DOMENICA XIII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XIII dopo PENTECOSTE (2020)

La Chiesa ci fa leggere in questo tempo nel Breviario il principio del libro dell’Ecclesiaste: « Vanità delle vanità, dice l’autore sacro, tutto è vanità. Si dimentica ciò che è passato, e le cose. che debbono ancora venire non lasceranno ricordi presso quelli che verranno più tardi. Io ho vedute tutte le cose che avvengono sotto il sole, ed ecco che sono tutte vanità e afflizione dell’anima. I perversi difficilmente si correggono e infinito è il numero degli insensati » (7° Nott.). « Dopo che Salomone poté contemplare la luce della vera sapienza, dice S. Giovanni Crisostomo, uscì in questa esclamazione sublime e degna del cielo: « Vanità delle vanità, tutto è vanità! ». A vostra volta, se volete, potete rendere simile testimonianza. È vero che nei secoli passati, Salomone non era tenuto ad una diligente ricerca della sapienza, poiché l’antica legge non considerava vanità il godimento dei beni superflui; tuttavia, malgrado questo stato di cose, si può vedere quanto siano vili e dispregevoli. Ma noi, chiamati a virtù più perfette, saliamo a cime più alte, ci esercitiamo in opere più difficili. Che dire di più se non che ci è stato comandato di regolare la nostra vita su virtù celesti, che non hanno nulla di materiale e che sono tutta intelligenza? » (2° Nott.). Queste virtù celesti sono per eccellenza, le tre virtù teologali: « fede, speranza, carità » che l’Orazione ci fa chiedere a Dio affinché noi « non amiamo se non quello che Egli ci comanda ». Ed è per questo motivo che la Chiesa fa leggere in questo giorno [‘Epistola di S. Paolo ai Corinti, che ha per oggetto la fede in Gesù Cristo, fede che agisce mediante la carità e che ci fa mettere, come già Abramo, la nostra speranza nel divino Salvatore. Infatti solo per questa fede operante e confidente, le anime coperte dalla lebbra del peccato vengono guarite come ci mostra il Vangelo. I dieci lebbrosi che rappresentano in qualche modo le trasgressioni fatte dagli uomini ai dieci comandamenti, scorgono il loro divino Medico e, ponendo subito in Lui ogni speranza: « Maestro, abbi pietà di noi! » gridano. La fede loro è operante, perché quando Cristo li mette alla prova dicendo: « Andate, mostratevi ai sacerdoti », essi vanno senza esitare e, andando, sono guariti. Ma questa guarigione è confermata da uno solo di quelli che tornò indietro per mostrare la sua riconoscenza a Gesù. « Quando uno di essi si vide guarito, tornò sui suoi passi, glorificando Dio ad alta voce e cadendo con la faccia a terra ai piedi di Gesù, lo ringraziò ». Gesù allora gli disse: « Va, la tua fede ti ha salvato ». Questo mostra che è la fede in Gesù che salva le anime. Ora se è la fede in Gesù che salva le anime, la Chiesa ha precisamente da Gesù la missione di far penetrare nelle anime questa fede mediante la predicazione e la lettura. Questo passo del Vangelo ci indica anche l’espulsione dei Giudei che sono stati ingrati verso Colui che era venuto per guarirli, mentre i Gentili gli sono stati fedeli. Dei dieci lebbrosi infatti  nove erano Giudei e uno solo non lo era, ed è a questo solo — che era Samaritano, e tornò indietro a ringraziare il Salvatore — che Gesù dice: La tua fede t’ha salvato. Da ciò si vede non essere soltanto ai figli d’Abramo secondo il sangue che è stata fatta questa promessa, ma ancora a tutti coloro i quali sono suoi figli perché partecipi della sua fede in Gesù Cristo. Infatti è per questa fede che la promessa di vita eterna fatta ad Abramo si estende a tutti i popoli. Così l’Orazione della III Profezia del Sabato Santo dice che « col Battesimo, Dio, moltiplicando i figli della promessa stabilisce Abramo, suo servo, padre di tutte le genti secondo la profezia ». « Fate, soggiunge la quarta Orazione, che tutti i popoli della terra diventino figli d’Abramo e partecipino della grandezza toccata in sorte al popolo d’Israele». I Gentili occupano dunque il posto dei Giudei. « I nove, commenta S. Agostino, gonfi d’orgoglio, credevano di umiliarsi col ringraziare; e non ringraziando sono stati riprovati e rigettati dall’unità che si trova nel numero dieci (vi erano dieci lebbrosi), mentre l’unico che ringrazia è approvato dall’unica Chiesa. — Così per il loro orgoglio, i Giudei perdettero il regno dei cieli dove regna la più grande unità; mentre il Samaritano, sottomettendosi al re col suo ringraziamento, ha conservata l’unità del regno per la sua devozione piena di umiltà» (Mattutino). I Giudei entreranno in massa nel regno dei cieli alla fine del mondo, allorché crederanno in Gesù, ed è a ciò cui fa allusione l’Introito quando essi chiedono che la loro esclusione dalla Chiesa non sia irrevocabile: « Ricordati, o Signore, della tua alleanza, non abbandonare le anime dei poveri alla fine.  Perché, o Dio, ci hai rigettati? Perché la tua collera si è accesa contro le pecore del tuo ovile? ». E la Chiesa chiede a Dio « d’essere propizio al suo popolo, e, placato dal sacrificio che gli viene offerto, di perdonare la sua ingratitudine » (Secr.). Quanto ai Gentili, essi dicono a Gesù che ripongono in Lui tutta la loro speranza (Off.) perché si è fatto loro rifugio di generazione in generazione (All.) e li nutre del suo pane celeste, come fece per gli Ebrei nel deserto, allorché dette la manna che conteneva ogni sapore ed ogni dolcezze (Com.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXIII: 20; 19; 23
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te.

[Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le anime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]

Ps LXXIII: 1

Ut quid, Deus, reppulísti in finem: irátus est furor tuus super oves páscuæ tuæ?

[Perché, o Signore, ci respingi ancora? Perché arde la tua ira contro il tuo gregge?]

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te.

[Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, da nobis fídei, spei et caritátis augméntum: et, ut mereámur asséqui quod promíttis, fac nos amáre quod præcipis.

[Onnipotente e sempiterno Iddio, aumenta in noi la fede, la speranza e la carità: e, affinché meritiamo di raggiungere ciò che prometti, fa che amiamo ciò che comandi.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti S. Pauli Apóstoli ad Gálatas.

[Gal. III: 16-22]

“Fratres: Abrahæ dictæ sunt promissiónes, et sémini ejus. Non dicit: Et semínibus, quasi in multis; sed quasi in uno: Et sémini tuo, qui est Christus. Hoc autem dico: testaméntum confirmátum a Deo, quæ post quadringéntos et trigínta annos facta est lex, non írritum facit ad evacuándam promissiónem. Nam si ex lege heréditas, jam non ex promissióne. Abrahæ autem per repromissiónem donávit Deus. Quid igitur lex? Propter transgressiónes pósita est, donec veníret semen, cui promíserat, ordináta per Angelos in manu mediatóris. Mediátor autem uníus non est: Deus autem unus est. Lex ergo advérsus promíssa Dei? Absit. Si enim data esset lex, quæ posset vivificáre, vere ex lege esset justítia. Sed conclúsit Scriptúra ómnia sub peccáto, ut promíssio ex fide Jesu Christi darétur credéntibus”.

[“Fratelli: Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua discendenza. Non dice la scrittura: E ai suoi discendenti, come si trattasse di molti; ma come parlando di uno solo: E alla tua discendenza; e questa è Cristo. Ora, io ragiono così; un’alleanza convalidata da Dio non può, da una legge venuta quattrocento anni dopo, essere annullata, così da rendere vana la promessa. Poiché, se l’eredità viene dalla legge, non vien più dalla promessa. Ma Dio l’ha donata ad Abramo in virtù d’una promessa. Perché dunque la legge? È stata aggiunta in vista delle trasgressioni, finché non venisse la discendenza a cui era stata fatta la promessa, e fu promulgata per mezzo degli Angeli per mano di un mediatore. Ora non si dà mediatore di uno solo, e Dio è uno solo. Dunque la legge è contraria alle promesse di Dio? Niente affatto. Se fosse stata data una legge capace di procurarci la vita, allora, sì, la giustizia verrebbe dalla legge. Ma la Scrittura ha racchiuso tutto sotto il peccato, affinché la promessa, mediante la fede in Gesù Cristo, fosse data ai credenti»”.

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

UNO SGUARDO AL CROCIFISSO

S. Paolo aveva insegnato ai Galati che la giustificazione non dipende dalla legge di Mosè, ma dalla fede in Gesù Cristo, morto per noi in croce. Ma Gesù Crocifisso. dipinto tanto vivamente dall’Apostolo ai Galati, era stato ben presto dimenticato da essi, lasciatisi affascinare da coloro che insegnavano dover noi attendere la nostra salvezza dalla legge. S. Paolo, rimproverata la loro stoltezza, nota come Gesù, morendo sulla croce, maledetta dalla legge, libera i Giudei dalla maledizione, e conferisce a tutti, Giudei e Gentili, che si uniscono nella fede in Gesù Cristo, lo Spirito promesso. Passa poi a far osservare come vediamo nell’epistola di quest’oggi, che la promessa dei beni celesti, fatta ad Abramo e alla sua discendenza. cioè al Cristo, nel quale si sarebbero unite tutte le nazioni a formare un solo popolo, essendo incondizionata, fatta ad Abramo direttamente da Dio, e da Dio confermata, aveva tutto il carattere d’un patto irremissibile. Non poteva, quindi, venir indebolita o modificata dalla legge di Mosè venuta 430 anni dopo, con un contratto temporaneo. La legge, del resto, non escludeva la promessa, dal momento che essa non poteva giustificare e dare la vita, come fa la promessa. E neppure fu inutile; perché, facendo conoscere i numerosi doveri da compiere, senza porgere l’aiuto necessario, metteva l’uomo nella condizione di dover sperimentare tutta la propria debolezza e di sentir la necessità d’un Redentore; e di riconoscere, per conseguenza, che le celesti benedizioni non possono essere effetto della legge, ma della promessa, e che non si ottengono che con la fede in Gesù Cristo. Gesù Cristo, che morendo in croce, adempie le promesse fatte da Dio, sarà l’argomento di questa mattina. – Gesù Cristo Crocifisso, così presto dimenticato dai Galati, fermi la nostra attenzione. Consideriamo come il Crocifisso:

1. È il centro dei cuori

2. È la nostra guida,

3. È la causa della nostra salvezza.

1.

La legge mosaica non ci dà l’eredità né le benedizioni promesse, Essa è stata aggiunta in vista delle trasgressioni, finché non venisse la discendenza a cui era stata fatta la promessa. La legge aveva lo scopo di indicare le trasgressioni e di far sentire il peso dei peccati, risvegliando così e tenendo desta l’aspirazione al Salvatore, senza la grazia del quale era impossibile l’osservanza dei precetti. L’eredità e le benedizioni noi le abbiamo in Gesù Cristo, che muore per noi sulla croce. Dopo la risurrezione di Lazzaro, i pontefici e i farisei, che volevano sbarazzarsi di Gesù, radunato il consiglio, si pongono la domanda: «Che facciamo? Poiché quest’uomo opera grandi meraviglie. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui». E Caifa, il pontefice di quell’anno, consiglia di disfarsene: «Conviene che un uomo muoia per il popolo» (Joan. I, 47). Che cosa si aspettavano costoro dalla morte di Gesù? Forse di seppellirne col corpo anche la memoria? Accecati dall’odio, questi orgogliosi che si vantavano di aver per padre Abramo, non avevano voluto riconoscere l’unica sua discendenza, cioè il Cristo, al quale erano state fatte tutte le promesse. Ragionando da veri insensati, confessano che Gesù compie dei miracoli, e invece di trarne la conseguenza: — Con questi miracoli egli prova che è veramente il Messia promesso, l’inviato di Dio, — concludono: — Sopprimiamolo: con la sua soppressione scompariranno anche i seguaci. — E lo sopprimono con la morte di croce. – Ma l’uomo propone e Dio dispone. Gesù Cristo aveva detto: «E io, quando sarò innalzato da terra, tutto trarrò a me (Joan. XII, 32). – Quando egli è innalzato sulla croce gli animi di buona volontà si rivolgono a Lui. Non è solamente il discepolo prediletto con la Madre e un gruppo di pie donne, che sono attratti a colui che muore sul patibolo. Uno dei due ladroni, che gli stanno di fianco, crocifisso come Lui, riconosce il Messia, che non vollero riconoscere i Giudei, e, rivolgendosi a Lui, lo pregò: «Signore, ricordati di me quando giungerai nel tuo regno. E Gesù gli rispose: Ti dico in verità; oggi sarai con me in Paradiso ». (Luc. XXIII, 42-43). Gesù è spirato sulla croce, e continua a conquistare  anime e a piegare i cuori. Il centurione, che stava di rimpetto a Gesù crocifisso, proclama la sua divinità e dà gloria a Dio. Coloro che erano andati al Calvario per vedere il supplizio di Gesù, riconoscono l’ingiustizia commessa contro di Lui, ed esprimono il loro dolore percuotendosi il petto. Sulla croce Gesù inaugura il regno dell’amore che conquisterà tutti i popoli della terra. E la Chiesa può cantare solennemente: «Dio regnò dal legno» (Vexilla Regis). – Gli Apostoli, mandati alla conquista di coloro che erano sotto il giogo di Satana, presentano Gesù Crocifisso. armati di nient’altro che del crocifisso partirono alla conquista dei popoli i loro successori. Armati di quest’unica arma compiono ancora oggi le loro conquiste i missionari tra gente barbara e selvaggia. – Il Crocifisso cerca con lo sguardo e con l’anima colui che sta per partire da questo mondo: davanti al Crocifisso si reca a cercar il balsamo lenitore chi è provato dal dolore: nelle piaghe del Crocifisso cerca il suo porto di salvezza chi è agitato dalle tentazioni: baciando il Crocifisso, trova la rassegnazione e la pace chi muore per la mano della giustizia terrena. Il Crocifisso è veramente la pace, il gaudio la vita dei Cristiani; è il centro dei loro cuori.

2.

Se fosse stata data una legge capace di procurarci la vita, allora, si, la giustizia verrebbe dalla legge. Ma Dio non volle dare alla legge antica il potere di comunicare all’uomo la vita della giustizia. E così, l’uomo non deve cercare la sua salute nelle opere della legge. Deve cercarla, mediante la fede e la carità, in Gesù Cristo, salito sulla croce a immolarsi per tutti, a esser «guida e luce nella via dell’esilio». – Le inclinazioni degli uomini non sono, senza dubbio, un incitamento alla virtù. Gli uomini desiderano le ricchezze, e Gesù Cristo, che fu poverissimo durante la sua vita, sulla croce è spogliato dell’unica veste. Gli uomini bramano gli onori, la gloria. Gesù, che aveva rifiutato di esser fatto re durante gli anni della sua vita pubblica, sulla croce sopporta con animo mansuetissimo i disprezzi che gli si fanno da parte di tutti, dopo esser stato percosso, sputacchiato, da vili sgherri e dalla plebaglia. È là come l’aveva dipinto Isaia: «Come tu fosti lo stupore di molti, così il tuo aspetto sarà senza gloria tra gli uomini e la tua faccia tra i figli degli uomini» (Is. LII, 14). La disubbidienza spopolò il cielo d’una gran quantità di Angeli, e portò la rovina del genere umano. Gesù Cristo, che nella bottega di Nazaret passò la vita nell’ubbidienza a Maria e a Giuseppe, sulla croce ubbidisce ai carnefici, ai giudici iniqui, che un giorno saranno da Lui giudicati. Raramente noi ci manteniamo calmi nei contrasti, nelle pene. Ci ribelliamo, e dichiariamo ingiuste le afflizioni che ci provano. Gesù sulla croce, dissanguato dai flagelli, con le mani e i piedi trapassati da chiodi, con spine confitte nel capo, agnello senza macchia, sopportò il peso della pena dovuta ad altri, e tace. – Duro è per noi dimenticare le offese ricevute, amare coloro che ci fanno del male. Ma diventerebbe leggero, se dessimo uno sguardo a Gesù, che dalla croce, perdona a suoi offensori, li scusa, prega per loro. – Il Beato Vincenzo Maria Strambi, era stato incaricato dal Papa Pio VI di predicare una missione al popolo di Roma nella vastissima Piazza Colonna. Una sera, nella foga dell’orazione, gli venne a mancare la voce. Riusciti inutili gli sforzi per farsi sentire, prese nelle mani Crocifisso, e lo mostrò al popolo, additandone le piaghe grondanti sangue, e, come poté, disse: «Popolo mio, io non posso più parlare; questo crocifisso parlerà per me». E il crocifisso parlò veramente al cuore dei Cristiani, poiché nessuno partì da quella piazza senza di aver concepito il proposito d’una vita migliore. – Se noi amiamo Gesù Crocifisso, ogni volta che gli diamo uno sguardo parlerà al nostro cuore con parola ora ammonitrice, ora esortatrice, che ci farà progredire sempre più nella via del bene.

3.

 Quando Gesù pende in croce, popolo, sacerdoti, senior e perfino il brigante che gli è crocifisso a fianco concordi nello scherno atroce : «Scenda dalla croce » (Matth. XXVII, 40-44). Se Gesù avesse voluto, sarebbe certamente sceso dalla croce. Poche ore prima solamente, aveva dato prova del suo potere, quando con due parole: «Sono io», dimostrò tanta potenza, che i soldati mandatigli incontro « diedero indietro e stramazzarono per terra» (Joan. XVIII, 6). Egli pende in croce, ma è sempre quel Gesù «potente in opere e in parole» (Luc. XXIV, 19) che guariva le malattie corporali e spirituali, che ridava la vita ai corpi e alle anime. Egli pende in croce come un malfattore, ma dalla croce dà la vita eterna al ladrone che gli sta vicino; e, spirando in croce, apre i sepolcri, da cui risorgono i morti addormentati nel Signore. Egli muore in croce, e la sua morte segna l’adempimento della promessa… data ai credenti. – Col peccato il giogo di satana era stato posto sul collo degli uomini, e nessuna forza umana avrebbe potuto scuoterlo. Gesù Cristo sulla Croce compì quello che nessun uomo avrebbe potuto compiere. Egli carica sopra di sé le colpe di tutti gli uomini; si presenta a Dio in abito di peccatore, e chiede che su Lui si compia la giustizia che doveva compiersi sui mortali. L’offerta è gradita al Padre, la sostituzione è accettata. Pene esterne e interne lo avvolgeranno come in un mare, e tutto sarà suggellato con la morte. Ma con questa morte il decreto di condanna è stracciato, il potere di satana è infranto. «Nel paradiso (terrestre) germogliò la morte; sulla croce la morte fu tolta » (S. Giov. Cris. In Epist. ad Eph. Hom. 20, 3). satana si era servito del frutto proibito per introdurre nel mondo il suo regno; per mezzo dell’albero della Croce Gesù Cristo prende la rivincita su satana. Sulla croce Gesù sta non come un giustiziato, ma come un conquistatore, che, conquiso e debellato il suo nemico, dall’alto del trono proclama la vittoria; e annuncia ai popoli tutti della terra la liberazione dalla schiavitù, la fine del regno della maledizione e il principio del regno della grazia. – Dall’alto della croce Gesù ci dice con le sue piaghe che il prezzo del riscatto è di valore così grande che nessuno, per quanto gravi siano i Suoi peccati, ne va escluso; dall’alto della croce, con le braccia aperte, Gesù ci dice tutta la sua brama di vederci vicini a Lui, di poterci abbracciare. – Non dimentichiamo, come i Galati, l’immagine del Crocifisso; ma frequentemente «si dia uno sguardo alla croce, su cui, per mezzo del gran delitto dei Giudei, ebbe compimento la volontà di Dio misericordioso, il quale volle che fosse ucciso il suo unico Figlio per la nostra salvezza ».

Graduale

Ps LXXIII:20; 19; 22.

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum: et ánimas páuperum tuórum ne obliviscáris in finem.
[Signore, abbi riguardo al tuo patto: e non dimenticare per sempre le ànime dei tuoi poveri.]

Exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam: memor esto oppróbrii servórum tuórum. Allelúja, allelúja
[V. Sorgi, o Signore, e difendi la tua causa e ricordati dell’oltraggio a Te fatto. Allelúia, allelúia].

Alleluja

Ps LXXXIX: 1
Dómine, refúgium factus es nobis a generatióne et progénie. Allelúja.

[O Signore, Tu fosti il nostro rifugio in ogni età. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XVII: 11-19

In illo témpore: Dum iret Jesus in Jerúsalem, transíbat per médiam Samaríam et Galilaeam. Et cum ingrederétur quoddam castéllum, occurrérunt ei decem viri leprósi, qui stetérunt a longe; et levavérunt vocem dicéntes: Jesu præcéptor, miserére nostri. Quos ut vidit, dixit: Ite, osténdite vos sacerdótibus. Et factum est, dum irent, mundáti sunt. Unus autem ex illis, ut vidit quia mundátus est, regréssus est, cum magna voce magníficans Deum, et cecidit in fáciem ante pedes ejus, grátias agens: et hic erat Samaritánus. Respóndens autem Jesus, dixit: Nonne decem mundáti sunt? et novem ubi sunt? Non est invéntus, qui redíret et daret glóriam Deo, nisi hic alienígena. Et ait illi: Surge, vade; quia fides tua te salvum fecit.”  

[“In quel tempo andando Gesù in Gerusalemme, passava per mezzo alla Samaria e alla Galilea. E stando por entrare in un certo villaggio, gli andarono incontro dieci uomini lebbrosi, i quali si fermarono in lontananza, e alzarono la voce dicendo: Maestro Gesù, abbi pietà di noi. E miratili, disse: Andate, fatevi vedere da’ sacerdoti. E nel mentre che andavano, restarono sani. E uno di essi accortosi di essere restato mondo, tornò indietro, glorificando Dio, ad alta voce: e si prostrò per terra ai suoi piedi, rendendogli grazie: ed era costui un Samaritano. E Gesù disse: Non sono eglino dieci que’ che son mondati? E i nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse, e gloria rendesse a Dio, salvo questo straniero. E a lui disse: Alzati, vattene, la tua fede ti ha salvato”]

OMELIA II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sul frequente uso della confessione.

“Ite, ostendite vos sacerdotibus. Luc. XVII.

Quel che Gesù Cristo disse a quei lebbrosi di cui si parla nell’odierno vangelo, è ciò, fratelli miei, che Egli c’incarica di dire ai peccatori coperti della lebbra del peccato, di cui quelli erano figura. Peccatori, che gemete sotto il peso di una malattia molto più funesta che la lebbra del corpo, poiché questa non gli toglie la vita, laddove il peccato dà la morte all’anima, volete voi essere guariti da questa malattia mortale, che vi ha fatto perdere la vita della grazia? Andate a scoprirla ai medici, che Gesù Cristo ha stabiliti per guarirvi, dichiarate i vostri peccati ai sacerdoti ch’Egli ha rivestiti della sua autorità per rimetterveli: Ite, ostendite vos sacerdotibus. Egli è vero che Gesù Cristo, supremo medico delle nostre anime, potrebbe benissimo guarirvi da se stesso senza inviarvi ai suoi ministri, come guarì un lebbroso del Vangelo nel momento che questi gliene ebbe fatta domanda, e come guarì anche quelli di cui abbiam parlato. Ma notate, fratelli miei, che sebbene il Salvatore accordasse la guarigione a quei lebbrosi, pure esigette da essi che, per ubbidire alla legge, andassero a mostrarsi a chi doveva dichiararli esenti dalla macchia legale, che avevano contratta. Egli voleva con questo, come osservano i santi Padri, farci conoscere qual sarebbe in appresso il potere dei sacerdoti della nuova legge, i quali non dovevano solamente, come quelli dell’antica, discernere i lebbrosi da coloro che tali non erano, e dichiararli esenti da una macchia legale; ma dovevano purificare i peccatori dalla lebbra e dalla macchia del peccato. Si è questo potere ammirabile, che Gesù Cristo ha lasciato ai sacerdoti nella persona degli Apostoli, allorché disse loro: A quelli cui rimetterete i peccati saranno rimessi, a quelli cui li riterrete saranno ritenuti. Con questo Egli ha stabiliti i sacerdoti giudici della causa dei peccatori, di modo che le sentenze, che essi pronunciano sulla terra siano ratificate nel cielo. Bisogna dunque, peccatori, che volete esser assolti dai vostri peccati, vi presentiate al tribunale di questi giudici; bisogna vi indirizziate a questi medici, se volete esser guariti dalle vostre malattie. Voi non potete sottrarvi alla loro giurisdizione, senza far contro la volontà di Gesù Cristo, che avrebbe loro dato un potere inutile di legarvi o sciogliervi, se non foste obbligati a sottomettervi al loro giudizio. Ma, oltre la legge, che vi obbliga a mostrarvi ai sacerdoti per dichiarare i vostri peccati, quanti vantaggi ve ne derivano! – Ed è appunto per questo motivo d’utilità, che io prendo quest’oggi ad esortarvi che vi accostiate spesso al sacro tribunale della penitenza. Vediamo quali sono i vantaggi di una buona e frequente confessione: primo punto; qual è il danno di coloro che si allontanano dalla confessione: secondo punto.

I. Punto. Non conviene dissimularlo! fratelli miei, la confessione è un giogo che ha il suo peso; ella è un rimedio, la cui amarezza ripugna alla natura; reca pena il confessarsi reo, dichiarare ad un mortale ciò che si ha di più segreto, palesar cose di cui si arrossisce e che si vorrebbe poter nascondere a se stesso. Ma senza esaminare ciò che v’è di duro e di penoso in questo giogo, queste pene e queste amarezze non sono forse molto raddolcite dai vantaggi che vi si trovano? Infatti, quanti beni non procura la confessione ai peccatori, ed ai giusti? Ai peccatori, ella è un mezzo tanto efficace quanto facile per rientrare in grazia con Dio; ai giusti, ella è un aiuto per crescere in virtù e perseverar nella grazia. Niuno v’ha tra voi, fratelli miei, che questo soggetto non interessi, e che non debba essere animato da questi motivi a fare un frequente uso della confessione. Ripigliamo. – Quanto è mai deplorabile lo stato di un peccatore! nemico di Dio, egli ha perduto il diritto, che aveva al cielo; schiavo del demonio, egli è una vittima destinata alle vendette eterne. Ah! come potete voi, o peccatori, rimaner un sol momento in quello stato, sul punto in cui siete di cader ad ogni istante nell’inferno se foste sorpresi dalla morte? Come non ricorrete voi al rimedio, che può preservarvi dalla morte eterna? Questo rimedio è la confessione; rimedio efficace, che per la virtù datagli da Gesù Cristo può cancellare il vostro peccato, riconciliarvi con Dio, ristabilirvi nei diritti che avete perduti, e procurarvi la pace di una buona coscienza. Tali sono per i peccatori i vantaggi di una confessione ben fatta. – Sì, fratelli miei, quantunque i vostri peccati fossero moltiplicati sopra le gocce d’acqua che sono nel mare, sopra i grani di sabbia che sono nella terra, essi sono tutti cancellati con una buona confessione; il Signore non se ne ricorderà più, dice il profeta: sebbene foste più neri del carbone, aggiunge egli, voi diverrete più bianchi della neve. Anatema, dice il santo concilio di Trento, a chiunque dicesse che v’è qualche peccato irremissibile, poiché Gesù Cristo ha dato ai suoi Apostoli ed ai Sacerdoti loro successori un potere, che non è limitato ad alcun genere di peccato. Tutto ciò che voi sciorrete sopra la terra, disse loro, sarà sciolto nel cielo: Quodcumque solventi» super terram, erit solutum et in cœlis. Benché foste voi fratricidi come Caino, adulteri come Davide, ingiusti come Acab, empi come Manasse, in una parola, benché avreste commessi tanti peccati come tutti gli uomini insieme, essi saranno tutti cancellati col sangue di Gesù Cristo, che vi sarà applicato con questo Sacramento; tutti i vostri nemici saranno sommersi, annegati in questo mar rosso uscito dalle fontane del Salvatore; le chiavi che Gesù Cristo ha confidate alla sua Chiesa chiuderanno l’inferno, che era aperto per inghiottirvi, vi apriranno il cielo, che vi era chiuso; di schiavi del demonio che eravate, voi diverrete figliuoli di Dio, suoi amici. Questo tenero Padre, come quello del fìgliuol prodigo, vi riceverà nella sua casa, vi darà il bacio di pace, vi renderà la vostra prima veste, vi metterà l’anello in dito; cioè vi arricchirà di tutti i tesori delle grazie e delle virtù che avevate perdute per lo peccato. – Ecco un vantaggio della confessione che vi prego di ben osservare. Il peccato mortale, dando la morte all’anima, le fa perdere non solamente la grazia santificante, che è la sua vita soprannaturale, ma ancora tutto il merito delle buone opere, che essa può aver acquistato: quand’anche avesse ella accumulati tanti tesori di merito come tutti i santi insieme, il peccato le toglie tutte le ricchezze: oh perdita degna di essere pianta con lagrime di sangue! Ma consolati, anima sfortunata, ecco un mezzo efficace di riparare le tue disgrazie. Il Sacramento della penitenza ti fa ricuperare quella grazia santificante che tu avevi perduta e riconduce seco tutti i meriti che l’accompagnavano. Questo è ciò che ci promette il Signore per uno dei suoi profeti quando dice che ci renderà quei belli anni, che la ruggine ed i vili insetti avevano rosicchiati e distrutti: Reddam vobis annos quos comedit locusta, bruchus et rubigo. (Joel. II). Cioè, secondo la spiegazione di s. Girolamo, un’anima la quale rientra in grazia con Dio ricupera tutti i meriti delle buone opere, che aveva fatti altre volte in istato di grazia. Queste buone opere, che erano mortificate per il peccato, come dicono i teologi, riprendono una nuova vita per la penitenza; di modo che le azioni virtuose, che non sarebbero state contate per nulla se il peccatore fosse morto in istato di peccato, saranno eternamente ricompensate in cielo, se muore nello stato della grazia, che ha ricuperata: reddam vobis. Felice riparazione, fratelli miei, che, facendoci conoscere la bontà di Dio per lo peccatore, ci fa vedere nello stesso tempo qual è la virtù e l’efficacia del Sacramento della penitenza; l’anima vi è liberata dalla schiavitù del peccato e del demonio, e vi ricupera la sua primiera bellezza. – Quindi, quella pace, quell’allegrezza di una buona coscienza, che si prova dopo una confessione ben fatta; siccome un infermo tormentato dai dolori di un tumore trovasi molto alleggerito quando questo sia stato aperto, e se ne sia fatto uscire tutto il veleno; così il peccatore gode di un dolce riposo interiore, quando non sente più dentro di sé quel veleno mortale, che infettava l’anima sua. Sgravato dal peso dei suoi delitti, egli gusta una pace che sorpassa tutte le allegrezze del mondo. Quale allegrezza per un prigioniero già condannato alla morte, quando gli si annuncia che gli è fatta grazia! Quale allegrezza per un infermo, che si è veduto alle porte della morte, e che ricupera la sanità più perfetta; per un figliuolo, che aveva incorsa la disgrazia del migliore dei padri, da cui aveva tutto a temere, e che ne possiede tutta la tenerezza! Quale soddisfazione per un mercante, che aveva perdute in un naufragio tutte le merci di cui era carica la sua nave, e che ritrova in un momento tutte le sue ricchezze! Tale è mille volte più grande e ancora deve essere l’allegrezza d’un peccatore riconciliato col suo Dio. Non è più tormentato questo peccatore dai rimorsi della coscienza, che gli rimproverava il suo delitto, e gli faceva sentire il rischio in cui era di cadere in una infelicità eterna; ma egli è sicuro, quanto si può essere in questa vita, che gode della libertà dei figliuoli di Dio, che possiede l’amicizia del suo Dio, e che se egli muore in quel felice stato, prenderà possesso nel cielo del posto che gli è stato destinato e che aveva perduto. Ah quanto è consolante questo pensiero! Io ne chiamo in testimonio la vostra esperienza, fratelli miei. Quando è che voi avete gustato più soave riposo, pace e piacere? Non è forse in quei giorni felici, in cui con il cuore penetrato dal dolore avete confessate le vostre colpe ai piedi del ministro di Gesù Cristo, il quale vi ha detto da parte sua quelle consolanti parole: Andate in pace: Vade in pace. Non vi sembrava forse all’uscir dal tribunale della riconciliazione d’esservi alleggeriti di un peso molto grave? Siete voi stati giammai più tranquilli e più contenti che nei primi momenti dopo la vostra riconciliazione? Perché dunque non vi servite di un mezzo cosi efficace per procurarvi tutti i vantaggi di cui abbiamo parlato, giacché questo mezzo è si facile? Mentre finalmente, di che si tratta per ottenere il perdono delle vostre colpe? Si tratta di confessarle con cuor contrito ed umiliato, e la vostra grazia è sicura. Qual differenza tra il tribunale della misericordia di Dio e quello della giustizia degli uomini! In questo la confessione del reo lo fa condannare, in quello lo fa assolvere: in questo si producono testimoni, si tormenta il reo per trarre la prova di un delitto; e quando il delitto è provato, si condanna alla morte o al supplizio che ha meritato; ma nel tribunale della penitenza non v’è altro testimonio che il reo, egli è il suo proprio accusatore, e tosto che si accusa, ode pronunciare un giudizio favorevole, un giudizio che lo libera dalla morte per dargli la vita. Possiamo noi forse lamentarci che il perdono è accordato a dure condizioni, o piuttosto una grazia di un si gran prezzo, non sorpassa tutta la pena, che provare possiamo nel dichiararci colpevoli? Ah! se i rei detenuti nelle prigioni potessero così facilmente rompere la loro catena; se con la sola confessione dei loro delitti potessero mettersi in libertà e preservarsi dai supplizi, cui devono essere condannati, ben tosto quei luoghi d’orrore e di miseria sarebbero aperti per farne uscire tutti i colpevoli; niuno sarebbevi, che non confessasse il suo mancamento, che non si riputasse felice di potere ad una condizione così facile ricuperare la sua libertà. E pure, fratelli miei, qual differenza tra il loro stato e quello del peccatore, che è sotto l’impero del demonio. Qual differenza tra i supplizi, a cui la giustizia degli uomini condanna i colpevoli, e i tormenti che la giustizia di Dio riserba ai peccatori! Gli uomini possono tutti al più condannar i colpevoli a perdere una vita temporale per via di dolori, che non sono di gran durata; ma il peccatore merita di essere condannato ad una morte eterna, a supplizi che sorpassano infinitamente pel loro rigore e per la durata tutto ciò che si possa soffrire quaggiù di più doloroso. Si può, torno a dirvi, trovar più duro ed amaro un mezzo così facile di preservarsi da quei supplizi come è quello di fare la confessione dei suoi delitti? – Se per essere liberato dalla morte eterna che merita il peccatore, Dio gli domandasse d’intraprendere cose difficili, di fare penosi viaggi, di soffrire lunghi e crudeli supplizi, di dare tutti i suoi beni ed anche la vita; oimè! egli nulla domanderebbe che non fosse molto da meno della grazia, che gli accorderebbe; ed il peccatore non dovrebbe esitare neppure un momento a sottomettersi a tutto per evitare un’infelicità eterna. Ma noi fratelli miei, Dio non esige tanto da voi: un vivo pentimento, una confessione sincera delle vostre colpe, fatta ai piedi dei suoi ministri disarma la sua collera, vi apre il seno delle sue misericordie. Da qual riconoscenza non dovete voi essere penetrati verso questa divina misericordia sì facile a perdonare? E con qual premura non dovete voi, servirvi del mezzo che essa vi offre per avere il perdono? –Noi leggiamo nella Scrittura che Naaman, generale delle armate del re di Siria, essendo venuto in Israele per essere guarito dalla lebbra, il Profeta Eliseo gli fece dire di lavarsi sette volte nel Giordano. Quel signore riguardò questa risposta come un segno di disprezzo, e se ne ritornò acceso di collera: era forse d’uopo, esclamava egli, di lasciar la mia patria? I fiumi che la innaffiano non sono forse migliori dell’acqua del Giordano? E che! (gli dissero i suoi servi) se il Profeta vi avesse domandato qualche cosa di più difficile per essere guarito, voi l’avreste dovuto fare: si rem grandem dicisset tibi Propheta, certe facere debueras (IV Reg. V). Con quanto più forte ragione dovete voi adempire un precetto così facile, come quello di lavarvi nel Giordano per essere guarito dalla vostra lebbra: quanto magisquia nunc dixit tibi, lavare et mundaberis (Ibid.) Di voi parla, o peccatori, lo Spirito Santo in questo esempio: se per essere purificati dalla lebbra del peccato, di cui voi siete infetti, Dio esigesse da voi cose difficili, dovreste voi esitare ad ubbidirgli? Ma no, quel che domanda è facile; egli ci comanda di lavarvi in questa piscina misteriosa, di cui l’Angelo del Signore non fa solamente scorrere le acque a certi tempi, come in quella di Gerusalemme, ma che vi è aperta in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Perché ricusate voi di tuffarvi in essa? Avete voi a dolervi come quel paralitico della piscina di Gerusalemme? Da trent’otto anni io non ho alcuno, diceva egli, per fare scorrere su di me le acque medicinali. Vi mancano forse, fratelli miei, ministri del Signore pronti a ricevervi ogni qual volta vorrete accostarvi ai sacri tribunali della Penitenza? – Andate dunque ad immergervi in questa piscina per essere purificati da tutte le vostre macchie; mostratevi al sacerdote tali quali voi siete: ite ostendite vos sacerdotibus (Luc. XVII). Rivelate tutte le vostre vie, come lo fa reste a Dio medesimo: Revela Domino viam tuam (Psal. XXXVI). Questi Angeli del Signore, questi ministri della sua autorità faranno scorrere su di voi le acque salutevoli della grazia che vi laveranno da tutte le vostre iniquità; essi vi diranno da parte del loro maestro, ciò che disse egli a quel lebbroso del Vangelo: volo mundare (Matth. VIII). Siete guariti. La sentenza che pronunceranno in vostro favore, opererà nel momento quel che essa significa, voi uscirete da questo secondo battesimo bianchi come la neve: conſestim mundata est lepra eius. Ammirabile genere di guarigione, fratelli miei, ove basta scoprire il suo male al medico per esserne liberato! Oh! se si potesse così facilmente guarire dalle malattie del corpo, chi non godrebbe ben tosto di una sanità perfetta? La guarigione delle malattie della vostr’anima, dipende dalla confessione che voi ne farete al ministro di Gesù Cristo vostro medico. Esiterete a profittare di un mezzo così pronto e così efficace per ottenerla? Voi troverete in questa piscina non solamente un rimedio che vi guarirà dal vostro peccato, ma ancora un preservativo contro il peccato, sia nelle grazie abbondanti che vi si ricevono per la virtù del Sacramento, sia nei buoni avvisi che vi darà un caritatevole confessore, il quale vi servirà di guida nelle vie della salute. Muniti di questi potenti aiuti, voi cadrete più di rado e vi rialzerete più prontamente, accostandovi spesso al sacro tribunale, voi vi ricorderete più facilmente dei vostri peccati, sarete più sicuri di fare una buona confessione, la quale sovente è difettosa per difetto di esame, allorché ci confessiamo di rado. Ma il gran vantaggio che voi troverete nella frequente confessione, si è la sicurezza di una buona morte; poiché, o voi sarete sorpresi dalla morte, o voi avrete il tempo di pensarvi. Se voi siete sorpresi dalla morte, confessandovi spesso, avete maggior speranza di trovarvi in istato di grazia in quell’ultimo momento, che coloro i quali nol fanno che di rado. La morte, benché subitanea per voi, non sarà improvvisa per la precauzione che prenderete di conservare la grazia di Dio. Se voi avete il tempo di pensarvi, riceverete i Sacramenti in buona disposizione per l’ottimo abito che avete avuto durante la vita di ben riceverli. E qual motivo di sperare che Dio in conseguenza della vostra assiduità ad accostarvi ai Sacramenti durante la vita, non permetterà che voi ne siate privi alla morte! Quanti vantaggi, fratelli miei, e quanti motivi fortissimi per indurre i peccatori alla frequente confessione. – Voi poi, o giusti, benché non siate esposti alla medesima disgrazia che i peccatori, la confessione vi è ugualmente utile per fortificarvi nella pratica delle buone opere, avanzar in virtù, accrescere il vostro merito, e perseverare nella grazia del Signore. Chi è giusto, lo divenga ancora di più, dice lo Spirito Santo, e chi è santo, si santifichi di più. Ora, si è colla confessione frequente che voi diverrete sempre più giusti, sempre più santi. E come ciò? Perché la confessione vi purificherà dalle macchie le più leggiere, che i più giusti ancora contraggono in questa vita. Perciocchè il Sacramento della Penitenza, dice il Concilio di Trento, ha la virtù di cancellare le colpe veniali; ricevendo la remissione di queste colpe veniali, voi sarete liberati in tutto, o in parte dalla pena temporale che dovreste soffrire nel Purgatorio, voi aggiungerete nuovi gradi alla grazia santificante, di cui la vostr’anima è adorna; questa nuova grazia vi dà diritto a certi aiuti particolari che vi faranno superare tentazioni difficili, che vi renderanno facile la pratica delle più eroiche virtù. Accostandovi al tribunale della Penitenza voi esaminerete i vostri difetti per correggervene, vi umilierete alla vista delle vostre debolezze, diverrete più vigilanti sopra di voi medesimi, crescerete nell’amore di Dio, in fervore nel suo servigio per i buoni proponimenti che formerete di evitare sino la minima apparenza di male. Più spesso vi confesserete, più rinnoverete questi buoni proponimenti di evitare sino le colpe le più leggiere, evitando le colpe leggiere per mezzo degli aiuti che il Sacramento vi procura, vi eviterete il pericolo di perdere la grazia di Dio col peccato mortale, quindi renderete certa la vostra perseveranza nel bene, la vostra perseveranza finale che deve decidere della vostra felicità eterna. Di qual utilità non è dunque la confessione per i giusti medesimi, come per i peccatori? Ve diamo ora quali sono gli svantaggi di coloro che se ne allontanano.

II. PUNTO. Un gran numero di peccatori si accosta di rado al Sacramento della Penitenza, perché, dicono essi, la Chiesa non obbliga a confessarsi più spesso che una volta all’anno. Altri se ne allontanano, perché non vogliono correggersi dei loro malvagi abiti, lasciar le occasioni del peccato; il che per altro convien fare per una buona confessione. Ma gli uni e gli altri, sono in un accecamento deplorabile, e non vedono i mali che cagiona questo allontanamento. Ora, fratelli miei, per distruggere questi pregiudizi io dico, che, sebbene la Chiesa abbia determinato il precetto della confessione ad ogni anno per tutti i fedeli dell’uno e dell’altro sesso, non convien dire che non si possa, né si debba fare più frequente nel corso di un anno. La Chiesa, interprete delle volontà del suo divino Sposo che le ha lasciata l’autorità di giudicare i peccatori, e che ha voluto sottomettere i peccatori tutti a quest’autorità, obbliga tutti i suoi figliuoli per soddisfare al precetto del divin Maestro di accostarsi una volta all’anno al suo tribunale; perché egli è certo che il precetto obbliga per lo meno qualche volta durante la vita; e se essa non avesse imposto ai peccatori quest’obbligo per ogni anno, molti avrebbero passata tutta la loro vita senza avervi soddisfatto. Ma benchè l’adempimento di questo precetto non possa differirsi più di un anno, molte altre ragioni obbligano i peccatori a confessarsi più frequentemente. Il peccatore non deve differire la sua conversione, perché differendola, i suoi peccati si moltiplicano, i suoi malvagi abiti si fortificano; e si espone al pericolo dell’impenitenza finale, che è la morte nel peccato. Ora, tali sono i danni che provengono dall’infrequenza delle confessioni. Ed in vero, che cosa può ritener il peccatore, ed impedirlo dal cadere nell’abisso del peccato? È la grazia di Dio, è la considerazione dei mali, ove il suo peccato lo conduce; sono i rimproveri che si fa egli medesimo al tribunale della coscienza sopra i disordini della sua vita; sono gli avvisi di un confessore zelante per la sua salute. Ora il peccatore che si accosta di rado al sacro tribunale, si priva delle grazie del Sacramento, degli avvisi di un confessore, non rientra quasi giammai in se stesso per rimproverarsi i suoi disordini, e correggersene. Fa d’uopo stupirsi, se egli accumula peccati sopra peccati, e se diventa lo schiavo dei suoi abiti malvagi? Quantunque Dio non ricusi la sua grazia ad alcun peccatore, sia per convertirsi, sia per evitar il peccato, Egli vuole che questo peccatore faccia dal canto suo degli sforzi per avere certe grazie che producono la sua conversione, e che l’impediscono di pervertirsi di più; egli vuole che ricorra ad un mezzo di salute che esso gli ha somministrato per santificarsi, che sono i Sacramenti da Lui lasciati alla sua Chiesa. Questi Sacramenti sono come i canali, per dove egli fa scorrere sulle anime il sangue adorabile che è uscito dalle sue piaghe per lavare i peccatori. Questi sono gli strumenti che egli ha messi, per così dire, tra le mani di questi peccatori, per operare la loro santificazione; sono i rimedi che loro ha dati per guarirsi dalle loro malattie, e preservarsi da nuove cadute. E perciò Egli ha attaccate a questi segni di salute certe grazie particolari che corrispondono al fine per cui gli ha istituiti; grazie che non dà comunemente a coloro che si allontanano da queste sorgenti di salute. E quindi che accade ai peccatori che trascurano il rimedio della Penitenza? ciò che accade ad un infermo, il quale non vuol prendere un rimedio che un valente medico gli ha apparecchiato, sia per guarirsi, sia per impedire che la sua malattia non faccia più grandi progressi, e non lo conduca al sepolcro. Questo peccatore privo delle grazie particolari annesse al Sacramento della penitenza, esposto alle tentazioni del nemico, abbandonato alla sua propria inclinazione che lo strascina verso il male, soccomberà alle tentazioni; seguirà l’allettamento della sua passione; un peccato che ne attira un altro col suo peso, lo fa cadere di abisso in abisso; egli ammassa, accumula l’iniquità; i suoi malvagi abiti prendono tutti i giorni nuove forze; finalmente diventa incorreggibile. Se il peccatore rientrasse in se stesso, per vedere il triste stato della sua anima, i rimorsi della sua coscienza lo ricondurrebbero al dovere, ed è il vantaggio che gli procurerebbe l’uso del Sacramento della Penitenza. Mentre prima di presentarvisi, bisogna che il peccatore ricerchi ben bene le sue piaghe, investighi i nascondigli della sua anima, esamini i suoi mancamenti, e conosca le sue malattie per mostrarsi al sacerdote tal quale egli è; questa vista non può che cagionargli confusione, e fargli sentire rimproveri amarissimi; bisogna di più che esso detesti i suoi mancamenti, e che con la spada del dolore che deve concepire, apra l’ulcera che infetta la sua anima: questa detestazione, questo orrore che concepisce del peccato, gli cangia il cuore, facendogli cangiar d’oggetto, facendogli odiare ciò che amava, amare ciò che odiava. Finalmente bisogna mostrar la sua lebbra al ministro di Gesù Cristo, dichiarargli sinceramente, ed interamente tutte le sue colpe; e la confusione che accompagna questa dichiarazione, umilia il peccatore, gli fa prendere la risoluzione di non più cadere in quelle colpe; risoluzione che è fortificata dai buoni avvisi che riceve da un zelante confessore che gli impone penitenze salutevoli per espiare i suoi peccati, che gli propone mezzi per non più ricadervi, che gli offre gli aiuti delle sue preghiere per ottenergli la perseveranza. Ora, il peccatore che si allontana dal sacro tribunale, si priva di tutti questi aiuti, che sono come altrettanti ripari che l’impediscono di abbandonarsi al disordine. Egli non fa alcun esame di coscienza, non concepisce alcun dolore de’ suoi peccati, non è commosso dai mali che il suo delitto gli attira. Non è forse ancora per evitar la discussione che gli converrebbe fare delle sue colpe, l’umiliazione che avrebbe di accusarle, per sottrarsi ai terrori della sua coscienza che non vuole accostarsi al tribunale della confessione? Non è forse ancora per il timore delle ammonizioni che gli farebbe un caritatevole confessore, che ricusa di presentarsi a lui? Fa d’uopo stupirsi che egli seguiti ciecamente il torrente delle sue passioni, che viva a seconda de’ suoi desideri, non avendo più freno che lo ritenga, guida che lo rimetta sulla strada? E ciò che accresce il suo male si è, che il poco uso che egli ha fatto del rimedio salutevole, lo mette in un tale stato che lo converte in veleno anche allora quando vuol soddisfare all’obbligo di confessarsi nel tempo che gli è dalla Chiesa prescritto. Perciocchè è egli facile di adempiere come conviensi ad un obbligo che non si adempie che per necessità? In che guisa questi peccatori, i quali non si confessano che una volta all’anno nel tempo di Pasqua, esaminano i loro peccati? Il numero n’è sì grande che ne perdono la memoria e non se ne ricordano che in generale. Essi si contentano di una rivista superficiale. Quindi viene che le loro confessioni sono più presto fatte che quelle di coloro che si confessano sovente e che tralasciano, per colpa loro e per loro negligenza di frequentar i Sacramenti, un gran numero di peccati: il che rende le loro confessioni nulle e sacrileghe. Qual dolore hanno questi peccatori dei loro peccati? Qual proponimento di correggersi? Se ne può giudicare dal piccolo cangiamento che si vede nella loro condotta. Siccome non vanno al tribunale della penitenza che per una specie di necessità o di convenienza; siccome non cercano che salvare le apparenze e conservarsi la riputazione di aver fatto il loro dovere di Cristiano, così non mettonsi troppo in pena del restante. Se un confessore vuole loro imporre una penitenza salutevole, o provarli con qualche dilazione, essi disputano sul genere di penitenza che loro si prescrive: se vengono rimandati per qualche tempo, minacciano di non più ritornare: come se il ministro di Gesù Cristo dovesse rendersi colpevole di sacrilegio per dar loro un’assoluzione, che a nulla loro servirebbe…- Fa d’uopo dunque stupirsi, se questi, peccatori che si confessano di rado, che differiscono di Pasqua in Pasqua, sono sì malvagi Cristiani? L’esperienza lo fa purtroppo vedere, sono questi i meno assidui agli altri doveri della religione; gli uni si abbandonano all’intemperanza; gli altri all’impurità; questi sono ingiusti usurpatori del bene altrui; quelli vendicativi. Qual è la cagione di tanti disordini? La negligenza a frequentar i Sacramenti. Ma, diranno essi, coloro che vi si accostano spesso, non vivono meglio di noi, cadono nei medesimi disordini che noi; non è dunque la frequente confessione che ritiene i peccatori, e che rende gli uomini più santi. A questo io rispondo, 1.º esser falso che coloro i quali si confessano. sovente, siano d’ordinario così sregolati come quelli che non lo fanno che di rado; le loro ricadute, come l’ho detto, sono più rare, e si rialzano più prontamente con l’aiuto che trovano nel rimedio della penitenza. 2.º Se vi sono peccatori che uniscono una vita sregolata al frequente uso della confessione, sono coloro che abusano del rimedio, e che lo convertono in veleno per le malvage disposizioni che vi apportano, o per difetto di dolore, o per difetto di esame, e di sincerità nell’accusarsi. Quantunque efficace sia il rimedio della penitenza, egli non profitta che per quanto vien bene applicato. Ora, non vi sarà un mezzo tra servirsi male del rimedio, e non usarne affatto? Si è di riceverlo con le disposizioni che lo rendano efficace: basta, o peccatori, che voi ve ne accostiate con queste disposizioni, cioè con quella sincerità che deve accompagnare la dichiarazione delle vostre colpe, e ne proverete l’utilità. Ma se voi trascurate di farlo, sapete voi a qual male vi espone la vostra negligenza? A morir nello stato del peccato, a cader negli orrori della morte eterna. Mentre, poiché voi restate mesi ed anni interi nei legami del peccato, non potete voi forse esser sorpresi dalla morte, non potete voi essere colpiti da una morte subitanea, o da qualche malattia, che togliendovi l’uso dei sensi, vi rendano, impossibile il ricevere i Sacramenti? Quanti ne avete veduti che sono stati sorpresi in tal modo, per i quali si è chiamato un confessore che, o non si è trovato, o è giunto troppo tardi, permettendolo così Iddio per punire la loro negligenza a confessarsi più spesso? Ecco forse ciò che vi accadrà, peccatori che mi ascoltate: credete voi, che, se Dio vuol togliervi da questo mondo con una morte improvvisa, Egli sceglierà il tempo che voi sarete in istato di grazia, che questa morte accadrà precisamente nel tempo di Pasqua, quando vi sarete confessati? Qual temerità sarebbe la vostra di fidarvi ad un tratto sì straordinario della grazia di cui vi rendete sì indegni. Non dovete voi forse piuttosto temere, che, se siete sorpresi dalla morte, lo sarete in istato di peccato, poiché la più gran parte della vostra vita si passa in questo infelice stato? Forse vi assicurate sopra qualche atto di contrizione che produrrete allora, o che avrete prodotto prima in mancanza del confessore? È vero, che un atto di contrizione perfetta, cioè prodotto da un puro amor di Dio può cancellare tutti i peccati, benché enormi siano, ed in gran numero. Ma sapete voi che l’atto di una perfetta contrizione essendo il più eroico di tutti, è l’effetto di una grazia particolare, che i più gran Santi medesimi, non credevano meritare? E voi vi fiderete a questa grazia, voi che resistete a tante altre che vi stimolano di andar alla sorgente, che sono i Sacramenti? Ma supponiamo che voi alla morte abbiate tutta la libertà di confessarvi: io dico che il Sacramento, di cui non avete profittato durante la vita, a nulla vi servirà allora; che avendolo profanato durante la vita, voi lo profanerete in morte a cagion delle malvage disposizioni che saranno le medesime in voi. Ora, se voi morite nell’impenitenza finale, qual sarà il vostro rammarico nell’Inferno di aver trascurato un mezzo di salute così efficace, e così facile come la confessione? Ma non sarà più tempo; voi non avrete più ministri di Gesù Cristo che possano liberarvi dai mali che vi opprimeranno in quelle prigioni di fuoco, ove sarete rinchiusi; non vi sarà più confessione, più misericordia, più perdono a sperare da voi. Procurate, o peccatori, di evitare una disgrazia egualmente grande, quanto che irreparabile: profittate dell’occasione favorevole che avrete di riconciliarvi con Dio ogni qual volta l’avete offeso. Ma guardate di non abusarvi della bontà che Dio ha nel ricevervi a penitenza per oltraggiarlo; sarebbe in voi l’effetto della più nera ingratitudine se la facilità del rimedio fosse per voi una occasione di caduta. Cominciate dunque dal giorno d’oggi a mettervi nelle disposizioni, in cui dovete essere per profittarne; cioè, lasciate al presente il peccato, le occasioni del peccato; rinunciate ai cattivi abiti; il ministro di Gesù Cristo non discioglie che chi vuol lasciare le sue catene. Provatevi dunque prima di presentarvi, preparatevi anticipatamente ad accettare le prove, alle quali il confessore vorrà mettervi; non cercate di quegli uomini che lusingano; non fuggite coloro che vogliono con una giusta dilazione accertarsi del vostro ritorno a Dio: non lasciate quelli che per vostro bene si spaventano delle vostre cadute, e ve ne domandano una penitenza proporzionata: e quindi prendete per pratica, 1º di confessarvi una volta ogni mese; 2.º se voi avete avuta la sventura di perdere la grazia con un peccato, guardatevi ben bene di non passare i giorni interi nell’inimicizia di Dio; 3.º se voi siete infermi, ricorrete al medico della vostr’anima prontamente e senza dilazione; non siate del numero di quelli, cui si teme in un’ultima malattia di parlare di Sacramenti e di confessore; siate i primi a richiedere con calore questi preziosi soccorsi: la vostr’anima, dice Gesù Cristo, vale più che il vostro corpo; aiutate dunque l’una piuttosto che l’altro; e se il Cielo ricusa al vostro corpo la sua guarigione, almeno accorderà Egli alla vostr’anima un riposo eterno all’uscire dalla sua prigione, Io ve lo desidero. Così sia.

Credo…

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps XXXIII:15-16
In te sperávi, Dómine; dixi: Tu es Deus meus, in mánibus tuis témpora mea.
[O Signore, in Te confido; dico: Tu sei il mio Dio, nelle tue mani sono le mie sorti.]

Secreta

Popitiáre, Dómine, pópulo tuo, propitiáre munéribus: ut, hac oblatióne placátus, et indulgéntiam nobis tríbuas et postuláta concedas.

[Sii propizio, o Signore, al tuo popolo, sii propizio alle sue offerte, affinché, placato mediante queste oblazioni, ci conceda il tuo perdono e quanto Ti domandiamo.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Sap XVI: 20
Panem de coelo dedísti nobis, Dómine, habéntem omne delectaméntum et omnem sapórem suavitátis.

[Ci hai elargito il pane dal cielo, o Signore, che ha ogni delizia e ogni sapore di dolcezza.]

Postcommunio

Orémus.
Sumptis, Dómine, coeléstibus sacraméntis: ad redemptiónis ætérnæ, quǽsumus, proficiámus augméntum.

[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, ricevuti i celesti sacramenti, progrediamo nell’opera della nostra salvezza eterna.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (124)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE SECONDA

CAPO III.

Da quali contrassegni debba distinguersi la vera Religione dalle bugiarde.

I. Veggiamo sorte al mondo più religioni. Tutte per loro padre vantano Dio, mentre è certissimo che una solamente può essere a Lui figliuola: L’altre gli son tutte ribelli. Come faremo noi dunque a ravvisare quest’unica fortunata dalla vil turba dell’altre? Miriamole tutte in viso, ma fissamente. E quella che vedremo all’Altissimo più conforme, quella sia la nata da Lui.

II. Ora a noi Dio risplende singolarmente per l’aggregato di quei tre famosi attributi, potenza, sapienza e bontà, che come sono il meglio di quanto può concepirsi da mente umana (Hugo de s. Vict. 1. 2. de sacr. p. 3. c. 19), così giustamente son da noi presi di mira, in più di queste nostre dimostrazioni, per desiderio di colpire nel segno. Quella fede adunque la quale in sé più chiaramente possegga questi tre pregi, dovrà più giustamente venire riconosciuta qual parto nobile del gran Padre de’ lumi: dacché, come Egli non può in sé ricettare verun errore, così né anche può tramandarlo fuori di sé. A questi tre capi ridurremo frattanto per brevità tutti i vari segni che ci distinguono la vera religione dalle fallaci. Riconosceremo il suo divino potere nella forza de’ miracoli, nella fortezza de’ martiri, e in quant’altro a ciò si appartiene di segnalato. Riconosceremo il suo divino sapere nella dottrina celeste da lei recataci, dottrina tutta opposta a quella che insegnano le altre sette, che è sì obbrobriosa. E riconosceremo la sua divina bontà nella virtù che professano i suoi seguaci, e virtù provata qual invitto diamante sotto ad ogni martello, benché implacabile.

III. Rimane solo il premettere un’avvertenza di gran rilievo, ed è, che quanto sarebbe gran fallo in un matematico l’appagarsi nelle sue dimostrazioni di un’evidenza morale, tanto sarebbe in un morale aspirare a quell’evidenza che chiamasi matematica. Come diverse son le materie di cui si tratta, così diversi sono anche i generi delle pruove. Satis de re dictum est, ubi explicabitur quantum rei feri materia, dice il filosofo (Arist. eth. 1. 1. metaph. 1.1. cult.). Certitudo mathematica non in omnibus rebus quærenda est (Eppoi forsechè la matematica è essa sola il tipo della scienza vera e perfetta,io non lo credo: reputo anzi in contrario, che la certezza matematica, anziché assoluta e sovranamente perfetta, è ipotetica, perchéposata su certe definizioni e concetti propedeutici accolti senza previa discussione, e per di più non va scevra di oscurità, come ne fanno fede le contese dei matematici stessi intorno a certe definizioni ed alla natura delle quantità infinitesimali!). La fede è richiesta da Dio negli uomini come ossequio, come obbedienza. Adunque non doveva ella portarsi con dichiarazioni tanto sensibili agl’intelletti, anche pertinaci, che non fosse merito il credere. Doveva il credere essere un tributo giusto, ma volontario, da noi renduto alla prima verità di buon grado. Però in esso ha Dio mescolato talmente il chiaro col fosco, che i fedeli avessero qualche motivo di dubitare, qualor audaci volessero ribellarsi a ciò che insegna la chiesa, e gl’infedeli n’avesser infiniti ad arrendersi, qualor attenti volessero darvi mente: e così giustamente poi si rendesse, l’ultimo giorno alla credenza il suo guiderdone, e giustamente alla incredulità il suo supplizio: Qui crediderit, salvus erit: qui vero non crediderit, condemnabitur(Marc. XVI. 16). Tale fa appunto il sentimento di Ugone da s. Vittore. Quia fideles semper habent locum unde dubitare possunt, et infideles unde credere valent, ìuste et fidelibus prò fide datur præmium, et infidelibus prò infidelitate supplicium.

IV. Quindi avviene, non dover noi fondar la credenza nostra su quelle ragioni umane che ci dimostrano, la nostra fede esser vera. Dobbiamo fondarla sulla veracità infallibile di quel Dio, da cui ci fu rivelata si bella fede. Sulle ragioni umane abbiamo a fondare quel giudizio prudente e pratico il qual ci detta, esserpiù che credibile, aver Dio fatta una tale rivelazione. – Testimonia tua credibilia facta sunt nimis (Ps. XCII. 5). Giudizio che può alterarsi in chi non ripensi più alle dette ragioni, o ripensandovi, voglia cavillarle e combatterle con sofismi non sussistenti: ma non può alterarsi in chi tra sé le consideri a ciel sereno.

V. Però, com’è follia riputare per buona una religione, per questo solo, perché si bevve col latte; cosi è gran fallo alzare nella sua mente un tribunale sofistico che non voglia in materia di religione passare per legittima altra prova che l’evidenza, non soggetta a contrasto. Convien sospettare, dov’è ragionevole sospettare, e convien saper sicurarsi, dove è ragionevole sicurarsi. Altrimenti tanto sarà contra ragione il credere tutto, quanto il dubitare di tutto. Il vedere di notte, non è virtù dell’occhio umano, è fiacchezza. Così è fiacchezza il presumere di vedere ciò che dee credersi. Basti a noi l’avere per marchio della vera fede un aggregato di testimonianze vivissime, tali e tante, che tutte insieme (come da principio si disse) non si congiungono in alcuna fede non vera. Sicché l’avere a quell’unica conceduti Dio quei gran segni particolari di verità, è un argomento infallibile, che gli è accetta anche unicamente, e che unicamente vien da lui proposta a’ mortali, perché  l’abbraccino. Chi richiede il vantaggio per sottomettere la sua mente orgogliosa, o cerca una religione la qual non abbia misteri eccedenti i sensi, e per conseguente professisi senza fede; o per lo meno la cerca per una via che non ha mai fine, qual è l’esaminare ad uno ad uno tutti gli articoli che egli crede, e così chiarirsene: certo di non pervenire mai per tal via al termine della quiete da lui bramata ma d’aggirarsi di dubbio in dubbio, di disputa in disputa, senza mai concludere nulla, spendendo però nel ricercare il vero culto divino tutta quella vita che da Dio gli fu conceduta ad esercitarlo. Facciasi ciò che mai piace. Il credere, perché sia credere, ha da esser volontario: e però chi crede ha sempre, se egli vuole, a poter non credere: Multa potest facere homo nolens, dice s. Agostino, credere autem non potest, nisi volens (Tract. 56 in Ioan.). Posto ciò, chiunque si accorge di avere in capo un cervello altero, conviene che contentisi di abbassarlo; non ricordarsi che l’ingegno, come il mercurio, sublimato è veleno, precipitato è rimedio.

VI. Datemi uno spirito ragionevole, che non si ritiri a bello studio dal vero, ma gli esca incontro, e che, ritrovatolo, non trapassi di là dal segno per impeto concepito nel contraddire, come trapassa di là dal segno un dondolo per l’impeto concepito nell’incontrarlo; ed io gli farò vedere in faccia alla Religione Cattolica raggi così splendenti, che sarà costretto ad abbassar le palpebre, ed a confessare: Questa è la dottrina che merita unicamente d’esser creduta, mentre dall’Onnipotente vien confermata con suggelli di note così cospicue, che se ella fosse bugiarda converrebbe dir, che Dio stesso ci avesse indotti di suo consiglio in errore.

VII. E ciò meravigliosamente potrà giovare ai fedeli ed agli infedeli: ai fedeli per infervorarli di vantaggio nella risoluzione di credere questa dottrina celeste: essendo le prove della sua credibilità somiglianti ad un cammino acceso, a cui la fede, che è cieca, è vero che non vede, ma si riscalda: e agl’infedeli, per disporgli a domare l’orgoglio del loro spirito; dacché la sola umiltà è quella che fa la strada alla fede di Cristo. In mansuetudine suscipite insitum, verbum, quod potest salvare animus vestras (Iac. 1. 21). Questa parola innestata che ha da salvarci, è qualsisia verità soprannaturale: verità che dalla ragion naturale, pianta selvaggia, non si può apprendere, salvo che per innesto. Ora a tanto ci vuole mansuetudine d’intelletto: altrimenti l’innesto non terrà mai: Esto mansuetus ad audiendum Verbum Dei, ut intelligas (Eccli. V. 13). Ma questo medesimo non vi toglie ogni scusa?  Se il Signore, affine di darvi ad intendere bene la sua parola, vi addimandasse ingegno altissimo, spiritoso, svegliato, potreste rispondergli, che la natura non vi fu cortese di tanto. Ma egli non vuole altro da voi, che docilità. E questa è vero che viene assai da natura, ma più viene ancor da virtù (S.Th. 2. 2. q. 49. art. 5. ad 3).

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (6)

R. P. CHAUTARD D. G. B .

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (6)

TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B.

8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE TORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PARTE TERZA

“ La vita attiva, pericolosa senza la vita interiore, con questa assicura il progresso nella virtù.”

1.

Le opere di zelo, mezzo di santità per le anime che fanno vita interiore, diventano per le altre un pericolo per la loro salvezza

a) MEZZO DI SANTITÀ. — A quelle anime che Dio associa al suo apostolato, chiede formalmente che non solo si conservino, ma che progrediscano nella virtù: ne troviamo la prova in ogni pagina delle Epistole di san Paolo, a Tito e a Timoteo, e nelle apostrofi dell’Apocalisse ai Vescovi dell’Asia. D’altra parte già lo abbiamo stabilito come principio, che le Opere sono volute da Dio. Dunque il vedere nelle opere, prese in sé, un ostacolo alla santificazione e affermare che, pure emanando dalla volontà divina, esse rallenteranno per forza il nostro cammino verso la perfezione, sarebbe un’ingiuria, una bestemmia contro la Sapienza, la Bontà e la Provvidenza di Dio. – Non si può evitare questo dilemma: o l’apostolato, sotto qualunque forma, se è voluto da Dio, non solo non ha in sé, come effetto, il potere di alterare l’atmosfera di soda virtù in cui si deve trovare un’anima sollecita della sua salute e del suo progresso spirituale, ma anzi costituisce sempre per l’apostolo un mezzo di santificazione, qualora venga esercitato nelle condizioni richieste. Oppure la persona scelta da Dio come sua cooperatrice, e perciò obbligata a rispondere alla chiamata divina, avrebbe diritto di portare come scuse legittime della sua negligenza nel santificarsi, l’attività, le pene e le sollecitudini date a favore dell’opera comandata.  Ora, per conseguenza dell’economia del disegno divino, Dio PER RIGUARDO A SE STESSO, deve dare all’apostolo scelto da Lui, le grazie necessarie per effettuare l’unione di occupazioni assorbenti, non solo con la sicurezza della salute, ma anche con l’acquisto delle virtù pratiche fino alla santità. – Gli aiuti che diede a san Bernardo, a san Francesco Saverio, Egli li deve, nella misura necessaria, al più modesto degli operai evangelici, al più umile religioso insegnante, alla più ignorata delle suore infermiere. Questo è un vero DEBITO DEL CUORE DI Dio verso lo strumento che sceglie, e non esitiamo a ripeterlo; e ogni apostolo, se adempie le condizioni richieste, deve avere una confidenza assoluta nel suo rigoroso diritto alle grazie che sono necessarie per un dato genere di lavoro, le quali gli danno come un’ipoteca sul tesoro infinito degli aiuti divini.  – Chi si dedica alle opere di carità, dice Alvarez de Paz, non deve pensare che queste gli chiuderanno la porta della contemplazione e lo renderanno meno capace di dedicarsi a questa; deve invece ritenere come certo che esse ve lo disporranno in modo ammirabile. Non soltanto la ragione e l’autorità dei Padri c’insegnano tale verità, ma anche l’esperienza quotidiana, perché vediamo certe anime le quali si dedicano alle opere di carità verso il prossimo, confessioni, prediche, catechismi, visite agli infermi ecc., innalzate da Dio ad un grado così alto di contemplazione, che ben si possono paragonare agli antichi anacoreti (Tom. III, lib. V). – Con le parole « grado di contemplazione », l’illustre gesuita, come anche tutti i maestri della vita spirituale, intende il dono dello spirito di orazione il quale caratterizza la sovrabbondanza della carità in un’anima. I sacrifici richiesti dalle opere, dalla gloria di Dio e dalla santificazione delle anime attingono un tale valore soprannaturale, una tale fecondità di meriti, che l’uomo dato alla vita attiva può, se vuole, innalzarsi ogni giorno a un grado superiore nella carità e nell’unione con Dio, insomma, nella santità.  Senza dubbio in certi casi in cui vi è pericolo grave e prossimo di peccato formale, particolarmente contro la Fede e la virtù angelica, Dio VUOLE che si abbandonino le opere; ma eccetto tali casi, Egli, mediante la vita interiore, ai suoi operai provvede il mezzo di rendersi immuni e di progredire nella  virtù. Un detto paradossale di santa Teresa, così giudiziosa e spiritosa, ci aiuterà a spiegare il nostro pensiero. « Da quando sono Priora, dice la santa, occupata in molte cose e obbligata a viaggi frequenti, commetto assai più mancanze; eppure, poiché combatto generosamente e mi spendo unicamente per Dio, sento che mi avvicino sempre di più a Lui ». La sua debolezza si manifesta più spesso, che nel riposo e nel silenzio del chiostro; la santa lo vede, ma non si turba. La generosità tutta soprannaturale della sua abnegazione e i suoi sforzi più vivi di prima nel combattimento spirituale, le danno in compenso occasioni di vittorie che largamente controbilanciano le sorprese di una fragilità che esisteva anche prima, ma allo stato latente. La nostra unione con Dio, dice san Giovanni della Croce, risiede nell’unione della volontà nostra con la sua e si misura soltanto da essa. Invece di vedere, per un falso concetto della spiritualità, la possibilità del progresso nell’unione con Dio soltanto nella tranquillità e nella solitudine, santa Teresa giudica invece che appunto l’attività imposta veramente da Dio ed esercitata nelle condizioni da Lui volute, alimentando il suo spirito di sacrificio, la sua umiltà, la sua abnegazione, il suo ardore e il suo zelo per il regno di Dio, viene ad accrescere l’unione intima della sua anima col Signore vivente in lei per animare le sue fatiche e per incamminarla verso la santità. La santità infatti risiede prima di tutto nella carità, e un’opera di apostolato, degna di questo nome, è carità in azione. San Gregorio dice: Probatio amoris exhibitio est operis; l’amore si prova con le opere di abnegazione, e Dio chiede ai suoi operai questa prova di generosità. – Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore; tale è la forma di carità che Gesù domanda all’apostolo come prova della sincerità delle ripetute proteste di amore.  San Francesco d’Assisi non crede di poter essere amico di Gesù Cristo, se la sua carità non si dedica alla salvezza delle anime: Non se amicum Christi reputabat, nisi animas foveret quas ille redemit (S. BONAVENTURA, Vita s. Franc., c. IX). E se Gesù Cristo considera come fatte a sé le opere di misericordia anche corporali, è perché in ciascuna di esse scopre  un’irradiazione di quella stessa carità (Matth. XXV, 40) che anima il missionario o sostiene l’anacoreta nelle privazioni, nei combattimenti e nelle preghiere del deserto.  La vita attiva si dedica alle opere di abnegazione; essa cammina per i sentieri del sacrificio e segue Gesù operaio e pastore, missionario, taumaturgo che cura e guarisce tutti e provvede, sempre tenero e infaticabile, a tutti i bisognosi della terra.  La vita attiva ricorda e fa vivere in sé quelle parole del Maestro: Io sono in mezzo a voi come un servo (Luc. XXIII, 27); Il Figliuolo dell’Uomo non è venuto per essere servito, ma per servire (Matt. XX, 28).  Essa batte le vie della miseria umana dicendo la parola che illumina, seminando intorno a sé una messe di grazie che fioriscono in benefìci di ogni sorta.  Con la sua fede illuminata, con gli intuiti del suo amore, essa scopre nel peggiore dei miserabili, nel più meschino dei derelitti, il Dio nudo, piangente, disprezzato da tutti, il gran lebbroso, il misterioso condannato che la giustizia eterna perseguita e abbatte sotto i suoi colpi, vede l’uomo del dolore che Isaia vide coperto di orribili piaghe, nella porpora tragica del suo sangue, così disfatto e straziato dai chiodi e dai flagelli, che si contorceva come un verme che si calpesti.  Così, esclama il Profeta, lo abbiamo veduto e non lo abbiamo riconosciuto (Is. LIII, 2 e 5).  Ma tu, o vita attiva, tu ben lo riconosci, e con le ginocchia a terra, con gli occhi inondati di pianto, tu lo servi nella persona dei poveri! – La vita attiva rende migliore l’umanità; fecondando il mondo con le sue generosità, con le sue fatiche, con i suoi sudori, getta il seme dei suoi meriti per il cielo. Vita santa e premiata da Dio il quale dà il paradiso al bicchiere d’acqua del povero, come ai volumi del dottore, come ai sudori dell’apostolo. Egli canonizza nell’ultimo giorno, davantialla terra e al cielo insieme riuniti, tutte le opere di carità (Lumière et fiamme di P . LEON, O. F . M. Capp. Si noti bene che si tratta, in questa citazione, di una vita attiva piena di spirito di fede, fecondata dalla carità e derivante da un’intensa vita interiore.).

b) PERICOLO PER LA SALVEZZA. — Quante volte, purtroppo, nei ritiri spirituali privati da me diretti, potei constatare che le opere le quali dovevano essere per i loro organizzatori mezzi di progresso, divenivano strumenti di rovina dell’edificio spirituale!  Un uomo di azione, invitato al principio degli esercizi spirituali, a esaminare la sua coscienza ed a cercare la causa dominante del suo stato disgraziato, si giudicava benissimo dandomi questa risposta, a prima vista incomprensibile: «Il dedicarmi agli altri è stata la mia rovina! Le mie naturali disposizioni mi facevano provare della gioia nel sacrificarmi, della felicità nel rendere servizi. Aiutato dall’apparente riuscita delle mie imprese, satana per lunghi anni mise tutto in opera per illudermi, per eccitare in me il delirio dell’azione, per disgustarmi di ogni lavoro interiore e finalmente per trascinarmi nel precipizio ».  Lo stato anormale, per non dire mostruoso, di quell’anima, è presto spiegato: l’operaio di Dio, tutto inteso alla soddisfazione di sfogare la sua attività naturale, aveva lasciato estinguere la vita divina, quel divino calorico che, condensato entro di lui, rendeva fecondo il suo apostolato e difendeva la sua anima dal freddo glaciale dello spirito della natura. Egli aveva lavorato, ma lontano dal sole vivificante: Magnæ vires et cursus celerrimus, sed præter viam (Spiegamento di forze, corsa rapidissima, ma fuori di strada – S. AGOSTINO, in Psalm.. XXXI).). In pari tempo le sue opere, sante per se stesse, si erano rivoltate contro l’apostolo come un’arma pericolosa a maneggiarsi, arma a doppio taglio, la quale ferisce chi non sa più servirsene.  Contro questo pericolo, san Bernardo metteva in guardia il Papa Eugenio III quando gli scriveva: Io temo che in mezzo alle vostre occupazioni che sono innumerevoli, disperando di poterne mai vedere la fine, voi lasciate indurire la vostra anima. Voi agireste più prudentemente con SOTTRARVI A TALI OCCUPAZIONI, anche solo per qualche tempo, che non con permettere che esse vi conducano infallibilmente dove voi non vorreste. E dove direte forse voi: ALL’INDURIMENTO DEL CUORE.  Ecco dove vi possono trascinare quelle MALEDETTE OCCUPAZIONI, HÆ OCCUPATIONES MALEDICTÆ, se ancora continuate, come faceste da principio, ad abbandonarvi interamente ad esse, senza riservare per voi nulla di voi medesimo (S. BERNARDO, De Consid., l. II, c. VI).  Che cosa vi è di più augusto e di più santo, che il governo della Chiesa? Che cosa vi è di più utile per la gloria di Dio e per il bene delle anime? Eppure maledette occupazioni, esclama san Bernardo, se esse impediscono la vita interiore di chi si applica ad esse. Che espressione è questa: maledette occupazioni! Essa vale un libro intero, tanto colpisce e obbliga a riflettere. Contro di essa si vorrebbe quasi protestare, se non fosse caduta dalla penna così esatta di un Dottore della Chiesa! di un san Bernardo!

2.

L’uomo di azione senza la vita interiore

Basta una frase per caratterizzarlo: forse non è ancora tiepido, ma tale diverrà fatalmente. Ora essere tiepido e di una tepidezza non di sentimento o di fragilità, ma di volontà, vuol dire venire a patti con la dissipazione e con la negligenza abitualmente acconsentite o non combattute, venire a patti col peccato veniale deliberato, il che vuol dire togliere all’anima la sicurezza della salute eterna, disporla, anzi condurla al peccato mortale (Dall’insegnamento di san Tommaso, risulta che quando un’anima compie un atto buono in sé, ma senza quel grado di terrore che Dio ha il diritto di attendersi da lei nello stato in cui si trova, quell’atto dispone a diminuire in un certo senso il grado di carità che essa possiede. I testi: Maledetto colui che fa l’opera di Dio con negligenza, e: Perché tu sei tiepido… comincerò a rigettarti dalla mia bocca, si spiegano così.  Di più, ogni peccato veniale, senza diminuire lo stato di grazia, ne diminuisce però il fervore: cosi esso dispone al peccato mortale.  Ora, senza una vita interiore seria, molti peccati veniali non combattuti, spesso anche non avvertiti, sono tuttavia imputabili all’anima dissipata o vile che dimentica il Vigilate et orate. Si trova cosi in san Tommaso la spiegazione della frase maledette occupazioni della pagina precedente e di ciò che si dirà in questo capitolo – Vedi S. TOMM., la 2æ, q. 52 a. 3). – Tale è la dottrina di sant’Alfonso sulla tepidezza, dottrina così bene illustrata dal suo discepolo il P. Desurmont (1e retour continuel à Dieu,). Ora come mai, senza la vita interiore, l’uomo di azione cade necessariamente nella tepidezza? Diciamo necessariamente, e ci basta, per provarlo, la parola di un Vescovo missionario ai suoi sacerdoti, parola tanto più terribilmente vera, perché emana da un cuore ardente di zelo per le Opere e da uno spirito naturalmente opposto a tutto ciò che abbia l’apparenza di quietismo. Dice dunque il cardinale Lavigerie: «Bisogna persuadersi bene che per un apostolo non vi è via di mezzo tra la santità completa, almeno desiderata e cercata con fedeltà e con coraggio, oppure la perversione assoluta ».  Ricordiamo anzitutto il germe di corruzione che la concupiscenza mantiene nella nostra natura, la guerra senza tregua che ci fanno i nostri nemici interni ed esterni, i pericoli che da ogni parte ci minacciano. Poi cerchiamo di figurarci quello che avviene di un’anima che si dà all’apostolato, senza essere abbastanza premunita ed armata contro i suoi pericoli.  N… sente svegliarsi in sé il desiderio di darsi all’azione; è però senza esperienza. La sua inclinazione all’apostolato ci permette di credere che abbia dell’ardore, una certa foga nel carattere, e possiamo immaginarci che trovi piacere nell’azione e forse anche nella lotta. Supponiamo che sia di una condotta corretta, che sia pio e anche devoto; ma di una pietà più di sentimento che di volontà, di una divozione che non è il riflesso di un’anima risoluta a cercare unicamente il beneplacito di Dio, ma piuttosto una pia usanza, residuo di lodevoli abitudini. La meditazione, se pure la fa, è per lui una specie di fantasticheria, e la lettura spirituale è un esercizio di curiosità che non influisce sulla sua condotta. Può essere pure che satana lo porti a gustare, per l’illusione di un senso artistico che la povera anima scambia con la vita interiore, le letture che trattano delle vie sublimi e straordinarie dell’unione con Dio, e ad ammirarle con entusiasmo. Ma in complesso vi è poco, e forse nulla, di vera vita interiore in quell’anima alla quale rimangono, sia pure, molte buone abitudini, molte doti naturali e un certo desiderio leale, ma troppo vago, di restare fedele a Dio.  Ecco dunque il nostro apostolo che pieno di desiderio di darsi all’azione, si abbandona con zelo al ministero nuovo per lui. Ben presto, in forza delle stesse circostanze che fanno nascere quelle nuove occupazioni (e chiunque è abituato all’azione mi comprenderà), ben presto nascono per lui mille circostanze che lo costringono sempre di più a una vita esteriore, mille attrattive per la sua ingenua curiosità, mille occasioni di cadute dalle quali possiamo credere che fino allora lo aveva difeso in parte l’atmosfera tranquilla del focolare domestico, del seminario, della comunità, del noviziato, o almeno la tutela di una saggia guida. Non solo la crescente dissipazione o la curiosità pericolosa di conoscere tutto, le impazienze o le suscettibilità, la vanità o la gelosia, la presunzione o l’abbattimento, la parzialità o la denigrazione, ma l’invasione progressiva delle debolezze del cuore e di tutte le forme più o meno subdole della sensualità sforzeranno a una lotta senza tregua quell’anima male preparata ad assalti così violenti e continui; perciò saranno frequenti le ferite.  Ma verrà anche soltanto il pensiero di resistere, a quell’anima dalla pietà superficiale, mentre è tutta intesa alla soddisfazione già troppo naturale di spendere la propria attività e la propria capacità per una causa eccellente? satana intanto sta in agguato, perché ha già adocchiato la sua preda; e non solo non si oppone a quella soddisfazione, ma la eccita a tutto potere. Arriva però un giorno in cui si intravvede il pericolo: l’Angelo custode si è fatto udire e la coscienza protesta. Bisognerebbe riprendersi, esaminarsi nella calma di un ritiro spirituale, prendere la risoluzione di attenersi a un regolamento che non si abbandonerà più, anche a costo di trascurare occupazioni divenute tanto care. Ahimè! è già tardi! L’anima, ora che ha gustato il piacere di vedere i suoi sforzi coronati dei più lusinghieri risultati, esclama: Domani, domani! Oggi è impossibile: manca il tempo, perché devo continuare quella  serie di discorsi, scrivere quell’articolo, organizzare quel sindacato, quella società di beneficenza, preparare quella rappresentazione, fare quel viaggio, sbrigare la corrispondenza… Come è felice di rassicurarsi con tutti quei pretesti! Poiché il solo pensiero di mettersi in faccia alla propria coscienza le è divenuto insopportabile. È giunto il momento in cui satana può attendere a suo agio all’opera di rovina in un cuore che si fa così bene suo complice. Il terreno è preparato: agire era divenuto una passione per la sua vittima, ed egli gliene dà la febbre; dimenticare il tumulto degli affari e raccogliersi le pareva impossibile, il demonio gliene ispira l’orrore e non manca di ubriacare per di più quell’anima con nuovi progetti che le dipinge abilmente con il bel motivo della gloria di Dio e del gran bene delle anime.  – Ecco ora quest’uomo, fino a poco fa pieno di abitudini virtuose, che da una debolezza ad un’altra sempre più grave, arriva a mettere il piede sopra il pendio così sdrucciolevole, che non potrà più fermarsi nella sua caduta. Davvero disgraziato, avendo una vaga coscienza che tutto il suo agitarsi non è secondo il Cuore di Dio, per far tacere i rimorsi, si slancia più perdutamente nel turbine. Le colpe si accumulano fatalmente: quello che prima turbava la coscienza retta di quell’anima, ora non è più altro che uno scrupolo da disprezzarsi. Volentieri va proclamando che bisogna saper vivere secondo le esigenze dei tempi, lottare con i nemici con le stesse loro armi, e perciò decanta le virtù attive e mostra disprezzo per quella che essa chiama una pietà di un’altra epoca. Le sue istituzioni del resto sono più prospere che mai, e tutti lo dicono; ogni giorno vede fiorire nuovi buoni risultati, e l’anima illusa esclama: «Dio benedice la nostra opera»; ma domani forse, su lei piangeranno, per causa di gravi cadute, gli Angeli del cielo!  – Come mai quest’anima è caduta in uno stato così deplorevole! Per INESPERIENZA, PRESUNZIONE, VANITÀ, IMPREVIDENZA E VILTÀ. Senza considerare la scarsità dei suoi mezzi spirituali, si è lanciata alla ventura in mezzo ai pericoli. Esaurite le sue provviste di vita interiore, si trova nelle condizioni del navigante temerario che non ha più la forza di lottare contro corrente e si lascia trascinare verso l’abisso.  Fermiamoci un momento a misurare con lo sguardo il cammino percorso e la profondità del precipizio: andiamo con ordine e contiamo le tappe.  

Prima tappa. L’anima da principio ha perduto, a poco a poco, se pure l’ebbe mai, la precisione e la forza delle convinzioni sulla vita soprannaturale, sul mondo soprannaturale e sull’economia del disegno e dell’azione di Nostro Signore, riguardo alla relazione della vita intima dell’operaio evangelico con le opere. Essa non vede più tali opere se non attraverso un miraggio ingannatore. La stessa vanità fa abilmente da piedestallo alla pretesa buona intenzione. «Che cosa volete, Dio mi ha dato il dono della parola, e io lo ringrazio», diceva ai suoi adulatori un predicatore pieno di vana compiacenza e vuoto di vita interiore. L’anima cerca più se stessa che Dio: riputazione, gloria, interessi personali occupano il primo posto, e quel Si hominibus placerem, servus Christi non essem (Se ancora piacessi agli uomini, non sarei servo di Gesti Cristo (Gal. I, 10), diventa per lei una parola vuota di senso.  Senza contare l’ignoranza dei princìpi, LA MANCANZA DI UNA BASE SOPRANNATURALE, la quale è il carattere di questa prima tappa, ora ha come causa, ora come conseguenza immediata, la dissipazione, la dimenticanza della presenza di Dio, l’abbandono delle giaculatorie e della custodia del cuore, la mancanza di delicatezza di coscienza e di regolarità di vita: la tepidezza è vicina, se già non è venuta.

Seconda tappa. L’uomo soprannaturale è schiavo del dovere e perciò, avaro del suo tempo: ne regola l’impegno e vive seguendo un regolamento; egli comprende che altrimenti vi sarà il predominio della natura, la vita comoda e a capriccio dal mattino alla sera. L’uomo di azione, senza una base soprannaturale, non tarda a farne l’esperienza. La mancanza di spirito di fede nell’impiego del tempo lo conduce ad abbandonare la lettura spirituale; del resto, se legge ancora, non studia più: il preparare lungo la settimana l’omelia della domenica è cosa che stava bene per i Padri della Chiesa… egli preferisce, eccetto che non ci sia di mezzo la vanità, improvvisare, e improvvisa sempre, così almeno crede, con rara fortuna… Ai libri egli preferisce le riviste; non ha più spirito di ordine, ma va svolazzando. Alla legge del lavoro, a questa gran leggedi preservazione, di moralità e di penitenza, egli si sottrae sciupando le ore di libertà e con la voglia sfrenata di procurarsi delle distrazioni.  – Egli trova faticoso e puramente teorico tutto ciò che legherebbe la sua libertà di movimento; il tempo non gli basta per tante opere e doveri sociali e neppure per quello che egli stima necessario per la sua salute e per le sue ricreazioni. Veramente, gli dice il demonio, è troppo il tempo dedicato agli esercizi di pietà, meditazione, ufficio, messa, atti del ministero… bisogna allargare un poco. E invariabilmente egli incomincia ad abbreviare la meditazione, a farla irregolarmente e forse, purtroppo, a poco a poco arriva a sopprimerla del tutto. Il punto indispensabile per restare fedeli all’orazione, cioè l’alzarsi a ora fissa, è tanto più logicamente abbandonato, perché va a letto molto tardi, e non senza motivo.  – Ora, nella vita attiva, abbandonare la meditazione è lo stesso che abbassare le armi di fronte al nemico. «Eccetto un miracolo, dice sant’Alfonso, senza la meditazione si finisce con cadere nel peccato mortale ». E san Vincenzo de1 Paoli: «Un uomo senza meditazione non è capace di nulla, neppure di rinunziare a sé in qualsiasi cosa: è la vita animale pura e semplice ». Certi autori citano queste parole di santa Teresa: « Senza meditazione, uno diventa ben presto o un bruto o un demonio. Se non fate meditazione non avete bisogno del demonio che vi getti nell’inferno, ma vi buttate da voi. Datemi invece il più gran peccatore: se egli fa meditazione anche soltanto un quarto d’ora al giorno, si convertirà; se poi persevera, egli è sicuro della sua salute eterna ». L’esperienza delle anime sacerdotali o religiose dedicate all’azione, è sufficiente per stabilire che un operaio apostolico il quale, sotto pretesto di occupazioni o di stanchezza, oppure per noia o per pigrizia o per illusione, riduce facilmente la sua meditazione a dieci o a quindici minuti, invece di attenersi a mezz’ora di meditazione seria per attingervi lo slancio e la forza necessaria nella sua giornata, cade fatalmente nella tepidezza di volontà. Evidentemente non si tratta più d’imperfezioni da evitarsi: sono i peccati veniali che si moltiplicano, e l’impossibilità in cui si è caduti, di vigilare alla custodia del cuore, nasconde la maggior parte di tali colpe alla coscienza: l’anima si è messa nello stato di non vedere più. E come potrebbe combattere quello che non discerné più come difettoso? La malattia di languore è già molto avanzata ed è la conseguenza di questa seconda tappa che è caratterizzata dall’abbandono della MEDITAZIONE e di ogni REGOLAMENTO.

Tutto è già maturo per la terza tappa il cui sintomo è la negligenza nella recita del BREVIARIO. La preghiera della Chiesa, che doveva dare al soldato di Gesù Cristo la gioia e la forza di sollevarsi di quando in quando e di trovare in Dio il mezzo di elevarsi sopra il mondo visibile, diventa un peso. La vita liturgica, sorgente di luce, di gioia, di forza, di meriti e di grazie per lui e per i fedeli, non è più altro che l’occasione di un dovere ingrato che si compie di mala voglia. La virtù intima della religione è gravemente ferita; la febbre dell’azione ha contribuito a inaridirla. L’anima non vede più il culto di Dio, se non è legato a chiassose manifestazioni esteriori; il sacrificio personale e oscuro, ma cordiale, della lode, della supplica, del ringraziamento, della riparazione, non le dice più nulla. Poco fa, durante la recita delle sue preghiere vocali, essa ripeteva con legittimo vanto, come se avesse voluto gareggiare con un coro di monaci: anch’io in conspectu Angelorum psallam tibi (In presenza degli Angeli a te canterò inni {Salmo CXXXVII, 2). Il santuario di quell’anima, prima imbalsamato dalla vita liturgica, è divenuto una pubblica piazza dove regnano il chiasso e il disordine. La sollecitudine esagerata per l’azione, e la dissipazione abituale moltiplicano le distrazioni che del resto sono sempre meno combattute. Non in commotione Dominus (Dio non è nel rumore (III Re, XIX, 11). La vera preghiera non c’è più: precipitazione, interruzioni non giustificate, negligenza, sonnolenza, ritardi, rinvio all’ultimo momento, con pericolo di lasciarsi vincere dal sonno… e forse omissioni di quando in quando, mutano il rimedio in veleno e il sacrificio di lode in una litania di peccati che forse non saranno più soltanto veniali!

Quarta tappa. Tutto si concatena: l’abisso chiama l’abisso. I SACRAMENTI! Si ricevono e si amministrano come una cosa rispettabile si, ma non si sente più palpitare la vita che essi contengono. La presenza di Gesù nel santo Tabernacolo o al tribunale di penitenza non riesce più a far vibrare fino al midollo dell’anima la fede. ANCHE LA MESSA, il sacrificio del Calvario, è un giardino chiuso; l’anima certamente è ancora lontana dal sacrilegio, vogliamo sperarlo, ma non sente più il calore del Sangue divino. Le sue consacrazioni rimangono fredde, le sue comunioni tiepide, distratte, superficiali; una familiarità irriverente, l’abitudine e forse il disgusto già la insidiano.  L’apostolo così deformato vive fuori di Gesù e non è più favorito di quelle parole intime che Gesù dice soltanto ai suoi amici.  – Tuttavia di quando in quando l’Amico celeste gli manda un rimorso, un raggio di luce, una chiamata; egli aspetta, bussa, chiede di entrare: Vieni a me, povera anima ferita, ma vieni dunque e io ti guarirò: Venite ad me omnes… et ego reficiam vos (Matt. XI, 28); perché Io sono la tua salvezza: Salus tua ego sum (Ps. XXXIV). Io sono venuto a salvare quello che era perduto: Venit Filius hominis quærere et sàlvum facete quod perierat (Luc. XIX, 10). Questa voce cosi soave, così tenera, così discreta, così premurosa, procura dei momenti di commozione, delle velleità di fare meglio; ma essendo la porta del cuore appena socchiusa, Gesù non può entrare, e questi buoni movimenti dell’anima tiepida non hanno nessun effetto. La grazia passa invano e si rivolge contro l’anima stessa. Forse anche, nella sua misericordia, per non accumulare tesori d’ira, Gesù cesserà di parlare: Time Jesum transeuntem et non revertentem (temi Gesù che passa e non ritorna).  – Andiamo ora più innanzi e penetriamo nell’intimo di quest’anima che stiamo descrivendo. La parte che hanno i pensieri, è preponderante nella vita soprannaturale, come nella vita morale e intellettuale. Quali sono i pensieri che la occupano e a quale corrente obbediscono! Tali pensieri, umani, terreni, vani, superficiali, egoistici, convergono sempre più verso l’Io o verso le creature, spesso anche con l’apparenza di abnegazione e di sacrificio. A tale disordine nell’intelletto, corrisponde il disordine nella fantasia. Nessuna facoltà umana dev’essere repressa più di questa; ma di reprimerla non vi è neppure l’idea, e perciò con la briglia sul collo essa si dà a una corsa pazza e va in tutti i traviamenti, in tutte le pazzie. La progressiva soppressione della mortificazione degli occhi permette alla pazza di casa di trovare pascolo un po’ dappertutto. Il disordine continua la sua strada e dall’intelletto e dalla fantasia scende nelle affezioni. Il cuore non si pasce più che di chimere. Che cosa sarà di quel cuore dissipato che non si cura quasi più del regno di Dio in lui e che è divenuto insensibile ai colloqui intimi con Gesù, alla sublime poesia dei misteri, alle severe bellezze della liturgia, agli inviti e alle attrattive del Dio dell’Eucaristia, insensibile insomma alle influenze del mondo soprannaturale? Si concentrerà in se stesso? Questo sarebbe un suicidio. No! esso sente bisogno di affezione; ma non trovando più la sua felicità in Dio, amerà la creatura. Esso è in balia della prima occasione e vi si getta imprudentemente, perdutamente, senza darsi forse pensiero dei voti più santi né del maggior interesse della Chiesa e neppure della sua riputazione. Supponiamo pure che la prospettiva dell’apostasia ancora lo turbi, e profondamente, ma già lo spaventa di meno lo scandalo delle anime.  Certamente, per grazia di Dio, l’andare così fino al fondo è una rara eccezione; ma chi non vede che il disgusto di Dio e l’accettazione del piacere illecito può trascinare il cuore alle maggiori disgrazie? Dall’animalis homo non intelligit (L’uomo animalo non percepisce lo cose che sono dello spirito di Dio (I Cor. II, 14), si giunge per forza al qui nutriebantur in croceis amplexati sunt stercora (Coloro che erano allevati nella porpora, hanno abbracciato il fango – Ger. LAMENT. IV, 5). L’illusione ostinata, l’accecamento della mente, l’indurimento del cuore vanno progredendo, e c’è da aspettarsi tutto.  Per colmo di sventura la volontà si trova non già distrutta, ma ridotta a uno stato di debolezza e di fiacchezza, che equivale quasi all’impotenza. Provatevi a domandargli non già di reagire energicamente, questo sarebbe inutile, ma di tentare soltanto uno sforzo, ed egli vi darà questa risposta disperata: Non posso. Ora in tal caso non essere più capace di uno sforzo vuol dire andare in completa rovina.  Un empio famoso osò dire che egli non poteva ammettere la fedeltà ai loro voti e ai loro obblighi in certe anime che per la loro azione vivono mescolate alla vita del secolo. «Esse camminano, soggiungeva, sopra una fune tesa, e le loro cadute sono inevitabili ». A tale ingiuria contro Dio e la Chiesa, bisogna rispondere senza esitare, che tali cadute si evitano SICURAMENTE quando si sappia valersi del prezioso bilanciere della vita interiore, e che soltanto all’abbandono di questo mezzo infallibile bisogna attribuire le vertigini e i passi falsi e scandalosi verso il precipizio.  – L’illustre gesuita P. Lallemant risale alla causa iniziale di simili cadute quando dice: Molti uomini apostolici non fanno nulla unicamente per Dio, ma cercano in tutte le cose se stessi e mescolano sempre segretamente i loro interessi con la gloria di Dio, nelle loro migliori imprese. Essi passano cosi la loro vita in questa mescolanza di natura e di grazia; finalmente poi viene la morte e allora soltanto aprono gli occhi, vedono la loro illusione e tremano all’avvicinarsi del terribile giudizio di Dio (P . LALLEMANT, Direct. Spirit.). Lungi da me il pensiero di annoverare tra gli apostoli che predicano se stessi, lo zelante e valente missionario, l’illustre sacerdote Combalot, ma non mi pare fuori di proposito il citare le sue parole in punto di morte. «Abbiate fiducia, caro amico, gli diceva il sacerdote dopo di avergli amministrato gli ultimi sacramenti; voi avete serbato l’integrità della vostra vita sacerdotale, e le vostre migliaia di prediche vi scuseranno dinanzi a Dio dell’insufficienza di vita interiore che voi deplorate. — Le mie prediche! Oh! a che luce le vedo ora! Le mie prediche! Ah! se Nostro Signore non me ne parla Lui per il primo, non comincerò io certamente! ». Alla luce dell’eternità, quel venerando sacerdote vedeva nelle sue migliori opere di zelo, delle imperfezioni che gli turbavano la coscienza e che egli attribuiva ad una deficienza di vita interiore.  – Il cardinale du Perron, in punto di morte, dimostrava il suo pentimento di aver atteso, durante la sua vita, più a perfezionare la sua intelligenza con gli studi, che non la sua volontà con gli esercizi della vita interiore (idem): O Gesù, Apostolo per eccellenza, chi mai si è prodigato come Voi nella vostra vita mortale? Oggi Voi vi date più abbondantemente ancora con la vostra vita eucaristica senza abbandonare tuttavia il seno del Padre! Fate che noi non dimentichiamo mai che Voi non accetterete le nostre fatiche, se non sono animate da un principio davvero soprannaturale e se non hanno le loro radici nel vostro Cuore adorabile!

DA SAN PIETRO A PIO XII (18)

[G. SBUTTONI: da s. PIETRO A PIO XII. Editrice A.B.E.S. Bologna, 1953)

Dall’anno 1000 ai giorni nostri:

CAPO VI.

DALLA RIFORMA ALLA RIVOLUZIONE (2)

4 – LA MASSONERIA

D. Quali rapporti esistono tra la Massoneria e la Chiesa!

— La Massoneria è uno dei nemici che più ha tentato di prevalere contro la Chiesa e questa l’ha condannata con 8 Encicliche, 3 Bolle ed un Breve. – Pochissimi avversari hanno dovuto subire la continua, aperta lotta di nove Papi e la spietata guerra di tutto il Clero cattolico per oltre duecento anni.

D. Quali sono i documenti di condanna?

— I seguenti:

— Clemente Xll: Enc. « In eminenti» (4 maggio 1738).

— Benedetto XIV: fine. « Providas » (18 maggio 1751).

— Pio VII: Bolla « Ecclesiam a Jesu Christo » (13 nov. 1821).

— Leone Xll: Bolla « Quo graviora » (13 marzo 1825).

— Pio VIII : Enc. « Traditi humilitati nostra » (24 maggio 1829).

— Gregorio XVI: Enc. « Mirari vos » (15 agosto 1843).

— Pio IX: Enc. « Qui pluribus » (9 nov. 1846) : Alloc. « Singulari quidam » (9 die. 1854); Alloc. « Maxima quidem laetitia » (9 luglio 1862); Breve « Ex epistola» (26 ott. 1865) diretta a Mons. Darbój; Enc. « Etsi multa luctuosa » (21 nov. 1873).

— Leone XIII: Enc. « Quo apostolici » (28 dicembre 1878);

Enc. « Humanum genus» (20 aprile 1884).

D. Perchè queste condanne piene e inequivocabili?

— Per la natura della Massoneria stessa.

D. Che cos’è la Massoneria?

— È un’associazione segreta internazionale basata su una dottrina di libero esame, che rigetta ogni soprannaturale e pretende di trovare nella sola « ragione » umana la regola della vita personale sociale.

D. Qual è tu sua tattica?

Perconseguire il suo fine essa opera nella società subdolamente, infiltra i suoi elementi nelle associazioni e nei partiti più diversi, si accaparra elementi che vi fanno parte; praticamente cerca di essere una forza occulta ed incontrollabile per manovrare a suo beneplacito le leve della società.

D. Quale la sua caratteristica?

— L’ambiguità, per cui si presta ed aderisce a tutte le situazioni spirituali (salvo quella del Cattolico, perchè essa è « a priori » ribelle al soprannaturale e al dogma).

D. Da dove la sua forma di attrazione?

— Dal suo « mistero » e dalla sua «religiosità» universalistica, oltre che dalla sua attività e potenza politica ed umanitaria.

D. Dov’è più settaria ed anticristiana?

— Nei paesi latini. Comunque essa è, dovunque e sempre, la negazione della Religione rivelata e la sostituzione dell’uomo a Dio: è la catalizzazione in termini eriti di religiosità irreligiosa della ribellione moderna al Cristianesimo, della incredulità e della miscredenza razionalista che ha voluto mettere il mondo moderno in rivolta contro Dio.

PER QUESTO PAPI E I.A CHIESA NON HANNO POTUTO NON CONDANNARLA.

D. Ha essa qualche cosa di fìsso?

— Pur nella disintegrazione individualistica d’ogni principio dottrinale ha questo di fisso, che attrae soprattutto i giovani: il suo simbolismo e la sua gerarchia.

D. Quali sono i sìmboli massonici?

— Sono riti, cerimonie, emblemi, segni ecc. tolti dalla Bibbia, dal Cristianesimo, dai « misteri » pagani e dalle antiche Corporazionimurarie. Ma è una derivazione puramente materiale e artificiale, chevuole indubbiamente essere un mezzo pedagogico ed istruttivo, unsistema di allegorie inteso ad illustrare ed inculcare leaspirazioni della Massoneria.

[Ma soprattutto è il culto del baphomet-lucifero che si manifesta apertamente nei riti dal 30° livello in poi – ndr.-]

D. Qual è la gerarchia!

— Tutti i riti massonici constano di tre gradi:

1) apprendista,

2) compagno.

3) maestro,

che potrebbero corrispondere sia alle tre fasi a iniziazione dei misteri antichi, sia alle tre « vie» dell’ascetismo cristiano (« via» purgativa, illuminativa, unitiva), e sono accompagnati da simboli diversi: il libro della Bibbia, la stella fiammeggiante (a 5 punte invertita, di lucifero), la scala teologica, il teschio da morto, il tetragramma giudaico, ecc..

D. Qual è la cerimonia per introdurre un nuovo aspirante!

— Il « neofita » rimane chiuso nel « gabinetto di riflessione » a compilare il «testamento». (gli fanno compagnia un teschio, simbolo della morte, ed un tozzo di pane, simbolo della vita. Nel testamento deve rispondere a tre domande: « Che cosa dovete all’umanità, alla patria, a voi stesso ». Poi l’aspirante subisce la cerimonia del « battesimo massonico »: il Venerabile, mascherato, incrocia le spade sul capo dell’iniziando, mentre uno dei due assistenti incappucciati gli fa sentire la fredda lama del pugnale sulla pelle in corrispondenza del cuore. Il neofita in ginocchio gli presta giuramento. I padrini lo assistono.

D. Che ha davanti il massone, superato il periodo di « apprendistato » (Massonerìa Azzurra)?

— Ha davanti la lunga scala di 33 gradi:

1) una selezione di gradi fino al 18° « Rosa Croce » (Massonerìa Rossa)

2) un numero variabile di gradi di perfezione che portano al 30° o « Cavaliere Kadosh » (Massoneria Nera)

3 ) infine gli ultimi tre:

31° o « Grande Ispettore Inquisitore »;

32° o « Principe del real segreto »:

33° o «Grande Ispettore Generale».

Questi ultimi gradi costituiscono la Massoneria Bianca.

D. Qual è l’organo supremo della Massoneria in ogni singolo Stato?

— Il «Grande Oriente» (nome di origine incerta; forse perché la luce viene da oriente?), al quale fanno parte tutte le Logge dello Stato.

D. Che cos’è la « Loggia »?

—  È la sezione locale e sede della riunione della relativa comunità massonica.

D. Che cos’è il «tempio »?

—- E ‘ il luogo di riunione.

D. Da chi dipende, ogni loggia?

— Da un «maestro del seggio».

D. Che cosa, costituisce l’insieme di più logge?

— La « grande loggia », retta da un Venerabile.

D. Come si chiama il capo delle Grandi Logge, riunite in Grande Oriente!

— Gran Maestro o Sovrano.

D. Da che cosa è circondata dunque l’attività massonica?

— Da tenebre e mistero, per cui la Costituzione Italiana ha pronunciato la sua condanna con l’art. 31: « Sono proibite le associazioni segrete ».

D. In Italia è unita e compatta la Massonerìa?

— No. Vi è quella di Piazza del Gesù o di rito scozzese e quella di Palazzo Giustiniani, tra loro in lotta. Quando infatti il 15 maggio 1949 si doveva addivenire ad una « Costituente Massonica», che doveva fondere in un unico organismo i vari gruppi, non se ne poté constatare che il clamoroso fallimento. Non per questo tuttavia essa si presenta meno insidiosa e meno pericolosa.

D. Con quale sigla si è sempre presentata la Massonerìa?

— Con questa: « A. G. D. G. A. D. U. » che vuol dire: «Alla gloria del Grande Architetto dell’Universo». Fino dal sec. XVIII questa misteriosa sigla apriva di rigore ogni documento massonico o compariva nelle camiture delle logge.

D . Quando sorse la Massonerìa!

— Le sue vere origini sono avvolte nel mistero.

D . Che afferma il massone Rebold?

— In « Histoire des Trois Grandes Loges », pag. 670, 697, afferma che essa « è sorta da un’antica e celebre corporazione di arti e mestieri fondata in Roma da Numa Pompilio nel 715 a. C. – La lista dei Grandi Maestri risalirebbe al 292 a. C. ad un certo Albano grande « Venerabile » e primo « Grande Ispettore » massonico.

D. È ciò attendibile?

— È evidentemente umoristico o per lo meno leggendario. Come è ugualmente leggendario assegnare alla massoneria origini giudaiche, anche se l’influenza degli ebrei nella moderna massoneria è effettivamente preponderante.

D. Qual è il parere dei migliori studiosi in materia?

— È che le origini massoniche vanno ricercate nelle « Corporazioni murarie » medioevali. Fin dal sec. XII una forte corrente migratoria, seguendo le linee di diffusione dello stile gotico dall’ « Ile de France » in tutta Europa, portò in Inghilterra numerosi artigiani ed operai « muratori » (macons) che si costituirono all’uso medioevale in numerose « logge » riunite in una « gilda » o corporazione.

D. Quando fiorirono le « massonerie corporative » o « gilde murarie »?

— Durante tutto il Medio Evo fino alla rivoluzione protestante ed erano quindi sopra tutto organizzazioni a carattere « sindacale » per i muratori massoni. A poco a poco però la Massoneria corporativa si trasformò — alla fine del ‘600 ed ai primi decenni del ‘700 in « Massoneria Speculativa ».

D . Come avvenne tale trasformazione?

— Avvenne sotto l’influsso di cause politiche ed ideologiche.

D. Che cosa vi influì « politicamente »?

— Vi influirono le lotte fra gli Stuart, il Parlamento inglese e la casa d’Orange. Gli Stuart cercarono l’appoggio dei membri delle Corporazioni massoniche, facendone uno strumento politico e trasferendo segretamente l’organico massonico nell’esercito per dominare l’apparato militare.

D. Che cosa trasformò « ideologicamente » la Massoneria professionale nell’organizzazione moderna a contenuto filosofico?

— Fu l’introduzione di teorie umanitarie internazionalistiche a sfondo religioso naturalistico, sorte in alcuni circoli inglesi sotto la denominazione di « logge Rosa-Croce ».

D. Cosi dunque qual è la data di nascita della massoneria moderna?

— È il 1717, allorché le quattro logge di Londra si fondono in un’unica Grande Loggia sotto un Grande Maestro.

D. A quando risale la prima condanna pontificia?

— A 21 anno dopo (1788) da parte di Clemente XII.

D. Che cosa intendevano queste logge?

— Conservando le antiche cerimonie e proponendo come scopo la costruzione simbolica del Tempio della nuova Umanità, queste logge intendevano tenere uniti i loro membri inun deismo generico [in realtà satanico-luciferino – ndr. -], superiore ad ogni confessione religiosa e spregiatore di ogni Rivelazione. Rendevano onore al « Grande Architetto dell’ Universo » prescindendo assolutamente da ogni concetto soprannaturale, in aperta opposizione al Cristianesimo e sopra tutto al Cattolicesimo.

D. Che le giovò?

L ‘ ambiente del sec. XVIII, saturo di stanchezza, snervato dall’indifferenza religiosa, dilaniato nell’unità, disintegrato dal libero esame, inaridito dalla critica.

D. Che cosa s’affermò in simile ambiente?

— L a nuova filosofia razionalista e, in sostanza, miscredente.

I n questo ambiente la Rivelazione appare ormai come inammissibile; la « ragione » è unica fonte di conoscenza, e. in definitiva, unica sorgente di verità anche sul terreno religioso.

Il Cristianesimo rivelato non ha nessun valore ; la Chiesa ancormeno. I dogmi sono catene di errori imposti all’ignoranza.

D. Che cosa produce questo ambiente filosofico e sociale?

— Questo ambiente filosofico e sociale, questo secolo razionalista e scientifico, miscredente e deista, dà pieno sviluppo alla massoneria.

D. In quali paesi era ed è tuttora fiorente e potente?

— In Inghilterra, Francia e Stati Uniti.

In Inghilterra essa favorì il rapido propagarsi delle idee razionaliste dell’Illuminismo e servì come difesa delle posizioni dell’imperialismo inglese. Nel 1772 le logge erano 160; oggi sono oltre 4.400. – In Francia, fattasi autonoma, si sviluppò intorno alla Rivoluzione francese ed intorno alla potenza napoleonica (massone fu il Bonaparte). Nel 1847 la Francia ebbe oltre 1200 logge; oggi ne ha 450. Alla massoneria francese si ricollegano quelle del Belgio, Romania, Svizzera, America del Sud, e, in parte, dell’Italia.

(Gli Stati Uniti sono la più grande potenza massonica. La Federazione degli Stati nacque nelle « logge », propugnata da Coxe e Franklin. Dalla gran loggia di Boston il 6 dicembre 1773 parte il segnale della rivolta. Attualmente la massoneria negli S. U. conta 18.000 logge con 3.500.000 fratelli.

D.  E in Italia?

— Lasciata in balìa di se stessa, fino quasi a consumarsi nelle lotte interne, ora sembra risvegliarsi e iniziare approcci internazionali per giungere al riconoscimento ufficiale del « Grande Oriente Americano ». Almeno così fa la nostra massoneria scozzese in contrasto con quella di Palazzo Giustiniani. Questa di Casa Giustiniani, raccogliendo gran parte, se non tutto, il culturame comunistoide, sembra diventare un’appendice di Mosca.

[Ovviamente non è qui il caso di aggiornare i numeri spaventosamente cresciuti in Italia e nel mondo, e le infiltrazioni ben conosciute perfino in Vaticano, ove la sinagoga adorante il “signore dell’universo”, cioè il baphomet-lucifero, si è sostituita alla Chiesa Cattolica conservandone l’aspetto esterno usurpato, ma rivoltandone tutta la dottrina e la liturgia, oggi vera e propria ritualità satanica – n.d.r. -].

APPENDICE II.

LA QUESTIONE DI GALILEO

GALILEO GALILEI, una delle più grandi figure d’ogni tempo, fu sommo scienziato e scrittore, nato u Pisa nel 1564, compì gli studi umanistici a Firenze e quelli scientifici nella città natale, dote insegnò dal 1589 al 1602; ìndi passò a Padova. – Nel 1610 si stabilì a Firenze in qualità dì matematico e filosofo del granduca. E’ autore dell’invenzione dell’ orologio a pendolo, del termometro, del cannocchiale, del microscopio. Si deve principalmente a lui il grande sviluppo preso dalla fisica. Accrebbe la vasta fama di cui godeva quando scoprì le macchie solari e dimostrò che la luna è ricoperta di monti e che la via lattea non è che un ammasso gigantesco di stelle. Nel 1611 si recò a Roma, dove ricevette onori anche dal Papa Paolo V, che manifestò per lui una benevolenza particolare. Ma quando, in base alle sue indagini astronomiche, egli propugnò il sistema copernicano, sembrò a qualche teologo che simile concezione fosse contraria alla sacra Scrittura. Si citava al riguardo il versetto del salma 103, dove è detto: « Tu hai fissato la terra sulle sue basi » e le parole di Giosuè: « Non muoverti, o sole, da Gabaon ». L’errore di Galileo fu di appoggiare le sue affermazioni sulla S. Scrittura. Egli sosteneva che essa non può errare, ma che potevano errare bensì i suoi interpreti, ai quali spetta di conciliare le loro spiegazioni conì risultati certi della scienza. Di qui divampò una lotta vivace. La finale fu che Galileo venne accusato di eresìa davanti al tribunale dell’Inquisizione a Roma. Il tribunale nel 1618 riprovò il sistema Copernicano, che, come è noto, insegna che la terra simuove attorno al sole, e proibì di diffonderlo. Nel marzo dello stesso anno, la Congregazione dell‘Indice, proibì i libri che contenevano tale dottrina. Gli scritti di Galileo non vennero espressamente condannati, né all’insigne scienziato furono vietati gli studi nel campo astronomico, a cui poté attendere tranquillamente a Firenze. – Eletto papa Urbano VIII, grande ammiratore di Galileo, questi, nell’aprile del 1624, fu ricevuto più volte, e sembra con molta cortesìa, dal Pontefice. Usando prudenza, lo scienziato avrebbe potuto continuare a lavorare a favore del sistema copernicano. Ma purtroppo gli fece difetto la diplomazia. Nel febbraio del 1632 pubblicò il « Dialogo sopra i due massimi sistemi », opera scritta con splendore di stile e con fine umorismo (ma priva di rigore e dimostrazioni scientifiche di un qualche valore), ma che urtò la suscettibilità della Congregazione del S. Ufficio e che procurò all’autore un nuovo processo e una nuova condanna. Nonostante la grave età, egli dovette lasciare Firenze, e recarsi a Roma, per subirvi il processo. Conviene dire però che gli furono usati i massimi riguardi. Durante i giorni del processa, abitò nel palazzo del Procuratóre del S. Ufficio, dove, com’egli attesta, trovò agevolezze insolite e squisite attenzioni, e, quando fu colpito da una leggera indisposizione, fu condotto nel palazzo del Niccolini, ambasciatore, di Toscana. Dopo la condanna, il Papa gli diede facoltà di abitare nel palazzo della Trinità dei Monti, in Roma, con libero accesso ai vasti giardini adiacenti. – In seguito, dietro richiesta dello stesso Galilei, fu condotta a, Siena, presso l’arcivescovo Piccolomini, e finalmente nella propria villa di Arcetri, vicino a Firenze, dove, morì a 77 anni nel 1642. – Egli rimase sempre fedele, alla Chiesa: prima di morire fece chiedere al Papa la benedizione apostolica. I documenti del processo escludono nel modo più assoluto ciò che qualcuno ha in passato asserito, cioè che il Galilei, durante l’interrogatorio di Roma, sia stato sottoposto alla tortura (anzi il processo fu una truffa alla verità, organizzato a mo’ di farsa da giudici compiacenti che non avevano alcun titolo, senza che comparissero i Gesuiti dell’Indice che avevano ben compreso l’eresia atomistica del libello galileano. La teoria eliocentrica d’altra parte non ha mai avuto nessuna prova concreta né dimostrazione di alcun tipo, tranne  la sigla del TG1 ed i trucchi scenografici e fotografici della NASA – ndr. -]

Per un’idea più chiara e veritiera dell’affare Galilei rimandiamo al seguente articolo:

https://www.exsurgatdeus.org/2017/06/26/la-verita-su-galilei/

Per valutare giustamente questa spinosa questione, occorre tener presenti alcune circostanze storiche. In quel tempo si temevano, e non a torto, le audacie dottrinali dei protestanti circa la libera interpretazione della S. Scrittura. I teologi si erano impennati a sostegno delle frasi della Bibbia, che apparivano in contrasto con il sistema copernicano, il quale del resto ancora non era stato scientificamente provato [né lo sarà mai!]. D’ altra parte Galileo errò nel volere entrare nel campo della interpretazione scritturale. Il tribunale, che certo agì con molto rigore, volle salvare il principio de « la Bibbia è senza errori » [l’inerranza biblica è dogma di fede tridentino! – ndr.-], temendo che si rinnovasse in Italia ciò che era avvenuto in Germania per opera di Lutero.

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (5)

R. P. CHAUTARD D. G. B .

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (5)

TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B.

8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALETORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PARTE SECONDA

Unione della vita attiva e della vita interiore

4.

Vita interiore e vita attiva si chiamano a vicenda

Come l’amore di Dio si rivela con gli atti della vita interiore, così l’amore del prossimo si manifesta con le operazioni della vita esteriore e perciò, non potendosi separare l’amore di Dio e l’amore del prossimo, ne risulta che queste due forme di vita non possono stare l’una senza l’altra (vitam diligendus est proximus, ac per hoc, sic non possuinus sine utraque esse vita, sicut et sine utraque dilectione esse nequaquam possumus – S. IBID., Different, lib. II, XXXIV, n. 135). Perciò, dice il Suarez, non vi può essere uno stato correttamente e normalmente ordinato per giungere alla perfezione, il quale non partecipi in una certa misura dell’azione e della contemplazione (Concedendum ergo est nullum esse posse vitæ studium recte institutum ad perfectionem obtinendam, quod non aliquid de actione et de contemplatane participet – SUAREZ, de Relig. trac., 1. I, cap. V, n. 5). L’illustre gesuita non fa altro che commentare l’insegnamento di san Tommaso. Coloro che sono chiamati alle opere della vita attiva, dice il Dottore Angelico, avrebbero torto a credere che questo dovere li dispensi dalla vita contemplativa; questo dovere non ne accresce e non ne diminuisce la necessità. Perciò le due vite non solo non si escludono a vicenda, ma si chiamano, si suppongono, si mescolano e si completano, e se si deve dare una parte maggiore all’una delle due, bisogna darla alla vita contemplativa che è la più perfetta e la più necessaria (GOFFREDO, Vita S. Bern., I, c. V e III). Perché sia feconda, l’azione ha bisogno della contemplazione; questa quando giunge a un certo grado d’intensità, diffonde sulla prima qualche cosa della sua sovrabbondanza, e così l’anima va ad attingere direttamente nel cuore di Dio le grazie che razione deve distribuire. – Perciò nell’anima di un santo, l’azione e la contemplazione, fondendosi in perfetta armonia, danno alla sua vita una meravigliosa unità. Tale era, per esempio, san Bernardo, l’uomo più contemplativo e inpari tempo più attivo del suo secolo. Di lui unsuo contemporaneo fa questa magnifica descrizione: in lui l’azione e la contemplazione si accordavano così bene, che egli pareva nel tempo stesso tutto dedito alle opere esteriori e intanto tutto assorto nella presenza e nell’amore del suo Dio(S. TOMM., 2a 2æ, q. 182, a. 1 ad 3).  Commentando quel testo scritturale: Pone me ut signaculum super cor tuum, ut signaculum super brachium tuum – Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio – Cant. VIII, 6), il F. Saint-Jure descrive molto bene i rapporti tra le due vite; riassumiamo le sue riflessioni. Il cuore significa la vita interiore, contemplativa; il braccio, la vita esteriore, attiva.  Il sacro testo nomina il cuore e ilbraccio per mostrare che le due vite possono allearsi e andare perfettamente d’accordo nella medesima persona.  Il cuore è nominato per il primo, perché è un organo più nobile e più necessario che il braccio; così pure la contemplazione è assai più eccellente e più perfetta, e merita più stima che non l’azione. – Il cuore batte notte e giorno, e un momento di fermata in questo organo essenziale porterebbe alla morte. Il braccio invece che è soltanto parte integrante del corpo umano, si muove solo a intervalli. Così noi dobbiamo di tanto intanto dare un po’ di tregua al nostro lavoro esteriore, ma non sospendere mai la nostra applicazione alle cose spirituali.  Il cuore dà la vita e la forza al braccio, per mezzo del sangue che gli manda, altrimenti questo membro si paralizzerebbe. Così la vita contemplativa, vita di unione con Dio, con i lumi e la continua assistenza che l’anima riceve da questa intimità, vivifica le occupazioni esteriori ed essa sola ècapace di comunicare loro, insieme con un carattere soprannaturale, una reale utilità. Senza di essa, tutto è languido, sterile, pieno d’imperfezioni.  L’uomo disgraziatamente troppo spesso separa quello che Dio ha unito, perciò questa perfetta unione è molto rara, e poi per effettuarsi esige un complesso di precauzioni che spesso si trascurano: non intraprendere nulla di superiore alle proprie forze; vedere in tutto abitualmente, ma semplicemente, la volontà di Dio; non impegnarsi nell’azione se non quando Dio lo  vuole e nella misura esatta in cui lo vuole da noi, e con il solo desiderio di esercitare la carità; offrirgli fin dal principio il nostro lavoro e durante il lavoro ravvivare spesso con santi pensieri e con ardenti giaculatorie la nostra risoluzione di agire soltanto per Lui e per mezzo di Lui; ancora durante il lavoro, qualunque sia l’attenzione che si richiede da noi, conservarci sempre nella pace, perfettamente padroni di noi medesimi; per la riuscita, rimetterci unicamente a Dio e non desiderare di essere liberati dalla fatica se non per ritrovarci soli con Gesù Cristo. Tali sono i sapientissimi consigli dei maestri della vita spirituale, per giungere a questa unione. Qualche volta le occupazioni si moltiplicheranno tanto, da richiedere tutte le nostre energie, senza che possiamo in nessun modo liberarci dal nostro peso e neppure alleggerirlo. La conseguenza ne potrà essere la privazione, per un tempo più o meno lungo, del godimento dell’unione con Dio, ma questa unione non ne soffrirà, se noi non lo vogliamo. Se tale stato si prolunga, BISOGNA SOFFRIRNE, GEMERNE E SOPRATTUTTO TEMERE CHE DIVENTI ABITUDINE. L’uomo è debole e incostante; trascurata la sua vita spirituale, ben presto ne perde il gusto; assorbito dalle occupazioni materiali, finisce con sentirne piacere. Invece se lo spirito interiore esprime la sua vitalità latente con gemiti e sospiri, questi continui lamenti che vengono da una ferita la quale non si chiude nemmeno in mezzo ad un’attività assorbente, costituiscono il merito della contemplazione sacrificata, o meglio l’anima mette in effetto quella meravigliosa e feconda unione della vita interiore e della vita attiva. Stimolata da questa sete di vita interiore, che essa non può soddisfare a suo agio » ritorna con ardore, appena lo può, alla vita di orazione. Il Signore le prepara sempre alcuni istanti di conversazione; Egli vuole però che essa vi sia fedele e le concede di poter compensare eoi fervore la brevità di quei momenti felici.  In un testo le cui parole sono tutte degne di essere meditate, san Tommaso riassume molto bene tale dottrina: Vita contemplativa, ex genere suo, maioris est meriti quam vita activa. Potest nihilominu8 uccidere ut aliquis plus mereatur aliquid exter-num agendo: pitta si propter abundantiam divini amoris, ut Eius voìuntas impleatur, propter Ipsius gloriam, interdum sustinet a dulcedine divinæ contemplationis ad tempus separati (La vita contemplativa è in sé più meritoria che la vita attiva. Può tuttavia accadere che un uomo meriti di più, facendo un atto esteriore: per esempio se per causa dell’abbondanza di amore, per compiere la volontà di Dio, per la sua gloria, si tollera qualche volta di stare privo, per qualche tempo, della dolcezza della divina contemplazione – 2a 2æ, q. 18, a. 2).  Notiamo l’abbondanza di condizioni che il santo Dottore suppone, perché l’azione diventi più meritoria della contemplazione. La molla interna che spinge l’anima all’azione non è altro che la sovrabbondanza della sua carità: Propter abundantiam divini amoris; non si tratta dunque né dell’agitazione né del capriccio né del bisogno di espandersi. E difatti è un dolore per l’anima: Sustinet, per essere privata delle dolcezze della vita di orazione (Dolcezza che avendo la sua sede soprattutto nella parte superiore dell’anima, non sopprime punto le aridità, perciò: Exsuperat omnem sensum. La logica della fede pura, arida e fredda in sé, basta alla volontà per infiammare il cuore con una fiamma soprannaturale con l’aiuto della grazia.  Sopra il suo letto di morte, a Moulins, santa Giovanna di Chantal, ima delle anime più provate nell’orazione, lasciava alle sue figliuole, come testamento, il principio di cui essa era vissuta per logica della fede: la maggiore felicità quaggiù è di potersi trattenere con Dio.), a dulcedine divinæ contemplationis… separati. Perciò essa sacrifica soltanto provvisoriamente: Accidere… interdum… ad tempus, e per un fine affatto soprannaturale: ut Eius voluntas impleatur, propter Ipsius gloriam, una parte del tempo riservato all’orazione.  – Quanta sapienza e quanta bontà nelle vie del Signore! Che meravigliosa direzione Egli dà all’anima con la vita interiore! Conservata in mezzo all’azione e intanto generosamente offerta, questa pena profonda di dover consacrare tanto tempo alle opere di Dio e così poco al Dio delle opere, trova il suo conforto. Per lei infatti scompaiono tutti i pericoli di dissipazione, di amor proprio, di affezioni naturali; invece di nuocere alla libertà di spirito e all’attività, questa disposizione di animo dà loro un carattere più serio. Essa è la forma pratica dell’esercizio della presenza di Dio, perché l’anima trova nella GRAZIA DEL MOMENTO PRESENTE, Gesù vivo che si offre a lei, nascosto sotto il lavoro da compiere: Gesù lavora con  lei e la sostiene. Quante persone sotto il peso del lavoro dovranno a questa pena salutare ben compresa, a questo desiderio sacrificato, eppure mantenuto, di avere più tempo di stare presso il santo Tabernacolo, a quelle comunioni spirituali quasi continue, dovranno, dico, la fecondità della loro azione e nel tempo stesso la sicurezza dell’anima loro e il progresso nella virtù!

5.

Eccellenza di questa unione

L’unione delle due vite, contemplativa e attiva, costituisce il vero apostolato, opera principale del Cristianesimo, come dice san Tommaso: Principalissimum officium (3a p. q. 67, a. 2 ad 1).  L’apostolato suppone anime capaci di entusiasmarsi per un’idea, di consacrarsi al trionfo di un principio. Se l’effettuazione di questo ideale diventa soprannaturale per lo spirito interiore, se il nostro zelo, nel suo scopo, nel suo focolare e nei suoi mezzi, è animato dallo spirito di Gesù, noi avremo la vita in sé più perfetta, la vita per eccellenza, poiché i teologi la preferiscono anche alla semplice contemplazione: Præfertur simplici contemplationi (San Tommaso). L’apostolato dell’uomo di orazione è la parola conquistatrice, col mandato di Dio, con lo zelo delle anime, col frutto delle conversioni: Missio a Deo, zélus animarum, fructificatio auditorum (San Bonaventura). È il vapore della fede, dalle salutari esalazioni: Zélus, id est vapor fidei (Sant’Ambrogio).  L’apostolato del santo è la semina del mondo. L’apostolo getta alle anime il frumento di Dio (P. Leon, passim, op. cit.). È l’amore in fiamme che divora la terra, l’incendio della Pentecoste irresistibilmente propagato attraverso i popoli: Ignem veni mittere in terram (Io sono venuto a gettare il fuoco sulla terra – S. Luc. XII, 19).  – La sublimità di questo ministero consiste nel provvedere alla salute degli altri, senza pregiudizio per l’apostolo: sublimatur ad hoc ut aliis provideat. Trasmettere le verità divine alle intelligenze, non è questo un ministero degno degli Angeli? Contemplare la verità è cosa buona, ma il comunicarla agli altri è meglio ancora; riflettere la luce è qualche cosa di più che il riceverla; rischiarare è meglio che risplendere sotto il moggio. Con la contemplazione l’anima si nutre, con l’apostolato si dà: Sicut maius est illuminare quam lucere solum, ita maius est contemplata aliis tradere quam solum contemplari (S. TOHM., 2a 2æ, q. 188, a. 6). – Contemplata aliis tradere: in questo ideale di apostolato, la vita di orazione resta la sorgente: tale è il pensiero evidente di san Tommaso. Questo testo, come pure le parole dello stesso santo Dottore citate alla fine del capitolo precedente, condanna chiaramente l’americanismo i cui partigiani sognano una vita mista in cui l’azione soffocherebbe la contemplazione.  Esso infatti suppone due cose: 1° che l’anima viva già abitualmente di orazione e ne viva abbastanza da dover dare soltanto il superfluo; 2° che l’azione non debba sopprimere la vita di orazione, e che, pure dandosi agli altri, l’anima debba praticare la custodia del cuore, in modo da non correre nessun serio pericolo di sottrarre l’esercizio della sua attività all’influenza di Gesù Cristo.  La parola scultoria del P. Matteo Crawley, l’apostolo della Consacrazione delle famiglie al Sacro Cuore di Gesù, traduce esattamente il pensiero di san Tommaso: L’apostolo è un calice pieno fino all’orlo, della vita di Gesù Cristo e la cui sovrabbondanza si riversa sulle anime.  Questa unione dell’azione, con tutto il suo dispendio di zelo, e della contemplazione, con le sue sublimi elevazioni, produsse i più grandi Santi, san Dionigi, san Martino, san Bernardo, san Domenico, san Francesco d’Assisi, san Francesco Saverio, san Filippo Neri, sant’Alfonso, tutti ardenti contemplativi e in pari tempo grandi apostoli.  Vita interiore e vita attiva! Santità nelle opere! Unione potente, unione feconda! quanti prodigi di conversione voi operate! O Dio, date alla vostra Chiesa molti apostoli, ma ravvivate nel loro cuore, infiammato dal desiderio di sacrificarsi, una sete ardente della vita di orazione. Date ai vostri operai questa azione contemplativa e questa contemplazione attiva; allora l’opera vostra si compirà, i vostri operai evangelici riporteranno quelle vittorie che voi annunziaste loro prima della vostra gloriosa Ascensione.

DA SAN PIETRO A PIO XII (17)

[G. SBUTTONI: da s. PIETRO A PIO XII. Editrice A.B.E.S. Bologna, 1953)

DALL’ANNO 1000 AI GIORNI NOSTRI

CAPO VI.

DALLA RIFORMA ALLA RIVOLUZIONE (1)

PREAMBOLO

Il Seicento e il Settecento

Secolo di guerra il primo; secolo di decadenza l’altro. Grande, il Seicento nostro, cattolico, italiano, romano. Nella pietà, nella scienza, nelle arti: l’arte più ricca, più fastosa e più libera, che dà un volto magnifico alla Roma nostra trionfante la Roma delle cupole e delle fontane, la Roma di Piazza S. Pietro — è l’arte del Seicento.

La Chiesa ha trionfato nella guerra a morte che le ha dichiarato il protestantesimo; ha salvato i paesi latini e germanici del sud: ha compensato con le conquiste missionarie l’apostasia europea — Ma il trionfo segna solo una, pausa.. L’assedio continua. Si stringe sempre più serrato contro la Chiesa e Roma, su tutti i settori. Politicamente, il Papato è sequestrato dalla vita internazionale ed è ridotto ad un monarcato italiano. Nei paesi protestanti si sviluppano i potenti movimenti intellettuali e sociali di intonazione anticattolica che si infiltrano, con la stampa e con le applicazioni settarie, anche nei paesi cattolici e segnatamente in Francia; dottrine eretiche, anticattoliche e, addirittura, anticristiane, si diffondono con il giansenismo, con la massonerìa, con l’enciclopedismo. La soppressione dei Gesuiti — richiesta dalle stesse corti cattoliche — segna nel 1773 un momento decisivo nella lotta immane. – L’offensiva anticattolica mira sopra tutto a togliere alla Chiesa i giovani e i laici — gli uomini, s’intende — lasciandole, con degnazione, il « sesso debole ». il ritornello dice che la Chiesa è morta e che le restano, a piangere, le donne anzi, le donnette, le donnicciole e… gli spiriti deboli. Gli « esprits forts » sono fuori e contro la Chiesa, gettata sempre più da parte con il tuo soprannaturale dinnanzi all’affermarsi sempre più accentuato del valore «sapremo » della ragione astratta; motivo per cui il sec XVII e detto « secolo dei lumi », onde il termine « ILLUMINISMO ». – Il  vocabolo c illuminismo » manifesta l’intento generoso, ma, nel modo, ingiusto, di rischiarare le menti e tutti i settori della cultura, che si credevamo sommersi, nelle nebbie dell’ ignoranza o della superstizione indotte nel mondo dalla « fourberie monacale »: ha dunque senso polemico contro la precedente concezione ilei mondo. Il vocabolo «ideologia» manifesta invece il metodo seguito: sottoporre a contrailo critico, mediante accurata analisi scientifica delle idee, tutto il sapere, scartando ciò che non risulti razionalmente fondato: e « fondato » si giudica soltanto ciò che sia dimostrato con il metodo delle scienze naturali. – Il cànone fondamentale del movimento è la fede assoluta nella ragione umana che da sola vale a costituire la verità, a risolvere ogni problema. Da questo punto di vista, Illuminismo ha per padre Cartesio, il quale ha la fama di aver trovato per primo il filo metodico per aggirarsi nel labirinto del pensiero umano. – Le costruzioni metafisiche sono giudicate chimere da questo movimento, chiùso a ogni luce dell’al di là, scettico e irriverente, aperto solo all’idolo della scienza, nella quale la ragione aveva il sita pieno dominio.

L’Illuminismo come filosofia e religione, si scosta gravemente dalla concezione metafisica classica, che è l’unica vera metafisica, e dal Cristianesimo, che è l’unica vera religione.

« La scienza del sec. XVII » aveva posto le sue basi con Galileo e raggiunto un alto grado di sviluppo con Keplero e Newton. La natura che durante i secoli precedentiera sempre apparsa all’uomo come un qualche cosa di misterioso e disordinato, quasi animata da forze libere e capricciose, svelava ora il segreto del suo ordine e delle sue armonie; l’uomo nel possesso della legge si sentiva dominatore e padrone di ciò die solo pochi secoli prima lo atterriva e gli si imponeva nella ignoranza e nella superstizione. E il segreto di questo rovesciamento era, fondamentalmente, l’abbandono del procedimento filosofico e l’introduzione del punto di vista meccanicistico nell’indagine scientifica. La tradizioue, la voce del passato, ogni autorità esteriore dei filosofi, dei teologi, della Rivelazione, della Chiesa, viene estromessa o, che è lo stesso, accettata se è nella misura in cui coincide con la ragióne scentifica (antistoricismo o meglio antitradizionalismo). Si svilisce lostudio della storia come inutile, anzi come insidioso veicolo di pregiudizi e di errori, proclamando l’autonomìa e la sufficienza della ragione personale. Si sogna di disincrostare l’uomo dalle perniciose superstrutture indotte dalla civiltà dei secoli passati, per ricondurlo al primitivo stato vergine selvaggio. Questo atteggiamento è gravido di rivoluzione filosofica, religiosa, politica: la Rivoluzione francese scoppiò forse contro gl’intendimenti degli illuministi, ma certo è figlia legittima dell’illuminismo.

Il Culto della Natura è un altro corollario dell’illuminismo e coincide con il culto della ragione. La natura è intesa come realtà autosufficiente, retta da leggi immutabili che lutto spiegano senza postulare l’intervento di Dio… il quale, soppressa la « metafisica », non hapiù modo di imporsi come causa prima cosmogonica e pertanto come nozione essenziale di una scienza integrale. Il meglio che l’illuminismo produsse in fatto di religione è il Deismo. Quanto alla fede cristiana e schernita come « abitudine domenicale », superstizione e l’impostura* (Reimarus). L’essere privilegialo, fra gli esseri di natura, è l’OMO. La natura stessa si prospetta (dia fine come un dintorno dell’uomo e come « tregnum hominis ». Va da se che l’illuminismo razionalistico prescinde, quando non esclude, dall’elevazione dell’uomo allo stato soprannaturale, dai contributi che la teologia rivelata reca all’antropologia e da tutti i sussidi che la rivelazione fornisce all’attività teoretica e pratica dell’uomo. In particolare esso proclama la naturale e totale bontà dell’uomo, negando il dogma del peccato originale, combattendo la coscienza del peccato e della decadenza, come il desiderio ili grazia purificante ed elevante, la Redenzione e le istituzioni liturgiche sacramentarie delle religioni positive e della Chiesa. Volendofare un bilancio dei pregie dei difetti dell’illuminismo, si può. tra i pregi, annoverare in particolare il magnifico incremento della scienza, il senso dell’universale solidarietà umana (postulato — conservato forse senza volerlo — del Cristianesimo), la reazione contro le ingiustizie sociali (relitto delle corporazioni medioevali) e lo sviluppo delle scienze economico-sociali. Ma la massa delle conquiste resta paurosamente inferiore al bilancio dei guasti, operati dall’illuminismo, i cui princìpi, profondamente anticristiani, trovarono larghissima accoglienza in Europa, e scatenarono la lotta contro la Chiesa (Giansenismo, Gallicanesimo, Enciclopedismo, massoneria ecc.), spronarono il vasto movimento di riforme sociali, determinando infine la Rivoluzione Francese. L’illuminismo era alieno dalle violenze, ma la storia, da esso istruita, gli scappò di mano. Il romanticismo, la restaurazione, le guerre mondiali, l’irrazionalismo contemporaneo non valsero a debellarlo; tanto è vero che costituisce tuttora per tanta parte  l’impianto della società occidentale. Lo stesso Marxismo sovietico non è una reazione all’illuminismo, pur lottando contro questa società; che anzi dell’illuminismo è una forma, invero assai scadente.

D. Da che cosa sono contrassegnati i due secoli che vanno dalla Riforma tridentina alla Rivoluzione francese?

— Sono contrassegnati da una scissione che si va operando lentamente ma fatalmente tra la Chiesa e lo Stato e dal trionfo di dottrine filosofiche, che non impugnano soltanto questa o quella verità, ma la sostanza stessa del Cristianesimo, anzi l’intero edificio religioso.

D. Quali sono i principali errori teologici e filosofici di questo periodo?

— Il Giansenismo, il Gallicanesimo, l’Enciclopedismo, la Massoneria

1 – IL GIANSENISMO

D. Che cos’è il Giansenismo?

— È l’eresia di Cornelio Giansenio, il quale, partendo dalle posizioni di Baio, secondo cui il peccato originale avrebbe corrotta radicalmente ed intrinsecamente la natura umana, con il pretesto di seguire le orme di S. Agostino, afferma che Adamo, e con lui ogni uomo, con il peccato originale ha perduta la libertà, quindi l’uomo per ogni atto buono ha bisogno della grazia efficace che determini intrinsecamente la volontà. Questa determinazione però non toglierebbe la libertà. Il duplice amore di Baio qui diventa duplice dilettazione vittrice, l’una terrena che scaturisce dalla natura umana corrotta, e quindi determinante al peccato, l’altra celeste, che scaturisce dalla grazia efficace e quindi determinante al bene e alla vita eterna. L’una e l’altra rendono l’uomo non padrone dei propri atti meritori.

D. Che segue da questo errore base del Giansenio?

— Ne segue che l’uomo è schiavo della dilettazione terrestre o della celeste e perciò viene capovolta tutta l’economia cristiana della redenzione.

D. In che modo è capovolta tutta l’economia cristiana della redenzione?

— In quanto, secondo Giansenio, nello stato attuale, non c’è altra grazia che la efficace, alla quale l’uomo non può resistere, e questa Dio la dà non a tutti, ma solo a chi vuole, a coloro che predestina al paradiso, mentre tutti gli altri sarebbero predestinati all’inferno.

D. Che nasce da simile dottrina?

— Nasce un tetro pessimismo ed un asfittico rigorismo, che invano si cerca di mitigare con una sentimentale rassegnazione. Questo atteggiamento sentimentale ha favorito l’influsso esercitato da Giansenio sul pensiero, sull’arte e sulla vita del sec. XVIIe XVIII specialmente oltr’Alpe.

D. Giunse il Giansenismo in Italia?

— Sì. benché assai attenuato; quasi come reazione al lassismo morale, ed incontrò il favore in qualche ecclesiastico di tendenza rigoristica, come il domenicano Concina. il card. Enrico Noris, il vescovo di Pistoia Scipione Ricci.

D. Quale fu il maggior focolaio di Giansenismo ?

— Il convento femminile di Port-Royal, presso Parigi.

D. Oltre la lotta dei Papi, che cosa si oppose al Giansenismo?

— Da devozione al S. Cuore di Gesù, dopo le celebri apparizioni del Redentore a s. Margherita Alacoque (1673), si contrappone alla glaciale spiritualità giansenistica.

2 – IL GALLICANESIMO

D. Che cos’è il Gallicanesimo?

— È il movimento d’indipendenza dal potere spirituale del Papa che nella chiesa di Francia si delineò con la Prammatica Sanzione di Bourges (1438), fiori con la Dichiarazione sotto il regno di Luigi XIV e si spense con il Concilio Vaticano.

D. A chi cosa mirava la Prammatica Sanzione !

— Nella mente di Carlo VII re di Francia (1 luglio 1438) mirava a regolare le relazioni fra lo Stato e la Chiesa. Vi si affermava la superiorità dei Concili ecumenici sul Papa, venivano aboliti il diritto di appello alla s. Sede, i giudizi ecclesiastici fuori del regno, e si ristabilivano le nomine alle maggiori cariche ecclesiastiche per mezzo del suffragio del clero e del popolo. La Prammatica Sanzione fu abolita da Luigi XI nel 1461.

D. Dove si erano già palesati indizi di spirito gallicano?

— Nella polemica tra Filippo il Bello e Bonifacio VIII, ma fondamentalmente il Gallicanesimo trae origine dalla nota « teoria conciliare », sostenuta durante lo Scisma d’Occidente (tanto favorito dai Cardinali francesi) e sancita nel Concilio di Costanza, secondo la quale il Concilio Ecumenico sarebbe superiore al Papa.

D. Chi diede occasione alla controversia gallicana?

— Fu Luigi XIV, il quale, non solo estese ad alcuni territori, da lui conquistati, la «regalia temporale» (cioè il diritto concesso dai Papi ai re di Francia di amministrare i beni ecclesiastici delle sedi vacanti, con relativo godimento dei frutti, ma si arrogò altresì il diritto alla « regalia spirituale », già condannata da Papi e Concili.

D. Alla ferma opposizione del Papa che cosa contrappose!

— La cosiddetta « DICHIARAZIONE DEL CLERO GALLICANO », compilata purtroppo dal famoso oratore Bossuet, vescovo di Meaux, votata nell’assemblea del clero francese del 1682.

D. Come si può riassumere ?

— In queste quattro proposizioni:

1) S. Pietro e i successori non ricevettero da Gesù Cristo alcun potere sui re; i re nelle cose temporali sono indipendenti anche dal Papa, perciò la Chiesa non può possedere nulla senza il consenso del re.

2) 1 Concili ecumenici sono superiori al Papa.

3) L’autorità del Papa è limitata dalle leggi della Chiesa Universale, e in Francia anche dalle abitudini e istituzioni della chiesa gallicana.

4) Le definizioni del Papa, anche in materia di Fede, sono intangibili soltanto quando sia sopravvenuto il consenso della Chiesa Universale.

D. Che avvenne di queste proposizioni?

— Furono-condannate da Innocenzo XI e, in seguito, ritirate dallo stesso Luigi XIV (1693),

D. Resistette ancora il gallicanesimo?

— Nel ‘700 sì, ma nell’800, con il Concilio Vaticano del 1870, è completamente vinto.

D. Lo spirito gallicano si manifestò anche fuori della Francia?

— Sì, in Germania con il FEBRONlANESIMO (sistema di Febronio), che lascia al Papa il solo Primato d’onore, subordina il Papa al Concilio ecumenico e appoggia l’autonomia delle chiese nazionali, riconoscendo vasti poteri agli Stati in materia ecclesiastica. – Fu condannato da Clemente XIII (1764).

I ) . Dove pure si manifestò !

— In Austria con il GIUSEPPIN1SMO, cioè con l’intromissione di Giuseppe II, inteso a sottrarre i vescovi all’influenza della s. Sede, per assoggettarli allo Stato: pretese persino di dettare leggi di culto, per cui fu detto «imperatore sagrestano».

3 – L’ENCICLOPEDISMO

P. Che cos’è l’Enciclopedismo!

— È il movimento promosso da una schiera di filosofi miscredenti, quali Diderot, D’Alembert, Voltaire, Holbach, Rousseau, che tanto contribuì a distruggere la fede in Dio e nella spiritualità dell’anima e i principi fondamentali della morale cristiana.

D. Quale fu lo spirito informatore dell’opera degli Enciclopedisti’!

— Fu un razionalismo illuministico e un naturalismo volto ad abbattere la cosiddetta superstizione (cioè religione positiva e rivelata! e a criticare le vecchie istituzioni politiche.

D. Chi preparò il terreno agli Enciclopedisti?

— Le nuove dottrine filosofiche esaltanti la ragione come fonte « unica » della conoscenza e la natura come « principio universale » delle cose, in sostituzione del Dio trascendentale della teologia cattolica.

D. Chi sono i principali maestri delle nuove dottrine filosofiche ?

— CARTESIO in Francia è il padre dell’idealismo (— spiegazione della realtà nell’idea), perfezionato in Germania da KANT;

— SOCINO in Italia, per scalzare dalle fondamenta l’antica fede, fa rivivere tutti gli errori di Ario, Pelagio, Nestorio e Calvino:

— CHERBUBY in Inghilterra fa un passo più avanti e con il Deismo viene a escludere tutte le dottrine rivelate che non hanno originenella natura e prepara il naturalismo di ANDERSON, il quale negandoanche l’esistenza di Dio, veniva a distruggere tutta la religione.

— A ciò s’aggiunse il materialismo (= spiegazione della realtà nella materia) che insegna che la materia esiste da tutta l’eternità e perciò è Dio. (Panteismo gnostico).

D. Chi tra gli enciclopedisti fece più scuola?

— VOLTAIRE, che adoperò tutto il suo ingegno a demolire, con il sarcasmo, il Cristianesimo;

— e ROUSSEAU, di Ginevra, il quale, per la ricostruzione della società, pone tre cose:

1) la bontà « originaria » dell’uomo,

2) l’uguaglianza degli uomini,

3) la sovranità del popolo, al quale viene attribuito il diritto perpetuo alla rivolta.

D . Che produssero questi principi?

— Scatenarono l’odio feroce delle masse contro l’ordine religioso e sociale, contro Dio e i monarchi, contro le persone e gl’istituti preesistenti.

D. Che nacque da quest’odio?

— Quel periodo di travaglio sociale, di guerre, di rivoluzioni, di cui sentiamo tutt’ora le tragiche conseguenze, e che cesserà soltanto quando la società avrà ritrovato il punto fermo e sicuro della concordia, della giustizia, della carità, della libertà ben intesa, del mutuo rispetto, conforme agl’insegnamenti della dottrina di Cristo.

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (4)

R. P. CHAUTARD D. G. B .

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (4)

TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B.

8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE

TORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA

NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PARTE SECONDA

Unione della vita attiva e della vita interiore

1.

Preminenza, riguardo a Dio, della vita interiore sulla vita attiva.

In Dio vi è la vita, ogni vita; Egli è la stessa vita. Ora l’Essere Infinito non manifesta questa vita nel modo più intenso nelle sue opere esteriori, come per esempio nella creazione, ma in quelle che la teologia chiama operazioni ad intra, in quell’attività ineffabile il cui termine è la generazione eterna del Figlio e la continua processione dello Spirito Santo: qui vi è per eccellenza la sua opera essenziale ed eterna.  – Consideriamo la vita mortale di Gesù Cristo, esecuzione perfetta del disegno divino: trent’anni di raccoglimento e di solitudine, poi quaranta giorni di ritiro e di penitenza preludono alla sua breve carriera evangelica; e quante volte ancora noi lo vediamo, nelle sue corse apostoliche, ritirarsi sulla montagna o nel deserto per pregare: Secedebat in desertum et orabat(Si ritirava nel deserto e pregava – S. Luc. V, 16), oppure passare la notte nell’orazione: Pernoctans in oratione Dei(Si ritirò sulla montagna per pregare e passò tutta la notte in orazione di Dio – S. Luc. VI, 12). Cosa più significante ancora, Marta desidera che il Signore, condannando il preteso ozio di sua sorella, proclami la superiorità della vita attiva; ma la risposta di Gesù: Maria optimam partem elegit(Maria ha scelto la parte migliore – S. Luc. X, 42), consacra la preminenza della vita interiore. Che cosa ne dobbiamo conchiudere, se non il proposito ben fermo di farci sentire la preponderanza della vita di orazione sulla vita attiva?  – Dopo il Maestro, gli Apostoli, fedeli al suo esempio, si riserveranno dapprima l’ufficio della preghiera e poi, per darsi al ministero della parola, lasceranno ai diaconi le occupazioni  più esteriori: Nos vero orationi et ministerio verbi instantes erimus (E noi ci dedicheremo interamente alla preghiera e al ministero della parola – Atti VI, 4). – I Pontefici alla loro volta, i santi Dottori, i Teologi affermano che la vita interiore è in sé superiore alla vita attiva.  Pochi anni fa, una donna di gran fede, di virtù e di carattere, Superiora generale di una delle più importanti Congregazioni insegnanti dell’Aveyron, fu invitata dai suoi superiori ecclesiastici a favorire la secolarizzazione delle sue religiose. Bisognava sacrificare le opere alla vita religiosa, oppure abbandonare quelle per conservare questa? Perplessa, non sapendo come conoscere la volontà di Dio, parte segretamente per Roma, ottiene un’udienza da Leone XIII, gli espone i suoi dubbi e l’insistenza che le viene fatta a favore delle opere. L’augusto vegliardo, raccoltosi per qualche momento, le dà questa risposta categorica: «Prima di tutto il resto, prima di tutte le opere, conservate la vita religiosa a quelle tra le vostre figliuole che posseggono davvero lo spirito della loro vocazione e l’amore della vita di orazione. Se non potete conservare insieme con questo anche le opere, Dio saprà suscitare in Francia altre operaie, se occorre. In quanto a voi, con la vostra vita interiore, soprattutto con le vostre preghiere e con i vostri sacrifizi, sarete più utili alla Francia restando davvero religiose, anche lontane da lei, che non rimanendo in patria prive dei tesori della vostra consacrazione a Dio».  – In una lettera indirizzata a un Istituto esclusivamente insegnante, Pio X espresse chiaramente il suo pensiero con queste parole: Sappiamo che va diffondendosi un’opinione secondo la quale voi dovreste dare il primo posto all’educazione dei fanciulli e il secondo posto soltanto, alla professione religiosa: così vorrebbero lo spirito e i bisogni del tempo. Noi NON VOGLIAMO ASSOLUTAMENTE che tale opinione abbia il più piccolo valore per voi e per gli altri Istituti religiosi che, come il vostro, hanno per scopo la rieducazione. Resti dunque stabilito per quanto vi riguarda, che la vita religiosa importa assai più che la vita ordinaria, e che se avete gravi obblighi verso il prossimo per il dovere di i/nse* gnare, ben più gravi sono gli obblighi che vi legano a Dio (Il lasciare l’abito religioso per continuare un’istituzione, non è cosa biasimata da Pio X, purché si mantengano 1 mezzi per conservare in tutto lo spirito religioso). – La ragione di essere della vita religiosa, il suo scopo principale, non è forse l’acquisto della vita interiore?

Vita contemplativadice san Tommaso – simpliciter melior est… et potior quam activa(La vita contemplativa è migliore della vita attiva e le è preferibile.).  – San Bonaventura accumula i comparativi per mostrare l’eccellenza della vita interiore: Vita sublimior, securior, opulentior, suavior, stabilior (Vita più sublime, più ricca, più sicura, più soave e più stabile.).

Vita sublimior.

La vita attiva si occupa degli uomini, la vita contemplativa invece ci fa entrare nel dominio delle più sublimi verità, senza distogliere i suoi sguardi dallo stesso principio di ogni vita: Principium quod Deus est quæritur. Essendo più sublime, essa ha un orizzonte e un campo di azione assai più esteso: Martha in uno loco torpore laborabat circa aliqua, Maria in multis locis caritate circa multa. In Dei enim contemplatione et amore videi omnia; dilatatur ad omnia, eomprehendit et complec-titur omnia, ita ut eius comparatone Martha sollicita dici possit circa panca (Marta in un solo luogo si dedicava corporalmente a poche cose. Maria con la carità lavorava in più luoghi e in diverse occupazioni. Contemplando e amando Dio, essa vede tutto, si estende a tutto, comprende e abbraccia tutto. Si può dunque dire che, in confronto di Maria, Marta si turba per poche cose – RICCARDO DA S. VITTORE, in Cant., 8).

Vita securior.

In essa vi sono meno pericoli. Nella vita quasi esclusivamente attiva, l’anima si agita, diventa febbricitante, disperde le sue energie e con ciò s’indebolisce. Vi è un triplice difetto: Sollicita es(Marta, Marta, tu ti affanni e t’inquieti per molte cose; eppure una sola è necessaria – S. Luc. X, 41, 42).): sono le sollecitudini del pensiero, sollicitudinis in cogitata; Turbaris: ecco i turbamenti che nascono dalle affezioni, turbationis in affectu; finalmente Erga plurima: moltiplicazione di occupazioni, e perciò divisione nello sforzo e nelle azioni, divisionis in actu. — Una sola cosa invece s’impone per formare la vita interiore, cioè l’unione con Dio: Porro unum, est necessatium. Il resto è e non può essere che secondario e si fa soltanto in virtù di questa untone e per rafforzarla di più.

Vita opulentior.

Con la contemplazione si trovano tutti i beni. Venerunt mini omnia bona pariter eum illa (Con essa mi sono venuti tutti i beni – Sap. VII, 11).). Essa è la parte più eccellente di tutte: Optimam partem elegit(Essa ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta – S. Luc. X, 42). 2). In essa si fanno più meriti, perché essa aumenta nello stesso tempo lo slancio della volontà e il grado dì grazia santificante, e fa agire l’anima per un principio di carità.

Vita suavior.

L’anima che vive davvero di vita interiore, si abbandona al beneplacito di Dio, accetta con lo stesso cuore paziente tanto le cose piacevoli quanto le penose e arriverà fino al punto di mostrarsi lieta nelle afflizioni, fortunata di portare la sua croce.

Vita stabilior.

La vita attiva, per quanto sia intensa, termina quaggiù; predicazioni, scuole, lavori di ogni sorta, tutto finisce alle porte dell’eternità. La vita interiore invece non ha tramonto: Quæ non auferetur ab ea. Per lei la dimora su questa terra non è altro che una continua ascesa verso la luce, ascesa che la morte rende immensamente più radiosa e più rapida.  – Per riassumere tutte le eccellenze della vita interiore, possiamo applicarle queste parole di san Bernardo: « In essa l’uomo vive più puro, cade più di rado, si rialza più prontamente, cammina più sicuro, riceve più grazie, riposa più tranquillo, muore più fiducioso, è purificato più presto e riceve una ricompensa più grande» (S. BERNARDO, Hom. Simile est.. De bono relig.).

2.

L’azione dev’essere soltanto l’effusione della vita interiore

Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste (S. Matt. V, 48). Fatte le debite proporzioni, il modo di agire di Dio dev’essere il criterio e la regola della nostra vita esteriore e interiore.  Ora sappiamo che è proprio della natura di Dio il dare, ed è un fatto constatato, che Egli sparge a profusione i suoi benefici su tutti gli esseri e più particolarmente sulla creatura umana. Così da migliaia, se non da milioni di secoli, tutto l’universo è oggetto di quella inesauribile prodigalità che si espande continuamente in benefizi. Dio intanto non s’impoverisce mai, e la sua inesauribile munificenza non può per nulla diminuire le sue infinite ricchezze. – Ma all’uomo, Dio non si accontenta di concedere beni esteriori, gli manda il suo Verbo. E anche qui, in questo atto di somma generosità che è il dono di se stesso, Dio non abbandona nè può abbandonare nulla dell’integrità della sua natura. Dandoci suo Figlio, Egli lo conserva sempre in se stesso: Sume exemplum de summo omnium Parente Verbum suum emittente et retinente (Prendete esempio dal Creatore di tutte le cose, il quale manda il suo Verbo e nel tempo stesso lo tiene con sé – S. BERNARDO, lib. II de Consid,, e. III).  Per mezzo dei Sacramenti, e specialmente per mezzo dell’Eucaristia, Gesù Cristo viene ad arricchirci delle sue grazie; Egli le versa su noi senza misura, perché è un oceano sconfinato che ribocca su noi, senza mai esaurirsi: De plenitudine eius nos omnes accepimus (Noi tutti abbiamo ricevuto dalla sua pienezza – Giov. I, 16).  Cosi, in un certo modo, dobbiamo essere noi, uomini apostolici, che abbiamo il nobile compito di santificare gli altri: Verbum tuum considerano tua, quæ si proceda, non recedat(Il vostro Verbo è la vostra considerazione; essa si allontani da voi senza uscirne – S. BERNARDO, Hb. II de Consid., c. III).; il nostro verbo è lo spirito interiore che la grazia ha formato nelle nostre anime. Questo spirito dunque dia vita a tutte le manifestazioni del nostro zelo, ma come continuamente viene speso a vantaggio del prossimo, così viene continuamente rinnovato con i mezzi che Gesù ci offre: la nostra vita interiore sia il tronco pieno di buon succo, e le nostre opere ne siano la fioritura. Un’anima di apostolo dev’essere essa per la prima inondata di luce e infiammata di amore, affinché riflettendo questa luce e questo calore, possa illuminare e riscaldare gli altri. Quello che essi videro, che contemplarono con i loro occhi, quello che quasi toccarono con mano, lo insegneranno agli uomini (I S. Giov. I, 1). La loro bocca verserà nei cuori l’abbondanza delle dolcezze celesti, dice san Gregorio.  Possiamo intanto stabilire questo principio: LA VITA ATTIVA  DEVE PROCEDERE DALLA VITA CONTEMPLATIVA, TRADURLA E CONTINUARLA DI FUORI E DISTACCARSENE IL MENO POSSIBILE.  – I Padri e i Dottori proclamano tale dottrina.  Priusquam exserat proferenlem linguam, dice sant’Agostino, ad Deum levet animam sitientem ut eructet quod biberit, vel quod impleverit fundat(Prima di permettere alla sua lingua di parlare, l’apostolo deve innalzare a Dio la sua anima assetata, per poter poi esalare ciò che ha bevuto e diffondere quello di cui si sarà riempito – S. AGOSTINO, Doct. Christ. I, IV). – Prima di comunicare, dice lo Pseudo-Dionigi (PSEUDO-DION., Cæl. hier,, c. III), bisogna ricevere, e gli Angeli superiori trasmettono agli inferiori soltanto quei lumi di cui ricevettero la pienezza. Il Creatore ha stabilito quest’ordine universale riguardo le cose divine: colui che ha la missione di distribuirle, vi deve partecipare per il primo e riempirsi prima abbondantemente delle grazie che Dio vuol dare alle anime per mezzo suo; allora, e soltanto allora, a lui sarà permesso di farne parte agli altri. Tutti conoscono quell’avviso che san Bernardo dà all’uomo apostolico: [Se sei saggio, sii un serbatoio e non un canale: Si sapis, concham te exhibebis, non canaìem (S. BERNARDO, Serm. 1 8 in Cant.). Il canale lascia scorrere l’acqua che riceve, senza serbarne una goccia; il serbatoio invece si riempie, poi senza vuotarsi versa il di più che  sempre si rinnova, nei campi che rende fertili. Quanti sì dedicano all’azione e non sono mai altro che canali! e mentre si sforzano di fecondare i cuori, essi restano all’asciutto! Canales multos hodie habemus in Ecclesia, conchas vero perpaucas (Vi sono oggi nella Chiesa molti canali, ma pochissimi serbatoi (S. BERNARDO, ibid.), soggiungeva con amarezza il santo Abate di Chiaravalle. – Ogni causa è superiore al suo effetto, perciò si richiede maggior perfezione per poter perfezionare gli altri, che non per poter semplicemente perfezionare se stesso (S. TOMM., Opusc. de perf, vit. Spirt.).  Come la madre non può allattare il bambino se non nella misura in cui alimenta se stessa, cosi i confessori, i direttori spirituali, i predicatori, i catechisti, i professori, devono prima assimilare la sostanza con cui nutriranno poi i figli della Chiesa (Oportet quod prædicator sit imbutus et dulcoratus in se, et post aliis proponat – S. BONAVENTURA, Illus. EccL, Serm. 17). La verità e l’amore divino sono elementi di questa sostanza, e soltanto la vita interiore può fare della verità e della carità divina un nutrimento capace di dare la vita.

3.

La base, il fine e i mezzi di un’istituzione devono essere penetrati dalla vita interiore

Dobbiamo dire un’Istituzione degna di questo nome, perché certune ai nostri giorni non meritano tale titolo: sono opere organizzate con un’apparenza di pietà, ma con lo scopo reale di procurare ai loro fondatori, con gli applausi del pubblico, una fama di capacità non comune, e per la cui riuscita sarebbero adoperati, all’occorrenza, tutti i mezzi, anche quelli meno giustificabili. Altre opere meritano certamente maggiore stima; esse vogliono il bene; il loro fine e i loro mezzi sono irreprensibili. Eppure, perché i loro organizzatori avevano poca fede nella potenza di azione della vita soprannaturale sulle anime, nonostante mille sforzi, i loro risultati furono nulli o quasi. Per precisare quella che dev’essere un’istituzione, sarà meglio lasciare la parola ad un uomo il quale con il suo apostolato illustrò un’intera regione, e ricordare la lezione che ricevetti da lui negli inizi del mio ministero sacerdotale. Volevo fondare un patronato per i giovani e, dopo di aver visitato i Circoli cattolici di Parigi e di alcune altre città della Francia, le Opere cattoliche di Val-des-Bois ecc., andai a Marsiglia per studiare le istituzioni per la gioventù del santo sacerdote Allemand e del venerando canonico Timon-David. Mi piace ricordare con quale commozione il mio cuore di sacerdote novello accolse le parole di quest’ultimo. – « Banda, teatro, proiezioni, cinematografo ecc., io non biasimo nulla di tutto questo. Da principio anch’io avevo creduto tali cose indispensabili: ma sono soltanto stampelle che si adoperano in mancanza di meglio; più vado avanti, e più diventano soprannaturali il mio fine e i miei mezzi, perché vedo sempre più chiaramente che qualunque istituzione costruita su ciò che è umano, è destinata a morire, e soltanto l’istituzione che mira ad avvicinare gli uomini a Dio mediante la vita interiore, è benedetta dalla Provvidenza.  « Gli strumenti musicali da molto tempo sono sul solaio, il teatro mi è diventato inutile, eppure l’istituzione è più prospera che mai. Perché? Perché i miei sacerdoti e lo vediamo, grazie a Dio, molto meglio che da principio, e la nostra fede nell’azione di Gesù e della grazia è centuplicata.  – «Credetemi, non esitate a mirare in alto più che sia possibile, e sarete meravigliato dei risultati. Mi spiego: Non abbiate soltanto come ideale l’offrire ai giovani un certo numero di distrazioni oneste che distolgono dai piaceri illeciti e dalle relazioni pericolose, e neppure il verniciarli semplicemente di Cristianesimo col farli assistere macchinalmente alla Messa e con far loro ricevere qualche volta, e in modo appena passabile, i Sacramenti.  « Duc in altum(Avanzate in alto mare – Luc. V, 4). Abbiate prima di tutto la nobile ambizione di ottenere, a qualunque costo, che un certo numero di giovani prendano la risoluzione energica di vivere da Cristiani ferventi, cioè con la pratica della meditazione del mattino, con l’abitudine della Messa quotidiana se è possibile, con una breve lettura spirituale e, naturalmente, con frequenti e fruttuose Comunioni. Mettete tutte le vostre cure per infondere in questo gregge scelto un grande amore di Gesù Cristo,  lo spirito di preghiera, di sacrificio, di vigilanza sopra se stessi, insomma, di sode virtù. Sviluppate con la stessa cura nelle loro anime la fame dell’Eucaristia; poi eccitate questi giovani all’azione sui loro compagni. Formatene degli apostoli franchi, generosi, ardenti, buoni, seri, senza devozione gretta, pieni di tatto e che non cadano mai, col pretesto di zelo, nel brutto sbaglio di spiare i compagni. Prima di due anni voi mi direte se vi è ancora bisogno della banda e del teatro per ottenere una messe copiosa ».  – « Comprendo, — risposi io; — questa minoranza dev’essere il fermento; ma che cosa si dovrà fare per gli altri che non si possono portare a questo livello? per la maggioranza, per quei giovani di ogni età e anche per gli uomini ammogliati che apparterranno al circolo progettato, che cosa si dovrà fare? ».  – « Dare loro una fede salda con corsi di conferenze preparate seriamente, le quali occuperanno parecchie delle loro serate invernali. I vostri Cristiani ne usciranno abbastanza armati non solo per rispondere vittoriosamente ai loro compagni di lavoro, ma anche per resistere all’azione più perfida del giornale o del libro. Il far nascere nei giovani convinzioni incrollabili che essi all’occorrenza sapranno affermare senza rispetto umano, sarà già un risultato molto apprezzabile: però bisognerà condurli più lontano, fino alla pietà, a una pietà vera, fervorosa, convinta e illuminata ». – « E dovrò fin da principio aprire la porta a chiunque si presenti?». – « Il numero è da desiderarsi soltanto se gli elementi raccolti sono bene scelti. L’aumento del vostro circolo deve risultare soprattutto dall’influenza di quel nucleo di apostoli dei quali Gesù, Maria e voi, come loro strumento, sarete il centro ».  – « Il locale sarà modesto; dovrò dunque aspettare che i nostri mezzi ci permettano di fare di più?». – « Da principio le sale spaziose e comode possono, come un tamburo, attirare l’attenzione sulla nascente istituzione; ma vi ripeto, se sapete mettere, come base della vostra società, la vita cristiana ardente, integrale, apostolica, il locale strettamente necessario basterà sempre per dare posto anche a tutti gli accessori voluti dal funzionamento di un Circolo. Oh! come potrete allora constatare che il rumore fa poco bene e che il bene fa poco rumore! come vedrete allora che il Vangelo ben compreso fa diminuire la lista delle spese senza pregiudicare i risultati, anzi! Ma prima di tutto, dovrete pagare di vostra persona, ma non tanto per preparare faticosamente recite per il teatro o accademie ginnastiche, quanto piuttosto per accumulare in voi la vita di orazione; poiché dovete persuadervi bene, che la misura con cui voi per il primo vivrete di amore di Gesù Cristo, è la stessa misura con cui potrete accenderlo negli altri ». – «Insomma, voi basate tutto sulla vita interiore!»  – « Sì, mille volte sì; perché così invece di lega si ottiene oro fino. Del resto credete alla mia esperienza: a ogni istituzione, parrocchia, seminario, catechismo, scuola, circolo militare ecc., si può applicare ciò che dico per le istituzioni giovanili. Quanto bene produce in una grande città un’associazione cristiana la quale viva davvero nel soprannaturale! Essa agisce come un lievito potente, e soltanto gli Angeli possono dire quanto essa sia feconda di frutti di salute! – «Ah! se tutti i sacerdoti, i religiosi e anche le persone di azione conoscessero la potenza della leva che tengono nelle loro mani, e prendessero come punto di appoggio il Cuore di Gesù e la vita di unione con questo divin Cuore, solleverebbero la nostra patria: sì, la solleverebbero nonostante gli sforzi di Satana e dei suoi satelliti» (Lo zelante canonico che così mi parlava e della cui conversazione ho voluto conservare un esatto ricordo, sviluppò il suo pensiero in alcuni dei suoi bellissimi libri: Méthode de direction (les ceuvres de jeunesse, 2 voll.; Traité de la confession des enfants et des jeunes gens, 3 voll.; Souvenirs de l’oeuvre ou vie et mori de quelques Congréganistes, in vendita presso l’Oeuvre de la jeunesse, Timon-David, 30, e du Canuta, Marsiglia; oppure presso i Fratelli Mignar, rue Saint-Sulpice, Parigi.).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. BENEDETTO XIV – “EX OMNIBUS CHRISTIANI”

Con questa breve lettera Enciclica, il Sommo Pontefice Romano Benedetto XIV, si inserisce nelle questioni ancora presenti in Francia in seguito all’azione spiritualmente devastante del Giansenismo. Qui si ribadisce con estrema chiarezza e risoluzione un principio dottrinale, valido allora ed ancor più oggi, secondo il quale si « ….  proibisce di amministrare l’Eucaristica Comunione a qualunque pubblico e notorio peccatore, ancorché egli pubblicamente o privatamente la domandi ». Quindi l’assistere a pubbliche amministrazioni di Sacramenti – benché invalidi ed illeciti dopo il conciliabolo c. d. Vaticano II e le relative riforme protestanti-moderniste – a personaggi notoriamente di idee e comportamenti anticristiani, blasfemi, antiecclesiastici o laici come ipocritamente si dice, (noti aderenti a logge massoniche, artistoidi satanisti e sodomiti dichiarati…) è una ulteriore manifestazione dell’affronto diretto con cui la falsa chiesa dell’uomo, la “spelonca latronum” vaticana, che vive là dove abita satana (Apoc. II), lancia la sua sfida diretta a Dio, al suo Cristo ed alla Chiesa Cattolica Sposa-immacolata di Cristo. Già con il partecipare, o solo con l’assistere approvando i riti blasfemi e sacrileghi, si è in peccato mortale per i numerosi anatemi conciliari e magisteriali ai quali si va incontro, sia quelli sanzionati con pene canoniche ed ancor più quelli ipso facto che, benché invisibili all’uomo, sono ben noti e presenti agli occhi di Dio (c. A.: Auctorem fidei) e conducono direttamente nello stagno di fuoco eterno ove finiranno insieme alla “bestia” ed al “falso profeta” (le pseudo-chiesa falsa conciliare), prima del diavolo che chiuderà la porta degli inferi (Apoc. XXII).

Benedetto XIV
Ex omnibus christiani

1. Essendo a Noi giunta da tutte le parti del Mondo Cristiano (delle quali è stato affidato alla debolezza Nostra il Pastorale Governo) più e più volte la notizia di molte cose, le quali tengono l’animo Nostro altamente agitato e sollecito pel buono stato di tutte, e di ciascuna Chiesa in particolare; a stento ve n’è stata alcun’altra che ci abbia recato maggior turbamento e dolore quanto i gravissimi dispareri e le controversie, dalle quali da qualche anno in qua purtroppo conosciamo essere agitati codesto fiorentissimo Regno e la Cattolica Nazione di Francia. Invero, in queste turbolenti circostanze, non abbiamo mancato di porgere Noi stessi, e di far porgere ad altri ancora, umili preghiere a Dio O. M., e di supplicarlo, perché Egli, ch’è il Dio della pace, si volesse degnare di restituire alle vostre Chiese agitate una vera e stabile tranquillità. Più volte abbiamo scritto al Nostro carissimo Figlio Ludovico, Re Cristianissimo di Francia, implorando la sua mediazione e potenza a difesa e sostegno dell’Ecclesiastica Pace. E rispondendo a tutti coloro che a Noi e all’Apostolica Sede ricorsero per le presenti emergenze, ci siamo sempre espressi di essere pronti ed apparecchiati in tutto il corso di Nostra vita a dare con tutto il piacere una mano per stabilire la Pace della Chiesa Gallicana (che Noi sinceramente e costantemente amiamo) e per intraprendere ed ultimare tutte quelle cose che ci fossero proposte, purché i progetti fossero riconosciuti atti e valevoli ad estirpare la rea semenza dei mali, e la cui esecuzione, accompagnata dalla speranza di felice successo, potesse tendere al fine bramato.

2. La lettera scrittaci dall’Assemblea del Clero Gallicano sotto il dì 31 ottobre dell’anno scorso, Ci ha non poco sollevato dal grave e lungo disturbo, che abbiamo provato fin qui per le cose vostre; leggendola, abbiamo riconosciuto, Venerabili Fratelli, la vostra fermezza e costanza, la vostra perfetta unione nel conservare illibato il deposito della vera e sana Dottrina, come pure ad imitazione dei vostri maggiori il rispetto e la venerazione verso la S. Sede, che è il centro della Cattolica unità. Ed invero abbiamo scoperto non trovarsi tra di voi alcun disparere per ciò che spetta alle canoniche regole e ai principi, ma solamente non convenire voi nell’eleggere, e fissare i mezzi dei quali faccia d’uopo servirsi per mettere in uso gli stessi comuni principi. Quantunque fosse desiderabile che nella vostra adunanza non si avesse codesto disparere, tuttavia non ci reca meraviglia, ben consapevoli essere simili dissensi accaduti altre volte tra Vescovi, riguardevoli per dottrina e santità di costumi, in occasione dell’esame di gravissimi affari. Ad accrescere poi in Noi la concepita consolazione hanno molto contribuito l’eccellente pietà e religione del Re Cristianissimo, accompagnate dal suo ereditario ossequio verso questa Apostolica Sede, il quale a meraviglia è spiccato non solo nell’ultima lettera del 19 dicembre dell’anno scorso, in cui Ci compiegò e trasmise quella del Clero, ma nell’altre tutte a Noi indirizzate. In queste possiamo e dobbiamo attestare aver Noi apertamente scoperto sentimenti tali del suo regio animo, quali grandemente convengono a un Principe Cattolico, pieno di Religione, di pietà, di zelo verso Iddio e la Sede Romana, come pure amantissimo che ritornino e si conservino perpetue nel suo Dominio la pace e la concordia.

3. Certamente tale e tanta è nella Chiesa di Dio l’autorità dell’Apostolica Costituzione Unigenitus, ed esige questa dappertutto venerazione, ossequio ed ubbidienza, che nessun fedele può, senza pericolo di sua eterna salute, sottrarsi dall’accettarla, e in qualsivoglia maniera contraddirla. Quindi ne consegue che in quella controversia ch’è insorta, se si debba o no negare ai refrattari di questa Costituzione il Santissimo Viatico, ch’essi richiedono, si deve francamente rispondere che deve essere loro negato qualora essi siano pubblicamente e notoriamente refrattari alla predetta Costituzione, e ciò in vigore della regola generale, che proibisce di amministrare l’Eucaristica Comunione a qualunque pubblico e notorio peccatore, ancorché egli pubblicamente o privatamente la domandi.

4. Coloro, poi, che sono pubblicamente e notoriamente refrattari in rapporto al caso di cui si tratta; coloro che sono stati dichiarati rei per sentenza di Giudice competente, e a motivo d’essere essi ostinati nel negare la dovuta venerazione, ossequio, ubbidienza alla predetta Costituzione Unigenitus; coloro, ancora, che in giudizio abbiano confessato una medesima contumacia; coloro, pure, che sebbene non siano stati dal Giudice condannati né abbiano confessato in giudizio la propria reità, nientedimeno in congiuntura di ricevere il Viatico, spontaneamente professano la propria disubbidienza e contumacia contro la Costituzione Unigenitus, o si sappia che in passato essi hanno commesso alcuna cosa manifestamente contraria alla venerazione, ossequio e ubbidienza dovuta alla stessa Costituzione, e moralmente perseverano nello stesso impegno (il che sia così comunemente noto, che il pubblico scandalo indi sorto fino allora non sia cessato), in simili casi corre la stessa certezza morale che si ha in quei fatti nei quali il Giudice ha pronunziato sentenza; o almeno si sostituisce un’altra morale certezza simile ed equivalente alla predetta.

5. Nel che si deve avvertire la differenza che passa tra quella notorietà, con la quale viene scoperto qualche mero fatto, il reato del quale consiste nella sola azione esterna (come sarebbe quella di un usuraio e di un concubinario) e un’altra specie di notorietà, con la quale accade d’esser messi in vista quei fatti esterni, il reato dei quali ancora assai più dipende dall’interna disposizione dell’animo, e della quale specie di notorietà presentemente si tratta. Imperocché il primo provar si deve con argomenti gravi; ma con molto più gravi e certi provar si deve il secondo.

6. Non si deve però dire trovarsi negli altri casi quella morale certezza, che di sopra accennammo, nei quali il delitto sta appoggiato a mere congetture, a presunzioni e a discorsi vaghi ed incerti, i quali il più delle volte nascono da uomini di mal talento, che si lasciano trasportare dai pregiudizi per le loro opinioni, e dallo spirito di partito. Se si presta fede ad essi, è abbastanza noto, per l’esperienza sì dei passati, che dei nostri tempi, quanto facilmente accada che gli uomini errino, s’ingannino e camminino a rovescio.

7. Poiché però alcuni Pastori delle anime e ministri della Chiesa, commendabili per la loro pietà e zelo, appoggiando sia simili congetture e presunzioni, allorché sono chiamati ad amministrare a taluni il sacro Viatico stanno dubbiosi e irresoluti nel timore di non poterlo amministrare senza aggravio della propria coscienza, prescriviamo adesso quella regola certa di operare che essi devono seguire.

8. Innanzitutto devono tener presente questo, cioè se colui che chiede l’estremo Viatico sia stato ammesso dal proprio Parroco, specialmente nel tempo di Pasqua, alla sacra Comunione; se a lui non è stata negata giammai in vita, segno sarà che egli è stato scevro da ogni colpa, o almeno non creduto veramente peccatore notorio; dal che seguirà non potersi negare il sacro Viatico a costui che, sull’ultimo di sua vita, pubblicamente lo richiede, quando però tra l’ultima Comunione e il tempo in cui domandai Sacramenti non si scoprisse aver egli commesso alcuna cosa, per cui contratta avesse, secondo abbiamo detto, la taccia di pubblico e notorio peccatore.

9. Quando poi non appaia loro, per questa sorta di fatti, un fondamento certo cui si possano appoggiare, e dall’altra parte non spregevoli presunzioni e gravi e forti indizi militino contro l’ammalato, pei quali non sia loro possibile deporre ragionevolmente lo scrupolo insorto in siffatte circostanze, occorre che essi, licenziati prima gli astanti, parlino all’infermo, e a lui mostrino con tutta la maggiore disponibilità e mansuetudine, non a guisa di chi vuole disputare e convincerlo, quali siano, e di qual sorta, gli indizi, che gli rendono sospetto il tenore di sua vita; pregandolo e scongiurandolo a ravvedersi almeno in quella circostanza di tempo, da cui l’eterna sua sorte dipende; dimostrandogli inoltre che, sebbene apparecchiati siano per conferirgli l’estremo Viatico, e ancora di più che glielo amministrino, non per questo però egli sarà sicuro nel Tribunale di Gesù Cristo; ma che anzi si farà reo d’un nuovo ed orrendo delitto, dopo che avrà mangiato e bevuto la sua condanna; del resto si protestino di non amministrargli il Sacramento del Corpo di Gesù Cristo, se non per ubbidire alla Chiesa, che così comanda. Essa, oltre la premura che ha di prevenire i pubblici scandali, ancora per la sua pietà procura d’impedire l’infamia dell’ammalato, e perciò non lo discaccia dalla sacra mensa, perché sebbene lo giudichi peccatore nel cospetto del Signore, non lo riconosce però per tale pubblico e notorio nel suo Tribunale.

10. Dovete pertanto voi, Venerabili Fratelli, proporre codesta norma di giudicare e di operare, come approvata dal Nostro giudizio e dalla Sede Apostolica, agl’inferiori Pastori e a tutti i Sacerdoti legittimi ministri dei Sacramenti nelle vostre Città e Diocesi, perché la seguano e l’osservino.

Il giudizio da Noi dato intorno alle controversie presenti si appoggia alle regole ecclesiastiche, ai Decreti dei Concili tenuti altre volte in codesti paesi della Francia; è sostenuto pure da gravi Teologi della stessa vostra Nazione. Siccome adunque è stata per voi non piccola lode, seguendo gli esempi dei vostri maggiori, deferire a Noi e alla Sede Apostolica le controversie nate costì e i dubbi insorti, domandando una regola certa per richiamare e conservare la pace delle Chiese Vostre, così adesso vieppiù adempirete alle parti del vostro ministero, e maggior merito acquisterete innanzi a Dio e alla Chiesa se farete di tutto, perché la prescritta regola si osservi onninamente negli occorrenti casi. Il che con tanta maggior fiducia aspettiamo da voi, e ce lo auguriamo, in quanto siamo certi di non aver omesso alcuna diligenza e studio, sia nel considerare ed esaminare gli articoli, che i Vescovi adunati nei predetti comizi del Clero, sebbene non concordemente, Ci proposero, prendendo Noi lume, e ricavando dalla stessa loro discrepanza le nozioni opportune ed atte ad intendere a fondo il punto, e a definirlo con retto giudizio; sia ancora nel leggere e pesare i voti scritti dai nostri Venerabili Fratelli Cardinali di questa S. R. C., i consigli dei quali su questa materia abbiamo Noi richiesti; sia finalmente nell’eseguire e fare quel di più che ci potesse meritare l’assistenza del divin lume, che non abbiamo mai tralasciato d’implorare ardentemente. 11. Né dubitiamo, che il carissimo Nostro Figlio, il Re Cristianissimo, dopo aver non solamente approvato la risoluzione da voi presa, ma ancora, come abbiamo accennato di sopra, nelle lettere a Noi indirizzate, non ha mostrato difficoltà alcuna di promuoverla e spalleggiarla; attesa la sua nota religione e pietà verso Iddio e la S. Chiesa, avrà a cuore di aiutarvi, perché possiate voi, e gli altri inferiori ministri Ecclesiastici nell’amministrazione dei Sacrosanti Misteri, regolarvi a tenore di quanto è stato prescritto. Appoggiati pertanto a questa fiducia non abbiamo giudicato opportuno trattare qui degli altri articoli da voi trasmessici, e concernenti i diritti Episcopali intorno al concedersi, o negarsi, l’uso dei medesimi Sacramenti, e intorno a varie controversie insorte su questo punto; ma abbiamo giudicato piuttosto discuterne in altre lettere col Re Cristianissimo, perché egli, con la grandezza dell’animo suo

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2020).

Semidoppio.- Paramenti verdi.

Nell’ufficio divino si effettua in questo tempo la lettura delle Parabole o Proverbi di Salomone. « Queste parabole sono utili per conoscere la sapienza e la disciplina, per comprendere le parole della prudenza, per ricevere l’istruzione della dottrina, la giustizia e l’equità affinché sia donato a tutti i piccoli il discernimento e ai giovani la scienza e l’intelligenza. Il savio ascoltando diventerà più savio e l’intelligente possederà i mezzi per governare! (7° Nott.). Salomone non era che la figura di Cristo, che è la Sapienza incarnata come leggiamo nel Vangelo di questo giorno: « Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete, poiché io ve lo dico, molti profeti e re hanno voluto vedere quello che voi vedete e non hanno potuto; e ascoltare quello che voi ascoltate e non hanno inteso ». « Beati, dice S. Beda, gli occhi che possono conoscere i misteri del Signore, dei quali è detto: « Voi li avete rivelati ai piccoli ». Beati gli occhi di questi piccoli, ai quali il Figlio degnò rivelarsi e rivelare il Padre. Ed ecco un dottore della legge che ha pensato di tentare il Signore e l’interroga sulla vita eterna (Vang.). Ma il tranello che tende a Gesù Cristo mostra come era vero quello che il Signore aveva detto rivolgendosi al Padre: « Tu hai nascoste queste cose ai saggi e ai prudenti e le hai rivelate ai piccoli» (2° Nott.). — « Figlio mio, dice Salomone, il timor di Dio è il principio della sapienza. Se i peccatori vogliono attirarti non acconsentir loro. Se essi dicono: Vieni con noi, tendiamo agguati all’innocente, inghiottiamolo vivo e intero com’è inghiottito il morto che scende nella tomba; noi troveremo ogni sorta di beni preziosi, riempiremo le nostre case di bottini; figlio mio, non andare con loro, allontana i tuoi passi dal loro sentiero. Poiché i loro passi sono rivolti al male ed essi si affrettano per versar sangue. E s’impadroniscono dell’anima di coloro che soggiogano » (7» Nott.). — Cosi i demoni agirono col primo uomo, poiché quando Adamo cadde nel peccato, lo spogliarono di tutti i suoi beni e lo coprirono di ferite. Il peccato originale, infatti, priva l’uomo di tutti i doni della grazia e lo colpisce nella sua stessa natura. La tua intelligenza è meno viva e la sua volontà meno ferma, poiché la concupiscenza che regna nelle sue membra lo porta al male. Per fargli comprendere la sua impotenza — poiché, dice S. Paolo, la nostra attitudine a intendere viene da Dio (Ep.) — Jahvé stabilì la legge mosaica che gli dava precetti senza dargli la forza di compierli, ossia senza la grazia divina. Allora, l’uomo comprendendo che gli bisognava l’aiuto di Dio per essere guarito, per volere il bene, per realizzarlo e per perseverare in esso fino alla fine, rivolse il suo sguardo al cielo: « O Dio, gridò, e non deve giammai cessare di gridare: O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, affrettati a soccorrermi! Siano confusi coloro che cercano l’anima mia » (Intr.). — « Signore, Dio della mia salute, io ho gridato verso di te tutto il giorno e la notte » (All.). E Dio allora risolse di venire in aiuto dell’uomo e poiché i sacerdoti ed i leviti dell’antica legge non avevano potuto cooperare con lui, mandò Gesù Cristo, che si fece, secondo il pensiero di S. Gregorio, il prossimo dell’uomo, rivestendosi della nostra umanità per guarirla (3° Nott.). Queste è quanto ci dicono l’Epistola e il Vangelo. La legge del Sinai, scolpita in lettere su pietre, spiega S. Paolo, fu un ministero di morte perché, l’abbiamo già visto, non dava la forza di compiere ciò che comandava. Cosi l’Offertorio ci mostra come Mose dovette Intervenire presso Dio per calmare la sua ira provocata dai peccati del suo popolo. La Legge della grazia è Invece un ministero di giustificazione, perché lo Spirito Santo che fu mandato alla Chiesa nel giorno della Pentecoste, giorno in cui la vecchia legge fu abrogata, dava la forza di osservare i precetti del decalogo e quelli della Chiesa. Cosi S. Paolo dice: « La lettera uccide, ma lo Spirito vivifica » (Ep.). E il Vangelo ne fa la dimostrazione nella parabola del buon Samaritano. All’impotente legge mosaica, rappresentata in qualche modo dal sacerdote e dal levita della parabola evangelica, il buon Samaritano che è Gesù, sostituisce una nuova legge estranea all’antica e viene Egli stesso in aiuto dell’uomo. Medico delle nostre anime, versò nelle nostre ferite l’unzione della sua grazia, l’olio dei suoi sacramenti e il vino della sua Eucaristia. Per questo la liturgia canta, in uno stile ricco di immagini, la bontà del Signore, che ha fatto produrre sulla terra il pane che fortifica l’uomo, il vino che rallegra il suo cuore, e l’olio che dona al suo viso un aspetto di gioia (Com.). « Io benedirò, dice il Graduale, il Signore in tutti i tempi: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra ». Noi dobbiamo imitare verso il nostro prossimo quello che Dio ha fatto per noi e quello di cui il Samaritano è l’esempio. « Nessuna cosa è maggiormente prossimo delle membra che il capo, dice S. Beda: amiamo dunque colui che è fratello del Cristo, cioè siamo pronti a rendergli tutti i servizi sia temporali che spirituali dicui potrà aver bisogno » (3° Nott.). Né la legge mosaica, né il Vangelo separano l’amore verso Dio dall’amore di chi dobbiamo ritenere come prossimo: amore soprannaturale nella sua origine, poiché procede dallo Spirito Santo; amore soprannaturale nel soggetto perché è Dio nella persona dei nostri fratelli. Il prossimo di questo uomo ferito non è, come pensavano i Giudei, colui che è legato per vincoli di sangue, ma colui che si china caritatevolmente su di esso per soccorrerlo. L’unione in Cristo, che giunge fino a farci amare quelli che ci odiano e perdonare a quelli che ci hanno fatto del male, perché Dio è in essi, o è chiamato ad essere in essi, è il vero amore del prossimo. Perfezionati dalla grazia, noi dobbiamo imitare il Padre nostro del cielo, che, calmato dalla preghiera di Mosè, figura di Cristo, colmò di beni il popolo che l’aveva offeso (Off., Com.). — Uniti dunque con Cristo, [Questa unità dei Cristiani e del Cristo fa sì che si chiami Gesù il Samaritano, cioè lo straniero, per indicare che i Gentili imiteranno Cristo mentre i Giudei increduli lo disprezzeranno], curviamoci con Lui verso il prossimo che soffre. Questo sarà il miglior modo di diventare, per la misericordia divina, atti a servire Dio onnipotente, degnamente e lodevolmente, e di ottenere che, rialzati dalla grazia, noi corriamo, senza più cadere, verso il cielo promesso (Oraz.) .  «Gesù, dice S. Beda, il Venerabile, mostra in maniera chiarissima che non vi è che un solo amore, il quale deve essere manifestato non solo a parole ma con le buone opere, ed è questo che conduce alla vita eterna ». (3° Nott.).

La gloria dei ministero di Mosè fu assai grande: raggi miracolosi brillavano sul volto del legislatore dell’antica legge, allorché discese dal Sinai. Ma questo ministero era inferiore al ministero evangelico. Il primo era passeggero: il secondo doveva surrogarlo e durare per sempre. Il primo era scritto su tavole di pietra, era il ministero della lettera; il secondo è tutto spirituale, è il ministero dello spirito. Il primo produceva spesso la morte spirituale spingendo alla ribellione con la molteplicità dei suoi precetti difficili ad adempirsi; il secondo è accompagnato dalle grazie dello Spirito d’amore, che gli Apostoli distribuiscono alle anime. L’uno è dunque un ministero che provoca i terribili giudizi di Dio, e l’altro è un ministero che giustifica gli uomini davanti a Dio, perché dona ad essi lo Spirito che vivifica.

« Quest’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico, dice S. Beda, è Adamo che rappresenta il genere umano. Gerusalemme è la città della pace celeste, della beatitudine dalla quale è stato allontanato per il peccato. I ladri sono il demonio e i suoi angeli nelle mani dei quali Adamo è caduto nella sua discesa. Questi lo spogliarono di tutto: gli tolsero la gloria dell’immortalità e la veste dell’innocenza.. Le piaghe che gli fecero, sono i peccati che, intaccando l’integrità dell’umana natura, fecero entrare la morte dalle ferite aperte. Lo lasciarono mezzo morto, perché se lo spogliarono della beatitudine della vita immortale, non riuscirono a togliergli l’uso della ragione colla quale conosceva Dio. Il sacerdote e il levita che, avendo veduto il ferito, passarono oltre, indicano i sacerdoti e i ministri dell’Antico Testamento che potevano solamente, con i decreti della legge, mostrare le ferite del mondo languente, ma non potevano guarirle, perché era loro impossibile – al dire dell’Apostolo – cancellare i peccati col sangue dei buoi e degli agnelli. Il buon Samaritano, parola che significa guardiano, e lo stesso Signore. Fatto uomo, s’è avvicinato a noi con la grande compassione che ci ha mostrata. L’albergo è la Chiesa ove Gesù stesso conduce l’uomo, ponendolo sulla cavalcatura perché nessuno, se non è battezzato, unito al corpo di Cristo, e portato come la pecora sperduta sulle spalle del buon Pastore, può far parte della Chiesa. I due danari sono i due Testamenti sui quali sono impressi il nome e l’effigie del Re eterno. La fine della legge è Cristo. Questi due denari furono dati all’albergatore il giorno dopo, perché Gesù il giorno seguente la sua risurrezione aprì gli occhi dell’intelligenza ai discepoli di Emmaus e ai suoi Apostoli perché comprendessero le sante Scritture. Il giorno seguente, infatti, l’albergatore, ricevette i due danari, come compenso delle sue cure verso il ferito perché lo Spirito Santo, venendo su la Chiesa, insegnò agli Apostoli tutte le verità perché potessero istruire le nazioni e predicare il Vangelo » (Omelia del giorno).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

LXIX: 2-3
Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam.

[O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]

Ps LXIX: 4

Avertántur retrórsum et erubéscant: qui cógitant mihi mala.

[Vadano delusi e scornati coloro che tramano contro di me.]

Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam.

[O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]

Oratio

Orémus.
Omnípotens et miséricors Deus, de cujus múnere venit, ut tibi a fidélibus tuis digne et laudabíliter serviátur: tríbue, quǽsumus, nobis; ut ad promissiónes tuas sine offensióne currámus.

[Onnipotente e misericordioso Iddio, poiché dalla tua grazia proviene che i tuoi fedeli Ti servano degnamente e lodevolmente, concedici, Te ne preghiamo, di correre, senza ostacoli, verso i beni da Te promessi.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 2 Cor III: 4-9.

“Fratres: Fidúciam talem habémus per Christum ad Deum: non quod sufficiéntes simus cogitáre áliquid a nobis, quasi ex nobis: sed sufficiéntia nostra ex Deo est: qui et idóneos nos fecit minístros novi testaménti: non líttera, sed spíritu: líttera enim occídit, spíritus autem vivíficat. Quod si ministrátio mortis, lítteris deformáta in lapídibus, fuit in glória; ita ut non possent inténdere fili Israël in fáciem Moysi, propter glóriam vultus ejus, quæ evacuátur: quómodo non magis ministrátio Spíritus erit in glória? Nam si ministrátio damnátionis glória est multo magis abúndat ministérium justítiæ in glória.

[“Fratelli: Tanta fiducia in Dio noi l’abbiamo per Cristo. Non che siamo capaci da noi a pensar qualche cosa, come se venisse da noi; ma la nostra capacità viene da Dio, il quale ci ha anche resi idonei a essere ministri della nuova alleanza, non della lettera, ma dello spirito; perché la lettera uccide ma lo spirito dà vita. Ora, se il ministero della morte, scolpito in lettere su pietre, è stato circonfuso di gloria in modo che i figli d’Israele non potevano fissare lo sguardo in faccia a Mosè, tanto era lo splendore passeggero del suo volto; quanto più non sarà circonfuso di gloria il ministero dello Spirito? Invero, se è glorioso il ministero di condanna, molto più è superiore in gloria il ministero di giustizia”].

OMELIA I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia 1921)

Il SACERDOZIO

La severa lettera di San Paolo a quei di Corinto aveva prodotto un salutare effetto. Quella comunità aveva preso ora un andamento più consolante; e, sebbene gli sconvenienti non fossero tutti scomparsi, c’era fondata speranza che l’ulteriore azione di S. Paolo riuscisse al compimento dell’opera incominciata. Non dormivano, è naturale i suoi nemici; anzi lo combattevano più aspramente di prima. Cercavano soprattutto di metterlo in discredito negandogli la dignità e l’autorità di Apostolo e criticando il suo modo di operare. Era in gioco la missione di Apostolo, affidata da Dio a Paolo, e questi crede suo dovere di difendersi dai falsi apostoli, perché non riuscissero a trar dalla loro parte i fedeli, specialmente i neofiti. Ed ecco che dalla Macedonia, pochi mesi dopo la prima, invia a Corinto una seconda lettera, in cui rivendica la sua autorità di Apostolo, e ribatte le calunnie dei suoi avversari. L’epistola di quest’oggi è un passo della lettera dove San Paolo difende il suo ministero. Se egli si presenta come predicatore della fede non lo fa per vana gloria, ben riconoscendo la sua insufficienza. Tutto il suo vanto lo ripone in Dio, per la cui grazia, datagli per mezzo di Gesù Cristo, egli compie il suo ministero tra loro. Dio ha scelto lui e i suoi compagni a essere ministri idonei del nuovo Testamento, in cui non regna più la lettera che uccide come nell’antico, ma lo spirito che dà la vita della grazia. È un ministero superiore all’antico per la gloria di cui è circonfuso. Il ministero della legge che uccide — non dando la forza di praticare ciò che prescrive — fu circondato di gloria, come si vide sul volto di Mosè, che portava questa legge scolpita in tavole di pietra. Questa gloria dev’esser sorpassata da quella che circonda il ministero dello spirito che vivifica. La gloria del ministero che vivifica è, senza confronto, superiore alla gloria del ministero di condanna. Il contenuto dell’Epistola di quest’oggi ci porta a parlare del Sacerdote Cattolico, il quale:

1. È banditore d’una dottrina sublime,

2. È dispensatore dei divini misteri,

3. Merita il nostro rispetto e le nostre premure.

1.

La nostra capacità viene da Dio, il quale ci ha anche resi idonei a esser ministri della nuova alleanza, non della lettera, ma dello spirito. L’Apostolo compie il suo ministero per la grazia di Dio. Egli, che lo ha scelto a suo ministro, lo ha reso idoneo a predicare la dottrina del Vangelo, nel quale regna lo spirito, e non più la lettera come nell’antico testamento. Come San Paolo, ogni Sacerdote è scelto da Dio, che lo rende idoneo a predicare la dottrina del Vangelo. Con la dottrina del Vangelo il sacerdote si fa guida agli uomini in questo terreno pellegrinaggio. Satana, il padre della menzogna, fa deviare dal retto sentiero i nostri progenitori nel paradiso terrestre. Fa deviare, dopo di essi, continuamente, i loro discendenti. Ha, in questo, ai suoi ordini una schiera di alleati. Insegnanti, conferenziere, settari, gaudenti, beffardi, libri, riviste, giornali, direttamente o indirettamente, tolgono di vista all’uomo la meta, cui deve arrivare. E l’uomo comincia ad essere indeciso; smarrisce il sentiero e, smarritolo, non ha più la volontà di rifare la via da capo. Il Sacerdote è posto da Dio a illuminare la via che l’uomo deve percorrere. Egli addita i pericoli da schivare, indica la via sicura, e la rischiara con gli insegnamenti di Colui che proclamò:« Io sono la via » (Giov. XIV, 6.). Ismaele va errando nel deserto di Betsabea, tormentato dalla sete. Questa è ormai divenuta insostenibile, e la madre per non vedere il figlio morire, lo abbandona sotto un arbusto. Dio ascolta il grido di Agar e di Ismaele, e manda il suo Angelo a mostrare il pozzo d’acqua ristoratrice (Gen. XXI, 14 segg.). Il Sacerdote è l’Angelo che al viandante diretto alla patria celeste, ormai privo del primo fervore, annoiato dalla lunghezza del cammino, stanco per la sua asprezza, indeciso a continuarlo, solleva lo spirito e infonde nuova forza e coraggio, facendogli porre la fiducia in Colui che dice: «Non si turbi il vostro cuore. Abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me» (Giov. XIV, 1). – La parola del Sacerdote è l’unica che sappia veramente appagare il cuore e l’intelligenza dell’uomo. La sua dottrina «non è cosa umana» (Gal. I, 4) Perciò avvince tutte le intelligenze, fa superar tutte le difficoltà. Le scoperte, il progresso, le migliorate condizioni sociali non possono togliere nulla alla efficacia e alla bellezza della dottrina del Vangelo. La parola di Dio non può scolorire davanti alla parola degli uomini. È una dottrina che non invecchierà Mai, che non avrà mai bisogno d’essere sfrondata o corretta.

2.

L’Apostolo, facendo il confronto tra l’antica alleanza, che si fondava sulla lettera, cioè sulla legge scritta, e la nuova alleanza, che è opera dello Spirito Santo, osserva: la lettera uccide, ma lo spinto dà vita. La lettera, ossia la legge scritta uccide, perché non dando la grazia necessaria a compiere ciò che è comandato e ad evitare ciò che è proibito, era, indirettamente, occasione di peccato, e quindi di morte eterna. Lo spirito dà vita, perché nella nuova legge, lo Spirito Santo dà la grazia, con cui l’uomo può osservare ciò che esternamente viene comandato o proibito. E il Sacerdote, in questa nuova legge, è fatto da Dio l’idoneo dispensatore della grazia. –

3.

L’uomo nasce figlio di questa valle di lagrime, spoglio d’ogni bene soprannaturale. Il Sacerdote versa sul suo capo l’acqua battesimale, ed egli rinasce figlio del cielo, adorno dei beni della grazia. Per il ministero del Sacerdote gli è aperta la porta al regno di Gesù Cristo, la Chiesa, e acquista il diritto a ricevere gli altri Sacramenti con l’abbondanza delle grazie, che li accompagnano. – Ogni uomo è destinato preda alla morte. Chi nasce muore. Quando arriva questo giorno, l’uomo si trova ancora di fianco il Sacerdote. «E’ infermo alcuno tra voi? — è scritto nel Nuovo Testamento — chiami i Sacerdoti della Chiesa e facciano orazione su lui, ungendolo con l’olio nel nome del Signore» (Giac. V, 19). Così si pratica nella Chiesa Cattolica. Presso il morente accorre il Sacerdote, che gli amministra il Sacramento dell’olio Santo, il quale con la sua grazia porta sollievo spirituale e corporale ai Cristiani gravemente infermi. L’uomo ha pur sempre bisogno dei soccorsi della grazia durante la sua vita. La grazia santificante, che ci viene infusa nel Battesimo, generalmente non rimane a lungo. Al primo svegliarsi delle passioni si perde facilmente. E con la perdita della grazia santificante è perduto anche il diritto alla eredità celeste. L’uomo che ha perduto la grazia santificante è un povero figlio diseredato, che ha bisogno di essere riconciliato con il Padre. Anche questa volta è il Sacerdote che avvicina il figlio al Padre. Egli, pronunciando nel tribunale di penitenza le parole dell’assoluzione, apre al figlio pentito la casa del Padre, lo rimette nelle sue grazie, e gli riacquista i diritti perduti. Ma chi aveva strappato il figlio dalla casa del padre, non si dà pace ora che ve lo vede riammesso. È questa per lui una sconfitta insopportabile, che lo spinge alla rivincita. Occorrono forze raddoppiate per resistere ai suoi assalti. Il Sacerdote procurerà queste forze, somministrandogli un pane che è la fonte delle grazie. Nelle vicinanze di Betsaida Gesù Cristo, mosso a compassione delle turbe che da tre giorni l’avevano seguito, pensa a ristorarle, perché nel ritorno alle loro case, sfinite di forze, non abbiano a venir meno per via. Moltiplicati dei pani che gli furono presentati, « li diede ai suoi discepoli, perché li ponessero davanti alle turbe ». (Marc. VIII, 6). Nell’ultima cena dà incarico ai discepoli di distribuire con le loro mani ai fedeli il Pane eucaristico, perché possano fortificarsi nel combattimento spirituale, e non venir meno sotto gli assalti del demonio, del mondo, della carne. Difatti, « mentre mangiavano Gesù prese del pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo: — Prendete e mangiate, questo è il mio corpo, (Matt. XXVI, 26) il quale è dato per voi: fate questo in memoria di me » – E i Sacerdoti, seguendo il comando di Gesù Cristo, continuano a rinnovare nella santa Messa la consacrazione eucaristica e a distribuire ai fedeli questo Pane di vita. – Il Beato Giovanni de Brébeuf, martire canadese, si trovava in un villaggio di Uroni, quando all’improvviso giungono gli Irochesi, loro terribili nemici. I capitani presenti fanno uscire dal villaggio le donne e i fanciulli, e pregano il Beato e il suo compagno, padre Gabriele Lalemant a seguire i fuggiaschi. «La vostra presenza — dicono essi — non ci può esser di servizio alcuno. Voi non sapete maneggiare né l’accetta né il fucile». — «C’è qualcosa ch’è più necessaria delle armi, — risponde il de Brébeuf — e sono i Sacramenti che noi soli possiamo amministrare. Il nostro posto è in mezzo a voi». E rimasero infatti ad amministrare i Sacramenti, ricevendo in premio la corona del martirio (Nicola Risi, Gli otto Martiri Canadesi della Compagnia di Gesù. Torino, 1926. p. 63-64). Nessuno può dispensare ai fedeli i tesori spirituali che dispensa il sacerdote. S. Paolo esalta tutta l’importanza del ministero sacerdotale con una semplice frase, chiamandolo ministero circonfuso di gloria. È, dunque, un ministero che merita tutto il nostro rispetto e il nostro interessamento. Ma questo contegno non è, pur troppo, il contegno della maggior parte. Per alcuni il Sacerdote non esiste che per esser bersaglio alle critiche, alle calunnie, alle persecuzioni. I preti, secondo essi, sono la cagione di tutti i malanni che succedono, o che potrebbero succedere. Ci sono i settari, i nemici della Religione, che combattono il Sacerdote per i loro fini. In battaglia si cerca di colpire specialmente gli ufficiali. Tolti di mezzo questi, i battaglioni si disgregano. I nemici della Religione Cattolica cercano di colpire specialmente i Sacerdoti per scristianizzare il popolo. – Altri si interessano del Sacerdote e lo stimano finché fa comodo. Diventa loro insopportabile quando, costretto dal proprio dovere, dà qualche ammonimento o fa qualche osservazione. «Chi vien biasimato o ripreso — nota in proposito il Grisostomo — chiunque egli sia, tralasciando affatto di essere riconoscente, diventa nemico » (In 1 Epist. ad Thess. Hom. 10, 1). E il Cristiano che viene avvisato, ammonito, ripreso dal Sacerdote gli diventa nemico. – Per altri il Sacerdote non esiste. Non gli si fanno critiche, ma neppure si pensa a lui. Lo si lascia stare. È considerato come uno che compie una funzione sociale qualsiasi, e niente di più. Questo non è un tributare l’onore, il rispetto, che s’addicono alla dignità dei ministri del nuovo Testamento. I Sacerdoti siano uomini; avranno anch’essi i loro difetti. Noi dobbiamo, però, considerare la loro dignità e non voler scrutare le loro azioni. «Non mi accada mai — scrive S. Gerolamo — che io dica qualcosa di sfavorevole rispetto a coloro, che, succeduti alla dignità apostolica, con la bocca consacrata ci danno il Corpo di Cristo, e per mezzo dei quali noi siamo Cristiani; e i quali, avendo le chiavi del regno celeste, in certo qual modo giudicano prima del giudizio» (Epist. 14, 8 ad Heliod.). – La nostra deferenza verso i Sacerdoti dobbiamo dimostrala, pure, nell’ascoltar volentieri la parola del Vangelo, da essi predicata, nel mostrarci docili alle loro cure. « Poiché — nota S. Cipriano — le eresie e gli scismi non trassero origine da altro, che dalla disubbidienza al Sacerdote di Dio» (Epist. 13, 5). – Se per mezzo del Sacerdote riceviamo i Sacramenti, partecipiamo ai divini misteri, usufruiamo delle celesti benedizioni, non possiamo disinteressarci di lui. Non basta il rispetto, la docilità alla sua parola. La riconoscenza deve spingerci a pregare per lui. La Chiesa ha stabilito giorni particolari di preghiere e di penitenza pei sacerdoti: le quattro tempora. Il Cristiano, però, non deve limitarsi a pregare pei Sacerdoti che salgono l’altare la prima volta. Deve pregare per i novelli Sacerdoti, deve pregare per quelli che sono incanutiti nel ministero, e deve pregare pei Sacerdoti futuri. Lo comanda Gesù: « La messe è veramente copiosa, ma gli operai sono pochi. Pregate il padrone della messe che mandi gli operai a lavorare nel suo campo (Matt. IX, 37-38). E che gli operai oggi siano pochi lo constatiamo tutti. Concorriamo adunque con la preghiera, e anche con quel contributo materiale che ci è possibile, a mandar nuovi operai nella vigna del Signore. Favorendo le vocazioni al Sacerdozio, faremo opera graditissima a Gesù perché concorreremo a procurargli dei collaboratori; faremo opera di carità squisita al prossimo, concorrendo a procurargli una guida spirituale; faremo il nostro migliore vantaggio perché ci faremo partecipi, in qualche modo, dei meriti che si acquista il Sacerdote nel salvar le anime.

Graduale

Ps XXXIII: 2-3.

Benedícam Dóminum in omni témpore: semper laus ejus in ore meo.

[Benedirò il Signore in ogni tempo: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra.]

V. In Dómino laudábitur ánima mea: áudiant mansuéti, et læténtur.

[La mia anima sarà esaltata nel Signore: lo ascoltino i mansueti e siano rallegrati.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps LXXXVII: 2

Dómine, Deus salútis meæ, in die clamávi et nocte coram te. Allelúja.

[O Signore Iddio, mia salvezza: ho gridato a Te giorno e notte. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam.

Luc. X: 23-37

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Beáti óculi, qui vident quæ vos videtis. Dico enim vobis, quod multi prophétæ et reges voluérunt vidére quæ vos videtis, et non vidérunt: et audire quæ audítis, et non audiérunt. Et ecce, quidam legisperítus surréxit, tentans illum, et dicens: Magister, quid faciéndo vitam ætérnam possidébo? At ille dixit ad eum: In lege quid scriptum est? quómodo legis? Ille respóndens, dixit: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo, et ex tota ánima tua, et ex ómnibus víribus tuis; et ex omni mente tua: et próximum tuum sicut teípsum. Dixítque illi: Recte respondísti: hoc fac, et vives. Ille autem volens justificáre seípsum, dixit ad Jesum: Et quis est meus próximus? Suscípiens autem Jesus, dixit: Homo quidam descendébat ab Jerúsalem in Jéricho, et íncidit in latrónes, qui étiam despoliavérunt eum: et plagis impósitis abiérunt, semivívo relícto. Accidit autem, ut sacerdos quidam descénderet eádem via: et viso illo præterívit. Simíliter et levíta, cum esset secus locum et vidéret eum, pertránsiit. Samaritánus autem quidam iter fáciens, venit secus eum: et videns eum, misericórdia motus est. Et apprópians, alligávit vulnera ejus, infúndens óleum et vinum: et impónens illum in juméntum suum, duxit in stábulum, et curam ejus egit. Et áltera die prótulit duos denários et dedit stabulário, et ait: Curam illíus habe: et quodcúmque supererogáveris, ego cum redíero, reddam tibi. Quis horum trium vidétur tibi próximus fuísse illi, qui íncidit in latrónes? At ille dixit: Qui fecit misericórdiam in illum. Et ait illi Jesus: Vade, et tu fac simíliter.”

[“In quel tempo Gesù disse a’ suoi discepoli: Beati gli occhi che veggono quello che voi vedete. Imperocché vi dico, che molti profeti e regi bramarono di vedere quello che voi vedete, e no videro; e udire quello che voi udite, e non l’udirono. Allora alzatosi un certo dottor di legge per tentarlo, gli disse: Maestro, che debbo io fare per possedere la vita eterna? Ma Egli disse a lui: Che è quello che sta scritto nella legge? come leggi tu? Quegli rispose, e disse: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuor tuo, e con tutta l’anima tua, e con tutte le tue forze, o con tutto il tuo spirito; e il prossimo tuo come te stesso. E Gesù gli disse: Bene hai risposto: fa questo e vivrai. Ma quegli volendo giustificare se stesso, disse a Gesù: E chi è mio prossimo? E Gesù prese la parola, e disse: Un uomo andava da Gerusalemme a Gerico, e diede negli assassini, i quali ancor lo spogliarono; e avendogli date delle ferite, se n’andarono, lasciandolo mezzo morto. Or avvenne che passò per la stessa strada un sacerdote, il quale vedutolo passò oltre. Similmente anche un levita, arrivato vicino a quel luogo, e veduto colui, tirò innanzi: ma un Samaritano, che faceva suo viaggio, giunse presso lui; e vedutolo, si mosse a compassione. E se gli accostò, e fasciò le ferite di lui, spargendovi sopra olio e vino; e messolo sul suo giumento, lo condusse all’albergo, ed ebbe cura di esso. E il dì seguente tirò fuori due danari, e li diede all’ostiere, e dissegli: Abbi cura di lui: e tutto quello che spenderai di più te lo restituirò al mio ritorno. Chi di questi tre ti pare egli essere stato prossimo per colui che diede negli assassini? E quegli rispose: Colui che usò ad esso misericordia. E Gesù gli disse: Va’, fa’ anche tu allo stesso modo.”]

OMELIA II

Sopra l’amor del prossimo.

“Diliges proximum tuum sicut te ipsum”. Luc. X

Che convien fare per possedere la vita eterna, chiedeva un giorno un dottor della legge al Salvatore del mondo? Cui Gesù Cristo rispose: ch’è scritto e che leggete nella legge? Voi amerete il Signore vostro Dio, ripigliò il dottore, con tutto il vostro cuore, con tutta la vostr’anima, con tutte le vostre forze, con tutto i1 vostro spirito, ed il vostro prossimo come voi medesimo: Diliges, etc. Voi avete risposto benissimo, soggiunse Gesù Cristo; fate questo e vivrete. Ma il dottore, volendo farsi stimare per uomo dabbene, domandò a Gesù Cristo chi fosse il suo prossimo. Il Salvatore, per istruirlo, gliene fece il ritratto in questa parabola. Un uomo disse, che scendeva da Gerusalemme a Gerico, cadde nelle mani degli assassini, che lo spogliarono, e, caricatolo di colpi, lo lasciarono mezzo morto. Alcuni passeggeri videro l’infelice in quel pessimo stato senza dare il minimo segno di compassione; ma un Samaritano, che faceva viaggio, avendolo veduto, venne a lui: mosso da compassione per quell’uomo, gli benda le piaghe, dopo avervi versato dell’olio e del vino, lo conduce ad un’osteria e prende cura di lui; il giorno dopo dà due monete all’oste e gli raccomanda quello sgraziato sino alla sua intera guarigione, promettendo di rendergli al suo ritorno tutto ciò che avrebbe speso di più. Quale, disse Gesù Cristo, è stato il prossimo di quell’uomo? Egli è, rispose il dottore, colui che l’ha con carità assistito. E Gesù Cristo: Andate, gli disse, e fate lo stesso: Vade, et tu fac similiter. Ecco, fratelli miei, il modello che Gesù Cristo ha voluto proporci, come a quel dottore, per apprendere la carità, che dobbiamo avere per il prossimo. Tale è il modo con cui dobbiamo adempiere questo gran precetto, che ci comanda di amare il nostro prossimo come noi medesimi, cioè di fargli tutto il bene che vorremmo fosse fatto a noi medesimi. Diliges proximum tuum sicut te ipsum. Ma ohimè! quanto questo precetto è al giorno d’oggi mal osservato tra noi! Questo bel fuoco, che Gesù Cristo è venuto ad accendere sulla terra, è quasi interamente estinto dagli odi, dalle vendette, dai disordini che regnare si vedono nelle famiglie, nelle città, nelle Provincie e nei regni. Perché non poss’io, fratelli miei, riaccendere in questo giorno nei vostri cuori questo bel fuoco, che fa il carattere dei discepoli di Gesù Cristo? Si è per questo fine, che io voglio farvi vedere l’obbligazione ed il modo di adempierlo. Voi l’amerete come voi medesimi: sicut te ipsum; eccone la regola, ed il mio secondo punto.

I . Punto. Non solamente nella legge di grazia è stato detto: voi amerete il vostro. prossimo: Diliges proxcimum: questa legge è sì antica, quanto il mondo; essa ha cominciato prima di lui; Dio ne impresse il carattere nel cuore dei nostri primi genitori per trasmetterla alla loro posterità. A misura che gli uomini si moltiplicarono, essa ricevette maggior estensione; e fu per perpetuarla che il Signore volle ancora scolpirla sopra tavole di pietra che diede a Mosè per pubblicarla al suo popolo.  Ma siccome questa legge non aveva ancora la sua perfezione, ed era anche di già cancellata nel cuore della maggior parte degli uomini, Gesù Cristo, che era venuto per compire ciò che le marcava, la rinnovò per via del suo divino Spirito, e le diede l’ultima perfezione. Ed è per questo, che la mette nel numero delle prime massime del suo Vangelo, che la chiama suo comandamento speciale: Hoc est præceptum meum,ut diligatis invicem (Jo. XV). Si è un comandamento nuovo, che io vi do: Mandatum novum; Egli vuole che si osservi in una maniera affatto nuova e con maggior perfezione che nell’antica legge, cioè che gli uomini si amino gli uni cogli altri , come Gesù Cristo li ha amati, che amino anche i loro più crudeli nemici: Mandatum novum do vobis, ut diligatis invicem, sicut dilexi vos (Jo. XIII).Tali sono, fratelli miei, le parole della legge che comanda l’amor del prossimo; legge formale e precisa che non soffre verun equivoco; legge indispensabile, contro cui non si può recare alcuna scusa per esentarsene; legge la più giusta e la più ragionevole, che appoggiata sopra i più sodi fondamenti, voglio dire sopra i rapporti, che  uomini hanno con Dio, e sopra quelli, che hanno tra essi. Noi dobbiamo amare il nostro prossimo; e perché? Perché egli è l’opera e l’immagine di Dio, perché egli è stato riscattato col sangue di un Dio: ecco i rapporti ch’egli ha con Dio. Noi dobbiamo amare  nostro prossimo: e perché? In qualità di uomini noi siamo tutti fratelli, e più ancora in qualità di Cristiani: ecco i rapporti, ch’egli ha con noi medesimi. – L’uomo è l’opera e l’immagine di Dio, del che non possiamo noi dubitare. Allorché Dio stabilì di trarlo dal nulla, facciamo – disse – l’uomo a nostra immagine e somiglianza: Faciamus hominem ad imaginem, et similitudinem nostram (Gen. 1). Egli ne formò il corpo d’un po’ di terra, che animò con un soffio di vita d’una sostanza spirituale, che rappresenta nella sua essenza la Divinità medesima, che l’imita nelle sue operazioni, e che essendo immortale partecipa della sua eternità. Questo uomo formato ad immagine di Dio, è ancora il prezzo del sangue d’un Dio, egli è stato redento e salvato con la morte d’un Dio-uomo, ed in questa qualità egli è figliuolo adottivo di Dio, erede del suo regno, l’oggetto del suo amore e della sua vigilanza veramente paterna. Qual forti motivi di amar questo prossimo! Negargli amore non sarebbe egli negarlo a Dio medesimo, che l’ha creato e redento? Mentre se voi non amate il vostro prossimo che vedete, come amerete Dio che non vedete? dice S. Giovanni. Se voi non amate il vostro prossimo, come potete voi dire che amate Dio? Poiché voi trasgredite uno dei primi comandamenti, e si è dall’osservanza de’ suoi comandamenti che Egli conosce coloro che l’amano e se siamo colpevoli di prevaricazione contro tutti i punti della legge, trasgredendone un solo, come dice s. Giacomo, che sarà trasgredirli, per cosi dire, tutti, non osservando il precetto della carità, che è la pienezza della legge? Non evvi dunque salute alcuna a sperare per coloro che non amano il loro prossimo. Invano, fratelli miei, parlereste il linguaggio degli Angeli; invano avreste una fede sì viva da trasferire i monti, come dice S. Paolo; invano passereste tutti i vostri giorni in orazione; invano abbandonereste il vostro corpo a tutti i rigori del digiuno e della mortificazione: se voi non avete la carità, soggiunge lo stesso Apostolo, tutto questo a nulla vi serve: Si charitatem non habuero , nihil mini prodest (1. Cor. XIII). Bisogna praticarla prima d’ogni altra virtù, dice il principe degli Apostoli: Ante omnia in vobis metipsis mutuam charitatem habentes (2 Pet. IV). Ne conta già, che quell’uomo, quella donna che non amate non meriti il vostro amore, che sia un genio bizzarro con cui non si può vivere, che quell’uomo che la legge vi prescrive di amare come voi medesimo sia soggetto a difetti che lo rendono indegno di vostr’amicizia; ch’egli sia indegno di entrare in alcuna società; che vi abbia anche insultato, oltraggiato, e che abbia sempre mal animo contro di voi. Io voglio credere che quella persona con la sua condotta meriti piuttosto il vostro sdegno che la vostra amicizia: che sia anche soggetta a difetti che la rendono oggetto del dispregio e dell’orrore del genere umano: ma quella persona è l’immagine di Dio, ella è il prezzo del suo sangue; ecco ciò che dovete risguardare in essa. Non sono i suoi vizi, i suoi difetti, i suoi disordini, che Dio vi comanda di amare, non è la sua condotta che vi chiede di approvare; si è la sua somiglianza, si è voi medesimo che convien considerare; chiudete gli occhi su tutto il restante: vi basti di sapere che Dio è rappresentato da quell’uomo che vi dispiace, che vi ha pur anche offeso, per non far conto di qualunque altra ragione, perché si è Dio che dovete amare in quell’uomo, e quell’uomo per Dio: diliges proximum. Che l’immagine del re sia scolpita sul piombo o sull’oro, ella è sempre rispettabile; che l’immagine di Dio sia in un uomo vizioso o virtuoso, ella è sempre in questa qualità degna dei vostri rispetti e del vostro amore. Riguardate questa immagine, o piuttosto riguardate Dio, e gli renderete ciò che domanda da voi; riguardate altresì ciò che il prossimo è a voi medesimi, e vi troverete un altro fondamento della carità che dobbiamo avere gli uni per gli altri. – Si può considerare l’uomo o per quel che è in sé stesso, o per quel che è in qualità di Cristiano. Sotto queste due qualità gli uomini hanno dei rapporti, dei legami gli uni cogli altri che debbono serrare i nodi d’una stretta carità. Ogni uomo è prossimo ad un altro uomo, dice s. Agostino; come uomini, noi siamo tutti usciti dalla medesima origine, abbiamo tutti il medesimo Padre. Affinché non abbiamo tutti che un medesimo cuore , dice il Crisostomo, noi siamo tutti composti della medesima natura, d’un corpo e d’un’anima somiglianti. noi abitiamo la medesima terra, noi siamo alimentati con i medesimi beni che essa produce. Non crediate dunque – dice s. Agostino – perché siete ricchi, ed il vostro prossimo è povero, di essere dispensati dall’amarlo. Perché voi siete ricchi, non avete bisogno di lui, io ne convengo; ma quel povero, quell’indigente, è uomo come voi, egli è vostro simile, non dipendeva che da Dio di arricchirlo, d’innalzarlo come voi, e forse meritato più l’ha egli che voi. Che cosa avete voi fatto a Dio di più di lui per avere dei beni ch’egli non ha? Dio non poteva forse ridurvi nel medesimo stato in cui egli è? Riguardate dunque voi medesimi in quell’uomo, che avete dispregiato, aggiunge s. Agostino: attende te ipsum. Egli è vostro fratello, egli è un altro a voi medesimo, e in questa qualità egli è degno del vostro amore; ma quanto non merita ancora in qualità di Cristiano! – Infatti noi siamo tutti fratelli di Gesù Cristo, ed il legame, che il Cristianesimo produce tra gli uomini è ancora più forte di quello dell’umanità. Come Cristiani, noi siamo tutti rigenerati con lo stesso Battesimo, noi abbiamo tutti lo stesso padre, che è Dio, la stessa madre, ch’è la Chiesa, lo stesso cibo, che sono i Sacramenti, la stessa eredità, che è il cielo; noi siamo i membri d’un medesimo corpo, di cui Gesù Cristo è il capo. Poveri e ricchi, grandi e piccoli, nobili e plebei, re e sudditi sapienti ed ignoranti, tutti appartengono al Corpo mistico di Gesù Cristo; tutti per conseguenza debbono esser uniti coi legami di una stessa carità. Mirate l’unione e la corrispondenza che sono tra le membra del corpo umano. Questo è il paragone di cui servesi il grande Apostolo. Vos estis corpus Christi, et membra de membro (1a Cor. XII). Tutti i suoi membri s’interessano l’uno per l’altro, il dolore dell’uno si comunica a tutti gli altri, e non si tosto è guarito, che ne risentono anch’essi alleviamento. Gli occhi conducono i piedi, le mani difendono il capo; nella distribuzione che si fa degli alimenti, ogni membro conserva solo ciò che gli è necessario, e lascia il restante pel nutrimento degli altri. Se qualcheduno di essi è incomodato o debole, gli altri lo soccorrono e lo sostengono; se il piede cammina su d’una spina e ne sia ferito, quantunque elevati sieno gli occhi, essi si abbassano per cercarla, la mano si mette in istato di cavarla; tutti i membri, in una parola, hanno una tal unione gli uni cogli altri, che i beni e i mali loro sono comuni a tutti. – Tali sono gli effetti che la carità deve produrre tra i Cristiani, che sono i membri d’un medesimo corpo. Tutti questi membri debbono essere talmente uniti insieme, che si rendano reciprocamente tutti gli aiuti di cui hanno bisogno, di modo che gli uni facciano la funzione degli occhi, gli altri quella del piede, come la Scrittura dichiara del Santo Giobbe, quando dice, che egli era l’occhio del cielo, il piede dello zoppo Oculus fui cæco, per claudo (Job. XXIX). Quelli che sono al di sopra degli altri per la loro autorità, e che sono come il capo del corpo, debbono scendere nella miseria dei poveri per dare loro soccorso; quelli che sono sani soccorrere gli infermi, i sapienti istruire gli ignoranti, aiutarli col consiglio. E per seguire il paragone di s. Paolo, per rapporto ai membri che sono inferiori agli altri, i piedi del corpo umano, benché molto inferiori al corpo, non portano invidia alcuna; così ì Cristiani che sono nella povertà e nell’abbassamento non debbono invidiare la sorte di coloro che sono più fortunati. Benché un membro sia incurabile, e con i suoi dolori faccia soffrire gli altri, niuno tuttavia si sdegna contro di lui; tutti al contrario lo compatiscono e non sono consentire a separarsi. Così dobbiamo soffrire dagli altri, dai nostri più crudeli nemici, ancora che mettono la nostra pazienza alla prova. Nulla deve estinguere la carità, che deve unir insieme i membri di Gesù Cristo. Chiunque è separato dal suo fratello per inimicizia contro di lui non appartiene a questo Corpo mistico, di cui Gesù Cristo è il capo; egli è un membro guasto, che trovasi in uno stato di morte: Qui non diligit, manet in morte (1 Jo. III); perché egli non ha quello spirito di carità, che è il segno a cui Gesù Cristo ha voluto che si riconoscessero i suoi discepoli: Si quis spirìtum Christi non habet, hic non est eius (Rom. VIII). – Con tutto ciò, fratelli miei, dove si trova questa carità cristiana, che deve tessere il legame dei cuori? Niun si veggono al contrario tra i Cristiani, che inimicizie, che divisioni, che dissapori, che gelosie, che ingiustizie. L’uno cerca di distrugger l’altro con vessazioni o con inganni ed artifici. Questi s’impadronisce ingiustamente d’un bene che non gli appartiene; quegli lacera crudelmente la riputazione del suo fratello: i grandi opprimono i piccoli; i piccoli portano invidia ai grandi; gli uguali non possono soffrirsi; di modo che si può dire, che tra le creature l’uomo non trova alcun più crudele nemico che l’uomo medesimo. Non v’è più fedeltà tra gli amici; non si sa più, dicesi, di chi fidarsi; il commercio degli uomini diventa insopportabile; e non si trova, per cosi dire, tranquillità che nel loro allontanamento; quei medesimi che sono i più prossimi, per i vincoli della carne e del sangue, sono talvolta i più grandi nemici; si trova sovente più di soccorso presso d’uno straniero che presso d’un congiunto. Testimonio quell’uomo dell’odierno Vangelo, che fu abbandonato da’ suoi vicini, e sollevato da un Samaritano, che era straniero alla sua nazione. Spesse volte, dirollo? voi vedrete persone che fanno, professione di pietà, le quali si lasciano trasportare da antipatie, da avversioni contro quelli che hanno la disgrazia di loro dispiacere, che essi non possono mirar di buon occhio, ed a cui danno al più al più alcuni segni esteriori di carità finta, che serve di mantello ad un rancore raffinato, ad una colpevole freddezza; voi le vedete nulladimeno accostarsi ai sacramenti, fare molte buone opere, osservare esattamente certe pratiche di divozione, le quali non essendo animate dallo spirito di carità, non possono essere gradite a Dio né meritar da Lui ricompensa. Oh carità dei primi Cristiani, che li univa sì intimamente che non facevano tutti che un cuore ed un’anima sola, purché non regni tu ancora nello spirito e nel cuore dei Cristiani dei nostri giorni? Possiate, fratelli miei, riaccendere in voi quel bel fuoco che animava il Cristianesimo nascente! Possiamo noi veder rivivere questa carità fraterna, che fa il carattere dei discepoli di Gesù Cristo? Bisogna mostrarvene la pratica: sicut te ipsum.

II. Punto. Allorché Dio ci ha fatto comandamento di amare il nostro prossimo, Egli prevedeva tutti i falsi pretesti, di cui servirebbesi l’amor proprio per eludere la forza di questa legge; Egli proscriveva per conseguenza di già anticipatamente quelle amicizie finte ed apparenti, sterili ed inefficaci, quelle amicizie politiche, le quali finiscono in alcune parole cortesi, in alcune offerte di servigi; amicizia apparente che non è nel cuore, amicizia sterile che è senza effetto. E perciò Dio ci ha comandato di amar il nostro prossimo come noi medesimi: Diliges sicut te ipsum; perché l’amore che abbiamo per noi medesimi è un amor sincero ed efficace. Tal deve essere altresì il nostro amore per il prossimo; deve essere un amor sincero che sia nel cuore, opposto alle amicizie apparenti, le quali non ne hanno che la scorza: deve essere un amor efficace, che si manifesti con le opere, opposto alle amicizie sterili, che sono senza effetto. Ma perché l’amore, che abbiamo per noi medesimi, benché sincero sia ed efficace, non è sempre ben regolato, non è sempre animato da un buon motivo, ed è sovente vizioso, mondano, carnale, interessato, Gesù Cristo ha voluto ancora purificare il nostro amore pel prossimo, proponendoci per modello quel che Egli ha per noi medesimi: Sicut dilexi vos (Jo. III). Laonde, per riassumere tutte le qualità e tutte te regole, che deve avere la carità fraterna, ella deve essere sincera nel suo principio, efficace nelle sue opere, pura nei suoi motivi. Tale fu quella del Samaritano, di cui Gesù Cristo ci propone l’esempio. Sincero. Noi ci amiamo con un amore sincero, e si può dire che in ciò non c’inganniamo; non solamente non ci vogliamo alcun male, ma ci desideriamo ancora tutti i beni, che ci sono necessari, utili e dilettevoli. Osservate dunque, dice s. Agostino, quanto vi amate voi medesimi, per amare nello stesso modo il vostro prossimo: Attende quantum te diligis, sic dilige proximum. Riguardate il vostro prossimo come un altro voi medesimo, per non desiderargli né fargli del male più che a voi medesimi, per desiderargli e fargli tutto il bene che gradireste fatto a voi. Ecco la regola della carità cristiana. Perché  amate voi medesimi, voi non vorreste che altri s’impadronisse ingiustamente dei vostri beni, che denigrasse la vostra riputazione con nere calunnie, che v’insultasse con amari motteggi: perché dunque non vi diportate così a riguardo del vostro prossimo? Perché amate voi medesimi, voi vi desiderate tutto il bene che vi è necessario per preservarvi dai mali della vita; dovete avere i medesimi sentimenti per il vostro prossimo. Non crediate dunque di soddisfare al dovere della carità vivendo in uno stato d’indifferenza a suo riguardo. Il precetto dell’amore domanda il vostro cuore, ricusarglielo si è mancar al precetto. Mirate il Samaritano del Vangelo, che Gesù Cristo vi propone a modello: alla vista di quel povero ferito, che ritrova mezzo morto sulla strada, sente toccarsi il cuore di compassione, misericordia motus; si mette in luogo di quel meschino per rendergli tutti i servigi che la carità gl’inspira. Si è dal cuore, si è da un amor sincero che partono tutti i passi, ch’egli fa per soccorrerlo, misericordia motus. Gran soggetto d’istruzione, fratelli miei, e nello stesso tempo di confusione per quei cuori duri ed insensibili alle miserie del prossimo, i quali sono indifferenti sulle altrui avversità, e si contentano al più di dare alcuni segni esteriori di compassione, ove il cuore non ha alcuna parte! Se voi foste nell’afflizione, oppressi da malattia, da sinistri accidenti, non gradireste voi che gli altri avessero di voi compassione, ed entrassero a parte dei vostri dolori? Invano dunque vi lusingate di amare il vostro prossimo se voi non avete per lui i medesimi sentimenti che vorreste egli avesse per voi medesimi: Diliges etc. – Perché voi vi amate con un amore sincero, volete che si sopportino i vostri difetti, che si abbia dell’indulgenza per voi; e voi sopportate similmente i difetti altrui, abbiate per gli altri la medesima indulgenza, che vorreste si avesse per voi, ed adempirete la legge di Gesù-Cristo: Alter alterius onera portate, et sic adimplebitis legem Christi (Gal. VI). Ecco qui, fratelli miei, un punto notabile per la pratica della carità. Noi abbiamo tutti dei difetti e delle debolezze, che ci espongono ad essere offesi gli uni dagli altri; siamo nulladimeno obbligati a vivere insieme; bisogna dunque, per rendere la società sopportabile, perdonali l’un l’altro, sopportare le nostre debolezze, altrimenti converrebbe rompere ogni commercio cogli uomini; nel che consiste la sapienza ammirabile del nostro Dio, che ci ha comandato di amarci gli uni con gli altri come noi medesimi, perché, amandoci in tal modo, noi vicendevolmente ci perdoniamo. Dio, che comanda a noi di sopportar gli altri, comanda loro di sopportar noi. Se ciascuno adempie al suo dovere, la pace non sarà giammai alterata, come è pur troppo dalle dissensioni, dalle guerre intestine, che desolano le famiglie: quale n’è la cagione? La mancanza di carità a sopportare i difetti del suo prossimo. Quanti ve ne sono che vogliono essere scusati e sopportati in ogni cosa, e nulla sanno sopportar negli altri? Domandano che si abbia dell’indulgenza per essi, mentre trattano gli altri con arroganza, li insultano, li dispregiano a cagione dei loro difetti. Ed è questo forse amar il suo prossimo come se stesso? No, senza dubbio, la carità cristiana segue la stessa regola pel prossimo che per sé. Ma quanto è mai raro ritrovare questa carità che soffre tutto, che perdona tutto, che desidera del bene a tutti! Credono essi di soddisfare al dovere della carità con alcune dimostrazioni di amicizia, che danno al prossimo; ma sotto queste belle apparenze non hanno alcun amore vero e sincero, ne volete la prova? Accada al prossimo qualche sinistro affare, qualche disgrazia, qualche perdita di beni: ne provano un piacere segreto, che hanno cura di nascondere sotto finte proteste di cordoglio che sentono dell’altrui avversità; al contrario si affliggono della sua prosperità, mentre esteriormente sembrano rallegrarsene, prova certissima che non l’amano come se stessi con un amor sincero, perché, per amarlo in tal modo, bisogna entrar a parte delle sue disgrazie e delle sue prosperità, come delle nostre proprie. No, no. fratelli miei, non è già nelle parole che consiste la carità, ma bensì nel cuore; e quando essa è nel cuore, si fa vedere con gli effetti: Non diligamus verbo, sed opere veritate (1. Jo. XIII). – Ma, torno a dire, qual è l’amore, che noi abbiamo per noi medesimi? Non solamente non ci desideriamo del bene, ma usiamo ancora tutti i mezzi di procurarcene e di trovare allievamento nei nostri bisogni. Siamo noi nell’indigenza? Cerchiamo i mezzi di pervenire ad una miglior fortuna. Siamo infermi? ricorriamo ai medici. Siamo nell’afflizione? cerchiamo la consolazione presso di un amico. In una parola, l’amore ingegnoso che abbiamo per noi medesimi, ci fa mettere in uso ogni mezzo per trovare tutto ciò che ci è necessario. Si è in tal modo che un amor sincero ed efficace dee diportarsi verso del suo prossimo. Perciocché contentarsi di semplici desideri senza venirne all’effetto è egli forse, fratelli miei, un adempiere i doveri della carità? Si è imitar quei viandanti, che videro quell’uomo ferito sulla strada di Gerico, e che si contentarono di avere per lui alcuni sentimenti di compassione senza dargli verun soccorso. Perché non imitiamo noi al contrario la condotta del pietoso Samaritano, che, seguendo i movimenti della sua compassione, gli diede tutte le prove d’una carità che previene, senza aspettare che quel povero ferito gli chiedesse aiuto? Egli si accosta a lui, molto diverso da quegli uomini duri, che nulla cotanto temono quanto l’aspetto dei miserabili, e da cui nulla si può ottenere se non a forza d’importunità: egli è premuroso di apportar rimedio ai mali di lui, versa dell’olio e del vino sopra le sue piaghe, lo porta alla vicina osteria, e con generosa carità si obbliga di pagar la spesa, che per quell’uomo farà d’uopo sino alla sua perfetta guarigione. Ecco, dice Gesù Cristo, il modello che dovete seguire: Vade, et tu fac similiter! Per venirne alla pratica fa d’uopo studiare tutti i bisogni del corpo e dell’anima, cui è ridotto il vostro prossimo, per dargli tutti gli aiuti che da noi dipendono. Il vostro fratello è egli nell’indigenza, abbattuto dagli infortuni, dalle miserie dei tempi? Porgetegli una mano pietosa per aiutarlo a rialzarsi col vostro danaro, col vostro credito, con la vostr’opera e con tutti i servigi che dipendono da voi. È egli stimolato dalla fame, divorato dalla sete, mancante di vestimenta? Dategli da mangiare, da bere, e di che vestirsi: prevenite anche i suoi bisogni, senz’aspettare che con sollecitazioni importune egli cavi da voi una limosina, che perde molto pel ritardo o la cattiva grazia con cui vien fatta; prevenitelo ad esempio di Abramo, il quale andava incontro ai pellegrini per indurli ad alloggiare in casa sua. Quell’altro è egli confinato nel letto da malattia o detenuto nelle prigioni per debiti o delitti? Visitatelo; procurate di sollevare quell’infermo, di liberare, o per lo meno soccorrere quel prigioniero; l’uno e l’altro meritano tanto più la vostra carità, quanto che non possono uscire come gli altri indigenti per cercare soccorso alle loro miserie. In una parola, rendete al vostro prossimo miserabile tutti i servigi che vorreste fossero renduti a voi medesimi: Vade, et tu fac similiter. – Ma quanto è mai raro trovare uomini abbastanza sensibili alle altrui miserie, per spargere nel loro cuore la carità benefica! Quanti cuori di bronzo lasciano languir miserabili che mancano di tutto, senza dar loro il minimo soccorso, mentre essi mancar non vogliono di cosa alcuna! Quanti che li trattano con disdegno e dispregi insultanti, aggiungendo nuovo peso alle loro miserie! Se si risolvono a far lor qualche limosina, non è che per liberarsi dalle loro importunità, ed è molto modica e comprata a molto caro prezzo per le maniere scortesi che l’accompagnano. Donde viene dunque, fratelli miei, questa durezza, questa insensibilità, che si ha per le miserie altrui? Da uno spirito d’interesse, che signoreggia la maggior parte degli uomini. La carità, dice s. Paolo, non cerca il suo interesse: Non quærit, quae sua sunt. Ma quasi tutti gli uomini lo ricercano questo interesse, dice il medesimo Apostolo: Omnes quæ sua sunt quærunt. Ecco ciò che distrugge la carità tra essi. La carità ama di comunicarsi; ma lo spirito d’interesse si ristringe in se stesso; egli riferisce tutto a se stesso, come a suo centro, ama solo se stesso e non ha che della durezza per gli altri. Questo spirito d’interesse rende non solamente gli uomini insensibili alle miserie del loro prossimo, egli mette ancora la divisione tra quei medesimi, che dovrebbero essere i più uniti: egli separa gli amici, i parenti, il figliuolo dal padre, il fratello dalla sorella, mette in scompiglio tutta la società. Donde viene che i primi Cristiani non facevano che un cuore ed un’anima sola? Si è perché non avevano alcun interesse a divider fra loro; tutti i loro beni erano comuni, ed essi facevano a gara a beneficarsi l’un l’altro: laddove l’interesse divide i Cristiani d’oggi giorno, e ne fa tanti cuori differenti, quanti sono i soggetti che compongono la società. Bisogna dunque, per essere caritatevole, staccarsi e spogliarsi del suo interesse, far parte agli altri de’ suoi beni, secondo i loro bisogni e la propria facoltà; di modo che chi ha molto dia molto, e chi ha poco dia poco, come diceva Tobia al suo figliuolo. – Ma non ci fermiamo solamente a provarvi che i bisogni del corpo del vostro prossimo debbono esser l’oggetto della carità; vi sono beni più nobili, quelli vale a dire dell’anima. Questa materia chiederebbe una istruzione particolare di cui non faccio che indicarvi in poche parole i capi principali: il vostro prossimo è nell’afflizione? Voi dovete consolarlo: è questo un esercizio di carità, che conviene a tutti, non v’è alcuno che non possa compierlo. Quante occasioni non se ne trovano negli avvenimenti funesti, che attraversano la vita degli uomini? Una parola di consolazione detta a proposito ad un infermo, ad un afflitto, calma l’amarezza dei suoi dolori. Il vostro prossimo è nell’ignoranza, o caduto a qualche disordine? Istruitelo, correggetelo. Quanti poveri ignoranti si trovano, che hanno bisogno d’istruzione, che per mancanza di essa si allontanano dalle vie della salute! Quanti peccatori, che si perdono nelle vie dell’iniquità per mancanza di una correzione salutevole, di un avviso prudente che li farebbe rientrar nel dovere! La più grande carità, che si possa dunque fare, è il faticare alla conversione dei peccatori, cooperare alla salute dell’anima del suo prossimo, sia con ammonizioni fatte a proposito, sia con i buoni esempi, i quali sono ancora più efficaci che le parole. Se voi vedeste una bestia da soma cader in un fosso, voi la rialzereste per carità verso colui cui essa appartiene, voi vedete un vostro fratello che i disordini conducono al precipizio, che è vicino a cader nell’inferno, e non farete alcuno sforzo per rattenerlo? Ov’è la vostra carità’? Ov’è il vostro zelo per la gloria di Dio? Ma qual crudeltà sarebbe la vostra se con malvagi consigli, con esempi perniciosi acceleraste la sua caduta? Iddio vi domanderebbe un conto terribile della perdita dell’anima di lui. – Finiamo. La carità deve essere pura nel suo motivo; ella sarà tale se noi ameremo il nostro prossimo, come Gesù-Cristo ci ha amati. È questo il modello che Egli ci propone: sicut dilexi vos. In qual modo Gesù-Cristo ci ha Egli amati, fratelli miei? Ci ha amati senza alcun merito dal canto nostro e senza alcun interesse dal suo. Egli ci amò fino a sacrificar i suoi beni, il suo riposo, la sua vita per nostra salute. Ecco la regola che propone alla nostra carità, Egli deve esserne il fine. Non è dunque né la nobiltà dell’origine, né  lo splendore delle ricchezze , né le qualità personali del corpo e dello spirito, che fissar devono il nostro amore per il prossimo, molto meno ancora la passione deve esserne il principio. Poiché amarsi per la colpa è un amarsi per l’inferno, dice il Crisostomo; l’amor cieco e profano non deve avere alcun luogo nell’ordine della carità cristiana. Voi potete bensì avere un affetto particolare per i parenti, gli amici, le persone che lo meritano per le loro buone qualità, per i loro benefizi, ma questo affetto deve sempre riferirsi a Dio come a suo primo oggetto. Perciocché, se voi non amate il vostro prossimo che per mire umane, solamente perché vi appartiene pei vincoli del sangue o per qualche attrattiva particolare che vi piace, se non gli rendete servigio che per l’utile che ne sperate, o per una inclinazione puramente naturale, che fate voi di più che i pagani? La vostra carità, non essendo soprannaturale come deve essere, sarà senza ricompensa presso di Dio. L’esempio del Samaritano del Vangelo vi confonderà ancora in questo punto. Che poteva egli sperare da quell’uomo cui gli assassini avevano tolto tutto quel che possedeva? Non era dunque in vista dell’interesse che gli rendette sì buoni uffizi, ma per solo principio della carità, che l’animava. Ah! quanto è rara una carità cosi disinteressata! Si ama, si coltiva l’amicizia di certe persone, o perché  hanno del credito, o per la speranza di certi vantaggi che se ne aspettano: si amano coloro che sono nella prosperità ed in istato di far del bene, ma dacché non si trova più il proprio interesse, dacché la fortuna ha cangiato, non avvi più amicizia. Prova certissima che Dio non n’è il principio ed il fine. Volete voi conoscere, fratelli miei, se la vostra carità viene da Dio e se ella si riferisce a Dio? Lo conoscerete quando essa non cangerà, malgrado i sinistri accidenti del vostro prossimo, malgrado i cattivi servigi che esso vi renderà; perché questa carità, trovando in Dio un motivo sempre costante, non deve giammai variare.

Pratiche. Non considerate che Dio in tutte le cose; amate il vostro prossimo in Dio, per Dio e come Dio vi ha amati, e voi lo amerete cristianamente. Volete voi sapere se avete questa carità? Riconoscetela ai segni che ce ne dà il grande Apostolo, i quali ne contengono la pratica. La carità, dice egli, è paziente e piena di bontà: Charitas patiens est, benigna est; ella è paziente per soffrire dai nostri fratelli gli affronti, le ingiurie, i dispregi; piena di bontà per far loro del bene. Essa non è invidiosa: Non æmulatur; perché, non attaccandosi alle cose di quaggiù, e non desiderando che i beni del cielo, essa non conosce quell’invidia maligna, che si affligge del bene altrui. Essa non si gonfia, non è ambiziosa: Non inflatur, non est ambitiosa; perché non crede meritar cosa alcuna, e, ben lungi dal dispregiar gli altri, non ha che umili sentimenti di sé medesima. Essa non s’irrita, perché non cerca il suo interesse: Non irritatur, non quærit, quæ sua sunt. Ella non pensa né giudica male di alcuno; non si rallegra del male, ma piuttosto del bene e della verità: non cogitat malum, congaudet veritati. Ella crede tutto, soffre tutto, spera tutto: Omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet. Faccia il cielo, fratelli miei, che la vostra sia tale, e che, dopo essere stati uniti sopra la terra coi legami di una stretta carità, lo siate un giorno nell’eternità beata. Cosi sia.

CREDO…

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Exod XXXII: 11;13;14

Precátus est Moyses in conspéctu Dómini, Dei sui, et dixit: Quare, Dómine, irascéris in pópulo tuo? Parce iræ ánimæ tuæ: meménto Abraham, Isaac et Jacob, quibus jurásti dare terram fluéntem lac et mel. Et placátus factus est Dóminus de malignitáte, quam dixit fácere pópulo suo. [Mosè pregò in presenza del Signore Dio suo, e disse: Perché, o Signore, sei adirato col tuo popolo? Calma la tua ira, ricordati di Abramo, Isacco e Giacobbe, ai quali hai giurato di dare la terra ove scorre latte e miele. E, placato, il Signore si astenne dai castighi che aveva minacciato al popolo suo.]

Secreta

Hóstias, quǽsumus, Dómine, propítius inténde, quas sacris altáribus exhibémus: ut, nobis indulgéntiam largiéndo, tuo nómini dent honórem. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda propizio alle oblazioni che Ti presentiamo sul sacro altare, affinché a noi ottengano il tuo perdono, e al tuo nome diano gloria.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps CIII: 13; 14-15

De fructu óperum tuórum, Dómine, satiábitur terra: ut edúcas panem de terra, et vinum lætíficet cor hóminis: ut exhílaret fáciem in oleo, et panis cor hóminis confírmet.

[Mediante la tua potenza, impingua, o Signore, la terra, affinché produca il pane, e il vino che rallegra il cuore dell’uomo: cosí che abbia olio con che ungersi la faccia e pane che sostenti il suo vigore.]

 Postcommunio

Orémus.
Vivíficet nos, quǽsumus, Dómine, hujus participátio sancta mystérii: et páriter nobis expiatiónem tríbuat et múnimen.

[O Signore, Te ne preghiamo, fa che la santa partecipazione di questo mistero ci vivifichi, e al tempo stesso ci perdoni e protegga.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

ESERCIZIO DEVOTO IN ONORE DELLA BEATISSIMA SEMPRE VERGINE MADRE DI DIO: MARIA.

UN ESERCIZIO DEVOTO IN ONORE DELLA BEATISSIMA SEMPRE VERGINE MADRE DI DIO

MARIA

CONCEPITA SENZA PECCATO ORIGINALE DAGLI SCRITTI DI SAN BONAVENTURA

Il seguente pio esercizio in onore della Gloriosa e sempre Vergine Madre di nostro Signore è raccolto in gran parte dalle opere del serafico Dottore, San Bonaventura; e fu stampato a Roma nel I860. Le pie e ferventi aspirazioni che esso contiene sono concepite nello spirito e secondo il modello dei Salmi di Davide che sono il fondamento del Divino Ufficio ed il culto quotidiano della Chiesa Cattolica.

INDULGENZE

Papa Pio IX., in un Breve in data 9 Dic. 1856, ha concesso in eterno le seguenti indulgenze ai fedeli che con cuore contrito recitino nella settimana sotto forma di supplica in onore della sempre Beatissima Vergine, ogni giorno:

1. Sette anni e sette quarantene per ogni giorno.

2. Un’indulgenza plenaria nella festa dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine, oppure entro l’ottava; nella festa di San Giuseppe, in quella di San Bonaventura, il 14 luglio; ed in un giorno del mese di maggio a scelta di ognuno, a chi hanno recitato per un intero mese questa devozione ogni giorno, con Confessione sacramentale e Comunione eucaristica, con visita ad una chiesa o ad pubblico oratorio e preghiera secondo le intenzioni del Sovrano Pontefice. Queste Indulgenze possono essere applicate alle anime del Purgatorio.

Qual grande profitto trarrà chi offrirà ogni giorno questo tributo di preghiere alla sempre Beatissima Vergine, non solo ottenendo queste Indulgenze, ma ancor più se otterrà la grazia desiderabilissima di una vita santa, e di una morte tranquilla e felice in Nostro Signore.

Christe, cum sit hinc exire, Da per Matrem me venire ad palmam victoriæ

.

PRÆPARATIO QUOTIDIANA.

1. Humiliabis te in fide ante conspectum Dei.

[Ti umilierai con fede al cospetto di Dio]

2. Putabis te moribundum in lecto, et habentem ante oculos tuos Jesum Christum Crucifixum in Monte Calvario, et juxta Crucem Ejus SS. Virginem doloris gladio transifixam.

[Ti considererai moribondo nel letto avendo davanti agli occhi Gesù Cristo moribondoCrocifisso sul monte Calvario, e presso la sua Croce la SS. Vergine trapassata dalla spada del dolore].

3. Ante Psalmos sequentes preces recitabis.

[Prima dei Salmi reciterai le seguenti preghiere]

ORATIO.

Domine Jesu Christe Crucifixe, per infinitam tuam misericordiam, ac per merita et intercessionem Beatissimæ V. Matris tuæ, adjuva nos, licet indignos, ut in unione totius Curiæ cœlestis, eandem SS. Virginem,  omnibus diebus vitæ nostræ laudare valeamus, et has preces persolvere, ut sancte vivere, ac feliciter mori in tuo amore mereamur. Amen.

AVE MARIA, etc.

V. Illumina oculos meos, ne unquam obdormiam in morte.

R. Ne quando dicat inimicus meus: prævalui adversus eum.

V. Deus in adjutorium meum intende.

R. Domine, ad adjuvandum me festina.

Gloria, etc.

HYMNUS.

Memento, rerum Conditor,

Nostri quod olim corporis

Sacrata ab alvo Virginis

Nascendo formam sumpseris.

Maria Mater gratiæ,

Dulcis Parens dementia,

Tu nos ab hoste protege,

Et mortis hora suscipe.

Jesu Tibi sit gloria,

Qui natus es de Virgine,

Cum Patre, et almo Spiritu

In sempiterna sæcula. Amen.

DIE DOMINICA.

Ad Plagas Jesu, petes gratiam bene disponendi domui tuæ

et sanctificandi tota vita tua Nomen Patris Cœlestis.

Ant. I Conforta Virgo.

PSALM. I.

Beatus vir, qui diligit nomen tuum, Maria

Virgo: gratia tua animam ejus confortabit.

Tanquam lignum aquarum fontibus irrigatum

uberrime: in eo fructum justitiæ propagabis.

Benedicta tu inter mulieres: propter humilitatem

et credulitaten cordis sancti tui.

Universas enim fœminas vincis pulcritudine

carnis: superas Angelos et Arcangelos

excellentia sanctitatis.

Misericordia tua et gratia ubique predicatur:

Deus operibus manum tuarum benedixit.

Gloria, etc.

Ant. 1. Conforta, Virgo Maria, animam ejus, qui invocat nomen tuum: quia misericordia tua et gratia ubique prædicatur.

Ant. 2. Protegat nos.

PSALM. II.

Quare fremuerunt inimici nostri: et adversum

nos meditati sunt inania?

Protegat nos dextera tua, Mater Dei: ut

acies terribilis confundens, et destruens eos.

Venite ad eam, omnes qui laboratis, et tribulati estis:

et dabit refrigerium animabus vestris.

Accedite ad earn in tentationibus vestris:

et stabiliet vos serenitas vultus ejus.

Benedicite illam in toto corde vestro:

misericordia enim illius plena est terra.

Gloria, etc.

Ant. 2: Protegat nos dextera tua, Mater

Dei: et da refrigerium, et solatium animabus

nostris.

Ant. 3: Deduc me.

PSALM. III.

Domina, quid multiplicati sunt, qui tribulant me?

In potentia tua persequeris, et dissipabis eos.

Dissolve colligationes impietatis nostræ:

tolle fasciculos peccatorum nostrorum.

Miserere mei, Domina, et sana infirmitatem

meam: tolle dolorem, et angustiam cordis mei.

Ne tradas me manibus inimicorum meorum: et in die mortis meæ conforta animam meam.

Deduc me ad portum salutis: et spiritum

meum redde Factori, et Creatori meo.

Gloria, etc.

Ant. 3: Deduc me, Domina, ad portum salutis:

et in die mortis meæ conforta animam meam.

Ant. 4: Ne projicias.

PSALM. XIX.

Exaudias nos, Domina, in die tribulationis:

et precibus nostris converte clementem faciem tuam.

Ne projicias nos in tempore mortis nostræ:

sed succurre animæ, cum deseruerit corpus suum.

Mitte Angelum in occursum ejus: per

quem ab hostibus defendatur.

Ostende ei serenissimum Judicem sæculorum:

qui ob tui gratiam veniam ei largiatur.

Sentiat in pœnis refrigerium tuum: et

concede ei locum inter electos Dei.

Gloria, etc.

Ant. 4: Ne projicias nos, Domina, in tempore

mortis nostræ: sed succurre animæ, cum deseruerit corpus suum.

Ant. V Esto Domina.

PSALM. XXIV.

Ad te, Domina, levavi animam meam:

in judicio Dei tuis precibus non erubescam.

Neque illudant mihi adversarii mei:

et enim in te praesumentes de Te roborantur.

Non pnevaleant adversum me laquei mor

tis : et castra malignantium non impediant

gressus meos.

Collide impetum eorum in virtute tna : et

cum mansuetudine occure animae meae.

Ductrix mea esto ad patriam: et me ccetui

angelorum digheris aggregare. Gloria, etc.

Ant. Esto, Domina, ductrix mea ad patri

am : et in die mortis meae, occurre cum

mansuetudine animas meæ.

PRECES.

V. Maria Mater gratiæ, Mater misericordiæ.

R. Tu nos ab. hoste protege, et hora mortis suscipe.

V. Illumina oculos meos, ne unquam obdormia in morte.

R. Ne quando dicat ihimicus meus, prævalui adversus eum.

V. Salva me ex ore leonis.

R. Et de manu canis unicam meam.

V. Salvum me fac in tua misericordia.

R. Domina, non confundar, quoniam invocavi te.

V. Ora pro nobis peccatoribus.

R. Nunc et in hora mortis nostra.

Amen.

V. – Domina exaudi orationem meam.

R. Et Clamor meus ad te veniat.

OREMUS.

Propter terrores illius commotionis, qua

cor tuum contremuit, Virgo Beatissima, quando

audisti Filium tuum dilectissimum ab

impiis captum, ligatum, et ad supplicia tractum

et traditum ; adjuva nos, ut cor nostrum

nunc pro delictis nostris terreatur et moveatur

ad poenitentiam, ne mortis in hora ad

occursum adversarii paveat, aut ad aspectum

tremendi Judicis, accusante conscientia,

contremiscat, sed potius faciem Ejus videntes

in jubilo delectemur, ineffabiliterque laete

mur. Preestante eodem Domino nostro Jesii

Christo Filio tuo, qui cum Patre, et Spirit!

Sancto vivit et regnat in saecula saeculo

rum. Amen.

V. Ora pro nobis Sancta Dei Genitrix.

R. Ut digni efficiamur promissionibus

Christi.

V. Requiescamus in pace. B. Amen.

Canticum S. Bonaventuræ, Te Matrem Dei laudamus, etc.

CANTICUM S. BONAVENTURAE.

Considerabis gloriosum transitum et Assumptionem B. M. V. eamque cum Angelis laudabis, orans, ut cum Jesu et S. Joseph tibi assistat in morte.

Te Matrem Dei laudamus:

Te Mariam Virginem profitemur.

Te Æterni Patris Filiam: omnis terra veneratur.

Tibi omnes Angeli, et Arcangeli: Tibi Throni, et Principatus fideliter deserviunt.

Tibi omnes Potestates, et omnes Virtutes Cœlorum: et universaæ Dominationes obediunt.

Tibi omnes Chori: Tibi Cherubim, et Seraphim exultantes assistunt.

Tibi omnis Angelica creatura: incessabili voce proclamat.

Sancta, Sancta, Sancta: Maria Dei Genitrix, et Mater, et Virgo.

Pleni sunt Coeli, et Terra: Majestatis gloriæ Fructus ventris Tui.

Te gloriosus Apostolorum Chorus: Sui

Creatoris Matrem collaudat.

Te Beatorum Martyrum cœtus Candidatus:

Christi Genetricem glorificat.

Te Gloriosus Confessorum exercitus Trinitatis

Templum appellat.

Te Sanctarum Virginum chorea amabilis:

Virginitatis, et humiliatis exemplum pradicat.

Te tota Cœlestis Curia: Reginam honorat.

Te per universum Orbem: Ecclesia invocando

concelebrat.

Matrem: Divinæ Majestatis.

Venerandam Te veram: Regis Cœlestis puerperam.

Sanctam quoque: dulcem et piam.

Tu Angelorum Domina: Tu Paradisi janua.

Tu Scala Regni Cœlestis et gloriæ.

Tu Thalamus: Tu Arca pietatis, et gratiæ.

Tu vena Misericordias: Tu Sponsa, et

Mater Regis æterni.

Tu templum, et Sacrarium Spiritus Sancti:

totius Beatissimæ Trinitatis nobile triclinium.

Tu mediatrix Dei, et hominum: amatrix

mortalium, Cœlestis illuminatrix.

Tu agonizatrix pugnantium, advocata pauperum:

miseratrix, et refugium peccatorum.

Tu erogatrix munerum; Superatrix, ac

Terror Demonum et superborum.

Tu mundi Domina, Cœli Regina: post

Deum sola Spes nostra.

Tu salus Te invocantium, Portus naufragrantium:

miserorum solatium, pereuntium refugium.

Tu Mater omnium Beatorum, Gaudium

Plenum post Deum: omnium supernorum

Civium Solatium.

Tu Promotrix justorum, Congregatrix errantium:

Promissio Patriarcharum.

Tu Veritas Prophetarum, Præconium, et

Doctrix Apostolorum: Magistra Evangelistarum.

Tu fortitudo Martyrum, Exemplar Confessorum:

Honor, et Festivitas Virginum.

Tu ad liberandum exulem hominem:

Filium Dei sucepisti in uterum.

Per Te, expugnato hoste antiquo: sunt

aperta fidelibus Regna Cœlorum.

Tu cum Filio Tuo sedes:

ad dexteram Patris.

Tu Ipsum pro nobis roga, Virgo Maria:

Quem nos ad judicandum credimus esse venturum.

Te ergo poscimus nobis Tuis famulis subveni:

qui pretioso Sanguine Filii Tui redempti

sumus.

Æterna fac, pia Virgo:

cum Sanctis Tuis nos gloria numerari.

Salvum fac populum Tuum, Domina: ut

simus participes hæreditatis Filii Tui.

Et rege nos: et custodi nos in æternum.

Per singulos dies: O Pia, Te salutamus.

Et laudare Te cupimus:

usque in æternum mente et voce.

Dignare, dulcis Maria: nunc, et semper

nos sine delicto conservare.

Miserere, Pia nobis: miserere nobis.

Fiat misericordia Tua magna nobiscum:

quia in Te, Virgo Maria, confidimus.

In Te, dulcis Maria, speramus:

nos defendas in Æternum.

Te decet laus, Te decet imperium: Tibi

virtus, et gloria in sæcula sæculorum. Amen.

PRECES AD USUM QUOTIDIANUM.

PRO DOMINICA.

Oratio S. Mariae Virgini ex D. Augustino deprompta.

Memorare, O piissima Virgo Maria, non

esse auditum a sæculo, quemquam ad Tua

currentem præsidia, Tua implorantem auxilia.

Tua petentem suffragia a Te esse derelictum,

Ego tali animatus confidentia ad Te, Virgo

Virginum Mater, curro, ad Te venio, coram

Te gemens precator assisto. Noli, Mater

Verbi, verba mea despicere; sed audi propitia,

et exaudi. Amen.

FERIA SECUNDA

Ad Plagas Jesu, petes Regnum Dei in te; et post mortem statim possidere Regnum Cælorum.

[Alle piaghe di Gesù, chiederai il regno di Dio in te, e dopo morte di possedere il Regno dei Cieli]

Præp. quotid. — Ave Maria.

V. Illumina oculos, ut supra.

Ant. 1: In manus Tuas.

SALMO XXX.

In Te, Domina, speravi, non confundar in

æternum: in gratia Tua suscipe me.

Inclina ad me aurem Tuam:

et in mœrore meo lætifica me.

Tu es fortitudo mea, et refugium meum:

consolatio mea, et protectio mea.

Ad Te Domina clamavi,

dum tribularetur cor meum:

et exaudisti me de vertice collium æternorum.

In manus Tuas, Domina, commendo spiritum meum:

totam vitam meam, et die ultimum meum.

Gloria, etc.

Ant.1: In manus Tuas, Domina, commendo spiritum meum; totam vitam meam, et diem ultimum meum.

Ant. 2 :Miserere mei.

PSALM. XXXVIII.

Dixi, custodiam vias meas, O Domina:

cum per Te gratia Christi fuerit mihi data.

Liquore Tuo liquefactum est cor meum:

amore Tuo inflammata sunt viscera mea.

Exaudi orationem meam, Domina,

et contabescant adversarii mei.

Miserere mei de Cœlis, et de altitudine throni Tui:

et ne permittas me in valle miseriæ conturbari.

Custodi pedem meum, ne labatur:

et in fine meo sit præsens gratia Tua.

Gloria, etc.

Ant. 2: Miserere mei de Cœlis, Domina, et

in fine meo sit præsens gratia Tua.

Ant. 3: Sanctæ preces.

PSALM. XLII.

Judica me, Domina, et discerne causam

meam de gente perversa: a Serpente maligno,

et dracone pestifero libera me.

Sancta fæconditas Tua disperdat eum:

beata Virginitas Tua conterat caput ejus.

Sanctas preces tuae corroborent nos contra eum:

sancta merita tua exinaniant virtutem ejus.

Persecutorem animre mere mitte in abyssuni:

puteus infernalis deglutiat eum viventem.

Ego autem, et anima mea in terra captivitatis

mere benedicam nomen Tuum: et glorificabo

Te in sæcula sæculorum.

Gloria, etc.

Ant. 3: Sanctæ preces Tuæ, Domina, corroborent me

contra persecutorem animæ meæ:

et in die mortis meæ a Serpente maligno

libera me.

Ant: 4: Ego autem, Domina.

PSALM. LIV.

Exaudi, Domina, orationem meam:

et ne contemnas deprecationem meam.

Contristatus sum in cogitatione mea: quia

judicia Dei perterruerunt me.

Tenebræ mortis venerunt super me:

et pavor inferni invasit me.

Ego autem in solitudine expecto consolationem Tuam:

et in cubili meo attendo misericordiam tuam.

Glorifica manum, et dexterum brachium

Tuum: ut posternatur a nobis inimici nostri.

Gloria, etc.

Ant. 4: Ego autem, Domina, attendo in cu

bili meo misericordiam Tuam; quia tenebra

mortis venerunt super me.

Ant. 5: Impetra nobis.

PSALM. LXIII.

Exaudi, Domina, orationem meam, cum deprecor:

a pavore crudeli libera animam meam.

Impetra nobis servulis tuis pacem et securitatem:  

in tremendo judicio.

Benedicta Tu super omnes mulieres:

et benedictus fructus ventris Tui.

Illumina Domina, oculos meos: et illustra

cœcitatem meam.

Da mihi in Te confidentiam bonam; et in

vita et in fine meo.

Gloria, etc.

Ant. 5: Impetra nobis, Domina, paceni et

salutem in die novissimo; et da mihi confidentiam

bonam in Te, in vita et in fine meo.

Preces, ut supra.

OREMUS.

Propter gemitus et lacrymas, quibus afficie baris, Virgo dulcissima, quando vidisti Filium tuum dulcissimum judici prasentari, acriter flagellari, variis illusionibus et opprobriis affici; impetra nobis dolorem pro peccatis nostris, et lacrymas salutiferas contritionis; et adjuva nos, ne nobis possit inimicus illudere, neque diversis pro libitu suo tentationibus flagellare, devictosque statuere terribli Judici; sed magis ipsi accusemus, et judicemus nos metipsos de excessibus nostris, et veræ pænitentiæ disciplinis flagellemus, ut veniam et gratiam in tempore necessitatis, tribulationis et angustiæ inveniamus. Præstante eodem Domino nostro Jesu Christo Filio Tuo, etc.

Amen.

V. Ora pro nobis Sancta Dei Genitrix.

R. Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

V. Requiescamus in pace. R. Amen.

Canticum S. Bonaventuræ:

Te Matrem Dei laudamus, etc.

PRO FERIA II.

Oratio S. Francisci in Opuscul.fol. 29.

Absorbeat, quæso, Domine mentem meam

ab omnibus, quae sub Cœlo sunt, ignita, et

melliflua vis amoris Tui; ut amore amoris

Tui moriar, qui amore amoris mei dignatus

es mori. Per temetipsum Dei Filium; Qui

cum Patre, etc. Amen.

FERIA TERTIA

Præparibis te ad ultimam Confessionem; et ad plag. Jesu petes donum perfectæ contritionis, et semper faciendi Dei voluntatem.

Præp. quotid. — Ave Maria.

V. Illumina oculos, ut supra.

Ant. 1: Protegat me.

PSALM. LXVI.

Deus misereatur nostri et benedicat nobis:

per illam, quæ Eum genuit.

Miserere nostri, Domina, et ora pro nobis

in sanctam lastitiam converte mæstitiam nostram.

Illumina me, Stella maris: clarifica me

Virgo clarissima.

Extingue ardorem cordis mei:

refrigera me gratia Tua.

Protegat me semper gratia Tua: præsentia

Tua illustret finem meum.

Gloria, etc.

Ant. 1: Protegat me, Domina, gratia Tua semper;

et præsentia Tua illustret finem meum.

Ant. 2: Assiste, Domina.

PSALM. LXXII.

Quam bonus Israel Deus: his, qui Matrem Suam colunt et venerantur.

Ipsa enim est solatium nostrum: in laborious subventio optima.

Obtexit caligine animam meam hostis:

In visceribus meis, Domina, lucem fac oriri.

Avertatur a me ira Dei per Te : placa

Eum meritis, et precibus Tuis.

In Judicio pro me assiste : coram eo suscipe

causam meam, et mea, sis advocata.

Gloria, etc.

Ant. 2:  Assiste, Domina, pro me judicio:

coram Deo est advocata mea, et suscipe causam meam.

Ant. 3: Erige, Domina.

PSALM. LXXVI.

Vocem mea ad Dominam clamavi:

et sua gratia intendit mihi.

Abstulit a corde meo mæstitiam, et mœrorem:

et suavitate sua cor meum dulcoravit.

Formidinem meam erexit in confidentiam bonam:

et suo aspectu mellifluo mentem meam serenavit.

Adjutorio sancto Tuo evasi pericula mor

tis : et de manu crudeli subterfugi.

Gratias Deo, et Tibi, Mater pia, de omni

bus, quae assequutus sum: pietate, et Misericordia Tua.

Gloria, etc.

Ant. 3: Erige, Domina; formidinem meam in

confidentiam bonam: et fac, ut adjutorio

sancto Tuo evadam pericula mortis.

Ant. 4: Expergiscere.

PSALM. LXXIX.

Qui Regis Israel, intende ad me: fac me

digne Matrem Tuam collaudare.

Expergiscere de pulvere, anima mea: perge

in occursum Reginæ Cœli.

Solve vincula colli tui, paupercula anima

mea : et gloriosis laudibus accipc illam.

Odor vitae de ilia progreditur: et omnis

salus de corde illius scaturizat.

Charismatum Suorum fragrantia suavi: animæ

mortuæ suscitantur.

Gloria, etc.

Ant. 4: Expergiscere de pulvere, anima mea;

perge in occursum Reginæ Cœli.

Ant. 5: Ne derelinquas.

PSALM. LXXXIII.

Quam dilecta tabernacula Tua, Domina, virtutum:

quam amabilia tentoria requietionis Tuæ.

Honorate illam, peccatores: et impetrabit

vobis gratiam, et salutem.

Super thus, et balsamum, oratio ejus: incensum

preces Ejus non revertentur vacuæ, nec inanes.

Intercede pro me, Domina, apud Christum

Tuum: nec derelinquas me in vita,

neque in morte.

Benignus est enim spiritus Tuus: gratia

Tua replet orbem terrarum.

Gloria etc.

Ant. 5: Ne derelinquas me, Domina, in vita, neque in morte,

sed intercede pro me apud Christum Tuum.

Preces, ut supra.

OREMUS.

Propter angustias, et cruciatus, quos cor

Tuum sustinuit, Virgo Beatissima, quando

audisti Filium Tuum dilectissimum adjudicatum

morti et Crucis supplicio: succure nobis tempore infirmitatis nostræ,

quando corpus nostrum dolore infirmitatis cruciabitur;

et spiritus noster, hinc propter insidias dæmonum,

illinc propter terrorem districti judicii angustiabitur:

subveni, inquam, nobis, Domina, tunc, ne damnationis æternæ

contra nos proferatur sententia ; aut ne flammis gehennalibus

tradamur æternaliter cruciandi. Præstante

eodem Domino nostro Jesu Christo,

etc. Amen.

V. Ora pro nobis Sancta Dei Genitrix.

R. Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

V. Requiescamus in pace. B. Amen.

Canticum S. Bonaventuræ,  Te Matrem Dei laudamus, etc.

PRO FERIA III.

Oratio S. Francisci in Offic. Passionis.

Sancta Maria Virgo, non est Tibi similis

nata in mundo in mulieribus, Filia, et Ancilla

Altissimi Regis Patris Ccelestis ; Mater Sanctissima

Domini nostri Jesu Christi, Sponsa

Spiritus Sancti ; or’a pro nobis cum S. Michæle

Arcangelo et omnibus Sanctis Tuum Sanctissimum

Filium dilectissimum Dominum

nostrum, et Magistrum. Amen.

FERIA QUARTA

Præparabis te ad SS. Viaticum; et ad Plagas Jesu petes hunc Panem quotidianum, nec non fidei, spei et charitatis avgmentum.

[Ti preparerai al SS. Viatico; ed alle piaghe di Gesù chiederai il pane quotidiano non senza un aumento di fede, speranza e carità]

Præp. quotid. — A te Maria.

V. Illumina oculos, ut supra

Ant. 1: Fac, Domina.

PSALM. LXXXVI

Fundamenta vitæ in anima justi: perseverare

in charitate Tua usque in finem.

Gratia Tua relevat pauperem in adversitate:

et invocatio Tui nominis imittit ei confidentiam bonam.

Miserationibus Tuis repletur Paradisus:

et a terrore Tuo hostis confunditur infernalis.

Qui sperat in Te, inveniet thesauros pacis:

et qui Te non invocat in hac vita

non perveniet ad Regnum Dei.

Fac, Domina, ut vivamus in gratia Spiritus Sancti:

et perduc animas nostras ad sanctum finem.

Gloria, etc.

Ant. 1: Fac, Domina, ut vivamus in gratia

Spiritus Sancti; et perduc animas nostras ad

sanctum finem.

Ant. 2: Gratiosus vultus.

PSALM. LXXXVIII

Misericordias Tua Domina: in sempiternum decantabo.

Unguento pietatis Tuæ medere contritis corde:

et oleo misericordiæ Tuæ refove dolores nostras.

Gratiosus vultus Tuus mihi appareat in ex

tremis: et formositas faciei Tua? lætificet

egredientem spiritum meum.

Excita spiritum meum ad amandum bonitatem

Tuam: excita mentam meam ad extollendam

nobilitatem, et pretiositatem Tuam.

Libera me ab omni tribulatione mala: et ab

omni peccato custodi animam meam.

Gloria.

Ant. 2: Gratiosus vultus Tuus mihi appareat

in extremis; et formositas faciei Tua: lætificet

egredientem spiritum meum.

Ant. 3: Qui speraverit.

PSALM. XC.

Qui habitat in adjutorio Matris Dei: in

protectione ipsius commorabitur.

Concursus hostis non nocebit ei:

sagitta volans non tanget eum.

Quoniam liberabit eum de laqueo insidiantis:

et sub pennis suis proteget eum.

Clamate ad illam in periculis vestris:

et flagellum non appropinquabit

tabernaculo vestro.

Fructus gratiæ inveniet, qui speravit in

Illa: porta Paradisi reserabitur ei.

Gloria, etc.

Ant. 3: Qui speraverit in Te, Domina, inveniet fructus gratiæ:

et porta Paradisi reserabitur ei.

Ant. 4: Suscipe.

PSALM. XCIV.

Venite exultemus Dominae nostræ: jubilemus

salutiferæ Mariæ Reginæ nostræ.

Praeocupemus faciem ejus in jubilatione:

et in canticis collaudemus Eam.

Venite adoremus, et procidamus ante Eam:

confiteamur Illi cum fletibus peccata nostra.

Impetra nobis, Domina, indulgentiam plenam

: assiste pro nobis ante Tribunal Dei.

Suscipe, Domina, in fine animas nostras:

et introduc nos in requiem æternam.

Gloria.

Ant. 4: Suscipe, Domina, in fine animas nos

tras ; et introduc nos in requiem feternam.

Ant. 5: Succurre.

PSALM. XCIX.

Jubilate Dominæ nostra, omnes homines

terræ: servite Illi in lætitia, et jucunditate.

In toto animo vestro accedite ad illam:

et in omni virtute vestra conservate vias ejus.

Investigate Illam, et manifestabitur vobis:

estote mundi corde, et apprehendetis Eam.

Quibus auxiliata fueris, Domina, erit refrigerium

pacis : et a quibus averteris vultum

Tuum, non erit spes ad salutem.

Recordare nostri, Domina; et non appre

hendent nos mala: succurre nobis in fine,

ut veniamus ad vitam æternam.

Gloria, etc.

Ant. 5: Succure nobis, Domina, in fine ; et

non apprehendent nos mala, sed inveniemus

vitam æternam.

Preces, ut supra.

OREMUS.

Propter doloris gladium, qui pertransivit

animam Tuam, Virgo dulcissima, quando Filium

Tuum dilectissimum cernebas nudum in

Cruce levatum, clavis perforatum; ac per om

nia laceratum, plagis ac verberibus, nec non

et vulneribus; adjuva nos, ut et cor nostrum

nunc compassionis et compunctionis gladius

per fodiat, divinique amoris lancea vulneret,           

ita ut omnis peccali sanguis effluat a pectore

nostro, et a noxiis vitiis emundemur, virtutum

indumentis decoremur, semperque mente ac

corpore de hac valle miserias levemur ad cœ

lestia, quo tandem cum promissus dies advenerit,

pervenire spiritu et corpore mereamur.

Praestante eodem Domino nostro Jesu Christo

Filio Tuo, etc. Amen.

V. Ora pro nobis Sancta Dei Genitrix.

R. Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

V. Requiescamus in pace. R. Amen.

Canticum S. Bonaventuræ, Te Matrem Dei laudamus, etc.

PRO FERIA IV.

Oratio S. D. Bonaventurae in Psalt. B. M. V.

Omnipotens sempiterne Deus, qui pro no

bis de Castissima Virgine Maria nasci dignatus

es ; fac nos Tibi casto corpore servire et humili

mente placare. Qui vivis et regnas, etc.

Amen.

FERIA QUINTA.

Præparabis te ad Extremam Unctionem et Indulgentias; et ad Plagas Jesu petes remissionum omnium debitorum Tuorum, remittendo debitoribus tuis.

Præp. quotid. — Ave Maria.

V. Illumina oculos, ut supra.

Ant. 1: Conforta Domina.

PSALM. C.

Misericordiam, et judicium cantabo Tibi,

Domina: psallam Tibi in exultatione cordis

cum lætificaveris animam meam.

Laudabo Nomen Tuum, et gloriam Tuam:

et præstabis refrigerium animæ meæ.

Zelatus sum amorem, et honorem Tuum:

ideo defendas causam meam

ante Judicem Sæculorum.

Allectus sum gratia, et bonitate Tua: oro

ne frauder a spe, et confidentia bona.

Conforta animam meam in novissimis :

et in came ista fac me conspicere Salvatorem.

Gloria, etc.

Ant. 1: Conforta, Domina, animam meam in

novissimis: et defende causam meam ante

Judicem Sæculorum.

Ant. 2: Da, Domina.

PSALM. CIII

Benedic anima mea Virgini Mariæ: honor

et magnificentia Ejus in perpetuum.

Formositatem, et pulchritudinem induisti:

amicta es, Domina, fulgenti vestimento.

De Te procedit peccatorum medela: et

pacis disciplina ac fervor charitatis.

Imple nos servos Tuos virtutibus Sanctis:

et ira Dei non appropinquet nobis.

Jucunditatem æternam da servis Tuis: et

noli eos oblivisci in certamine mortis.

Gloria, etc.

Ant. 2: Da, Domina, servis Tuis jucundititem

aeternam, et noli eos oblivisci in certamine

mortis.

Ant. 3: Non expavescent.

PSALM. CX.

Confitebor Tibi, Domina, in toto animo

meo: glorificabo Te in tota mente mea.

Opera gratiæ Tuæ commemorabuntur: et

testamentum misericordiæ Tuæ

ante Thronum Dei.

Per Te missa est redemptio a Deo:

populus pœnitens habebit spem salutis.

Intellectus bonus omnibus honorantibus

Te : et sors illorum erit inter Angelos pads.

Gloriosum, et admirabile est Nomen Tuum

: qui illud in corde retinent,

non expavescent in puncto mortis.

Gloria, etc.

Ant. 3: Non expavescent, Domina, in punc

to mortis, qui invocant nomen Tuum: et

sors illorum erit inter Angelos pacis.

Ant. 4:  In exitu.

PSALM. CXIII.

In exitu animæ meæ de hoc mundo:

Occurre illi, Domina, et suscipe eam.

Consolare eam vultu sancto Tuo:

aspectus Dæmonis non conturbet illam.

Esto illi scala ad Regnum Cœlorum: et

iter rectum ad Paradisum Dei.

Impetra ei a Patre indulgentiam pacis; et

sedem lucis inter servos Dei.

Sustine devotos ante Tribunal Christi:

suscipe causam eorum in manibus Tuis.

Gloria, etc.

Ant. 4: In exitu animæ meæ de hoc mundo:

occurre illi, Domina, et suscipe eam.

Ant. 5: Circumdederunt.

PSALM. CXIV

Dilexi Matrem Dei Domini mei: et lux

miserationum Ejus infblsit mihi.

Circumdederunt me dolores mortis:

et visitation Mariæ lætificavit me.

Dolorem et periculum incurri: et recreatus

sum gratia Illius.

Nomen Ejus, et memoriale Illius

sit in medio cordis nostri:

et non nocebit nobis ictus malignantis.

Convertere, anima mea, in laudem ipsius :

et invenies refrigerium in novissimis Tuis.

Gloria, etc.

Ant. 5: Circumdederunt me dolores mortis;

et visitatio Mariæ lætificavit me.

Preces ut supra.

OREMUS.

Propter gravamen, et tormentum quo torquebatur

spiritus Tuus, Virgo sanctissima,

quando juxta Crucem Filium Tuum præ doloribus

voce magna clamantem, Te Matrem

dilectam Joanni commendantem, in manusque

Dei Patris spiritum tradentem attendebas:

succurre nobis in fine vitæ nostræ, et maxime

tunc, quando lingua nostra nequiverit se ad

Te invocandem movere; cum oculi nostri lumine

privabuntur, aures surdescent et obturabuntur,

omnesque vires sensuum nostrorum

deficient. Memento, piisima Domina, tunc,

quod nunc fundimus preces ad aures Tuae

pietatis et clementiæ; et subveni nobis in

ilia hora extremæ necessitatis, ac Filio Tuo

dilectissimo commenda spiritum nostrum, per

Quem Tuo interventu a tormentis, et terroribus

omnibus eruamur, et ad desideratam Cœlestis

patriae requiem perducamur. Præstante

eodem Domino nostro Jesu Christo Filio

Tuo, etc. Amen.

V. Ora pro nobis Sancta Dei Genitrix.

R. Ut digni efficiamur promissionibus

Christi.

V. Requiescamus in pace. R. Amen.

Canticum S. Bonaventuræ, Te Matrem Dei laudamus, etc.

PRO FERIA V.

Alia Oratio ejusdem S. D. in eodem loco.

Oramus etiam Te, piissima Virgo Maria,

mundi Regina, et Angelorum Domina, ut iis,

quos in Purgatorio ignis examinat, impetres

refrigerium, peccatoribus indulgentiam, et

justis perseverantiam in bono: nos quoque

fragiles ab omnibus instantibus defende periculis.

Per Christum, etc. Amen.

FERIA SEXTA

Praeparabis te ad commendationem animæ; et ad Plagas Jesu petes semper vigilare et orare, ut vincas omnes tentationes et bonam mortem consequaris.

[Ti preparerai a commendare l’anima; ed alle piaghe di Gesù chiederai di vigilare e pregare sempre per vincere ogni tentazione e conseguire la buona morte]

Præp. quotid. — Ave Mabia.

V. Illumina oculos, ut supra.

Ant. 1: In die mortis.

PSALM. CXIX.

Ad Dominam cum tribularer, clamavi;

et exaudivit me.

Domina, libera nos ab omni malo:

cunctis diebus vitæ nostræ.

Contere caput inimicorum nostrorum:

pede insuperabilis virtutis Tux.

Ut exultavit spiritus Tuus in Deo salutari Tuo:

sic veram digneris infundere

lætitiam corde meo.

Ad Dominum accede rogatura pro nobis:

ut per Te nostra peccata deleantur.

Gloria, etc.

Ant. 1: In die mortis nostras infunde nobis

Domina, veram laetitiam: sicut exultavit

spiritus Tuus in Deo salutari Tuo.

Ant. 2: Impetra nobis.

PSALM. CXXI.

Lætatus sum in Te, Regina Cœli: quia

Te duce, in domum Domini ibimus.

Hierusalem Cælestis civitas: ad Te, Maria

previa, veniamus.

Pacem, et indulgentiam, Virgo, nobis impetra:

et palmam de hostibus ac triumphum.

Conforta, et consolare cor nostrum;

Tuæ dulcedine pietatis.

Sic Domina nobis Tuam infunde clementiam:

ut devote in Domino moriamur.

Gloria, etc.

Ant. 2: Impetra nobis, Domina, pacem, et

indulgentiam, ut devote in Domino moriamur.

Ant. 3: Releva, Domina.

Qui confidunt in Te, Mater Dei:

non timebunt a facie inimici.

Gaudete et exultate omnes, qui diligitis

eam: quia adjuvabit vos in die tribulationis

vestræ.

Reminiscere miserationum Tuarum Domina:

et releva peregrinationem incolatus nostri.

Convene amabilem vultum Tuum super

nos : confunde, et destrue omnes inimicos

nostras.

Benedicta sint omnia opera manum Tuarum,

Domina: benedicta sint omnia sancta

miracula Tua. Gloria, etc.

Ant. 3: Releva, Domina, peregrinationem in

colatus nostri; et adjuva nos

in die tribulationis.

Ant. 4: Fac, Domina.

PSALM. CXXVIII.

Sæpe expugnaverunt me a juventute mea

inimici mei: libera me Domina,

et vindica me ab ipsis.

Ne des illis potestatem in animam meam:

custodi omnia interiora, et exteriora mea.

Obtine nobis veniam peccatorum: et per

Te Sancti Spiritus gratia nobis detur.

Fac nos digne et laudabilliter pcenitere:

ut beato fine ad Deum veniamus.

Placatum tunc, et serenissimum: nobis

ostende gloriosum fructum ventris Tui. Gloria,

Ant. 4: Fac Domina, ut beato fine ad Deum

veniamus; et ostende nobis tunc placatum

gloriosum fructum ventris Tui.

Ant. 5. Deduc me.

PSALM. CXXIX.

De profundis clamavi ad Te Domina:

Domina, exaudi vocem meam.

Fiant aures Tuæ intendentes: in vocem

laudis, et glorificationis Tuæ.

Libera me de manu adversariorum meorum:

confunde ingenia, et conatus eorum

contra me.

Erue me in die mala: et in die mortis ne

obliviscaris animæ meæ.

Deduc me ad portum salutis: et inter

justos scribatur nomen meum.

Gloria, etc.

Ant. 5: Deduc me, Domina, ad portum salutis:

et in die mortis Tie obliviscaris animae

meæ.

Preces, ut supra.

OREMUS.

Propter planctum acerbi ejulatus,

quem profundo pectoris fonte

manantem abscondere non valebas,

Virgo castissima, quando (ut pie creditur)

in amplexus ruebas exanimum

corpus Filii Tui de cruce depositum, cujus

genas ante nitentes, et ora rutilantia mortis

conspiciebas perfundi palloribus, ipsumque

totum concussum cemebas lividum livoribus,

ac concisum vulnere super vulnus; auxilliare

nobis, ut nunc sic nostra plangamus facinora,

et emplastris pœnitentia peccatorum curemus

vulnera, ut dum corpus nostrum morte deformatur,

nostra tunc utilet anima candore innocentiæ;

quatenus digni simus frui mellifluis

osculis, constringamurque amorosis amplexibus

super omnia dulcissimi Filii Tui Domini

nostri Jesu Christi; qui cum Patre, et Spiritu

Sancto vivit, etc. Amen.

V. Ora pro nobis Sancta Dei Genitrix.

R. Ut digni efficiamur promissionibus

Christi.

V. Requiescamus in pace. R. Amen.

Canticum S. Bonaventuræ, Te Matrem Dei laudamus, etc.

PRO FERIA VI.

Oratio ex Devotionario B. V.

O Domina mea Sancta Maria, me in

Tuam benedictam fidem, ac singularem custodiam,

et in sinum misericordias Tuae hodie et

quotidie, et hora exitus mei, animam meam

et corpus meum Tibi commendo, omnem

spem meam, et consolationem meam, omnes

angustias et miserias meas, vitam et finem vitæ meæ

Tibi committo: ut per Tuam sanctissimam

intercessionem et per Tua merita,

omnia mea dirigantur, et disponantur opera

secundum Tuam, Tuique Filii voluntatem.

Amen.

SABBATO.

Prœparabis te ad Judicium et Præmium servi boni et fidelis; et ad Plagas Jesu propones taliter vivere usque ad mortem, ac petes esse liber a malo omnis peccati et perditionis æternæ.

Praep. quotid. — Ave Maria.

V. Illumina oculos, ut supra.

Ant. 1 Conforta nos.

PSALM. CXXX

Domina non est exaltatum cor meum: ne

que sublimati sunt oculi mei.

Benedixit Te Dominus in virtute Sua:

qui per Te ad nihilum redegit inimicus nostras.

Benedictus sit qui Te a peccato originali

præservavit: et mundam de Matris utero Te

produxit.

Benedictus sit qui Te obumbravit:

et sua gratia Te fæcundavit.

Benedic nos, Domina, et conforta nos in

gratia Tua: ut per Te ante conspectum

Domini præsentemur.

Gloria, etc.

Ant. 1:  Conforta nos, Domina, indie mortis,

ut per Te ante conspectum Domini præsentemur.

Ant. 2: Respiremus.

PSALM. CXXXIV

Laudate nomen Domini: benedicite nomen

Mariæ Matris Ejus.

Mariæ precamina frequentate:

et suscita

bit vobis voluptates sempiternas.

In anima contrita veniamus ad illam : et

non stimulabit nos cupiditas peccati.

Qui cogitat de Ilia in tranquillitate mentis :

inveniet dulcorem, et requiem pacis.

Respiremus ad Illam in omni actione nostra:

et reserabit nobis atria triumphantium.

Gloria, etc.

Ant. 2: Respiremus ad Mariam in die mortis nostra:

et reserabit nobis atria triumphantium.

Ant. 3: In quacumque.

PSALM. CXXXVII

Confitebor Tibi, Domina, in toto corde meo:

quia per Te expertus sum clementiam Jesu Christi.

Audi, Domina, verba mea, et preces meas:

et in conspectu Angelorum cantabo Tibi

laudes.

In quacumque die invocavero Te, exaudi

me: et multiplica virtutem in anima mea.

Confiteantur Tibi omnes tribus, et linguæ:

quia per Te salus restituta est nobis.

Ab omni perturbatione libera servos Tuos:

et fac eos vivere sub pace, et protection Tua.

Gloria, etc.

Ant. 3: In quacumque die invocavero Te,

Domina, exaudi me; et multiplica

virtutem in anima mea.

Ant. 4: Hostis meus.

PSALM. CXLI.

Voce mea ad Dominam clamavi: Ipsamque

humiliter deprecatus sum.

Effudi in conspectu Ejus lacrymam meam:

dolorem meum Ipsi exposui.

Insidiatur hostis calcaneo meo:

Extendit contra me rete suum.

Adjuva me, Domina, ne corruam coram eo:

fac ut conteratur sub pedibus meis.

Educ de carcere animam meam, et confiteatur

Tibi: et psallat Deo forti in perpetuum.

Gloria, etc.

Ant. 4: Hostis meus insidiatur calcaneo meo :

adjuva me Domina, ne corruam coram eo.

Ant. 5:  Cum exierit.

PSALM. CXLV.

Lauda, anima mea, Dominam: glorificabo

Eam quamdiu vixero.

Nolite cessare a laudibus ejus: et per

singula momenta recogitate Illam.

Cum exierit spiritus meus, Domina,

sit Tibi commendatus: et in terra ignota

præsta illi ducatum.

Non conturbent eum culpæ prius commissi:

nec inquietent ipsum concursus malignantis.

Perduc eum ad portum salutarem: ibi

præstoletur secure adventum Redemptoris.

Gloria, etc.

Ant. 5: Cum exierit, Domina, spiritus meus,

sit Tibi commendatus, et in terra ignota præsta

illi ducatum.

Preces ut supra.

OREMUS.

Propter singultus, et suspira, indicibiliaque

lamenta, quibus affligebantur intima Tua,

Virgo Gloriosissima, quando Filium Tuum

Unigenitum animæ Tuæ solatium Tibi sublatum

et sepultum videbas: ad nos exules filios Evæ

ad Te clamantes,  et suspirantes in hac

valle lacrymarum illos Tuos misericordes oculos

converte, et Jesum benedictum fructum

ventris Tui nobis post hoc exilium ostende,

Tuisque suffragantibus meritis, Ecclesiasticis

fac Sacramentis muniri, et fine beato consumari,

et æterno Judici tandem misericorditer

presentari. Prestante eodem Domino nostra

Jesu Christo Filio Tuo, qui cum Patre, etc.

Amen.

V. Ora pro nobis Sancta Dei Genitrix.

R. Ut digni efficiamur promissionibus

Christi.

V. Requiescamus in pace. R. Amen.

CANTICUM S. BONAVENTURÆ

Considerabis gloriosum transitum et Assumptionem B. M. V. eamque cum Angelis laudabis, orans, ut cum Jesu et S. Joseph tibi assistat in morte.

Te Matrem Dei laudamus: Te Mariam

Virginem profitemur.

Te Æterni Patris Filiam: omnis terra veneratur.

Tibi omnes Angeli, et Arcangeli: Tibi

Throni, et Principatus fideliter deserviunt.

Tibi omnes Potestates, et omnes Virtutes

Cœlorum: et universal Dominationes obediunt.

Tibi omnes Chori: Tibi Cherubim, et

Seraphim exultantes assistunt.

Tibi omnis Angelica creatura: incessabili

voce proclamat.

Sancta, Sancta, Sancta : Maria Dei Genitrix,

et Mater, et Virgo.

Pleni sunt Coeli, et Terra: Majestatis

gloriae Fructus ventris Tui.

Te gloriosus Apostolorum Chorus: Sui

Creatoris Matrem collaudat.

Te Beatorum Martyrum ccetus Candidatus:

Christi Genetricem glorificat.

Te Gloriosus Confessorum exercitus Trinitatis

Templum appellat.

Te Sanctarum Virginum chorea amabilis:

Virginitatis, et humiliatis exemplum pradicat.

Te tota Cœlestis Curia: Reginam honorat.

Te per universum Orbem:

Ixclesia invocando concelebrat.

Matrem: Divinæ Majestatis.

Venerandam Te veram:

Regis Cœlestis puerperam.

Sanctam quoque: dulcem et piam.

Tu Angelorum Domina: Tu Paradisi janua.

Tu Scala Regni Cœlestis et gloriæ.

Tu Thalamus: Tu Arca pietatis, et gratiæ.

Tu vena Misericordiæ: Tu Sponsa, et

Mater Regis æterni.

Tu templum, et Sacrarium Spiritus Sancti:

totius Beatissimae Trinitatis nobile triclinium.

Tu mediatrix Dei, et hominum: amatrix

mortalium, Cœlestis illuminatrix.

Tu agonizatrix pugnantium, advocata pauperum

: miseratrix, et refugium peccatorum.

Tu erogatrix munerum; Superatrix, ac

Terror Demonum et superborum.

Tu mundi Domina, Cœli Regina: post

Deum sola Spes nostra.

Tu salus Te invocantium,

Portus naufragrantium:

miserorum solatium, pereuntiumrefugium.

Tu Mater omnium Beatorum, Gaudium

Plenum post Deum: omnium supernorum

Civium Solatium.

Tu Promotrix justorum, Congregatrix errantium:

Promissio Patriarcharum.

Tu Veritas Prophetarum, Praeconium, et

Doctrix Apostolorum: Magistra Evangelistarum.

Tu fortitudo Martyrum,Exemplar Confessorum:

Honor, et Festivitas Virginum.

Tu ad liberandum exulem hominem: Filium

Dei sucepisti in uterum.

Per Te, expugnato hoste antiquo: sunt

aperta fidelibus Regna Cœlorum.

Tu cum Filio Tuo sedes: ad dexteram

Patris.

Tu Ipsum pro nobis roga, Virgo Maria:

Quem nos ad judicandum credimus esse venturum.

Te ergo poscimus nobis Tuis famulis subveni:

qui pretioso Sanguine Filii Tui

redempti sumus.

Æterna fac, pia Virgo: cum Sanctis Tuis

nos gloria numerari.

Salvum fac populum Tuum, Domina: ut

simus participes hæreditatis Filii Tui.

Et rege nos: et custodi nos in æternum.

Per singulos dies: O Pia, Te salutamus.

Et laudare Te cupimus: usque in æternum

mente et voce.

Dignare, dulcis Maria: nunc, et semper

nos sine delicto conservare.

Miserere, Pia nobis: miserere nobis.

Fiat misericordia Tua magna nobiscum:

quia in Te, Virgo Maria, confidimus.

In Te, dulcis Maria, speramus: nos defendas

in Æternum.

Te decet laus, Te decet imperium: Tibi

virtus, et gloria in sæcula sæculorum. Amen.

PRO SABBATO.

Oratio ex eodem Officio.

O Maria Dei Genitrix, et Virgo gratiosa,

omnium desolatorum ad Te clamantium consolatrix

vera, per illud magnum gaudium, quo

consolata es, quando cognovisti Dominum

Jesum die tertia a mortuis impassibilem resurrexisse;

sis consolatrix animae meae, et

apud eundem Tuum, et Dei natum Unigenitum

in die novissimo, quando cum anima et

corpore ero resurrecturus, et de singulis meis

factis rationem redditurus, medigneris juvare,

ut perpetuae damnationis sententiam per Te,

pia Mater et Virgo, valeam evadere, et cum

electis Dei omnibus ad eeterna gaudia feliciter

pervenire. Amen.

* * *

ORATIO S. AUGUSTINI.

Domine Jesu Christe, qui pro redemptione

mundi nasci voluisti, circumcidi, a Judaeis reprobari,

a Juda traditore osculo tradi, vinculis

alligari, sicut agnus innocens ad victimam

duci, atque conspectibus Annas, Caiphæ, Pilati

et Herodis indecenter offerri; a falsis testibus

accusari, flagellis et opprobriis vexari, sputis

conspui. spinis coronorari, colaphis credi,

arundine percuti facie velari, vestibus exui,

Cruci clavis affigi, in Cruce levari, inter latrones

deputari, felle, et aceto potari, et lancea

vulnari. Tu Domine, per has sanctisssmas

poenas Tuas, quas ego indignus recolo, et per

sanctam Crucem, et mortem Tuam, libera

me et omnes animas pretioso Sanguine Tuo

redemptas a poenis inferni: et omnes perducere

digneris quo perduxisti Latronem Tecum

crucifixum. Qui cum Patre, spiritu et Sancto

vivis, et regnas in sæcula sæculorum.

Amen.

Centum dies indulgentiæ quotiescumque sequens oratio

jaculatoria corde contrito devote recitabitur.

Dulcissimum Cor Mariæ sis mihi salus.

Benedicta sit Sancta et Immaculata Conceptio

Beatæ Mariæ Virginis.

V. In Conceptione Tua, Virgo Maria

Immaculata es.

R. Ora pro nobis Deum, cujus Filium

Jesum, conceptum de Spiritu Saneto genuisti.

Ad B. V. Mariam gladio doloris transfixam.

Scribe, Domina, Vulnera Tua in cor meum,

ut in eis legam dolorem et amorem; dolorem

ad sustinendum pro Te omnem dolorem;

amorem ad contendum pro Te omnem

amorem.

Ante SS. Communionem vel pro Communione Spirituali.

O Jesu vivens in Maria

Veni et vive in Famulo Tuo

In spiritus Sanctitatis Tuæ

In plenitudine Virtutis Tuus

In perfectione Viarium Tuarum

Tu veritate Virtutum Tuarum

In communione Mysteriorum Tuorum

Dominare omni adversae potestati in Spiritu

Tuo ad gloriam Patris. Amen.

Post SS. Eucharistiam, e diur. Sac. Ord. Præd.

O Serenissima et Inclyta Mater Domini

nostri Jesu Christi, Virgo Maria, Regina

Mundi, qui eundem creatorem omnium creaturarum

Tuo sanctissimo utero fuisti digna

portare, cujus idem Sacratissimum corpus ct

sanguinem sumpsi, ad ipsum pro me, misero

peccatori intercedere digneris ut quidquid in

hoc ineffabili Sacramento, ignoranter negligenter,

irreverenter et accidentaliter, omisso

vel commisso Tuis precibus sanctissimis milii

indulgere dignetur; Qui vivit et regnat in

sæcula sæculorum. Amen.

Pretiuncula Orationem claudens.

Suscipe, clementissime Deus precibus et

meritis Beatre Marias semper Virginis, et

omnium Sanctorum, officiura servitutis nostras,

et si quid dignum laude egimus, propitius

respice et quod negligenter actum est, clementer

ignosce, qui in Trinitate et unitate

perfecta vivis et regnas in sæcula.

V. Nos cum prole pia,

R. Benedicat Virgo Maria.

Fiant Domine ut complaceant eloquia mea

et meditatio cordis mei in conspectu Tuo semper.

Et Fidelium animæ, per misericordiam Dei

requiescant in pace. Amen.