I SERMONI DI BOSSUET, L’AQUILA DI MEAUX: “VADO AD PATREM MEUM”

I SERMONI DI BOSSUET

Vado ad Patrem meum

Io me ne vo a mio padre

(JOANN . XVI, 16).

SERMONE RECITATO NELLA CATTEDRALE DI MEAUX NELL’APERTURA DI UNA MISSIONE, L’ANNO 1692.

(Sermoni di J. B. BOSSUET – Palermo, Stabilim. Poligrafico Empedocle, 1843)

Nostro Signore, miei cari fratelli, dice questa parola nella persona de’ suoi fedeli ugualmente che nella sua propria; e per darci la confidenza di ripeterla con Lui, disse in un altro luogo: lo ascendo a mio Padre, e al Padre vostro; al mio Dio, e al vostro Dio (Joan.: XX, 17). Dunque suo Padre è altresì il Padre nostro, sebbene con un titolo differente; è Padre di lui per natura, è Padre nostro per adozione; e noi possiam dire con esso: Io me ne vo a mio Padre. Io posso anche aggiungere, miei cari fratelli, che questa parola in un qualche senso conviene più a noi che a Gesù Cristo; perché vivendo sopra la terra, Egli era già con suo Padre secondo la divinità; e perché, anche secondo la natura umana, la sua santa anima ne vedeva la di lui faccia. Egli era sempre con esso; e nel tempo in cui sembrava ancora lontano di ritornare nel luogo della sua gloria con suo Padre, non lasciava di dire: Io non sono solo; ma mio Padre, il quale mi ha mandato, ed Io, siamo sempre assieme (JOANN. VIII , 16). – Noi dunque siamo quelli, che siamo veramente separati dal Padre, noi siamo quelli, miei dilettissimi, che dobbiamo fare un continuo sforzo per ritornarvi: a noi tocca di dire incessantemente: io me ne vo a mio padre: siccome poi questa parola indicava la consumazione del mistero di Gesù Cristo nel suo ritorno alla sua gloria, così accenna la perfezione della vita cristiana, per mezzo del desiderio che ci inspira di ritornare a Dio con tutto il nostro cuore. – Pertanto penetriamo il senso di questa parola, concepiamo:

– prima cosa sia andare da nostro Padre;

– vediamo secondariamente ciò che ci deve avvenire, finché siamo in questo mondo; e comprendiamo finalmente qual bene avremo quando saremo ivi arrivati: tutto ciò ci sarà insinuato nel nostro Vangelo; ed io non farò che seguire a passo a passo ciò che Gesù Cristo in esso ci propone.

PRIMO PUNTO

Io me ne vo a mio Padre. Lo stato di un Cristiano è di sempre andare: ma donde egli parte, e dove deve arrivare? S. Giovanni ce lo fa intendere con questa parola… sapendo Gesù ch’era arrivata la sua ora di passare da questo mondo a suo Padre (JOA. XIII, 1); non proseguiamo maggiormente: noi dobbiamo fare questo passaggio con Gesù Cristo. Io non sono forse di questo mondo, come non lo sono essi (XVII 16). Secondo la sua parola, voi parimenti non siete del mondo: dunque abbandonatelo, camminate senza allentarvi; ma camminate verso vostro Padre. Ecco le due ragioni del vostro passaggio: la miseria del luogo da cui partite, e la bellezza di quello a cui siete chiamati. S. Paolo per esprimerci la prima: il tempo è breve, dice egli (1 Cor. VII, 29), il tempo è breve; se voi non abbandonale il mondo, esso abbandonerà voi: dunque rimane, che quello il quale è ammogliato, sia come non lo fosse; e che quelli i quali piangono, come se non piangessero; e quelli i quali godono, come se non godessero; e quelli i quali comprano, come se non comprassero; e quelli i quali si servono di questo mondo, come se non si servissero; perché la figura di questo mondo sen fugge (Ibid. 29, 30, 31, 32). Come se Egli dicesse: perché volete voi fermarvi in ciò che passa? Voi credete, che ciò sia un corpo, una verità; mentre non è che un’ombra e una figura, la quale sen passa e si dilegua: così in qualunque stato voi siate, non vi arrestate. I vincoli più fermi e più santi, come è quello del matrimonio, trovano la loro dissoluzione nella morte: le vostre tristezze passeranno ugualmente che le vostre allegrezze; ciò che voi credete di possedere con tutta giustizia, fugge da voi qualunque sia il prezzo con cui lo compraste; tutto passa nostro malgrado. Ma altro è, dice sant’Agostino (In JOANN . tr. LV, n. 1, T. lll, par. II, p. 632), passare col mondo, altro passare dal mondo per andare altrove. Il primo è la porzione de’ peccatori: porzione infelice, che loro non rimane; poiché se il mondo passa, eglino passano altresì con esso. Il secondo è la porzione de’ figliuoli di Dio, i quali per timore di sempre passare, come il mondo, escono dal mondo in ispirito, e passano per andare al Signore. Domìnii, possessioni, palazzi magnifici, superbi castelli, perché volete voi arrestarmi? voi un giorno cadrete, o se sussisterete, ben presto io stesso non sarò più per possedervi: addio, io passo, io vi abbandono, io me ne vo, io non ho il comodo di fermarmi. E voi, piaceri, onori, dignità, perché ostentate i falsi adescamenti? lo me ne vo. Invano mi domandate ancora alcuni momenti, questo residuo di gioventù e di vigore: no, no, io sono sollecitato, io parto, io me ne vo; voi non mi appartenete più. Ma ove andate voi? lo ve l’ho detto, io me vo a mio Padre: questa è la seconda ragione di accelerare la mia partenza. Il mondo è una cosa da poco, che i filosofi lo abbandonarono, senza anche sapere ove andare; disgustati della sua vanità, e delle di lui miserie, lo hanno abbandonato; lo hanno abbandonato, dico io, senza neppur sapere, se ritroverebbero, abbandonandolo, un altro soggiorno, in cui potessero fermamente stabilirsi. Ma io, io so ove vado: io vado a mio Padre. Che mai teme un figliuolo, quando va nella casa paterna? Quell’infelice prodigo, che allontanandosi da essa erasi perduto, ed erasi immerso in tanti peccati e in tante miserie, ritrova un qualche rimedio dicendo: io sorgerò, e me ne andrò da mio padre (Luc. XV, 18). Prodighi, cento volte più traviati del prodigo evangelico, dite dunque: io sorgerò, io ritornerò; ma piuttosto non dite, io ritornerò; partite subito. Gesù Cristo v’insegna a dire, non già, io andrò da mio padre, ma, io me ne vo; io parto subito: o se dite col prodigo, io ritornerò, una tal risoluzione sia seguita da un pronto effetto, come la sua; imperciocchè egli tosto si leva, e viene da suo padre. Dunque dite collo stesso spirito, io ritornerò da mio Padre: ivi i mercenari, le anime imperfette, quelli che principiano a servire al Signore, e che lo fanno anche con qualche specie d’interesse, non lasciano di trovare nella di lui casa un principio di abbondanza; dunque, quanta ne troveranno quelli che sono perfetti, e lo servono per puro amore? Andate pertanto, camminate: quando anche il mondo fosse sì bello, come esso si vanta, e che sembrasse tale a’ vostri sensi, bisognerebbe lasciarlo per una maggiore bellezza, per quella di Dio e del suo regno. Ma esso non è che un niente, e voi esitate, e dite sempre: io andrò, io sorgerò, io ritornerò da mio Padre, senza mai dire: io vado. – Ma supponiamo finalmente, che voi partiate; eccovi nella casa paterna. Attratti dalle sensibili dolcezze di una nascente conversione, ivi dimorate: questo è il vitello grasso, che tosto vi si porge, è la musica che si fa sentire in tutta la casa al vostro ritorno. Volete dunque restare in questo stato ameno, ed accoppiare ad esso il vostro cuore? No, no, camminate, avanzate: ricevete ciò che Iddio vi dona; ma alzatevi maggiormente alla croce, alla sofferenza, agli abbandonamenti di Gesù Cristo, alla aridità che gli fece dire: io ho sete (JOANN . XIX 28 ); in cui nondimeno non ricevette che un poco di aceto. – Ebbene, eccomi dunque arrivato; io sono passato per le prove, e il Signore mi donò la perseveranza; io dunque non ho a che arrestarmi. No, camminate sempre. Siete forse più perfetti di s. Paolo, il quale aveva bevuto tante volte il calice della passione del suo Salvatore? udite come egli parli, o piuttosto considerate come egli operi. Egli dice a’ Filippensi: fratelli miei, io non credo già di essere arrivato (Phil. III, 23). E che, o grande Apostolo, non siete voi nel numero de perfetti! e perché avete voi detto in questo stesso luogo: sebbene noi siamo perfetti, abbiamo questo sentimento? (Ibid. 15). Egli è perfetto, e nondimeno: No, dice egli, fratelli miei, io non sono ancora ove voglio andare, e non mi resta da fare che una cosa (Ibid. 13). Intendete: Non mi resta da fare che una cosa. E che? che obbliando ciò che io ho fatto, e tutto lo spazio che ho lasciato dietro a me nella carriera in cui corro, mi estenda a ciò ch’è innanzi di me. Io mi estendo; che vuol dire egli? Io fo continuamente nuovi sforzi; io mi frango, per così dire, e distruggo me stesso per lo sforzo continuo che fo per avanzarmi, e ciò incessantemente, senza prendere respiro, senza rallentare il piede per un momento nel cammino in cui mi trovo; io corro con tutte le mie forze verso il termine che mi è proposto (Ibid. 14). Ed inoltre, qual è questo termine? Vedremo noi un qualche fine al vostro corso durante questa vita mortale? Udite ciò che egli risponde: Siate miei imitatori, come io lo sono di Gesù Cristo (1 COR . IV, 16). Imitatore di Gesù Cristo? Dunque io più non mi stupisco, se dopo tanti sforzi, tante sofferenze, tante conversioni, tanti prodigi della vostra vita, voi dite sempre che non siete ancora arrivato. Il termine a cui mirate, ch’è d’imitare la perfezione di Gesù Cristo, è sempre lontano infinitamente da voi; per ciò voi sempre andrete, finché sarete questa vita; poiché tendete a un termine a cui non sarete mai perfettamente arrivato. –  E voi, fratelli mici, che farete voi mai, se non ciò che soggiunge lo stesso Apostolo nella sua lettera a’ Filippensi  (Philip . III, 17 ) . Fratelli miei, siate imitatori, e proponetevi l’esempio di quelli che si regolano secondo il modello che avete veduto in noi. Dunque bisogna sempre avanzare, sempre crescere: in qualsivoglia grado mai riposarsi, né arrestarsi mai. Io me ne vo, io me ne vo più alto, e sempre più vicino a mio Padre: vado ad Patrem! La strada ove si cammina, il monte ove si vuole, per così dire, arrampicarsi, è sì rigido, che se sempre non si avanza, si ricade; se non si sale incessantemente, e se si vuole, prendere un momento per riposarsi, si è strascinato giù dal proprio peso. Dunque bisogna sempre inoltrarsi, sempre elevarsi, senza fermarsi in veruna parte. Bisogna celebrare la Pasqua della nuova alleanza in abito di viaggiatore, col bastone in mano, colla veste cinta, e mangiare frettolosamente l’agnello pasquale; perché è la Pasqua, cioè, il passaggio del Signore (Exod. XII, 11): e come lo spiega Mosè poco dopo, la vittima del passaggio del Signore (Ibid. 27), la quale c’insegna a sempre avanzare senza mai arrestarci: imperciocchè Gesù Cristo, ch’è una tal vittima, sen va sempre a suo Padre, e ci conduce con Lui. Se non facciamo uno sforzo continuo per avvicinarci ad esso, e unirci sempre, noi non adempiamo il precetto: Voi amerete Iddio vostro Signore non con tutto il vostro cuore, con tutti i vostri pensieri, con tutte le vostre forze (Deut. VI, 5). – Ma quando si sarà arrivato a questo perfetto esercizio dell’amore di Dio, allora almeno sarà permesso di fermarsi e di prendere riposo? Che! voi dunque non sapete che amando si acquistano nuove forze per amare, il cuore si anima, si dilata; lo Spirito Santo che lo possiede, gl’istilla nuove forze e per amare sempre più? Quindi voi non amate con tutte le vostre forze, se non amate eziandio con quelle nuove forze, che vi porge l’amore perfetto. – Dunque bisogna crescere in amore durante tutto il corso di questa vita: quello che assegna limiti al suo amore, non sa cosa sia amare: quello che non tende sempre ad un grado più alto di perfezione, non conosce la perfezione, né gli obblighi del Cristianesimo. Siate perfetti – dice il Salvatore – come è perfetto il vostro celeste Padre (MATTH. V, 48). Per tendere verso quel termine a cui non si arriva mai perfettamente in questa vita, bisogna crescere in perfezione, sempre maggiormente amare. Io non so se anche in cielo l’amore sempre non andrà crescendo; poiché l’oggetto che si amerà, essendo infinito e infinitamente perfetto, somministrerà eternamente nuove fiamme all’amore. Se nondimeno convien dire che ci sono alcuni limiti, Iddio solo è quello che li assegna; siccome poi durante questa vita si può sempre avanzare sempre crescere, sempre fare, sempre dire  io me ne vo a mio Padre; cioè, io cammino non sol per andare ivi, allorché ne sono lontano, ma anche allora che mi avvicino, che mi unisco, io procuro di avvicinarmi e di unirmi maggiormente; finché arrivo a quella perfetta unità, ove io non sarò con esso che uno stesso spirito, ove io sarò totalmente a Lui simile, vedendolo come Egli è in se stesso (JOAN. III, 2); ove finalmente, e per dire tutto in una parola, Egli stesso sarà tutto in tutti (1. COR. V, 28); e sazierà tutti i nostri desideri. Ma intanto, che dobbiamo noi fare? Questo è ciò che vi devo spiegare nella seconda parte di questo sermone, o piuttosto ciò che Gesù Cristo stesso vi spiegherà nel nostro Vangelo.

SECONDO PUNTO.

Ciò che voi dovete fare, dic’Egli, aspettando il giorno della vostra liberazione, si è, che voi pian piangerete e gemerete, e il mondo godrà; ma voi sarete nella tristezza: Vos autem contristabimini. (JOAN. XVI, 20). Per intendere questa tristezza, bisogna ascoltare l’Apostolo, il quale ci dice, che ci sono due specie di tristezza: evvi la tristezza del secolo, la tristezza secondo il mondo, e la tristezza secondo il Signore (II COR. VII, 10). Non crediate già, fratelli miei, che perché Gesù Cristo profferì che il mondo sarà nel gaudio, non crediate, dico, che Egli abbia voluto dire che le sue allegrezze saranno senza amarezza, o che non saranno seguite dal dolore. Chi non vede colla esperienza, che quelli che amano il mondo, piangono quasi sempre la perdita de’ loro beni, de’ loro piaceri, della loro fortuna, delle loro speranze, in una parola di ciò che essi amano? Se dunque Gesù Cristo ha detto che il mondo godrà, ciò ha Egli detto perché il mondo cercherà sempre di godere; perché questo è il suo genio, questo il suo carattere: ma sebbene cerchi sempre il gaudio, non gli accade mai di trovarlo secondo il suo desiderio, cioè, puro e durevole. Salomone ha detto: È molto tempo che queste due qualità mancano a’ piaceri della terra: il riso sarà confuso col dolore (Prov. XIV, 13 ); dunque i piaceri del mondo non sono mai puri: le lagrime seguono da vicino il gaudio; dunque esso non sarà mai durevole; e qualunque felicità abbiasi nel mondo, vi è in esso più afflizione che piacere; in ciò dunque consiste quella tristezza del secolo di cui vi parlò san Paolo. –  Ma che ha detto di essa questo santo Apostolo? La tristezza del secolo produce la morte (II. Cor. VII, 10); perché proviene dalla adesione a’ beni transitori. A questa tristezza del secolo s. Paolo oppone la tristezza che è secondo il Signore, e che è il vero carattere de’ suoi figliuoli. La tristezza che ci può venire per parte del mondo, per la perdita de’ beni della terra, e per la infermità della natura, per le malattie, pei dolori, ci è comune cogli empi; quindi questa non è quella tristezza che il Salvatore compartisce a’ suoi fedeli, dicendo loro: Voi piangerete. Una tale tristezza, fratelli miei, è quel dolore, secondo Dio, di cui Egli vuol parlare: e quale ne è il motivo? se non che il mondo persecutore affligge ordinariamente le persone dabbene, « le tiene nella oppressione. Aggiungiamo che Iddio, come buon Padre, castiga i giusti come suoi figliuoli, e fa loro trovare in questo mondo i loro mali; per riservar loro nella vita futura i loro beni. Voi scorgete già molto bene qualche cosa di quella tristezza la quale è secondo il Signore. Assoggettatevi, miei cari fratelli, assoggettatevi all’ordine che Egli stabilì nella sua famiglia, e se, allorché è risoluto di punire il mondo, principia il suo giudizio dalla sua casa, da’ giusti che sono i suoi figliuoli; stendete umilmente gli omeri a quella mano paterna, e lasciategli esercitare un rigore sì pieno di misericordia. Ma ecco inoltre un’altra specie di questa tristezza secondo il Signore. Assisi sopra i fiumi di Babilonia, e in mezzo a’ beni che passano, i fedeli odono il loro bando, e piangono ricordandosi di Sionne loro cara patria. Ah! miei cari figliuoli, se qualche goccia di quella tristezza entra ne’ vostri cuori, e se pieni di sdegno e di disgusto contro ciò che passa, vi sentite afflitti di non godere peranco del bene che è eterno, dietro a cui sospirate; una tale tristezza è la tristezza secondo il Signore, che io vi desidero. Ma ciò non è ancora quello che io ho in animo di predicarvi in questo giorno con san Paolo. Quella tristezza, la quale è secondo il Signore, produce – dice quel sant’Apostolo – una stabile penitenza, (1 Cor. VII, 10). Dunque questo principalmente è quel dolore che io vi desidero; il rammarico de’ vostri peccati; la tristezza e l’amarezza della penitenza. Se io posso ispirarvi un tal dolore, allora, allora, miei cari fratelli, vi dirò coll’Apostolo: Ah! miei dilettissimi, io mi consolo, non già che siate contristati, ma che siate tali secondo il Signore mediante la penitenza (Ibid. 9); e inoltre: Chi è quello che mi possa recare qualche consolazione e qualche gaudio, se non quello che per motivo di me si affligge ( Ibid . 11, 2 ), a cui la mia predicazione e i miei avvertimenti hanno ispirata quella tristezza la quale è secondo il Signore, e il dolore de’ suoi peccati? Per ispirarvi, fratelli mici, questa salutare tristezza, io ho chiamati alcuni predicatori, i quali vi predicheranno la penitenza nelle vesti è sopra la croce. Voi comincerete ad udirli in questa sera, ed io fo l’apertura di queste missioni, da cui spero sì gran frutto. Dunque lasciatevi affliggere secondo il Signore, e immergetevi nella tristezza della penitenza. Io sono mosso da gran tempo dalla tristezza, che vi recano tante miserie, tanti aggravi, che molta pena soffrite a sopportarli, e che senza dubbio non potete soffrire lungamente, malgrado la vostra buona volontà. Io vi compiango; io li sento con voi: e quale sarebbe il mio giubilo, se potessi liberarvi da questo peso? ma bisogna che io vi parli come padre amoroso: quando voi esagerate i vostri mali, che sono grandi, voi non andate alla sorgente. Tulle le volte che Iddio percuote, e che si sentono alcune miserie o pubbliche o private; che si è flagellato ne’ propri beni, nella propria persona, somministrarci nella propria famiglia; non bisogna fermarsi a piangere i propri mali, e in mandar gemiti, che non li guariscono: bisogna rivolgere il proprio pensiero ai propri peccati, i quali ci attraggono questi mali. Mirate quel prodigo, di cui vi abbiamo parlato di sopra, ridotto a pascere un gregge immondo, e che guadagna appena un po’ di pane mercé un sì basso e sì indegno servigio. Egli non si contenta di dire: I servi infimi di mio padre sono alimentati abbondantemente, ed io che sono suo figliuolo, io muoio qui di fame (Luc. XV, 17): perché quel pianto sterile non avrebbe fatto che inasprire i suoi mali invece di alleggerirli. Egli va alla sorgente: egli sente, che la sorgente de’ suoi mali si è di avere lasciato suo padre e la sua casa, ove tutto è in abbondanza; di essersi contentato de’ beni, che si consumano sì velocemente, e che gli aveva strappati; perché quel padre sì sаvio e sì buono, il quale ne conosceva la malignità, provava difficoltà in accordarglieli. Egli dunque disse tra sé stesso: io andrò, io sorgerò (Ibid. 18), e ritornerò da mio padre; e non contento di dirlo con un modo fiacco e imperfetto, si leva, viene a suo padre, e prova le dolcezze de’ suoi teneri abbracciamenti. Se si fosse contentato di dire, ah! quanto infelice io sono! e se incolpando dei suoi mali, non già se stesso, ma il Signore, avesse bestemmiato contro il cielo; che altro avrebbe egli fatto, se non accrescere il suo peso? ma poiché nella sua miseria ha detto: Padre io ho peccato contro il cielo, e contro voi e non sono degno di essere chiamato vostro figliuolo; egli nello stesso tempo e cancellò il suo peccato e annientò i mali, che ne formavano il castigo. Ma, dilettissimi, fate anche voi lo stesso. Voi vedete tanti nemici congiurati da tutte le parti contro di voi: non dite già, come una volta facevano i Giudei: l’Egitto, i Caldei, la spada del re di Babilonia, sono quelli che ci perseguitano; dite piuttosto: i nostri peccati sono quelli che hanno messa la separazione tra Dio e noi (Isa. LIX, 2); i nostri peccati sono quelli che sollevano tanti nemici contro di noi i nostri peccati opprimono lo stato, come diceva san Gregorio, il regno non può più sostenersi sotto un tal peso. Pertanto venite a gemere innanzi al Signore, e alla voce di que’ santi missionari, i quali vengono per secondarmi e porgermi il loro soccorso, per prepararvi alla grazia del giubileo.  Voi mi direte: ma la grazia del giubileo è data per alleggerirci, e rilasciare le pene, che noi meritiamo pe’ nostri peccati; conseguentemente per somministrarci allegrezza, e non già per immergerci nella tristezza, a cui voi ci esortate. Voi non intendete, miei dilellissimi, il mistero della indulgenza, e del giubileo, e la natura della grazia. Evvi una pena e un dolore, che la indulgenza rimette: e ve ne un’altra, che essa accresce. La pena che rimette, è quella spaventosa austerità della penitenza, di cui dovremmo soffrire tutti i rigori dopo di avere peccato tante volte contro il Signore, e oltraggiato il suo Santo Spirito. Ma evvi una pena, che la indulgenza deve accrescere; e questa è la pena che ci causa il dolore di avere offeso il Signore. E perché mai la indulgenza accresce questa pena di un cuore affitto per i suoi peccati, e trafitto dal dolore di averne commesso un numero si grande? Perché, come dice il Salvatore, quello a cui viene rimesso maggiormente altresì ama (Luc.VII, 47), e amando il suo benefattore deve parimenti affliggersi maggiormente di averlo offeso con tanti delitti. In tal guisa pertanto la indulgenza accresce la pena; quella pena di aver commesso un peccato mortale, cento peccati mortali, un numero infinito di peccati mortali. La indulgenza è concessa per quelli, ne’ quali quella pena interna della penitenza si aumenta. Quelli poi, i quali fanno la penitenza indifferentemente, come parla il santo Concilio di Nicea (Can. XII, Lab. t. II, p. 42, non ottengono alcuna indulgenza. Lo spirito della Chiesa si è di concedere la indulgenza a quelli che sono penetrati e quasi oppressi dal dolore dei loro peccati. Ma io voglio inoltrarmi anche maggiormente, e porvi sotto gli occhi l’esempio di S. Paolo. La penitenza imposta, e la indulgenza concessa a quell’incestuoso di Corinto ha dato luogo alla eccellente dottrina che io vi ho riferita di quel grande Apostolo sopra la tristezza della penitenza. San Paolo aveva profferita contro quello scandaloso peccatore una dura e giusta sentenza, fino a lasciarlo in potestà di satanasso, per affliggerlo quanto al corpo, e salvarlo quanto all’anima (1. Cor. V, 5). La Chiesa di Corinto, mossa vivamente dal rimprovero che aveale fatto S. Paolo di soffrire in mezzo di essa uno scandalo sì grande, aveva posto in castigo quel peccatore; e poi, penetrata dalle di lui lagrime, ne avea raddolcito il rigore, supplicando il santo Apostolo ad aggradire questo caritatevole mitigamento. Ciò posto ecco la indulgenza, che S. Paolo concede: ecco il primo esempio di quella indulgenza apostolica, che in ogni tempo fu tanto apprezzata e stimata nella Chiesa. Eh bene! dice egli, basta che il peccatore scandaloso abbia ricevuta la correzione, abbia accettata la pena, che gli fu imposta della vostra assemblea dalla moltitudine, dice egli, dalla Chiesa, dai Pastori, con il consenso di tutto il popolo; imperciocchè questo senza dubbio è ciò che vogliono significare queste parole: Sufficit objurgatio hæc, quæ fit a pluribus (II COR. II, 6). Quindi invece di disapprovare ciò che la vostra carità ha fatto per lui, ed il raddolcimento della sua pena, io vi esorto al contrario di trattarlo con indulgenza, di consolarlo con questo mezzo nella estrema confusione e afflizione, che gli cagiona il suo delitto, per timore, dice l’Apostolo, che non resti oppresso dall’eccesso della tristezza (ibid, 7). Voi ora vedete, miei dilettissimi, ciò che lo rende degno della indulgenza della chiesa e di s. Paolo; essendosi abbandonato senza limiti a quella salutare tristezza della penitenza, s’immergeva in essa fino a far temere, che non ne rimanesse oppresso, che il suo dolore non lo assorbisse: Ne absorbeatur, che non lo inabissasse; cosicchè non potesse sostenerlo. Dunque abbandonatevi, a suo esempio, al dolore della penitenza, per rendervi degni della indulgenza, delle consolazioni, della carità della Chiesa. Ma, fratelli miei, non obbliate un carattere di quella tristezza, che è secondo il Signore, accennato da s. Paolo nel passo di cui trattiamo. La tristezza, la quale è secondo il Signore, produce, dice egli, una penitenza. Qual penitenza, fratelli miei? una penitenza stabile (Pœnitentiam stabilem) (II. Cor. VII, 10), e non già certi dolori passeggieri, che il primo attacco dei sensi e della tentazione tosto e senza alcuna resistenza invola. Una tale tristezza produce la morte ugualmente che quella del secolo; perché non serve al peccatore se non per fargli fare una confessione, la quale non avendo avuto alcun buon effetto, non ha potuto averne se non di cattivissimi, dando luogo a una ricaduta più pericolosa della prima. La penitenza che io vi domando è una penitenza durevole appoggiata a massime solide, e ad una prova conveniente. In che poi consiste la stabilità di questa tristezza? L’Apostolo dice che quando essa è perfetta, deve produrre una penitenza stabile per la salute: pertanto ha essa la stabilità che le conviene, quando vi conduce fino alla salute, fino alla unione perfetta con Dio, e all’ultimo adempimento di quella parola; io vado a mio Padre. Allora vi avverrà ciò che Gesù Cristo ha promesso nel nostro Vangelo; ciò che doveva formare l’ultimo punto di questo discorso, e che io brevemente espongo. – Allora, dice Egli, la vostra tristezza sarà cambiata in gaudio, e in un gaudio, che niuno potrà mai involarvi Gaudium vestrum nemo tollet a vobis (JOAN. XVI, 22). Ecco, fratelli miei, il gaudio che io vi desidero; e non que’ piaceri, che il mondo compartisce, e che il mondo toglie: esso li dà, già mosso dalla ragione, ma dal genio e dalla bizzarria; e li toglie senza sapere il perché, senza ragione, come li ha dati. Lungi da noi questi piaceri ingannevoli; lungi da noi la cecità, che producono nel cuore, e l’attacco peccaminoso con cui ad essi ci abbandoniamo. Io vi desidero quel gaudio che non si cambia mai; perché quello che lo concede è immutabile. Ma, fratelli miei, non vi scordate mai, che bisogna ivi arrivare mediante la tristezza, mediante la tristezza che è secondo il Signore, mediante la Tristezza della penitenza. Questo è ciò che ci spiega Gesù Cristo nel fine del nostro Vangelo con una similitudine ammirabile, e molto naturale. La donna, dice Egli, prova grandi dolori mentre partorisce, perché la sua ora è arrivata ma tosto che ha partorito un figliuolo, non si ricorda più de’ suoi mali, per il piacere che ha di aver posto al mondo un uomo (Joan. XVI, 21). Ecco il modello di questo dolore nella penitenza, che io vi ho predicato in questo giorno dietro a s. Paolo. Voi dovete partorire un uomo; e questo uomo che dovete partorire e a cui dovete dare una vita nuova, siete voi stesso. La vostra ora è arrivata, voi siete al termine; la guerra con tutte le sue sciagure, il principio di una campagna, che apertamente deve essere decisiva; la missione, il giubileo, le nostre pressanti ammonizioni vi avvertono che è tempo, che adempiate un tal parto, che sembrate incominciare dopo tanti anni con un modo sì languido e si fiacco. Ma, dilettissimi, se il dolore, che vi cagionano i vostri peccati, non è vivo, penetrante, tormentoso, voi non partorirete mai la vostra salute; ohime! voi sarete di quelli de’ quali sta scritto: il bambino si presenta, e sua madre non ha forza di darlo alla luce: Vires non habet parturiens (1. Reg. xix, 3). Voi non avete che alcuniimperfetti desiderii, alcune vacillanti risoluzioni; cioènon già risoluzioni, ma alcuni languidi movimenti,che finiscono in niente: voi perirete con il fruttoche dovete dare alla luce, cioè la vostra conversione e la vostra salute. Ma se gridate con tutte le vostre forze, se i vostri gemiti feriscono il cielo, se sono pressanti e costanti i vostri sforzi, e se siete di que’ violenti i quali vogliono rapire il ciclo violentemente; quanto felice sarà la vostra sorte! Quale sarà il vostro giubilo! imperciocchè se la madre si reputa felice per aver messo al mondo un figliuolo, il quale è invero un’altra se stessa, ma finalmente è un altro; quale esser deve la vostra consolazione, allorché avrete partorito, non già un altro, ma voi stessi! Per incominciare una nuova vita, abbandonatevi dunque al dolore giustissimo di avere offeso il Signore: se poi volete compiere questo parto salutare, che io vi predico a suo nome, non vi arrestate nel timore de’ suoi giudizi. Il timore de’ suoi giudizi è un tuono che stordisce, che scuole il deserto, che spezza i cedri, che abbatte l’orgoglio, che con vivi scuotimenti principia a sradicare i cattivi abiti. Ma per rendere feconda le terra, bisogna che questo tuono squarci la nube, e faccia discendere la pioggia la quale feconda la terra: Dominus diluvium inhabitare facit (Ps. XXVIII, 10). Quella pioggia di cui è irrigata e penetrata l’anima, che altro è mai, fratelli miei, se non il santo amore? Il terrore non muove che esteriormente; non vi è che l’amore il quale cambi il cuore. Il timore opera con violenza, e può bensì raffrenarci per un poco di tempo; la sola dilezione ci fa operare naturalmente per inclinazione, e produce risoluzioni permanenti non meno che dolci. E questo è ciò che dobbiamo anche fare dicendo, io men vo a mio Padre. Ah! Egli non è un giudice implacabile e rigoroso, a cui ci bisogni andare, come vili schiavi, come rei condannati; Egli è un Padre misericordioso e pieno di tenerezza. Dunque se volete vivere, amate; amate se cambiar volete il vostro cuore, e se volete fare un durevole cambiamento. Non vi stancate mai di dolervi per avere tanto offeso un Padre così buono; e dopo di avere gustata con un dolore sì santo l’amarezza della penitenza, riempirete a poco a poco il vostro cuore di quel gaudio, il quale non vi sarà mai involato: mediante la eterna benedizione del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Amen.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

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