LO SCUDO DELLA FEDE (XXIV)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXIV

LA VITA E LA MORTE.

La lunga vita dei patriarchi. — Perché Dio ci lascia morire? — E dacchè Dio ci lascia morire, è poi gran male il suicidio? — E il duello? — Che dire del martirio e delle penitenze di certi santi? — La penitenza non è un attentato alla vita? – La cremazione.

— Ora vorrei sapere se sia vero che Adamo, il primo uomo, visse novecento e trent’anni, e tutti i primi uomini vissero come lui per lunghe età?

Verissimo, la Scrittura ne fa fede.

— Ma quegli anni non erano forse di gran lunga più brevi dei nostri?

Fin dai tempi di S. Agostino, taluni sorpresi di tanta longevità pretesero di ridurre egli anni allo spazio di trentasei giorni. Ma ciò erroneamente, perché l’autore del Genesi parlando altrove dell’anno enumera il primo, il secondo, il settimo, il decimo mese, ciò che mostra che intendeva parlare di uno spazio presso a poco uguale al nostro, ossia come pare probabilissimo di uno spazio di dodici mesi lunari, corrispondenti a 354 giorni.

— Ma una tale longevità non è fisicamente impossibile?

Nelle presenti condizioni di natura l’uomo certamente non può giungere ad una età antica quanto quella dei patriarchi benché anche oggi vi siano casi di vite lunghe fino a 190 anni e anche di più. Ma probabilmente prima del diluvio, le condizioni climateriche erano differenti da quelle d’oggidì, la qual circostanza, se non fu l’unica cagione, ebbe forse una grande efficacia sulla lunga vita dei primi uomini.

— Ho inteso. Ma perché Iddio dopo d’averci data la vita ci lascia morire? Io dico: « O la vita è un male, e allora perché Dio ce l’ha data? o è un bene, e allora perché ce la toglie? »

Tu dici così, perchè così hai letto in un cattivo romanzo. Ma non ti avvedi che questo specioso dilemma è tutto basato sul falso? Che la vita sia un bene e non un male non ci vuole un gran comprendonio a capirlo. – Dio, ch’è buono, non dà certamente agli uomini una cosa cattiva. Con tutto ciò la vita non è certamente il bene fine, ma il bene mezzo di un altro bene infinitamente maggiore, la beatitudine eterna, alla quale Dio, perché padrone di fare quel che vuole, ha stabilito che si arrivi passando per la morte. E avendo stabilito così ci fa forse Egli qualche torto, o si regola forse contrariamente alla sua bontà? Che anzi non ci dà prova maggiore di bontà in tal guisa, he lasciandoci vivere sempre in questo mondo? Supponi che tuo padre ti avesse dato dieci lire, dicendoti: Se te ne servirai a bene e le farai fruttare, dopo quel certo tempo che piacerà a me ti ripiglierò quelle dieci lire per dartene centomila: dimmi tuo padre avrebbe fatto male a darti quelle dieci lire? e in seguito ti farebbe un torto a togliertele per dartene centomila? – Capisci adunque quanto sia falso il dire quel che dice quel romanziere: « O la vita è un male, eccetera, eccetera ».

— So però essere verissimo, che Dio vuole che noi ci conserviamo la vita. Come dunque mediare questa sua volontà colla morte, di cui ci lascia essere vittime?

Questa conciliazione è la più facile che vi sia. Dio vuole certamente che noi ci conserviamo la vita, e vuole cioè che per parte nostra non ci togliamo sì gran dono, che desso ci ha fatto, avendocelo dato perché lo impieghiamo ad operare il bene per tutto quel tempo che Egli vuole lasciarci quaggiù. Ma passato questo tempo Egli vuole altresì, che noi ci rassegniamo alla morte, dalla quale ci lascia colpire per farci entrare nella eternità.

— Dacché adunque Iddio ha stabilito che noi tutti dobbiamo morire, non sarà proprio mai lecito che l’uomo si dia da se stesso la morte? Ho inteso dire varie volte che taluno nel togliersi la vita ha fatto un’ottima cosa, degnissima di lode!

Così pur troppo la pensa il mondo; ma si sa lo spirito mondano è diametralmente opposto allo spirito cristiano. Epperò non mai e poi mai sarà lecito il suicidio, ma sempre deve riguardarsi come un gravissimo delitto. In tutte le creature vi è una forza naturale, istintiva ed indistruttibile, che le spinge a far di tutto per conservare la propria esistenza. Epperò questa forza bisogna riconoscere che Dio stesso l’ha posta nelle sue creature come una legge di natura, cui anche l’uomo deve sottostare. Oltreché con la legge di natura Iddio ha pur proibito il suicidio nella legge positiva; giacché in quel « 5° Non ammazzare » è chiaro che Dio proibisce all’uomo non solo di ammazzare gli altri, ma ancora se stesso. Chiunque pertanto si dà la morte, viola gravissimamente un doppio precetto del Signore, senza nulla dire dell’ingiustizia, che commette verso della famiglia e della società.

— Come? Che chi si uccida violi la legge di natura e positiva lo intendo; ma non capisco come si renda pure ingiusto verso la famiglia e la società.

Rifletti che ogni uomo fa parte di una famiglia e di una società. E tanto all’una come all’altra egli è legato con dei diritti e dei doveri, che non deve disconoscere e rinnegare. Se pertanto egli si dà la morte, che cosa fa? Calpesta questi diritti e questi doveri, spezza violentemente i vincoli di sposo, di padre, di figlio, getta il disonore sulla famiglia, cui appartiene, priva la medesima e la società della propria esistenza e della propria opera.

— Tutto ciò è giusto; ma quando la vita, a cagione dei dispiaceri, dei dolori, dei contrasti, delle infermità, del disonore e di altre simili miserie diventa insopportabile non è meglio allora farla finita?

Primieramente ti osservo che la vita a cagione delle sue tribolazioni diventa insopportabile a coloro soltanto, che mancano di sentimenti cristiani. Chi nutre nel suo cuore tali sentimenti, anche in mezzo ai più acerbi dolori, non ostante che possa provare dei fremiti di natura contrari alla rassegnazione, non di meno o poco o tanto sa farsi violenza e sopportare la vita anche più dura. – In secondo luogo ti dirò che se fosse lecito di fronte alle tribolazioni della vita darsi la morte, in tutto il mondo si presenterebbe del continuo lo spettacolo del suicidio, perché vi è forse qualcuno, che durante la vita possa sfuggire del tutto i dolori fisici o morali? – Da ultimo ti assicuro che per quanto siano gravi le tribolazioni della vita non possono mai superare il bene della esistenza. Colui pertanto, che dinanzi ai dispiaceri, ai disgusti, al disonore e simili si dà la morte, è un vile miserabile, degno del massimo biasimo.

— Un vile miserabile? E non vi sono stati vari uomini grandi, che si suicidarono?

Se essi apparvero o furono tali per le grandi opere, che compirono durante la vita, senza dubbio lasciarono di essere tali allora che in tal guisa se la tolsero, perché la vera grandezza d’animo, come riconobbero gli stessi pagani, sta nel saper sopportare generosamente i disagi d’ogni genere, cui si va incontro quaggiù. – Se poi vi sono dei romanzieri, che esaltano il suicidio di questi così detti grandi,, gli è perché ancor essi hanno perduto il senso morale e tentano di farlo perdere eziandio agli altri.

— Eppure quanti ai giorni nostri, eziandio tra la gioventù, per un contrasto qualsiasi, si tolgono la vita!

Sì, ciò è verissimo pur troppo, ed è la dolorosa conseguenza dell’ambiente ateo, che si è andato formando in questi ultimi tempi. Si è posta da banda la fede, si sono scossi i principi della moralità negando la coscienza e insegnando il turpe materialismo, si è predicato quale unico scopo della vita il piacere, e poi sui giornali, sui romanzi, sui teatri, talora nelle stesse scuole, si è preso a fare l’apologia del suicidio: quindi nessuna meraviglia che questa piaga funesta si sia andata e vadasi allargando sempre più.

— Che si dovrebbe fare per rimediare a tanto male?

Si capisce: bisognerebbe combatterne e rimuoverne le cause. Bisognerebbe anzitutto ravvivare quanto più è possibile la fede e la pratica della religione; bisognerebbe poi proibire la pubblicazione di romanzi, di scritti, di articoli, di racconti, ove il suicidio è messo in mostra e quasi esaltato; bisognerebbe risvegliare il buon senso morale, sì che si abbia a riconoscere il gran delitto che il suicidio è, e l’infamia con cui merita di essere colpito; bisognerebbe che gli stessi poteri umani, come colpiscono di disonore i ladri e gli assassini, così facessero del suicida, che del ladro e dell’assassino è peggiore assai.

— Ella dice bene. Ma dacché siamo entrati in questo argomento, desidererei ora sapere qualche cosa di ciò che mi pare assai affine al suicidio, vale a dire del duello.

Tu hai ben ragione di dire che il duello è affine al suicidio, perché nel duello, che è un combattimento convenuto fra due, col pretesto di avere una riparazione d’onore, l’uomo senza alcuna vera necessità si espone al pericolo di essere ferito od ucciso contro la stessa legge di natura e quella positiva, di cui ti ho già parlato, e che ci impone di conservare la vita e ben anche l’integrità delle nostre membra.

— Dunque il duello è anch’esso un male grave?

È un male gravissimo, e tanto più ai giorni nostri. Che a questa rea pratica si abbandonassero quei barbari rozzi ed ignoranti, di cui parla Cicerone, i quali rimettevano la sentenza delle loro liti non già al tribunale, ma al ferro; che vi si abbandonassero gli stessi uomini civili nel medio evo, in cui tanti pregiudizi ed errori ottenebravano le menti, è cosa abbastanza spiegabile; ma che con la tanta luce e civiltà, di cui si vantano i tempi nostri, vi siano ancora di coloro così barbari e così sciocchi ad un tempo da mettere il loro onore sulla punta d’una spada o sopra una palla di rivoltella è del tutto inesplicabile e sommamente condannevole.

— Ma quando alla fin fine non vi è altro mezzo per avere soddisfazione d’un oltraggio ricevuto, mi pare che il duello non sia poi il gran male, che ella dice.

Come? Non vi è altro mezzo per avere soddisfazione d’un oltraggio ricevuto? Non vi sono forse i tribunali a cui ricorrere? Non vi sono dei giudici, delle leggi? E soprattutto poi per un cristiano non vi è il dovere di perdonare? – Ma via, mettiamo pure come tu di’, che alle volte cioè non vi sia altro mezzo per avere soddisfazione di un oltraggio ricevuto; forse che il duello serva a dare questa soddisfazione? Ecco: tu hai offeso me ed io ti sfido a duello. Tu accetti. Nel giorno, nell’ora e nel luogo convenuto, con le armi in mano e con i nostri padrini, o testimoni, ci troviamo a batterci. Tu sei coraggioso, forte e destro nel maneggiare la spada. Io invece sono timido, fiacco e poco esperto nella scherma. Al primo scontro tu mi ferisci, e se il duello è stato convenuto a primo sangue, i padrini c’intimano l’alt, se no, ripetiamo gli scontri, in seguito ai quali io da te sbudellato casco per terra e me ne vo all’altro mondo. Che riparazione d’onore ho avuto io? E dopo che tu m’avrai ferito od ammazzato, cessa forse d’esser vero che tu mi abbia offeso? – Ma supponiamo pure che per caso o per valentia o destrezza maggiore, sia io il primo a ferir te, e che compiuto così il duello a primo sangue noi ci riconciliamo tra le congratulazioni dei nostri padrini, o che pure trattandosi di duello a ultimo sangue, io riesca a far te freddo cadavere, resta forse così dimostrato che io sono stato da te offeso e che io ho avuto riparazione dell’offesa, che mi hai recato? Niente affatto: resta dimostrato che io nel battermi con te ho dispiegato una valentia, una destrezza, una forza superiore alla tua, e null’altro. Di maniera che il mio onore rimane offeso come prima, e non è stato per nulla riparato. E così non serve assolutamente né a dare soddisfazione d’un oltraggio ricevuto, né a decidere una lite, né a indicare dove stia il torto e dove la ragione, a meno che si voglia credere questa grande bestialità, che la ragione sempre da parte del più forte e che il torto spetta sempre al più debole. Vedi adunque come il duello oltre ad una barbarie, ad una violazione della legge naturale e positiva, sia ancora una stoltezza inesplicabile.

— Il suo ragionamento è giustissimo. Non comprendo però perché sia lecita la guerra, alla fin fine non è che un grande duello fra due popoli, e che non sia lecito battersi in due soli.

Vedi, caro mio: la guerra per un popolo, che sia stato offeso ne’ suoi diritti, non avendo esso più altro mezzo per difenderli, è necessaria ed anche giusta. Certamente, se i popoli non avessero in generale apostatato da Dio, potrebbero anche dirimere i loro contrasti e le loro liti ricorrendo all’arbitrato del Vicario di Gesù Cristo, del Papa, come molte volte in passato si fece. Ma pur troppo oggidì si è arrivati al punto di escludere proprio lui solo, il Papa, dai Congressi ed arbitrati di pace. Ad ogni modo torno a dirti che la guerra per parte di quel popolo, che giustamente crede violati i suoi diritti, diventa necessaria per la difesa e conservazione dei medesimi. Ma il duello non potrà mai e poi mai riguardarsi come necessario, essendovi altri mezzi per decidere sulla ragione e sul torto dei due litiganti, e quindi non potrà mai contestarsi come cosa giusta.

— Eppure oggidì chi sfidato a duello non accetta, è reputato vile, e se si tratta di un militare ho inteso dire che viene punito.

Così è purtroppo. Ma il vero vile è colui, che si fa schiavo di un uso il più barbaro, il più irragionevole e colpevole che vi sia ancora, e non sa levarsi su al di sopra di queste stupide idee del mondo. E se nell’esercito si punisce chi sfida a duello e chi sfidato non lo accetta, si cade nella più strana e deplorevole contraddizione.

— Ciò è verissimo.

E dopo tutto comprendi come la Chiesa abbia stabilito, nell’ordine suo, pene gravissime contro i duellanti e tante volte abbia levato la voce contro il loro delitto.

— Comprendo tutto. Mi viene però in mente una difficoltà. Se non è lecito esporsi in duello al pericolo di restar anche solo ferito, e se tanto meno è lecito di togliersi col suicidio la vita, che cosa si dovrà dire anzitutto di certi martiri, che da per se stessi si sono gettati nel rogo o tra le fiere per essere privati della vita?

Si deve dire, epperciò riconoscere, che questi martiri, non fecero ciò coll’intendimento di darsi la morte contro il volere di Dio, ma in quella vece per una specialissima ispirazione, per un movimento straordinario della grazia divina, che li spinse a compiere nel loro martirio un atto di vero eroismo; giacché da tutte le circostanze, che accompagnano il loro martirio, risulta chiaro, che nel gettarsi essi medesimi in braccio alla morte mirarono a sottrarsi al vituperio e al pericolo di peccare.

— Ho inteso. E di quegli altri santi poi si accorciarono la vita coi digiuni, con le penitenze, con le flagellazioni e simili, che si deve pensare?

Anzi tutto a questo riguardo bisognerebbe poter dimostrare davvero il fatto, che certi si siano accorciata la vita con le austerità da te indicate; giacché le statistiche dimostrano che gli uomini dediti alle austerità ordinariamente menano una vita più lunga degli altri. In secondo luogo se realmente nella Chiesa vi furono taluni santi, che sembrino avere spinto le loro penitenze oltre i confini della moderazione, sta anche a loro discolpa una ispirazione peculiare, che essi certamente ebbero da Dio, il quale, padrone com’è della vita d’ogni uomo, voleva santificarli per quelle vie straordinarie allo scopo, che gli altri apprendessero da loro la necessità di fare almeno le modiche penitenze, che insegna il catechismo, e la mortificazione della carne a vantaggio spirito.

— La penitenza adunque e la mortificazione, che predica la Chiesa, non è un attentato alla vita?

Se fosse come tu dici, o dirò meglio come avrai inteso a dire, la penitenza e la mortificazione cristiana sarebbe contraria alla legge morale. Epperò Gesù Cristo, che tanto l’ha raccomandata affine di raffrenare i sensi, avrebbe fatto contro alla sua stessa divina legge. E tutti i santi che la praticarono, avrebbero sbagliato e sbaglieremmo anche noi nell’onorarli.

— Ma insomma come conciliare il dovere di conservare la propria esistenza e di non recare offesa neppure alle nostre membra con la penitenza e con la mortificazione?

Ciò non è così difficile come tu pensi. A tal fine non bisogna dimenticare che nel composto umano l’anima è superiore al corpo, il quale è fatto per quella e non quella per questo. In secondo luogo bisogna osservare che non solo la fede, ma pure l’esperienza dimostra che tra l’anima e il corpo vi è antagonismo, giacché i sensi vorrebbero spesso soddisfazioni, che la retta ragione condanna, e le chiedono talvolta così imperiosamente, che senza una grande virtù non è cosa facile renderli rassegnati al diniego. In terzo luogo fa d’uopo ricordare che gli istinti dell’appetito sensitivo col diniegare loro fermamente e di spesso ciò che domandano, e col frenarli ed affliggerli ben anche con la mortificazione e penitenza, a lungo andare si domano, la natia lor violenza a poco a poco si spunta, come avviene del cavallo indomito, che col morso e con altre pene umilianti ed afflittive alla fine si riduce ad obbedire al cenno del cavaliere. Epperò la penitenza e la mortificazione fanno sì che la nostra esistenza diventi quale deve essere, dignitosa e virile, ricca di onestà e di virtù. – E così sta, che per una parte noi siamo in dovere secondo il formale precetto di Dio di conservare la vita e le forze per l’adempimento dei nostri obblighi, e che per l’altra, senza punto ledere le nostre forze, almeno gravemente sì da renderci inetti al disbrigo dei nostri impegni, dobbiamo valerci dei digiuni, delle astensioni da certi cibi, delle mortificazioni dei nostri sensi e di quelle pratiche, che pigliano il nome di penitenza, per condurre una vita conforme alla nostra dignità umana e alla nostra grandezza cristiana. – Dunque sai ciò che piuttosto attenta alla nostra vita ed alle nostre forze? Sono certi vizi nefandi, sono le golosità, l’intemperanza nel mangiare e nel bere, la crapula, l’ubriachezza, certe scommesse insensate che taluni fanno a chi più mangia e più beve, certe mode di vestire che stringono troppo il corpo e lo comprimono, ed altre simili cose. Ed è contro di ciò, che devesi giustamente inveire ma non contro la penitenza e la mortificazione cristiana.

. — Anche questo l’ho inteso. Avrei ora un’ultima domanda a farle. Perché la Chiesa di fronte alla morte non vuole saperne di cremazione?

La Chiesa non vuole la cremazione e severamente la proibisce, non già perché essa sia veramente contraria al dogma o alla morale cristiana, ma perché ella vede che con il pretesto della cremazione si vorrebbero aboliti i cimiteri, dall’esistenza dei quali tanto bene ne deriva al popolo cristiano; perché ella vuole maggiormente rispettato il corpo umano, differendone quanto più le è possibile la dissoluzione e impedendo atti irriverenti verso di esso; perché ella desidera che più a lungo ci rimanga impressa nella mente anche l’immagine materiale dei trapassati e più a lungo ci ricordiamo di pregare per essi, ciò che più difficilmente avverrebbe, quando non ci trovassimo dinanzi che ad un pugno di cenere.

— Tutto ciò va bene; ma non è forse vero che l’abbruciare i cadaveri sarebbe più igienico che il sotterrarli!

Così si dice, ma così non è affatto. Le più accurate indagini hanno dimostrato che l’inumazione, anche igienicamente considerata, deve preferirsi alla cremazione. Senti che cosa dice in proposito Paolo Mantegazza, non sospetto certo di tenerezza per la Chiesa: « Queste povere carni umane non hanno alcun che di specifico, che le renda più pericolose nella loro-putrefazione che i frusti dei cavoli, e le ossa delle nostre bistecche, e i nostri mazzi di fiori, e lasciatemelo pur dire, i nostri escrementi. Ma, calcolate di grazia tutto il nostro pandemonio escrementizio e domestico, che ogni uomo produce intorno a sé, e facilmente troverete che ogni uomo vivo, in un solo anno produce cento volte almeno di più di materia putrescente che un uomo morto… ». E tutta questa materia non è sepolta sotto terra come il calunniato cadavere umano, ma è gettata sui nostri orti e sulle nostre campagne! » – Davvero, caro mio, che per una parte c’è veramente da ridere al considerare le contraddizioni, in cui cadono taluni per far valere le loro opinioni. I rosticcieri moderni se la pigliarono così calda contro i cimiteri, come luoghi d’infezione! (Nota bene però, che a Parigi ve ne sono ben dodici nell’interno della città, senza timore d’infezione alcuna), e li vogliono lontani dalle Chiese parrocchiali e dalle abitazioni, e poi proprio nel mezzo delle città e dei paesi lasciano i gazometri, le fogne, gli stallaggi, le fabbriche di colla, le conce di pelli, le fosse per la macerazione del lino e della canapa, e cento altre cose simili, che appestano l’aria davvero, e sono causa non di rado di febbri maligne.

— Già è veramente così.

Lascia adunque la cremazione alla massoneria, che l’ha inventata, e tienti alla legge della Chiesa, che vuole all’ombra della Croce le nostre tombe confortate dal pianto cristiano e dalle preghiere.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.