LA PARUSIA (1)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE Rue de Rennes, 117 ; 1920

PREMESSA

Le pagine che presentiamo al pubblico sono solo la riproduzione degli articoli sulla Parousia, apparsi ne “gli Studi”, negli anni 1911, 1918 e 1919. Molti di voi hanno espresso il desiderio di averli tutti in un unico volume, così abbiamo pensato di dover aderire alla richiesta. Inoltre, per abbreviare e semplificare il lavoro di ripubblicazione, abbiamo mantenuto la forma originale, senza altre preoccupazioni che adattarle meglio alla cornice e alla struttura di un libro. Sono quindi ancora presentati sotto forma di articoli e non troveranno modifiche o aggiunte degne di nota. Tuttavia, speriamo che questo modesto lavoro contribuisca a illuminare alcune anime di buona volontà, a dissipare i dubbi che le recenti controversie hanno sollevato, a risolvere una delle principali obiezioni della critica modernista al Vangelo, e infine a far luce su tutta la verità assoluta delle nostre Sacre Scritture, così temerariamente negata dalla nuova scuola.

Roma, 2 ottobre 1919, nella festa dei Santi Angeli Custodi, L. BILLOT S . J .

INTRODUZIONE

C’è un punto del Vangelo su cui i critici modernisti si sono particolarmente concentrati, ritenendolo un argomento decisivo per la loro opera di demolizione della Religione cristiana come Religione trascendente e rivelata di Dio. Questo è il punto relativo alla Seconda venuta di Gesù Cristo, comunemente chiamata dagli scrittori neotestamentari parusia [παρουσία] (letteralmente: presenza, arrivo, venuta), da cui è stato tratto il nome parousîa, ora accettato in senso escatologico, se non nel dizionario dell’Accademia, almeno nel linguaggio abituale e comune dell’esegesi biblica.  È abbastanza noto quale posto centrale nell’economia della rivelazione cristiana sia occupato dalla prospettiva di questa seconda venuta del Signore, da Lui così spesso e così solennemente annunciata, come quella che, con la fine e la palingenesi del mondo, con la trasformazione dei cieli e della terra di oggi, con la risurrezione dei morti e il giudizio generale, dovrà portare alla definitiva affermazione del regno di Dio nella sua consumazione finale e nella sua definitiva perfezione. – È sufficiente in effetti aprire un po’ il Vangelo, per riconoscere subito che la parusia è veramente l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine, la prima e l’ultima parola della predicazione di Gesù; che è la chiave, la fine, la spiegazione, la ragione d’essere, la sanzione; che è l’evento supremo a cui tutto il resto è legato, e senza il quale tutto il resto crolla e scompare. Ne consegue che convincere Gesù della falsità di un punto così essenziale è stato allo stesso tempo porre fine alla leggenda della sua divinità, è stato togliergli la trascendenza, è stato rimetterlo nei ranghi e ridurlo alle proporzioni degli altri fondatori di religioni emerse nel corso dei secoli dal seno dell’umanità. Il modernismo lo ha capito subito. Così, basandosi su vari testi del Vangelo, interpretati in modo superficiale, si è applicato a mettere in circolazione questa affermazione audace: che la coscienza della vocazione messianica era germogliata in Gesù insieme alla convinzione che la fine del mondo stava arrivando; che il regno per la cui organizzazione Egli stesso diceva di venire nella gloria e nella maestà, portato sulle nuvole del cielo, aveva creduto proprio alla vigilia della sua istituzione; molto di più, che era esclusivamente in vista di questa prossima e immediata consumazione di tutte le cose, che aveva predicato il completo distacco dalle ricchezze, preteso dal suo popolo un assoluto disprezzo per i beni terreni, raccomandato la povertà volontaria, proclamato l’eccellenza dello stato di verginità, ecc. Insomma, che l’idea fissa della catastrofe suprema aveva talmente ossessionato la sua mente e influenzato tutto il suo insegnamento e la sua condotta che, dopo la sua morte, era necessario rielaborare profondamente l’intero Vangelo per accogliere al meglio un mondo che fosse duraturo, ciò che in origine era stato detto di un mondo che doveva essere vicino alla fine. In tutto questo, inoltre, i modernisti si limitavano a divulgare idee precedentemente portate alla luce dalla critica razionalista. Già nella sua Vita di Gesù, Renan aveva scritto: “Le sue dichiarazioni (di Gesù) sulla vicinanza della catastrofe (finale) non lasciano spazio all’ambiguità. La generazione attuale, ha detto, non passerà senza che tutto questo sia stato realizzato (Mt., XXIV, 34). Molti dei presenti non proveranno la morte senza aver visto il Figlio dell’uomo venire nel suo regno (Mt., XVI, 28). Egli rimprovera chi non crede in lui perché non sa leggere la prognosi del futuro regno. Quando vedi il rosso della sera”, diceva, “prevedi che andrà tutto bene; quando vedi il rosso del mattino, preannunci la tempesta. Come potete voi, che giudicate l’aspetto del cielo, non saper riconoscere i segni dei tempi? (Matth., XVI, 2-4.). Tali dichiarazioni formali hanno preoccupato la famiglia cristiana per quasi settant’anni. “E più in basso: “Se la prima generazione cristiana ha avuto un credo profondo e costante, questo era che il mondo stava per finire (Atti II, 17; I Cor. XV: 23-24; I Tess. III: 13, IV, 14; II Tess. II: 18; I Tim. VI: 14; II Tim. IV: 1; Jacob. V, 3-8; II Petr. passim; Apoc.., I, 1, II, 5, ecc.), e che la grande rivelazione di Cristo avrà presto luogo. Questo vivace annuncio: È il tempo che apre e chiude l’Apocalisse, quel richiamo che si ripete incessantemente: Chi ha orecchie, che ascolti! sono le grida di speranza e il richiamo di ogni pagina apostolica. Un’espressione siriaca, Maranatha (I Cor., XVI, 22), “Nostro Signore sta arrivando!”, è diventata una specie di parola d’ordine che i credenti usavano dirsi per rafforzare la loro fede e le loro speranze. L’Apocalisse, scritta nell’anno 68 della nostra era, fissa il termine a tre anni e mezzo, XV, 2; XII, 14. (Questo è l’insieme dei testi sui quali i nemici della nostra fede basano la loro tesi che il Vangelo sia nato da un errore, da un’allucinazione, da una vana credenza, da tempo ridotta a nulla e solennemente messa in mora dai fatti più visibili e suggestivi del mondo. – Renan, Vita di Gesù, cap. XVII). – D’altra parte, non si può negare che questi stessi testi, presentati artificiosamente e da essi abilmente sfruttati, non siano di natura tale da impressionare, o addirittura da disturbare profondamente, le menti non bene informate secondo le modalità proprie della Scrittura nel campo della profezia in generale, e in quello escatologico in particolare. Lo scopo di questi articoli è quindi quello di far luce, all’interno delle modeste risorse dell’autore, sulle difficoltà che l’affermazione modernista avrebbe lasciato nella mente di molti, richiamando alcuni principi e spiegando alcune regole che è necessario avere sotto gli occhi per una esatta comprensione dei passaggi in questione. Questi passaggi devono essere sottoposti ad un esame approfondito e, più in particolare, quello in cui le difficoltà di tutti gli altri sono riunite e condensate, e che, una volta adeguatamente chiarito in ciascuna delle sue parti, fornirà, anche per tutti gli altri, gli elementi di soluzione necessari. Questo è il discorso che riempie il capitolo XXIV di San Matteo, unito ai luoghi paralleli di San Marco e San Luca, e che, considerato prima di tutto nel suo insieme, si presenta avente come oggetto indiviso la caduta di Gerusalemme e l’ultimo giorno del mondo.

ARTICOLO PRIMO

LA ROVINA DI GERUSALEMME E LA FINE DEL MONDO PREDETTE INSIEME, E DA UN’ALTRA PROSPETTIVA NEL DISCORSO ESCATOLOGICO. (MATTH. XXIV, MARC. XIII, LUC. XXI).

– LA DIFFERENZA TRA LA PROFEZIA E LA STORIA. – Era la sera del martedì prima dell’ultima Pasqua. Gesù aveva appena finito la sua predicazione pubblica con un avvertimento supremo dato a Gerusalemme, omicida dei profeti e assassina di coloro che le sono inviati,e mentre lasciava il tempio, per non farvi più ritorno, l’attenzione dei discepoli si concentrava sulle grandiose costruzioni di questo superbo edificio. Questo non era il primo tempio costruito da Salomone e distrutto dagli Assiri sotto Nabucodonosor. Era il secondo, ricostruito dopo la cattività sotto Zorobabele, ma rifatto successivamente dal primo Erode, il quale, per conquistare le grazie della nazione, come si legge in Giuseppe (Flavio), aveva intrapreso questa grande opera, e l’aveva intrapresa con l’intenzione di superare in magnificenza tutto ciò che si era visto fino ad allora. Infatti, non furono risparmiati né uomini, né risorse economiche, né spese di alcun genere, così che dopo quarantasei anni di lavoro ininterrotto (Joann. II, 20), questo tempio era diventato una delle meraviglie, per non dire la meraviglia, dell’universo. Guardate, Maestro – disse uno dei discepoli – guardate che pietre e che struttura! Ma Gesù disse: « Tu vedi tutte queste grandi costruzioni? Non resterà pietra su pietra che non sarà buttata giù ». Fu dunque con i gravi pensieri che questa risposta doveva aver suscitato nelle loro menti che il piccolo gruppo, dopo aver superato prima il tempio e poi le mura della città, attraversò la valle del Cedron, salì il versante occidentale del Monte degli Ulivi e si diresse verso Betania per passarvi la notte. Ma fecero una sosta a metà strada sulla collina. San Marco racconta che quando Gesù arrivò a un certo punto della montagna, si fermò e si sedette proprio davanti al tempio, la cui mole imponente si stagliava contro il cielo, che era infuocato dagli ultimi raggi del sole al tramonto. Era dunque il momento, o mai più, di ottenere un chiarimento della risposta precedente, ed ecco i quattro discepoli più familiari, Pietro, Giacomo, Giovanni ed Andrea, desiderosi di porre la domanda: Diteci, quando accadranno queste cose, e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo? – Certamente queste richieste andavano ben oltre i limiti della predizione che le aveva originate, se questa fosse stata ridotta ai semplici termini in cui ci è stata trasmessa dagli evangelisti. In ogni caso, un tale ampliamento della questione non ci sorprenderebbe se considerassimo che le idee che gli Apostoli, ancora impregnati di pregiudizi giudaici, avevano di Gerusalemme e del suo tempio, erano da sole più che sufficienti a spiegare come e perché la rovina della città santa fosse legata nel loro pensiero alla fine stessa del mondo.La domanda dei discepoli, quindi, riguardava sia il tempo della distruzione del tempio che i segni precursori della parusia e della catastrofe suprema. Anche la risposta del Maestro tratterà gli stessi argomenti, salvo che questa congiunzione di eventi, così indipendenti l’uno dall’altro, facilmente spiegabile nella domanda dei discepoli, diventerà ora un argomento di obiezione nella risposta del Maestro. Infatti, se Gesù unisce nella stessa descrizione, se raffigura nella stessa immagine, se presenta nella stessa prospettiva la fine di Gerusalemme, la fine del mondo e la sua venuta, e se Gesù unisce nella stessa descrizione, se raffigura nella stessa immagine, se presenta nella stessa prospettiva la fine di Gerusalemme, la fine del mondo, e la sua venuta di gloria, non è forse perché anche Egli condivida l’opinione, o piuttosto il terrore di coloro che lo interrogano? … la stessa opinione che abbiamo appena notato tra gli Apostoli? E già solo per questo, il modernismo non è forse sufficientemente fondato nell’attribuirglielo? Questa è almeno l’obiezione che si pone fin dall’inizio, che sorge spontaneamente nella mente prima di qualsiasi esame dettagliato del testo evangelico, e la cui soluzione deve servire come base per tutte le spiegazioni successive. Ma ora, questa prima soluzione che, per la portata che deve avere, è di particolare importanza, da dove la dedurremo? Da nient’altro che dalla natura stessa del genere a cui appartiene la risposta di Gesù. È perché questa risposta appartiene al dominio riservato della profezia, ed allora il discorso profetico non deve essere confrontato con gli altri. Esso ha un modo proprio, una maniera propria, un fascino particolare che prende in prestito dal modo in cui il futuro è visto dall’alto dell’eternità divina: un insieme di condizioni che lo collocano in una categoria assolutamente trascendente, non avendo nulla che gli si avvicini nella letteratura profana, o anche in qualsiasi altra branca della letteratura sacra. Questo è ciò che viene comunemente dimenticato, e questa è anche la ragione della presente difficoltà. Vogliono applicare alla previsione di eventi futuri le regole che governano il racconto di eventi passati. In altre parole, il modo e lo stile della profezia si confondono con il modo e lo stile della storia, due generi così assolutamente diversi l’uno dall’altro che nulla di più radicale o chiaro potrebbe essere immaginato in termini di differenze. Questa è la confusione in cui erano caduti negli ultimi anni quelli della scuola larga, i quali, con il pretesto che la Bibbia non è un manuale di storia, ma un codice di religione, volevano che gli scrittori sacri fossero molto a loro agio con i fatti che riportavano, al punto di non farsi scrupolo di modificarli, amplificarli e sistemarli artificialmente, al meglio del loro scopo dogmatico o morale che si proponevano.   Questa era una strana teoria, contro la quale cozzava tutto ciò che c’è di più profondo nella mente di chiunque creda ancora nell’ispirazione della Scrittura, ma che essi pretendevano di autorizzare dal modo in cui questi stessi scrittori sacri si erano comportati riguardo all’avvenire. Non hanno forse riunito nella stessa vista profetica, come se fossero stati consecutivi, eventi che dovevano tuttavia essere separati da lunghi intervalli di tempo? Non parlavano di cose future come di cose presenti o già passate, e, al contrario le cose presenti o passate come cose da continuare in un futuro senza fine? E poi, è stato chiesto, dov’è la ragione per cui tali libertà sarebbero state appropriate nella descrizione profetica, per poi cessare di esserlo nella narrazione storica? In che modo la verità della Scrittura sarebbe impegnata se, per esempio, si ammette che il Levitico ci dà, come istituzione mosaica, ciò che in realtà avrebbe avuto un’origine molto più tardiva, mentre non lo era più quando Isaia chiamava Ciro come già presente, quando Geremia profetizzava che Gerusalemme sarebbe stata per sempre il centro della religione, quando l’Angelo predisse che il figlio nato da Maria avrebbe regnato sulla casa di Giacobbe e avrebbe occupato per sempre il trono di Davide suo padre, quando Gesù stesso mescolò in uno stesso disegno le due catastrofi, quella di Gerusalemme, che sarebbe avvenuta in capo ad appena quarant’anni, e quella dell’universo, che sarebbe avvenuta solo alla consumazione dei tempi. Questo è certamente un modo insolito di ragionare, e sembra che non sia mai venuto alla mente di esegeti seri. Ma di tanti sofismi accumulati come a piacere, questo solo deve occuparci qui, e che consiste nel confondere insieme i due generi, il genere profetico ed il genere storico, nonostante le evidenti differenze che li distinguono, e che ridurremo a tre punti principali.

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E prima di tutto, se paragoniamo la profezia alla storia, vedremo che si differenzia da essa da quello che potremmo chiamare il punto di prospettiva. Il punto di vista della storia è diverso da quello della profezia. Il primo è preso dal piano stesso dove si svolgono gli eventi di questo mondo, l’altro è al di fuori di tutto ciò che si misura con il tempo. Ora, chi non sa che il raggruppamento e l’assemblaggio degli oggetti nella stessa porzione del campo visivo dipende essenzialmente dal punto di osservazione, e varia anche secondo la variazione di quel punto stesso? Quando, per esempio, gli astronomi riuniscono le stelle dell’Orsa Maggiore, o del Capricorno, o del Toro, nella stessa costellazione, e le raggruppano rispettivamente sotto una denominazione comune, non intendono, immagino, attribuire loro negli spazi celesti le stesse relazioni di vicinanza e di apparente coordinazione che hanno nel campo visivo dell’osservatore terrestre. E senza bisogno di andare così lontano, non è evidente che gli stessi oggetti si presentino in modo diverso, a seconda che siano visti dal piano, uno dopo l’altro, a tutte le distanze, o, al contrario, in linea d’aria da un’alta cima, e ad una angolazione tale che, nonostante le distanze che li separano, sono uniti dall’occhio nei limiti di una stessa inquadratura, e si fondono nell’unità di uno stesso quadro? Così è, in proporzione, con l’ottica della profezia rispetto a quella della storia. La storia ha il suo punto di osservazione sulla pianura; segue gli eventi passo dopo passo nel loro svolgimento. È un cinematografo che, avendo prima registrato la marcia e la successione degli eventi, li presenta poi in ordine, uno dopo l’altro, senza mai passare per le fasi intermedie, in tante immagini corrispondenti e distinte. Ma la profezia, al contrario, si trova su quelle alte vette che dominano l’intero corso del tempo, illuminate come sono dall’unico sole della prescienza di Dio. Questo fa dire ai teologi che, a differenza della storia, la profezia vede gli avvenimenti nello specchio dell’eternità, cioè in idee che rappresentano quella durata eterna di Dio, alla cui luce gli intervalli più lunghi sono un istante, mille anni come un solo giorno, e soprattutto, non dimentichiamolo, tutto ciò che per noi è ancora nel futuro o già nel passato, non è né passato né futuro, ma indifferentemente e indistintamente in un rapporto immutabile di presente a presente. Cosa c’è da stupirsi, allora, se la descrizione profetica non sia soggetta alle stesse regole della narrazione storica? Che salti talvolta le tappe che in rapporto a noi segnano la strada dell’avvenire? E che spesso, attraversando come in un salto tutti gli avvenimenti intermedi, unisca in uno stesso quadro eventi che dovrebbero tuttavia essere separati tra loro da lunghe serie di giorni, anni, persino secoli? Tutto questo è dovuto alle condizioni particolari del punto di vista, come è stato detto, e le ragioni intrinseche da un lato, e le analogie del mondo fisico dall’altro, sembrerebbero concordare nel fornire una prova sufficiente. Ma questo non è tutto, non è ancora abbastanza. Qui c’è una seconda differenza tra la profezia e la storia, che è senza dubbio strettamente connessa alla prima, ma che tuttavia è distinta da essa, e che è molto importante avere innanzi agli occhi come complemento necessario alla considerazione precedente. Non si prende più dal punto da cui parte la prospettiva, ma dall’oggetto al quale termina: dall’oggetto, dico, che nella profezia si presenta con un orizzonte diversamente esteso che nella storia. Infatti, se la storia conosce gli eventi solo attraverso gli eventi e negli eventi stessi, li conosce solo nella loro particolare individualità, direi, nella loro nuda materialità, senza mai andare oltre, se non forse con congetture, induzioni, opinioni o precisazioni, appartenenti, se si vuole, alla filosofia della storia, ma non entrando nella prospettiva della storia stessa. Ne consegue che l’oggetto prossimo della storia è anche il suo proprio e unico oggetto; che questo oggetto è necessariamente limitato ai nudi fatti, così come sono accaduti, nell’ordine stesso in cui sono accaduti; e che, infine, per quanto riguarda la connessione degli eventi tra loro, la storia come tale non conosce altro che la pura e semplice connessione dell’ordine cronologico. Ma la condizione dell’oggetto della profezia è molto diversa ora. L’oggetto della profezia, come tale, è nel futuro, e il futuro è assolutamente inconoscibile in se stesso. L’avvenire, come abbiamo già detto, non può essere letto che nell’infinita prescienza di Dio, nei piani della sua sovrana provvidenza, nelle disposizioni della sua sapienza ordinatrice, in quelle ragioni eterne che misurano tutta l’evoluzione dei secoli e che, dalle profondità divine in cui sono nascoste, si proiettano, per così dire, e si riflettono nello spirito del profeta. E se questo è l’ambiente in cui la profezia trova e raggiunge il suo oggetto, che meraviglia che essa lo presenti anche nelle condizioni adatte a questo stesso ambiente, cioè non più nella sua nuda e semplice individualità, ma con i pro e i contro che le sono dati dall’ordine del piano provvidenziale? Ora, in questo ordine del piano provvidenziale, in questa disposizione della Sapienza infinita in cui tutta l’economia delle cose è disposta con una maestria e un’arte incomprensibili, gli eventi sono tenuti insieme e collegati in un modo diverso dalla semplice continuità o simultaneità cronologica. In particolare, essi hanno una modalità di collegamento che sarebbe vanamente cercata altrove, perché scaturita della sola potenza divina; una modalità che viene anche in primo piano nel soggetto che abbiamo davanti, perché appartiene essenzialmente al genere profetico di cui costituisce una categoria speciale. È il modo che tutta la Tradizione, fondata peraltro sulla Scrittura, riconosce tra i fatti appartenenti alle diverse fasi della religione, dal suo primo inizio nell’Antico Testamento alla sua ultima consumazione nella gloria: un modo di connessione che consiste in una relazione tra la figura e la cosa rappresentata, che rende gli eventi precedenti a quelli successivi ciò che l’ombra è per il corpo, ciò che la silhouette è per il profilo, ciò che l’immagine è per la realtà, ciò che lo schizzo e il contorno mostrato in anticipo, è per la grande opera, completa e definita, che deve venire dopo. San Paolo non dice forse che ciò che accadde al popolo giudeo accadde loro sotto forma di immagine? E ancora, che nell’antica legge c’era un’ombra delle cose a venire, ma che la realtà si trova in Cristo? E ancora, che Gesù Cristo era ieri, è oggi e sarà per sempre? nei secoli dei secoli? Sì, certo, oggi e domani e nei secoli dei secoli, ma anche ieri, e come? Da coloro che lo rappresentavano nell’antico popolo di Dio; dalle misteriose rappresentazioni della sua venuta e della sua salvezza, di cui sono pieni gli annali di quello stesso popolo: rappresentazioni che sono state molto giustamente paragonate a quei misteri della passione e della vita di Cristo che i nostri antenati recitavano nel Medioevo sulla scena, sebbene, naturalmente, differissero essenzialmente da essi, in quanto non erano né artificiali né fittizi, ma facevano parte del tessuto della storia, o piuttosto costituivano la storia stessa di Israele nei suoi personaggi più illustri e nei suoi eventi più importanti. (Le Hir, Études bibliques, les Prophètes d’Israël, Sez. 1. art. 2.) Dobbiamo leggere il libro XII di Sant’Agostino contra Faustum, per vedervi in che misura questi eventi sono stati, dall’inizio fino alla fine, una predizione in atto della vita, della morte e della risurrezione di Gesù Cristo, e per avere un’idea di ciò che abbiamo appena chiamato il loro dentro e fuori nell’ordine e nell’armonia del piano provvidenziale. E se ora, dalla persona stessa di Gesù Cristo, passiamo alle opere della sua misericordia o giustizia, non è sempre la stessa economia che ci si rivela? Questo è il regno di Dio, che avrà la sua consumazione finale solo alla risurrezione dei morti, nella vita dell’epoca futura; ma ha già avuto il suo primo stabilimento sulla terra, principalmente attraverso la predicazione del Vangelo e dalla fondazione della Chiesa; e questo primo stabilimento è stato a sua volta preceduto da una preparazione e un abbozzo di lunghi secoli di durata. Ora, tra questo lontano abbozzo e la realizzazione compiuta nella pienezza del tempo, non è facile vedere e notare la stessa connessione di cui sopra? Quando, per esempio, l’arca dell’alleanza andò nel deserto in testa alle dodici tribù, coperta dalla nuvola in cui Dio nascondeva la sua presenza, quando si fermò per dare l’alt, e il popolo si accampò intorno ad essa in quell’ordine perfetto, così ben descritto da Bossuet nel suo immortale exordium del sermone sull’unità della Chiesa, quando Balaam, contemplando questo spettacolo dalle alture di Moab, esclamò con estasi: Come sono belle le vostre tende, o figli di Giacobbe, come sono belli i vostri padiglioni, o Israeliti! Non è vero che Israele era già il il regno di Dio in figura? – E quando, più tardi questa stessa arca, riconquistata dai Filistei, fu portata con grande pompa di sacrifici e cerimonie al Monte di Sion, , non era l’immagine del Signore che prendeva possesso del suo trono in mezzo ai suoi? (Le Hir, loc. cit.). E da una parte come dall’altra, la magnificenza delle descrizioni, l’esuberanza dell’entusiasmo, l’esagerazione anche del lirismo profetico ci avvertono che la prospettiva del profeta si estendeva ben oltre l’evento materiale del momento, fino a quelle realtà ancora lontane di cui era l’immagine e l’annuncio? Infine, la stessa osservazione può essere fatta sulle grandi manifestazioni della giustizia, che sono le alte opere di Dio. Il giudizio definitivo e solenne contro il mondo e l’inferno è differito fino all’ultimo giorno, questo è chiaro. « Ma il mondo ne sta già sentendo l’avvicinarsi nel rovesciamento della sua grandezza, e soprattutto nella distruzione dei superbi imperi e delle città che sono nemiche di Dio. Di là, quindi, queste immagini apparentemente esagerate, che sono spesso nella descrizione di queste catastrofi: il sole e le stelle si oscurarono, la terra scossa nelle sue fondamenta, le stelle che cadono dal cielo e i cieli che rotolano via come un libro. Queste metafore audaci sono piene di appropriatezza e precisione, non appena lo sguardo si estende alla futura rovina dell’universo, disegnato sotto proporzioni minori in quello di un regno limitato » (Le Hir, ibid.).  Questo, dunque, come l’oggetto della profezia, proprio perché è visto dal profeta nello specchio dell’eternità, e contemplato da lui nelle armonie del piano provvidenziale, si presenta spesso con un’estensione di prospettiva che non è affatto presente al centro della storia. Questo spiega la singolarità, a prima vista così strana, eppure così frequente nella Scrittura, della fusione in una stessa predizione di eventi, fatti e personaggi che non dovrebbero avere alcuna connessione tra loro, né sulla base della cronologia, né nell’ordine della catena naturale di cause ed effetti. Che se nella narrazione storica l’oggetto conserva sempre e necessariamente la sua stretta unità, e si dispiega su un unico piano che racchiude un solo orizzonte, succede, al contrario, che nell’oracolo profetico l’oggetto si scinde e si divide in due distinti, uno più distante, dove avviene l’evento principale e di primaria importanza, occupando come tale lo sfondo della prospettiva, l’altro più vicino, di cui l’evento, che potrei chiamare di avanti scena, è anteriore a quello principale secondo l’ordine del tempo, ma disposto da Dio nelle prospettive della Sua provvidenza, per essere la figura, il tipo, lo schizzo, e quindi anche il preludio vivente. Questo è ciò che osserva San Girolamo a proposito di una profezia di Daniele (XI-XII), relativa, per vicinanza di tempo, ad Antioco Epifane, ma in prospettiva lontana rivolta all’anticristo. « La consuetudine della Scrittura è quella di precedere, con delle figure di cose, la verità degli  eventi futuri. Così il Salmo LXXI è intitolato in Solomonem, eppure tutto ciò che vi si dice non può convenire a Salomone, ma la profezia si realizzerà in Salomone come nell’ombra e nell’immagine della verità, da realizzare poi più perfettamente nel Salvatore » (Hieron., in Dan, C. XI, Migne, P. L., XXV, col. 503.). E questo sarà meglio compreso da un elegante confronto fornito da uno dei principi dell’esegesi moderna, da cui abbiamo già preso in prestito molte delle considerazioni precedenti. « Immaginate – egli dice – due palazzi di dimensioni disuguali, ma che offrono la stessa distribuzione di stanze, cortili, corridoi, ecc . Il più piccolo, più vicino a voi, è situato in modo tale che, se fosse trasparente come il cristallo, il vostro occhio coglierà i contorni e le linee corrispondenti al più vasto posto dietro. Se, al contrario, questa trasparenza è velata, irregolare e intermittente, avrete bisogno di qualche combinazione per completare nella vostra mente l’immagine del grande edificio, del quale non potreste dubitare dell’esistenza, né della sua disposizione principali. Così è per un oracolo con un oggetto doppio. L’oggetto prossimo a volte sembra svanire per lasciare che il fatto più importante e più grande, che occupa lo sfondo della prospettiva, risplenda con tutta la sua brillantezza; pertanto, le prime linee sono più opache e velano parzialmente quelle di dietro. Ma la ragione, guidata dall’analogia, restituisce facilmente a ciascuno degli oggetti ciò che l’occhio scopre solo confusamente. » Ecco, appunto, presentato in un’immagine molto accurata, l’ordine del discorso escatologico, l’oggetto di questo studio, dove due cose sono previste simultaneamente e sotto la stessa prospettiva, due rovine di grandezza ineguale: la prossima rovina di Gerusalemme, come punizione per il crimine dei deicidi che non volevano ricevere né riconoscere Cristo, e la suprema rovina, ancora nascosta in un futuro impenetrabile, come punizione per il crimine del mondo apostata, che, dopo averlo conosciuto, lo ha infine respinto. A tutto questo si obietterà, forse, che un tale modo di mescolare insieme eventi così diversi e distanti tra loro non può che portare a confusione e oscurità nelle profezie, il cui vero significato diventerà da questo punto di vista, se non impossibile almeno molto difficile da capire. Si obietterà, ma invano, e penso che la difficoltà, ridotta alle sue vere proporzioni, si risolverebbe agli occhi di chiunque abbi poco riflettuto sulla condizione e la ragion d’essere delle profezie, sullo scopo assegnato loro, sui fini che Dio si propone nel dettarle. Ed infatti, qui di nuovo, guardiamoci dal confondere la profezia con la storia; non dimentichiamo le profonde differenze tra di loro, e consideriamo che, oltre a quelli che sono già state esposte, che una terza differenza ora se ne aggiunge, non più del punto da cui parte la prospettiva, né dell’oggetto a cui finisce, ma dalla quantità relativamente piccola di chiarezza la quantità relativamente piccola di chiarezza che la rivelazione del il futuro comporta. Perché l’avvenire, per molte altre ragioni che è facile capire, deve sempre in una certa misura, esserci chiuso: così che, se alla storia appartiene il grande giorno e la piena luce, al profezia, che l’evento non è ancora venuto a chiarire e spiegare, sarà sempre appropriato, converrà sempre, su qualche lato almeno, il chiaro scuro e la penombra. Infatti, le profezie non sono date agli uomini per soddisfare in loro una vana curiosità, ma  per scopi degni di Dio, che ne è il solo e unico autore. Sarà a volte per avvertirci di un evento futuro di cui dobbiamo essere informati: sia che Dio voglia che vi ci prepariamo, o perché possiamo salvarcene, ed in entrambi i casi, è sufficiente che l’evento sia conosciuto in anticipo nelle sue generalità, al massimo nei suoi segni precursori: non è affatto necessario che sia conosciuto nelle sue modalità circostanze, nelle sue particolarità. Sarà soprattutto, sarà sempre, per fornirci una prova eclatante della credibilità della rivelazione cristiana, così come un argomento perentorio dell’impero che Dio esercita sul mondo morale, non meno universale e non meno efficace di quello che esercita sul mondo fisico: un impero in virtù del quale non succede nulla né piccolo né grande, che non sia previsto, organizzato, voluto da Lui: voluto, dico? in vari modi della volontà, secondo la qualità degli oggetti, ma parlando in assoluto, sempre voluto. – Ora, per ottenere questo risultato, è sufficiente che, una volta che gli eventi si siano verificati, se ne possa riconoscere l’annuncio certo nella profezia che li ha preceduti, senza che sia stato necessario averli visti distintamente all’inizio. Inoltre, una visione anticipatrice potrebbe avere in vari casi un inconveniente considerevole che indebolirebbe singolarmente la forza della prova: quella di lasciare la porta aperta al sospetto che l’adempimento della predizione fosse l’effetto di volontà determinate a conformarsi ad essa, e quindi il puro e semplice risultato dell’industria umana. Invece, il più delle volte, le stesse persone in cui le profezie si realizzano, e anche coloro che le realizzano, non capiscono il loro mistero, né l’opera di Dio in loro. E così si prepara una prova della divinità della profezia, tanto più convincente quanto più sarà inartificiale e naturale, garantita contro ogni sospetto, per quanto remoto, che l’inganno dell’uomo possa avervi avuto una certa parte (Bossnet, Prefazione sull’Apocalypse, XVII-XX). – Da tutte queste considerazioni, ne consegue che una certa ombra di mistero deve avvolgere la maggior parte delle profezie. Ne consegue anche, e a titolo di conseguenza, che se la scissione dell’oggetto nel modo spiegato sopra è la causa di qualche oscurità, l’obiezione che si pretenderebbe di trarne, lungi dall’essere valida, sarebbe del tutto falsa. Ma ciò che noi dobbiamo osservare soprattutto qui, è che ciò che è già vero in una tesi generale, e fatta astrazione di ogni caso a cui si fa riferimento più in particolare, lo è ancora di più, non appena la domanda si pone la questione del giorno del giudizio e della consumazione dei secoli; perché allora, alle ragioni comuni che si applicano indifferentemente ad ogni velatura dell’avvenire, si aggiungono ragioni speciali, molto espressamente marcate nel Vangelo. Infatti, vediamo nel Vangelo, figurato come elemento morale di primaria importanza, così come l’assoluta certezza di questo ritorno futuro, quando Gesù Cristo tornerà nella gloria e nella maestà per giudicare il mondo, la completa incertezza del tempo, del giorno e dell’ora in cui esso avrà luogo. Questo è qualcosa che, per espresso disegno di Dio, deve rimanere nascosto e racchiuso in un impenetrabile segreto a tutte le creature, anche agli Angeli del cielo: Nemo scit, neque angeli cœlorum, nisi solus Pater. Ecco perché, quando i discepoli interrogarono il loro Maestro dicendo: Raccontaci quando queste cose accadranno, e qual è il segno della tua venuta e della fine dei tempi, confondendo la rovina di Gerusalemme con quella del mondo, provocarono una risposta che, senza confermarli positivamente nel loro errore, non li distolse da esso, né diede una chiara determinazione della distanza tra i due eventi l’uno dall’altro; una risposta che, basandosi su ciò che questi stessi eventi dovevano avere in comune, piuttosto che sulle loro peculiarità dislocanti, lascerebbe volutamente il campo aperto a tutte le congetture. – E tale fu infatti la risposta che ricevettero di tal mirabile maestria e arte, in cui, come è già stato detto, Gesù fondeva le due rovine in una sola cornice, un po’ come quei pittori che, dopo aver dipinto, con colori vivaci, quello che è il soggetto principale del loro quadro, vi tracciano ancora, in una distanza oscura e confusa, altre cose più lontane da questo oggetto. Oppure meglio ancora, e per parlare con rigore di precisione, alla maniera dei profeti dell’Antico Testamento, che ha tracciavano in una predizione un’altra predizione più profonda, proponendo l’evento figurativo prossimo, in unione con l’evento figurativo, non importa quanto fosse lontano nel futuro, e sempre per ragioni diverse da qualsiasi connessione tra il tempo o l’epoca dell’uno e il tempo o l’epoca dell’altro. È quindi del tutto sbagliato basarsi su questa unione delle due catastrofi nel discorso che, nei sinottici, chiude la predicazione di Gesù, ed è quindi sbagliato concludere, con i modernisti, che Egli le riteneva entrambe simultanee, e che, di conseguenza, persuaso che stava arrivando il momento in cui il tempio sarebbe stato distrutto, sarebbe stato ugualmente convinto che il mondo stesse per finire. Le spiegazioni precedenti sembrano averlo dimostrato a sufficienza, anzi in modo sovrabbondante, e non c’è bisogno di tornarci sopra. Tuttavia, siamo, per tutto questo, solo all’inizio del nostro compito. Infatti, se non si può stabilire l’accusa di errore e di falsità sulla semplice congiunzione dei due oggetti nella stessa previsione, qui cercheremo di farlo su un’altra base, almeno in apparenza, più solida. Niente è brutale come un fatto, come siamo soliti dire, ma niente è brutale come un’affermazione categorica. Ma non è questo il caso? A che cosa, si chiederanno, servono tante considerazioni su ciò che il genere profetico comporti o non comporti, se, dopo così lungo girovagare, ci vediamo, volenti o nolenti davanti ad un’affermazione come quella con cui Gesù termina: « In verità vi dico che questa generazione non passerà non passerà senza che tutte queste cose si compiano. » ? “Tutte queste cose”, omnia hæc cioè, apparentemente, tutte le cose appena descritte, e non solo l’ultima desolazione di Gerusalemme, ma anche l’oscuramento del sole, il turbamento delle stelle, la commozione dell’intero universo e delle potenze celesti preposte alla sua condotta, l’apparizione in cielo del segno del Figlio dell’uomo, la discesa del Figlio dell’uomo stesso in gloria e maestà per convocare tutta l’umanità al suo giudizio: di nuovo, tutto questo per essere realizzato prima della fine della contemporanea generazione! Ora tutto questo è chiaro, ed è sufficiente a ribaltare tutto i ragionamenti del mondo fatti a priori. Ecco, dice Renan, ciò che non lascia spazio ad equivoci. Questo è ciò che sarà necessario esaminare nell’articolo seguente.

LA PARUSIA (2)