LO SCUDO DELLA FEDE (214)

LO SCUDO DELLA FEDE (214)

MEDITAZIONI AI POPOLI (II)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE II.

Il tempo della vita non è che un’ora da prepararci all’eternità

Il tempo!… Signori, che cosa è mai il tempo? Il tempo non è che una successione di movimenti; e come i movimenti vanno a finire nella quiete, così il tempo della nostra vita va a terminare nell’immobile eternità. Tutto che ci vediamo intorno, non ci presenta che movimenti che passano, cui la scienza con umiltà ancora discreta chiama fenomeni, apparizioni di un istante. Le stagioni, che si succedono con rapida vece, i fiori che brillano alla mattina e sono appassiti e morti la sera, il dì che muore, le generazioni agitate come onde, che corrono a morir sulla spiaggia, i regni, che passano via rumoreggiando, i fratelli che di mezzo a noi scompaiono alla quieta, tutto ci avvisa che, coi momenti che e’ incalzano incessanti in questa trepida vita, noi trascorriamo veloci a gettarci indistintamente nell’abisso dell’eternità, in una brev’ora. Dio misericordioso a segnare i minuti di questa ora del viver nostro ci mise un orologio nel petto, il cuore che batte qui dentro. Fratelli, mettiamoci la mano sul petto: sentite come senza posa qui batte? Rapidi, rapidi si succedono i palpiti: contateli in fretta: i palpiti sono tanti passi, che ci precipitano nella terribile eternità, in cui ci troviamo nella morte. Ora, in questa instabile fugacità, che noi chiamiamo la vita, non sta tutto il nostro interesse nel dimandare a noi medesimi: come ci prepariamo alla morte? — Alla morte ?!… Ma avete mai pensato profondamente che cosa sia la morte?… La morte, o Signori, è l’istante tremendo, in cui ci troveremo o beati, o disperati per sempre, ciascuno nell’eternità, che ci abbiam preparato. Oh Dio !… oh Dio! Lasciamo le baie, lasciamo gli scherzi di questo mondo, che dura un’ora, e prepariamoci all’eternità. Abbiamo già meditato come una sola cosa importi poi finalmente, cioè mettere |l’anima nostra in salvo per sempre. Ora meditiamo che, qui essendo noi in viaggio pel paradiso, il tempo della vita ci è dato per arrivarvi; sicché il tempo della vita non è che un’ora da prepararci all’eternità e che tradiremmo noi stessi abusando del tempo per andarci a perdere eternamente …….. Ma ahi che intanto in questo momento stesso noi corriamo velocemente a salvarci o a perderci alla morte! Io correndo via con voi vi abbraccio in fuga affannata, e vi grido col cuore in fremito sul vostro cuore: su, su fratelli, che nessuno di noi si vada a perdere. Eh che mi parrebbe di perder una porzione del mio cuore! – O buon Salvatore Gesù, il quale vi date caro compagno del nostro peregrinaggio nel Sacramento qui in questo mondo nel tempo, per condurci nell’eternità del paradiso, tirateci sul vostro Cuore, e mettete sul mio labbro di terra accenti pieni di eternità, per disingannarci del tempo. E voi, o Madre Santissima, che ci volete portar salvi in cielo, teneteci tra le vostre braccia a meditare il nulla del mondo; sopra di cui corriamo via in questo lampo del tempo e fateci vedere innanzi il tradimento orribile, che ci facciamo col perdere le ore che ci sono date per assicurarci la beatitudine eterna. Poiché la vita è un viaggio, e il tempo della vita non è che un’ora per arrivare alla eternità in paradiso. – Senza la luce della fede quali orride tenebre circonderebbero la nostra esistenza! L’uomo sì troverebbe qui, e senza sapere donde viene, scorrerebbe via sopra la terra, e sparirebbe per sempre, gettandosi in un abisso che tutt’ingoia, la morte. Come un augellino, che in negra notte gelata scosso all’improvviso, vola dentro una sala brillante di luce in tepore di primavera, l’attraversa, rivola fuori nel tenebrore… ed ahi! il gufo l’artiglia; mette uno strido e muore straziato: così noi, gettati dal negro nulla nel mondo, attraverseremmo con rapido volo il piacevole soggiorno della vita per gettarci atterriti in gola alla morte… Ma, viva Dio! La Religione ci accoglie bambini in grembo, ci fa conoscere come siamo creati da Dio, e come il nostro destino è pel paradiso ad essere sempre con Dio beati: ché qui siamo in viaggio per la patria nel regno del Padre nostro che è nei cieli. Ella ci ripete continuo alla mente ed al cuore: al paradiso, al paradiso!… Ci tira innanzi per mano, perché dobbiamo affrettarci, e non perdere quest’ora della vita, per poter giungere a salvamento: poiché il tempo della vita non è che un’ora da prepararci all’eternità. Siamo dunque in cammino qui: Gesù Cristo, che ci vuol salvare, ci avvisa di tenerci appresso a Lui, affinché non cadiamo nell’abisso delle tenebre, che fiancheggiano la nostra via. S. Paolo poi ci grida di correre, a fine di poter arrivare alla meta in buon tempo. Festinantes… sic currite, ut comprehendatis. Intendetelo bene, dice s. Gregorio Nazianzeno, la vita umana è un cammino dall’ingresso nel mondo fino al termine, che è la tomba. La gioventù è un momento di effervescenza, la bellezza un lampo dal color dell’iride, la vecchiaia un tristo tramonto, gli onori una nebbia, la rinomanza nostra una traccia segnata sull’acqua, gli affari un ingombro tra via, la patria qui un paese straniero che attraversiamo. Noi dormiamo, e la nostra vita voga, come nave sull’onda del tempo. Tutto ci sfugge d’intorno. Gettiamo uno sguardo sull’erba, sopra il ruscello; ma li abbiamo già oltrepassati. Se cogli un fiore, ti appassisce fra le dita; se stacchi un frutto si corrompe in mano; le creature che abbracciamo, ci straziano il cuore pel distaccarsi dal nostro amplesso. Tutte le cose non sono che un po’ di vapore, che va in dileguo in passando. Entrate per fermarvi nelle case, che dite vostre: ieri erano d’altri, e dimani saran d’altri ancora. Uscite fuori: alla porta vi trovate scavata la tomba, e la tomba è la porta dell’eternità. Non habemus hic manentem civitatem, sed futuram inquirimus. No no, non ci fermiamoqui: siamo in viaggio, bisogna affrettarci, per arrivare a buon termine in paradiso. Ma, oh Dio! allafine della nostra corsa si trova pure spalancato l’inferno. -Ora ditemi: a quale dei due termini voi indirizzateil cammino vostro? fermate il pensiero un istante.Se un uomo avesse la casa sua sulla vetta di unmonte, e cominciasse alla mattina a voltarle le spalle,e tutto il dì camminando scendesse per rapido pendioverso del precipizio, egli finirebbe certo col precipitarvidentro. E se voi camminate sempre più sviatidal sentiero che vi conduce al cielo, e vi slanciateverso all’inferno, pretenderete di trovarvi in paradiso,senza aver fatto un passo verso di esso? Eppurenoi persino sull’orlo della perdizione facciam posata, scherziamo tranquilli nel mondo, quasi qui fossela nostra dimora per sempre, mentre il mondo scorreanch’esso all’eternità. Il mondo è come una diquelle isolette natanti, che sul maggior fiume d’Americasi van formando aderenti alla riva, e nonsono che terriccio scosceso, un po’ di fogliuzze e di spume coperte di erbette, quasi prato, che galleggiasopra quelle acque. Gli animali minuti, agnelli e lepri, e fino le volpi astute si gettano sopra il praticello fluttuante, come fosse sodo terreno.Quando ad un’onda di piena si stacca l’isola dalla sponda,e sui larghi gorghi voga giù verso del mare. Glianimaletti veggono le rive fuggire d’intorno, e inquel variare di vedute protendono il collo ad aspettaresempre rive novelle: corvettano vivaci, e dormontranquilli. Quando l’onda del fiume rompe contro l’ondata del mare, e tuona frangendosi nel furentemaroso. A quel fragore spaventati gli animali alzanla testa: ah! il suolo manca sotto dei piedi; mettonouno strido, e sono ingoiati dal mare! Così noisu questa instabile terra strascinati giù dal torrentedel tempo nell’abisso dell’eternità, folleggiamospensierati, raccogliamo un po’ di polvere che noichiamiamo ricchezze, che da una soffiata di ventosono dissipate: facciamo di edificare qui la nostra fortuna, qui stabilirci in bella posizione sicura in mezzo alla società, ed assicurarci nel mondo uno stato per sempre. -Ma quale inganno è mai questo sempre! Prima di fissare qui la nostra dimora era da provare, se fosse sodo il terreno. Anche il navigante, per fermarsi solo un poco nel mare sopra viaggio, innanzi di gettar l’àncora, scandaglia ed assaggia il fondo delle acque per assicurarsi se l’Ancora arraffi, e tenga fermo. Noi no: sopra questa mobile arena, sopra questa labile terra, in questi giorni, che volano veloci, fin quando già sul pendio. precipita la nostra età, noi vogliamo fermarci qui ostinati: e godiamo che passi rapido il tempo, quasi si facesse per noi guadagno nel perdere miseramente la vita. Per ingannarci più scioccamente noi guardiamo innanzi con impazienza, aspettando sempre cose novelle. È primavera: tutto ci ride d’intorno; ma noi siamo già nell’estate: e raccogliamo i frutti e le biade. Ecco già ci sorprende la fredda stagione: siamo nell’inverno a godere la ricolta; ma noi sospiriamo l’anno novello; e così sperando sempre un avvenire migliore, affrettiamo il tempo senza misura, e corriamo alla morte. Intanto, quando appunto dormiamo assopiti nei godimenti per poco, oh ci desta uno scroscio!… È il tempo che piomba a seppellirci nell’eternità; e noi, mettendo un gemito nell’agonia, siamo sepolti nel tremendo sempre! Dunque non ci fermiamo qui; siamo in viaggio verso alla patria eterna, il paradiso. E qui pensiamo che la vita non è che un’ora di tempo, per poter giungere al paradiso. Affrettiamoci, affrettiamoci: festinemus, a prepararci un po’ di ben di Dio e dell’anima per la casa dell’eternità, in cui ci troveremo giunti a momenti; affinché non ci sorprenda la notte sopra viaggio alla sprovveduta, vogliamo dire, che non c’incolga la morte, senza essere preparati all’eternità. Per vostro grande avviso ascoltate. Un povero uomo un di, lasciato andare fuor di carcere, si slaneia con ardore sopra via, per ritornare alla sua casa; ma ai primi passi si vede in mezzo a lieti prati. Era l’ora quando gli augelletti salutano col canto il dì che nasce con quel bel sole d’oriente: e parevano i fiori gli sorridessero in volto; e sopra essi le farfalle vedevansi agitanti le ali dorate, che parevano augelletti di paradiso; ond’egli giù di via, per andare a sollazzo. Intanto è già alto il di; ed in quello splendore di giornata vede le piante, che gli stendono i rami carichi di porporine frutta, e gli fanno gola: ed egli via pei campi a raccoglierne tutto affannato. Ma il sole già poggia in alto a meriggio, e vibra alla terra i raggi cocenti che abbrucian la vita al viandante. — A quest’ora mettermi in viaggio? (par che si dica, e con gran senno! il buon uomo) è un solleone che cuoce! — Trova più comodo sedersi a meriggiare sott’un albero; e là si consola la vita delle frutte raccolte. Ma il sole aspetta nessuno, e già verge a ponente; e il buon uomo ancor un poco temporeggia ..; e con una rosta in mano da sé caccia via gl’insetti. Il sole intanto cala dietro dei monti, sì stendono lunghe le ombre, si fa oscura la valle, e sopraggiunge la sera. Il buon uomo sorpreso a quell’ora fa di raccogliere in fretta le robe e s’avvia: ma cade giù fitta la notte, e in negra selva egli va barcollando a tentone… Ahi gl’irrompono i ladri alla vita, lo colpiscono nel petto, muore di mala morte miseramente fuori di casa! Ci fa spavento la sua disgrazia?… Signori, deh che non siamo poi noi di quello più disgraziati! Anche a noi nel mattino della gioventù tutto ride d’intorno. In un avvenire fantastico noi ci vediamo prolungarsi il sentiero della vita come tutto infiorato di rose: ci danzano dinanzi creature belle di un po di polvere di vago colore; e tanti di noi giù di via, e vanno lontano a folleggiare con esse. Ma la gioventù è in dileguo, e passa via la vita. Viene tosto l’età virile. Noi ci formiamo la famiglia: allora, crescendo i bisogni, ci assediano molti e svariati interessi, ci allettano sempre maggiori guadagni: e noi, affannarci, macerarci per far conquisti di terra. Ma passa via la vita! Se giunge qualcheduno ad afferrare qualche posto, se mise insieme qualche ricchezza, egli si siede tranquillo, e vi dico io, che sa godere lautamente. Circondarsi di amici, ogni dì un convito, le occupazioni ordinarie i giuochi, il far nulla in buon tempone; poi del resto mai non negarsi una soddisfazione, e farsi lecito tutto che piace. Ma anche in mezzo ai piaceri passa via la vita!… Ben voi vi accorgete a vostro dispetto che appariscono bianchi i capelli fin sotto dei fiori che si fingono freschi, e si fa rugoso il volto sotto una gioventù posticcia. Anche l’uom d’importanza, non ostante la sua alterezza, piega il dorso verso alla terra, la vecchiaia lo spinge al sepolcro. Ma passa via la vita! anzi no: al par di un sogno è già tutta passata via! E noi qui poi quanto cammino abbiamo fatto verso il cielo? tristi a noi! forse non un sol passo… Seppure… Ma oh! rinunziamo dunque al paradiso? Mai no: vi vogliamo tutti giungere, ma alla lontana, mentre ci è appresso la morte. E non vi avvedete che noi le corriamo incontro più veloci, dice Giobbe, d’ogni corriere, che ha l’ora fissata? In questo istante stesso in cui vi parlo, dico con s. Girolamo, io fuggo via da voi, e voi fuggite con me! e noi ci guardiamo solo passando, ripete s. Agostino. Ma deh fermiamoci un momento almeno a guardare l’ora!… No, no, che non possiamo fermarci: vediamo però anche correndo, che l’ora sì fa tarda, che già cala il giorno del vivere nostro, che siamo presto al tramonto, che tutto si ecclissa, tutto sparisce. Ohimé! già ci travolge il tenebroso della tremenda notte…. L’eternità ci si spalanca dinanzi. Poveri noi che sentiamo già l’afa di quell’abisso, già ci vacilla il capo, si oscurano gli occhi… ancora un passo, e veniamo travolti nel vortice interminabile dei secoli eterni, in cui noi restiamo beati o infelici per sempre: e ci siamo a momenti! … Noi intanto sull’orlo dell’eternità stiamo tranquilli e fermi, come se dovessimo restare sempre in vita. Di qui vediamo: a destra e da sinistra caderci morti sui piedi a mille a mille i nostri fratelli: li osserviamo senza paura, sappiamo farne il calcolo: ad ogni battuta di polso muore uno… centododici mila in ciascun giorno..; quarantun milione ogni anno ci cadono morti tutti d’intorno! (È un fatto constatato dalle statistiche, che sopra 1000 persone ne muoiono ogni anno 30 in media, Ora la popolazione attuale del pianeta secondo i più accurati geografi è di 1370 milioni. Dunque nel mondo intiero muoiono in media 41 milioni e 100 mila persone all’anno; quindi 112602 al giorno, 4685 all’ora; e 4 ogni 3 secondi. – Il medesimo risultamento si ottiene partendo dal principio generalmente ammesso, che la vita media dell’uomo è di anni 33; onde può dirsi che l’intiera popolazione del pianeta in questo periodo si rinnova. È poi da pensare su questo che Gesù Salvatore morì appunto compiuto il trentesimoterzo anno di sua vita umana. Oh!….) – Eppure tra questo fitto tempestare di colpi, in mezzo ai gemiti, tra tanto orrore di morte, in mezzo ai cadaveri dei nostri cari, se tarda un istante ancora il colpo di morte per noi, facciamo come il soldato che nell’ebbrezza del combattimento si vede cadere ai fianchi i compagni. Spensierato si getta sul morto vicino, con cui divise ieri i piaceri, e lo fruga per pigliargli d’addosso quel po’ di danaro; e quando alza la faccia con un sogghigno che dice: questo è mio da godere; una palla lo colpisce nel petto, e lo fredda cadavere sul cadavere che ha spogliato. Non altrimenti noi, mentre siamo tutti nei nostri interessi, quando cadono morti i nostri congiunti, senza orrore dell’altrui disgrazia e della nostra, che ci coglierà a momenti, ci gettiamo a fare lo spoglio dell’eredità, pensando. che ce la godremo per sempre…. Ahi ci colpisce la morte …! Guardiamo là: pare che il conoscente testé sepolto lasci fuori dal sepolcro una mano per dirci con un terribile cenno: qui appresso a me è già scavata la tua tomba, e la tomba ci getta nell’eternità forse dannati per sempre!… Dio della misericordia! dateci un po’ di tempo ancora per salvarci! E noi, fratelli, portiamo sempre fitto nel cuore il più utile di tutti gli avvisi che Gesù ci diede di sua bocca: Quid prodest homini si universum mundum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur? che giova mai alla fine dei conti perdere il tempo nel guadagnare anche tutto il mondo, se poi andiamo dannati alla morte? Mentreché il tempo non è che un’ora da prepararci alla eternità! Ma il mondo, in cetere, sinfonie, giuochi, dice il Profeta Isaia, e in feste ognor più clamorose e con tanto frastuono, che non lascia sentire le urla degli sciagurati che vanno perduti. Così noi siamo traditi siccome dai loro Druidi quei poveri Galli. Udite. I Druidi in un certo sacrifizio ad un loro iddio d’inferno formavano una grande gabbia di ferro alla foggia di un idolo di enorme grandezza. Vi mettevano in fondo legna da ardere, cui ricoprivano di piote erbose; e queste smaltavano di fiori come un bel praticello. I genitori vi portavano da tutte parti i bambinelli nudi, incoronata la testina di rose e viole. Era una festa universale intorno a quei bimbi, che dalla gabbia battevano a gioia le loro manine. Ma, venuta l’ora del sacrifizio, si accende il fuoco di sotto, e quei tenerelli si gettano tutti in giuoco a soffermar colle mani il fumigio saliente, e disputarsi le fiammelle che spuntano qui, là sotto dei piedi. Ahi sbuffa l’incendio , e i fanciulli fuggire arrampicandosi su per la gabbia, buttarsi fuori con le braccia e le faccioline rosse infuocate. Li perseguita la fiamma alle vite: e i poverini abbrancarsi alle spranghe roventi che cuociono loro le mani. Ricadendo, le fiamme li investono come serpenti infuocati. Colle vampe a’ capelli e’ cercano scamparsi montando gli uni sugli altri: si sprofondano nell’incendio, e sotto le negre ruote di fumo, tra lo stridore dei tormenti e il bollire delle carni e il crepitar dei carboni, restano tutti dal fuoco divorati. Ma e i genitori, crudeli! Perché non si slanciano nel fuoco a salvarli! I miseri genitori, erano traditi. Quando cominciava ad accendersi il fuoco, i sacerdoti gridavano: voltate le spalle, guardate al dio che viene, date fiato alle trombe, fate rombare i timpani, battete i tamburri. Così nell’infernale frastuono non era più dato loro di sentire le urla dei poveri bimbi orribilmente abbruciati. — Signori! quelli erano i sacerdoti dell’ingannatore demonio, noi siamo i Sacerdoti del Dio della verità; e se nel frastuono del mondo voi andate colle perdute genti all’inferno, noi ci getteremo innanzi tra voi e quel fuoco che minaccia di divorarvi, e grideremo forte: guardate innanzi quanti vanno perduti! ahi che il fuoco già ci avvampa sotto dei piedi! …. Salviamoci! abbiamo ancor tempo; e perdere questo po’ di tempo è un tradire orribilmente noi stessi. — Dopo un breve respiro. Se dunque il tempo della vita non è che un’ora per salvare l’anima nostra, mette orrore il pensare come siamo sciaguratamente ingegnosi a consumare male il tempo per tradire noi stessi e mandarci in perdizione. Chi si guarda dattorno, tutto lo avvisa che il tempo fugge con una rapidità che fa spavento. Se ci raccogliamo dentro di noi, la nostra coscienza malcontenta di noi, paurosa dell’avvenire, in cui vede fosco, ci dice con sospiro: e dove andremo a finire? — Ma noi tosto, per soffocare la voce all’importuna, diciamo a noi stessi che abbiam troppi interessi, che non abbiamo tempo a pensarvi: pigliamo una proroga, ci riserbiamo di salvare l’anima nostra ad un tempo indeterminato, cui forse non avremo più mai; e mentre tutto il tempo alla fine dei conti ci è dato da Dio per metterla in salvo, noi le neghiamo un minuzzolo d’ora per provvedere a questo sommo bisogno. Ingiustizia crudele! Per gli amici, quante ore tutti i giorni consacriamo alle convenienze immaginarie ne. consacriamo immancabilmente tant’altre: avremo fino delle ore per le persone, che non ci garbano punto, ma che tolleriamo, perché hanno il merito di farci perdere il tempo. Si può dire che l’ordinaria occupazione degli uomini è una deplorabile premura di disfarsi del tempo; e la maggiore dolcezza, che gustiamo nei frivoli divertimenti, come nelle serie occupazioni, è questa, di accorciare la lunghezza dei nostri giorni. Ed invero, come mai si ha coraggio da durarla tutti i dì inchiodati in quei giuochi, in quel travaglio di mente, per fare vincite da nulla? Eh, si dice, per ingannare il tempo, per non dire: per perdere il tempo e tradirci!… Perché quella vita da schiavo in quel negozio, quando si è provveduto d’ogni ben di Dio? Ma è una occupazione necessaria per passare, per non dire, per perdere il tempo. Anzi saranno pericolose quelle occasioni, n’andrà dell’onore in frequentar quella casa; ma bisogna andarvi. E perché? Perché là si passa, per non dire, si perde orribilmente il tempo per tradirci. Si sente adunque insopportabile il peso del tempo; e si fa come il pazzo furioso, che sente il peso dell’oro, e lo getta via per correre all’impazzata a rompicollo. Per poi gettarlo più pazzamente, non vogliamo neppure fermarci a guardare indietro quanto ne abbiamo già perduto. Mio Dio! risoluti di perderlo alla cieca, facciamo come lo scapato fanciullo, che licenziatosi a divertirsi sopra un navicello, senza rematore che lo guidi, si abbandona alla corrente della torbida fiumana, e vedendo sempre più veloci fuggir via le rive, urta in un sasso, e viene sbattuto contro un altro: in quello spavento sì abbranca alle sponde della barca, e fissando gli occhi sul fondo della nave, che pare fermo sotto dei piedi, calma la sua paura, e va a sprofondarsi colla nave nel mare. Così noi, per non vedere con terrore come precipitiamo nell’abisso della morte, con le mani, colla mente, col cuore negli affari del mondo, abbassiamo gli occhi alla terra …. quasi fosse ferma sotto dei piedi, e voghiamo veloci con essa a perderci nell’eternità. Ora dite voi, se non è questa l’occupazione pessima degli uomini, gettare via sugli occhi stessi di Dio questo gran dono della sua bontà, tempo, senza dare a Lui neppure un istante! Alla mattina ci svegliamo conservati tra le braccia della provvidenza di Dio. Essa ci offre ancora un nuovo giorno di vita, ché speriamo non moriremo quest’oggi. Un giorno di vita, che gran dono della sua misericordia! un giorno da redimere il tempo perduto! da prepararci al giudizio di Dio! da guadagnarci il Paradiso! Noi nella bell’aurora di esso gettiamoci davanti alla Maestà divina ad offrirle la nostra povera servitù. « Eh via! Abbiamo altro che fare! Gl’intralasciati lavori, le persone che ci attendono, forse una passione a cui facciamo calcolo di soddisfare, si meritano tutti i nostri pensieri. » Sentite la campana? È  la Madre Chiesa che ci chiama intorno a Gesù, che col Cuore aperto nella Messa va a trattare col Padre, e vuol mettervi in salvo gl’interessi dell’anime vostre. Suoni, suoni pure per scongiurarvi di correre al convito in seno al Padre di tutti i beni; eh via! Se non avremo altri affari, almeno le ricche persone dovranno spendere due ore all’importante toeletta ad inorpellare d’ingannatrice bellezza un cadavere che si consuma: e Gesù si accontenti di aver all’altare neppur più i fanciulli, ma pochi sciancati, rifiuti del mondo. –  Dio con pazienza infinita, perché è pazienza di Dio, ci corre appresso negli aggiramenti della vita, e noi non mai un minuto gli rivolgiamo una parola di cuore. Ci piglia dinanzi, perché non mandiamo a male tutto il tempo indegnamente, ci mette in serbo un giorno alla settimana, la festa. Egli ci salva questo giorno di festa dall’ingorda avarizia. e dal progresso crudele, che non staccherebbe mai dal giogo questi liberi fatti schiavi. Dio fa come una tenera madre, che piglia sulla mensa la porzione del cibo prezioso per sé: eh! non per sé, ma per darlo al bisogno ai suoi figliuoli. Egli si riserba per noi la festa, affinché in riposo in seno a Gesù respiriamo il profumo di una vita migliore. E noi non abbiam tempo da ciò. Neppur questo poco giorno di festa per Dio è per l’anima nostra!? Anche per questo dì son fissati affari da trattare: è giorno di libertà da licenziarci a baldorie. Grande Iddio! noi ardiamo di sdegno nel vedere col più indegno insulto farsi del giorno santo del Signore il giorno delle crapule più sguaiate: gli ubbriachi in gongolo sulle piazze, più liberi gli amoreggiamenti, sulle vie fin le figliuole senza pudore! E nell’istante santissimo in cui Gesù spande dal Sacramento le sue benedizioni, i peccatori nelle tane dei vizi a provocare le sue vendette!… Così del giorno del Signore si fa il giorno delle più sacrileghe ribalderie. Dopo una vita negata a Dio, rubata all’anima, finalmente il Signore getta a terra il peccatore con un colpo di malattia mortale, e gli dà tempo d’implorare la sua misericordia almeno per forza. Voi ve l’aspettate?… Oh ma no, ch’egli è uom d’affari, e non gli preme tanto di non andare dannato nell’eternità, quanto di maneggiare le cose del mondo nel tempo, se lo potesse, fin dopo la morte…. Quello che più importa è il testamento…. e tutto dispone in ordine pel mondo…. Lascia alla consorte il pegno d’amore, lascia agli amici il legato per la sua memoria, lascia ai figliuoli la bella casa edificata, e il patrimonio per cui consumò proprio tutto il tempo della vita… lascia… lascia tutto agli altri… Ma e per se stesso? non ebbe tempo da pensare; gli restano le mani vuote per l’eternità!.. Egli ormai si avvicina all’agonia: e Dio ne’ suoi aneliti gli fa battere ancora per alcuni dì un cuor che si va spegnendo! Almeno ora si corra per un Sacerdote, che venga a tentare di salvarlo con l’ultimo miracolo della misericordia di Dio, come Gesù salvò il buon ladro già nell’istante in cui moriva!… Ma aspettate, non è ancora tempo!… Ma se ha già lo sguardo annebbiato!… ha il tremor della morte…. i tratti di cadavere in volto… già colle mani convulse intorno intorno cerca aggrapparsi… a che mai? al mondo, da cui viene sbalzato: eppure ancora sulla sponda della bara nega all’anima propria, nega a Dio fin l’ultimo istante del tempo… Ei muore!… Presto, presto un Sacerdote a confessarlo! Ma egli non intende, gemisce, più che non parli, in quel momento. Momento terribile, indefinibile, che è il termine del tempo, il principio dell’eternità, in cui dalle smanie dell’agonia nel tempo…. mette un urlo: d’onde quell’urlo?… Ahi dall’eternità dell’inferno. Sentite, sentite dall’eternità quell’urlo: Oh si daretur hora!… Oh che mi si dia adesso un’ora!»… Sciagurato, ti sei tradito!… L’eternità non ha più ore: era tutto il tempo della vita un’ora a prepararti all’eternità! Questo pensiero, o miei fratelli, dovrebbe bastare a farvi pensare di salvarvi. – Udite un fatto che si raccontò in un giornale di Parigi. Un giovane più spensierato che cattivo, in una brigata di buon temponi innanzi ad un caffè sulla piazza, mentre si vedeva il buon popolo compunto affollarsi in chiesa per confessarsi in una missione, mise pegno cogli amici di gozzoviglie, che egli s’andrebbe a confessare, se gli pagassero un pranzo: e fra le matte risate va alla chiesa. Si presenta ad un buon Sacerdote, che, sì, l’accoglie con tal gentile carità da intenerirlo alle lagrime. In questa commozione il povero giovane gli dimanda perdono della sacrilega audacia; e fa d’andarsene!… Ma il buon Confessore a lui coll’accento di un padre innamorato « Voi però, mio giovane, vi accorgete che vi voglio bene! » Il giovane « Ah sì, padre, e troppo più di quello che non mi merito io! lasciatemi andare!…. » Allora l’uom di Dio « Ebbene amor per amore; e prima di lasciarvi partire dalle mie braccia, dal vostro buon cuore vi domando una carità: deh! che non me la neghiate! » « Ah, buon padre, tutto che mi fate grazia di domandarmi, ve lo prometto sul mio onore! » – « Giacché mel promettete di così buon volere, fate questa carità a me ed all’anima vostra, ché ne abbiamo tanto bisogno! Per un mese tutte le notti nel riporvi a riposo guardate l’ora sull’orologio, e dite: « Batte l’orologio come i battiti del mio cuore: e il tempo della vita va! » Spento il lume, dite « così si muore!… » Nel coprirvi col lenzuolo colla man sul cuore, dite « e dopo la morte vi è Paradiso o inferno, che duran sempre: lo dice Gesù, e Gesù lo sa più di tutti gli increduli del mondo!…» Or bene tra per l’amor del buon padre, tra per l’onor della parola data, come per la grazia di Dio, il giovane nel coricarsi guarda l’orologio colla man sul cuore, e dice: « Come l’orologio battono presto i palpiti: e il tempo della vita va!… » Spento il lume dice « così si muore!… » Si copre col lenzuolo, e dice « e dopo la morte vi è Paradiso o inferno che duran sempre… lo dice Gesù, e Gesù lo sa più che non tutti gl’increduli del mondo! » Lo replica solo tre sere, e corre alla mattina appiè del Confessore, e gli dice « questa volta vengo a confessarmi davvero! » ….. Buon per lui! Poco dopo era già morto: e si sarà salvato, perché pensò che dopo morte vi è Paradiso od inferno, che duran sempre. – Signori, io vi confesso, che non mi son curato gran fatto di esaminare colla severità della critica (come uso sempre), se veramente è questo fatto così avvenuto. Sapete il perché? Perché lascio a voi di provare ben ch’egli è vero col fatto vostro, per quanto vi è cara l’anima. Ditelo tutte le sere colla man sul cuore « Più presto che questi palpiti la vita va. Così si muore, e dopo la morte vi è Paradiso o inferno, che duran sempre, lo dice Gesù, e Gesù lo sa più, che non tutti gl’increduli e buffoni del mondo. » Fatelo, e proverete il fatto col convertirvi certamente

LA GRAZIA E LA GLORIA (6)

LA GRAZIA E LA GLORIA (6)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO PRIMO

IL FATTO E LA REALTÀ DELL’ADOZIONE DIVINA

CAPITOLO V

Come i figli dell’adozione siano ad immagine di Dio.

I. – Un figlio è ad immagine di suo padre … una verità così certa che entra nell’idea stessa di generazione. Chiamati dalla grazia alla filiazione divina, dobbiamo dunque portare in noi l’immagine del nostro Padre celeste. Non mi stupisco dunque quando, leggendo le nostre Sacre Scritture ed i loro più autorevoli interpreti, i Padri, trovo che lo scopo dell’Incarnazione fu quello di rendere l’uomo a somiglianza di Dio; per meglio dire, di restaurare in lui quell’immagine divina che era stata così disgraziatamente distrutta dalla degradazione originale della razza umana (Petav. de lncarn: l; l. 7. n. 7). Infatti questa è, in sostanza, la stessa dottrina che ci è stata proposta quando abbiamo parlato di filiazione adottiva, rigenerazione, nuova creazione, deificazione, ecc. Se le formule che lo esprimono sono molteplici e variate come all’infinito, è perché i doni di Dio sono di tale prezzo, la sua munificenza così alta al di sopra dei nostri diritti e delle nostre concezioni, che tutte le forme del linguaggio umano non sono sufficienti a darcene le idee che corrispondono alla loro sublimità. – Ho notato, tuttavia, che c’è una ragione molto speciale per ricordarci questo lato particolare della nostra elevazione soprannaturale e per farne l’oggetto delle nostre meditazioni. Se ci dicessero semplicemente con l’Apostolo: « Rivestitevi di Gesù Cristo » (Rom. XII, 14; Gal. III, 27), e prendete le sue sembianze, capirei subito che sono invitato a perfezionare in me la figliolanza che ho ricevuto; poiché Gesù Cristo è il Figlio, ed Egli è in virtù della sua eterna processione l’immagine del Padre e l’eterno splendore della sua gloria (Ebr: 1, 3; Sap. VII, 26). Ma lo Spirito Santo non si fermò lì. Leggo nelle Scritture: « Rinnovatevi nello spirito della vostra anima e rivestitevi dell’uomo nuovo, che è stato creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità » (Efes. 1V, 23, 24; Col. II, 15). E ancora: « Spogliatevi dell’uomo vecchio e delle sue opere e rivestitevi dell’uomo nuovo.» E ancora: « Toglietevi di dosso l’uomo vecchio con le sue opere e rivestitevi dell’uomo nuovo, che mediante la conoscenza della verità si rinnova a immagine di colui che lo ha creato » (Col. III, 9-10). Non si tratta solo di imprimere questa immagine divina su di noi per la prima volta: perché non si tratterebbe di togliere e rinnovare, ma di innovare, né di rinnovamento, bensì di novità. Questa immagine che si sta restaurando, che si sta ristabilendo, l’abbiamo avuta qualche giorno prima che fosse deplorevolmente danneggiata. S. Agostino ha detto da qualche parte una parola molto degna di nota: « L’uomo, dopo aver perso con il peccato il sigillo dell’immagine divina, era solo un uomo » (« Ipse homo, Signaculo imaginis propter peccatum amisso, remansit tantum homo ». – S. Augustus, lib. 83, 67, n. 4). Sentite; l’uomo uscito dalle mani creatrici, portava nella sua anima l’immagine di Dio. Essendo diventato ribelle, è spogliato di questa somiglianza divina in se stesso e per la sua posterità. Era un figlio di Dio, un dio lui stesso prima? Ora non sarà più che un uomo, perché ha perso l’immagine di Dio. – Questa è l’immagine che Cristo è venuto a riparare. Questa è l’immagine di cui ci mostra il modello perfetto in se stesso, l’immagine che ci viene restituita dal Battesimo. Ed è per questo che recuperarla è rinnovarsi, spogliarsi dell’uomo vecchio, l’uomo in cui l’immagine di Dio è cancellata, per rivestirsi del nuovo., creato secondo Dio nella giustizia e santità. (Efesini IV: 23-24). – Ma questo solleva un’obiezione molto seria. Come S. Agostino poteva dire, e come possiamo ripetere dopo di lui, che la prevaricazione del padre della nostra razza ci abbia fatto perdere l’immagine di Dio, e che quindi abbiamo bisogno sia dell’Incarnazione del Figlio unico che del Battesimo per poterla ristabilire nelle nostre anime. L’uomo non porterebbe nella sua stessa natura le sembianze divine, o questa natura sarebbe stata mutilata dalla caduta originale? Nessuno dei due. Dio non voglia che si conceda agli eretici questa corruzione primitiva della nostra natura. Senza dubbio essa ha subito gravi pregiudizi: non si vede più in essa l’ordine, la bellezza, l’ammirevole rettitudine che l’occhio deliziato degli Angeli contemplò quando Dio la formò nel suo amore e nella sua potenza. Ma, considerate in se stesse, le forze naturali non sono state diminuite. Ciò che rende la nostra natura primitiva debole dopo tanto vigore, ignorante dopo tanta luce, squilibrata nelle sue facoltà dopo un’armonia così perfetta, non è la perdita delle sue perfezioni innate: essa le mantiene intatte, come rimane se stessa nella sua integrità. A cosa attribuiremo dunque questa decadenza? Alla meritata privazione dei privilegi della giustizia originaria, dalla quale la nostra natura ha ricevuto un grado di perfezione che non era e non poteva scaturire dai suoi principi costitutivi. («Ipsa déstitutio justitiæ originalis vuilneratio naturæ dicitur. » S. Thom. l. 2, q. 85, a 3). Da qui, la necessità per ogni uomo, per ogni figlio di Adamo di essere ad immagine di Dio. Perché è così? Perché questa immagine poggia sulla natura intelligente e libera come su una base necessaria ma pienamente sufficiente (« Imago proprie dicitur quod procedit ad similitudinem alterius »: S, Thom. 1 p. q. 35, to. 1, ad 1.).

2. – Studiamo il carattere dell’immagine, per meglio concepire come abbiamo potuto perderla, senza cessare di portarla in noi; come, pur conservandola nelle profondità della nostra natura ragionevole, dobbiamo recuperarla per essere figli adottivi di Dio. La nozione di immagine contiene due idee: in primo luogo, un’idea di origine, e in secondo luogo, un’idea di somiglianza con l’oggetto da rappresentare, cioè con l’esemplare. Ho detto: un’idea di origine. Se un pittore fa un quadro, e tra i personaggi riprodotti dall’immaginazione sulla tela, ne trova uno che ricordi la fisionomia di una tale e tal’altra persona sconosciuta all’artista, non c’è né esemplare né immagine: perché questa persona non ha contribuito in alcun modo all’opera in cui si riconoscono i suoi tratti (S. August. L. 83. Quæst, q. 74.5). Ho detto anche: un’idea di somiglianza, anche se una qualsiasi somiglianza non sia sufficiente a costituire un’immagine propriamente detta. Un fiore non sarà mai l’immagine dell’arbusto su cui è sbocciato: perché tra l’arbusto e il suo fiore la somiglianza è solo generica. Quindi cosa serve perché si abbia una vera immagine? La somiglianza nelle proprietà specifiche o, almeno, in un accidente caratteristico della specie, la figura, per esempio. Così un re può contemplare la sua immagine sia in suo figlio che sulle monete del suo impero: in suo figlio, perché gli ha comunicato la sua natura di uomo; sulle monete, perché sono coniate a sua effigie. Ne consegue che quanto più la somiglianza riproduce la natura e le perfezioni del modello, tanto più realizzerà la vera nozione dell’immagine. Ed è per questo che il Verbo eterno è l’immagine assolutamente perfetta del Padre, come ne è il Figlio perfetto (Col. I, 15; Eb. I, 3). In verità, Dio, l’Essere in essenza, l’abisso infinito di ogni perfezione, non può essere contenuto né in un genere né in una specie, tanto Egli è separato dalla supremazia del suo essere da tutto ciò che non è Lui. Non è meno certo che, secondo il nostro modo di concepire, ciò che è caratteristico di Lui, come in noi, non sia né di essere né di vivere, ma di pensare. Dunque, ed è a questo che volevamo arrivare, la creatura intelligente e ragionevole, per questo stesso fatto che è capace di conoscere e di volere, è ad immagine di Dio: copia molto imperfetta, senza dubbio, infinitamente inferiore all’immagine invisibile che sgorga eternamente dal seno del Padre; ma tuttavia è una copia che conserva l’immagine, che rimane intatta finché la natura ragionevole non viene distrutta (S. Thom. 1 p, q. 93, a, 1; II D. 16, q, 1, a,1). Quanto alle altre creature, la loro somiglianza con Dio non è tanto quella dell’immagine, quanto quella delle vestigia. L’impronta lasciata da un animale sul fango che ha calpestato con il suo piede, è una vestigia che ce lo fa conoscere, come un effetto che rivela la sua causa. Così Dio si manifesta attraverso la creazione materiale; ed è per questo che solo l’uomo e l’Angelo hanno il privilegio di essere per loro natura immagini di Dio. (Il Dottore Angelico propone una difficoltà su questo argomento, la cui soluzione completerà le spiegazioni che abbiamo appena sentito. È tratto da un passo di Boezio (De Consol., L. III), in cui si dice «che Dio, portando il mondo nella sua mente, lo rende conforme a questa immagine »; dal che, sembra, dobbiamo concludere che tutto il mondo, e non solo la creatura ragionante, è a immagine di Dio. – Ecco la bella distinzione data da San Tommaso per risolvere l’obiezione: « Un’opera può assomigliare all’artista che l’ha fatta in due modi diversi. – Gli assomiglia in ciò che ha della sua natura; così come il figlio assomiglia a suo padre. – Gli assomiglia per quello che ha della sua intelligenza; così l’opera d’arte assomiglia all’idea con cui l’artista l’ha concepita. Ora, la creatura procede in questa doppia maniera a somiglianza di Dio. Procede dalla prima: perché gli esseri sono dall’Essere e i viventi dalla Vita per essenza. Essa procede dalla seconda: perché tutto ciò che Dio fa è formato da Lui sulle idee eterne. Siccome, dunque, ogni creatura di Dio, si accorda perfettamente con ciò che è stato concepito nella sua intelligenza, poiché essa è precisamente come ha disposto che fosse, non c’è alcuno, da questo punto di vista, che non sia ad immagine dell’idea divina. Ma dall’altro punto di vista, cioè per quanto riguarda la somiglianza con ciò che il Creatore ha nella sua natura, solo la creatura intelligente raggiunge il grado supremo di imitazione, ed è per questo che essa sola è chiamata anche immagine di Dio. – S. Thom. II, D.16, q. a 2;1 p. q. 93 a. 2, ad 2; 3 p., q. 4, a. 1 ad 2). – Come interpretare allora il passaggio di Sant’Agostino che abbiamo citato poco fa; come spiegare anche che il Verbo si è fatto carne per restaurare in noi l’immagine divina, e che è opera dello Spirito Santo ristabilirci in questa gloria? Ecco il principio: sopra l’immagine che viene dalla natura, ce n’è un’altra, migliore e più perfetta, che viene dalla grazia. Non è quella, ma l’ultima, quella che dobbiamo riparare nelle anime. Il mio Creatore me le ha date originariamente entrambe: l’immagine naturale e l’immagine soprannaturale, essendo la prima il necessario fondamento della seconda, e la seconda il glorioso coronamento della prima (S, Tomm. II, D. 29, q. 1, a, 1, ad 5; col. De Potent. q. 3 a. 16, ad 5 e 12). È un punto della nostra fede cattolica che il padre del genere umano ricevette da Dio la santità come un possesso familiare che doveva trasmettere ai suoi discendenti, nello stesso momento in cui comunicava loro la sua natura umana: in modo che essi fossero, in virtù della loro origine, figli dell’uomo e allo stesso tempo figli di Dio per adozione. Il peccato ha rovesciato questo ordine primordiale e ci ha tolto l’immagine della grazia privandoci della giustizia originale. Ed ecco ciò che S. Agostino intendeva dire. Non più di ogni altro Padre, Egli ha mai pensato che l’uomo, rimanendo uomo, potesse cessare di essere un’immagine di Dio; poiché Egli fa di questa somiglianza naturale la condizione necessaria della nostra elevazione per grazia e gloria. Perciò, per evitare che questo testo, separato dagli altri, fosse male interpretato, si preoccupò di spiegarlo lui stesso nelle sue Ritrattrazioni (l. 1, c. 26). – I Padri e i teologi difficilmente parlano dell’immagine di Dio nell’uomo, senza riferirsi al racconto della creazione dell’uomo ispirato dallo Spirito Santo nella Genesi. Lo mediteremo con loro: « E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza, e abbia dominio sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sulle bestie e su tutta la terra e su ogni essere strisciante che si muove sulla sua superficie. E Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò » (Gen, I, 26-27). « E il Signore Dio formò l’uomo dall’argilla della terra, e gli soffiò in faccia l’alito della vita, ed egli fu vivo ed animato. » Questa è la storia nella sua maestosa semplicità. – Vediamo innanzitutto come l’uomo porti l’immagine divina, a differenza di tutte le altre parti della creazione, poiché di lui solo è scritto: « Ha fatto l’uomo a sua immagine ». È per questo che solo lui è modellato dalla mano divina con tutta la cura e il disegno che un’opera così perfetta richiede; solo lui è ritenuto degno di essere vivificato dal soffio del Creatore. « Facciamo l’uomo a nostra immagine… E lo modellò… e soffiò ». – Che questa immagine sia basata sulla natura umana stessa è impossibile dubitarne, se esaminiamo il testo. Infatti, se l’uomo ha il dominio sugli animali della creazione, se è nel mondo terreno come un re nel suo dominio, il suo titolo è l’immagine di Dio che porta in sé. « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza e lasciamolo governare… ». Ora, questo principato, da dove viene se non dalla natura che lo rende intelligente e libero? Quindi è la stessa cosa essere ragionevole ed essere ad immagine di Dio. Una conferma manifesta di questa verità ci viene offerta nel capitolo IX della Genesi (IX, 6), dove Dio proibisce di spargere il sangue dell’uomo, « perché l’uomo è stato fatto ad immagine di Dio ». Infatti, se l’omicidio è uno dei più grandi crimini, è perché l’uomo, a differenza degli esseri senza ragione, non è una cosa, destinata per sua natura all’utilità di un essere superiore: nella sua qualità di essere intelligente e libero, egli esige per sé stesso, come fine e non come puro mezzo (S. Th. 2, 2. Q. 64s. 1 ss.). È per questo che lui solo in questo universo è il re di tutto ciò che lo circonda, l’immagine nobile e vivente del Re del Cielo.

3. Detto questo, mi chiedo se nel testo della Genesi troveremo un’ulteriore affermazione di una somiglianza più alta e più perfetta, stabilita dalla grazia tra i figli adottivi e Dio loro Padre. Sì, i santi Dottori rispondono concordemente. Si, lo so che i commenti che hanno dato su questo testo sono abbastanza divergenti. Forse questa diversità, più apparente che reale, deriva dal fatto che le parole scelte da Dio « a nostra immagine e somiglianza » contengono una tale abbondanza di idee per essi, che sono stati dati loro diversi significati, che non sono opposti ma complementari. In ogni caso, basta scorrere le interpretazioni che i Padri ci hanno lasciato di queste parole divine, o le frequenti allusioni che le riguardano, per convincersi che il significato non ha né tutta la sua profondità né tutta la sua ampiezza, se ci atteniamo all’immagine naturale, prerogativa di ogni sostanza umana. Questo è ciò che molti hanno pensato di vedere nell’uso delle due parole « a nostra immagine, a nostra somiglianza ». A nostra immagine, per esprimere la rappresentazione basata sulla natura; a nostra somiglianza, per significare la rappresentazione superiore basata sulla grazia; a nostra immagine e somiglianza, perché Dio ha fatto dell’uomo un mirabile composto di natura e di grazia, un uomo e un dio deificato. – È vero che queste due parole, immagine e somiglianza, accoppiate in questo luogo della Genesi, non appaiono mai più che separate in tutti i passi, dove la Scrittura ricorda questa dignità primitiva della nostra natura, e il testo della Genesi dove Dio l’ha registrata. A volte è l’uno, a volte è l’altro che ricorre in allusioni (lmmagine, imago, εἰκῶν [=eikon], Gen. V, 7: IX, 6; Eccli. XVII, 1. Similitudo, somiglianza, ὀμοἰωσις [=omoiosis], Gen. V, 1; Jac III, 9), con una sola eccezione, dove si dice di Dio, « che Egli creò l’uomo senza fine e lo fece ad immagine della sua e somiglianza di Lui » (Sap. II, 23). Ma anche se le due espressioni « di immagine e di somiglianza », a causa della mescolanza che se ne fa nei nostri Libri santi, non fossero sufficienti a dimostrare da sole la doppia immagine impressa nell’uomo nei primi giorni della sua esistenza, l’autorità dei Padri non ci permette di trascurare nel testo sacro la somiglianza basata sulla grazia, accanto, o meglio, sopra l’immagine basata sulla natura. Si può chiamare a testimoniare S. Ireneo, S. Basilio, S. Giovanni Crisostomo, S. Giovanni Damasceno, S. Agostino. S. Bernardo (Da questi ed altri testi simili Bellarmino concluse contro i luterani del suo tempo che l’immagine differisce dalla somiglianza, l’una appartenendo alla natura e l’altra alla grazia; e che, di conseguenza, Adamo perse non l’immagine ma la somiglianza di Dio. – Bellarm, De Gratia primi hominis, c. 2). – Se c’è chi prende le due parole come più o meno sinonimi e le usa in modo indifferente l’una per l’altra, se non menzionano anche che una sola immagine, o una sola somiglianza, non giudichiamo che siano in antagonismo con ciò di cui abbiamo appena parlato: perché l’immagine che hanno in vista è, è vero, l’immagine naturale, ma ravvivata, ma completata, mai deificata da una somiglianza più espressiva; un’immagine infine, di cui la natura è la base, e la grazia il glorioso coronamento. Considerando l’immagine in questo modo, nulla ci impedisce di dire che essa fu parzialmente distrutta dalla caduta originale, poiché si perse ciò che la rendeva più eccellente e più simile all’archetipo divino, e che Cristo venne a riparare ed a restaurare al suo primo splendore (si potrebbe chiedere se è in senso letterale o solo in senso spirituale e mistico che la Genesi esprima la somiglianza della grazia alla natura. Alla fine, la risposta ha poca importanza, poiché in entrambi i sensi si afferma la stessa verità. Ciò che favorisce il significato letterale è che Dio abbia dovuto esprimere, sembra, l’immagine come aveva eternamente deciso di inciderla nell’uomo il primo giorno della sua esistenza. Se poi, come sappiamo indipendentemente da questo testo, ha creato l’uomo perfetto secondo natura e grazia, perché non dovremmo considerare come letterale l’interpretazione che vede nelle parole “immagine e somiglianza” come l’immagine completa di Dio nell’uomo, con il suo abbozzo nella natura e la sua suprema perfezione nella soprannatura? Siamo, mi sembra, tanto più autorizzati a farlo, poiché il Nuovo Testamento presenta il nostro rinnovamento spirituale in Cristo come la restaurazione dell’opera compiuta da Dio nella creazione dell’uomo. Cfr. Efes. IV, 23, 24; Col. III, 10). – Diversi Padri, e tra i più gravi, spiegando le operazioni di Dio sul primo uomo, portano nuova forza alle considerazioni precedenti. Testimone S. Cirillo di Alessandria, la cui bella dottrina è la seguente. « In principio – scrive Mosè, sotto l’ispirazione dello Spirito divino – Dio, l’onnipotente Creatore del mondo, plasmò l’uomo e soffiò nel suo volto il soffio di vita. Ora cos’è questo soffio di vita se non lo Spirito di Cristo che ha detto: Io sono la vita e la risurrezione? Dopo che lo Spirito Santo si fu ritirato dall’umanità decaduta, questo Spirito che solo poteva formarci e conservarci nell’immagine del carattere divino, il Salvatore ce lo ha dato di nuovo per restituirci alla nostra dignità originale e trasfigurarci a sua immagine e somiglianza. Ed è per questo che il Beato Paolo disse ai discepoli: « Figlioli miei, che io rigenero finché Cristo sia formato in voi ». (S. Cirillo Alex, L. V in Giov. VII, Pat. Gr. T. 73, p. 756). E ancora: « Il divino Paolo, volendo esporci la causa generale e il solo vero motivo dell’incarnazione del Figlio unigenito, ha detto: è piaciuto a Dio Padre ristabilire tutto in Cristo (Ef. I, 10). Restaurare è riportare al suo stato originale ciò che ha subito una degradazione… Ma per comprendere questa restaurazione in Cristo e attraverso Cristo, è necessario ricordare quale fosse il nostro antico stato. Questo essere vivente e ragionante, l’uomo, è stato creato fin dall’inizio ad immagine del suo Creatore… E affinché questa creatura tratta dal nulla non ricadesse in quello stesso nulla, Dio, che la voleva immortale, l’ha resa parte della sua natura. Egli soffiò nel suo volto il soffio di vita, cioè lo Spirito del suo Figlio, che è col Padre la vita stessa e conserva l’essere di tutte le cose » (S. Cirillo Al., L. IX, In Joan, XIX, Pat. Gr. T. 74, p. 275, ss). Il santo Dottore, dopo aver dimostrato che non si può senza empietà confondere questo Soffio divino con l’anima umana, continua il suo commento al testo della Genesi: « Che cosa vuole dunque insegnarci la Scrittura?  Che il Creatore, prima di completare il composto di anima e di  corpo che è l’uomo, ha impresso in lui, come sigillo della propria natura, lo Spirito Santo, per trasformarlo nell’immagine della bellezza archetipica, la Fonte di ogni bellezza; e dargli, per l’intima presenza dello stesso Spirito, il potere di praticare le virtù più sublimi… Ma quando l’uomo, con un abuso della sua libertà… fu miseramente decaduto… Dio ha deciso di innalzare la natura umana e di riportarla al suo primo stato per mezzo di Cristo, suo Figlio; e ciò che ha deciso, l’ha realizzato » (Id. Ibidem). – Questa stessa dottrina è mirabilmente riassunta da San Cirillo in un altro luogo del suo commento. « Il nostro ritorno a Dio – dice – il Salvatore Gesù ce lo ha procurato con la partecipazione del suo Spirito divino e la santificazione. Perché è lo Spirito che ci unisce a Dio; riceverlo è diventare partecipi della sua natura divina; e noi lo riceviamo attraverso il Figlio, e nel Figlio riceviamo il Padre… Il Figlio ha offerto se stesso per l’espiazione dei nostri crimini: si è offerto, dico, a suo Padre come un’ostia profumata, affinché l’ostacolo che separava la nostra natura da Dio, cioè il peccato, fosse rimosso, e una volta rimosso, nulla ci potesse impedire di essere vicini a Dio, e di partecipare alla sua natura partecipando allo Spirito Santo, che, riparando in noi la giustizia e la santità, ripara allo stesso tempo l’immagine primitiva » (S. Cyr. Al. L. XII in Joan. XVII, P. Gr., t. 74, p. 553). (Soffermiamoci su questo testo: perché sarebbe troppo lungo raccontare le magnifiche pagine in cui i Padri hanno esposto queste gloriose verità per la nostra Famiglia umana. – I teologi, nei loro studi sull’uomo considerato come immagine di Dio, si chiedono se la somiglianza si riferisca non solo a Dio considerato nell’unità della sua natura, ma anche alla Trinità delle Persone. Il testo della Genesi sembra imporre una risposta affermativa. « Facciamo l’uomo a nostra immagine »: è la Trinità che parla, Padre, Figlio e Spirito Santo. È quindi anche l’immagine della Trinità che deve essere naturalmente intesa come il termine dell’operazione divina. Il Suffragio di dottori come Sant’Agostino, Sant’Ilario e altri, rende questa interpretazione molto probabile. E infatti, se confrontiamo l’anima umana con il grande mistero della nostra fede, non avremo difficoltà a riconoscere che, anche ora, essa porta in sé non solo un vestigio ma una copia della Trinità. Ciò che costituisce le Persone divine e dà a ciascuna il proprio carattere è l’ordine e il modo delle processioni interne. Dio che conosce se stesso e da questa conoscenza produce il suo Verbo; il Verbo, fine della conoscenza e principio, con il Padre, di un Amore che procede da entrambi: questo è ciò che costituisce la Trinità. Ora questo si riflette in noi, specialmente quando la nostra anima è trasfigurata dalla grazia. Perché noi abbiamo la conoscenza di Dio, e conoscendolo, produciamo in noi stessi il Verbo che lo rappresenta; e da noi e dal nostro verbo interiore procede l’amore della bellezza divina. È un’immagine imperfetta sotto molti aspetti, ma che tuttavia rivela qualcosa del grande mistero. Quanto alle altre creature, esse sono solo vestigia della Trinità, perché, se si trova un non so che, che possa ricordarci la Trinità già conosciuta, non vedo in loro né il principio del verbo, né il verbo, né l’amore (S. Thon. 1 p,. 4.93, at. 5-8: cot: q. 45, at. 7).

4. -Ancora due o tre osservazioni prima di chiudere questo capitolo. Osserviamo innanzitutto che le parole immagine, similitudine, somiglianza possono essere intese in due modi: « Immagine, similitudine o somiglianza di Dio si dicono sia dell’anima che della grazia, ma in modo diverso. L’anima trasformata dalla grazia è immagine, come ciò che imita Dio; la grazia è immagine come quella per cui l’anima assomiglia a Dio. Così una statua è l’immagine dell’eroe o del santo che rappresenta, ma diversamente dalla figura esterna che la rende immagine e statua » (S. Thom. II, D19, a 2, ad 5). S. Bonaventura ha fatto la stessa osservazione: « Altra è la somiglianza dell’uomo con Dio, altra quella della grazia. L’anima assomiglia a Dio in quanto riceve in sé la somiglianza divina, e la grazia in quanto riceve il dono che rende l’anima simile a Dio » (S. Bonav., II, D26, a. 1, q. 3, ad 2). Diciamo: l’uomo è l’immagine di Dio; l’uomo è ad immagine di Dio: due espressioni che, pur avendo lo stesso significato, si distinguono tuttavia per una sfumatura che renderebbe la seconda preferibile alla prima: perché ci riferirebbe al Figlio di Dio, l’immagine per eccellenza, e significherebbe con la sua forma quanto questa immagine increata dell’Unico prevalga sull’immagine impressa nei figli d’adozione. – Un’altra osservazione. La creatura ragionevole assomiglia a Dio; ma Dio non assomiglia alla creatura. Perché ciò che fa la somiglianza è in Dio come nello stato di fonte, e nella creatura come nello stato di flusso. Per questo diciamo del ritratto che è simile al modello, e non del modello che assomiglia al suo ritratto. Molto meno è lecito dire di Dio che sia assimilato alla creatura. Perché l’assimilazione fa nascere nella mente una qualche idea di movimento verso la somiglianza; e di conseguenza è appropriata esclusivamente a colui che riceve da un altro la forma o la perfezione con cui diventa simile a lui. Ora, non è Dio, ma la creatura che riceve ciò per cui diventa immagine di Dio (S. Thom., c. Gent., L. I, c. 29). – L’ultima osservazione si riferisce a quel punto controverso che anticamente divideva la Scuola, riguardo al momento in cui il nostro primo padre ha ricevuto la somiglianza della grazia e la giustizia originale. Delle due opinioni, quella che sosteneva, con San Tommaso, che questa giustizia e somiglianza gli furono date con la natura stessa, cioè nel primo istante della sua creazione, è arrivata a prevalere nella teologia cattolica. E questa è la giustizia: perché, senza parlare di altre prove a suo favore, ha per sé sia il testo della Genesi che i commenti scritti su di esso dagli antichi Dottori. Nessuno ignora che Sant’Agostino lo affermi o lo supponga in tutte le sue opere; e questa è la ragione per cui poteva dire in tutta verità che la grazia fosse naturale per il primo uomo, e che lo sarebbe stata per i suoi discendenti, se avesse conservato la Giustizia originale, come spiegheremo nell’ultimo libro di quest’opera (L. XI, c. 1). E ora, per tornare al punto di partenza, vediamo come e perché lo Spirito Santo ci inviti a rinnovare l’immagine divina in noi; a spogliarci dell’uomo vecchio per rivestire l’uomo nuovo; a restaurare questa immagine degli archetipi sovrani sul modello ed in virtù dell’immagine perfetta, Gesù Cristo Nostro Signore; come e perché sia la stessa cosa essere figlio di Dio e portare in sé le sembianze della grazia. – Ma non dimentichiamo che, fino al giorno in cui questa somiglianza riceverà il suo complemento immobile e finale nella gloria, può essere degradata dal nemico della natura umana. Impotente contro il Dio che lo ha colpito con i suoi fulmini, la sua suprema ambizione è quella di farlo a pezzi nelle sue immagini viventi e di ucciderlo, per così dire, nei figli del suo amore. È là che vanno tutti gli sforzi e la rabbia di satana. Fuggiamo dunque dai suoi approcci e dalle sue opere. Né dobbiamo dimenticare inoltre la grave esortazione di Papa Leone Magno: « Miei cari figli – ci dice – se sapremo considerare fedelmente e saggiamente il mistero della nostra origine, vedremo che l’uomo è stato fatto ad immagine di Dio perché imitasse il suo Autore. Sì, la dignità naturale della nostra razza è che la forma della bontà divina risplende in noi come in uno specchio luminoso » (S. Leo M. serm.12, al 11; de jejun. 10 mens. 1. C. 1). Immagini di Dio per il nostro essere di natura e di grazia, siamo immagini di Dio per le nostre opere. Facciamo quello che Lui fa; amiamo quello che Lui ama; la Sua volontà sia in ogni cosa la regola della nostra, affinché gli uomini, quando ci vedono nella nostra vita, riconoscano e benedicano l’Archetipo divino sul quale, diventando figli, siamo stati formati.

LA GRAZIA E LA GLORIA (7)

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (10)

 M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (10)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO TERZO

L’INABITAZIONE DELLA TRINITÀ

(IV)

10) Molteplici sono gli effetti di questa divina presenza nell’anima. Ogni Cristiano battezzato può fruire come vuole delle Persone divine; e a tutto l’universo, ad alta voce, bisognerebbe proclamare che questa intimità dell’anima battezzata col Padre, col Figlio e con lo Spirito è l’essenza stessa della nostra vita spirituale. « Il giorno in cui lo compresi — diceva suor Elisabetta — tutto in me s’illuminò » (Lettera alla signora De S… – 1902.). Il primo effetto di questa presenza della Trinità nell’anima, mediante la grazia, consiste nel renderla capace di gioire di Dio; la sua beatitudine ha inizio sulla terra, poiché, eccetto la visione, già possiede in speranza e mediante l’amore Colui che ne è l’oggetto. E l’Amore infinito tutta l’avvolge e vuole fin d’ora associarla alla propria beatitudine. L’anima esperimenta, così, la Trinità vivente in lei, quella Trinità di cui godrà la visione nel cielo (Lettera a G. de G… – 20 agosto 1903). – « Quando quest’anima ha compreso la sua ricchezza, allora tutte le gioie naturali o soprannaturali che possono venirle dalle creature o anche da Dio, non fanno che invitarla a rientrare in sé, per godere del Bene sostanziale che possiede, e che è Dio stesso; acquista così — dice san Giovanni della Croce — una certa somiglianza con l’Essere divino » (Ultimo ritiro – 11° giorno). Voler enumerare tutti gli effetti della presenza di Dio nell’anima sarebbe come accingersi ad enumerare, fin nei minimi particolari, tutti i benefici suoi, nell’ordine naturale e soprannaturale. – Suor Elisabetta aveva preso l’abitudine di tuffarsi senza posa « nell’intimo suo », dove la fede le rivelava la presenza reale e sostanziale, quantunque invisibile, di Colui che è la sorgente stessa della grazia. « Egli abita in noi per salvarci, per purificarci, per trasformarci in Sé» (Lettera a G. de G… – Febbraio 1905). Al suo Dio presente e vivente in lei, due cose soprattutto chiede: di amarlo fino all’oblìo totale di se stessa, e di essere trasformata in Lui. « Che il regno dell’Amore si stabilisca in pieno nel vostro regno interiore e la forza di questo amore vi porti fino all’oblìo totale di voi stessa… Beata l’anima che è giunta a questo assoluto distacco! » (Lettera alla signora A… – 1906.). « Sì, io credo che il segreto della pace e della gioia consista nel dimenticarsi, nel disoccuparsi di sé. Ma questo non vuol dire non sentire più le proprie miserie fisiche e morali; che anzi, gli stessi santi sono passati attraverso questi stati crocifiggenti; essi però sapevano non fermarvisi, ma, ad ogni istante, si risollevavano dalle loro miserie. E, quando se ne sentivano sopraffatti, non se ne meravigliavano, ben sapendo di « quale argilla siamo formati » (Salmo CII-4.), come canta il Salmista; come lui però soggiungevano: « Con l’aiuto del Signore, sarò senza macchia e mi guarderò dalla mia iniquità» (Salmo XVII-24). « Poiché mi permettete di parlarvi come ad una sorella cara, vi dico che il Signore mi sembra chiedervi un abbandono e una fiducia illimitata in quest’ora dolorosa in cui sentite l’angoscia di vuoti tremendi. Pensate che, intanto, Egli scava nell’anima vostra delle capacità più grandi per riceverlo, capacità in certo modo infinite, come Lui stesso; quindi cercate di mantenervi lieta, almeno con la volontà, sotto la mano che vi crocifigge. Anzi, dirò di più: considerate ogni sofferenza, ogni prova, « come una prova d’amore » che vi manda il buon Dio, direttamente, per unirvi a Sé. Dimenticarvi per ciò che riguarda la vostra salute, non vuol dire rifiutare di curarvi; al contrario, questo è per voi un dovere, ed è la migliore penitenza; ma fatelo con grande abbandono, riconoscente sempre al Signore, qualunque cosa avvenga. E quando il peso del corpo si fa sentire e abbatte lo spirito, non vi scoraggiate, ma andate con fede e amore da Colui che ha detto: « Venite a me, ed io vi solleverò » (San Matteo, XI-28.). – Riguardo all’anima, poi non lasciatevi mai sconfortare dall’esperienza delle nostre miserie, ricordando ciò che dice il grande san Paolo: «Dove ha abbondato il peccato, sovrabbonda la grazia » (Romani V, 20). Io sento che l’anima, quanto più è debole, anzi colpevole, tanto più ha ragione di sperare; e questo atto col quale dimentica se stessa e si getta nelle braccia di Dio, dà a Lui tanta gloria e tanta gioia, più di tutti i ripiegamenti dell’anima sopra di sé e tutti gli esami di coscienza i quali non raggiungono altro scopo che di farla vivere con le proprie infermità; mentre possiede lì, nel centro del suo essere, un Salvatore che la purifica ad ogni istante. Ricordate la bella pagina del Vangelo, in cui Gesù dice al Padre « che ha ricevuto da Lui ogni potere sopra ogni carne, perché a tutti comunichi la vita eterna? » (San Giovanni, XVII-2). Ecco che cosa Egli vuol fare in voi: vuole aiutarvi ad uscire continuamente da voi stessi, vuole che abbandoniate ogni preoccupazione, per ritirarvi in quella solitudine che Egli si è scelta nel vostro cuore; intima, cara solitudine, dove è sempre presente anche quando voi non Lo sentite, dove sempre vi attende e vuole stabilire con voi quell’« admirabile commercium » (Antifona dei Primi Vespri della Circoncisione) che noi cantiamo nella nostra bella liturgia, ineffabile intimità di Sposo a sposa. Le vostre infermità, le vostre colpe, tutto ciò che vi turba, Egli vuole portarvelo via, vuole guarirlo con questo contatto continuo, poiché « è venuto non per giudicare, ma per salvare » (San Giovanni, XII-47). Niente deve impedirvi di andare a Lui; non badate se siete nel fervore o nello scoraggiamento, perché è una triste legge dell’esilio quella di passare così da uno stato all’altro. Ma Lui, oh Lui non cambia mai, e nella sua bontà, è chino sempre su di voi per sollevarvi in alto e stabilirvi in Sé. E se, malgrado tutto, vi sentite oppressa dalla tristezza, desolata e sola, unite la vostra agonia a quella di Gesù nel giardino degli Ulivi, unite la vostra preghiera alla Sua preghiera: « Padre, se è possibile, allontana da me questo calice!…» (San Matteo, XXVI-39.). Vi sembra forse troppo difficile dimenticarvi così? Oh, non vi spaventate! se sapeste come è semplice, invece! Vi confiderò il mio segreto: pensate a questo Dio che abita in voi e di cui voi siete tempio (I Corinti, III-16.). È san Paolo che ce lo dice, e possiamo esserne certi. Allora, a poco a poco, l’anima si abitua a vivere nell’ineffabile Sua compagnia, comprende che porta in sé quasi un piccolo cielo in cui il Dio d’Amore ha stabilito la sua dimora, sente di respirare in un’atmosfera quasi divina, anzi non è più sulla terra che col corpo, ma l’anima abita al di là delle nubi e dei veli in Colui che è l’Immutabile. Non dite che tutto ciò non è per voi, perché siete troppo miserabile; questa, se mai, è una ragione di più per andare a Lui che vi salva; poiché non certo considerando la nostra miseria, ne saremo purificati, ma guardando Colui che è la stessa purezza e santità. San Paolo dice che « Dio ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio Suo » (Romani, VIII-29). Nelle ore più dolorose, pensate che l’Artista divino, per rendere più bella l’opera sua, usa il cesello; e rimanete in pace, sotto il lavoro della Sua mano sapiente. Il grande Apostolo di cui vi parlo, dopo essere stato rapito al terzo cielo, sentiva ancora la propria infermità, e se ne lamentava col suo Signore; ma Questi gli rispose: « Ti basti la mia grazia, perché la virtù si perfeziona tra le infermità » (II Corinti, XII-9.) È consolante per noi, non è vero?… Coraggio, dunque, signora e sorella mia carissima; vi affido, in modo tutto speciale, ad una piccola carmelitana morta a ventiquattro anni in odore di santità; si chiamava Teresa di Gesù Bambino, ed ha promesso, prima di morire, che il suo paradiso l’avrebbe trascorso facendo del bene sulla terra; ed ora la sua grazia è di dilatare le anime, di slanciarle sulle onde dell’amore, della confidenza, dell’abbandono; perché ci ha detto che ha trovato la felicità quando ha cominciato a dimenticare se stessa. Vogliamo invocarla insieme ogni giorno, perché vi ottenga questa scienza dell’oblio di sé, che forma i santi e che dona all’anima tanta pace e tanta gioia? » (Lettera alla signora A… ). In questa lettera, suor Elisabetta ci svela e ci dona il suo segreto più intimo. Per molti anni, l’ultimo ostacolo alla pienezza della santità in lei, fu proprio questa mancanza dell’oblìo totale di sé; e lungamente, nella sua preghiera, si tenne supplichevole dinanzi alla Trinità Santa: « Aiutami a dimenticarmi interamente… ». Venne esaudita, alfine: e, libera ormai, si abbandonò con tutte le sue potenze, al solo esercizio dell’amore. Fu, come abbiamo detto, il segno del trionfo dell’amore e del fiorire pieno della sua vita spirituale: grazia suprema di una spiritualità essenzialmente contemplativa, che attira le anime nel raccoglimento interiore, ma per farle uscire dal proprio io e tenerle occupate soltanto a dar gloria al Signore. L’effetto correlativo di questo dimenticare se stessi è la consumazione nell’unione trasformante, quell’unione in cui, soprattutto al termine della sua vita, suor Elisabetta si fissa con tanto amore. A mano a mano che Dio va compiendo in lei la sua opera di distruzione, si sente come quest’unione trasformante diviene sempre più il suo pensiero familiare, il termine sospirato a cui anela la piccola santa malata, per realizzare la sua brama di « divenire conforme al Crocifisso » e il suo « sogno di gloria ». Ella glorificherà Dio nella misura in cui sarà trasformata in Lui. È lo scopo a cui tende, sempre con lo stesso metodo: tenersi alla divina presenza, lasciarsi purificare e salvare dal contatto continuo con Dio: « Egli è tanto contento di perdonarci, di risollevarci, poi di trasportarci in Sé, nella sua purezza, col suo contatto continuo, coi suoi tocchi divini. Egli ci vuole tanto pure! Sarà Lui stesso la nostra purezza: ma noi dobbiamo lasciarci trasformare, fino alla piena somiglianza con Lui» (Lettera a G. de G… – 20 agosto 1903.). « Egli ha sete di associarci a tutto il Suo Essere, di trasformarci in Lui ».(Alla medesima – 14 settembre 1903). – Mentre componeva l’ultimo ritiro di « Laudem Gloriæ » suor Elisabetta si tuffava e rituffava con delizia nei passi sublimi del « Cantico » e della « Viva fiamma » in cui san Giovanni della Croce descrive quella trasformazione dell’anima nella Trinità che è il culmine della sua teologia mistica; ma, non paga di inebriarsene, si applicava con fedeltà instancabile ad ottenere da Dio questa grazia suprema, « Deus noster ignis consumens » (Ebrei, XII-29.). « Il nostro Dio, scriveva san Paolo, è un fuoco consumante, un fuoco di amore, cioè, che distrugge e trasforma in sé tutto ciò che tocca. Per le anime che, nel loro intimo, sono tutte abbandonate alla sua azione, la morte mistica di cui ci parla san Paolo diviene così semplice, così soave! Esse pensano molto meno all’opera di spogliamento e di distruzione che rimane loro da compiere, che non ad immergersi nella fornace d’amore che arde in esse, e che non è se non lo Spirito Santo, quello stesso Amore che, nella Trinità, è il vincolo di unione fra il Padre e il Suo Verbo. La fede ve le introduce; e là, semplici e quiete, vengono da Lui trasportate nella « tenebra sacra », al di sopra delle cose e dei gusti sensibili, e quindi trasformate nell’immagine divina. Esse vivono, secondo l’espressione di san Giovanni, « in società » con le Tre Persone adorabili; la loro vita è in comune: questa è la vita contemplativa » (« Il paradiso sulla terra, 6° orazione »), « Il grande mezzo per giungere a questa perfezione che il divino Maestro domanda da noi, è ancora e sempre la presenza di Dio, secondo il comando di Dio stesso ad Abramo: « Cammina alla mia presenza e sii perfetto » (Genesi, XVII.1). Senza mai deviare da questa via magnifica della presenza di Dio, anima procede « sola col Solo », sostenuta dalla forza della Sua destra, protetta all’ombra delle Sue ali senza temere le insidie della notte, né la freccia lanciata in pieno giorno, né il male che si insinua nelle tenebre, né gli assalti del dèmone meridiano » (Ultimo ritiro IV). È l’ora dell’unione trasformante; l’anima non aspira più che alla visione beatifica. – « Come il cervo assetato anela le sorgenti dell’acqua viva, così l’anima mia sospira a Te, mio Dio! L’anima mia ha sete del Dio vivo. Quando andrò, e comparirò dinanzi al suo Volto? ». E tuttavia, « come il passero che ha trovato un rifugio, come la tortorella che ha trovato un nido per deporvi i suoi piccoli », così l’anima, giunta a queste cime, ha trovato il suo rifugio, la sua beatitudine, in attesa di passare nella santa Gerusalemme, la « Beata pacis visio »; ha trovato il suo cielo anticipato ove iniziala sua vita di eternità » (Ultimo ritiro XVI). Sa di essere inabitata dalla Trinità Santa, e questo basta alla sua felicità. « Ecco il mistero che canta oggi la mia lira. Come a Zaccheo, il Maestro ha detto a me: «Affrettati a discendere, perché voglio alloggiare in casa tua » (San Luca, XIX-5.). Discendere!… Ma dove?… Nelle profondità della mia anima, dopo essermi separata, alienata da me stessa, dopo essermi spogliata di me stessa; in una parola: senza di me. « Bisogna che io alloggi in casa tua ». È il Maestro che mi esprime questo desiderio, il mio Maestro che vuole abitare in me col Padre e col suo Spirito di amore perché, come si esprime il Discepolo prediletto, io abbia « società » con Essi. «Voi più non siete ospiti o stranieri, ma siete già della casa di Dio » (Efesini, II-19.), dice san Paolo. Ed ecco come io intendo questo « essere della casa di Dio »: vivere in seno alla tranquilla Trinità, nel mio abisso interiore, nella fortezza inespugnabile del santo raccoglimento di cui parla san Giovanni della Croce. – Davide cantava: « Vien meno l’anima mia, entrando negli atrî del Signore » (Salmo LXXXIII2.). Mi sembra che questa debba essere l’attitudine di ogni anima che si ritira nei suoi atri interiori per contemplarvi il suo Dio, per prendervi strettissimo contatto con Lui. Essa vien meno, in una estasi divina, trovandosi dinanzi a questo Amore onnipossente, a questa Maestà infinita che abita in lei. Non è la vita che l’abbandona, ma è lei stessa che, disprezzando questa vita naturale, se ne ritrae, perché sente che non è degna del suo essere così grande, e vuol farla morire, per immergersi nel suo Dio. Come è bella questa creatura così libera, spoglia di sé! È ormai in grado di « disporre ascensioni nel suo cuore, per salire, dalla valle delle lagrime (cioè da tutto quello che è meno di Dio), al luogo che è la sua mèta» (Ibidem, 6), quel luogo spazioso cantato dal Salmista, che è — mi sembra — l’insondabile Trinità: Immensus Pater — Immensus Filius — Immensus Spiritus Sanctus (Simbolo di sant’Atanasio, 9.). Sale, si innalza al di sopra dei sensi, della natura; supera se stessa, supera ogni gioia come ogni dolore, sorpassa tutte le cose, per non riposarsi più fino a che sia penetrata nell’intimo di Colui che ama, e che le darà Egli stesso il riposo dell’immenso abisso. E tutto questo, senza che sia uscita dalla santa fortezza. Il Maestro le ha detto: « Affrettati a discendere ». E ancora senza uscirne, vivrà, a somiglianza della Trinità immutabile, in un eterno presente, adorando Iddio per Se stesso e divenendo, mediante uno sguardo sempre più semplice, più unitivo, « lo splendore della Sua gloria » o, in altre parole, « l’incessante lode di gloria » delle Sue adorabili perfezioni » (Ultimo ritiro XVI).

11). È proprio per farci giungere a questo abisso di gloria, nota san Giovanni della Croce, che Dio ci ha creati a Sua immagine e somiglianza… « Anime create per queste meraviglie e chiamate a vederle realizzate in voi, che cosa fate? « In quali miserevoli nulla perdete il vostro tempo. « Le ambizioni vostre non sono che bassezze; i vostri cosiddetti beni non sono che miserie. Come potete non comprendere che, inseguendo le grandezze della gloria terrena, restate sepolte nella indigenza e nell’ignominia? « Mentre questi tesori incalcolabili vi sono riserbati, voi li ignorate, né altro sapete fare che rendervene indegne » (Cantico spirituale – Strofa XXXIX.). Mossa da un medesimo sentimento di tristezza divina, suor Elisabetta della Trinità, la sera del 2 agosto 1906 — quinto anniversario della sua entrata al Carmelo — ripensando a tutte le grazie attinte da questa ininterrotta presenza di Dio e sprecate da tante anime che, invece, avrebbero potuto viverne come lei, aveva esclamato: « Oh, io vorrei poter dire a tutte le anime quale sorgente di forza, di pace e di gioia troverebbero, se acconsentissero a vivere in questa intimità. Ma non sanno attendere; se Dio non si dona ad esse in maniera sensibile, trascurano la Sua santa presenza; e quando Egli giunge ricco di tutti i suoi doni, non trova nessuno: l’anima è assente, dissipata fra le cose esteriori. Non sanno abitare nelle profondità di se stesse » (Lettera alla mamma – 3 agosto 1906).

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (11)

LA GRAZIA E LA GLORIA (5)

LA GRAZIA E LA GLORIA (5)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO PRIMO

IL FATTO E LA REALTÀ DELL’ADOZIONE DIVINA

CAPITOLO IV

I figli adottivi di Dio sono dei essi stessi per grazia e partecipazione.

1. È vero, dunque, che chiunque abbia conservato la grazia del suo Battesimo, o che la recuperi dopo averla persa, possa vantarsi di essere veramente un figlio adottivo di Dio, nato da Dio per una generazione spirituale, e trasfigurato nel suo essere ad immagine del Figlio unigenito, di cui è fatto coerede. Ma un figlio adottivo ha il diritto di portare il nome del padre che lo adotta. Dio, che è diventato nostro Padre, ci ha dato pure il suo Nome? Chi oserebbe dire o pensare questo? Non è forse il crimine e l’assurdità del politeismo l’aver comunicato alle creature un nome che è incomunicabile? – Eppure, se do ascolto alla voce dello Spirito Santo lo sento dire ai giusti: « Io, io l’ho detto: voi siete dei e figli dell’Altissimo » (Sal. LXXXI, 6). E nostro Signore, lungi dal contraddire queste parole del salmo, le conferma « Nonne scriptum est in lege vestra, Quia, ego dixi:  Dii estis?» (Joan: X, 34-35). Si dirà che queste parole non debbano essere prese alla lettera, che debbano essere spiegate, e che anniano un significato molto diverso da quello che si affaccia alla nostra mente quando le leggiamo nei Salmi e nel Vangelo. No, non è così. Io porto come garanzia la testimonianza autorizzata dei Santi Dottori e Padri. S. Agostino, nel suo commento al Salmo XLIX, arrivando a queste parole: “il Dio degli dei ha parlato“, le confronta con quelle del Salmo LXXXI, che abbiamo citato prima. (È evidente – dice – che egli chiama gli uomini dèi; ma dèi deificati dalla sua grazia, e non dèi prodotti dalla sua sostanza. Chi si giustifica da sé e non per mezzo di un altro, è giusto; e chi è deificato da se stesso e non da un altro è Dio. Ed è lo stesso che giustifica e deifica, perché giustificare è rendere figli di Dio. Per questo stesso fatto che siamo stati costituiti figli di Dio, siamo stati fatti dèi: dèi, dico, adottati per grazia e non generati per natura » (S. August. in psalm. XLIX). Lo stesso pensiero si trova in un’opera spesso attribuita a Sant’Anselmo, anche se fu scritta da uno dei suoi discepoli: « Dio ci rende dei, poiché Egli stesso ha detto: voi siete dei e siete tutti figli dell’Altissimo, così che Egli è il Dio divinizzante e voi siete dei divinizzati » (Eadmer, L. De similitudinibus, c. 66; Opp.). Torniamo a Sant’Agostino per citare una pagina curiosa che ci rivela sia il suo genio originale che la bonomia arguta e piccante che usava con il suo pubblico di artigiani e pescatori. Il Santo, parlando contro la menzogna, mette insieme due testi della Scrittura, apparentemente opposti tra loro. Il primo è di San Paolo: « Perciò, mettendo da parte ogni falsità, ognuno dica la verità in ogni cosa » (Efes. IV, 25). Ecco il secondo: « Ogni uomo è un bugiardo » (Sal. CXI, 11.). – « Cos’è questo che dice; dunque Dio attraverso il suo Apostolo ci comanda l’impossibile? Oso dirvelo; e non prendetelo come un insulto, poiché lo dico a me stesso: Dio ci comanda di non essere più uomini… Dico di più alla vostra carità; l’Apostolo fa un crimine per gli uomini l’essere uomini. Noi, quando siamo arrabbiati con qualcuno, diciamo: Oh, il bruto (pecus)! Allora Paolo, alzando la frusta del Maestro contro di loro, li rimprovera di essere ancora uomini. Cosa voleva che fossero, quelli che accusa di commettere un crimine con l’essere uomini? Ascoltate: “Poiché c’è gelosia e divisione tra voi, non siete voi carnali e non camminate secondo l’uomo? Perché quando uno dice: “Io sono di Paolo”, e un altro: “Io sono di Apollo”, non siete forse uomini? (1 Cor. I, 3-4) » Vedete, li sta rimproverando, dicendo: “Non siete uomini?” Ma, di nuovo, cosa voleva che fossero? Il salmo dice: L’ho detto: voi siete dei e figli dell’Altissimo (Sal. LXXXI, 6-7). Queste sono le parole stesse di Dio. A questa dignità ci invita…  « Se volete essere e rimanere uomini, sarete bugiardi. » Quindi non c’è più bisogno di scusarsi e dire: devo mentire, perché sono un uomo. Ti dico con fiducia: non essere uomo e non mentire più! Cosa? Qualcuno dirà: non devo essere un uomo? No, non dovete!  – Perché questo è ciò che Colui che si è fatto uomo per voi vi invita a fare e ciò che vi ha destinato a fare. Quindi non siate più alterati. Non vi viene detto di cessare di essere un uomo e diventare un bruto, ma di essere uno di quelli a cui Dio ha dato il potere di essere figli di Dio. Dio vuole farti diventare Dio, non per natura come il suo Unico, ma per grazia e per adozione. Proprio come questo Unico si è abbassato per condiscendenza alla nostra mortalità, così vuole farci salire fino alla partecipazione della sua immortalità. Ringraziatelo, dunque, e ricevete con gratitudine l’incomparabile beneficio che un giorno dovrà essere coronato dalla beatitudine eterna. Cessa di essere figlio di Adamo; rivestiti di Cristo, e non sarai più uomo; e cessando di essere uomo, non sarai più bugiardo » (S. Agost. Serm. 166). Altrove scrive in modo più conciso, ma con la stessa forza: « Dio si è fatto uomo, perché l’uomo fosse fatto Dio. Factus est Deus homo, ut homo fieret deus » (Serm. 128, n. 29 in Append. Opp. S. Agost). A questa grande voce del nostro dottore fanno eco tutti i Padri dell’Occidente fino a San Bernardo; e a Tommaso basta raccogliere il loro pensiero comune per scrivere: « Non è stato per se stesso che il Figlio di Dio si è fatto uomo ed è stato circonciso nella carne; il suo scopo era di renderci dei per grazia e di meritare per noi la circoncisione spirituale » (S. Thom-3 p; q, 3. 97, a, 3 ad 2). E ancora: « L’unigenito Figlio di Dio, misericordiosamente geloso di renderci partecipi della sua divinità, prese la nostra natura, così che Dio fatto uomo, fece l’uomo come dei, ut homines deos faceret factus homo » (S. Thom. Offic. SS. Sacram., lect. 4).

2. – Abbiamo sentito l’Occidente proclamare per bocca dei suoi Dottori questo incredibile diritto dei figli adottivi a prendere il nome del Padre, cioè di Dio. Ci hanno anche detto che il grande mistero dell’Incarnazione è stato elaborato nella pienezza dei tempi per ottenerci questa mirabile grazia, e che si riassume in queste poche parole: Dio si è fatto uomo e l’uomo è diventato Dio. – Per sapere quanto questa convinzione sia sempre stata universale nella Chiesa, dobbiamo ascoltare a nostra volta i Padri e i santi d’Oriente. Anche loro vedono nella nostra deificazione la meta prossima della venuta del Verbo incarnato. Questo è ciò che ci insegna San Massimo. Egli ci insegna: « Questa natura, privata delle luci che aveva ricevuto alla sua prima origine, il Verbo di Dio fatto uomo l’ha nuovamente riempita di conoscenza. Egli ha fatto ancor di più: l’ha deificato, indubbiamente non in virtù di un cambiamento di natura, ma per una qualità soprannaturale, e l’impronta del carattere del suo Spirito… Perché se si è fatto uomo, è stato per renderci dei per grazia » (S. Maxim. Conf. Capp. quinquies centenor. Cent. 2, n. 26. P. G. t. 90, p. 1229; col. cent. 1, n. 63; ibid. p. 1204). – Per San Giovanni Damasceno la deificazione dell’uomo era lo scopo che Dio aveva in mente nel crearlo.  « Il fine per cui Dio ci abbia creati, questo fine che corona il mistero della nostra elevazione, è che Egli ha voluto deificarci assimilandoci a sé: deificarci, dico, per la partecipazione della luce divina, e non per una qualche trasmutazione della nostra natura in quella di Dio » (S. J. Damasceno. De fide O. L. II, c. 12 P. G. T. 94, p. 924. Col. Maxim. Capp. Quinquies contenor. N. 41, P. G. t. 90, p. 1193). Notiamo quest’ultimo correttivo, già impiegato da San Massimo: esso è motivato in entrambi dall’eresia di Eutyche dove si delirava in Gesù Cristo la fusione più o meno completa della natura divina e della natura umana. – Gli stessi Padri non potevano contenere gli scoppi della loro gratitudine al pensiero di un tale ineffabile beneficio. « L’uomo – esclama Gregorio di Nissa – l’uomo che per sua natura è cenere, paglia e vanità, Dio, il Padrone di tutte le cose, lo ha elevato dal rango di creatura alla condizione di figlio. Quali ringraziamenti possono eguagliare tale munificenza? Come supera immensamente la sua natura nel diventare Dio da uomo che era! Infatti, diventando figlio di Dio, è grande della grandezza di suo Padre, erede di tutti i beni paterni » (S. Greg. Nyss. de Boatilud, Orat. 7, P. Gr., t. 44, p. 12801). Le grandi eresie del IV secolo in Oriente non hanno contraddetto questa dottrina comune. Il loro crimine non era tanto quello di sminuire l’uomo innalzato dalla grazia, quanto quello di portare quasi al suo livello il Figlio Unigenito o lo Spirito che procede eternamente dal Padre e dal Figlio. Anche i nostri Dottori, forti di questo assenso universale, si poggiarono sulla deificazione dell’uomo rinnovata nel Figlio e dallo Spirito Santo, come un principio indiscutibile, per dimostrare la divinità dell’uno e dell’altro contro coloro che vi si opponevano. – Diamone alcuni esempi, cominciando da San Cirillo di Alessandria. « La creatura – egli scriveva – è uno schiavo e Dio il padrone sovrano. Ma attraverso l’unione che contrae con il suo Signore, questa creatura è liberata dalla sua propria condizione per elevarsi al di sopra di se stessa… Se dunque, essendo schiavi per natura, siamo per grazia figli di Dio e dei, il Verbo di Dio, per mezzo del quale diventiamo dei e figli di Dio, deve essere in tutta verità il Figlio di Dio secondo natura. Infatti, se Egli fosse stato solo un figlio secondo la grazia come noi, non avrebbe potuto comunicarci una grazia simile, perché è impossibile che una creatura dia ad altri ciò che non ha da sé ma da Dio » (S. Cyrill. Alex. in Joan. Stesso ragionamento per stabilire la divinità dello Spirito Santo, Id. Quadrante. VII di Trinit. P. Gr., vol. 75, p. 1089). – È con un argomento simile che San Basilio dimostra che lo Spirito Santo non è solo una sorta di demiurgo, strumento e ministro di Dio per la santificazione delle anime, ma che è della stessa natura del Padre e del Figlio. Prendendo di mira il suo avversario, egli esclama: « Tu sostieni – egli dice – che lo Spirito sia estraneo per natura al Figlio e al Padre. Ma guardate come fa diventare figli di Dio coloro che santifica. Cosa! è per mezzo dello Spirito che si diventa figli di Dio, e lo Spirito sarebbe estraneo al Figlio? È dallo Spirito che sei un dio, e lo Spirito non avrebbe la divinità in sé? » (S. Basilio, adv. Eunom. L. v. Pat. Gr., tt. 29, p. 732). – Sant’Atanasio aveva già colpito gli stessi avversari con lo stesso argomento. « La partecipazione dello Spirito Santo è in noi una partecipazione della natura divina. Sarebbe dunque uno stolto chi dicesse che è di natura creata. Se è sceso sugli uomini, è stato per deificarli. Ora, se Egli deifica, la sua natura è ovviamente la natura stessa di Dio » (S. Athan. ep. ad Serapion. 1, n. 24. Pat. Gr., t. 26, p. 585). – Infine, Gregorio di Nazianzo riassume questa prova in poche parole: « O Trinità – afferma – parlerò audacemente; che mi sia perdonata la mia temerarietà, perché la salvezza dell’anima è in pericolo. Anch’io sono l’immagine di Dio, tutto investito di una gloria superiore, anche se striscio per terra. Non posso credere che la salvezza mi venga portata da uno a me simile. Se lo Spirito Santo non è Dio, che prima si faccia Dio, e poi venga a deificare me, suo pari » (Gregor. Naz. Or. 34, n. 12. P. G., t. 36, p. 252). Che cosa è dunque, o meglio, che cosa dovrebbe essere la creazione per questo teologo per eccellenza: « Dio unito agli dei e familiarmente conosciuto dagli dei » (Greg. Naz. Oppure. 38, n, 7. Pat. Gr. 36, p. 317. Lo stesso Santo, dopo aver descritto la nostra miseria nativa, ricorda con entusiasmo i nostri destini gloriosi in Gesù Cristo: « O Dio, che cos’è l’uomo perché te ne ricordi? Ma qual è il nuovo mistero che si sta operando in me? Sono piccolo e sono grande; umile e sublime; mortale e immortale; della terra e del cielo. Devo essere sepolto con Cristo e risorgere con Lui, io sono coerede di Cristo, figlio di Dio, dio stesso. Orat.7 in Cæsar. fratrem. n. 23).

3. – « Dio sa che nel giorno in cui mangerete di questo frutto sarete come dei » (Gen. III, 5), aveva detto il tentatore alla madre della razza umana, per risvegliare in ella un orgoglio colpevole; e questa menzogna impudente portò la prima coppia alla rivolta e attraverso di essa ad ogni tipo di disgrazia. Il paganesimo, con la sua mania di divinizzare la natura e gli uomini, la falsa speculazione filosofica con i suoi sogni di panteismo, tutta questa lunga notte nella storia dell’umanità, tutto questo, dico, trova la sua spiegazione in questa parola del tentatore e in questa caduta delle sue vittime. Ovunque vedo l’uomo smarrirsi nella ricerca della divinità; ovunque anche la sua vana e criminale ricerca, lungi dall’elevarlo al di sopra di se stesso, lo prostra ai piedi del suo implacabile nemico. – Questo è ciò che voleva l’angelo ribelle, e ciò che, nella solitudine del deserto, cercò di ottenere dal Salvatore stesso. E Dio ha potuto scagliare contro i figli quella derisione con cui accusò il loro padre: « Vedi Adamo, che è diventato come uno di noi » (Gen. III, 22). Ma ora, per un mirabile consiglio della sua provvidenza, Dio ha deciso, secondo la dottrina dei Padri, di usare per salvare l’uomo quella stessa cosa che lo aveva perduto. È Lui che ora ci propone di essere come dei; Lui la cui promessa è infallibile, e il cui potere è efficace nel fare ciò che promette. Diventate miei figli – ci dice – vivete come miei figli e partecipando alla mia divinità, sarete degli dei; non più oggetti della mia derisione, ma delle eterne mie compiacenze. – Spiegheremo in seguito quale sia la partecipazione della natura divina che, depositata nelle profondità della nostra sostanza, dovrebbe procurarci questo altissimo onore. Nel frattempo, addentriamoci ancora di più nell’alto destino fatto per noi, alla scuola dell’Aeropagita, San Dionigi. Questo grande uomo ci insegna che « il voto dell’indivisibile Trinità, questa fonte di vita, questa sostanza di ogni bontà, è la salvezza di ogni creatura intelligente, sia essa uomo o Angelo. Ora, la salvezza si trova solo nella deificazione del salvato, cioè nell’assimilazione e nell’unione a Dio. » (Dionigi. Areop. de Hier. eccl. c. 1, n. 3. Non devo discutere qui la più che dubbia autenticità delle opere pubblicate sotto questo nome. Mi basta sapere che sono state ammirate dai più grandi geni, come Alberto Magno, San Tommaso d’Aquino e molti altri.). – Egli aggiunge inoltre che, « se il primo movimento che Dio ci imprime verso le cose celesti è il suo amore, questo stesso amore avanza nell’esecuzione dei comandamenti divini, nella misura in cui suppone in noi l’ineffabile produzione di un essere divino, cioè una generazione divina. Pertanto, non bisogna che l’esistenza debba precedere l’operazione, poiché ciò che non è e non ha né movimento né realtà, così come ciò che ha l’essere non è attivo e passivo solo in proporzione al suo stato e alla sua natura? (Ibid., c. 2, parte 1). Così tutto si tiene insieme, filiazione, rigenerazione mediante il Battesimo, partecipazione alla natura divina, stato divino, deificazione dell’essere e delle operazioni; e produrre in noi queste meraviglie della grazia è allo stesso tempo il desiderio più ardente della Santa Trinità, e il fine di tutta la gerarchia sulla terra e in cielo.

LA GRAZIA E LA GLORIA (6)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (9)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (9)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO TERZO

L’INABITAZIONE DELLA TRINITÀ

(III)

6) L’esercizio della carità è ancora più necessario di quello della fede. Queste due grandi virtù teologali sono le due ali che ci elevano fino a Dio: credere non basta, bisogna amare… soprattutto’ amare!… Suor Elisabetta della Trinità, come tutti i santi, ha sottolineato fortemente questo primato dell’amore, su cui lo stesso divino Maestro insisteva tanto, facendo risalire la legge, i Profeti e tutti i comandamenti di Dio, a questo primo precetto: «Israele, ascolta… tu amerai il tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze» (S. Marco, XII, 29-30 – Deuteronomio, VI-4).Ci troviamo, qui, al punto culminante della dottrina cristiana; è bene fermarci un istante. Niente ci commuove tanto come il constatare con quale fedeltà gli Apostoli, i Padri della Chiesa, i Dottori tutti hanno insistito, senza stancarsi mai, su questo precetto del Signore, il precetto che la Chiesa tramanda a tutti i secoli, senza ripetersi mai. San Giovanni, posando sul petto del Maestro, ne aveva compreso la divina profondità; e quivi si riassumeva, per lui, tutto l’insegnamento di Gesù. Divenuto un vegliardo venerando, il precetto dell’amore era sempre sulle sue labbra, e ai circostanti che, talvolta, se ne stupivano, egli dette una risposta degna del discepolo prediletto: « È il comandamento del Signore; e questo solo basta » (San Gerol.: Galati. Libro III, cap. VI, P. L. XXVI-433). San Paolo insegnava la stessa dottrina quando scriveva: « Camminate nell’amore » (Ephes. V,, 2). «La carità è la pienezza della legge» (Romani, XIII-10.). È noto il celebre motto di sant’Agostino: « Ama et fac quod vis. Ama, e poi fa’ ciò che vuoi »; e dopo di lui, san Bernardo, nel suo trattato: « De diligendo Deo » ripeteva che « la misura di amare Dio è di amarlo senza misura ». San Domenico, patriarca di una grande famiglia intellettuale, confessava: « Ho studiato nel libro della carità più che in ogni altro libro: l’amore insegna tutto » (Vitæ fratrum, lib. II, cap 5). E san Tommaso, brevemente: « L’amore è la vita dell’anima » (San Tommaso II-II, q. 23, a. 2 ad 2.). C’è bisogno di altre citazioni? Tutto il linguaggio dei santi non è che una parafrasi del comandamento dell’amore. Santa Teresa affermava che, per le anime giunte alla vetta della perfezione, «l’unico ufficio è quello di amare » (« Castello interiore», VI e VII dimora. E san Giovanni della Croce: «Cantico », strofa XXVIII.). San Giovanni della Croce, il dottore dell’Amore più ancora che delle « Notti oscure », scriveva: « Al tramonto della vita, saremo giudicati sull’amore » (Silverio: Obras t. 3 p. 238). E dopo venti secoli, facendo eco alla grande parola del suo » Maestro: « Diliges (Matth. XXII, 37), vivi di amore », santa Teresa di Gesù Bambino ha lasciato al mondo moderno il suo bel cantico: « Vivere d’amore ». Equivale a dire che esso è la quintessenza del Cristianesimo; e san Francesco di Sales, nella prefazione al « Trattato dell’amore di Dio », suo capolavoro, dichiara: « Nella santa Chiesa, tutto è dell’amore, nell’amore, per l’amore e dall’amore ». La ragione è semplice: la carità ci stabilisce nello stato di amicizia con Dio. Tutte le ricchezze della Trinità divengono nostre per mezzo della grazia, e noi entriamo veramente in « società » col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo; ci è dato, così, il potere di « gioire » (San Tommaso I, q. 43, art. 3, ad 1) delle Persone divine. Questo commercio fra Dio e l’anima si svolge secondo le leggi più pure dell’amicizia: Dio si dona e ci comunica la sua propria beatitudine; l’uomo, in ricambio, ama Dio come un Amico, infinitamente più di se stesso, e pone la sua suprema felicità in quella del suo Dio. – Suor Elisabetta aveva fatto «sua» la dottrina del Maestro; e ritornava di preferenza alla frase di san Giovanni: « Noi siamo di quelli che hanno creduto all’amore ». Si può anzi affermare, senza timore di esagerazione, che essa aveva posto tutta la sua vita spirituale sotto la luce dell’« eccessivo amore » di cui parla san Paolo. « Sento tanto peso di amore sull’anima mia! È come un oceano nel quale mi inabisso, mi perdo; è la mia visione della terra, in attesa del «faccia a faccia» nella luce. Egli è in me; io sono in Lui; non ho che amarlo, lasciarmi amare; e questo sempre, in tutto e nonostante tutto: svegliarmi nell’amore, muovermi nell’amore, addormentarmi nell’amore, l’anima nell’anima sua, il mio cuore nel suo cuore, affinché il suo contatto mi purifichi, mi liberi dalla mia miseria… (Lettera al Canonico A… – Agosto 1903). « Notte e giorno, nel cielo dell’anima sua, ella vuol cantare l’amore del suo Dio » (Lettera al Canonico A… – Giugno 1906.). « Non ho più che un desiderio: amarlo, amarlo senza interruzione, zelare l’onore suo come una vera sposa, formare le sue delizie, renderlo contento, dandogli una dimora e un rifugio nell’anima mia, dove voglio fargli dimenticare, a, forza d’amore, tutte le abominazioni dei cattivi » (Lettera alla signora A… – 15 febbraio 1903). « Egli mi ha amato, si è dato per me» (Galati II, 20.). Questo, dunque, è il culmine dell’amore: donarsi, passare interamente in Colui che si ama; l’amore fa uscire di sé l’amante per trasportarlo, in un’estasi ineffabile, nel seno dell’amato. Oh, non è immensamente bello questo pensiero? Sia esso come un motto luminoso per le anime nostre; che esse si lascino in balìa dello Spirito d’amore e alla luce della fede, intonino già coi beati l’inno d’amore che eternamente si canta dinanzi al trono dell’Agnello. Sì, cominciamo il nostro cielo nell’amore. Quest’amore è Lui; ce lo dice san Giovanni: « Deus charitas est ». Rimaniamo nel Suo amore e che il Suo amore sia in noi » (Lettera alla signora A… – 15 febbraio 1904.). – Come Teresa di Gesù Bambino e forse sotto l’influenza ricevuta dalla lettura della « Storia di un’anima », anche ella ha trovato la sua vocazione nell’amore: «…Voglio essere santa, santa per farlo contento; chiedigli che io non viva più che di amore; è la mia vocazione » (Lettera a G. de G… – 20 agosto 1903.). « Credo sia proprio l’amore che non ci consente di rimanere a lungo quaggiù; e, del resto, san Giovanni della Croce lo dice chiaramente; ha un capitolo meraviglioso in cui descrive la morte delle anime vittime di amore, gli ultimi assalti che esso vibra loro, poi le onde fluenti dell’anima che va a perdersi nell’oceano del divino amore: onde che sembrano già dei mari, tanto sono immense. San Paolo dice che « il nostro Dio è un fuoco consumante » (Ebrei, XII-29). Se noi ci teniamo sempre unite a Lui con uno sguardo di fede semplice e piena d’amore se, come il nostro adorato Maestro, possiamo dire alla sera di ogni giornata: « Poiché amo il Padre, faccio sempre ciò che a Lui piace » (San Giovanni, VIII-29). Egli veramente ci consumerà, e noi andremo a perderci in quella immensa « fornace ardente » d’amore ove potremo bruciare a nostro agio per tutta quanta l’eternità » (97(A C. B. – 1906). – Nel momento in cui tutto muore in lei, si manifesta più fulgido che mai questo primato dell’amore. Riceve il sacerdote che le reca l’Estrema Unzione, esclamando: « 0 Amore!… Amore!… Amore!… ». Prima di volarsene al suo Dio, scrive ad una amica: « L’ora si avvicina, in cui sto per passare da questo mondo al Padre; e, prima di partire, voglio mandarvi una parola del cuore, un testamento dell’anima mia. Il cuore del divino Maestro non fu mai così traboccante d’amore come nell’ora suprema in cui stava per lasciare i suoi; e qualche cosa di analogo mi pare avvenga nella sua piccola sposa in questa sera della sua vita; sento quasi un fiume di tenerezza salire dal mio cuore per effondersi nel vostro cuore… Alla luce dell’eternità, l’anima vede le cose dal vero punto di vista; vede come tutto ciò che non è stato fatto per Dio e con Dio è nulla. Ponete su tutto, vi prego, il sigillo dell’amore: questo solo rimane » (Lettera alla signora De B… – 1906.). E lo stesso consiglio rivolge alle sue consorelle che, riunite attorno a lei morente, recitano le preghiere degli agonizzanti: « Al tramonto della vita, tutto passa; l’amore solo resta. Bisogna fare tutto per amore ». Per suor Elisabetta della Trinità, dunque, tutta la dottrina pratica dell’inabitazione divina si riassume in un continuo scambio di amore: « C’è un Essere che si chiama l’Amore e che vuole farci vivere in società con Lui » (Lettera alla mamma – 20 ottobre 1906.).

7) L’esercizio della presenza di Dio non è riserbato alle sole anime contemplative; la grazia del Battesimo mette la Trinità santa in ciascuna delle nostre anime. « Questa « parte migliore » che sembra essere un privilegio mio nella mia diletta solitudine del Carmelo, è offerta da Dio a ciascuna anima battezzata » (Lettera alla signora De S… – 25 luglio 1902.). Basta aderire a Lui con la fede, la carità, la pratica delle virtù cristiane. Alcuni credono che, per vivere alla presenza di Dio, si debbano tenere gli occhi chiusi e prendere un fare compassato. Niente di più ridicolo. Se è vero che la vita spirituale e, per conseguenza «il regno di Dio che è tutto interiore, non consiste nel cibo e nella bevanda » (Romani, XIV-17), come ci fa notare l’Apostolo san Paolo, tuttavia Egli stesso ci avverte che anche in questo noi possiamo lodare magnificamente il Signore. San Giovanni Bosco faceva le capriole insieme ai suoi ragazzi, e suor Elisabetta della Trinità sapeva, nelle ore di ricreazione, assumere con grazia atteggiamenti vari e scherzosi; eppure, né l’uno né l’altra perdevano, per questo, la presenza di Dio. L’essenziale sta nell’intenzione che bisogna custodire rivolta sempre a Lui, quanto più attualmente è possibile. E proprio qui incomincia la differenza fra i santi e noi. I santi, in tutte le loro azioni, cercano la gloria di Dio « sia che mangino, sia che bevano » (I Corinti, X-31), mentre molte anime cristiane non sanno più trovare Dio neppure nell’orazione, perché complicano tutto, e si immaginano che la vita spirituale sia qualche cosa di inaccessibile, riservata a un piccolissimo numero di anime previlegiate, dette « anime mistiche ». La vera mistica è quella del santo Battesimo, con lo sguardo alla Trinità e col sigillo del Crocifisso, cioè nella via ordinaria della croce quotidiana. Suor Elisabetta sapeva insistere su questo punto con le anime che le erano spiritualmente unite, ma che il Signore tratteneva nel mondo: «Voi vorreste essere tutta sua, quantunque nel mondo; la cosa è semplicissima: Egli è sempre con voi; siate voi pure sempre con Lui. In tutte le vostre azioni, in tutte le vostre pene, quando il corpo è affranto, rimanete sotto la luce del Suo sguardo, Scorgetelo vivente nell’anima vostra » (Lettera alla signora A… – 29 settembre 1902). Nulla può impedirci di aderire a Lui con l’amore, né le gioie né le tristezze della terra, né la salute né la malattia, né le lusinghe o la malizia degli uomini…, nulla; e «nemmeno i nostri peccati » (Ultimo ritiro – 7° giorno), aggiunge suor Elisabetta della Trinità, facendo eco all’espressione ardita di sant’Agostino, nel suo commento all’epistola di san Paolo ai Romani: « Tutto concorre al bene di coloro che vogliono amare Dio »; sì, tutto, « etiam peccata », anche il peccato; perché il perdono che lo assolve glorifica la divina misericordia, e perché la coscienza della propria debolezza che essa dà all’anima, la pone e la mantiene nell’umiltà. Suor Elisabetta non complica le cose. Per vivere di questo grande mistero dell’inabitazione divina essa non dà che un consiglio pratico: « Fare atti di raccoglimento alla Sua presenza ». « Mammina mia, approfitta della tua solitudine per raccoglierti col buon Dio. Mentre il tuo corpo riposa, pensa che è Lui il riposo dell’anima tua; e, come il bimbo è felice tra le braccia della mamma, così tu trova il tuo sollievo nelle braccia di quel Dio che da ogni parte ti avvolge. Noi non possiamo uscire da Lui, ma ahimè, quante volte dimentichiamo la sua santa presenza e lo lasciamo solo, per occuparci di ciò che non è Lui! Ed è invece così semplice questa intimità con Dio; non stanca, anzi riposa, come soave è il riposo del bimbo sotto lo sguardo della mamma. Offrigli tutte le tue pene; e sarà, questa, una maniera tanto bella di unirti a Lui, e una preghiera a Lui tanto cara » (Alla mamma – 30 luglio 1906). « Sai? c’è un’espressione, in san Paolo, che è come il riassunto della mia vita e che potrebbe applicarsi a ciascuno dei miei istanti: « Propter nimiam charitatem » (Efesini, II-4). Sì; tutti questi torrenti di grazia hanno un solo perché: « Perché Egli mi ha troppo amata ». « Oh, mamma, amiamolo, viviamo con Lui come con l’Essere amato da cui non è possibile separarsi! Mi dirai, nevvero?, se fai dei progressi nella via del raccoglimento alla presenza di Dio; perché tu sai ch’io sono la « mammina » dell’anima tua, quindi piena di sollecitudine per essa. Ricorda le parole del Vangelo: « Il regno di Dio è in voi » (San Luca, XVII, 21), ed entra in questo piccolo regno per adorarvi il Sovrano che vi risiede come nella propria reggia » (Lettera alla mamma – Giugno 1906). Per segnare questi atti di raccoglimento, suor Elisabetta le aveva preparato un coroncino e, in una lettera, si informava se la mamma era fedele nell’usarlo: « Dimmi se i piccoli grani degli atti di presenza di Dio scorrono fedelmente ».

8) Due lettere sono particolarmente rivelatrici dei metodi che usava lei stessa e della sua psicologia dinanzi a questo mistero dell’inabitazione divina che fu il tutto della sua vita. La prima è indirizzata ad una giovane amica, natura straordinariamente ricca, ma indole ancora capricciosa ed irrequieta che faceva soffrire chi le viveva accanto. Con tenerezza tutta materna, suor Elisabetta interviene: « Sì, Prego per te e ti porto nell’anima mia, vicina vicina al buon Dio, in questo piccolo santuario così intimo in cui Lo trovo ad ogni ora del giorno e della notte; vedi: io non sono mai sola; il mio Cristo è sempre qui che prega in me, ed io prego con Lui. Mi fai pena, mia piccola cara, perché sento che sei infelice; e lo sei per colpa tua, credimi. Mettiti calma: io non ti credo affatto « nevrastenica », ma snervata e sovreccitata; e quando sei così, fai soffrire anche gli altri. Oh, se potessi insegnarti il segreto della felicità come il Signore l’ha insegnato a me! Tu dici che io non ho né preoccupazioni, né dolori; ed è vero, che sono proprio felice; ma se tu sapessi come si può essere altrettanto felici, anche quando si è contrariati! Bisogna guardare sempre a Dio. Da principio costa molto sforzo, quando si sente ribollire tutto, di dentro; ma poi piano piano, a forza di pazienza e con l’aiuto della grazia, vi si giunge. Provati a edificare, come ho fatto io, una celletta nell’anima tua; e, pensando che lì c’è Dio, éntravi di tanto in tanto; quando ti senti nervosa, triste, rifugiati subito là e confida tutto a Gesù. Se tu lo conoscessi un poco, la preghiera non ti annoierebbe più; essa è un riposo, un sollievo, è un andare con tutta semplicità da Colui che amiamo, è uno starsene vicino a Lui come un bimbo nelle braccia della mamma, e lasciare effondere il proprio cuore. Ricordi?… Ti piaceva tanto sederti vicina a me e confidarmi il tuo cuore. Così devi fare con Lui; se tu sapessi come Egli ti comprende! Oh, se tu lo sapessi, non soffriresti più. Questo, vedi, è il segreto della vita Carmelitana, che è una incessante comunione con Dio. Se Egli non riempisse le nostre celle e i nostri chiostri, come tutto sarebbe vuoto! Ma noi Lo vediamo in ogni cosa, perché Lo portiamo in noi, e la nostra vita è un paradiso anticipato » ((7°) Lettera a F. de S… – 1904). – La seconda lettera è indirizzata alla mamma. Suor Elisabetta non soleva precipitare gli avvenimenti, né forzare le persone; ma sapeva attendere, pur senza negligenza l’ora di Dio. Ci volle il dolore prodotto dalla crisi che aveva fatto temere di perderla, per consentirle di entrare profondamente nell’anima della mamma sua e prenderne possesso. In una conversazione che credevano l’ultima, il cuore della mamma e quello della figlia, a lungo si erano incontrati e compresi fino a quel grado di intimità in cui coloro che si amano sentono che tutto sta per finire. Suor Elisabetta ne approfittò per iniziare la mamma sua che amava tanto al segreto della sua vita interiore; e fu per le loro anime il punto « di partenza di una forma di amicizia nuova, tutta divina, sotto lo sguardo di Dio. Il giorno dopo questo colloquio, le scrisse una lettera che si può considerare un vero, piccolo catechismo della presenza di Dio: « Se alcuno mi ama, custodirà la mia parola, e il Padre mio l’amerà, e noi verremo a lui e porremo in lui la nostra dimora » (San Giovanni, XIV-23). « Mammina mia tanto cara, oggi comincio la mia lettera con una dichiarazione. Sai! ti amavo già tanto, ma dopo il nostro ultimo colloquio, il mio affetto per te è cresciuto ancora, immensamente. Era così dolce espandere la propria anima in quella della mamma, e sentirle vibrare all’unisono! Mi pare che il mio amore per te sia, non soltanto quello di una figliola per la più buona e la più cara delle madri, ma anche quello di una mamma per la sua bimba. Io sono la mammina dell’anima tua; e tu me lo concedi, non è vero? Noi siamo in ritiro per prepararci alla festa di Pentecoste; ed io lo sono ancor più delle mie consorelle, qui, nel mio caro piccolo cenacolo, separata da tutte. Chiedo allo Spirito Santo di rivelarti quella presenza di Dio in te, della quale ti ho parlato. Ho esaminato per te dei libri che trattano questo argomento, ma preferisco rivederti, prima di darteli. « Presta pur fede alla mia dottrina, perché essa non è mia ». – « Se leggerai il Vangelo di san Giovanni, vedrai come spesso Gesù insiste su questo comando: « Rimanete in me. ed io in voi » (San Giovanni, XV-4.), e sul pensiero tanto bello che ho scritto al principio di questa mia lettera, nel quale Egli ci promette di « fare in noi la sua dimora ». Nelle sue epistole, san Giovanni ci esorta a vivere « in società con la Trinità Santa » (San Giovanni, I-3). Questa parola è così semplice, e così soave! Basta credere, ci dice san Paolo. « Dio è spirito »  (San Giovanni, IV-24) e noi ci avviciniamo a Lui mediante la fede. Pensa che l’anima tua è « il tempio di Dio » (Corinti, VI-16): è ancora san Paolo che te lo dice. Ad ogni istante del giorno e della notte, le tre Persone divine abitano in te; e, se non possiedi di continuo l’Umanità santissima come allorché ti comunichi, porti sempre però nell’anima tua la Divinità, quell’Essenza ineffabile che i beati adorano in cielo. Quando si sa tutto questo, si stabilisce fra Dio e noi una intimità adorabile; non si è più soli, mai. Se preferisci pensare che Dio è vicinissimo a te, piuttosto che in te, segui pure la tua attrattiva, purché tu viva con Lui. Non dimenticarti di usare il coroncino che ho fatto apposta per te, con tanto amore; e poi, spero che farai quelle tre orazioni di cinque minuti, nel mio piccolo santuario. – Pensa che tu sei con Lui; e comportati come con una persona che ti è molto cara; la cosa è tanto semplice: non c’è bisogno di bei pensieri, basta l’effusione del cuore » (Lettera alla mamma – Giugno 1906.).

9) Ma non si pensa poi, come si dovrebbe, che questa divina presenza recata all’anima cristiana dalla grazia del santo Battesimo è in continuo progresso. Ogni nuovo grado di grazia santificante porta una nuova presenza della Trinità (San Tommaso I, q. 43, a. 6, ad 2). Non già che Dio cambi: ma l’anima, facendosi sempre più divina, entra in comunicazioni sempre più intime con ciascuna Persona della Trinità Santa. Il Padre è più intimamente presente, a misura che la grazia di adozione comunica all’anima una somiglianza maggiore con la natura divina. Il Verbo diviene più presente all’anima, a misura che questa, illuminata dai Suoi doni, non sa più vedere le cose divine ed umane se non in Colui che è la Sapienza increata, la Luce sostanziale, l’eterno Pensiero in cui Dio esprime tutto ciò che Egli vede: la Trinità e l’universo. L’Amore è sempre più presente a misura che l’anima spogliandosi di se stessa e di ogni affetto terreno, non si lascia più guidare che dagli impulsi di questo Spirito il Quale compie in Dio il ciclo della vita trinitaria. La teologia non ha titubanze su questo punto nel suo insegnamento; ed afferma che la presenza della Trinità in un’anima, cresce nella misura delle grazie ricevute, specialmente in certi periodi in cui Dio viene a visitarla con grazie straordinarie: grazie della professione religiosa o del sacerdozio, grazie di purificazioni passive, grazie mistiche che elevano l’anima di grado in grado, fino all’unione trasformante. – Suor Elisabetta della Trinità non insiste su questa dottrina capitale e che regola tutto il progresso della nostra vita spirituale sulla terra; ma alla sua maniera, per un altro sentiero, la ritrova e le dà particolare rilievo. Scrive infatti: « Egli vuole che là dove è Lui, siamo anche noi, non solo durante l’eternità ma fin d’ora, nel tempo, che è l’eternità incominciata e in continuo progresso » (« Il paradiso sulla terra », I-1.).

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (10)

LA GRAZIA E LA GLORIA (4)

LA GRAZIA E LA GLORIA (4)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO PRIMO

IL FATTO E LA REALTÀ DELL’ADOZIONE DIVINA

CAPITOLO III.

Preminenza molteplice dell’adozione divina rispetto alle adozioni umane.

È il momento di gettare uno sguardo all’indietro per mostrare con ciò che abbiamo visto come l’adozione divina differisca dalle adozioni umane. Adottare è concedere spontaneamente ad una persona estranea per origine, il titolo di figlio ed i diritti di erede. Con l’adozione perfetta il soggetto di questo favore entra così bene nella famiglia del padre adottivo che gode delle stesse prerogative come se gli appartenesse, non per privilegio, ma in virtù della sua nascita. Questo è ciò che Dio fa per amore, ed è così che ci adotta. Sì, entriamo nella sua famiglia benedetta, e per la sua grazia apparteniamo alla società del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Questa è la dottrina dei nostri Libri Sacri, e la nostra infinita consolazione e gloria è che non possiamo dubitarne, dopo tante solenni affermazioni. « Fedeli a Dio, per mezzo del quale siete stati chiamati alla Società con Gesù Cristo nostro Signore », scrive San Paolo ai fedeli di Corinto (1 Cor. I, 9). E S. Giovanni, l’Apostolo dell’amore: « Quello che abbiamo visto e udito ve lo annunciamo, perché entriate voi stessi in società con noi, e perché la nostra società sia con il Padre e con suo Figlio Gesù Cristo » (1 Gv. I, 3). Ma ammiriamo le differenze tra l’adozione umana e l’adozione divina, e vediamo come la seconda sotto ogni aspetto e da ogni punto di vista superi incomparabilmente la prima.

1. – In primo luogo, trovo che da parte di Dio l’adozione è infinitamente più spontanea, più un’opera d’amore, che da parte degli uomini. S. Agostino ci ha detto che ciò che ha introdotto l’adozione tra gli uomini sia stata o l’intimità naturale dei genitori, o la perdita e talvolta l’indegnità dei figli che Dio aveva dato loro. La natura rifiuta che i bambini, desiderati in casa, siano da lì portati via; lo si fa per scelta e per amore. Ci può essere qualche figlio, indegno del nome che porta, i cui crimini lo hanno estromesso dalla famiglia, come avviene ancora in Estremo Oriente: lo si rimpiazza con uno più degno, talmente che l’interesse proprio non abbia meno parte all’adozione che la benevolenza e l’amore. – Certamente, questo non è il caso del nostro grande Dio, quando vuole scegliere dei figli adottivi tra le sue creature. Da tutta l’eternità Egli ha generato un Figlio uguale a se stesso; un Figlio che delizia il suo cuore e riempie tutta la sua capacità di amare, così come esaurisce, per così dire, la fecondità del Padre; un Figlio, in una parola, che Egli ama e che lo ama di un amore tale che, amandosi, producono lo Spirito Santo, pegno e vincolo infinito del loro amore infinito. Qual dispiacere ha mai causato quest’Unico a suo Padre, e che bisogno Egli potrebbe avere di un altro figlio per essere eternamente felice, eternamente perfetto? Da dove viene, quindi, che avendo un Figlio, nato dalle sue viscere, un Figlio, l’oggetto più degno della sua indulgenza, Egli voglia tuttavia adottarci? Se non è ovviamente né l’indigenza né la necessità che vi obblighi, quale altra ragione può avere se non la sovrabbondanza infinita del suo amore? Certamente, l’Apostolo S. Giacomo ha detto con verità: “Voluntarie genuit nos“; Egli ci ha generati con la sua Volontà; una volontà libera, una volontà spontanea, una volontà gratuita ed amorosa, che lo ha portato a dare fratelli al suo Unico, e coeredi al diletto del suo cuore. (Bossuet, sermone per la festa del Rosario, 1° punto). – L’effusione della sua bontà non si ferma però qui. Non contento di unire al proprio Figlio i figli che adotta per misericordia, Dio consegna questo Figlio alla morte per dare alla luce gli adottivi. E non sono io a dire questo: è Gesù Cristo stesso che ce lo insegna nel Vangelo. « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, affinché quelli che credono non periscano, ma abbiano la vita eterna » (Joan. III, 15). Vedete: offre il Figlio proprio per far vivere i figli d’adozione, e la stessa carità che lo abbandona e lo sacrifica, ci adotta, ci rigenera e ci vivifica. Ecco, dunque, di nuovo la nostra adozione alla sua fonte: l’amore infinitamente disinteressato del Padre. – A questo si aggiunga l’amore non meno disinteressato del Figlio. Se è stato offerto dal Padre suo, Egli stesso si è offerto; e ognuno dei figli dell’adozione può e deve ripetere appresso a S. Paolo: « Se io vivo, anzi se Gesù Cristo vive in me… è perché Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal. II, 20). Quanto è vero, quanto è urgente l’invito dello stesso Apostolo ai Cristiani di Efeso: « Siate imitatori di Dio, come figli amati, e camminate nell’amore, come Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi come offerta a Dio e come Ostia di odore soave » (Efesini V, 1-2). « Egli ci ha volontariamente generati con il Verbo di verità », cioè, secondo un’interpretazione molto plausibile del testo, da suo Figlio. Se fossimo stati solo servi, sarebbe stata già una grazia incomparabile; ma schiavi per natura, eravamo ancor più una razza decaduta, ribelle, decisamente indegna dei favori divini. E di quanti oltraggi personali abbiamo aggravato l’ingiuria fatta a Dio per mezzo del capo e rappresentante della famiglia umana. Ed ecco su quale letamaio Dio stesso è venuto a prenderci, per elevarci al rango di principi del suo popolo (Sal. CXII, 7), cioè, tra i suoi figli adottivi che sono rimasti immutabilmente fedeli a Lui che li aveva creati nella giustizia.

2. – Più gratuita, più opera d’amore delle adozioni umane, l’adozione divina le sopravanza ancora in efficacia (S. Th., III p. q. 23, a, 1). Così è delle opere di Dio come della sue perfezioni. Quand’anche le une e le altre abbiano qualche rapporto con le nostre perfezioni e le opere delle nostre mani, esse sono sempre infinitamente superiori per la loro singolare eccellenza. Non devo mostrare qui quanto le perfezioni di Dio sorpassino le nostre: la Sapienza di Dio, la nostra sapienza; la sua giustizia, la nostra giustizia; la sua bontà, la bontà della creatura, per quanto grande noi supponiamo che sia. Ma per comprendere l’argomento che ci occupa, dobbiamo insistere sul confronto delle opere, o meglio ancora sui loro contrasti. Accanto alle creazioni di Dio, ci sono quelle che si chiamano le creazioni dell’uomo. I nomi sono comuni, ma nelle cose che differenza! L’atto creativo di Dio cerca il fine della sua attività fin dal nulla, mentre tutto il genio dell’uomo è impotente a fare dal nulla il più piccolo granello di polvere. – Dio e l’uomo possono affidare ad altri una parte della loro autorità, da esercitare sotto la loro dipendenza. Ma, se il Superiore è un uomo, l’azione con cui comunica il suo potere non penetra nelle profondità dell’essere per cambiarlo internamente; nessun perfezionamento fisico né nel corpo né nell’anima, risponde a questa comunicazione di autorità.  Tali non sono le attribuzioni di poteri fatte dalla munificenza del nostro Dio. Se dice all’uomo: «Tu dominerai sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su tutte le bestie che si muovono sulla faccia della terra », gli dà la ragione del governarli, del dirigerli ed usarli (Gen. I, 28). Se, in un ordine superiore, Egli vuole che gli uomini ricevano e conferiscano i sacramenti della Chiesa per la loro propria santificazione e per la salvezza dei loro fratelli, questo potere di riceverli e questo potere di conferirli comporta per i battezzati che ricevono e per i ministri del santuario che conferiscono, una perfezione altrettanto reale e altrettanto vera del nostro potere di conoscere e di volere, il carattere sacramentale. – L’uomo può insegnare all’uomo. Ma come insegna? Tutta la sua azione si riduce immediatamente a segni esterni. È una direzione per l’intelligenza del discepolo; ma la parola del maestro non arriva direttamente all’intelligenza per risvegliarla, rafforzarla, crearla. L’insegnamento che Dio dà alla sua creatura è diverso. Egli è il Maestro che illumina producendo in essa il potere stesso di conoscere e di sentire (Giovanni I, 9); il Maestro che penetra quanto vuole anche nelle ultime pieghe dell’intelligenza per far nascere nuove idee, le più alte, le più luminose, in assenza di qualsiasi segno, indipendentemente da qualsiasi concorso preventivo degli Organi, nel silenzio di tutto ciò che non è Lui. Nostro Signore ci dice dunque che Lui è il Maestro davanti al quale tutti gli altri maestri sono come se non lo fossero, Egli il grande, l’Unico Maestro della creatura ragionevole. « Non lasciatevi chiamare maestri, perché non avete che un solo Maestro, il Cristo » (Matt. XVIII, 10). – Dove ci conducono queste considerazioni, se non a concludere che la paternità, quando è Dio che si fa dei figli, debba prevalere in efficacia su ogni altra paternità di adozione. Perché l’uomo che adotta il suo simile non comunica nulla di intrinseco al bambino che fa suo, né la sua natura, poiché questo bambino è un uomo come lui; né le qualità che possono determinare la sua scelta, poiché questa scelta le suppone e le motiva. Impotente nel dargli una salute più fiorente, un Sangue più generoso e più puro, una mente più viva, non gli da altro con il suo amore che un titolo e dei diritti: il titolo di figlio, i diritti di erede. Ben diversa è la condotta e l’amore del nostro Dio, quando per la sua grazia si degna di allargare il cerchio della sua famiglia e di scegliere per sé dei figli di predilezione. Ed è questo che dobbiamo studiare più particolarmente, alla scuola del Dottore Angelico. San Tommaso fa notare che c’è una differenza essenziale tra l’amore del Creatore e quello della creatura. Ciò che muove la volontà dell’uomo è il bene che preesiste nelle persone o nelle cose; ne consegue che l’amore umano non causa la bontà di ciò che ama, ma la presuppone in parte o addirittura in tutto. Al contrario, l’amore di Dio produce il bene nel suo termine per renderlo degno della sua compiacenza. Ciò che ama in se stesso non è ciò che trova, ma ciò che porta. Amare, per Dio, è volere e fare il bene. Quando diciamo che Dio ha più o meno amore, il più o il meno non deve essere inteso nel senso di una maggiore o minore intensità nell’atto con cui ama: poiché Egli ama tutte le cose e se stesso con un solo e medesimo atto, sempre semplice e sempre immutabile, che non è altro che la sua stessa essenza. Ma questo più e questo meno si riferiscono ai beni che Egli conferisce a coloro che ama (S. Thom.1 p, q. 20 a. 2 e 3). – Perciò, per amare gli uomini con questo amore speciale che li rende figli di adozione, è necessario che Egli li trasformi arricchendoli di perfezioni interiori e molto reali, in relazione all’amore che porta loro e alla dignità che conferisce loro (S. Th. C. Gent. L. III, c. 150, n. 2; de Verit. Q. 27, a, 1). – E questo è chiaramente ciò che ci dicono sia la Sacra Scrittura che i nostri Dottori nei testi già citati. Come capire una nuova nascita, una rigenerazione, una creazione, un rinnovamento di tutti noi stessi senza un cambiamento interiore? È possibile riparare nell’uomo l’immagine di Dio, renderlo parte della natura divina, rifarlo, ricrearlo, rifondarlo (tutte espressioni usate dagli Scrittori Sacri e dai Padri), e non aggiungere nulla di reale al suo essere? No, senza dubbio (Sup. I, 1, c. 2, p. 18-31). Si può discutere sulla natura di questa sublime metamorfosi, e avremo occasione di scartare le opinioni meno sicure per sostituirle con la vera dottrina. Ma da questo momento si impone una Conclusione: l’adozione divina è eccellentemente più efficace di tutte le adozioni umane.

3. – In terzo luogo, aggiungiamo che è infinitamente fruttuoso. « Se siete figli, siete eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo » (Rom. VIII, 18). Qual è il bene di Dio? Dio stesso! Sarebbe Egli Dio se dovesse cercare fuori di sé la sua ricchezza e il suo tesoro? Conoscersi infinitamente, amarsi infinitamente, è per lui possedere il bene sovrano, la sua infinita ricchezza e il suo tesoro; possederlo, dico, nella sua pienezza. E poiché questa contemplazione e questo amore di se stesso sono Se stesso, da ciò deriva che Dio non solo è felice e ricco, ma è la sua stessa ricchezza, e la sua stessa beatitudine (S. Thom. C. Gent. L. I, C. 41 e 101). In virtù dell’ineffabile trasformazione che ci fa entrare come figli nella famiglia di Dio, noi poveri e miserabili come siamo, noi abbiamo in noi il diritto di partecipare un giorno alla beatitudine di Dio, a quel godimento che Egli ha di se stesso attraverso la visione e l’amore. Così, facendoci suoi figli, ci consacra suoi eredi, poiché ci chiama a possedere con Lui il Bene supremo. Una ricca, una splendida eredità (Sal. XV, 6): cosa sono, se comparate a Lui, le eredità terrestri? – Eredi di Dio; coeredi di Gesù Cristo; poiché questa è anche l’eredità che l’Unico ricevette come uomo, quando divenne nella sua umanità « plenus gratiæ et veritatis, pieno di grazia e di verità » (Joan, I, 14). Più tardi cercheremo di formarci un’idea meno confusa delle ricchezze indicibili che Dio riserva ai suoi figli adottivi; ma è già una conoscenza molto alta di esse sapere che sono al di sopra di tutto ciò che la mente dell’uomo possa immaginare e il suo cuore desiderare. – Qui, qualche lettore potrebbe fermarsi a considerare questa speciosa obiezione. Se sono solo un figlio per adozione, e, quindi, se non ho in me la natura stessa di mio padre, né la bontà né la bellezza divina sono mie. Non è infatti la mia ricchezza, ma solo quella di Dio. Senza dubbio, risponderei, queste perfezioni non saranno mai le nostre: né la saggezza, né la giustizia, né la grandezza, né l’onnipotenza, né, per dirla in una parola, l’essere sussistente, l’essere che non essendo che essere è tutto l’essere, può diventare la mia saggezza, la mia giustizia, la mia grandezza, la mia potenza, il mio essere. Ma non è meno vero che questa bontà suprema può essere il mio possesso, e di conseguenza la mia eredità. Perché cos’è possedere pienamente una cosa, se non goderne secondo la propria volontà; goderne immutabilmente, senza che nulla ci separi mai da essa? Cosa importa che questo campo non sia di mia proprietà, se sono assolutamente sicuro di conservarne sempre l’usufrutto ed il godimento? Ora, il godimento e il possesso della Verità Suprema e della Bellezza Sovrana consistono nel conoscerle ed amarle. Perciò, possedendo Dio attraverso la conoscenza e l’amore, entro veramente nel godimento; e sono un erede: un erede di diritto, se porto la grazia di Dio nel mio cuore; un erede di diritto e di fatto, se porto la grazia di Dio nel mio cuore; erede di diritto e di fatto, se muoio con la stessa grazia. « Ma, amati, ora siamo figli di Dio; ma ciò che saremo non appare ancora. Sappiamo che quando apparirà, saremo simili a Lui, perché lo vedremo come Egli è » (I Joan. III, 2).

4. – È qui che dobbiamo ancora ammirare un’ultima prerogativa che chiamerò, in mancanza di un altro nome, la singolarità dell’adozione divina. Tra gli uomini, l’adozione, quando suppone qualche bambino nella famiglia, non può avvenire senza portargli pregiudizio o causargli dispiacere. A volte soffrirà nel suo onore, e, se l’onore è salvo, almeno soffrirà una divisione con un altro nell’eredità paterna e nell’amore. Non c’è niente del genere da temere invece, quando si tratta di adozioni divine. Mi chiedo: quale danno e quale dispiacere può ricevere il Figlio secondo la natura, Gesù Cristo Nostro Signore, dai fratelli che suo Padre si degnerà di dargli? Un pregiudizio: ma non resta ancora l’unico Figlio di Dio? È Lui stesso meno perfetto, meno santo, meno potente, meno Dio? Ditemi, quale prerogativa perde, e se cessa di essere infinitamente amato da un amore infinito? Un dispiacere; ma questa adozione, chi l’ha voluta, chi l’ha fatta, chi ha pagato con il Suo Sangue, volontariamente, liberamente, se non Lui? – La gloria di Dio è che Egli è così grande, così buono, talmente bello, così ricco, che senza esaurirsi, né perdere la minima parte delle sue infinite perfezioni, può riversare a torrenti sulle sue creature bontà, bellezza, grandezza e ricchezza. La gloria del Figlio Unigenito è che Egli può, rimanendo l’Unico nella sublimità incomunicabile della sua sfera, diventare, nella sua qualità di uomo, lo strumento ineffabile delle adozioni paterne. Pretendere di escluderle per l’onore del Figlio Unigenito, significa dire o che la perfezione di questo Unigenito sia troppo limitata per essere comunicata senza essere diminuita, o che il sangue versato da Lui sul Calvario non sia stato un prezzo pagato sovrabbondante alla dignità dei figli adottati. Per me, Gesù, mio Salvatore, mio fratello e mio Dio, Voi mi apparite tanto più bello, tanto più ricco e più amato, tanto più l’Unico del Padre, che vi dà più fratelli ed eredi. Il loro splendore accresce la vostra grandezza; e più numerosi li vedo affollarsi intorno a Voi, più vi ammiro e vi amo. – Dopo questo, che bisogno c’è di mostrare che la crescente moltitudine dei figli adottivi, lungi dall’essere una diminuzione dei privilegi per ciascuno di essi, non divenga piuttosto un meraviglioso accrescimento in loro? Nel cuore del Padre comune c’è posto per tutti, poiché questo cuore è infinito come Dio stesso. Non mi stupisce che tutte le eredità umane siano frammentate quanto più numerosi diventano gli eredi: sono beni materiali il cui possesso, per essere perfetto, deve essere esclusivo. Ma l’eredità spirituale, Dio, la verità posseduta dall’intelligenza, Dio, la bontà posseduta dall’amore, può essere tutta mia benché sia tutta vostra. Le due braccia con cui Lo stringo nel mio spirito e nel mio cuore non possono diventare un ostacolo al vostro abbraccio. Colui che è più vicino a questo grande e sublime spettacolo, non impedisce a nessuno di contemplarlo ed ammirarlo. Dall’alto del cielo il sole non mi illumina di meno, perché ci sono milioni di altri uomini a ricevere la sua luce con me (S. Agost. de Lib. L. Il, c. 14, Ricard. Victor. in Cact. c. 10). – Così la felicità del possesso in un figlio adottivo non esclude la felicità dell’altro; ne è piuttosto il complemento. Possedere Dio è la mia ricchezza e la mia felicità. Lo possiedo mille volte di più, se i fratelli che amo e che considero nella carità come altri me stesso, sono mille a possederlo con me. E non è tutto; contemplando Dio faccia a faccia ed investiti della sua luce, diventano tanti specchi splendenti in cui vedo con piacere ripetersi la bellezza che ammiro e che amo. A maggior ragione l’eredità del primogenito non può diminuire quella dei figli adottivi, così come l’eredità di questi ultimi non può diminuire quella del primogenito. né l’eredità di quest’ultimo può essere diminuita dalla loro. Né la sorgente sempre piena è in pericolo di inaridirsi per il defluire nei ruscelli; né i ruscelli sono impoveriti per fluire da una fonte inesauribile. – Aggiungiamo, prima di concludere, che questa eredità comune dei figli di Dio non conosce duolo. Sulla terra, perché i figli entrino nel godimento dei beni del padre, la morte deve colpire il padre e far posto agli eredi una volta eliminato. Ma l’eredità che i figli adottivi di Dio attendono è Dio stesso; e per loro sapere che Dio è il Re immortale dei secoli è essere sicuri che la loro eredità sia immutabile e che niente potrà mai rapirgliela: niente, dico, né la caducità del bene che sperano, né la morte dell’erede, poiché Dio, questo sommo Bene, eterno in sé, dà la vita eterna a chi lo possiede. – Dopo questa meditazione, chi non vorrebbe sottoscrivere le parole del santo Papa, Leone Magno: « Omnia dona excedit hoc donum ut Deus hominem vocet filium, et homo Deum nominet patrem (S. Leo. serm. 26 al. 25, in. Nativ., 6, c. 4). Il dono per eccellenza, quello che supera incomparabilmente tutti gli altri, è quello per cui Dio dica all’uomo: “Figlio mio!”, e l’uomo chiami Dio: “Mio padre”. Che gli altri si glorino delle loro ricchezze, delle loro dignità, delle loro alte alleanze; il Cristiano ha ben altra gloria: Io sono della famiglia di Dio, il figlio di Dio, l’erede di Dio. « Filius Dei sum ego ». Capirà quale eccesso di onore comporti questo titolo, colui che può capire cos’è Dio e il suo Figlio primogenito, Gesù Cristo nostro Signore. – Ma una parentela così alta, una filiazione così ammirevole, quanta santità di vita richiede! Pertanto, « che la razza eletta, la nazione reale, risponda alla dignità della sua rigenerazione; ami ciò che è amato dal Padre suo, e non sia mai in disaccordo con il suo autore, temendo di meritare quel reclamo che già fece una volta per bocca d’lsaia; ho nutrito ed esaltato dei figli, che mi hanno ricoperto di disprezzo » (S. Leo, Serm. loc. cit., c. 3). « Sì, poiché ci è dato di chiamare Dio nostro Padre, comportiamoci da figli; se ci compiacciamo per avere Dio come nostro Padre, facciamo che Egli si compiaccia per averci come figli, siamo in verità i templi di Dio, e sia manifesto che Egli abiti in noi: divenuti celesti e spirituali, non pensiamo, non amiamo se non ciò che sia del cielo e dello spirito » (S. Cipr., de Orat. Dom. n. 11). Ed è così che i Santi Dottori fanno emergere la lezione della nostra grandezza. Gesù Cristo l’aveva insegnato prima di loro: « Io vi dico: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano; pregate per i vostri persecutori e i vostri calunniatori. » E perché questi atti eroici della carità Cristiana? « Affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli » (Matt. V, 44-45); esserlo per la somiglianza delle opere, « poiché Egli fa risplendere il suo sole sui buoni e sui cattivi »; diventarlo con l’imitazione sempre più perfetta, « affinché gli uomini, testimoni delle nostre virtù, glorifichino il Padre che è nei cieli » (Matt. V, 16; col. I Pet. II, 12). Allora potremo dire di ognuno di noi, in tutta proporzione, ciò che il centurione professò di Gesù Cristo, nostro fratello maggiore, sul Calvario: « Vere filius Dei erat iste » (Matt. XXVII, 54): Sì, costui è veramente un figlio di Dio!

LA GRAZIA E LA GLORIA (5)

LO SCUDO DELLA FEDE (213)

LO SCUDO DELLA FEDE (213)

MEDITAZIONI AI POPOLI (I)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE I.

Una cosa sola importa, salvare l’anima nostra

Quale conforto per un ministro di Gesù Cristo! Egli, ogni volta che si presenta ad un popolo nelle chiese, trova sempre una famiglia di figliuoli tutti adunati nel bacio santo di carità intorno alla mensa del comun Padre, l’altare, e sopra l’altare il Crocifisso cogli occhi sopra noi, colle braccia levate al cielo, per dirci: « O figliuoli del Sangue mio, sto io qui con voi in Sacramento per menarvi al Padre nostro che vi aspetta in paradiso: » e appiè della croce trova pur sempre Maria Santissima da Gesù lasciataci per madre, la quale vuole noi suoi figli avere tutti beati in seno alla bontà di Dio! Ora mandato che io sono da Gesù Cristo a trattare con voi del più importante interesse vostro, di mettere in salvo le vostre anime e scamparvi dalla più orrenda disgrazia, la dannazione, io con tutta l’anima abbracciandomi a voi dico la prima parola che mi vien dal cuore: cari fratelli, non andiamoci a perdere in questa povera vita che ci vien meno tutti i momenti. Vedete, dice s. Basilio, noi siamo come un albero piantato sulla riva di un fiume, a cui la corrente mangia il terreno sotto. Viene un’ondata, e scava la voragine; e la pianta scherza colle radici nell’acqua: un’altra ondata, e il ciglione della riva si abbassa e la pianta si siede abbandonata sull’onda, che soavemente le lambisce le frondi. Intanto fiorisce a pompa, e si promette abbondanza di frutti: quando ecco la travolge un fiotto di piena…. Dov’ è l’albero allora? È scomparso per sempre. No; guardate alcuni passi lontano, e lo vedete rigettato alla riva tra i ributti delle acque nella melma, colle radici squallide come l’ossa di uno scheletro. Signori! anche noi su questo suolo mal fido del mondo, mentre il tempo ci porta via di sotto ai piedi la terra, siamo qui fiorenti in lieta vita: noi colle sempre di speranze ci promettiamo abbondanza di beni fino all’ultimo istante che ci trabocca nell’eternità. Ahi! intanto vediamo scomparire molti dei nostri: e che sarà di loro travolti non preparati in quell’orrido abisso?…. Io mi rivolgo a voi, per supplicarvi di provvedere in tempo per le anime vostre, affinché non vi troviate disperatamente perduti, e farò con voi quello che vorreste voi fare ad altri. Dite, ditelo voi: vedeste il vostro fratello costruire con tutto dispendio la casa colà, dove scoscende a falde il pendio del suolo, ben vorreste gridargli: fratello, non fare; perché a momenti l’edificio tuo rovina, e tu ti perdi con esso! Anche noi, vedendovi con tanto affanno edificare qui la vostra fortuna, vogliamo di qui avvisarvi che, dandovi a tutto uomo in affari di terra, fabbricate nel mondo sopra un’arena fluente, che vi scorre via di sotto: vogliamo gridarvi: ahi! che a momenti vi sprofondate nella tremenda eternità, in cui vi troverete o paradiso o inferno, che duran sempre! Noi qui di sotto alla croce, caldi del Sangue di Gesù che versò per salvare le anime nostre, vi stendiamo le braccia, per mettervi in sicuro in seno a Lui: anzi ci gettiamo ai piedi vostri pregandovi tremanti di spavento… Deh mettiamoci col cuore sul Cuore del Salvatore di tutti a ben meditare questo: che una cosa più di tutte l’importa, salvar cioè l’anima nostra, e che tutt’altri interessi paragonati a questo non sono che misere vanità: porro unum est necessarium (Luc. 10); perché scompare a nulla tutta la vita nostra presente quando si pensa, che va a finire in paradiso o nell’inferno per sempre. Grande verità che ben meditata, sì, ci farà risolvere di salvarci. – A questo fine noi ci presentiamo a voi in questa missione, questo solo veniamo a domandarvi, di questo vi scongiuriamo: salvate l’anima vostra! E se mai ci udirete a gridar alto, e tutta ardenza, anzi come fuor di noi nel fremito di un angoscioso terrore, ci perdoni la vostra pietà; e dite fra voi medesimi: povero padre! e’ vorrebbe salvare tutti: oh come stride per ispavento al sol pensare che di noi si possa perdere un solo. — Se noi non abbiamo meriti, che ci raccomandino, guardateci al cuore che non può amarvi di più, perché vi ama dell’amor di Gesù Cristo; e sian meriti nostri la vostra bontà. – Salvatore nostro benedetto, purgate prima di tutto queste nostre labbra di fango: e dateci quella parola che, se mortifica, vivifica; se spaventa, poi consola: ed essa saprà svellere, saprà piantare: saprà distruggere, ma meglio edificare; e mandateci dalle fiamme. del vostro Cuor di bontà tutta divina un raggio di quella luce, che fa vedere il nulla della vita del mondo del tempo presente dirimpetto al paradiso e all’inferno, che durano eternamente. O Maria santissima, benedetta Madre, che tutta aspersa del Sangue di Gesù Figliuol vostro divino, ci avete ricevuti per figli, Voi vi siete accordata con Lui del modo di salvare queste anime nostre, che tanto Sangue costarono al nostro Gesù, e costarono tanti dolori al vostro Cuore. A Voi consacriamo questa predicazion nostra: Voi otteneteci la grazia e il frutto di vita eterna colla vostra materna benedizione. Angeli e Santi, intercedeteci misericordia. ( Ave Maria. — Omnes Sancti et Sanctæ Dei, intercedite pro nobis). In questo solenne momento, nella presente quiete della chiesa, fuori delle agitazioni del mondo che passa, cerchiamo di ravvisarci davanti a Dio. Dove ci troviamo noi ora? Facciamo come quel beato san Francesco d’Assisi là sul monte d’Alvernia; con una mano sul cuore diciamo a noi stessi: anima mia, dove siamo in questo istante!… Santa fede! qui sollevato tra il cielo e la terra, sopra del capo mi sta aperto il paradiso, sotto i miei piedi mi è spalancato l’inferno: spinto senza posa verso l’uno e l’altro di questi termini, pendo attaccato ad una vita sottile come un filo di ragnatela: e dove cadrò a momenti? Non lusinghiamoci, noi corriamo rapidamente alla morte. Se guardiamo indietro, che spavento! una gran porzione della nostra vita è già passata; se guardiamo innanzi,… questo pensiero cupo ci piomba sul cuore: forse da qui a dieci anni, forse da qui a un anno, ahi! forse in questo mese la mia carriera è compiuta, io cado morto…. la mia sorte è gettata! e sono nel paradiso o nell’inferno per sempre. Signori! non conviene punto fare l’intrepido, ostentando di non avere paura!… Ci Sconvolge le idee questo pensiero: la mia Religione sicura a tutte prove, la Religione, che mai non ingannò nessuno, mi dà per certo, che ancor un poco, e poi o sarò beato in paradiso, o sarò nell’inferno dannato per Sempre. Saremo in paradiso?… Apriti, o cielo !… Là in paradiso vi è quel gran popolo di tribolati, che in miseria di ogni cosa di mondo strascinando le loro croci appresso al Salvatore Gesù, arrivarono all’eterno regno: là tante povere donnicciole, ricche di virtù solamente note a Dio: esse nascosero qui le loro lacrime disprezzate in seno al grande Amico degli afflitti; ora eccole là nella beata gloria di Dio. Ve? in paradiso quei Cattolici coraggiosi, i quali, mentre l’accozzaglia dei vili per rispetto umano era strascinata a far guerra alla Chiesa, frequentarono i Sacramenti in vita devota ed ora tutti i malnati in disperazione eterna; ed essi per sempre felici in paradiso. Là vi sono ricchi in carità, là servi fedeli entrati tutti a sommergersi nell’eterno gaudio del loro Signore. Là le schiere di quei Martiri, che resistettero a tanti tormenti. E che tormenti, mio Dio, e che tormenti!… Strascinati negli anfiteatri (lo accennammo nelle Conferenze), si aizzavano contro a quei santi cristiani i leoni, le iene, le tigri. E il lione dava dentro nel petto nudo al giovanetto che l’aspettava fermo; quindi versando le viscere per terra veniva divorato col grido sulle labbra: viva Gesù!… oh paradiso!… e saliva allora in paradiso. E la madre cristiana colla figliuola esposta alle fiere, quando la iena le si slanciava alla gola, la trascinava con tremendo ruggito pel Circo col collo tra le zanne gridando: coraggio o figliuola, viva Gesù!… al paradiso!.. moriva strozzata: e da quel punto ell’è beata in paradiso! E quando la, tigre fremente acceffava nel petto la verginella (e lungo il circo mandavano un urlo fino quei crudi !), di là quell’angelo divorato in terra volava cogli Angioli in paradiso! Racconterovvi tra mille un sol fatto. Santa Potamiena verginetta, fior di bellezza nei sedici anni fu dal sozzo padrone, che la solleticava a vitupero, accusata come ella era cristiana. Il giudice, perché restava pura e a Dio fedele, la condannò ad essere calata viva in una caldaia di pece bollente. Attaccano la caldaia gli sgherri, e soffiano sotto nei carboni ardenti quelle faccie di fuoco. Gorgoglia la pece, e si travolge nei vortici spumanti. I crudeli depongono coi piedi nudi nella caldaia ardente la verginella, che si serra le vesticine alla vita. Ahi!.. stride la pece, si copre di fumo e salta via spruzzando, quasi inorridita di cuocere tanta innocenza; e Potamiena in quella atrocità esclama: oh Gesù!.. ancor un momento! Viene calata giù sino alla vita; e Potamiena vedesi intorno le carni ricotte e il sangue grommato galleggiar tra le bolle della pece avvampante. Oh Gesù mio… ancor un momento!.. e vien calcata giù fino alla gola. Potamiena non ne potendo più, lascia cadere la bionda testolina dentro la pece, con l’ultimo gemito: Gesù, Gesù mio… O paradiso!… Miei fratelli, sono mille e cinquecento anni ormai che quell’angioletto in quel gaudio eterno… esclama beato: che brevi momenti son questi secoli di paradiso! Intanto il gentame degli spensierati del mondo di quei tempi, come nel povero mondo nostro presente, sdraiati su per gli scaglioni del Circo gridavano agl’imperatori: dateci pane e giuochi; e vadano pur a morte i Cristiani matti dietro alla vana speranza di una sognata vita futura!… Signori, dove sono ora quei godenti?… Verità di Dio!… Spalancati, o inferno… e in quel truce fuoco, che la fede rivela, vedeteli arrovellati in quel mare di disperati dolori. Cercano la morte, ma trovano una vita che la tremenda parola di Dio chiama la morte eterna! Ancor vi domando, se quei beati godano un paradiso migliore di quello che siete destinati a godere voi, o fratelli, e se quell’inferno è più orrendo di quello, in cui precipiteremo noi (ce lo minaccia l’immancabile parola di Dio) ove non pensiamo a salvare l’anima nostra?… Ah che sopra la terra, tra il cielo e l’inferno, tuona tremendamente vera la gran parola del Salvator nostro: quid prodest homini si universum mundum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur? Che giova all’uomo, guadagnasse pur tutto il mondo, se va dell’anima dannato per tutta l’eternità? Da questo tuono balena un lampo di luce dell’eterno vero, che spalanca la terribile eternità davanti a noi, e manda a nulla codesto mondo che dura un’ora! A noi adesso qui confinati in basso pare certo la gran cosa la vita, cui c’immaginiamo bella dell’incanto della fantasia in un avvenire a mille colori storiato, e senza confini. Eh posso vivere, diciamo nei nostri calcoli, ancora vent’anni; poi anche trenta. Si, bene immaginatevi anche gli ottanta! Più in là no, ché a ottant’anni anche i bambini qui che non hanno messo ancor vita, saranno già tutti morti: e godiamo pure coll’inganno della speranza di tutti quegli anni, senza pensare mai di doverci trovare già in faccia alla morte. Quasi la morte debbaci fuggire sempre dinanzi, come fa l’arco dell’orizzonte, il quale, più cammini, più ti sfugge lungi egualmente. Così avviene a noi, come a chi misura, figuratevi, una gran torre, collo sguardarla dai piedi alla vetta. Essa pare di un’altezza che spaventa. Ma fate, ch’egli s’innalzi sulla vicina montagna, e di là guardi. Dov’è la torre tant’alta! Oh!.. la vede in fondo alla valle che spunta appena tra le chiome degli alberi. Signori! innalzatevi da questi pochi anni di vita col pensiero alla eternità. Se da qui a mille e mill’anni ci troveremo in Paradiso, ovvero (deh! che la misericordia di Dio ci scampi) ci trovassimo mai nell’inferno… ah tutti gli anni della vita nostra ci appariranno come un breve momento, come un lampo di visione confusa! Sì veramente da quest’altezza dell’eternità è da vedere il nulla della vita umana! Di là, osserva s. Giovanni Grisostomo, questi grandi faccendieri che si disputano un palmo di terra, che si fan ricchi sulle altrui miserie, questi grandi politici, che scavalcano gli emuli nella presente palestra del mondo; sì, di là appaiono come quei fanciulletti, i quali nei giocarelli incoronano un compagno con una corona di carta dorata, e battono le manine a lui d’intorno; finché un altro più arditello strappagli via la corona di carta. Di loro chi ride e chi piange; ebbene ei fanno il giuoco di noi: chi ride e chi piange, chi in fortuna e chi nella sventura; e ridenti e piangenti, e fortunati e disgraziati roviniamo tutti confusamente nel sepolcro: e il sepolcro è la porta della tremenda eternità. Di qui intendete che, se pei mondani la vita è una festa, la è una festa che dura un’ora; che l’ambizione è vapore che stordisce, gli onori sono nebbia che passa, i piaceri frutti, che san di lazzo; e le ricchezze polvere, che si scuote via correndo nell’eternità: e che in verità poi il tempo del viver nostro non è che un passaggio al paradiso o all’inferno che duran sempre. Noi, nel vedervi andare tanto sicuri in questo bivio tremendo, faremo con voi come racconta san Leonardo da Porto Maurizio aver fatto un buon uomo. State attenti. Un giovane signore camminava un di entro una gola di monti, quasi grande affare l’urgesse. Era d’inverno » l’aere nebbioso, ghiacciato il sentiero dopo caduto il nevaio; ed egli non conoscendo bene il suo viaggio, tirava avanti alteramente a casaccio. Quando un buon uomo gli grida dall’alto di un monticello: indietro, signore! indietro da quel sentiero. Ma quegli, come indegnato di quell’audacia, tirava avanti con un fare impettito. Il buon uomo sì gli stride appresso più forte: indietro vi dico! Ma colui in dispetto: e che v’importa, se io vado per dove mi piace? — Che m’importa? risponde l’altro gridando più forte, m’importa salvarvi! Voi camminate sopra una crosta di ghiaccio: un tetro lago vi si sprofonda sotto… ancora un passo, si rompe il ghiaccio e… Ma date indietro per carità! L’ardito giovane ristà….; e si rivolge indietro, e guata quel pericolo, in cui alcuni animali andavano sbandati. Oh!… Si ruppe il ghiaccio! e sprofondarono nel lago. Anche noi qui sollevati dai piedi del Crocifisso nel vedere gittarsi a perdere i nostri cari gridiamo col cuore che fa sangue: indietro da quella via di peccato! Che? Continuate ancora?…. Guardate innanzi. Quegli era pure un giovane più baldo di voi: calpestava ogni fior di virtù, e voi sentite ancor il rumore de’ suoi scandali. Veniva questa notte dall’osteria ubriaco, veniva dalla tana di… Abbiamo sentito un colpo! cadde morto!.. Si è rotto il ghiaccio: oh!… è sprofondato nell’eternità! … Finalmente, diceva ieri una giovine sposa, sono giunta al sospirato matrimonio: ed ebbe un bel gridare il prete contro il mio continuare all’amore: io intanto in questa casa sono fortunata per sempre. Che è? sentite le strida in quella famiglia?… La poverina ha cessato di vivere !… Si è rotto il ghiaccio oh!… è sprofondata nell’eternità! A me poi, dice quel ricco, va tutto bene: quest’anno la raccolta mi si promette abbondante, farò allargare i granai…. — Stolto! questa notte è chiamato al giudizio di Dio! Stulte, hac nocte animam tuam repetent a te. Si è rotto il ghiaccio: oh… meschino! era là che faceva i suoi conti e cadde morto colla faccia sulle carte dei conti! Morirono questi in mezzo ai disordini di una povera vita. E noi, al vedere tante splendide scene del mondo terminare nel buio della tremenda eternità spaventati tratteremo con voi, come s. Paolo trattò in Atene coì più gran dotti dell’universo. Corsa voce ch’era venuto fra loro questo Giudeo portatore di una nuova sapienza, si avevano essi dato il convegno nell’Areopago, e stavano con quel loro gran fare sui loro stalli per dar giudizio della nuova dottrina, disprezzando con sogghigno velato, già prima di averlo udito, quell’omiciattolo da nulla, che appariva s. Paolo. Ma egli: Signori filosofi, voi aspettate ciò che io vi abbia a dire di più importante. Ebbene! v’è un Dio sommo che voi poi non ignorate del tutto, il quale vi aspetta al suo giudizio. Si muore, signori, e dopo la morte si risorge a vita pel paradiso o per l’inferno per sempre! Quei dotti restarono come da tuono percossi all’intronar di quella parola piena d’eternità. Ma riavutisi tosto, e sforzatisi d’ostentar dello Spirito, ammiccaron tra loro cogli occhi: e Straniero, gli dissero, non hai tu nient’altro che dirci? E s. Paolo: Niente altro per ora: ma a nome di Dio per cui siete vivi quì vi avverto che si muore, e che dopo la morte, vi è la risurrezione all’eternità!… Allora queglino a lui: Venditore di ciance! va: che ti ascolteremo un’altra volta! Restarono superbamente increduli molti; alcuni però vi pensarono ben bene sopra, corsero appresso a s. Paolo, e trovata vera la sua dottrina, si convertirono. Questi morirono santi: morirono anche quei peccatori. Ma sono già mille ottocento anni che quei convertiti stanno in paradiso e che quei morti in peccato sono nell’inferno. . Sì veramente! dice Platone, il filosofo antico più dotto, la morte mostra da qual parte stanno i prudenti, e da qual parte stanno gli stolti. Ora anche noi colla potenza dell’eterna verità veniamo a mettervi dinanzi il nulla del mondo in faccia al paradiso e all’inferno, in cui saremo forse a momenti. Perocché, dice lo Spirito Santo, voi siete come gli alberi, che il padrone getta a terra quando gli piace. Se tu meni la scure a piè di un albero, da qual parte egli cadrà? a destra o a sinistra? Certo dalla parte verso cui pende, e quivi starà. Ora mano alla coscienza: se il colpo del taglio m’incoglie in questo istante, da qual parte io pendo?… Ho più meriti pel paradiso, o più peccati per lo inferno!… Gran Dio!… credere che abbiamo l’inferno spalancato sotto i piedi; sentire il peso dei peccati che ci trabocca già dentro, e restare sopra il baratro nella più stupida indifferenza. Eh! la ragione umana non può fare così. « Parleremo noi col linguaggio della nostra madre la Chiesa, e bisogna, pur confessarlo (dice, e non un santo padre, ma il filosofo Pascal), che qui vi è la mano di un essere fuor di natura che ci chiude gli occhi: è la mano del nemico delle anime che tiene saldi i peccatori colla costanza di demonio, perché non tremino sopra l’abisso d’inferno! » Intanto come quegli sciagurati (l’avete udito voi l’altro d’) che nelle delizie dei dintorni di Napoli, allorquando si sentiva il cupo rombare del tuono nelle viscere della terra, e dal suolo in sussulto già sbuffavano le fiamme, e già il furente Vesuvio eruttava una fiumana di fuoco, e il buon popolo era in processioni di penitenza!.. essi pigliando tutto a divertimento, pur tra le ceneri ed i lapilli che tempestavano, correvano incontro a goder dello spettacolo… Ahi, pur troppo! ducento e più venivano travolti in quel fuoco furente, immagine d’inferno. Così anche i poveri nostri fratelli in peccato, nelle delizie della vita presente, tra i gemiti di tanti che ci muoiono d’intorno, corrono a gettarsi in perdizione in gola alla morte. Su, su salviamoci noi dall’inferno che minaccia d’ingoiarci! O fratelli, immaginatevi che accada qui uno spaventoso cataclisma (come avvenne già tante volte, può avvenire ancora nei nostri paesi) in quest’ora. Oh se voi vedeste!.. che è mai? Ahi si abbassa la terra sotto dei nostri piedi! Ve’! ve’! che si sprofonda il suolo, gorgogliano fuori le acque dappertutto, diventano laghi i cortili, i giardini, sono già un mare le campagne. Ahi si sommergono le case: fuggiamo, fuggiamo sulle alture. Ma s’inabissano fin le montagne. Tutto sparisce… Oh Dio! i nostri annegano tutti! le acque raggiungono la vetta! Ci sono già alla vita… poveri noi che affoghiamo! mettiamo orride strida!… Ma si vede un naviglio che voga verso noi per tentare salvamento…. Salviamoci, salviamoci!… Anche i più timidi si slanciano a combattere coi fiotti, per giungere a bordo del naviglio salvatore. Ah fratelli miei, che noi siamo proprio nel pauroso frangente! Sentite che ci manca sotto la vita! noi caliamo senza posa giù; abbiamo l’eternità alla gola; già c’ingoia l’inferno!… Spingetevi fuori da quell’occasione, o questa notte forse vi restate sommersi!… fuggite via da quella casa, in cui ormai restate sepolti in peccato!… Gettate quel peso dalla coscienza, che vi tira giù nell’inferno!… scappate fuori da quel mal abito, che vi affoga nel baratro della disperazione. Ecco, ecco Gesù Salvatore sulla nave: gridiamogli incontro con le braccia stese: Signore, salvateci, che noi andiamo a dannarci: « Domine, salva nos, perimus! » – Scuotiamoci; risolviamo! E perché restate ancor incantati alla vista del mondo? Via, imparate da questo fatto come dovete trattarlo. Tommaso Moro, gran cancelliere, dal sozzo eretico re d’Inghilterra Enrico, egualmente tiranno che assassino dell’anime, perché restava fedele al Papa, veniva condannato a morire. Imprigionato in sotterranea secreta, vestito a sacco, sopra un po’ di paglia in ginocchio e’ si preparava alla morte, fermo, come chi sa di combattere per Dio. Quando sente sbarrarsi la porta del carcere. Tommaso crede venga il carnefice, fa il segno di croce, e si volta imperterrito ad aspettare il colpo. Ah vede, chi?…. la sua giovine sposa, sparsi i capelli, squarciata sul seno la veste a lutto, colle braccia a lui stese si getta abbasso in quell’antro gridando: o mio Tommaso!… Tommaso balza in piedi; e la sposa.. si slancia sul petto a lui in uno scoppio di pianto. O consorte mio, cedete al re; vi porto la sua grazia: rinunziate al Papa!… Ma la pena del duolo le strozza la voce in gola… In quest’affanno sollevati colla mano i capelli… con due occhi in volto pieni di dolore infinito, singhiozza: salvatevi, Tommaso mio, salvatevi! In quella corron giù stridenti i suoi bambini; e stringergli le ginocchia, e baciargli le mani: Padre! gridando, no, padre non muori! Scappa via con noi! Tommaso trema tutto fremendo un istante. Poi: sposa mia!.. dimmi, se io cedo all’eretico re, quanto tempo potrò godere insieme con te de’ suoi favori? La sposa: Ah, principe mio, voi siete in buona età, sincero di complessione, robusto di forze: voi potete vivere ancora vent’anni… Lasciatelo dire all’amore della vostra sposa, anche trent’anni. Vent’anni!…. dice Tommaso, trent’anni… che tu non mi puoi assicurare!… Eh vuoi che io li cambi coll’eternità del paradiso, che mi assicura l’immancabile parola di Dio?.. Brutto cambio che mi proponi?… Va, va, che sei una mercantessa ben stolta! recede a me, stulta mercatrix! Così dicendo si slega dalle braccia della sposa, colla mano sul petto la respinge indietro, e muore martire. Signori, ci tradisce il mondo, il quale, nulla curandosi di noi, se andiamo dannati, ci promette beni; e non ce li assicura un sol dì; mentre la parola di Dio ci assicura il paradiso per sempre. Deh! coll’inferno aperto sotto dei piedi, col paradiso innanzi da conquistare, tutti gli altri affari del mondo non sono che misere vanità. Tutto adunque è vanità, dice la Sapienza divina, fuorché amare e servir Dio, e così salvare le anime nostre. Porro unum est necessarium: questo, questo solo è necessario, dice il Salvatore nostro, che vuole non si perda nessuno. O figliuoli degli uomini, e fino a quando amerete le vanità, e spenderete tutta la vita in un lavorio che dura un istante? Grandi faccendieri in questi affari da niente, voi siete simili, dice s. Giovanni Grisostomo, a quell’insettuccio, che ragno è detto comunemente. A vederlo girare tra le cortine ed i festoni della sala, sembra che mulini anch’esso un gran disegno, e specoli il campo, dove poterlo eseguire. Allunga una zampetta, assaggia il terreno; non è da ciò: stende l’altra, e la ritira; poi si slancia ardito dall’alto in mezzo al vano della finestra e pende dal filo che gli esce di bocca, e gli consuma la vita; e là in aria in quel vano già si dà vanto il superbetto del suo grand’ardimento. Aspetta un buon alito di vento, e si getta con esso ad attaccare il filo in una imposta; e dice in se stesso: va bene la mia fortuna. Ad un nuovo soffio di vento di buona ventura attacca il filo dall’altra, poi torna a bomba in mezzo: gira e rigira, e fa quei cerchietti concentrici, ognora più stendendo le fila del suo dominio. Li ferma a nodi, a mo’ di raggi, e pone nel centro la sua casetta, o il suo gran palagio, ché tale debbe sembrare alla sua testolina… Di là adocchia, se un moscherino s’impigli nella sua ragna, e gli salta alla vita, gli succhia il sangue, e porta gli avanzi nella sua casa. Allora egli come un piccolo re si mette in mezzo al suo possesso, pendente sui fili in aria col ventre al sole in goderie, e par che dica, sono il padrone del mondo. Ma entra il padrone nella sala: vede quella schifezza, chiama stizzito la fante, e, buttala via, dice, quella bruttura. La donna alza la scopa, dà un colpo… e di tutto quel grande lavorio del gran re, e del suo bel mondo che mai vi resta? Una macchia schifosa, dove rimane l’insettuzzo schiacciato sotto del piede. Signori! fanno così gli uomini del mondo, massime nel nostro tempo. Si slanciano arditi ad ogni cimento, attraversano i mari, legan le fila dei grandi commerci, portan l’oro d’America, specolano alle borse, tiran partito delle altrui disgrazie; comprano, comprano: poi in mezzo ai grandi acquisti fatti, ricchi già tanto, da non curarsi più della Chiesa e ridere dei Sacramenti, adoratori pur solamente dell’idolo borsa, lasciano alla povera gente di essere buoni Cristiani e di salvare le loro animette. Essi sono grandi!….. E chi è mai Dio per costoro?… Chi è Dio?!… È il gran padrone dell’universo, il quale guarda quel ributto orgoglioso della creazione, fa un cenno alla sua serva, e la morte dà un colpo!… Dove è il superbo del mondo?.. Non vi resta di lui che una lurida macchia dove rimane schiacciato sotto il piede della morte nel fango del cimitero. Ah che questi affari della terra, quando ci disputano tutta la vita, se sono più che vanità, sono tremendi inganni! Dice sant’Eucherio che e’ sono come tanti anelli di una gran catena, la quale pende dall’alto, in cui uno va dentro e si lega nell’altro: e chi colle mani s’abbandona lungh’essi, dall’ultimo anello é lasciato cadere in rovina. Gli affari sono come i fiotti del mare, che passan l’un sopra l’altro; e la vita è la navicella che volge ad ostro od a ponente a seconda delle soffiate di vento di buona o cattiva fortuna; finché viene l’ultimo colpo del maroso che la sprofonda a naufragio. Ma intanto noi corriamo alla morte!… La vita umana adunque, dice s. Basilio, è somigliante ad un cammino, che va a terminare in un gran precipizio. Ben noi siamo avvertiti, che la legge è pubblicata, che bisogna spingerci innanzi sempre; eppure ci lusinghiam di fermarci. Ma una voce tuona continuo: avanti, avanti! Entriamo nella gioventù, e noi come in mezzo a prati fiorenti, noi vogliam folleggiare; ma una voce ci grida avanti, avanti! ed una mano ci tira innanzi… Passiamo nell’età virile, ivi a noi pare di trovarci tra campi pieni di biade e di frutta; e qui affannarci a fare raccolta, e vogliam fermarci a goderne; ma una voce ci grida: avanti, avanti! e una mano ci tira innanzi… Andiamo innanzi: oh i prati sono più pallidi, i fiori meno ridenti, meno chiare le acque, la campagna diventa più squallida: cioè sono già bianchi i capelli, s’incurva il dorso, le bellezze sì fanno sparute, monotona diventa la vita, proviamo un tristo sentore del precipizio che non può essere lontano! Vorremmo restarci; ma una voce ci grida: avanti, avanti! ed una mano ci tira innanzi… Ahi che squallore d’intorno! dirupato il sentiero, tentenniamo nei passi. Abbiamo varcato i sessant’anni, presto i settanta….. E i compagni di viaggio con cui scherzavamo fanciulli? Scomparvero tutti; tutti caduti nei precipizi lungo la via!…. Buon Dio, ci vien meno la vita! Vorremmo fare posata un istante; ma una voce tuona più forte avanti, avanti! ed una mano ci strascina innanzi… Ve?!… siam giunti soll’orlo dell’abisso; ci gettiamo per terra, gridiamo atterriti: deh un po’ di tempo ancora! ma rintuona la voce: avanti, avanti! ed una mano ci urta innanzi… Ahimè! l’orrore ci turba i sensi, ci gira il capo, si offuscano gli occhi; freddo sudor alla vita, e noi nelle ansie dell’agonia diam l’ultimo passo…. precipitiamo nell’eternità, sepolti nell’abisso del sempre, ch’è o paradiso o inferno! … Dietro di noi orrendo fragore: è il tempo che con tutte le cose rovina nel nulla; e l’eternità sempre rintuona: Porro unum est necessarium: questo solo importa, salvare l’anima nostra in paradiso…. – Deh! prima che io discenda, sì io ancora col Crocifisso innalzato qui tra il paradiso e l’inferno!… Guardate Egli Dio!… Ei venne di cielo, e lasciossi coronare la testa di spine per salvare le anime vostre…. E voi non volete darvi un pensiero? Ve? ve’ che lasciossi squarciare le mani per portarvi via d’inferno!… E voi non vorrete muover una mano per mettervi in salvo? Ah ah! come lasciossi lacerare questi piedi, per menarvi seco in paradiso!… e voi non vorreste far un passo neppur per confessarvi e da Lui lasciarvi menar in cielo? Dio, dirovvi colla eloquente parola di san Giovanni Grisostomo, Dio stesso ha paura… perché Egli sa ciò che vuol dire paradiso ed inferno: sì Dio ha paura…. che noi andiamo dannati!… E noi cì ridiamo della sua paura?…. Miserabili, miserabili troppo!… Oh nostro buon Gesù! Voi qui con noi col Cuor che fa Sangue aperto; nel Sacramento … là là…. noi vi giuriamo sul vostro Cuore che ci vogliamo salvare.

LA GRAZIA E LA GLORIA (3)

LA GRAZIA E LA GLORIA (3)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO PRIMO

IL FATTO E LA REALTÀ DELL’ADOZIONE DIVINA

CAPITOLO II

L’adozione dei figli di Dio, che poggia su una generazione spirituale, è un rinnovamento interiore del nostro essere e come un’altra creazione.

1. – Quando parliamo dell’adozione divina, guardiamoci dal concepirla alla maniera delle adozioni umane, perché essa è di un tipo incomparabilmente superiore. In assenza di qualsiasi altro motivo, i soli termini che le nostre Sacre Lettere usano per rivelarcelo, basterebbero a renderlo chiaro. Nessun uomo, quando parla di un figlio adottivo, per quanto esprima il suo amore, oserebbe dire che questo figlio debba la sua nascita a lui e che lui stesso lo abbia generato. Ora nulla è più ordinario nella bocca di Dio di questo linguaggio nei confronti dei suoi figli adottivi. Citiamo alcuni passaggi a sostegno di tale dottrina consolante. « In verità, in verità – disse Gesù a Nicodemo – Io ti dico che se uno non nasce di nuovo, non può vedere il regno di Dio. » (Joan, III, 3). A queste parole del Salvatore Nicodemo è stupito: « Come – egli chiede – può rinascere un uomo che è già vecchio? »  E Gesù gli risponde con più enfasi: « In verità, in verità ti dico che se uno non nasce da acqua e da Spirito Santo, non può entrare nel regno di Dio. Quello che nasce dalla carne è carne; e ciò che è nato dallo spirito è spirito. Non vi meravigliate se vi ho detto: Dovete nascere di nuovo » (Gv. III, 4-7). Queste ultime parole non ritrattano nulla: è veramente di una nuova nascita che Egli ha parlato, ma di una nascita secondo lo spirito e non secondo la carne; di una nascita che non dà la vita del tempo, ma la vita dell’eternità. – La nascita presuppone la generazione. Nascere di nuovo è quindi essere rigenerati. Spetta agli Apostoli insegnarci e spiegarci fedelmente il pensiero del Maestro su questo punto. Ascoltiamoli dirci, per bocca di San Paolo, ciò che noi siamo senza la grazia dell’adozione e cosa diventiamo grazie ad essa. « In passato eravamo stolti, increduli, ingannati, schiavi di ogni tipo di desiderio e di piacere, vivendo nella malizia e nell’invidia, odiosi ed odiandoci gli uni gli altri.  Ma quando apparve la bontà e l’umanità del nostro Dio salvatore, non fu per le opere della nostra giustizia che ci salvò, ma nella sua misericordia attraverso il Battesimo di rigenerazione e il rinnovamento dello Spirito Santo » (Tito III,3-5). Questo, dice, è ciò che eravamo; e questo è ciò che siamo o dovremmo essere, « …affinché giustificati dalla sua grazia, siamo eredi della vita eterna secondo la nostra speranza » (Ibid. III, 6). – Sembrerebbe che San Giovanni non sappia più pensare che a questa nuova nascita, tanto spesso riappare nelle sue pagine ispirate. « Chiunque è nato da Dio non pecca, perché il Seme di Dio (questo Seme incorruttibile – I Petr. I, 23 -, principio della nostra rigenerazione), dimora in Lui; egli non può peccare, perché è nato da Dio » (1 Joan. III, 9). Al che si deve osservare che, finché siamo nella prova, l’impeccabilità di cui l’Apostolo parla qui è solo un’impeccabilità relativa. La qualità di figlio di Dio è incompatibile con il peccato mortale; e se abbiamo la sventura di commetterlo, questo avviene, dice Sant’Agostino, come figli della carne, e col diventare figli del diavolo). – E ancora: « Chi crede che Gesù è il Cristo è nato da Dio; e chi ama il Padre che lo ha generato, ama anche chi è nato dal Padre » (I Joan. V, 1). E qualche riga più avanti, nello stesso capitolo: « Noi sappiamo che chi è nato da Dio non pecca; ma la generazione di Dio (l’essere nato da Dio) lo preserva, ed il maligno non lo tocca » (I Joan. I, 1, 18). È necessario fermarsi: perché diverremmo infiniti se volessimo mettere davanti agli occhi del lettore tutta la dottrina delle nostre Sante Lettere. Per concludere, aggiungiamo questo testo di san Giacomo che esprime così bene la profondità del rinnovamento operato in questa rinascita: « È volontariamente che Egli (il Padre delle luci) ci ha generati per mezzo della parola di verità, così che siamo un inizio della sua creatura » (Giac. I, 18).

2. Volgiamo ora l’orecchio ai Santi Padri; essi ci aiuteranno a penetrare più profondamente in queste magnificenze della filiazione dei figli di Dio, rigenerati dal Battesimo. Prima di tutto, ecco un discepolo di Sant’Agostino, San Fulgenzio, che, in un testo eccellente, contrappone le due nascite di Cristo alla doppia nascita dei fedeli. La prima nascita di Cristo è da Dio, la seconda dall’uomo; per noi, la nostra prima nascita è dall’uomo e la seconda da Dio. E poiché Dio per nascere ha preso la nostra carne in un grembo verginale, a noi che siamo rinati nel Battesimo ha dato lo Spirito di adozione. Ciò che Dio non era per natura in virtù della sua prima nascita, lo divenne per grazia in virtù della seconda, affinché noi, per la grazia della nostra seconda nascita, fossimo ciò che non eravamo naturalmente per la prima. Quando Dio è nato dall’uomo, questa è una grazia data a noi; ed è ancora una grazia puramente gratuita che riceviamo, quando per la munificenza di Dio nato dalla carne, diventiamo partecipi della natura divina. « È perché il Figlio di Dio si è fatto Figlio dell’uomo, che a tutti coloro che lo hanno ricevuto, ha dato il potere di essere fatti figli di Dio… Sì, se il Figlio di Dio che è nel seno del Padre, Figlio eterno da un Padre eterno attraverso una nascita eterna, se –  dico – questo Figlio diletto non si fosse degnato di accettare una nuova nascita per santificare gli uomini, l’uomo concepito nell’iniquità sarebbe rimasto per sempre impigliato nei vincoli della sua nascita terrena » (S. Fulg. ep. 17, p. 14-15. P. Lat., t. 65). E per esaltare ancora di più il beneficio della nostra nuova nascita, ci mostra in un’altra opera, da quali mali essa ci libera, opponendola alla prima: « Quello che ci basta sapere è che la prima nascita ci contamina e la seconda ci purifica; che la prima nascita ci rende prigionieri e la seconda ci rende uomini liberi; che con la prima nascita siamo terreni e carnali e con la seconda nascita siamo celesti e spirituali; e infine, che alla prima nascita dobbiamo l’essere figli dell’ira e figli del mondo e alla seconda nascita dobbiamo l’essere figli della grazia e figli di Dio » (Id. de verit. prædest. et grat. – Fu combattendo per la gratuità della grazia e l’esistenza del peccato originale contro i pelagiani, che negavano entrambi i dogmi, che il Santo dottore, scrisse questi passaggi). Dopo il discepolo viene il maestro, cioè il grande dottore di Ippona. Egli ci farà meditare su quello che abbiamo riportato in precedenza sulla misteriosa conversazione del Signore Gesù con Nicodemo. « Questo spirito e questa vita (di cui nostro Signore parlò alla Samaritana al pozzo di Giacobbe) non erano ancora stati gustati dal capo dei Giudei, Nicodemo, che venne da Gesù di notte. Gesù gli disse: « Chi non è nato di nuovo non vedrà il regno di Dio ». E Nicodemo, che ancora intendeva solo la carne, Nicodemo, la cui bocca non aveva ancora gustato la carne di Cristo, disse: « Come può nascere di nuovo un uomo che è già vecchio? È possibile per lui tornare nel grembo di sua madre e rinascere? » Quest’uomo non conosceva che una nascita: quella che possono dare Adamo ed Eva; quanto a quella che è di Dio e della Chiesa, non la conosceva ancora. Non conosceva altri genitori che quelli che generano per la morte; non conosceva i genitori che generano per la vita. Non conosceva i genitori che danno alla luce coloro che presto prenderanno il loro posto; ma non conosceva coloro che generano per vivere per sempre con dei figli immortali come loro. – Ci sono due nascite, e Nicodemo ne conosceva solo una. Una è della terra e l’altra del cielo; una è della carne e l’altra dello spirito; una è della mortalità e l’altra dell’eternità; una è dell’uomo e della donna e l’altra di Dio e della Chiesa. E queste due nascite sono singolari: perché né questa né l’altra possono essere ripetute. – Della nascita carnale Nicodemo era convinto. Quello che pensava della nascita secondo la carne, intendetelo della nascita spirituale. Che intendeva Nicodemo? Può un uomo tornare nel grembo di sua madre e nascere una seconda volta? E anche voi, quando vi si chiede di nascere di nuovo spiritualmente, rispondete con Nicodemo: Può un uomo tornare al seno di sua madre e nascere di nuovo; io sono già nato da Cristo; Cristo non può generarmi di nuovo. Né il grembo di mia madre, né le acque del Battesimo possono accogliermi una seconda volta. (S. August. In Joan. Tract. XI, p. 6.). – Chiunque sia a conoscenza delle controversie che allora erano in corso nella Chiesa, capirà che Sant’Agostino voglia proteggere i fedeli contro l’errore dei ribattezzatori. Egli non dice che non si possa recuperare la vita spirituale una volta che sia stata persa; quello che dice è che non può essere recuperata da una nuova nascita. Ci sono guarigioni, ritorni dalla morte alla vita attraverso la penitenza; non c’è una nuova generazione né nell’ordine della natura né in quello della grazia; ed è per questo che il sacramento della Penitenza può essere ripetuto, il sacramento del Battesimo, mai. – Seguiamo di nuovo il grande dottore nella sua esposizione del nostro Vangelo. Il Signore disse a Nicodemo: « In verità, in verità ti dico che se uno non nasce di nuovo da acqua e da Spirito Santo, non può entrare nel regno di Dio. Ecco come il Signore spiega il suo pensiero. Avevi in mente solo una nascita carnale quando hai detto: Può un uomo entrare nel grembo di sua madre? Ed è dall’acqua e dallo Spirito Santo che egli deve rinascere per il regno di Dio. Se egli nasce per ereditare temporalmente da un padre mortale, che sia formato nelle viscere della carne; ma se nasce per l’eredità senza fine del Padre che è Dio, che nasca dalle viscere della Chiesa. È da una donna che il padre mortale genera il figlio che prenderà il suo posto; è dalla Chiesa che Dio genera i figli che rimarranno con Lui per sempre. Ascoltate ciò che segue: ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è spirito. C’è dunque per noi una nascita spirituale, e questa nascita nello Spirito viene dalla parola e dal Sacramento. Lo Spirito è lì per dare la nascita: è lì, invisibile, nella fonte da cui tu nasci; perché anche tu sei nato invisibilmente. E il Vangelo continua: non stupirti se ti dico: devi nascere di nuovo! Lo Spirito soffia dove vuole; tu senti la sua voce e non sai dove va, né donde venga. Nessuno vede lo Spirito. Come possiamo sentire la voce dello Spirito? Il salmo canta: è la voce dello Spirito; il Vangelo parla: è la voce dello Spirito; la parola di Dio risuona nelle nostre orecchie, ed è sempre la voce dello Spirito. Si sente la sua voce e non si sa da dove venga o dove sia. E anche tu, se sei nato dallo Spirito, sarai tale che chi non è ancora nato dallo Spirito non saprà da dove vieni e dove vai. Questo è il significato delle seguenti parole: Così è per chiunque sia nato dallo Spirito » (S. Agos. Tr. XII in Joan., n. 5).

3. – La Santa Chiesa ci conferma nella fede della nostra filiazione adottiva e della nostra rinascita: lo testimonia il Concilio di Trento nei suoi capitoli dottrinali sulla giustificazione. « Il Padre celeste, il Padre delle misericordie, Dio di ogni consolazione, quando venne la beata pienezza del tempo, mandò il suo Figlio, annunciato e promesso ai Santi Padri, sia prima della Legge che al tempo della Legge. » E perché ha mandato questo Figlio del suo amore? « Per riscattare i Giudei dalla schiavitù della Legge, per portare alla giustizia le nazioni che non hanno seguito la giustizia, e perché tutti ricevessero l’adozione a figli » (Conc. Trid. Sess. VI, c. 2). Riconoscete l’adozione come il frutto proprio e finale del grande mistero del Verbo Incarnato. Ecco come questa adozione divina, a differenza delle adozioni umane, poggi su una generazione misteriosa: « Così come – ci dice il Concilio – gli uomini devono nascere da Adamo peccatore per nascere nel peccato… così essi devono rinascere in Gesù Cristo per essere giustificati: perché in questa rinascita la grazia che li giustifica è data loro dal merito di Gesù Cristo. » (Ibid. c. 3). Quindi la giustificazione dell’empio deve essere intesa « come un passaggio dallo stato in cui l’uomo è nato figlio del primo Adamo, allo stato di grazia e di adozione dei figli di Dio da parte del Secondo Adamo: Gesù Cristo, nostro Salvatore. E questo passaggio, il Vangelo una volta promulgato, non può essere fatto senza il sacro bagno della rigenerazione o il voto di questo stesso bagno, secondo quanto è scritto: “Chi non è nato di nuovo da acqua e da Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio” » (Conc. Trid. Sess., c. 4): – Ma questa mistica sposa di Gesù Cristo, la Madre secondo lo spirito dei figli di Dio, non ha aspettato questi ultimi tempi per spiegare loro il mistero della loro origine. Niente è così istruttivo e spesso così delizioso come le formule o i Simboli che, fin dai primi giorni della sua esistenza, Essa era solita  impiegare per questo scopo. Il Battesimo l’ha chiamato rigenerazione; i battezzati, qualunque fosse la loro età, erano per Essa dei bambini, neonati, infantes, modo geniti infantes (1 Piet. II, 2): una qualifica che vediamo applicata anche a uomini di trenta-quarant’anni nelle iscrizioni cristiane (Mabillon, de Re diplom. Suppl. 15. Martigny. Antiq. chrét. Baptème III). In alcuni luoghi, si dà loro da mangiare, dopo il Battesimo, miele misto a latte, cioè un nutrimento adatto ai bambini. Essi prendono un nome nuovo, perché hanno appena ricevuto una nuova nascita, e talvolta questo nome esprime anche la rinascita spirituale che lo motiva. Da qui, per citare alcuni esempi, i nomi di Regenerato, Renato, Theosgonio, Vitale, Vivente, Zoe, e altri frequentemente ricordati dalle iscrizioni funerarie e dai nostri Martirologi. (Martigny. Ibid. Nomi di Cristiani, 2a classe.). Le istruzioni speciali date loro dal Vescovo sono i sermoni per i bambini “Ad Infantes” – Si sa che il pesce, nelle antiche rappresentazioni, simboleggiava Nostro Signore. I cimiteri cristiani della vecchia Roma, chiamati comunemente Catacombe, ci forniscono mille esempi. Cosa saranno i battezzati? Piccoli pesci, nati nelle acque del Battesimo per la virtù del Pesce divino (Ἱχθύς = iktus), Gesù Cristo Nostro Signore. « Noi – scrive Tertulliano – piccoli pesci, ad immagine del Pesce per eccellenza, Gesù Cristo, siamo nati nell’acqua. Nos piscicuculi, secundum ἲχθυν [=iktun] nostrum Jesum Christum, in aqua nascimur. » (Tert. De Baptismo, c. 1). Da qui i dipinti in cui vediamo il ministro del Battesimo gettare la sua lenza in mezzo all’acqua per tirare fuori un piccolo pesce; da qui le immagini di pesci, dipinte o scolpite, che decoravano gli antichi battisteri. Un dipinto recentemente scoperto nel cimitero di San Callisto offre una rappresentazione del Battesimo, dove troviamo la stessa idea. È un Sacerdote che versa acqua sulla testa di un bambino nudo i cui piedi sono bagnati dalla corrente di un fiume; un bambino non a causa della sua età, ma per il Sacramento della rigenerazione che sta ricevendo: perché nessuno ignora quanto fossero frequenti i Battesimi di adulti in questi primi giorni della nostra era. Devo ricordare di nuovo la fenice rappresentata sulle piscine? Per i nostri padri era l’emblema della resurrezione; ma in questo uso particolare simboleggiava la rinascita spirituale (Vedere per questo simbolo e i seguenti: Martigny, Dictionnaire des antiquités chrétiennes, alle parole: Battesimo, battistero, pesce, fenice, ecc.. Sappiamo che secondo la favola la fenice risorge dalle sue ceneri. Sappiamo anche perché il pesce sia diventato il simbolo di Gesù Cristo e per estensione del Cristiano. Il mistero dell’Eucaristia doveva rimanere nascosto agli occhi profani anche quando veniva riprodotto nei dipinti cristiani. Fin dall’inizio, i fedeli hanno fatto ricorso al simbolismo per esprimerlo velandolo. Il cibo eucaristico era rappresentato sotto la figura del pesce. Questo perché prendendo la prima lettera delle cinque parole greche che compongono la formula dogmatica: Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore,  Ἱησοῦς, Χριστός, Ξεοῦ, Υἰὸς Σωτήρ [= Iesoùs Kristos Tèoù Uios Soter], da cui si ottiene l’anagramma Ἱχθύς [= iktus], pesce. Se Cristo è il Pesce, cosa sarà il Cristiano, se non un piccolo pesce, pisciculus: tanto più che N.-S. aveva detto ai suoi Apostoli: Vi farò peccatori di uomini? – Cf. S. Agost. de Civit, L. XVIII, c. 25). Infine, ricorderò questi nomi di seno, di matrice, di “madre di adozione” (Dionys. Areop. de Eccl. Hierar, c. 2, § 7, P. Gr. 3, p. 396. Unda genitalis nelle inscrizioni), dati o all’acqua, o alle vasche battesimali, e lo Spirito Santo che aleggia su queste vasche e queste acque per renderle feconde, come rese feconde le onde nei primi giorni della terra, e, nella pienezza dei tempi, il grembo verginale di Maria, la Madre del Figlio di Dio per natura, Gesù Cristo nostro Signore? – Sarebbe impossibile ignorare le nostre ammirevoli preghiere liturgiche. Ascoltando le preghiere che la Santa Chiesa recita oggi, sentiremo la voce di tutti i secoli cristiani, di cui sono l’eco perpetua. Parlerò solo per la cronaca del Canone della Messa in cui i fedeli sono chiamati « la famiglia di Dio ». È l’Ufficio del Sabato Santo, giorno anticamente dedicato specialmente al Battesimo dei catecumeni, che ce ne offre la più bella testimonianza. « O Dio, Padre Supremo … che moltiplicate in tutto l’universo i figli della vostra promessa con l’infusione della grazia dell’adozione … donate ai vostri popoli la grazia di entrare degnamente nella vostra santa vocazione » (Missale Rom. Sab. sancto. Orat. Post 3° Profeta.) – « O Dio onnipotente ed eterno, riempite della vostra presenza i misteri della vostra grande pietà, e per ricreare i nuovi popoli che la fonte del Battesimo genera in voi, mandate il vostro Spirito di adozione » (ibid. Orat. ad benedict. Fontis). – « O  Dio, il cui Spirito fu portato sulle acque fin dai primi giorni del mondo, per inocularle in anticipo di una virtù santificante, gettate gli sguardi sulla vostra Chiesa e moltiplicate in essa le rinascite. Voi che la inondate dei torrenti della vostra grazia, e che per il rinnovo dei popoli aprite per tutto l’universo le fonti battesimali; vi preghiamo che, per ordine della vostra maestà, riceva dallo Spirito Santo la grazia del vostro unico Figlio. Che questo stesso Spirito fecondi per una segreta mescolanza della sua divinità, queste acque preparate per la rigenerazione degli uomini, in modo che una linea celeste concepita nella santità possa uscire dal seno immacolato della divina Fonte, come una creatura rinata e rinnovata; e che la grazia, loro madre, possa generare per una nuova infanzia coloro che distingue o il sesso nel corpo, o l’età nella durata » (Ibid. ad benedict. Fontis. Queste orazioni si trovano nel più antico Sacramentario. C’è in esso la fede di tutti i secoli). E più avanti nello stesso testo: « Che la virtù dello Spirito Santo scenda sulla pienezza di questa fonte, e riempia la sostanza intera di queste acque con una virtù che rigenera ….. Che ogni uomo che entra in questo misterioso Sacramento della rigenerazione rinasca bambino con la perfezione dell’innocenza. » – Queste magnifiche preghiere trovano una meravigliosa risposta in un’iscrizione incisa per ordine di Papa Sisto III nel Battistero di San Giovanni in Laterano, dove si conserva ancora oggi. « Qui la razza da consacrare per il cielo nasce da un Seme augusto; e lo Spirito Santo la genera dalle acque fecondate dalla sua virtù. In questa fonte la Chiesa, nostra madre, partorisce dal suo grembo verginale i figli che ha concepito sotto il Soffio di Dio. Sperate il regno dei cieli, o voi che siete rinati da quest’onda; perché la vita beata è per coloro che essa ha rigenerato. È una fonte di vita che, sgorgando dal fianco di Cristo, inonda tutto l’universo. Immergiti, quindi, o peccatore, in questo sacro torrente, per lasciare le tue sozzure; scendendo con la tua vitalità nativa, ne uscirai rinnovato. Tu che vuoi essere innocente, purificati in questo bagno, che sia il crimine del tuo primo padre o il tuo che pesa su di te. Non c’è più distanza tra i rigenerati: essi sono uno, per l’unità della Sorgente, l’unità dello sìSpirito, l’unità della fede. Che nessuno si disperi per il numero e la grandezza dei suoi crimini; sarà santo chiunque sia nato da quest’acqua. – Queste considerazioni bastano, se non erro, a mostrare quanto la nostra filiazione soprannaturale superi in verità quella che l’adozione comune può dare tra gli uomini: perché è una rigenerazione spirituale: una vera rinascita in Dio (Il grande pubblicista cristiano, L. Veuillot, racconta in una delle sue opere – Les Nattes, 1 ed, p. 201 e segg,. Quella che segue è una versione abbreviata di questo fatto. Un povero uomo aveva adottato per amore di Dio due orfani, un ragazzo affetto da idiozia, ed una ragazza afflitta da un gozzo che la rendeva impotente. Successe che il marito si ammalò gravemente. Anche l’idiota era disteso sul suo letto e si pensava che sarebbe morto. Improvvisamente si alzò e andò al letto del suo padre adottivo. « Padre mio – disse al suo benefattore – ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per me. » – « Che cosa dici, Mattia », esclamò la sorella col gozzo, che, come tutti i presenti, fu colta da un profondo stupore nel sentire una parola umana provenire da una bocca che fino ad allora aveva emesso solo suoni inarticolati. « Oh – disse l’idiota, tornando al suo letto, dopo aver baciato la fronte di suo padre – io me ne torno, torno a casa mia. » Mentre diceva questo, salì di nuovo sul letto, mise le braccia sul petto, guardò il cielo e fece un sospiro … l’ultimo. Mattia era morto, o meglio era tornato alla casa del Padre che è nei cieli).

4. Ci sono altre espressioni, spesso ripetute nei nostri libri sacri, che ci dimostrano in modo ancora più eloquente quanto sia reale questa filiazione, quanto sia sublime la rinascita. È prima di tutto la parola creazione che usano per esprimere l’origine dei figli adottivi di Dio. In seguito, sarà facile per noi capire a quale punto preciso l’adozione divina si avvicini ad un’azione creativa. Ci basti, in questo momento, dimostrare con alcuni passi quanto enfaticamente gli Apostoli abbiano usato questa parola per caratterizzare l’opera della nostra adozione spirituale. Paolo dice: « Ritornate all’uomo nuovo, che è stato creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità » (Efesini II, 8-10). E ancora: « Siamo opera sua, creati in Cristo Gesù per opere buone…. (ibid. IV, 24). Questo è ciò che disse ai Cristiani di Efeso. Lo stesso linguaggio è stato usato in Galati: « In Cristo Gesù non ha alcun valore né la circoncisione né l’incirconcisione, ma una nuova creazione » (Gal. VI, 15). « Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; ciò che era vecchio è passato; ora tutto è nuovo » (2 Cor. V, 17). Nello stesso senso, San Giacomo scrive a sua volta: «Ci ha generato volontariamente, affinché fossimo qualche inizio del suo essere » (Giac. I, 18). – Un testo doppiamente notevole, poiché, mentre ci ricorda la nostra generazione dalla grazia, la collega all’idea della creazione. – Inoltre, anche se gli altri testi non menzionano la filiazione adottiva, ci rimandano ad essa mettendoci davanti agli occhi l’idea di rinnovamento: perché l’uomo rinnovato è l’uomo che è diventato di nuovo figlio di Dio, da figlio dell’ira che era dopo la caduta originale. Così, il Battesimo in cui nascono i figli di Dio, è chiamato il Sacramento del rinnovamento. – È ancora S. Paolo che ce lo insegna in un luogo dell’epistola agli Ebrei, troppo spesso usata per sostenere dottrine senza speranza. « È impossibile che coloro che siano stati una volta illuminati – cioè i battezzati – (Il battesimo è chiamato illuminazione nei monumenti più antichi, perché fa passare coloro che lo ricevono dalle tenebre alla luce di Cristo, e dà loro, come nuovo organo per conoscere le cose di Dio, la virtù della fede. Martigny, dizionario, alla parola Battesimo.), hanno gustato il dono perfetto, e sono stati resi partecipi dello Spirito Santo… e che essendo caduti, sono rinnovati dalla penitenza, crocifiggendo di nuovo in se stessi il Figlio di Dio rinnovando i propri obbrobri. » (Ebr. VI. 4-6); cioè, è impossibile ricevere dalla ripetizione del Battesimo quel perfetto rinnovamento di vita che esso produce nelle anime. – Perché? Perché siamo battezzati nella morte di Cristo; perché il Battesimo è per noi la rappresentazione vivente della morte e della sepoltura dell’Uomo-Dio, in virtù della quale moriamo al peccato e siamo come sepolti spiritualmente con Cristo per rinascere a una vita nuova. Ora c’è stata una sola morte e una sola sepoltura per Cristo. Così anche il rinnovamento battesimale è unico. Questo è il modo in cui è stato esposto il nostro testo da S. Agostino (August. Expos. in. Ep. ad Rom. n. 19), Sant’Ambrogio (de Pænit., L. II, c. 2, n. 10 e 12), San Giovanni Damasceno, San Giovanni Crisostomo, Sant’Epifanio e molti altri, e San Tommaso dopo di loro (S. Theol. III p. q. 66, a 9, ecc.).  – Lo stesso apostolo aveva espresso più brevemente questa idea di rinnovamento per mezzo del Battesimo, quando lo chiamò « il lavacro di rigenerazione e di rinnovamento dello Spirito Santo » (Tit. III, 5). Nei Padri, come nella Sacra Scrittura, queste stesse idee di rinnovamento e rigenerazione spirituale sono frequentemente combinate o con quella della creazione, o con altre idee equivalenti. Facciamo alcuni esempi! S. Agostino, nella sua esposizione del Salmo 103, arriva a questo versetto: “O Signore, quale magnificenza nelle tue opere, e qual saggezza in tutto ciò che hai fatto: la terra è piena della vostra creatura. Repléta est terra creatura tua. Così portava la versione allora in uso, invece dell’espressione “possessione tua” che si legge nel testo attuale. « O Cristo – esclama – la terra è piena della tua creatura. E come, cosa noi vediamo? Cosa c’è che il Padre non abbia creato attraverso il Figlio? Tutto ciò che cammina o striscia sulla terra, tutto ciò che nuota nelle acque, tutto ciò che vola nell’aria, tutto ciò che rotola nel cielo, in una parola, il mondo intero è la creatura di Dio. Ma voi mi chiedete cosa intenda qui il salmista con questa nuova creatura di cui l’Apostolo dice: Se uno è in Cristo, è una nuova creatura: ciò che era vecchio è passato; ecco, tutto è nuovo. Ora tutte le cose sono di Dio (II Cor. V, 17-18). La nuova creatura che è stata fatta sono tutti coloro che, credendo in Cristo, si sono spogliati dell’uomo vecchio e si sono rivestiti del nuovo (Efesini 22, 24). – Una pagina dopo il santo Dottore ritorna al suo testo: « La terra era piena della tua creatura. Con quale creatura, Signore, l’hai riempito? Gli alberi, gli animali, tutto il genere umano, è la creatura di Dio che riempie la terra. Lo vediamo, lo conosciamo, e in questa conoscenza e vista lodiamo e glorifichiamo la maestà divina; e né la nostra lode né la nostra ammirazione eguagliano quella che sale nei nostri cuori alle opere del nostro Dio. Ma c’è un’altra creatura che è ancora più degna della nostra attenzione: quella di cui l’Apostolo ha detto: “Se in Cristo c’è una nuova creatura, allora le cose vecchie sono passate e tutto è diventato nuovo”. Quali vecchie cose sono passate? Tra i popoli, l’idolatria; tra i Giudei, la servitù della Legge con i Sacrifici che profetizzavano il nuovo Sacrificio. Allora era la vetustà dell’uomo; è venuto Colui che doveva rinnovare la sua opera, che doveva fondere di nuovo il suo oro e coniare una moneta a sua immagine. E vediamo la terra piena di Cristiani che credono in Dio, Cristiani che, rifiutando sia le loro precedenti impurità che le loro pratiche idolatriche, si volgono dalle vane speranze del passato alla speranza della Nuova Era. Se questo non è ancora la piena realtà, è un possesso anticipato nella speranza, e con la speranza già cantiamo e diciamo: La terra è stata riempita dalla tua creatura » (S. Agost. Serm. 3 in Ps. 103, n. 26; serm. 4, n. 3). Vorremmo estendere questi estratti dei Padri. Ma è sufficiente per il momento riportare brevemente alcune espressioni comuni che prendiamo in prestito dall’Oriente. Per Gregorio di Nazianzo la rigenerazione è una nuova formazione dell’immagine cancellata dalla colpa originale, opera e come creazione tutta divina (S. Greg. Naz. Orat. 40 de Baptis, n, 3, n. 4. P. Gr. T. 46, p. 584); per Gregorio di Nissa, un ritocco che va fino alla profondità dell’essere, una metamorfosi della nostra condizione di creatura umana in uno stato divino, un rinnovamento di tutto l’uomo interiore (S. Greg. Nys. Orat. de Bapt. Christi. Pat. Gr., t. 46, p. 584); per San Cirillo, un rifacimento che trasforma la creatura e la innalza gloriosamente al di sopra della sua natura (San Cirillo, Aless. In Joan III, 6. P G. t, 73, p. 245). Le parole non riescono a rendere in tutta la loro energia i termini impiegati dai nostri dottori. Possiamo dire, senza volerne esagerare la portata, che questi termini non sono talvolta né meno espressivi né meno forti di quelli con cui esprimono o la formazione naturale dell’uomo, o anche il cambiamento operato nell’augusto Sacramento dell’Eucaristia, tanto profondo e reale appare il loro il rinnovamento. Bisognerebbe ascoltare S. Zenone di Verona, nelle sue Invitationes ad Fontem – Invit. 3° ad neophitos post baptisma 3. P. L. t. 11, p. 478).

LA GRAZIA E LA GLORIA (4)

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (8)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (8)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO TERZO

L’INABITAZIONE DELLA TRINITÀ

(II)

2) Cosa vana sarebbe voler chiedere a suor Elisabetta della Trinità una dottrina rigorosamente sistematica, da lei stessa compilata ordinandone gli elementi. Essa ha vissuto da contemplativa i più alti misteri della fede, e specialmente il dogma della inabitazione divina, senza mai pretendere di fare l’ufficio di dottore o di teologo, anzi, senza nemmeno supporre il valore e la missione universale da Dio riservata ai suoi scritti. Nelle sue note intime, essa stessa rimanda ad alcuni passi di san Giovanni della Croce che l’hanno particolarmente colpita, in cui il santo Dottore, nel suo Cantico spirituale, tratta della natura e degli effetti di questa misteriosa presenza divina. Vi si ritrova la classica dottrina della teologia cattolica vista in un’altissima luce contemplativa: Dio è sostanzialmente presente in tutti gli esseri con la sua potenza creatrice; a questa presenza comune, si aggiunge una presenza speciale, nelle anime dei giusti c negli spiriti beati, come oggetto di conoscenza e di amore nell’ordine soprannaturale. Suor Elisabetta della Trinità aveva meditato a lungo questi testi ed aveva attinto da san Giovanni della Croce gli elementi di una dottrina mistica su questa intima presenza di Dio nell’anima dei giusti, dottrina che costituisce una delle più tradizionali e più consolanti verità del Cristianesimo. La Chiesa ne ha sempre riconosciuto la sorgente nell’insegnamento così chiaro di Gesù: « Se alcuno mi ama e custodisce la mia parola, il Padre mio lo amerà; e noi verremo a lui e stabiliremo in lui la nostra dimora» (S. Giovanni, XIV-23). Il testo è chiaro. Il Figlio e il Padre, come pure lo Spirito Santo, che è Uno con Essi, abitano nell’anima fedele. Tutto il mistero della generazione del Verbo e della spirazione dell’Amore si compie silenziosamente nelle più intime profondità dell’anima. La nostra vita spirituale diviene una partecipazione continua alla vita della Trinità in noi. L’anima, divinizzata dalla grazia di adozione, viene elevata alla divina amicizia e introdotta nella famiglia della Trinità per vivervi come il Padre, come il Verbo, come l’Amore e insieme con Essi, della medesima luce e del medesimo amore, « consumata in Essi, nell’Unità » (S. Giovanni, XVTI-23.). – Gesù, nella sua preghiera sacerdotale, ci ha lasciato la descrizione di questa vita deiforme delle anime perfette, ammesse al consortium della vita trinitaria: « Padre santo, custodisci nel nome tuo quelli che Tu mi hai dati, affinché siano Uno con noi… Che tutti siano una cosa sola, e come Tu, o Padre, sei in Me ed Io in Te, così anch’essi siano in noi… Siano Uno, come noi lo siamo: Io in loro e Tu in Me, affinché siano consumati nella unità… e l’amore col quale mi hai amato sia in essi, ed Io in loro» (S. Giovanni, XVII… 26). Dopo un discorso così esplicito del Maestro, che cosa vogliamo di più? Fra la Trinità santa e noi, non vi è, no, unità di natura — sarebbe panteismo —, ma unità per grazia, che ci associa, a titolo di figli adottivi, alla vita stessa del nostro Padre dei Cieli ad immagine del Figlio, in un medesimo Spirito d’amore. Senza la Trinità, l’anima è deserta; ma non lo è più quando, possedendo in sé le Persone divine, essa viene ad entrare « in società » (Epistola Giovanni, 3.) intima col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo mediante la fede e la carità. Le tre divine Persone sono lì, sostanzialmente presenti nell’anima del piccolo battezzato che, secondo l’espressione di san Paolo, è divenuto « tempio dello Spirito Santo ». Tutta la nostra vita spirituale, dal battesimo alla visione beatifica, si svolge come un’ascesa progressiva e sempre più rapida verso la Trinità; ma la visione beatifica e, più ancora, tutti gli stati mistici intermedi, anche quelli più elevati dell’unione trasformante, sono in germe nel Battesimo. – Non si riflette abbastanza sull’importanza primordiale di questa grazia del santo Battesimo alla quale siamo debitori di potere entrare, come figli adottivi, nella famiglia della Trinità. – Questa bella teologia dell’inabitazione divina è il substrato della dottrina spirituale e della vita mistica di suor Elisabetta, e ci permette di seguirla nelle più recondite pieghe dell’anima sua. Essa non ha bisogno, per comprenderla, di lunghe dissertazioni sul come sia possibile il mistero; per la via della sapienza infusa, in tutta semplicità ma con rara profondità di pensiero, suor Elisabetta aveva penetrato il senso della sua vocazione battesimale, aveva compreso che, fin da questa vita, era chiamata a vivere secondo la parola di san Giovanni a lei sì cara « in società » con la Trinità santa. Aveva anche composto per sua sorella, quasi come testamento, un intero ritiro per spiegarle come si può « trovare il paradiso sulla terra ». Quelle pagine, da lei scritte nelle ultime settimane di vita e consegnate a Margherita dopo la sua morte, costituiscono insieme all’intimo ritiro di Laudem gloriæ, quasi una piccola « Somma » della sua dottrina spirituale nella fase più evoluta. Ora, fin dalla sua prima orazione, suor Elisabetta, elevandosi all’altissima luce contemplativa della Preghiera sacerdotale di Cristo, considera il nostro soprannaturale destino secondo le parole stesse del suo Maestro che chiama le anime alla loro « consumazione nell’Unità » (S. Giovanni, XVII-23) della Trinità mediante la grazia. « Padre, io voglio che, dove sono io, anch’essi, quelli che Tu mi hai dati, siano meco, affinché contemplino la gloria che mi hai data, perché mi hai amato prima della creazione del mondo » (S. Giovanni, XVII-24). –  Questa è l’ultima volontà di Cristo, la sua preghiera suprema, prima di ritornare al Padre. Egli vuole che là dov’è Lui, ci siamo noi pure, non solo nell’eternità, ma già nel tempo che è l’eternità incominciata e in continuo progresso. È importante quindi sapere dove noi dobbiamo vivere con Lui, per realizzare il suo dono divino. Il luogo in cui si cela il Figlio di Dio è il seno del Padre, ossia l’Essenza divina, invisibile ad ogni sguardo mortale, inaccessibile ad ogni intelligenza umana, il che fa dire ad Isaia: « Tu sei veramente un Dio ascoso » (Isaia, XLV-15). E tuttavia, la sua volontà è che siamo fissati in Lui, che dimoriamo dove Egli dimora, in unità d’amore; che siamo, per così dire, la sua stessa ombra. « Col battesimo — dice san Paolo — noi siamo stati innestati in Gesù Cristo » (Romani, VI-5). E ancora: « Dio ci fece sedere nei cieli in Cristo Gesù, per mostrare ai secoli futuri le magnifiche ricchezze della sua grazia ». Poi soggiunse: « Voi non siete più pellegrini o stranieri; ma siete concittadini dei santi; siete della famiglia di Dio» (Efesini, II, 6, 7). « La Trinità! ecco la nostra dimora, la nostra cara intimità, la casa paterna da cui non dobbiamo uscire mai » (« Il paradiso sulla terra »).

3) Il luogo di questo incontro dell’anima col suo Dio è nell’anima stessa, nel centro più profondo del suo essere. I mistici chiamano mens o vertice dell’anima questo luogo recondito e segreto delle divine operazioni, dove Dio solo penetra e può agire; invece suor Elisabetta della Trinità, accostandosi di preferenza alla terminologia di santa Teresa e di san Giovanni della Croce, lo designa come « il centro dell’anima », il suo centro più profondo. « Questo cielo, questa casa del nostro Padre, è nel centro dell’anima nostra; quando ci troviamo nel centro più profondo di noi stessi, allora siamo in Dio » (Alla sorella -, Agosto 1905). « Per trovarlo, non abbiamo bisogno di uscirne, perché il regno di Dio è « dentro di noi» (S. Luca, XVII-21). San Giovanni della Croce dice che proprio nella sostanza dell’anima, inaccessibile al demonio e al mondo, Dio le si dona; allora, tutti i moti dell’anima diventano divini, e quantunque siano di Dio, sono però anche suoi, perché in lei e con lei il Signore li produce. San Giovanni dice ancora che « Dio è il centro dell’anima »; dunque, quando essa conoscerà Dio perfettamente, secondo tutta la sua capacità, quando Lo amerà, e ne gioirà pienamente, allora sarà arrivata nel centro più profondo che possa raggiungere in Lui. È vero che l’anima, anche prima di essere giunta a questo punto già si trova in Dio che è suo centro; ma non è ancora nel suo centro« più intimo » potendosi inoltrare di più. Poiché l’amore unisce l’anima a Dio, quanto più intenso è questo amore, tanto più profondamente essa penetra in Dio e in Lui si concentra. Possedendo anche un sol grado di amore, l’anima è già nel suo centro; ma quando questo amore avrà raggiunto la sua perfezione, essa sarà penetrata nel suo centro « più profondo »; e lì, sarà trasformata a tal punto, da divenire molto simile a Dio. A quest’anima che vive « interiormente » si possono rivolgere le parole del Padre Lacordaire a santa Maria Maddalena: « Non chiedere più il Maestro a nessuno, sulla terra, a nessuno nel cielo; perché Egli è l’anima tua, e l’anima tua è Lui» (« Il paradiso sulla terra » – 3a orazione.).

4) Questa divina presenza, misteriosa e reale, resta inaccessibile ai sensi: « Dio è spirito » e chi si avvicina a Lui, deve farlo « in ispirito e in verità » (S. Giovanni, IV-24). Con cura particolare, suor Elisabetta insiste nel rilevare che la sensibilità, in tutto questo, non ha nulla a che fare. La brama di sentire Dio è proprio lo scoglio dei principianti, nella vita spirituale; ma anche le anime più progredite nella perfezione provano talvolta molta e penosa difficoltà a liberarsi da tale desiderio che persiste, celandosi sotto i pretesti più sottili. Suor Elisabetta della Trinità aveva imparato, con la propria esperienza, a diffidare della sensibilità, e il ricordo delle dure purificazioni che, per tutto l’anno del noviziato, erano state quasi il suo pane quotidiano, serbava l’anima sua attenta a non cercare che la pace di Dio, la quale « supera ogni sentimento » (Filippesi, IV-7.). Dopo le prime inebrianti gioie sensibili della presenza divina di cui il Padre Vallée le aveva dato piena certezza, Elisabetta dovette ben presto aggrapparsi alla sua fede per trovare Dio presente dentro di sé. « Non più un velo soltanto, ma un grosso muro me Lo nasconde. È cosa dura, non ti pare, dopo averlo sentito così vicino? Ma sono pronta a rimanere in questo stato per tutto il tempo che piacerà al mio Diletto lasciarmici, perché la fede mi dice che Egli è qui lo stesso; e allora, che cosa importano le dolcezze, le consolazioni? Esse non sono Lui; mentre Lui solo noi cerchiamo. Andiamo dunque a Lui nella fede pura» (Lettera a M. G… – 1901).

5) Per progredire sicuramente in « questa via magnifica della presenza di Dio» (Ultimo ritiro – 9° giorno), la fede è l’atto essenziale, il solo che ci consenta di accedere al Dio vivo, ma ascoso. « Per avvicinarsi a Dio, bisogna credere » Hebr., XI-6), ci dice san Paolo; e soggiunge: «la fede è sostanza delle cose che dobbiamo sperare e convinzione di quelle che non vediamo » (Hebr., XI-1). Cioè, la fede ci rende talmente certi e presenti i beni futuri che, per essa, prendono quasi essenza nell’anima nostra e vi sussistono prima che ci sia dato fruirne. San Giovanni della Croce dice che la fede « è per noi il piede che ci porta a Dio », che è « il possesso allo stato di oscurità ». – Soltanto la fede può darci lumi sicuri su Colui che amiamo, può versare a fiotti nel nostro cuore tutti i beni spirituali; e noi dobbiamo eleggerla come il mezzo per raggiungere l’unione beatifica. È la fede quella « sorgente d’acqua viva, zampillante fino alla vita eterna » che Gesù, parlando alla Samaritana, prometteva a tutti quelli che crederebbero in Lui. La fede, dunque, ci dona Iddio fino da questa vita; ce lo dona, è vero, celato nel velo di cui l’avvolge, ma pur sempre Lui, Lui realmente. « Quando verrà ciò che è perfetto » (ossia la chiara visione) « ciò che è imperfetto » (o, in altre parole, la conoscenza dataci dalla fede) « avrà fine » (I Corinti, XIII-10). « Sì, abbiamo conosciuto l’amore di Dio per noi, e vi abbiamo creduto » (I S. Giovanni, IV-16.). Questo è il grande atto della nostra fede, il modo di rendere al nostro Dio amore per amore; è il segreto di cui parla san Paolo, ascoso nel cuore del Padre, e che riusciamo finalmente a penetrare; e tutto l’essere nostro esulta. Quando l’anima sa credere a questo « eccessivo amore » che su lei si posa, si può dire di lei, come già di Mosè, che « è incrollabile nella sua fede, come se avesse visto l’Invisibile » (Hebr. Ebrei, XI-27). Non si arresta più al gusto, al sentimento; poco le importa sentire Dio o non sentirlo, avere da Lui la gioia o la sofferenza; essa crede al suo amore e basta. Quanto più è provata, altrettanto cresce la sua fede, perché, forte di tutti gli ostacoli superati, va a riposarsi nel seno dell’Amore infinito, il quale non può compiere che opera d’amore. A quest’anima, tutta desta nella sua fede, la voce del Maestro può dire nell’intimo la parola che rivolgeva un giorno a Maria Maddalena: « Va’ in pace; la tua fede ti ha salvata » (« Il paradiso sulla terra »). – Suor Elisabetta fu fedele sino alla fine nell’andare a Dio con la fede pura. « Una Carmelitana — diceva — è un’anima di fede ». E, anche dopo la grazia. Straordinaria ricevuta nell’ultima festa dell’Ascensione che passò sulla terra, quando le tre divine Persone le si manifestarono, con irresistibile evidenza, presenti nell’anima sua ove tenevano notte e giorno « il loro onnipotente Consiglio » (Formula con la quale esprimeva alla sua priora la grazia dell’Ascensione del 1906), anche allora suor Elisabetta, reclusa nella solitudine dell’infermeria, dovrà cercare il suo Dio mediante la fede. È la condizione assoluta di ogni vita divina sulla terra. « Io sono la piccola reclusa del buon Dio; e quando rientro nella mia cara celletta per continuarvi il colloquio già iniziato, mi sento invasa da una gioia divina. Amo tanto la solitudine con Lui solo, e conduco una piccola vita di eremita, veramente deliziosa; eppure è ben lungi dall’essere esente da dolorose impotenze; ho tanto bisogno anch’’io di cercare il mio Signore che sa nascondersi così bene! Ma allora, risveglio la mia fede, e sono più contenta di non gioire, io, della Sua presenza, perché gioisca Lui, invece, del mio amore» (Alla sorella – 15 luglio 1906). La sua vita religiosa fu la realizzazione delle parole sentite nell’intimo, mentre pregava in coro, la notte che precedette la sua professione: «…il cielo nella fede, con la sofferenza e l’immolazione per Colui che amo » (Lettera al Canonico A… – Luglio 1903).

LA GRAZIA E LA GLORIA (2)

LA GRAZIA E LA GLORIA (2)

Del R. P. J-B. TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO PRIMO

IL FATTO E LA REALTÀ DELL’ADOZIONE DIVINA

CAPITOLO PRIMO

Il fatto dell’adozione divina; il suo rapporto con l’Incarnazione e con la filiazione naturale del Figlio unico di Dio.

1. – Non è solo un dogma di fede, ma una verità della ragione che la nostra condizione di creature ragionevoli ci obbliga con un dovere essenziale ad essere servi di Dio. Non è sovranamente giusto che l’opera appartenga al suo unico autore, e che la volontà limitata sia soggetta alla Volontà onnipotente che sola esiste? La fede va oltre: perché ci insegna che, in virtù della nostra discendenza e come membri della famiglia umana, siamo una razza degradata, figli dell’ira, natura filii iræ (Ephes. II, 31). Questa è la doppia condizione che la nostra natura e la nostra origine ci hanno dato. Cosa possiamo diventare per mezzo della misericordia divina ed il sangue di Gesù Cristo versato per noi? Figli di Dio per adozione! Chi ci assicura di questo? Dio stesso! E, certamente, non c’era bisogno di una testimonianza minore per convincerci di una verità così consolante, ma così incredibile per le piccole e miserabili creature che noi siamo. E così è: Dio ha voluto moltiplicare nelle Scritture le rassicurazioni esplicite che ci dà di tale gloriosa filiazione. Egli non ignorava che ci sarebbero stati uomini ciechi o ingrati che avrebbero detto di questa dottrina ciò che dissero i Cafarnaiti quando Gesù predicò loro la divina Eucaristia: « Questa parola è dura, e chi la può ascoltare … » (Joan., VI, 61). Tale è, infatti, la sfortunata condizione dell’uomo che si aggrappa alla bassezza, e il più delle volte ha aspirazioni solo per una falsa grandezza. Da qui sono venute queste ripetute negazioni di tutto l’ordine soprannaturale che si trovano in ogni pagina della storia del dogma cattolico, e di cui l’angelo ribelle ha dato il primo esempio. Questo è il motivo per cui noi dobbiamo, prima di ogni altra cosa, leggere e meditare quei passi dei nostri Libri santi in cui lo Spirito Santo, lo Spirito di Verità, ci ha rivelato nei termini più formali questi alti destini della nostra natura. Potremmo chiederci per quali ragioni il Figlio eterno del Padre porti il titolo di Primogenito, e vedremmo che una delle ragioni principali, a giudizio di San Paolo e dei Dottori (Rom. VIII, 29), è che Dio ha altri figli, e che questo frutto della fecondità del Padre ha dei fratelli. Non mi si dica che Gesù, sebbene sia l’unico della Vergine, sia anche chiamato il primogenito, perché questa unicità non mi impedisce di guardare la purissima Vergine Maria come vostra e mia Madre. Ma dobbiamo arrivare ad una testimonianza più decisiva. Vedete – scrive l’apostolo S. Giovanni (1 Gv. III, 2), – vedete quale amore il Padre ha avuto per noi per volerci chiamare figli di Dio, e lo siamo veramente. e che siamo davvero figli di Dio. Sì, miei cari, noi siamo già fin da ora figli di Dio. Ma quello che saremo un giorno non appare ancora. Sappiamo che quando verrà nella Sua gloria, saremo simili a Lui perché Lo vedremo come Egli è. E chi ha questa speranza in sé diventa santo, come Dio stesso è Santo. Noi l’abbiamo sentito: la nostra figliolanza divina è un nome, ma un nome che porta con sé la sua realtà. Questa grandezza è oggi coperta ai nostri occhi, ma un giorno, nello splendore del Figlio unigenito, apparirà come realmente è: la rappresentazione viva e fedele della sua stessa figliolanza. – San Paolo parla non meno chiaramente del discepolo prediletto: « Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, formato da una donna, soggetta alla legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione di figli. E poiché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del suo Figlio nei vostri cuori, gridando: “Abba, Padre“. Nessuno di voi è più schiavo, ma figlio; e se siete figli, siete eredi di Dio (Gal. IV, 4-7). » Ora quello che scriveva ai fedeli della Galazia, lo stesso Apostolo aveva scritto a quelli di Roma: « Quanti sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. Voi non avete ricevuto di nuovo (come i Giudei) lo spirito di schiavitù e di timore, ma avete ricevuto lo Spirito di adozione dei figli in cui si grida: “Padre, Padre”. Perché lo Spirito stesso testimonia al nostro spirito che siamo figli di Dio. Se dunque figli, anche eredi; eredi di Dio, coeredi con Gesù Cristo. Se tuttavia soffriamo con Lui, è per essere glorificati con Lui (Rom. VIII, 14-17; col. Ephes- I, 12, 44) » E questa filiazione, più autenticamente e splendidamente rivelata nella nuova legge, i profeti dell’Antico Testamento l’avevano intravista e salutata come una speranza in epoche lontane: testimonianza ne è questo oracolo di Osea: « E verrà il tempo in cui gli uomini sentiranno questa parola: voi non siete il mio popolo; essi saranno chiamati figli del Dio vivente (Os. I, 20). » Ma che bisogno c’è di interrogare ancora gli scrittori ispirati, quando abbiamo la parola del Figlio unico di Dio stesso? Ascoltiamolo: ci insegnerà a pregare come figli: “Padre nostro, che sei nei cieli” (Mt. VI, 11). Più tardi, apparendo a Maddalena, la incarica di annunciare la Sua resurrezione. Va’ – le ordina – va’ a dire ai miei fratelli: “Salgo al Padre mio e Padre vostro” (Gv. XX, 17). Avere Dio per padre e Gesù Cristo per fratello, non è questo essere figlio di Dio? Tuttavia, le ultime parole del Salvatore ci fanno già capire che la nostra filiazione, pur essendo simile alla Sua, non è uguale ad essa. « Io salgo – dice – al Padre mio e Padre vostro ». Non dice: al Padre nostro. È perché la filiazione nostra è filiazione al di sotto della filiazione del Verbo di Dio. – Questa è la dottrina delle nostre Sacre Lettere. Dio ha un solo Figlio secondo natura; ed è perciò che questo Figlio è chiamato il Figlio unico di Dio, il Figlio proprio di Dio, il vero Figlio nella pienezza del termine; Dio da Dio, luce da luce, splendore infinito della gloria paterna; generato da tutta l’eternità, perché da tutta l’eternità il Padre gli comunica con un atto ineffabile la sua propria e semplicissima essenza, senza divisione o moltiplicazione. – Ed ecco perché il Figlio può dire al Padre: «Tutto ciò che è mio è tuo; e tutto ciò che è tuo è mio » (Gv. XVI, 15; Col. VII, 16). Tutto è comune, tutto è identico, sostanza, natura, perfezione, operazione; tutto, tranne la distinzione delle Persone. – Quale creatura, per quanto perfetta, potrebbe senza follia tenere un tale linguaggio? Lungi da noi quell’empietà sacrilega che condivideva l’essenza divina e forgiava gli dei dagli dei con una comunicazione di natura analoga a quella che avviene nelle generazioni umane. Lungi da noi anche quel sogno dei falsi mistici per i quali la produzione di figli di Dio consisteva in non so quale flusso della sostanza del giusto nella sostanza di Dio per essere trasformato in essa, come il pane è cambiato nel corpo di Gesù Cristo (“Nos transformamur totaliter in Deum et convertimur in simil modo sicut panis convertitur in corpus Christi, sic ego convertor in eum…” è la n. 10 tra le proposizioni di Ekard condannate da Giovanni XXII -1329 -. Vedi anche gli articoli seguenti). La nostra filiazione non è dunque una filiazione naturale. Trovo nelle Sacre Scritture una filiazione molto diversa. « Chi è il padre della pioggia e chi ha generato le gocce di rugiada? » chiede il Signore al santo patriarca Giobbe (Giobbe XXXVIII, 8). E altrove, Mosè, rivolgendo i suoi rimproveri al popolo d’Israele: « Non è – egli dice – vostro Padre che vi ha posseduto, che vi ha fatto, che vi ha creato (Deuter. XXXII, 6)? » Filiazione basata sulla somiglianza naturale delle creature a Dio, il loro primo principio: tanto più elevato, tanto più perfetto, quanto maggiore è la somiglianza, e quanto più brillantemente le perfezioni dell’Operatore divino risplendono nelle perfezioni della sua opera (S. Thom. 1 p., q. 33, a. 1). – Né è questa la figliolanza che ci è promessa e che ci è data. Perché per quanto alte e sublimi possano essere le perfezioni ricevute da Dio, l’Autore della natura spirituale, la creatura che le possiede può ancora sentirsi dire, a sua eterna disgrazia: «Voi non siete nel numero dei miei figli; ritiratevi, non vi conosco. » – Cos’è dunque questa filiazione che è adatta solo alle creature ragionevoli e, tra gli esseri intelligenti, solo ai giusti, gli amici di Dio? Ancora una volta, è una filiazione basata non sull’atto della generazione naturale, non sull’operazione creativa degli esseri, ma su un’adozione di grazia: questa è la figliolanza che San Paolo ci ha già nominato con il suo stesso nome e che ricorda costantemente ai fedeli: « Sia benedetto Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetto con ogni benedizione spirituale per i cieli in Cristo. Come Egli ci ha scelti in Lui prima della costituzione del mondo, affinché fossimo santi e immacolati al suo cospetto nell’amore; Egli ci ha predestinati ad essere figli adottivi per mezzo di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà (Ef. I, 3-5). » – Figli di Dio per grazia e per adozione, questo è il nostro titolo e la nostra gloria, se rimaniamo fedeli al Dio che ci ha scelti.

2. – Il testo appena riportato ci invita a risalire alla Fonte da cui ci è giunto questo incomparabile beneficio della nostra adozione. È dall’Incarnazione dell’unico Figlio di Dio e, per innalzarci ancora più in alto, dal libero e beneplacito volere del Padre. Meditiamo su queste due verità alla luce dei nostri Libri Santi e degli scritti dei Padri. Se c’è una cosa chiaramente stabilita nei sacri monumenti della nostra fede, è che l’Incarnazione fu fatta in vista della nostra filiazione adottiva. S. Giovanni lo afferma all’inizio del suo Vangelo. Dopo aver magnificamente descritto gli eterni splendori del Verbo: « Venne tra i suoi – dice – e i suoi non lo ricevettero. Ma a tutti quelli che l’hanno accolto, ha dato il potere di essere fatti figli di Dio, a quelli che credono nel suo Nome; i quali non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio (Gv. I, 11-13). » L’insegnamento di San Paolo risponde a quello del discepolo amato. Abbiamo già sentito da Lui: « Dio, nella pienezza del tempo, mandò il suo Figlio, progenie di donna, nato sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione di figli (Gal. IV, 4-5) ». Questo è dunque il motivo per cui il Verbo si è fatto carne, e il grande bene che è venuto dal cielo a portare alla razza umana decaduta: l’adozione dei figli. Ecco perché è nato, perché ha sofferto, perché è morto su una croce. – I Padri non si stancano di ritornare su questo pensiero apostolico e divino. Sarebbe impossibile trascrivere qui tutto quello che essi dicono. Accontentiamoci di qualche testimonianza tra mille altre. « Perché – chiede San Bernardo – il Figlio di Dio si è fatto uomo, se non per fare degli uomini tanti figli di Dio (Serm. 1, De Nativ., 15)? » S. Agostino aveva già detto quasi negli stessi termini: « Il Figlio di Dio, il suo Unico generato secondo natura, per una meravigliosa condiscendenza si è fatto Figlio dell’uomo, affinché noi, che siamo figli dell’uomo per natura, potessimo diventare figli di Dio per grazia sua » (S. Agostino de Civit. Dei. 1. XXI, c.15). E ancora: « Vediamo un gran numero di uomini avere figli per adozione: ma ciò che li spinge a farlo è la necessità di supplire per libera scelta al difetto di natura che ha negato loro i figli. Se hanno un figlio unico, si guardano bene dal cercargli compagni che dividano con lui l’eredità e lo impoveriscano di conseguenza. Così fanno gli uomini; ma non così il nostro grande Dio. Colui attraverso il quale ha prodotto ogni creatura, l’ha mandato in questo mondo, volendo che non rimanesse solo, ma che avesse dei fratelli per adozione (S. Aug. Tr. II in Joan. I) ». – I Padri greci fanno eco a quelli della Chiesa latina, come attesta Ireneo, il grande dottore venuto dall’Oriente per illuminare i Galli: « Se il Verbo si fece carne, e il Figlio eterno del Dio vivente si fece Figlio dell’uomo, fu perché l’uomo, entrando in società con il Verbo e ricevendo l’adozione, diventasse figlio di Dio  (S. Iren. c. Hæres. L. III, c. 49, n. 1. Patrol. Græc. – ed. Migne) ». Mi appello di nuovo a San Giovanni Crisostomo. Egli spiegava al suo popolo il capitolo di San Matteo che riporta la genealogia di Nostro Signore. Improvvisamente esclama con eloquente trasporto: « Non è cosa che dovrebbe gettarci nello stupore il vedere il Dio ineffabile, impronunciabile, incomprensibile, uguale in tutto e per tutto a suo Padre, nato nel grembo di una vergine e che conta Abramo e Davide tra i suoi antenati? Che dico, Abramo e Davide? Anche le donne colpevoli di cui ho parlato prima. Al contrario, sii pieno di ammirazione senza limiti quando vedi il vero Figlio dell’eterno Dio degnarsi di chiamarsi Figlio di Davide, per renderti figlio di Dio; riconoscere come padre un servo, uno schiavo, in modo che tu stesso, schiavo e servo, possa veramente chiamare Dio tuo Padre. Vedete ora cosa sono i Vangeli? Avete qualche dubbio sull’incomparabile onore che vi promettono? Bene allora! Lasciate che gli abbassamenti del Figlio di Dio vi insegnino a credere nella vostra elevazione. – In effetti, agli occhi della mente umana è più difficile fare di un Dio un uomo che di un uomo un figlio di Dio. Quando, dunque, sentirete dire che il Figlio di Dio è il figlio di Davide e di Abramo, non dubitare che voi, figli di Adamo, possiate diventare figli di Dio. Perché se Dio si è umiliato fino a questo eccesso, non è stato per un nulla, ma per elevarci alle più sublimi altezze. Egli è nato secondo la carne, perché tu rinasca secondo lo spirito; è nato da una donna, perché tu non sia più figlio della donna. – Ecco quindi due generazioni, una che assomiglia alla nostra, l’altra che la supera infinitamente. Nascere da donna è ciò che ci è proprio; nascere non da sangue, non dalla volontà dell’uomo e della carne, ma da Dio, è la generazione suprema che ci aspettiamo dallo Spirito (S. J. Chrysost. in Matt., hom. 2, n. 2 Pat. G. t. 57, p. 26) ». – San Cirillo di Alessandria sviluppa la stessa dottrina con una varietà sorprendente, specialmente nei suoi commenti sul Vangelo di San Giovanni. Citiamo per esempio quello che ha scritto su questo testo dell’Apostolo: « Egli ha dato loro il potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo Nome (Gv. I, 12) ». – « Il Figlio di Dio è venuto per dare loro il potere di essere per grazia ciò che Egli è per natura, e per rendere comune ciò che è suo: tanto è grande la sua bontà verso gli uomini, tanto è grande la sua carità verso il mondo. Era impossibile per noi, che portiamo l’immagine dell’uomo terreno, sfuggire alla corruzione, se non potessimo ricevere impressa nelle nostre anime la bellezza dell’immagine celeste; cioè, se non fossimo chiamati all’adozione dei figli di Dio. Essendo diventati partecipi del Figlio unigenito per mezzo dello Spirito Santo, abbiamo ricevuto il sigillo della sua somiglianza, conformandoci così a quell’immagine divina in cui, come attestano le Scritture, siamo stati fatti. È così che, recuperando l’antica bellezza della nostra natura, e riformati sulla natura stessa di Dio, sfuggiremo ai mali causati dalla prevaricazione originale. Così, dunque, ci innalziamo alla dignità soprannaturale – « Eppure non è stata rimossa ogni differenza tra noi e Lui. Perché se diventiamo figli di Dio, è a sua somiglianza, in virtù della grazia che ci rende a sua immagine. Egli è il vero Figlio che procede eternamente dal Padre, e noi siamo solo figli di adozione, ammessi per privilegio e senza merito a questo onore incomparabile. Io l’ho detto: Voi siete dei e figli dell’Altissimo (Sal. LXXXI, 6). Perché la natura creata, e di conseguenza lo schiavo, è chiamato ai beni soprannaturali solo dal beneplacito e dalla volontà del Padre. Il Figlio, al contrario, Dio e Signore, non è né Dio né Signore per questo beneplacito e questo libero volere; Splendore scaturente dalla sostanza del Padre, ne possiede tutta la perfezione in virtù della sua stessa natura. È confrontandolo con noi che lo conosciamo come il vero Figlio. Perché altro è ciò che si basa sulla natura, altro ciò che viene dall’adozione; altro limite, altra verità. Siamo figli di Dio per adozione e per imitazione; Egli lo è per natura e secondo la pienezza della verità. Così rimane l’opposizione: da una parte la dignità naturale, dall’altra il favore e la grazia. » – Il santo dottore, continuando il suo commento, passa al tredicesimo versetto dello stesso capitolo, dove si legge: « Che non sono nati dal sangue, né dalla volontà della carne, né dalla volontà dell’uomo, ma da Dio », e su queste parole Continua: « Quelli – dice l’Evangelista – che per mezzo della fede in Gesù Cristo sono stati chiamati all’adozione dei figli di Dio, mettono da parte l’umiltà della propria natura e, rivestiti pienamente della grazia di Dio come di una veste di luce ineffabile, si elevano ad una dignità soprannaturale. Perché non saranno più considerati come figli della carne, ma piuttosto come la stirpe adottata da Dio. Osservate, tuttavia, la prudenza dell’Evangelista. Stava per dire che i fedeli erano nati da Dio: temendo che il lettore fraintendesse queste parole e giungesse a credere o che essi fossero della sostanza di Dio Padre, come l’Unico, o che questo Unico fosse egli stesso impropriamente generato dal Padre, e quindi creato come loro, prende precauzioni contro un’interpretazione così pericolosa. E come, vi chiederete? In due modi: essi hanno ricevuto – dice – il potere di diventare figli di Dio, e l’hanno ricevuto dal Figlio: per cui è evidente che essi sono nati da Dio per adozione e per grazia, e che Egli è il Figlio per natura » (S. Cirillo Alex., L. I in Joan. P. Gr, vol. 73, p. 153 ss).

3. – Avevo intenzione di fermarmi a quest’ultimo testo: ma è impossibile per me non tornare ancora a Sant’Agostino per sentire da lui come siamo adottati e perché la nostra filiazione sia un’opera della grazia. Volendo far luce sulla nostra rinascita spirituale, la grazia del Nuovo Testamento, come la chiama lui, il grande Dottore ci rimanda al testo di San Giovanni: « A tutti quelli che lo hanno ricevuto, ha dato il potere di diventare figli di Dio. » (Gv. I, 12-13). « Questa – dice – è la grazia della nuova Alleanza, che era latente nella vecchia Alleanza, senza che Dio cessasse di annunciarla in profezie e figure, affinché sotto il velo l’anima possa conoscere Dio e rinascere a Lui per mezzo della sua grazia. È una nascita spirituale: quindi non è del sangue, né della volontà dell’uomo, né della volontà della carne, ma da Dio. Si chiama anche adozione, perché prima di essere figli di Dio eravamo già qualcosa, ed è per un grande beneficio che siamo diventati ciò che non eravamo. Così il figlio adottivo non era ancora, prima dell’adozione, un figlio del padre che lo avrebbe adottato; ma esisteva già come soggetto dell’adozione. – A questa generazione secondo la grazia non appartiene Colui che, essendo il Figlio di Dio per natura, è venuto a farsi Figlio dell’uomo e a dare a coloro che sono figli degli uomini per natura, di essere figli di Dio. È diventato ciò che non era, ma prima di diventarlo, era qualcosa; che cosa allora? il Verbo di Dio per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte, la vera luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo, Dio da Dio e Dio in Dio. E anche noi, per la sua grazia, siamo diventati ciò che non eravamo, cioè figli di Dio; eppure eravamo qualcosa di infinitamente più umile, voglio dire: figli degli uomini. La sua discesa, dunque, è la nostra ascesa: rimanendo nella sua natura, Egli si è fatto partecipe della nostra, affinché, rimanendo nella nostra natura, partecipassimo alla sua. Ma le condizioni non sono uguali: perché la partecipazione della nostra natura non l’ha degradato, mentre partecipando alla sua natura siamo ottimamente nobilitati… – « E perché non osassimo aspirare a questo eccesso di onore, l’Apostolo, dopo averci parlato di questa meravigliosa rinascita, aggiunge: E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; come se dicesse: Uomini, non temete di non poter diventare figli di Dio, perché il Figlio stesso di Dio, il Verbo di Dio, si è fatto carne per essere come uno di voi. Quindi fate lo stesso per Lui. Diventate a vostra volta spirituali in Colui che, divenuto carne, è disposto ad abitare in voi. No, l’uomo non deve disperare di non essere giammai figlio di Dio attraverso la partecipazione del Verbo, quando il Figlio di Dio stesso è diventato figlio dell’uomo attraverso la partecipazione della nostra carne » (S. August., ep. ad Honorat., 140, n. 9-11).  Questo, dunque, è il fine immediato dell’unione del Figlio eterno con la nostra natura: fare dell’uomo un figlio adottivo di Dio. Non si obietti che la Sacra Scrittura e la Tradizione cattolica assegnino spesso a questa unione tre scopi: lo scopo della riparazione, lo scopo della liberazione, lo scopo della riconciliazione per l’uomo colpevole e decaduto: perché tutte queste cose si riferiscono naturalmente alla filiazione che ci viene restituita da Cristo Redentore. Non dimentichiamo il mistero della nostra prima origine, né la disgrazia della nostra caduta. In quella caduta siamo usciti dalle mani di Dio, splendenti della gloria dei figli di Dio; in quella caduta siamo stati spogliati delle nostre prerogative e ridotti alla miserabile condizione di figli dell’ira. Per elevarci, per ristabilire la nostra dignità così tristemente e totalmente perduta, dovevamo soddisfare alla giustizia divina, riscattare il colpevole e guadagnare l’amicizia di Dio. Solo a questa condizione Dio ci ha ricevuto in grazia e ci ha riaperto il suo seno paterno. Né si obietti che il fine ultimo del grande mistero del Verbo incarnato è la manifestazione della gloria di Dio attraverso il prodigio della sapienza, della giustizia, della potenza e della bontà che Egli offre all’ammirazione degli Angeli e degli uomini. È vero che queste perfezioni divine brillano di un bagliore incomparabile – cieco chi non lo veda; stolto che lo neghi – ma è piaciuto al nostro grande Dio di collegare questa manifestazione della sua gloria indissolubilmente con la salvezza della nostra natura; e la salvezza di questa natura non sarà più la natura di uno schiavo e di un essere degradato, ma quella di un figlio di Dio. Infine, non si neghi che il frutto supremo dell’incarnazione per gli uomini redenti debba essere il pieno possesso di Dio nella beatitudine eterna, poiché questa pienezza di gloria e di gioia non è che l’ultima perfezione ed il compimento completo dei figli di adozione. – Quanto grande, dunque, quanto ammirevole è questa grazia della filiazione divina, poiché il Figlio eterno del Padre non ha creduto di poter pagare un prezzo troppo alto per essa con il suo annientamento e lo spargimento del suo sangue immacolato!

(Ecco due testi del Papa S. Leone Magno che riportano felicemente alle idee espresse in questo primo capitolo: « Dum Salvatoris nostri adoramus ortum invenimur nos nostrum celebrare principium. Generatio enim Christi origo est populi christiani. Habeant licet singuli quique vocatorum ordinem suum, et omnes Ecclesiae filii temporum sint successione distincti, universa tamen summa fidelium, fonte orta baptismatis, sicut cum Christo in passione crucifixi, in resurrectione resuscitati, in ascensione ad dexteram Patris collocati, ita cum ipso sunt in nativitate congeniti. Quisquis enim hominum in quacumque mundi parte credentium regeneratus in Christo, interciso originalis tramite vetustatis, transit in novum hominem renascendo, nec jam, in propagine habetur carnalis partis, sed in germine Salvatoris, qui ideo Filius hominis est factus, ut nos filii Dei esse possimus ». Serm. in Nat. Dom. 6. P. L. t. 54, p. 243. Ed ancora:

« Quamvis enim ex una eademqu  e pietate sit quidquid creaturae Creator impendit, minus tamen mirum est homines ad divina proficere, quam Deum ad humana descendere », Serm. in Nat. D. 4, c. 2, Ibid., p. 204).

LA GRAZIA E LA GLORIA (3)