la ricreazione del mezzogiorno, suor Elisabetta. aprendo a caso come soleva fare, il suo caro san Paolo, incontrò questo versetto: « Ciò che io bramo è conoscere Lui, è la partecipazione ai Suoi patimenti, la conformità alla Sua morte » (Filipp. III, 10). Queste ultime parole la colpiscono: la conformità alla Sua morte. Sono forse l’annunzio della prossima liberazione? In piena Quaresima, si manifestano i sintomi di una grave malattia di stomaco; e, dopo la festa di san Giuseppe, suor Elisabetta della Trinità era definitivamente in infermeria. Lo sapevo che san Giuseppe sarebbe venuto a prendermi quest’anno — diceva tutta lieta. Eccolo già che viene ». Si organizzò una vera crociata di preghiere: ma invano, ché il male progrediva. Suor Elisabetta esultava. Oltrepassando ogni considerazione sulle sue cause seconde, ella chiamava quella malattia misteriosa: la malattia dell’amore. « È Lui che mi lavora e mi consuma; io mi dono, mi abbandono all’opera sua, contenta fin d’ora di tutto ciò che farà ». – La domenica delle Palme, sopraggiunse una sincope ad aggravare improvvisamente il suo stato, tanto che fu chiamato, nella notte, un Sacerdote. Suor Elisabetta, con lo sguardo luminoso, le mani giunte, stringendo al petto il bel Crocifisso della sua professione, ripeteva con invocazione ardente: « O Amore, Amore! ». « Ho assistito molti malati — diceva il Sacerdote che le aveva amministrato l’Estrema Unzione — non ho visto mai un simile spettacolo ». – Il venerdì santo pareva che dovesse spirare; ma la crisi fu superata; anzi, la mattina del sabato, le infermiere meravigliate la trovarono inginocchiata sul letto. Il ritorno alla vita fu quasi una delusione per lei. « La sera della domenica delle Palme ho avuto una forte crisi e ho creduto che fosse giunta finalmente l’ora di prendere il volo verso le regioni infinite, per contemplare svelatamente quella Trinità che è ora mia dimora, quaggiù. Nella calma silenziosa della notte, ho ricevuto l’Estrema Unzione e la visita del mio Gesù. Credevo che Egli avrebbe scelto quell’istante per rompere i miei legami. Che giorni ineffabili ho passato, nell’attesa della grande visione! » (Lettera a G. de G… – Maggio 1906). – « A voi, che siete sempre stato il mio confidente, so di poter dire tutto. La prospettiva di andare a vedere presto, nella sua ineffabile bellezza, Colui che amo e di inabissarmi in quella Trinità che è già il mio Cielo quaggiù, dà all’anima mia una gioia immensa. Quanto mi costerebbe se dovessi ritornare sulla terra; La terra mi pare così brutta uscendo dal mio bel sogno! Soltanto in Dio tutto è puro, bello e santo » (Lettera al Canonico A… – Maggio 1906.). Questa crisi violenta l’aveva avvicinata al mondo invisibile. Abituata a vivere al disopra delle cause seconde, suor Elisabetta comprese, fino dal primo istante, la ragione provvidenziale di quella malattia; vi scoprì la mano di Dio, il suo « troppo grande amore » che più intensamente la incalzava e, immediatamente, aderì al piano divino. « Se Dio mi ha reso un po’ di vita — disse a se stessa — non può essere che per la Sua gloria ». Sì: Dio voleva sollevarla e stabilirla sulla più alta cima della montagna del Carmelo dove, secondo il celebre scritto di san Giovanni della Croce, « non c’è più che l’onore e la gloria di Dio ». – Nell’estate del 1905, qualche mese prima di questa crisi, mentre si intratteneva intimamente con una consorella durante una licenza (Le « licenze » sono alcuni giorni nei quali le suore possono visitarsi nelle celle e intrattenersi insieme,), aveva trovato, in san Paolo il suo definitivo nome di grazia: « Laudem gloriæ » e, da allora, tutti gli sforzi della sua vita interiore si volgevano in questo senso. La cosa avrebbe potuto languire, col tempo. Dio tagliò corto. Avviene spesso così. Egli lascia che le anime avanzino col loro passo nelle vie divine; poi, intervenendo all’improvviso, prende Lui personalmente la direzione della loro vita nei minimi particolari; finalmente, nello slancio di una grazia irresistibile, le rapisce a sé. Si serve delle cause seconde; una grande prova che schianta tutta una vita, una malattia che sembra condurre alla morte…! in realtà, è l’ora divina del Calvario che tutto «compie e perfeziona. – Così fu per suor Elisabetta della Trinità. La crisi fulminea della sera delle Palme e del venerdì santo fu il segnale della liberazione suprema, fu l’entrata definitiva nella unione trasformante. Da quel momento, estranea a tutte le cose della terra, viveva quaggiù con l’anima già immersa nella eternità. Le consorelle che entrarono maggiormente nella sua intimità confessano che fu per esse la rivelazione di una santa. « Sentivamo che stava per lasciarci ». — « Non potevamo più seguirla; era già una creatura dell’al di là ». La si vedeva procedere nella via del dolore « con la dignità di una regina », secondo l’espressione usata da un testimonio, senza saper che era l’espressione stessa di suor Elisabetta. Appariva con evidenza che, quanto più il suo essere fisico si andava disfacendo, altrettanto l’anima, sempre più beata, oltrepassando se stessa, si obliava. Da un unico pensiero era dominata, sempre: la lode di gloria alla Trinità; da un unico desiderio: consumare la sua vita a bene delle anime; da un unico sogno: morire trasformata in Gesù Crocifisso.

« Mi indebolisco di giorno in giorno, e sento che ormai il mio Signore non tarderà molto a venire a prendermi. Esperimento e gusto gioie ineffabili: le gioie del dolore… Sogno di essere trasformata prima di morire in Gesù Crocifisso » (Lettera a G. de G… – Fine di ottobre 1906.). – Gli ultimi mesi di quest’anima essenzialmente trinitaria furono tutti pervasi dal pensiero del Crocifisso; tanto è vero, come afferma santa Teresa, che anche negli stati mistici più elevati, il ricordo dell’Umanità di Cristo non deve indebolirsi mai. Colui che, come Dio, è il termine, come Uomo rimane sempre la via che a Dio conduce: il Calvario è il solo cammino per giungere alla Trinità. Al pensiero costante della gloria della Trinità santa, pensiero che domina luminosamente tutta la vita interiore di suor Elisabetta, si unisce l’intima contemplazione del Crocifisso. « Configuratus morti eius »: ecco l’altro pensiero che non mi abbandona mai, che mi dà forza nei patimenti. Se sapeste quale opera di distruzione sento in tutto l’essere mio! È la via del Calvario ormai aperta dinanzi a me; e io sono felice di camminarvi, come una sposa a lato del divino Crocefisso. Il 18 di questo mese, avrò 26 anni; non so se questo nuovo anno della mia vita si compirà nel tempo o nella eternità: e vi chiedo, come una bimba al Padre suo, di volermi consacrare, durante la santa Messa, come un’ostia di lode alla gloria di Dio. Consacratemi così interamente, che io non sia più io, ma Lui; così che il Padre, guardandomi, possa riconoscere Lui in me. Che io divenga « conforme alla sua morte », che io soffra in me ciò che manca alla sua Passione per il suo Corpo mistico: la Chiesa. E poi, bagnatemi nel Sangue di Cristo, perché mi renda forte della sua stessa forza » (Lettera al Canonico A… – Luglio 1906.).Così, la vita spirituale, di suor Elisabetta si riduceva sempre più all’essenziale: la trasformazione in Cristo per amore, l’intimità filiale di quasi tutti gl’istanti con la Vergine santa, il senso trinitario del suo Battesimo. Il movimento della sua vita interiore rapita nell’anima del Crocefisso, diviene ben presto semplicissimo: la gloria della Trinità: e basta. Essa è giunta, oramai, alla superiore unità dell’anima dei santi che hanno raggiunto Cristo in pienezza. Tutto il resto, o rientra in questa unicità, o scompare. Nell’anima sua tutto si armonizza. Il « palazzo della beatitudine o del dolore » per lei, è tutt’uno; ma il desiderio della sofferenza non esclude quello del Cielo che, anzi, l’attrae sempre di più, da che il suo spirito ha preso contatto con gli ultimi capitoli dell’Apocalisse sulla Gerusalemme celeste, divenuto ora la lettura delle sue lunghe notti d’insonnia. Mai la si vide così divina insieme e così umana. La sua tenerezza si manifestava soprattutto verso le sue sorelle di religione. « Il cuore di Cristo non fu mai così espansivo come nell’ora suprema, in cui stava per abbandonare i suoi. Anch’io, sorellina mia (Così scrive ad una postulante che una circostanza speciale aveva ricondotta in famiglia, e della quale, nel Carmelo, era stata l’angelo, secondo gli usi dell’Ordine, la suora incaricata di iniziare una postulante alle abitudini della Comunità -N. d. T.-.), non ho provato mai, come ora, un bisogno così grande di avvolgerti nella mia preghiera. Quando i miei dolori si fanno più acuti, mi sento talmente spinta a offrirli per te, che non potrei non farlo. Chi sa perché! Ne hai forse bisogno in modo speciale? Sei afflitta da qualche pena? Le mie te le dono tutte, perché tu ne disponga pienamente. Se tu sapessi come son felice al pensiero che il mio Maestro divino sta per venire a prendermi! Come è bella e ideale la morte per coloro che Dio ha custoditi, affinché non cercassero le cose visibili che sono passeggere, ma le invisibili che non hanno fine! In Cielo, io sarò più che mai il tuo angelo. So quanto la mia sorellina ha bisogno di essere custodita, in quella Parigi dove è costretta a vivere. San Paolo dice che Dio ci ha eletti in Lui, prima della creazione del mondo, affinché siamo santi e immacolati al suo cospetto, nell’amore (Efes. I, 4); ed io, con tutta l’anima, pregherò che questo grande decreto della sua volontà si compia in te. Ascolta, quindi, il consiglio del medesimo Apostolo: Camminate in Gesù Cristo, radicati in Lui, edificati in Lui, fortificati nella fede, crescendo in Lui sempre di più (Coloss. II, 7). Mentre contemplerò la bellezza ideale nella sua luce infinita, le chiederò di imprimersi nell’anima tua perché fin d’ora, su questa terra in cui tutto è macchiato, tu sia bella della Sua bellezza, luminosa della Sua luce. A Dio. Ringrazialo per me, perché la mia gioia è immensa. Ti dò appuntamento nell’eredità dei santi. Là, nel coro delle Vergini, generazione pura come la luce, noi canteremo lo stupendo cantico dell’Agnello e il Sanctus eterno, sotto l’irradiazione del Volto di Dio. Allora, dice san Paolo, saremo trasfigurati di luce in luce, assumendo la stessa figura di Lui (II Cor., 3-18). Ti abbraccio con tutto l’affetto del mio cuore, e sono il tuo angelo per l’eternità » (Lettera a C… B… – Fine dell’estate 1906.). La sera del 2 agosto 1906, anniversario della sua entrata al Carmelo, suor Elisabetta, non riuscendo a prender sonno, si siede presso la finestra, e vi rimane quasi fino alla mezzanotte, in colloquio col suo Signore. Quella fu per lei una serata divina: « Il cielo era così calmo, così azzurro! Nel monastero regnava un silenzio profondo… Ed io rivivevo col ricordo questi cinque anni pieni di tante grazie » (Lettera alla mamma – 3 agosto 1906). –  Sentendo avvicinarsi lo spogliamento supremo, ella chiede alla sua Madre Priora di poter entrare in ritiro la sera del 15 agosto, per prepararsi al suo passaggio alla eterna vita; ne dà notizia ad una consorella, annunziandole in un biglietto che parte con Janua cœli per alcuni giorni di preghiera e di raccoglimento: « Laudem Gloriæ » entra questa sera nel noviziato del Cielo per ricevervi la veste di gloria, e ha bisogno di venire a raccomandarsi alla sua suor A…  “Quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza — dice san Paolo — li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo” (Rom. VII, 29). Ecco ciò che vado a farmi insegnare: la conformità al mio Maestro adorato, il Crocifisso per amore. Allora, potrò adempiere il mio ufficio di Lode di gloria e cantare già il Sanctus eterno, nell’attesa di intonarlo negli atri divini della casa del Padre » (Biglietto ad una delle sue consorelle). Fu proprio in quelle sere e in quelle notti di silenzio con Dio, in cui sentiva che il Maestro divino la incamminava verso il suo Calvario, che, per desiderio della sua Madre Priora, compose « L’ultimo ritiro di Laudem gloriæ », per dirle come concepiva il suo ufficio di lode di gloria. Fino all’ultima settimana, la si vide trascinarsi alle « Laudi notturne », e là, tutta raggomitolata in un angolo della tribuna, estrarre fin l’ultima stilla dal suo essere esausto. Nella misura che le permetteva la debolezza estrema, restò fedele sino all’ultimo alle minime osservanze del suo Ordine. Spesso, durante insonnie interminabili, soffriva nel corpo e nell’anima un vero martirio; allora, con grande spirito di fede, si rifugiava presso la sua Madre Priora che ella chiamava suo sacerdote, incaricato da Dio di consumare il suo sacrificio supremo. – « Ore 11. Dal palazzo del dolore e della beatitudine. Madre mia, mio sacerdote, la vostra piccola « Lode di gloria » non può dormire; soffre. Ma nell’anima sua, per quanto vi passi l’angoscia, regna però tanta calma. Ed è stata la vostra visita che mi ha recato questa pace di cielo. Aiutatemi a salire il mio Calvario! Sento così fortemente la potenza del vostro sacerdozio sull’anima mia, e ho tanto bisogno di voi. – Madre mia, sento che i miei “Tre” mi sono tanto vicini. Sono sopraffatta più dalla gioia che dal dolore. Il Signore mi ha ricordato che qui Egli vuole che io rimanga, e che non tocca a me scegliere le mie sofferenze; mi inabisso dunque insieme a Lui nel dolore immenso, con tutti i miei timori e le mie angosce » (ottobre 1906). – « Madre, amato mio sacerdote, la vostra piccola ostia soffre molto, molto; è una specie di agonia fisica; e si sente così vile! vile fino a gridare. Ma l’Essere che è Amore, pienezza d’Amore, viene a trovarla, a tenerle compagnia, l’associa a sé, mentre le fa comprendere che, fin quando la lascerà sulla terra, le dispenserà sempre il dolore » (ottobre 1906). – Mai si poté sorprendere in lei la minima debolezza, anche fra le più acute sofferenze; il suo bel sorriso non l’abbandonò mai. Nelle ultime settimane che furono un vero martirio, il dono della forza |si manifestò in lei stupendamente. Le fu chiesto, un giorno, se soffriva molto; essa fece un gesto come per indicare che le venivano straziati i visceri… e il volto le si contrasse; poi, riprese subito la sua amabile serenità. Proprio in questo stato di estrema spossatezza, la rivide il Padre Vallée, per l’ultima volta, il 15 ottobre. Fu colpito dall’opera di distruzione compiuta da Dio in quest’anima, rendendola così ineffabilmente, così devotamente bella; e la invitò ad elevarsi ancora di più, elevarsi in uno sforzo supremo fino all’amore che oltrepassa anche il dolore. Ed essa, consolata da quest’ultima visita del suo Padre, ascese quelle vette che Egli le aveva fatte intravedere. Questi stati superiori di unione trasformante, sul Calvario, non hanno più nulla di paragonabile a quanto accade sulla terra. Il 29 ottobre, grazie ad un lieve miglioramento, poté scendere in parlatorio e rivedervi tutti i suoi cari. Le avevano condotto le sue nipotine, « due bei gigli tutti candore ». La mamma loro le fece inginocchiare presso la grata, e suor Elisabetta, sollevando il grande Crocifisso della sua professione, le benedisse. Nel momento dell’addio, ebbe il coraggio di dire alla mamma: « Mamma, quando la nostra suora commissionaria verrà ad avvertirti che ho finito di soffrire, tu ti prostrerai in ginocchio esclamando: — Mio Dio, tu me l’avevi data, tu me l’hai presa; sia benedetto il tuo Santo Nome» (Quando la signora Catez, avvertita dalla suora commissionaria, si recò nel parlatorio dove la salma della sua figliola era esposta, ebbe un grido di dolore. Allora, un’amica che l’accompagnava le disse: Ricordatevi ciò che vi ha detto Elisabetta ». La coraggiosa madre se ne ricordò; e, cadendo in ginocchio mormorò: « Mio Dio, tu me l’avevi data, tu me l’hai presa. Sia benedetto il tuo santo nome! ».). – Il giorno seguente, suor Elisabetta della Trinità non poteva più lasciare l’infermeria. Alla sera, fu presa da un tremito fortissimo che tutta la scuoteva nel suo lettuccio; la notte, sembrò che il cielo le si aprisse nuovamente: bisognava far presto. E, fin dalla mattina del 31, le fu rinnovata la grazia degli ultimi Sacramenti. La Chiesa cantava i primi Vespri della festa di Ognissanti, e suor Elisabetta, non potendo ormai più scrivere, dettò un ultimo messaggio: « Ecco; io credo che sia giunto il gran giorno desiderato ardentemente del mio incontro con lo Sposo unicamente amato, adorato. Ho la speranza di potermi trovare, stasera, fra “quella grande moltitudine”, contemplata da san Giovanni dinanzi al Trono dell’Agnello in atto di servirlo notte e giorno nel suo santo tempio. Vi do appuntamento in questo bel capitolo dell’Apocalisse, e nell’ultimo che eleva così bene l’anima al di sopra della terra, nella visione in cui sto per immergermi… per sempre… ». A mezzogiorno, tutte le campane della città suonarono l’Angelus. «Ah Madre! — esclamò — queste campane mi dilatano il cuore; suonano per la partenza di Laudem gloriæ. Mi faranno morire di gioia, queste campane. Partiamo, dunque! ». E tendeva le braccia al cielo. – Il 1° novembre, festa di tutti i Santi, verso le 10 del mattino, sembrava giunta l’ora suprema, e la comunità si riunì in infermeria per recitare le preghiere degli agonizzanti. Suor Elisabetta, sollevandosi dalla sua prostrazione, assicuratasi che tutte le suore erano presenti, chiese loro perdono. Poi, per compiacere al desiderio che le esprimevano, mormorò, come in un sospiro, queste frasi: « Tutto passa… Alla sera della vita, non rimane che l’amore… Bisogna fare tutto per amore… Bisogna dimenticarsi sempre… Il buon Dio gradisce tanto che ci si dimentichi. Ah, se l’avessi fatto sempre! ». Cominciarono, da allora, nove giorni di penosa agonia. Distesa sul suo letto come sopra un altare, gli occhi chiusi, la vita concentrata tutta nel profondo dell’anima, la santa vittima pregava. Quando si cercava di consolarla per la dolorosa privazione della santa Comunione che non poteva più ricevere: « Lo trovo sulla croce — diceva — Egli mi dona la vita ». Violentissimi dolori al capo fecero temere una meningite; fu scongiurata con continue applicazioni di ghiaccio il quale si fondeva istantaneamente. Le pareva di avere il cervello in fiamme; la parola, che diveniva quasi inafferrabile, rivelava una divina unione consumata. Il suo volto emaciato e irriconoscibile, assumeva talvolta in modo impressionante i lineamenti dolorosi del santo Volto. Sembrava un Cristo in croce. Tre settimane prima, aveva confidato alla sua Madre Priora: « Se il mio Signore mi facesse scegliere fra la morte in un’estasi o nell’abbandono del Calvario, sceglierei quest’ultima per assomigliare a Lui ». E il Signore l’aveva pienamente esaudita: era la desolazione del Calvario, nell’intimo come al di fuori. Dopo una crisi violenta, la si era udita esclamare: « O Amore, Amore, consuma tutta la mia sostanza per la tua gloria! Che essa possa distillarsi goccia a goccia per la tua Chiesa ». L’antivigilia della morte, il medico non le nascose la estrema debolezza del suo polso; ne esultò, e trovò la forza di dire: « Fra due giorni, sarò in seno ai miei “Tre”. Sarà la Madonna, questo essere tutto luce, che mi prenderà per mano per condurmi al Cielo ». Il medico, incredulo, si meravigliava di una tale gioia; e suor Elisabetta gli parlò allora dell’adozione divina, del grande mistero dell’Amore che si china su di noi… Questi ultimi slanci l’avevano interamente esaurita; si poté però sentirla mormorare ancora, quasi in tono di canto: « Vado alla Luce, all’Amore, alla Vita! ». Furono le ultime parole intelligibili. Il venerdì, 9 novembre, alle cinque e tre quarti del mattino, si piegò sul lato destro, col capo arrovesciato all’indietro. Il volto le si illuminò; i suoi begli occhi, da otto giorni chiusi e quasi spenti, si aprirono, fissandosi con espressione ineffabile in un punto un po’ al di sopra della Madre Priora, inginocchiata presso il suo letto. Era bella come un Angelo. Le suore che, intorno a lei, recitavano le preghiere degli agonizzanti, non potevano distaccarne lo sguardo. – Poi, senza che fosse dato loro di sorprenderne l’ultimo respiro, si accorsero che suor Elisabetta non era più. Era l’alba della « Dedicazione », una delle feste a lei più care. Mentre, in coro, alla presenza delle sue spoglie mortali, le suore cantavano le lodi della Casa di Dio: « Beata pacis visio », suor Elisabetta, già nell’immutabile visione di pace e negli splendori della celeste Gerusalemme, che era stato il pensiero più assiduo degli ultimi suoi giorni, era unita alla moltitudine dei Beati che, con le palme in mano, ripetono incessantemente il cantico: « Santo, santo, santo, il Signore onnipotente che era, che è, che sarà, nei secoli dei secoli ». – Con essi, prostrandosi, adorando e gettando ai piedi del trono dell’Agnello la sua corona, ricompensa del suo martirio d’amore, ella ripeteva senza posa: « Dignus es, Domine. Sì, Tu sei degno, Signore, di ricevere onore, potenza, sapienza, forza e divinità » (Apoc. V). Alla presenza della Trinità Santa, suor Elisabetta era divenuta Lode di Gloria per l’eternità.

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (6)

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (20)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (20)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni

ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO V.

Del santo Sacrificio della Messa.

Ciò che siamo venuti discorrendo di Gesù Sommo Sacerdote e del suo sacrificio, e della partecipazione che la Vergine Maria, il Sacerdote e i fedeli hanno al suo Sacerdozio, ci deve già far capire quanta sia l’importanza del santo Sacrificio della Messa nella vita del Cristiano e le disposizioni con cui vi si deve assistere. – L’ufficio essenziale del sacerdote è, dice san Paolo, di offrire oblazioni e sacrifizi (Hebr. V, 1); quindi se il Sacerdote cattolico partecipa veramente al Sacerdozio di Nostro Signore Gesù Cristo, deve offrire anch’esso un sacrificio. Ora nella nuova Legge non vi è in sostanza che un solo Sacrificio, come non vi è che un solo Sacerdote: « Cristo, dice san Paolo, non ha bisogno, come i sacerdoti dell’antica Legge, di offrire quotidiani sacrifici per i peccati suoi e per quelli del popolo; perché questo fece una volta per tutte, immolando se stesso » (Hebr. V, 27). Ma quest’unico Sacrificio, anticipato nell’ultima Cena e compiuto poi sul Calvario, si rinnova quotidianamente sui nostri altari per ministero dei Sacerdoti, onde applicarne i frutti a ognuno di noi. Di questo divino Sacrificio intendiamo ora parlare, spiegandone: 1° la natura; 2° gli effetti; 3° il modo di trarne profitto a perfezionamento della nostra vita interiore.

ART. L. — NATURA DEL SACRIFICIO DELLA MESSA.

Il Concilio di Trento (Sess. XXII, cap. I e II) c’insegna che Gesù, volendo lasciare alla diletta Sua sposa la Chiesa un Sacrificio visibile, istituì la santa Messa, perché fosse memoriale iperenne e vivente rappresentazione del Sacrificio della Croce e vitale Comunione con Lui. Dottrina importantissima che verremo ora spiegando.

1°. La santa Messa è memoriale perenne del Sacrificio della Croce.

a) Nell’ultima Cena, Gesù, dopo che ebbe cangiato il pane nel suo corpo e il vino nel suo Sangue, disse agli Apostoli: « Fate questo in Memoria di me » (Luc. XXII, 19). Con queste parole comunicava loro il potere di consacrare il suo corpo e il suo sangue, ma imponeva anche il dovere di ricordarsi di Lui. E in che modo se ne ricorderanno? Ce lo spiega san Paolo: « Ogni volta che mangiate questo pane e bevete questo calice, voi annunziate la morte del Signore » )I Ep. Cor. XI, 26). Bisogna dunque nella santa Messa ricordarsi di Gesù crocifisso. Ma poi non aveva forse detto il Maestro che il corpo che porgeva agli Apostoli era il suo corpo rotto, stritolato, che il suo sangue era sangue versato, Sparso per noi? Espressioni che chiaramente si riferiscono alla sua morte. La santa Messa sarà dunque innanzi tutto il memoriale della Passione, e nell’assistervi dovremo recarci in ispirito sul Calvario e rappresentarci Gesù crocifisso, Gesù agonizzante, Gesù morente per noi. Ha quindi ragione Bossuet (La Cène, I partie, XXII jour) quando, nel commentar questo passo, pone sul labbro di Gesù queste tenere parole: « Ricordatevi in eterno del dono che vi fo questa notte; ricordatevi che sono Io che ve l’ho lasciato e che feci questo testamento; che vi ho lasciato questa Pasqua; e che la mangiai con voi prima di patire. Se vi do il mio corpo come destinato ad essere consegnato, anzi come già consegnato alla morte per voi, e il mio sangue come sparso pei vostri peccati; se insomma ve lo do come vittima, e voi come vittima mangiatelo, e ricordatevi che avete qui una prova che essa venne immolata per voi ».

b) La Chiesa si dà premura di rammentarcelo nella sacra liturgia. Quando il Sacerdote sale all’altare, è vestito di paramenti sacri che richiamano alcune delle scene della Passione; e la pianeta che tutto lo avvolge, è segnata con una gran croce: è quindi un altro Gesù che sale a un nuovo Calvario. Al principio della Messa, e Spesso nel corso del santo Sacrificio, il Sacerdote fa il segno di croce ora sopra di sé, ore sulle oblate, per rammentare al popolo cristiano che la grande azione che sta celebrando è il memoriale della morte del Salvatore. Dopo avere offerto l’ostia e il calice, che già rappresentano il corpo e il sangue del divin Crocifisso, supplica la santissima Trinità di accettare quell’offerta in memoria della passione, « ob memoriam passionis ». Ma specialmente al momento della consacrazione richiama le varie circostanze che accompagnarono l’istituzione di questo Sacrificio, cominciando dal rilevare che fu istituito la vigilia della sua morte, « qui pridie quam pateretur ». Sentiamo da Bossuet (Médit, sur l’Ev., I p., XIX giorno) il commento di queste parole: « Gesù intendeva, in questo mistero, di farci presente la sua morte, di trasportarci in ispirito sul Calvario dove il suo sangue fu Sparso sgorgando a fiotti da tutte le sue vene… Perché tutto corrispondesse al suo disegno, bisognava che questo mistero fosse istituito la vigilia di quella morte cruenta, la notte stessa in cui doveva esser dato in mano dei suoi nemici, come nota san Paolo, quando Giuda, che aveva già tramato il nero suo delitto, stava per andarlo ad eseguire.… Tutte le volte dunque che assistiamo al suo mistero o che ci comunichiamo, tutte le volte che ascoltiamo le parole: « Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue », dobbiamo richiamare in quali circostanze, in quale notte, fra quali discorsi esse vennero pronunciate ». Or tutto questo intenderemo anche meglio, quando avremo veduto che la Messa non è soltanto un memoriale, ma anche una rappresentazione del Sacrificio del Calvario. »

-2°. La Messa è vivente rappresentazione del Sacrificio della Croce.

Tale è l’insegnamento della Chiesa nel Concilio di Trento: « Gesù Cristo, Dio e Signor Nostro, sebbene una volta sola doveva offrire se stesso a Dio Padre morendo sull’altare della croce, per operarvi l’eterna redenzione, nondimeno, per lasciare alla diletta sua Sposa la Chiesa un Sacrificio visibile, come la natura dell’uomo esige, col quale fosse rappresentato quel Sacrificio cruento che doveva compiersi una sola volta sulla croce, nell’ultima cena, nella notte in. cui veniva tradito, dichiarandosi Sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech, offri a Dio Padre il suo corpo e il suo sangue sotto le specie del pane e del vino; e li porse in cibo, sotto i simboli di queste stesse Cose, agli Apostoli, che costituiva allora Sacerdoti del nuovo Testamento; e con queste parole « Fate questo in Memoria di me », diede ad essi e ai loro successori nel sacerdozio il comando di offrirli: conforme sempre intese ed insegnò la Chiesa cattolica ». Troviamo in questa esposizione della fede cattolica, fatta in modo così ampio e con sentimento così profondo, specialmente tre idee che fanno al nostro argomento: a) la Messa è una ripetizione della Cena; b) la Cena fu un vero sacrificio; c) la Messa, come la Cena, è una reale rappresentazione del Sacrificio della Croce.

A) Che la santa Messa sia una ripetizione dell’ultima Cena è direttamente insegnato dal Concilio di Trento nel testo ora citato e nei canoni 1° e 2° che condannano la dottrina protestante. Afferma, infatti, il Concilio che la Messa è un vero Sacrificio; e che questo Sacrificio fu istituito nell’ultima cena quando Gesù diede agli Apostoli il potere di rifare ciò che Egli aveva allora fatto. Onde la Cena è veramente la prima Messa, celebrata da Nostro Signore, Messa che gli Apostoli e i loro successori diranno ogni giorno ripetendo le parole del Sommo Sacerdote. È cosa del resto che risulta dalla narrazione evangelica e dalle parole del Canone. Che fa Gesù nell’ultima Cena? Giunta l’ora, si pone a mensa coi dodici Apostoli. Terminato il solenne banchetto pasquale, prende del pane, e, rese grazie a Dio, lo spezza e lo distribuisce agli Apostoli dicendo: « Questo è il mio corpo che è dato per voi: fate questo in memoria di me ». Lo stesso fa del calice : « Questo è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza, Sparso per molti in remissione dei peccati ». Orbene e non rifà la stessa cosa il Sacerdote ogni giorno nel canone della Messa? Ripete le parole stesse di Nostro Signore; cangia in nome suo il pane nel corpo e il vino nel sangue di Cristo, e offre a Dio quest’ostia pura, santa e immacolata. È una vera ripetizione della Cena, abbiamo sull’altare il Sacrificio offerto nel Cenacolo.

B) Infatti la Cena fu un vero Sacrificio. È ciò che insegna il Concilio di Trento nel testo citato più sopra, e anche ciò che si ricava dalla narrazione evangelica. Nel Vangelo la Cena tiene immediatamente dietro al banchetto pasquale e ne prende il posto: l’agnello che i Giudei immolavano non era se non il simbolo del vero Agnello di Dio che viene ad immolarsi per cancellare i peccati del mondo. Quest’Agnello sarà cruentamente immolato sulla croce soltanto il giorno dopo, è vero, ma nella Cena viene già offerto e immolato incruentamente come vittima previamente consacrata alla morte cruenta; ecco perché Gesù adopra espressioni che indicano lo stato di vittima in cui pone il suo corpo e il suo sangue: mangiate, è il mio corpo dato per voi; bevete, è il mio sangue versato per voi. Nel testo greco i verbi sono al presente, non al futuro; quindi fin da quel momento Gesù si offre vittima, liberamente accettando la morte che gli sarà inflitta il giorno appresso; immola in modo mistico la vittima che il dimani sarà immolata in modo cruento: la sua vita più non gli appartiene, l’ha ormai data per la salute del mondo. In ciò si vede che Gesù è sacerdote secondo l’ordine e il rito di Melchisedech: Melchisedech aveva offerto in sacrificio a Dio del pane e del vino; Gesù, nell’ultima cena, offre se stesso sotto le specie del pane e del vino, e diviene così Sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech, come molti secoli prima aveva predetto il Salmista (Ps. CIX, 4). La Cena è dunque un vero Sacrificio; onde la Messa, che ne è la ripetizione, è anch’essa, secondo l’autorevole insegnamento del Concilio di Trento, un vero sacrificio. Resta a vedere quali sono le relazioni che corrono tra la Cena, la Messa e il Sacrificio del Calvario.

C) La Messa è la rappresentazione reale e vivente del Sacrificio del Calvario. Sentiamo di nuovo il Concilio di Trento (Sess. XXII, c. II): « In questo divino Sacrificio, che si fa nella Messa, è contenuto e incruentamente immolato quello stesso Cristo che una sola volta offrì in modo cruento se stesso sull’altare della croce.….. Ë infatti una sola e medesima la vittima; e Colui che si offre ora per il ministero dei Sacerdoti, è quello stesso che offri allora se stesso sulla croce; la diversità sta soltanto nel modo di offrirsi ». – Deve quindi dirsi, stando alla dichiarazione del Concilio di Trento, che questi due sacrifici, pur differendo quanto al modo, si rassomigliano quanto alla sostanza. Differiscono in questo che, sulla croce, l’immolazione di Gesù fu cruenta, cioè con reale spargimento di sangue e con morte vera ed effettiva. Si rassomigliano, perché e nell’uno e nell’altro c’è lo stesso Sacerdote e la stessa Vittima.

a) C’è lo stesso Sacerdote: come già ripetutamente dicemmo, il Sommo Sacerdote della nuova Legge, anzi, a dir vero, l’unico Sacerdote, è Gesù Cristo. Nella Messa si offre, è vero, per mano dei Sacerdoti ed è ministero necessario; ma, Si noti bene, le cose non stanno così se non per un atto di libera volontà di Gesù, che volle legare la sua presenza sull’altare alla volontà e all’opera di un uomo. Il Sacerdote quindi, chi consideri l’origine del suo sacerdozio, non è Sacerdote se non in dipendenza da Cristo e non opera se non come suo rappresentante. D’altra parte, pronunciate le parole della consacrazione ed effettuatasi la transustanziazione, Gesù è veramente presente sull’altare in atto di offrirsi da sé al Padre, e l’offerta che ne fa il Sacerdote, e con lui tutta la Chiesa, non solo è associata alla sua ma anche dipendente dalla sua. Nella Messa quindi è innanzi tutto Gesù che offre se stesso; e noi suoi Sacerdoti non l’offriamo se non con Lui, per Lui, in Lui. Onde Gesù rimane, come sul Calvario, il Sacerdote del suo Sacrificio.

b) E ne è pure la Vittima: per il fatto stesso che il Sacerdote pronuncia le parole della consacrazione, il Salvatore si fa realmente presente sull’altare, nascosto sotto il velo delle sacre specie; e c’è cogli stessi sentimenti e colle stesse disposizioni che aveva sulla Croce. Vi sta adorando il Padre; confessando, come uomo, la totale Sua dipendenza da Lui; chiedendo perdono dei nostri peccati; ancora disposto, se occorresse, ad essere ubbidiente fino alla morte di croce. Avendo dunque sull’altare lo stesso Cristo con le stesse disposizioni del Calvario, abbiamo pure lo stesso Sacrificio; perché in fondo ciò che vale è prima di tutto la cosa in sé, non il modo. La cruenta immolazione del Calvario è quella che a noi fa più impressione, ma non è quella che conta di più agli occhi di Dio, il quale pregia certamente assai più i sentimenti di amore filiale e di religione profonda che indussero Gesù ad accettare un tale Sacrificio per la gloria del Padre. Per il Sacrificio visibile che Cristo voleva offrire, occorreva una manifestazione sensibile degli interni suoi sentimenti; e nulla, di certo, poteva esprimerla meglio dell’immolazione del Calvario; ma ciò che dà pregio e valore a quest’immolazione è l’amore, sono tutti i sentimenti di religione che la ispirano. « Sappiate, dice l’Olier (Cat. Crist., II, 1, 3), che in Nostro Signore, come in tutti i Cristiani sue membra, la cosa principale non è l’esterno delle opere che si vedono, ma ci che si deve maggiormente stimare è l’operazione segreta e interiore dello Spirito Santo che è l’autore e il principio di tutte le opere buone, come è anche ciò in cui Dio maggiormente si compiace. Le auguste disposizioni interiori di Gesù essendo le stesse sulla croce che sull’altare, sotto i veli del pane che sotto i veli della carne, queste noi dobbiamo pur sempre maggiormente stimare ed onorare nel sacrificio di Nostro Signore, che incominciò sulla croce e continua sui santi altari ». – Facciamo tesoro di questo pensiero per richiamarlo a tempo opportuno. Potrebbe essere che fossimo tentati di comportarci verso questa vittima che il Sacerdote leva in alto dopo la consacrazione come se fosse insensibile e morta; no, Gesù è nell’ostia perfettamente vivo, risorto, glorioso, l’anima sua però è sempre in quell’atteggiamento verso il Padre che aveva quando venne levato in croce dai carnefici.

c) Ma in che modo Gesù viene immolato sull’altare, dacché Cristo risorto non può più né patire né morire?

1) Viene immolato innanzi tutto in modo mistico, ma reale, nel senso che le parole della consacrazione, mettendone da una parte il corpo e dall’altra il sangue, rappresentano in modo reale e vivente l’immolazione del Golgota, e sarebbero in sé capaci di causarla se Cristo risorto potesse ancora morire. Ecco come spiega la cosa Bossuet: « Nella consacrazione il corpo e il sangue sono misticamente separati, perché Gesù disse separatamente: Questo è il mio corpo e questo è il mio sangue; il che esprime una viva ed efficace rappresentazione della morte violenta da Lui sofferta ». (Exposition de la doctrine catholique sur les matières de Controverses, XIII). – « Il corpo e il sangue sono Separati; si, separati, il corpo da una parte, il sangue dall’altra: la parola della consacrazione fu la spada, fu l’affilato coltello che operò questa mistica separazione. In virtù della parola, sotto le specie del pane, non vi sarebbe altro che il corpo, e sotto le specie del vino non vi sarebbe altro che il sangue; se l’uno si trova coll’altro è perché in Gesù risorto queste due cose sono ormai inseparabili, non potendo più Gesù risorto né patire né morire. Ma a imprimere su questo Gesù il carattere della morte da Lui veramente sofferta, ecco la parola della consacrazione che mette il corpo da una parte ed il sangue dall’altra, e ognuno sotto segni diversi » (Médit, sur l’Ev., La Cène, I partie, LVII jour). – Le parole della consacrazione tendono dunque direttamente, secondo Bossuet, a darci sull’altare un Cristo realmente immolato: se questo non avviene e se di fatto Cristo è tutto intiero sotto le Specie del pane e tutto intiero sotto le specie del vino, la ragione è che Egli è morto una volta per tutte e che risorto non può più morire. Ma in virtù della doppia consacrazione e della reale separazione delle specie, noi abbiamo sull’altare una vera immagine della Passione del Salvatore. Non c’è Gesù immolato in modo cruento, essendo ciò ormai impossibile, ma c’è immolato in modo mistico e sacramentale. Il che è tanto vero che il Sacerdote parla come se le specie del pane contenessero il solo corpo del Salvatore e le specie del vino il solo sangue versato. Molte sono le volte che si regola a questo modo: per esempio, prima di consumare l’Ostia santa, dice: « Il corpo di Nostro Signore Gesù Cristo custodisca l’anima mia per la vita eterna ». E parimenti, prima di bere il sacro calice, dice: « Il sangue di Nostro Signor Gesù Cristo custodisca l’anima mia per la vita eterna ».

2) Ma ciò che fa che la santa Messa sia un vero e attuale sacrificio è che Colui che si immolò sul Calvario è veramente e sostanzialmente presente sull’altare e vi si offre colle stesse disposizioni interiori di amore e di obbedienza che ebbe sulla croce. – Sull’altare abbiamo dunque sostanzialmente lo stesso Sacrificio del Calvario: vi è infatti lo stesso Sacerdote e la stessa Vittima; diverso è soltanto il modo d’immolarsi. Nel momento della consacrazione schiudonsi i cieli, Gesù discende in mezzo a noi, e si offre per le mani del Sacerdote perché Dio sia glorificato e gli uomini salvati. – Possiamo aggiungere col Padre M. de la Taille che, come la Cena fu un vero sacrificio perché offriva la vittima che doveva essere poi immolato il dimani, cosi anche la santa Messa è un vero Sacrificio perché rinnova l’offerta della Vittima già immolata sul Calvario. Queste due spiegazioni non solo non si escludono ma si compiono a vicenda. – A perfezionare il suo sacrificio Gesü si dà in cibo all’anime nostre onde incorporarci a Lui; perché la comunione è parte integrante della Messa e mirabile suo compimento.

La Messa è comunione con Gesù e con Dio.

Come sopra dicemmo, la comunione ci unisce alla Vittima, e per lei a Dio stesso. Ecco perché non ci può esser Messa senza Comunione, almeno da parte del Sacerdote; ed ecco perché il Concilio di Trento desidera che i fedeli che assistono al santo Sacrificio ricevano essi pure il corpo e il sangue di Gesù per entrare in più intima comunione col suo spirito e colla sua vita. Infatti, il fine propostosi da Nostro Signore nell’istituire l’Eucaristia è di incorporarci a Lui, perché possiamo per Lui e in Lui glorificare Dio e unirci alle tre divine Persone.

A) La Comunione ci incorpora a Gesù.

È questa la ragione per cui Gesù la istituì sotto le specie del pane e del vino e ci dice: « Prendete e mangiate, questo è il mio corpo; prendete e bevete, questo è il mio sangue ». Cibandoci del suo corpo, del suo sangue, della sua anima e della sua divinità, ci incorpora a sé, e ci dà il diritto di far nostri i sentimenti suoi, di non far più con Lui che un cuore solo e un’anima sola.

a) Quanto sia stretta quest’unione viene bellamente spiegato da Bossuet (Médit. sur l’Ev., La Cène, 1 partie, XLIX jour), il quale dice che far bene la santa Comunione significa: « Essere incorporato a Gesù Cristo, essere perfettamente unito a Lui col corpo e coll’anima, essere con Lui una stessa carne e uno stesso spirito colla consumazione di questo casto sposalizio; essere osso delle sue ossa e carne della sua carne come una sposa fedele; ma essere anche anima della sua anima, in modo che Egli disponga di tutto, del nostro corpo, della nostra anima, del nostro amore, come noi disponiamo del suo essere, in una parola, il corpo di Gesù Cristo, essergli unito membro a membro, come sono unite le membra tra loro, come sono unite tutte le membra al capo; e questo per sempre, senza mai divisione o freddezza né con lui né con alcuno dei suoi membri, bramando Egli non solo di venire in noi ma anche di dimorarvi ».

b) È pure unione permanente: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me ed io in lui » (Giov. VI, 56). Gesù rimane in noi col divino suo Spirito che opera nelle anime nostre disposizioni simili alle sue; e noi rimaniamo in Lui per una specie di Comunione spirituale che c’infonde i pensieri e i sentimenti del Salvatore.

c) È unione santificatrice, perché ci trasforma adagio adagio in altri Cristi. I nostri pensieri e i nostri giudizi si vengono a mano a Mano modificando: in cambio di giudicar delle cose secondo le massime del mondo, ne giudichiamo secondo le massime del Vangelo. La nostra volontà si conforma a quella del divino Maestro: persuasi che Egli solo è nel vero perché Sapienza eterna, non vogliamo se non ciò che vuol Lui e con Lui ripetiamo: Padre, sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra! Il nostro cuore sgombera a poco a poco da sé gli affetti egoistici e troppo sensibili, per amare generosamente, ardentemente, supremamente Colui che solo merita di essere amato. Così la Comunione compie il Sacrificio, facendoci entrare nei sentimenti della Vittima divina, rendendo i nostri corpi e le anime nostre ostie veraci che, unite all’Ostia santa per eccellenza, glorificano Dio. Anche san Paolo stimolava i primi Cristiani a offrirsi come vittime : « Vi esorto, o fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi ostia vivente, santa, a Dio gradita; che è il culto spirituale vostro » (Rom. XII, 1).

B) Unendoci a Gesù, la Comunione ci unisce a Dio, ci unisce alle tre divine Persone della santissima Trinità. Gesù infatti è il Figlio eterno di Dio, è il Verbo incarnato; in Lui troviamo le altre due Persone della santissima Trinità, perché queste divine Persone vivono l’una nell’altra. – Il Figlio di Dio non viene quindi solo nell’anima nostra, ci viene col Padre che continuamente lo genera e collo Spirito Santo che per via di amore procede dal Padre e dal Figlio. Incorporati a Cristo, siamo perciò stesso figli adottivi di Dio ed entriamo nella sua famiglia. Oh! che onore e che gaudio per noi! Si effettua a questo modo il fine inteso da Dio da tutta l’eternità, la nostra intima unione colla Divinità. Il santo Sacrificio della Messa è dunque davvero l’atto per eccellenza del culto cristiano, il centro della religione, la fonte più feconda della vita soprannaturale. Memoriale della Passione, ci trasporta sul Calvario e ci fa contemplare, mossi da compunzione e da amore, il divin Crocifisso che soffre, che agonizza, che muore per noi. Rappresentazione vera e vivente del dramma del Calvario, mette a nostra disposizione tutto il valore del Sacrificio offerto sul Golgota: uniti a Gesù, vittima immacolata, possiamo glorificar Dio come si merita, ottenere il perdono dei nostri peccati per quanto gravi, e chiedere sicuri tutte le grazie necessarie alla nostra santificazione e alla nostra salute; perché à Gesù stesso che prega per noi con gemiti inesplicabili. Comunione intima con Gesù e con Dio, ci trasforma in altri Cristi, ci rende simili al nostro divino modello e ci avvicina alla perfezione del Padre celeste. Cose che intenderemo anche meglio quando avremo meditato gli effetti del santo Sacrificio.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (21)

LO SCUDO DELLA FEDE (211)

LO SCUDO DELLA FEDE (211)

LA VERITÀ CATTOLICA (IX)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. E libr. Sales. 1878

ISTRUZIONE IX

L’uomo

Siamo creati da Dio, che ci ama da padre; e siamo creati, per conoscerlo, amarlo, per adorare insomma il Creatore, il Padre, il Sommo Bene che è Dio, e per essere con Lui beati per sempre in Paradiso. Ecco tutto quello che ci debba più importar di sapere; questo è il principio della vera sapienza. La ragione nostra, contenta di aversi sentito a dire dalla cara parola di Dio che il Signore creò tutte le cose nel mondo, per sua bontà, per avere poi noi sempre con Lui felici, allarga il cuore consolandosi di questa speranza, che poi infine è poi tutta la grande nostra speranza. Ben potrei dirvi qui: o figliuoli, andate là, conservatevi sempre nel cuore questa gran verità di Dio. Non ci resta che attaccarci a Gesù Cristo, Figliuol di Dio, che, come vi ho detto, si è fatto uomo e morì sulla croce, per condurci salvi con Dio. Viviamo secondo la sua santa legge: e in tutto quello che facciamo nella nostra vita diamo gloria a Dio, che vuole usarci tanta misericordia. Ma ahi, che alcuni disgraziati, abbandonato Iddio che è benedetto in eterno, come il demonio, si arrabattono per strascinare anche noi col demonio lontani da Dio! Non par da credersi, ma è pur troppo vero, gli svergognati!… tentano di darci d’intendere, che veniam dalle bestie noi! e ci vorrebbero avvoltolare nel fango con loro. – Oh i tristi! non pensano che ci renderebbero troppo più miserabili delle bestie istesse; perché, almeno le bestie non conoscendo niente, non si trovano disperate alla morte. Ma noi uomini!… senza Dio in vita!… ma noi uomini… senza Dio poi nella morte!… Ah Gesù benedetto, salvate me e questi miei cari figliuoli dalla disperazione di morir senza fede in Voi! Noi sì, noi vogliamo morire nel bacio del vostro amore! E Voi con quella parola che vien dai palpiti del Vostro cuore, fatemi spiegar chiaramente, quanto sia contro la fede, contro la ragione, contro il buon senso, il dir che la terra si sia da se sola trasmutata in piante, che le piante si siano poi mutate in animali, e che gli animali si siano cambiati in uomini. Oh Maria nostra Madre benedetta, ma sentite, che tenterebber di farci!…. Eh vorrebbero strapparci via da Gesù nostro che vuol condurci con Voi al Padre in Cielo, e buttarci giù colle bestie nel fango, e mandarci a perdere in vita bestiale! – E voi, o figliuoli, fissatevi ben in mente ciò che io voglio dimostrarvi, cioè che Dio, creato il mondo, le piante e gli animali, creò noi superiori a tutte le creature in terra ad immagine sua per servirlo in terra, e poi per averci seco beati in Paradiso. Fatemi grazia a ripeterlo (si fan ripetere) vi ho da dimostrare che Dio creato il mondo; le piante, gli animali, creò noi superiori ecc. Intanto ascoltatemi con attenzione, perché qui si tratta d’imparare a difendere le nostre persone contro questi nemici del genere umano, che tentano di farci il più indegno insulto, col confonderci colle bestie, e farci imbestiare con quelle. Io vi ho già spiegato nella istruzione precedente come Dio creata e disposta la terra, per mantenere in essa tutte le creature terrene, creò poi le piante e gli animali. Ma lì per creare l’uomo, per farci intendere come l’uomo è tutt’altra creatura ben diversa dalle altre tutte, e come le altre cose create in terra sono anzi ordinate per l’uomo, prima di crearlo (per parlare umanamente), Dio Stesso sì consigliò col Figliuol suo e coll’Eterno Amore, lo Spirito Santo col dire « Ora che son create tutte queste cose, facciamo l’uomo che comandi a loro; ma facciamolo ad immagine e somiglianza nostra – faciamus hominem ad immaginem et similitudinem mostram, quasidire « egli creato così, ci conoscerà, eseguirà i nostricomandi; e Noi ammetteremo lui servo fedele, agodere della nostra eterna felicità. »Per questo, tutt’altro che confonderci colle bestie,e farci dell’istessa natura, ci creò anzi ad immaginesua per poter Egli amar Noi, come padre; e noi amare Lui, come i figli amano naturalmente i padri loro. Quindi ci collocò in mezzo di questo mondo di cose, da Lui preparate, come un padre colloca i suoi figliuoli in mezzo ai possedimenti suoi che provvide per loro. Volendo poi Egli che noi le governassimo vivendo secondo la sua santa volontà, la quale fu tanto buono di farci conoscere, ci mise in mezzo a questo visibilio di creature terrene e senza ragione; quindi per metterci in relazione a trattare con loro, ci diede il corpo; ma poi ci diede l’anima ragionevole, per innalzarci a trattare con Lui e rendergli onore e gloria, e adorazione in nome ditutto. Onde noi pel corpo camminiamo coi piedi in terra; ma coll’anima siam destinati a comunicare con Dio in cielo. Siamo, è vero, grevi qui col peso del corpo materiale attaccati alla terra; ma coll’anima nostra spirituale voliam oltre le basse cose del mondo, liberi e ragionevoli, come gli Angioli, capaci con essi ad amare il sommo bene Iddio in Cielo. Così tutte noi creature insieme, cominciando dai granelli di polvere (atomi) e salendo su sempre le une sopra le altre, fino a’ più grandi Angioli Serafini in Cielo, formiamo una gran catena, che dal più basso della terra, arriva fino a’ piedi del Trono dell’altissimo Iddio. Su, su, dunque noi di grado in grado, su dal tempo all’eternità sempre a lodare, ad amare la somma bontà di Dio. Ah via da noi la brutta gente, che ci vuol gettar giù a vivere, come le bestie. E per tutta ragione ci dicono che siam simili agli animali. Ben è vero che tutte le creature hanno una certa somiglianza fra di loro; ma restano divisi in ordini diversi nella diversa natura lor propria: si avvicinano, dirò così, tra di loro per somiglianza; ma si allontanano per l’essere lor naturale tutto diverso. Quindi non si mischiano mai, né si confondono da cambiarsi le une nelle altre di specie di diversa classe. E siccome abbiamo detto che tutte le creature formano come una catena; bene appunto, come gli anelli di una catena avvicinandosi gli uni agli altri si legano insieme, ma non sì confondano; così le diverse specie di creature si trovan vicine, si aiutano, si sostengono le une colle altre, sempre distinte e diverse fra loro: sicché sassi e terra la materia morta insomma non diventano mai piante: né le piante non si cambian in bestie: e tanto più poi le bestie non si trasmutano in uomini. – Ora vi spiegherò, come una classe di creature può essere simile, ma resta sempre diversa dalle creature di altra classe. Vedete difatti che le piante sono vicine alla terra, anzi vi penetran dentro, e paiono talvolta simili alla terra; ma non son terra morta, no; perché le piante sono vivaci, e germogliano altre simili piante: così gli animali hanno delle somiglianze colle piante, poiché han dentro di loro tanti fili, fibre, costole, e vene come quelle; ma non son piante, no; perché gli animali senton di vivere, vanno da loro in cerca, coll’inclinazione, che si sentono dentro, (istinto), di tutto quello che li può soddisfare. Quindi pure noi uomini abbiamo un corpo animato, come hanno gli animali; ma siam ben al tutto diversi e da loro lontani, perché abbiamo la forza della ragione da dominar sopra di loro. Sicché al considerarci tanto superiori a quelli, noi siamo obbligati ad esclamare « Oh! Signore, quanto è ammirabile la vostra bontà con noi! – Domine quam admirabile est Nomen tuum: Voi avete assoggettate  a’ nostri piedi tutte le creature della terra, e poco men che gli Angioli ci avete innalzati verso il Cielo; minuisti paulo minus ab Angelis (Psal. VIII.). Eh noi, collocati in tanto onore da Dio, vorremmo noi lasciarci mettere insieme colle bestie brutte senza ragione? Homo cum in honore comparatus est iumentis ‘insipientibus? (Sal.) Figliuoli di bestie voi, che m’intendete per bene, spiegherò meglio e metterò sott’occhio come le creature di specie diverse e di ordini superiori possono aver somiglianza fra loro; benché sieno di tutt’altra natura. Voi forse avrete veduto come d’inverno l’umidità e i vapori gelati hanno sui vetri delle finestre la somiglianza di tanti rami, e saprete come dentro le montagne, dove si scavano i metalli, il rame, l’argento, l’oro si trovano dispersi in mezzo del sasso in forma di ramificazioni, che somigliano le piante: ma anche voi sapete però che quei giri giri di gelo sui vetri, che quei rami di metallo sparsi nelle viscere dei monti non sono né rami, né piante; poiché non hanno dentro quella forza di crescere, di vegetare, di far sementi, di germogliare altre piante simili a loro. Hanno un bel somigliare alle piante; ma sono cosa morta e non mai pianto vivaci. Ascoltate ancora: le piante hanno filamenti sottili di dentro che sembrano nervi, hanno delle vene come i corpi degli animali: e vi sono delle piante che hanno costoline e fili così sottili, che, appena toccate, restano scomposte e piegano giù le foglie, (come fa l’erba sensitiva, che si chiama sensitiva appunto, perché par che senta; benché non senta in modo alcuno) Ma perché non vi è dentro quella forza di vita animale, per cui gli animali hanno l’istinto di conservarsi, e vanno a cercare ciò che sentono che fa bene a loro, si ritirano da ciò che fa male, così mostrano di sentirsi di vivere: le piante con tutte le lor fibre e vene saran sempre piante; e non animali mai. Finalmente possono gli animali imitar le operazioni degli uomini. Lo stordo e il pappagallo possono articolare parole, altri animali fan versi e moine che somigliano agli atti degli uomini; ma perché non hanno la forza della ragione, saranno sempre bestie. Questa forza poi di germogliare nelle piante non può venire in loro dalla terra; perché la terra non l’ha; ma viene dalla parola di Dio Che le creò: questa forza degli animali di sentire ciò che vedono, toccano, fiutano, assaggiano, e di muoversi al piacer loro, non può venir dalla terra e dalle piante; perché esse non l’hanno; ma viene da Dio che li creò tali. Così questa forza della ragione per cui noi siam creati sopra gli animali e li dominiamo è una comunicazione di un Lume che viene da Dio. Sì veramente è Dio che diede all’uomo colla sua parola, che creò la potenza di eseguir quello che Egli vuole, e di comandare a tutte le creature. E fu sempre così. Mentre non vi fu mai animal così svelto, così ardito, così forte, da poter neppure tentare di assoggettare il più meschinello di uomo, a prestargli i suoi servigi. Gli uomini sempre maneggiarono le cose create secondo la lor volontà, gli uomini dominarono sempre sugli animali. –  Eppure ci vorrebbero darci d’intendere che discendiam dalle bestie!… Oh! ma voi, mi direte, chi è matto così da poterlo sognare? — Chi?… Vel dico io, per non lasciarvi ingannare. Sono uomini, che si vantano di essere sapienti, e perdono la testa, da parlar come stolti — dicentes se esse sapientes, stulti facti sunt. E siedono fin sulle cattedre delle più grandi scuole (le università), e vendono certi lor strani sogni, come fossero oro colato di prette verità da loro scoperte. E a vederli! e a sentirli! con quel loro gran fare in robone da professori, dettare in nome della scienza, stranezze da far spiritare i nostri più eletti giovani. Buon, che i giovani non sono come i paperi, i quali bevono grosso nel guazzo fangoso delle loro grandi oche. Quindi è vero che i bravi giovani danno la berta a quei venditori di favole; ma è poi anche purtroppo vero che alcuni pochi, e voi li conoscete che sono i più grami, ritornati da quelle scuole, per darsi l’aria di sapere un gran che più che la buona gente, la quale ha più giudizio di loro, pretendendo di far aprire gli occhi agli ignoranti dicono le più brutte, le più matte cose del mondo. Quasi il buon popolo non avesse, per grazia di Dio, tanto di cognizione, da non sapere distinguere gli uomini dalle bestie; si vantano di aver tanto studiato, figuratevi! fino a credersi bestie essi stessi. Per me, mi consolo con voi, benedetti figliuoli, perché venite alla dottrina; poiché fin anco quel povero incredulo di Voltaire, ci dice chiaro, che in fatto di sapere come furono create le cose, e per qual fine siamo creati noi uomini, ne sa più la vecchiarella contadina, che va tutte le feste alla dottrina del Parroco, e ne sanno di più anche i fanciulletti, che cinguettano appena il catechismo. Sì proprio, ne sanno di più di coloro che si vantano di saperlo di propria testa; i quali, se si ascoltassero, ci farebbero disperare coi loro, lasciatemi dire, spropositi da cavallo: come questo che dicono che la terra si mutò in piante; e che le piante si mutarono in animali; e poi gli animali in noi: così da trovarci poi noi uomini belli fatti dalle bestie in noi trasformate! Ebbene ecco adunque quel che insegna la dottrina cristiana: e voi lo intenderete bene; perché va tanto d’accordo colla nostra ragione. La quale ben debba restar soddisfatta nel conoscere come fummo creati noi, consolandosi dal sentirci tanto amati da Dio. Vi ricorderete che nella passata istruzione vi ho già detto, come Dio creò la terra, le piante, gli animali: ed ora per non lasciare darvi d’intendere che dalla terra vennero le piante e che dalle piante gli animali e che da loro poi nascessero gli uomini; vi dirò come è Dio Onnipotente, che creò nelle piante e negli animali la forza di produrre altre piante, altri animali della istessa natura di loro, quando disse colla sua parola: che crescessero e si moltiplicassero; ma ciascuno di essi nella loro propria specie, secondo il proprio genere: in species:… secundum genus suum; cioè secondo lanatura in cui Egli ha creato le diverse classi diloro. Dimodoché dalle piante si producessero altre piante, dagli uccelli nascessero simili uccelli, daipesci simili pesci, da tutti gli altri animali animali di simil natura. E poi già anche voi colla vostra ragione e col vostro buon senso conoscete, come vedete coll’esperienza di tutti i di, che le cipollenon producono mai cavoli, che dai cavoli non nascono serpenti, né dai serpenti nascono colombe, come da tutte bestie nascono sempre bestie della natura di quelle che le generarono. Questo sì è sempre veduto dacché mondo è mondo. Si trovano difatti negli antichi sepolcri (massime nelle montagne d’Egitto, dove si scavarono degli antichi sepolcrico sì grandi che si chiamano necropoli, cioè le città de’ morti) si trovano grani, serpenti, gatti e scimmie. Ebbene? sono proprio gli stessi grani, che ancor seminati da noi danno gli stessi grani, gli stessi serpenti, che strisciano ancor là nelle sabbie abbruciate dell’Africa, sono gli stessi gatti delle nostre cucine e le scimmie colle quattro zampe istesse, che sì arrampicano sugli alberi ai nostri dì. Le quali, si vede, che non si sognarono mal nel lunghi, almeno sei mila anni, di farsi scimmie un po’ migliori. – Ma insomma anche noi, per poco che vogliamo pensarvi, vedendo che le piante e gli animali sono così ben formati, e come dentro di loro son così ben congegnate tutte le parti, che formano i loro organi con cui possono vivere, ben conosciamo che tutto fu disposto da chi li voleva far vivere nel loro modo; cioè furono creati da Dio, che solo poté pensarle colla sua Mente Divina e colla sua Onnipotenza le poté formare. Eh si che dobbiamo esser ben certi, che la terra, per sognarsi un dì di cambiar se stessa in piante, che prima non aveva, bisognava bene che avesse pensato avanti come dovevano essere fatte le piante (figuratevi se la terra poteva pensare!): poi che le piante, per sentirsi la voglia di diventare animali, bisognava, che avessero anch’esse pensato che cosa fossero gli animali, e che avessero potuto crearli animati così, mentre esse animate non erano. Ascoltate ancora: anche gli animali poi per sentir l’ambizione di diventare uomini, sì che dovevano studiar ben la maniera di crearsi dei figliuoli un po’ migliori, e di quella bellezza, che non avevano ancora mai veduto tra quei brutti ceffi, e che inventassero delle anime le quali avessero la ragione, da mettervi dentro: perché già di ragione gli animali non seppero averne mai. Bisognava insomma che la terra, le piante, gli animali avessero una mente capace d’immaginarsi col pensiero creature al tutto nuove, diverse, e che poi avessero la forza onnipotente da poter essi crearle!….. Oh vedete disgrazia di coloro che non vogliono credere in Dio Eterno Creatore di ogni cosa! diventano matti così, da credere che la terra sia essa l’onnipotente creatore; creatori sian le piante, e creatori degli uomini, sian le bestie! non sono pazzi frenetici che hanno perduto il bene della ragione? Noi, che per grazia di Dio siamo ragionevoli ancora, facciamo il più bell’uso della ragione umana col dire insieme con tutto il genere umano « io credo in Dio Creatore del cielo e della terra. » Via adunque tante stranezze mostruose, cui si trovano ridotti ad inventare quei poveri disgraziati che non vorrebbero confessar che Dio creò noi uomini tanto superiori, come v’ho detto finora, a tutti gli animali: poiché ci creò ad immagine sua: come vi spiegherò adesso. – Vi ho già detto come Dio ci ha fatto intendere che ci voleva creare superiori a tutte le creature in terra, da comandare ad esse. Perciò volendoci creare colla ragione ad immagine sua, ci formò un corpo appunto adattato a servire all’anima ragionevole: parlerò del corpo nostro e poi dell’anima. – Anche qui Dio, per adattarsi al modo di pensare di noi, ci fa intendere come volendo creare l’uomo ragionevole gli formò, o quasi per dir così, impastò di sua mano la creta, per formare questo corpo nostro. Dio fece come un ingegnoso architetto. Questi nel costruire un grande edifizio, dispone in esso in bell’ordine tutte le membra di dentro, per servire ai bisogni di chi è destinato ad abitarlo; ma poi il bravo, di fuori in sulla facciata, coi più belli ornamenti esprime tutto il suo pensiero, e fa sì, che al solo contemplar quella, s’intenda e il fine per cui l’edificio è fabbricato, e s’indovinino le membra ben disposte di dentro: improntando così su di essa tutto il suo pensiero, e lasciandovi vedere sopra un lampo del suo genio. Così Iddio formò di terra il corpo umano facendo, che tutte le parti del corpo fossero esattamente adattate a servire ai bisogni dell’anima che pensa, che ragiona, e dispone di tradurre in atto i suoi pensieri, diversa in tutto dall’anima sensitiva degli animali. Egli lasciò in tutto in tutto quello l’impronta della sua sapienza, ma nel volto come una figura dell’Immagine sua, però la fece trasparire più viva. Contemplate di fatto come ebbe formato il corpo; in modo di stare sulla pianta de’ piedi fermo e sicuro, colla vita dritta che posa sui larghi fianchi con dignità; colle braccia snelle e le mani pronte ad eseguire i più industriosi e delicati lavori; con quella bella testa che posa con grazia sulle spalle in aria di comandare, e la gira con scioltezza a tutto d’intorno in ogni a lì per dire, che egli ha da tener d’occhio i suoi interessi per tutta la terra, e poi fare eseguire i suoi comandi a tutte le creature. Ci ha fatto poi il petto più largo in proporzione, perché il cuore dovea palpitar più forte, quanto sarebbero più vivi gli affetti dell’anima, capace di amar senza fine. Ma sul volto poi vuol che si esprima tutto che vi è dentro nell’uomo. Nel volto quegli occhi che girano inquieti sopra tutte le creature; ma per essi l’anima uscirà fuori ben sovente, come a cercare nel cielo il ben che non trova sopra la terra. Sul volto poi i più teneri sentimenti di lei ed i gravi pensieri ed i dolori di lei che non ha consolazione qui e la maestà di re della terra: mentre in quel sorriso di pudica bellezza si esprime l’anima innocente che ride in terra, come un angelo in cielo. Insomma nel volto traluce un raggio della bellezza di Dio, perché Dio v’infuse dentro ad abitarvi un’anima immagine di sé medesimo, poiché è ragionevole. Formatolo così, quando poi l’ebbe vivificato poté pigliarlo per mano, farlo sorgere in piedi, e dirgli: « piglia possesso e signoria di questo mondo che io assoggetto al tuo dominio.» – Ora vi ho da cercar di spiegarvi come l’anima è immagine di Dio e ragionevole. Dio bontà infinita voleva avere delle creature in terra, come vi ho già spiegato, le quali lo conoscessero e lo amassero; per potere amarle anch’Esso coll’amore di padre. Ora vedete ben voi come i padri amano nei figli l’immagine propria, e come sono capaci di far tutto il bene per loro, care immagini di sé medesimi; ebbene, Dio appunto creò noi uomini proprio ad immagine sua, per amarci, come il padre ama i suoi figliuoli. Fa Iddio di noi come tanti ritratti di Sé, piccole immagini, e come in miniatura; ma veri ritratti, che al possibile in qualche modo gli somigliamo. Ora vi spiegherò alla meglio come siamo creati somiglianti a Dio. Come nella piccolissima pupilla dell’occhio umano si vedono in piccolo tutte le cose dell’orizzonte, e fino una parte del cielo di sopra; così nell’anima, quale è creata da Dio si vede un’immagine proprio sua, e fino una somiglianza degli attributi di Lui. Difatti Dio è un Lume Eterno che conosce Se Stesso; e noi abbiam le anime, che conoscono anch’esse. Creandole par dica Iddio « creature mie, voi mi conoscete colla ragione in qualche modo, almen che Io sono: ebbene, cercatemi, che Io mi vi lascerò trovare; diliges Dominum ex tota mente tua » Dio è una Volontà benevolissima, é tutto amore eterno: ebbene Dio ci ha creati capaci d’amare, e par che ci dica « amatemi, che io vi amerò ». Dio fa tutto colla sua santa volontà, a sua libera elezione; ebbene Dio nel crearci, affinché gli diamo la prova di amarlo di buona volontà, ci mise in mezzo a queste cose create, che domandano anch’esse di essere da noi amate; onde noi dicessimo alle creature « tacete, tacete perché noi più che voi, vogliamo amare Iddio, l’amiam più di tutto, più di noi stessi; poiché Egli è il Sommo Bene diliges ex toto corde tuo ». Dio è somma Giustizia, e ci dice« siate giusti; perché, se non siete giusti, non possoamarvi: » e noi per essere giusti, dobbiamo amare più Dio, che lo merita più che tutte le creature.Ma io voglio dirvi qui ciò, che veramente deve farci tremare il cuore della tenerezza più viva. Voi lo sapete che Dio è così grande nella sua Divina Bontà da amarci tanto, fino a farsi uomo e morire per noi. Ebbene anche in questo ha voluto che l’anima nostra gli rendesse immagine della sua bontà. Poiché quando colla grazia sua divina conosciam Dio che merita d’essere stimato, d’essere amato infinitamente, più di noi medesimi: pere ssere giusti verso di Lui, lo vogliamo amare ditanto amore, da voler morire e dare la vita per provache l’amiam più di noi medesimi!…. Ora potremo capire un poco come Dio creandoci con tanta bontà così, ci debba dire (lasciatemi parlar così col cuore n mano) « creature del mio amore, care immaginette di Me Medesimo, figliuoli miei, la mia bontà divina non è contenta mai, per vostro riguardo, finché Io non vi avrò a vivere con me beati in Paradiso ». Ma come potrete farlo, o Signore?… E Diorisponde: « V’immergerò nella mia beatitudine infinita, eterna, vi darò tutto Me Stesso, Ego ero merces tua ». Ecco adunque che siam creati ragionevoli, cioè coll’anima capace di conoscere, di amare e di essere beati con Dio: ah maledetta la bestemmia che troppo insulta Dio ed insulta noi creati che siamo come figliuoli di Dio, capaci d’imitarlo nella sua bontà, destinati a vivere eternamente con Dio, maledetta a bestemmia, che ci dice figliuoli di bestie! No: gli uomini non soffrirono mai un insulto peggiordi questo di sentirci a dire figliuoli di bestie. AImeno i pagani, benchè, meschinelli! non adorassero il vero Dio tutt’altro, che far bestia l’uomo, volevano dell’uomo fare un dio; e quando volevano adorare il dio della bellezza dicevano che quel dio era una bella creatura umana: e quando poi volevano figurarlo, non scolpivano l’immagine d’una brutta scimmia, no; ma scolpivano un’immagine di persona umana risplendente di tale bellezza, che per loro pareva divina. Quando poi essi volevano rappresentare il dio re del loro cielo, non scolpivano un gran bestione, no!….; ma si scolpivano nel Giove di Fidia un uomo sfavillante di un lampo di bellezza ancora che pur pareva divina. Adunque anche i poveri pagani credevano anch’essi, o almeno avevano un sentore, che I’uomo creato da Dio rappresentava l’immagine di Dio Stesso. E noi Cristiani abbiam da star lì tranquilli e senza sdegno a sentirci dire, che noi siamo le più grandi bestie? Ah costoro che non vogliono intendere, che noi uomini ragionevoli capaci di essere amati come figliuoli da Dio, costoro sì, che meritano di esser chiamati, come li chiama s. Paolo uomini animali: animalis homo non percipit quæ Dei sunt.Deh! facciamo almeno il viso dell’armi, e vogliodire, ributtiamo da noi questi indegni bestemmiatori; e se li sentiamo abbaiarci appresso tali bestialità, corriamo a coprire le venerate immagini deinostri Santi; affinché non vi mettano su il grugnoquesti uomini imbestiati, ad insudiciarle della loro orrida bava! Deh, che s. Luigi Gonzaga, quell’angelo in carne, com’era, non si senta dire che egliè figliuolo dello schifoso macaco! Deh, che quella grand’anima di s. Carlo Borromeo tutto carità,com’era, immagine della bontà di Dio, non si senta dire che egli è figliuolo di quell’orsaccio di orangotano! Deh che quelle angeli che vergini sante,Agnese, Cecilia, Catterina e Rosa, fiori del Paradiso che spuntarono su questa aiuola della terra innaffiate dal Sangue di Gesù Cristo, non si sentano dire che sono sorelle carnali di quel mostro di scimpanzè,che fa orrore a vederlo! E quelle sante Margherita ed Elisabetta, care madri dei poveri e tutti i santi immagini viventi di Dio, che Egli fece veder sulla terra nella sua misericordia, per guidarci col loro esempio per mano dove ci aspettano in Paradiso, deh deh che non si sentano a dire di Paradiso che esse sono carne d’ossa dei feroci gorilla, che hanno il grugno di jena! Eh noi figliuoli di questi orrendi mostri? ah no! Dio li ha fatti troppo brutti e schifosi e troppo orrendi, per avvisare noi, che noi siamo da loro al tutto diversi, e che le dobbiamo sdegnosamente ributtare lontane da noi come brutte bestie; mentre noi siamo immagini viventi di Dio. Noi, che abbiamo, come figliuola di nostra famiglia, e per madre dell’anime nostre, Maria. Oh Madre benedetta Maria, la più bella immagine del Ss. Iddio in persona umana! Certo che pensava a voi il Creatore Iddio, quando impastava, per dir così, la creta da formare il corpo umano da infondervi poi l’anima ragionevole, e così creare l’uomo ad immagine di Sé Medesimo. – Dio fin d’allora nel principio del tempo contemplava Voi, che sareste nata Immacolata, e si compiaceva di Voi, come dell’opera sua più bella in figliuola dell’uomo. Noi pensiamo che Dio dicesse « questa creatura sarà così santa, e al possibile degna di Voi, o Figliuol mio, sicché Voi la potrete pigliare per Madre e formarvi in quel seno, puro come il Paradiso, il Vostro Corpo e infondervi Anima per opera del Nostro Amore Eterno; e così nascere Uomo e Dio in una sola Persona: come l’uomo in anima ed in corpo forma una persona sola. Ah intendiamo adesso che cosa è l’uomo! è creatura ragionevole, immagine viva di Dio, destinato a mostrar sulla terra una figura, un’immagine insomma, che aiutasse a fare intendere in qualche modo il miracolo più grande della bontà di Dio: e come noi siamo anima e corpo in una sola persona umana, così rappresentassimo Dio fatto Uomo in una sola Persona Divina, Gesù nostro Salvatore benedetto, Dio fatto uomo, per far noi uomini beati in Dio. Viva Dio! che per Gesù suo Figlio siamo immagini non solo di Dio; ma siamo anche figliuoli del Sangue suo Divino.

Pratica.

Amiamo Dio sopra ogni cosa e viviamo come Figliuoli uniti di sangue al Figliuolo Eterno Sostanziale di Dio.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (19)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (19)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni

ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO IV.

In che senso il popolo cristiano partecipa al sacerdozio di Gesù Cristo.

L’Apostolo san Pietro, volendo esortare i primi Cristiani a unirsi a Nostro Signore Gesù Cristo per progredir nella santità, richiama i loro titoli di nobiltà : « Voi siete, egli dice, una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo di acquisto, per predicare le perfezioni di Colui che vi ha chiamato dalle tenebre all’ammirabile sua luce; voi che una volta non eravate suo popolo e che siete ora il popolo di Dio » (S. Petr. II, 9-10). Bellissime parole molto atte a farci intendere tutta la dignità del Cristiano. Se il popolo di Israele era detto una volta il popolo eletto per le tante meraviglie che per lui operò il Signore, che dire ora del popolo cristiano che lo stesso Figlio di Dio si acquistò col prezzo del suo sangue? Incorporandoselo col Battesimo, Gesù volle farlo partecipare in un determinato grado anche al regale suo Sacerdozio. Riserba, è vero, il carattere sacerdotale ai soli suoi Sacerdoti, come già sopra spiegammo, ma vuole che anche ogni Cristiano abbia vera parte, sebbene secondaria, ai poteri e agli uffici del Sacerdozio, e che non si contenti di ricevere i doni. divini, ma che concorra attivamente, sempre però subordinatamente, alla celebrazione del santo Sacrificio della Messa, all’amministrazione di certi sacramenti e all’esercizio dell’apostolato; il che lo obbliga ad essere egli pure nello stesso tempo ostia e sacrificatore. Ecco ciò che intendiamo ora spiegare, affinché i pii fedeli divengano sempre più collaboratori del sacerdote.

ART. I. — PARTE CHE HA IL CRISTIANO NELLA CELEBRAZIONE DEL SANTO SACRIFICIO DELLA MESSA.

L’asserzione che il semplice Cristiano concorre attivamente anch’esso alla celebrazione del santo sacrificio della Messa è fondata sul dogma della nostra incorporazione a Cristo, che abbiamo già precedentemente esposto. Quando Gesù per mano dei suoi Sacerdoti offre il santo Sacrificio, essendo Capo di un Corpo mistico di cui i Cristiani sono le membra, anche tutti i Cristiani offrono il Sacrificio con Lui. Difatti le membra di un corpo non sono puramente passive; ma, ricevendo dal capo il moto e la vita, reagiscono a loro volta e partecipano attivamente a tutti gli atti del capo; avviene ciò che dice san Paolo « se patisce un membro, tutte le membra patiscono con lui; se Gioisce un membro, tutte le membra gioiscono con lui! » I. Ep. Cor., XII, 26). Specialmente nel santo Sacrificio della Messa, dice sant’Agostino (De civ. Dei, 1. X, 6), i Cristiani, unendosi col loro Capo e tra loro in una stessa preghiera, offrono il corpo e il sangue della vittima divina e con Lei offrono se stessi alla santissima Trinità. Così il Pontefice eterno trae a sé e a sé unisce l’intiera sua Chiesa, con tutti e singoli i suoi membri, e s’immola con Lei in un medesimo olocausto.

1° Ne abbiamo bella prova nelle preghiere e nei riti della Messa  (« Conviene tener presente il carattere speciale della sinassi religiosa nella Chiesa primitiva. A differenza dei moderni che, in chiesa, senza intender nulla, si contentano di unirsi in ispirito al Sacerdote che prega, gli antichi volevano he l’actio (la Messa e la parte precipua della santa Messa, cioè il canone) fosse veramente sociale, collettiva, eminentemente drammatica, così che non soltanto il Vescovo, ma il presbitero, i diaconi, il clero, i cantori, e il popolo, ciascuno avesse la propria parte distinta da rappresentare » (SCHUSTER, Op. cit., Vol. I, p. 7).

a) Se consideriamo le preghiere, vediamo che il celebrante non parla che raramente in proprio nome, ma che si volge a Dio e offe il santo Sacrificio in nome di tutti i fedeli, in nome dell’intero popolo cristiano, di cui è il rappresentante ufficiale. – Che l’offerta del santo Sacrificio sia fatta in nome di tutta la Chiesa, è chiaro specialmente dalle preghiere dell’Offertorio. Elevando il calice il Sacerdote dice; « Ti offriamo, o Signore, il calice salutare, supplicando la tua clemenza che,al cospetto della divina tua Maestà, tu lo riceva in odore di soavità per la salute nostra e per quella di tutto il mondo ». E subito dopo offre associato alla vittima divina l’intero popolo cristiano: « In ispirito di umiltà e con animo contrito, deh! siamo da te accolti, o Signore, e così si faccia oggi il nostro sacrificio al tuo cospetto che piaccia a te, o Signore Iddio ». Il popolo cristiano è dunque anch’esso, sebbene in modo secondario, sacrificatore e vittima. Risulta di qui imperiosa la necessità per ogni Cristiano di conformare la vita alle parole, ossia di avere un cuore veramente contrito e umiliato onde offrire degnamente col sacerdote la materia del Sacrificio. – Viene poi la preghiera alla santissima Trinità, fatta essa pure in nome di tutti, « in memoria dei vari misteri di Nostro Signore, in onore della Vergine Santissima e dei Santi ». Quindi il Sacerdote, baciato l’altare, si volta al popolo e gli dice queste significative parole: « Pregate, o fratelli, affinché il sacrificio mio e vostro sia accettevole presso Dio Padre onnipotente ». A nome di tutti i fedeli in generale e di ciascuno in particolare, l’inserviente risponde: « Riceva il Signore il sacrificio dalle tue mani, a lode e a gloria del nome suo, e a vantaggio pure nostro e di tutta la Chiesa sua santa ». – Nel momento solenne del Prefazio, prima di cominciare il Canone, corre tra il Sacerdote e i fedeli un sublime dialogo, che mostra quale parte attiva prenda il popolo cristiano al Sacrificio. « In alto i cuori », dice il Sacerdote: « lì teniamo sollevati al Signore », rispondono i fedeli. « Rendiamo grazie al Signore Dio nostro », ripiglia il celebrante: « È cosa degna e giusta », risponde il popolo. Allora con volo sublime il Sacerdote penetra i cieli e si associa a Gesù glorioso, mediatore di Religione, e per mezzo di Lui agli Angeli e ai Santi e a tutti i fedeli della terra, e, in nome loro, proclama la santità e la gloria della santissima Trinità e benedice Colui che dall’alto dei cieli sta per discendere sull’altare. Poi il Sacerdote offre anticipatamente la Vittima divina per tutta la Chiesa, pei suoi capi, per tutti i suoi membri, e in particolare per certe persone da lui designate: « Ricordati, o Signore, dei tuoi servi e delle tue serve… e di tutti i circostanti, i quali ti offrono questo sacrificio di lode ». – Disceso Gesù sull’altare nella consacrazione, il Sacerdote lo leva in alto fra le sue mani e tutta l’assemblea si prostra ad adorarlo; quindi, associandosi nuovamente i fedeli, continua a pregare: « Memori, o Signore, noi tuoi servi, ma anche il santo tuo popolo, della passione, risurrezione e ascensione di Cristo Figlio tuo e Signor Nostro, offriamo alla preclara tua Maestà l’ostia pura, l’ostia santa, l’ostia immacolata… Supplici ti preghiamo, o Dio onnipotente, ordina che queste cose (Gesù vittima divina e con Lui il suo Corpo mistico) siano portate per mano del santo Angelo tuo sul tuo sublime altare, nel cospetto della divina tua Maestà, affinché quanti parteciperemo a questo Sacrificio, siamo riempiti di ogni benedizione celeste e « di grazia ». Un venerando autore del secolo XII, sant’Oddone di Cambrai (In exposit, Can., dist. III), così commenta queste parole: « L’ostia dev’essere portata sopra il sublime altare di Dio. Ora che cosa può voler dire questo se non che per mezzo dell’offerta di noi stessi, unita a quella del Verbo, vogliamo essere ricevuti e come assorbiti in Dio? » È chiaro quindi che nella santa Messa il Cristiano non solo offre a Dio la materia del Sacrificio, ma diviene in qualche modo vittima con Gesù Cristo nella perfettissima unità del suo Sacrificio.

b) Se dalle preghiere della Messa passiamo ai riti che le accompagnano, ne vediamo uscir fuori in modo efficacissimo la parte attiva dei fedeli nel santo Sacrificio. L’uso di infondere alcune gocce di acqua nel vino, che deve poi essere cangiato nel sangue di Cristo al momento della consacrazione, fu sempre costante nella Chiesa latina, la quale vede in questo rito il simbolo dell’unione dei fedeli con Cristo sacrificatore. « Quando nel calice l’acqua viene mescolata col vino, dice san Cipriano (Epist. LXII ad Cæcilium, 12-13), tutto il popolo si unisce col Signore. Non si può offrire acqua sola o solo vino; se si offrisse solo vino, significherebbe che il sangue di Cristo comincia ad essere senza di noi; se acqua sola, significherebbe che il popolo comincia ad essere senza Cristo; quando invece l’uno e l’altro si mescolano insieme, allora il Sacramento spirituale e celeste si compie ». I membri di Cristo, che sono i fedeli rappresentati nell’acqua, vengono allora collegati col loro Capo che è Cristo, significato nel vino. Senza questa unione infatti, come spiega bene il P. Giraud (Prétre et hostie, cap. XXIII), il mistero pare incompleto; perché  o Cristo rimane solo, quasi che il capo potesse essere separato dalle membra, oppure la Chiesa è isolata da Cristo; il che sarebbe la sua morte e la sua rovina. Anche altri riti esprimono quest’unità di Cristo e dei suoi fedeli nel Sacrificio della Messa. Quando – dice Bossuet  (Explication de quelques avi difficoultée sur les  prières a de la Messe, L’Eglise s’offre elle-meme)  – il Sacerdote poco prima della consacrazione stende le mani sui sacri doni, lo fa per indicare che offre se stesso e i Cristiani colle oblate che sta per consacrare; come una volta, nell’antica Legge, si poneva la mano sulla vittima per dire che l’offerente si univa con lei e con lei si consacrava a Dio. Risulta chiaro da questo complesso di preghiere e di cerimonie che tutti i fedeli hanno una parte attiva nella celebrazione del santo Sacrificio.

2° Tuttavia vi sono di quelli che vi prendono parte in modo più speciale e che ne colgono quindi frutti più copiosi; e sono coloro che danno al Sacerdote la elemosina perché celebri secondo la loro intenzione. Ad intelligenza di questa pratica, richiamiamo brevemente ciò che si faceva nell’antica Legge e nei primi tempi della Chiesa. Quando un Israelita voleva offrire un sacrificio a Dio, conduceva al sacerdote la vittima, per esempio una pecora; e il sacerdote la immolava e la offriva al Signore a nome del fedele. Qualche cosa di simile avveniva nei primi secoli cristiani; molti fedeli portavano al Sacerdote la materia del Sacrificio, il pane e il vino; era quindi in un certo senso la loro vittima e il loro sacrificio che il Sacerdote offriva onde essi venivano ad averci parte più attiva di coloro che, non avendo portato nulla, si contentavano di assistere alla Messa. Ora, nella presente disciplina ecclesiastica, ciò che tiene il posto dell’offerta fatta dai Cristiani dei primi secoli è l’onorario, o elemosina o stipendio che si voglia dire, che i pii fedeli danno al Sacerdote; ecco perché il Sacerdote, pur dicendo la santa Messa per tutta la Chiesa, la applica in modo speciale secondo l’intenzione di chi dà l’elemosina. Di qui si spiegano le parole del Canone:« Ricordati, o Signore… di coloro che ti offrono questo sacrificio di lode ». – Ci riesce ormai facile l’intendere come il fedele che assiste alla santa Messa o dà l’onorario, non è soltanto un semplice spettatore, ma vi prende parte attiva, verissima, nobilissima, vantaggiosissima, di cui deve ben persuadersi e rendersi ben conto. Egli è in un certo senso sacerdote, perché prende parte alla celebrazione del Sacrificio, e, benché non rivestito del carattere sacerdotale, viene però ad avere alcune delle prerogative sacerdotali. Assistere alla Messa il più spesso possibile, dare la corrispettiva limosina per aver più larga parte ai frutti del Sacrificio, associarsi intimamente al celebrante nell’offerta che fa della vittima divina, comunicarsi frequente e con Gesù offrire se stesso al Padre, tale deve essere la sincera brama di un Cristiano pio e la più grande delle sue consolazioni.

ART. II. — PARTE CHE HA IL CRISTIANO NELL’AMMINISTRAZIONE DI CERTI SACRAMENTI.

Sebbene la parte che gli spetta nell’offerta del sacrificio della Messa sia importantissima, il fedele non può, a rigor di termini, essere detto ministro del Sacrificio, essendo questo titolo riserbato al Sacerdote. Ma ci sono due Sacramenti in cui il semplice fedele è veramente ministro; e sono i sacramenti del Battesimo e del Matrimonio.

a) Infatti ogni fedele può, in caso di necessità, amministrare il battesimo, e, purché segua la forma essenziale prescritta dalla Chiesa, l’atto da lui compiuto avrà tutto il suo valore sacramentale. Verrà rimesso il peccato originale e Dio prenderà possesso dell’anima del battezzato per farsene un tempio prediletto. Non è lecito, è vero, a una persona secolare di amministrare il Battesimo fuori del caso di necessità, perché è ufficio riserbato al Sacerdote e al diacono; ma, se lo amministrasse, ne produrrebbe certamente l’effetto. Or chi non vede qui quanto sia grande il potere anche del semplice fedele, dacché, con poche gocce d’acqua versate sulla fronte di un bambino e con una breve formola, diviene la causa ministeriale di cui Dio si serve per causare la rigenerazione di un’anima, per renderla figlia di Dio, sposa di Cristo, abitazione dello Spirito Santo?

b) Ma se il fedele non è ministro del sacramento del Battesimo se non in casi straordinari, è invece ministro ordinario del sacramento del Matrimonio. È bene richiamare spesso ai Cristiani questa verità, perché molti purtroppo, anche fra le persone colte, hanno su questo punto idee assai confuse. E ciò proviene dal fatto che ignorano come Nostro Signore volle che il sacramento del Matrimonio fosse essenzialmente costituito dal consenso degli sposi e che ne fossero veri ministri le due parti contraenti. La Chiesa, per ottime ragioni, ha stabilito sotto pena di nullità che tale consenso sia dato dinanzi a persone che ne possano ufficialmente attestare l’esistenza, cioè dinanzi al proprio parroco e a due testimoni. Ma, ripetiamolo, i veri ministri del sacramento sono gli sposi stessi; e per mezzo loro, col loro ministero, Dio conferisce la grazia sacramentale che li aiuterà poi ad adempiere cristianamente i doveri del proprio stato. – Chi dunque non vede l’alta dignità del matrimonio, che dev’essere, come dice san Paolo, « onorato in tutto »? (Ep. Ebr., XII, 4). Oggi, che tanto si deplora la decadenza di questo stato di vita, è bene ricordarsi che, se presso certe classi di persone il matrimonio gode poca stima, nel pensiero di Dio rimane sempre cosa sacra, e che è un vero sacramento, e che l’amore scambievole che gli sposi si debbono deve modellarsi sull’amore di Nostro Signore per la sua Chiesa: « L’uomo è capo della donna, come Cristo è capo della Chiesa… Voi, o mariti, amate le vostre spose come Cristo amò la Chiesa e diede se stesso per lei, per santificarla… onde presentarsela gloriosa, santa e immacolata » (Ep. Efes, V, 23-27). Gli sposi quindi si considerino come persone destinate all’eterna felicità del paradiso dove non può entrar nulla di inquinato e di sozzo, come « templi dello Spirito Santo » (I Ep. Cor., VI, 19), e serbino quindi la debita modestia, badando di non offuscare né nell’anima né nel corpo quel limpido oro della purità in cui il Signore vuole ravvisare la sua immagine. Restino insomma sempre degni di quel sacramento di cui sono stati ministri. – Partecipando dunque, in modo limitato ma vero, ad alcuni degli uffici sacerdotali, i Cristiani non debbono dimenticare che è anche obbligo loro di partecipare pure alla santità del sommo Sacerdote e imitarne le virtù, ognuno secondo il proprio stato. Così s’accosteranno ogni dì di più all’ideale proposto da san Pietro: « Voi siete una stirpe eletta, un regale sacerdozio, una nazione santa, per celebrare le perfezioni di Colui che vi vi ha chiamati dalle tenebre all’ammirabile sua luce ».