LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (22)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (22)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni

ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO V.

ART. III. — IN CHE MODO ASSISTERE ALLA SANTA MESSA.

Dacché la quantità dei frutti che ricaviamo dalla santa Messa dipende in gran parte dal fervore delle nostre disposizioni, si deve cercare che queste disposizioni siano più perfette possibili. Dobbiamo quindi entrar nello spirito delle preghiere della Messa e del loro intreccio, essendo questo il mezzo migliore di unirci ai sentimenti della Chiesa e del divino suo Capo. Lasciando i troppo minuti particolari, ci contenteremo di indicare qui il principio che ci deve guidare e il metodo che possiamo seguire assistendo al santo Sacrificio.

1° I] principio direttivo.

Il fine del santo sacrificio della Messa è di farci entrare nei sentimenti di Gesù Sacerdote e Vittima. Se la Chiesa ci pone sotto gli occhi il Sacrificio del nostro Capo, è perché noi sue membra possiamo unirvi il Sacrificio nostro, onde il tutto riesca accetto a Dio Padre Onnipotente. Quindi il modo migliore di sentire la Messa è di unirsi alle disposizioni del divin Crocifisso presente sull’altare. Gli è per questo che la Chiesa, fin dall’offertorio, invita i fedeli a unire il loro sacrificio a quello della Vittima divina e a pregare perché questo doppio sacrificio sia accetto a Dio. Gli è per questo che nel Prefazio vuole che levino i cuori a Dio, per ringraziarlo, benedirlo, lodarlo, e proclamare la sua santità, onde potersi accostare a questa perfezione ideale. E quando il Sacerdote leva in alto l’Ostia, non lo fa forse per rammentarci che Colui il quale fu levato per noi in croce ci invita e ci aiuta a portar la nostra croce dietro a Lui? – Ci sono di quelli che seguono attentamente la Messa, che l’accompagnano con molti pii affetti, ma che poi, usciti di Chiesa, dimenticano la lezione pratica data loro dal divin Crocifisso, e si lagnano delle noie, del lavoro, dei patimenti, come se la via del paradiso non fosse la via dolorosa battuta dal divino Maestro. Non si prendano abbagli: Gesù ripete innanzi ai nostri occhi il vivo ricordo della sua passione e morte per animarci a camminar sulle sue orme, perché ci risolviamo a portare quotidianamente la nostra croce come Egli portò la sua. Assistere alla Messa non vuol dire soltanto effondere il cuore in santi affetti, ma vuol anche dire entrare nei sentimenti del divin Salvatore; vuol dire offrire a Dio, unendoci a Gesù, le nostre pene, le nostre angustie, gli sforzi necessari per adempiere a ogni costo il nostro dovere; vuol dire prender la propria porzioncina della croce di Gesù; vuol dire accettare di esser vittima, di sodisfare per i peccati propri ed espiare, occorrendo, gli altrui; vuol dire attingere negli esempi del divino Maestro e nella grazia che ci largisce, la forza necessaria per calcarne le orme e imitarne le virtù. Intesa a questo modo, la Messa sarebbe veramente anche il sacrificio nostro come è quello di Cristo, e i nostri patimenti verrebbero ad associarsi ai suoi per non formare insieme che una sola e medesima ostia gratissima a Dio e santificantissima per noi e per le persone che ci sono care. – Questo appunto intese Gesù quando istituì l’Eucaristia sotto forma di Sacrificio e di Comunione. Molti credono che l’uno sia del tutto indipendente dall’altra. Non è così: la Comunione è il compimento normale del Sacrificio, perché destinata a effettuare l’unione del Capo colle membra e a trasfonderci i sentimenti e le disposizioni di Gesù-Ostia. Il nostro principio è quindi semplicissimo: per assistere bene alla Messa bisogna unirsi a Gesù-Ostia, e per unirsi bene a Gesù-Ostia bisogna comunicarsi. Così l’avevano intesa i primi Cristiani; e a questo c’invita il Concilio di Trento: « Il sacro Concilio bramerebbe che tutti coloro che assistono al Sacrificio, vi partecipassero ». – « Perché – dice Bossuet – il sacro Concilio brama questo (Médit. sur l’Evang., I partie, LXIV jour) se non perché lo brama Gesù stesso? O voi tutti che assistete alla Messa, corrispondete a questo desiderio della Chiesa… Se non frequentate ancora molto la Comunione, piangete almeno, gemete; riconoscete tremando che il Cristiano dovrebbe vivere in modo da potersi comunicare tutti i giorni ». Che se non possiamo comunicarci sacramentalmente, facciamo almeno la comunione spirituale, ed entriamo quanto più ci è possibile nei sentimenti della vittima divina; è questo il modo migliore di assistere alla Messa.

2° Metodo per assistere alla Messa.

Vi sono, è vero, molti metodi di assistere fruttuosamente alla Messa (Si trovano nei libri di pietà; ed è bene usare ora l’uno ora l’altro per evitar l’abitudine), e dovrà dirsi il migliore per ognuno quello che gli riesce meglio. Ma il più conforme allo spirito della Chiesa, e il più fruttuoso in sé è di associarsi al celebrante, recitando con lui dal fondo del cuore almeno alcune di quelle venerande formole di preghiera che si trovano nel Messale (diciamo alcune; perché vi sono anime che gusteranno di più queste preghiere e ne trarranno maggior vantaggio se, in cambio di volerle recitar tutte, ne assaporeranno lentamente alcune soltanto), delle quali le più antiche risalgono alle prime età cristiane. Ma per recitarle bene è necessario intenderne il senso e capirne l’intreccio. – Non possiamo spiegare qui per minuto tutte le preghiere del Messale né dire il significato di tutte le cerimonie. Ma il darne una sintesi e il rilevarne l’idea maestra, agevolerà ai fedeli l’intelligenza dell’atto religioso a cui prendono parte e li aiuterà ad entrar meglio nei sentimenti di Gesù e della sua Chiesa. Ora l’idea dominante è che la Messa è una vivente rappresentazione del dramma del Calvario; onde occorre fin dal principio figurarsi vivamente la scena del Calvario quale è descritta dal Vangelo.

A) Tutto ciò che precede l’Offertorio è come una preparazione al Sacrificio e chiamavasi una volta Messa dei catecumeni, perché essi, che non potevano ancora assistere alla Messa propriamente detta, avevano diritto di partecipare a queste preghiere preparatorie. Vi dominano tre sentimenti:

a) Innanzi tutto la penitenza: ritto a piè dell’altare, il Sacerdote fa la confessione, diciamo così, di tutto il popolo cristiano (Confiteor) e implora umilmente dal Dio delle misericordie il perdono dei suoi peccati. Nel salmo Judica me Deus, chiede a Dio che lo stacchi sempre più dall’uomo ingiusto e fallace, che faccia risplendere all’anima sua la luce della verità, perché possa salire al santo altare e trovarvi il gaudio, il conforto, la salute. Il Confiteor è l’umile confessione dei suoi peccati, onde ottenerne il perdono per la virtù del divino Sacrificio; gli assistenti gli si associano per implorare la misericordia divina, Misereatur, Indulgentiam. Così riconfortato, il Sacerdote sale all’altare insieme col popolo cristiano che lo accompagna in ispirito, e implora di nuovo, pei meriti dei santi, la remissione di tutti i suoi peccati, Aufer a nobis, Oramus te Domine. – Gli stessi sentimenti esprime nel Kyrie eleison, rivolto alle tre divine Persone della santissima Trinità perché tutte e tre concorrono alla nostra santificazione.

b) Nel Gloria in excelsis echeggiano i sensi di amore e di riconoscenza del peccatore perdonato diretti alle tre divine Persone e in particolare all’Agnello di Dio che rimette i peccati del mondo. Seguono calde preghiere per partecipare ai frutti del sacrificio (Collectæ).

c) L’Epistola e il Vangelo ci pongono dinanzi agli occhi la parola di Dio, quella parola di vita che illumina e fortifica le anime. E noi vi diamo adesione piena ed intiera nel Credo, espressione di quella fede sincera e generosa che intende di mettere in pratica ciò che crede. – Questi pii sentimenti non possono che disporre bene l’anima alla grande azione che si verrà ora svolgendo.

B) Il Sacrificio propriamente detto comprende tre atti, tre atti di donazione e di amore: l’offerta della vittima, la sua immolazione, e la comunione che ci unisce alla vittima immolata.

a) L’Offertorio. Il Sacerdote primieramente offre la materia del Sacrificio, il pane e il vino che già rappresentano il corpo e il sangue di Gesù Cristo; li offre in espiazione dei peccati del popolo cristiano e per la salute di tutto il genere umano. E sapendo che i fedeli sono il Corpo mistico di Cristo, li offre tutti e offre insieme se stesso, uniti colla vittima principale, in ispirito di umiltà e col cuore contrito; supplicando la santissima Trinità di accettare quest’offerta di tutto il Cristo mistico e invitando i fedeli ad associare le loro preghiere alle sue, Orate, fratres. Oh! Non dobbiamo starcene semplici spettatori in quest’offerta! Gesù, nostro capo, si offre tutto, si distacca dalle creature e da se stesso per darsi a Dio e riconoscere la somma sua dipendenza da lui; dobbiamo anche noi entrare nei suoi sentimenti, distaccarci anche noi dalle creature e da noi stessi per darci interamente a Dio. Se non riusciamo a spezzare di un sol tratto tutti i nostri vincoli, studiamoci almeno d’infrangerne qualcuno ogni giorno: Gesù ci verrà in aiuto colla virtù del suo Sacrificio. Ripetiamo con un’anima santa: (Madre MARIA di Gesù, Lettres, p. 236) « Vogliamo tenerci nascosti in questo calice divino come la goccia d’acqua che il Sacerdote mescola col vino dell’altare, affinché le nostre umili riparazioni e il nostro sacrificio si mescolino col Sacrificio del nostro Salvatore e così dell’offerta sua e della nostra non si faccia che un’unica offerta ».

b) Il Prefazio preludia all’azione propriamente detta, all’immolazione mistica della Vittima. Con un magnifico dialogo tra il sacerdote e il popolo cristiano, veniamo invitati a levare il cuore a Dio, a ringraziarlo di tutti i suoi benefici, specialmente del beneficio che compendia tutti gli altri, dell’Eucaristia. « Quando – dice sant’Agostino – quando sentite il sacerdote dirvi in alto i cuori e voi rispondete li teniamo sollevati al Signore, fate in modo che la vostra risposta sia sincera e conforme a verità. Si tratta di cose divine: sia così come dite: ciò che dice la lingua non disdica la coscienza ». (Sermone citato da M.DE LA TAILLE, Mysterium fidei, p. 345). – Il Sanctus ci rammenta che fine primario del Sacrificio è proclamare la grandezza e la santità di Dio. Ma il Te igitur ci mostra che fine secondario è la partecipazione delle anime a questa divina santità; ecco perché preghiamo per tutti i grandi interessi della Chiesa, per il Papa, per i Vescovi, per il popolo cristiano, e specialmente per coloro che offrono o per cui si offre la Messa, e per gli assistenti. E poiché la Chiesa militante è in comunione colla Chiesa trionfante, nel Communicantes ci associamo alla Vergine Maria che ci diede Gesù, ai santi Apostoli, ai Martiri, a tutti i Santi, membri insigni del Corpo mistico di Cristo, per potere colla loro intercessione trar vantaggio dalla Messa a nostra santificazione e a nostra salute eterna. – All’Hanc igitur il sacerdote giunge le mani, le stende sul calice e sull’ostia, e offre nello stesso tempo sé e gli assistenti insieme colla grande Vittima, onde essere pei suoi meriti preservati dall’eterna dannazione e annoverati nel numero degli eletti: grazia suprema che non potremo mai chiedere troppo.

Siamo al momento solenne della Consacrazione. Il Sacerdote, prendendo ora più che mai il posto del sommo Sacerdote Gesù, pronuncia lentamente, religiosamente, sommessamente quelle parole stesse che Gesù pronunciò nell’ultima Cena. Ed ecco che schiudonsi i cieli e Gesù scende sulla terra e si nasconde sotto le specie del pane e del vino. Vi è tutto intero, col corpo, col sangue, coll’anima, colla divinità. Il Sacerdote lo leva in alto, lo offre alla santissima Trinità come Ostia pura, santa, immacolata, come pane santo della vita eterna e calice della salute perpetua. I fedeli, umilmente prostrati e associati agli Angeli e ai Santi che attorniano il tabernacolo, adorano in silenzio il Verbo incarnato, Gesù-Ostia, e per mezzo suo adorano, glorificano, benedicono, lodano Dio Creatore e Santificatore, e tutte e tre le divine Persone. Ma soprattutto offrono le adorazioni e gli ossequi della Vittima infinitamente accetta al Padre, lieti di poterlo così glorificare come si merita. Con piena confidenza quindi supplicano 1’Altissimo di volgere benigno lo sguardo a questa Vittima più santa di quelle che offrirono un giorno il giusto Abele, il patriarca Abramo, il sacerdote Melchisedech; e fidenti pregano l’Onnipotente che dia ordine che quest’Ostia sia recata per mano dell’Angelo santo dinanzi al trono della divina sua Maestà, affinché tutti quelli che partecipano al Sacrificio e alla Comunione siano ricolmi di ogni celeste benedizione. Il nostro cuore può quindi ripetere con san Tommaso d’Aquino:

« O Memorial della Passion di Dio,

Vivo pan che la vita all’uom puoi dar,

Viva sempre di te lo spirto mio,

Le tue delizie fammi ognor gustar ». (Inno Adoro te devote).

Anche i fedeli defunti vengono ricordati e si chiede che tutti, ma specialmente coloro per cui viene applicata la Messa, entrino presto nel luogo del refrigerio, della luce e della pace (Memento etiam…). – E dacché il peccato è il solo ostacolo alla visione di Dio, si prega che noi poveri peccatori (Nobis quoque peccatoribus) possiamo ottenerne il perdono dalla divina misericordia e avere un dì parte alla gloria dei santi col venire ammessi nel loro beato consorzio. Tutte queste grazie si chiedono per Gesù Cristo, per cui ci vengono tutti i beni, la creazione, la santificazione, la vita soprannaturale. Quindi per Lui, con Lui, in Lui, rendiamo a Dio Padre onnipotente unitamente allo Spirito santo e santificatore ogni onore e ogni gloria. – Abbiamo così dato un pallido compendio di quel Canone della Messa in cui Gesù s’immola misticamente per richiamarci l’immolazione cruenta del Calvario e trarci seco all’amor della croce. Saremmo ingrati se non entrassimo amorosamente nel suo spirito di vittima! Oggi molte anime, sull’esempio della cara santina Teresa del Bambin Gesù, si offrono vittime di amore per sopportare tutti i patimenti che piacerà al Signore di mandare. Se non ci dà l’animo di fare altrettanto, offriamoci con Gesù almeno per adempiere meglio i doveri del nostro stato, per accettare con maggior rassegnazione ed amore le tribolazioni e gli affanni che Dio ci manda, per fare quotidiani progressi in qualche virtù, per praticare quelle mortificazioncelle e quelle piccolezze che tengono vivo lo spirito di amore e di sacrificio. Saremo allora anche noi vittime, sebbene imperfettamente; e partecipando ai patimenti del Salvatore, ne parteciperemo pure la gloria. È questo, del resto, lo scopo della terza parte della Messa, ossia della Comunione.

c) Col Pater comincia la preparazione alla Comunione. Membri del Corpo mistico di Gesù,ripetiamo con santa confidenza la preghiera chec’insegnò Egli stesso, la più bella preghiera delmondo, il Pater noster. Porgiamo con Lui alPadre celeste i nostri doveri religiosi, bramandoche il suo nome sia conosciuto, amato e glorificato,che il suo regno si estenda su tutto il mondo,che si faccia la sua volontà sulla terra comesi fa nel cielo. Imploriamo con lui tutte le graziedi cui abbiamo bisogno, specialmente quel paneeucaristico che compendia tutti gli altri doni;lo supplichiamo che ci perdoni i peccati passati;che ci preservi da quelli che potremmo commetterenell’avvenire; che ci dia quella pace che superaogni intelligenza (Fil. IV, 7) e che prepara l’unione intimae permanente con Gesù. – Perdono, pace,unione chiediamo pure nell’Agnus Dei e nelletre preghiere che seguono.Viene allora la santa Comunione. Confessando,come il centurione, la propria indegnità mafidenti nella divina misericordia, il Sacerdote, edopo di lui il popolo fedele, mangiano e bevonoil corpo e il sangue del Salvatore, e si unisconocoll’intimo dell’anima a tutta la Persona di Gesùe ai più intimi suoi sentimenti, e per lui a Diostesso, alle tre divine Persone della santissimaTrinità. L’arcano sacro dell’unione è consumato:noi non facciamo più che un cuore solo eun’anima sola con Gesù, e non facendo Lui cheuna cosa sola col Padre e collo Spirito Santo,ecco avverata la preghiera del Salvatore nell’ultimaCena; « Io in essi e tu in me; affinché siano perfettamente uni, e che conosca il mondo che tu mi mandasti, e che amasti loro come amasti me… Feci noto ad essi il tuo nome e lo farò noto ancora, affinché l’amore con cui amasti me sia in loro e sia io pure in loro » (S. Giov. XVII, 25, 26).Oh! momenti deliziosi in cui il nostro cuore batte all’unisono col cuore di Gesù! Adoriamo, lodiamo, benediciamo con lui quel Dio che hafatto in noi cose sì grandi. E lui pure adoriamo perché è nostro Dio, e tanto più devotamente l’adoriamo quanto più umilmente si nasconde e si annienta per noi. Dopo questa silenziosa adorazione, apriamo l’orecchio del cuore per ascoltare l’Amico, lo Sposo, il Maestro, che si degna di trattenersi con noi; e raccogliamo amorosamente anche le più piccole parole, i più piccolidesideri del nostro Diletto. Ci pare in quel momento di essere pronti a concedergli tutto, a non rifiutargli nulla; ci pare che lo sforzo a perseverare nel bene più non ci spaventi; ci pare di non essere più soli, di sentirci attaccati a Cristo come i tralci al ceppo della vite, di ricevere da Lui vita e forza. Anche noi, come i discepoli d’Emmaus (S. Luca, XXIV, 32), ci sentiamo dentro ardere il cuore mentre Ei ci parla,e siamo pronti a lavorar con Lui in tutto il corso della giornata.Volentieri offriamo allora l’anima tutta; le creature non hanno più attrattiva per noi; cessa per un momento o almeno diminuisce il nostro egoismo; vogliamo Dio, la sua gloria, la sua volontà, anche se ci chiede austeri sacrifici. Gli è che Gesù vive in noi col suo spirito di santità, di fortezza, di pazienza, di dolcezza, d’umiltà, di carità. Memori però della nostra debolezza, lo supplichiamo di rassodare in noi il suo regno e la sua vita, di restar con noi secondo la sua promessa, onde, pieni del suo Spirito, adempiere gli ordinari nostri doveri con raddoppiato ardore, intesi unicamente a piacere a Dio. Ma, confessiamolo pure, non sempre sentiamo questi ardori; alle volte pare che l’aridità e la noia ci invadano l’anima e la coprano di fitte tenebre, volendo così Dio provare la sincerità del nostro amore e farci sentire la nostra impotenza. È una ragion di più per tenerci strettamente uniti a Gesù, a Gesù-Vittima. Egli pure passò per la tristezza e per la noia, specialmente quando nell’orto degli Olivi si vide carico dei nostri peccati. Tanto amaro gli parve quel calice che pregò per un momento che s’allontanasse da Lui; ma poi, subito rifattosi, soggiunse: « Padre, non la mia volontà si faccia, ma la tua » (S. Luc. XXII, 42). E così si rassegna l’anima che, nel momento stesso della Comunione, è invasa dall’aridità: sa di meritarlo, e, pur pregando che il calice dell’amarezza si allontani, amorosamente l’accetta unendosi a Colui che per lei bevette il calice sino alla feccia. Una cosa sola ella chiede, che non avvenga mai che sia separata da Colui che è la sola sua felicità come è la sola fonte della sua perfezione. Ebbene, quest’umile sottomissione, tanto più meritoria quanto più penosa, glorifica Dio e santificare questa povera anima più che tutte le proteste di amore fiorite al calore della consolazione. Ottima cosa pure l’unirsi agli atti di riconoscenza e di amore della santissima Vergine, la più perfetta adoratrice di suo Figlio. Se il nostro cuore è freddo, se non possiamo trarne una sola scintilla di amore, possiamo almeno offrire a Gesù quanto di più tenero e di più generoso è nel  cuore immacolato di sua Madre, tutti i suoi più affettuosi sentimenti. Questo Figlio divino ne resterà innamorato; e allora noi lo supplicheremo di trasfonderci alcuni di questi sentimenti così perfetti. E diremo pure a questa buona Madre: Giacché siete Voi che avete rapito il cuore di Gesù per darlo a noi, rapite ora il cuore nostro per darlo a Gesù, giacché il vostro cuore è la copia vivente del suo Cuore divino, rendete la povera anima nostra simile alla vostra, onde possa assomigliare un poco a quella di vostro Figlio.

C) Colla Comunione, che così intimamente ci unisce a Dio, termina il Sacrificio propriamente detto. Ma, in quel modo che la Messa propriamente detta è preceduta da preghiere preparatorie, così è giusto che sia pur seguita da alcune altre preghiere che servano di conclusione. Sono brevi preghiere che chiedono istantemente che il corpo e il sangue di Gesù producano in noi effetti durevoli facendoci entrare sempre più addentro nelle disposizioni di Nostro Signore e nello spirito della festa che corre. – Il Sacerdote poi, baciato l’altare che rappresenta Gesù Cristo, benedice il popolo cristiano, o meglio chiede al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo di benedirlo. Rammentiamoci che le benedizioni di Dio non sono, come quelle degli uomini, semplici auguri ma producono ciò che significano, e che per Dio benedire è fare del bene. L’ultimo Vangelo è come un compendio di tutta la Messa. Ci presenta il Verbo divino che vive da tutta l’eternità nel seno del Padre, che vi attinge la vita nella originaria sua fonte, che si fa uomo, che colma di grazia e di verità l’anima umana del Salvatore; e poi Gesù che viene ad abitar fra noi e a vivere in noi coi suoi tesori di vita per comunicarceli con santa prodigalità. È tutto il mistero dell’Incarnazione che si rinnova e si sintetizza nell’Eucaristia; nulla di meglio per chiudere questo sublime dramma che è il sacrificio della Messa.

CONCLUSIONE. Se vogliamo un perfetto modello dei sentimenti che debbono animarci nell’assistere alla santa Messa, non cerchiamone altro fuori di Maria ai piedi della croce. Ritta in piedi, in atteggiamento di sacrificatrice, Ella offre il Figlio e offre se stessa vittima con Lui, perché Dio sia glorificato e gli uomini salvati. Prende parte al dolori e alle disposizioni interiori della Vittima divina: soffre nel cuore tutti i tormenti, tutti gli obbrobri, tutte le umiliazioni che Gesù soffre nel corpo e nell’anima. È martire in sommo grado, perché soffre di più a veder patire il Figlio che se patisse ella stessa tutte quelle angosce. Ed è liberamente martire, perché, sapendo che questo Sacrificio è necessario alla gloria di Dio e alla salute nostra, dà il suo consenso all’opera riparatrice compita dal Figlio e lo dà amorosamente, lieta di cooperare alla nostra redenzione. Quanto fecondi non sono quindi i suoi dolori! Patendo con Gesù e colle sue intenzioni, Maria avrà poi parte alla distribuzione della grazie da Lui meritate e sarà, in modo secondario e dipendente dal Figlio, mediatrice universale di grazia. E Gesù, a manifestar questo suo ufficio, le dà prima di spirare, per figlio san Giovanni e in san Giovanni tutti i Cristiani. – Quando dunque assistiamo alla Messa, trasportiamoci in ispirito sul Calvario, inginocchiamoci umilmente presso Maria, Madre del Salvatore e Madre nostra, e supplichiamola di trasfonderci in cuore qualche cosa dei sentimenti che la animavano a piè della Croce. Le strofe dello Stabat Mater ci suggeriranno ottime preghiere su questo punto:

Madre mia, fonte d’amore, / Fa che il grande tuo dolore / io senta e teco lacrimi. / Fa che tutto arda il cuor mio / Nell’amor di Cristo Dio, / Tal ch’io gli sia gradevole. / Santa Madre, in questo cuore / Deh! le piaghe del Signore / Validamente infiggimi! /Del tuo Figlio vulnerato, / Che è per me sì tormentato, / Le pene condividimi. / Fa ch’io pianga piamente, / Fammi a Cristo condolente, / Fin che mi duri il vivere. / Alla croce io teco stare / E il mio cuore associare / Nel pianto a te desidero. / Delle vergini o preclara, / Deh! non essermi più amara, / Fammi con teco piangere! / Fa ch’io porti la sua morte, / Fammi a lui in patir consorte / E di sue piaghe memore. / Sta alle piaghe io vulnerato, / Sta alla croce inebriato / E al sangue del tuo Unico.

È chiaro che entrare in questi sentimenti di Maria è un corrispondere al desiderio di Gesù, che volle che la Messa fosse un memoriale e una rappresentazione vivente della sua passione; è un partecipare ai sentimenti di Gesù stesso e un ricevere copiosamente i frutti del santo Sacrificio; è un serbarsi unito al divin Crocifisso in tutto il corso del giorno, offrendo con Lui e per Lui tutte le nostre azioni come altrettante vittime immolate dall’ubbidienza e dall’amore. La nostra vita allora si trasforma: in cambio di correr dietro al piacere come fanno i mondani, ci attacchiamo al dovere come Gesù si attaccò alla croce. La croce è per noi il divin Crocifisso; la abbracciamo amorosamente e presto conosciamo per esperienza la verità di quelle parole dell’Imitazione (Imit. L. II, c. 12, II, 2): « Nella croce è salute, nella croce è vita, nella croce è difesa dai nemici; nella croce è infusione di celeste soavità, nella croce è vigore di mente, nella croce è gaudio di spirito; nella croce è somma di ogni virtù, nella croce è perfezione di santità ». Ecco dunque che il Sacrificio della Messa ci fa amare e portare da forti la croce, e la croce è la via regia della perfezione cristiana.

CONCLUSIONE GENERALE.

È dunque pienamente vero che le grandi verità cristiane che siamo venuti esponendo sono verità che generano nell’anima la cristiana pietà.

1) Ci dicono l’infinita bontà e l’infinita sapienza del Padre che, volendoci adottare per figli, c’invia l’unico suo Figlio, il suo Verbo, e lo fa uomo come noi, perché, divenuto nostro fratello senza cessar d’esser Dio, ci possa comunicare una partecipazione di quella vita divina che attinge nel seno della divinità. Ci dicono l’amore infinitamente generoso di questo Dio fatto Uomo che, vissuto e morto per noi, ci monda dai nostri peccati e ci fa entrare nella famiglia divina coll’elevarci alla dignità di figli adottivi di Dio e incorporarci a quel Corpo mistico di cui egli è il Capo e noi le membra. Ci dicono l’amore santificatore dello Spirito Santo. Figli adottivi di Dio, membra e fratelli di Gesù Cristo, siamo pure templi dello Spirito Santo. Spirito di luce e di amore, che procede dal Padre e dal Figlio, viene ad abitare nell’anime nostre, le orna della grazia santificante che è vera partecipazione alla vita divina; v’infonde le virtù e i doni, e colla sua grazia attuale ci aiuta a coltivare tutto questo organismo soprannaturale inseritoci nel più intimo dell’anima. S’incomincia così a intravvedere la natura e la nobiltà di questa vita soprannaturale che, pur rispondendo a un arcano e profondo sospiro del nostro cuore posto gratuitamente in noi dal Padre celeste, supera tutte le nostre capacità naturali, tutte le nostre esigenze, tutto ciò che avremmo mai potuto desiderare nei più ambiziosi nostri sogni. Ci erompe allora dal cuore quel grido di riconoscenza e di amore: « Sia ringraziato Dio dell’ineffabile suo dono! Gratias Deo super inenarrabile dono eius » (IICor. IX, 15). Vedendo ciò che fanno per noi le tre divine Persone, desideriamo, vogliamo render loro amore per amore; e pensiamo che non potremo mai far troppo, che non faremo mai abbastanza per corrispondere alla infinita loro bontà. Se quindi Gesù ci chiede che siamo perfetti come è perfetto il Padre celeste, capiamo bene che nobiltà impone doveri e che con sforzi energici e costanti dobbiamo correggere i nostri difetti, acquistare le cristiane virtù, e accostarci così quanto più è possibile a quella perfezione ideale. Per riuscirvi, bisogna certo darci interamente a Dio; ma come potremmo negar qualche cosa a Colui che ci dà il proprio Figlio e con Lui tutti i suoi tesori? Ci diamo quindi a seguir Gesù Cristo, perfetto modello di vita cristiana. E Gesù ci dice, è vero, che bisogna rinunziare a noi stessi e portar la nostra croce; ma chi generosamente nol farebbe vedendo che il divino Maestro ci precede nella via regia del Sacrificio e che porta una croce molto più pesante della nostra, quella croce che avremmo dovuto portare noi per ragione dei nostri peccati? Ci sentiamo pure indotti a non negar nulla allo Spirito Santo che vive in noi e non può santificarci se non chiedendoci di collaborare prontamente e attivamente con Lui. Ma come dir di no a Colui che è il primo colla sua grazia ad aprirci la via, a suggerirci ciò che dobbiamo fare, e aiutarci a farlo? Ma poi, ad agevolarci il lavoro, non abbiamo forse gli esempi e i meriti di Gesù e l’intercessione così efficace di Colei che, essendo Madre di Gesù e Madre nostra, è la più potente delle mediatrici? È veramente così: la considerazione, la meditazione, la contemplazione dei misteri di Gesù, fonte della nostra vita soprannaturale, ci trae davvero con impeto irresistibile alla pratica delle più belle virtù.

2) Ma questo Gesù, che è pure il nostro Sommo Sacerdote, vuole farci partecipare anche al suo Sacerdozio e al suo Sacrificio. Comunica quindi ai suoi Sacerdoti il suo carattere sacerdotale e i suoi poteri e dà loro tal pienezza di grazia da diventare anch’essi arcani canali che, in nome suo e per i suoi meriti, distribuiscono alle anime la grazia; il che fanno coi sacramenti e col santo Sacrificio della Messa. Riescono così ad essere ai fedeli coadiutori possenti, mediatori secondari, dispensatori dei divini misteri. In sostanza noi non abbiamo da invidiar nulla ai contemporanei di Gesù: i Sacerdoti fanno discendere sull’altare per noi il Redentore, ci associano al suo Sacrificio e al suo Sacerdozio, ce lo danno nella santa Comunione e ci danno con Lui tutti i tesori celesti. A trarne profitto, si richiede, è vero, che ci uniamo al suo Sacrificio, perché nella nuova Legge il Sacerdote è nello stesso tempo sacrificatore e vittima; ma chi ricuserebbe di immolarsi con Colui e per Colui che quotidianamente s’immola per noi e ci applica i frutti del suo Sacrificio? per Colui che, coll’esempio e colla preghiera dei suoi rappresentanti visibili, ci agevola in modo singolare il nostro dovere? – Anche la Vergine santissima che, pur non avendo il carattere sacerdotale, fu associata in modo così eminente agli uffici del Figlio Sacerdote, invita coi suoi esempi e colle sue preghiere i fedeli a compiere gli uffici e i doveri del mistico sacerdozio a cui partecipano anche loro. Assistendo alla santa Messa a questo modo, non passivamente ma attivamente, come si addice a coloro che sono in un certo grado iniziati al regale sacerdozio di Cristo, i Cristiani ottengono una più larga parte dei frutti della Redenzione. Uniti al Sommo Sacerdote e ai visibili suoi rappresentanti sulla terra, sorretti dalla Madre di questo Sommo Sacerdote, investendosi dei sentimenti della vittima divina e prendendo parte alle sue disposizioni e alle sue virtù, divengono anch’essi, a loro modo, rappresentanti di Cristo, e possono sperare di avere in cielo parte alla sua gloria in quella misura che prendono parte sulla terra al suo Sacrificio. Membri del suo Corpo mistico, parteciperanno allora più che mai alla sua vita, e con Lui contempleranno e ameranno Dio per tutta l’eternità.

F I N E

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (6)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (6)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed.Brescia, 1957.

CAPITOLO SECONDO

L’ASCESI DEL SILENZIO

« Qual è il punto della Regola che preferite? ».

«Il silenzio »

1) La santa del silenzio — 2) Il silenzio esteriore – 3) II silenzio interiore — 4) Divinum silentium.

Due sono gli elementi fondamentali che costituiscono la essenza di ogni santità: lo spogliamento di sé e l’unione con Dio; e sempre, sotto le sfumature più varie, li troviamo nella vita dei santi. In una carmelitana, l’aspetto negativo riveste la forma di una separazione assoluta. Il Carmelo è il deserto. Dio solo. Ma, tra le anime carmelitane stesse, ciascuna vive in maniera tutta propria questa dottrina del « nulla » della creatura e del « Tutto » di Dio, tanto cara a san Giovanni della Croce, il dottore mistico del Carmelo. Ogni stella differisce dall’altra, non solo per grandezza, ma per una sua luce tutta propria, per un suo particolare splendore. Dio è multiforme nei suoi santi. E vano sarebbe voler fare entrare in un identico stampo due santi di una medesima famiglia religiosa: sotto i caratteri comuni, essi nascondono differenze irriducibili. Ora, il compito del teologo che scruta le profondità di un’anima, soggetto del suo studio, è appunto quello di ben discernere tali differenze. Discernere equivale a vedere più chiaramente. Sono state spesso accostate, oppure contrapposte, santa Teresa di Gesù Bambino e suor Elisabetta della Trinità. Le loro vie sono essenzialmente diverse. La carmelitana di Lisieux effonde su tutto l’universo cattolico con gesto luminosamente stupendo i suoi petali di rose sfogliate per amore; ha insegnato al mondo moderno a ritornare fanciullo per avvicinarsi a Dio. La carmelitana di Digione compie la missione sua presso le anime interiori; suor Elisabetta della Trinità fu la santa del silenzio e del raccoglimento.

1) A 15 anni, nelle sue poesie, Elisabetta Catez sognava la solitudine col suo Cristo: «Vivere con Te, solitaria!… » (Poesie – Agosto 1896). E nel suo diario di fanciulla, a 19 anni, scrive: « Presto sarò tutta tua; vivrò nella solitudine, sola con Te, non occupandomi che di Te, non vivendo che con Te, non conversando che con Te » (Diario – 27 marzo 1899.). E d’estate, in campagna, la sua più grande gioia era ritirarsi nei boschi solitari (Lettera alla signora A… – 29 settembre 1902). Entrata in convento, la solitudine carmelitana la rapisce: « Sola col Solo » è, infatti, tutta la vita del Carmelo. – La carmelitana è essenzialmente una eremita contemplativa, che ha per patria il deserto di Carith e per rifugio la cavità della roccia. – Non già che essa dimentichi le anime che si perdono; — anzi, santa Teresa stabilì la sua riforma alla vista dei disastri causati dall’eresia di Lutero — ma la testimonianza che la carmelitana deve dare a Dio è quella del solitario, il cui sguardo permane fisso su di Lui solo, in un ardente oblìo di tutto il resto: attestazione silenziosa, ma quanto commovente, che la divina Bellezza, ed essa sola, merita tutta l’attenzione di un’anima elevata dalla grazia fino al consortium della vita trinitaria. Dio solo basta. L’opera sua di apostolato è quella della preghiera che tutto ottiene. Un’anima sola che si eleva fino all’unione trasformante è più utile alla Chiesa ed al mondo, di una moltitudine di altre anime che si agitano nell’azione. Suor Elisabetta della Trinità fu il tipo della contemplativa silenziosa la cui azione apostolica si espande, per sovrabbondanza, su tutto l’universo. Fin dal primo giorno, la si vide penetrare a fondo in quello spirito di silenzio e di morte che, al Carmelo, è condizione essenziale di ogni vita divina. Nutriva un culto particolare per il patriarca Elia, il primo fra gli uomini che condusse vita eremitica e a cui Dio aveva comandato di fuggire dai luoghi abitati e di nascondersi, lungi dalla folla, nel deserto: « Parti di qui, e sta ritirato in Carith » (III Re, XVII:3); Elia che aveva insegnato ai monaci eremiti della santa montagna del Carmelo a liberarsi da tutto ciò che non è Dio, per starsene alla sola presenza del Dio vivo, eliminandone ogni altra. Vivere da eremita come Elia, l’uomo solitario e santo, abitare in povere celle, come i monaci del monte Carmelo vivevano nelle cavità della roccia presso la fontana del Profeta, fu il desiderio più caro al cuore di Teresa. « Il genere di vita che noi bramiamo di condurre », scrive la santa nel Capo XIII del « Cammino di perfezione », non è soltanto quello dei religiosi, ma anche quello degli eremiti ». —. « Ricordiamo i nostri santi Padri, gli eremiti di altri tempi, dei quali noi cerchiamo di imitare la vita. Quali sofferenze non hanno dovuto sopportare, e in quale isolamento! ». – Seguendo la valorosa Riformatrice, le sue prime figlie si internavano nel deserto del Carmelo. « La solitudine era tutta la loro gioia », ci dice santa Teresa. « Mi assicuravano che mai erano annoiate e stanche di rimanere sole. Una visita, fosse pure dei loro fratelli e sorelle, costituiva per esse un tormento. Quella poi che aveva maggiore possibilità e agio di rimanere a lungo in eremitaggio, si riteneva la più felice ». Silenzio e solitudine: ecco il più puro spirito del Carmelo. « Potrete avere dimore e case in luoghi solitari… Ciascuna avrà la sua cella separata… Rimanga, ognuna, nella propria cella o vicino ad essa, meditando giorno e notte la divina legge e vegliando in orazione » (La santa Regola). « Nel tempo in cui le suore non saranno in comunità, od occupate negli uffici della comunità, ciascuna rimanga da sola nella sua cella o nel romitaggio che la Madre Priora le avrà permesso… Se ne stiano nei luoghi del loro ritiro, formandosi a quello spirito di solitudine per ottenere il quale la regola ordina che ciascuna stia appartata. Vi sia un terreno in cui si possano costruire degli eremitaggi, affinché esse vi si ritirino per fare orazione, come solevano i nostri santi Padri. Non vi sia nessun luogo in cui si riuniscano per lavorare insieme, per timore che ciò dia occasione a rompere il silenzio » (Costituzioni). – Suor Elisabetta della Trinità possedeva in un grado straordinario questa attrattiva del silenzio che fugge da tutto il creato per stare sempre alla presenza del Dio vivo, in fide. Tutta la sua ascetica si accentra nel silenzio inteso nel senso universale e che costituisce, per lei, la condizione più fondamentale e necessaria ad un’anima che vuole elevarsi fino all’unione divina. Senza volere imporre al suo pensiero degli schemi troppo rigidi, incompatibili con le libere ispirazioni alle quali suor Elisabetta si abbandonava sotto la mozione dello Spirito, si possono ritrovare, nella linea del suo pensiero, tre silenzi: silenzio esteriore, silenzio interiore, e infine un silenzio tutto divino, che è uno degli effetti più sublimi dei doni dello Spirito Santo, e in cui l’anima è puramente passiva. Mancandogli un nome tutto proprio che lo definisca, potremmo chiamarlo, ispirandoci ad uno dei suoi scritti: «silenzio sacro », « silenzio di Dio » analogo al « divinum silentium » delle opere di san Giovanni della Croce.

2) Il silenzio esteriore non è il più necessario, anzi, in alcune circostanze, non è nemmeno possibile. Ma alla anima rimane, anche allora, una grande risorsa: rifugiarsi nell’intimo di se stessa, in quella interiore solitudine senza della quale è impossibile possedere l’unione con Dio. E tuttavia il silenzio esteriore deve essere custodito il più possibile, perché favorisce quello interiore e, in linea normale, a quello conduce. L’amore del silenzio conduce al silenzio dell’amore. – Suor Elisabetta amava la clausura: i colloqui inutili, in parlatorio, erano un tormento, per lei. In molte circostanze, ricorderà ai suoi, con dolcezza ma insieme con fermezza, questo punto della Regola, e con fedele osservanza, si asterrà dalla corrispondenza nel periodo dell’Avvento e della Quaresima, a meno che lo scrivere non le diventi un dovere, perché comandatole dall’obbedienza. Dobbiamo quindi, quanto più da vicino analizziamo le circostanze, riconoscere come una disposizione veramente provvidenziale l’averci ella potuto lasciare tante lettere. Malgrado il suo desiderio di restarsene silenziosa dietro le grate del suo Carmelo. Silenzio col di fuori; e silenzio pure dentro il monastero, nei rapporti con le sue consorelle. Più volte, si impegnò in gare di silenzio; e le due o tre mancanze di cui doveva a si derivavano sempre da un motivo di carità. – A questo spirito di silenzio restò fedele sino all’ultimo giorno. « Una volta — racconta una suora — avevo ottenuto il permesso di portarle qualche cosa in infermeria e di restare con lei fino al termine della ricreazione. Fui accolta con grande effusione di gioia. Ma, appena suonata la campana, essa con dolcezza e con un bel sorriso rientrò nel silenzio; e capii che quella conversazione non doveva prolungarsi. Nulla di rigido vi era in lei; ma la fedeltà prevaleva su tutto ». Le sue preferenze erano sempre per il silenzio. Le suore giovani sapevano così bene che era quello il suo programma unico; …e, in occasione di qualche novena o alla vigilia dei ritiri spirituali, le insinuavano con malizia birichina: « Silenzio, nevvero? Silenzio!… ». Ed ella annuiva sorridendo. Quando, sapendola malata, la Madre Priora le raccomandava di restare il più possibile all’aria aperta, suor Elisabetta sceglieva l’angolo più solitario. « Invece di lavorare nella celletta, me ne sto, come un eremita, nell’angolo più deserto del nostro grande giardino; e vi trascorro ore deliziose. Sento la natura così piena di Dio! Il vento che scuote i grandi alberi, gli uccellini che cantano, il bel cielo azzurro, tutto mi parla di Lui» (Lettera alla mamma – Agosto 1906.). Ma il silenzio più caro era per lei quello della sua celletta: che chiamava « il suo piccolo paradiso » e dove le era delizioso rifugiarsi. « Un pagliericcio, una povera sedia, un leggìo sopra un’asse: ecco tutto il mobilio. Ma è pieno di Dio; e vi passo ore tanto belle, sola con lo Sposo divino! Taccio e Lo ascolto. Fa tanto bene imparare tutto da Lui! E poi… Lo amo » (Lettera alla signora A… – 29 giugno 1903.). – Apprezzava, fra tutte, le ore del silenzio rigoroso della notte. Oh, come amava il suo Carmelo immerso in questo alto silenzio! « Il Carmelo è un angolo di paradiso: si vive nel silenzio e nella solitudine, sole con Dio solo » (Lettera a M. L. M… – 26 ottobre 1902). Due o tre volte all’anno, dove più e dove meno, secondo l’abitudine dei vari monasteri, vengono concesse alle Religiose le così dette « licenze », cioè il permesso di scambiarsi delle visite nelle celle, come facevano un tempo gli eremiti del deserto. Suor Elisabetta aderiva con garbo a questa usanza voluta da santa Teresa, perché le suore si infiammassero a vicenda nell’amore dello Sposo; anzi, proprio in tale circostanza, ricevette una delle grazie più grandi della sua vita: il suo nome di « lode di gloria ». Ma chi non vede come, per l’umana debolezza, questi incontri che dovrebbero essere colloqui di fiamma, possono degenerare in chiacchiere dissipanti? Pura perdita per l’unione divina, scopo unico del Carmelo. Quindi, suor Elisabetta ritornava con gioia al suo caro silenzio, amato sopra tutte le cose. E scriveva alla sorella: « In occasione delle elezioni, abbiamo avuto licenza, cioè potevamo, durante la giornata, farci scambievolmente delle brevi visite. Ma, sai, la vita della Carmelitana è il silenzio » (Lettera alla sorella – Ottobre 1901).

3) Ma il vero silenzio della Carmelitana è il silenzio dell’anima, silenzio in cui essa trova il suo Dio. Discepola fedele di santa, Teresa e di san Giovanni della Croce, suor Elisabetta si esercita a far tacere le sue potenze, e ad isolarsi da tutto il creato. Con ardore inesorabile, immola tutto: lo sguardo, il pensiero, il cuore. « Il Carmelo è come il cielo: bisogna separarsi da tutto, per possedere Colui che è tutto » (Lettera alla mamma – Agosto 1903). – Questa separazione totale dalle creature attirava già appassionatamente il suo cuore di fanciulla: « Facciamo il vuoto, distacchiamoci da tutto; non vi sia più che Lui, Lui solo » (Lettera a M. G… – 1901). « Separiamoci dalla terra, solleviamoci da tutto il creato, da tutto il sensibile »(Lettera a M. G… – 1901). – Costretta a frequentare riunioni e feste mondane, l’anima sua, sottraendosi al tumulto, si elevava fino a Dio. « Mi sembra che nulla ci può distrarre da Lui, quando per Lui solo si agisce, stando sempre alla sua santa presenza, sempre sotto quel divino sguardo che penetra nelle intime profondità dell’anima. Anche in mezzo al tumulto del mondo, si può ascoltarlo, nel silenzio di un cuore che vuole essere unicamente suo » (Lettera al Canonico A… – 1 dicembre 1900). – Suor Elisabetta aveva una devozione particolare per santa Caterina da Siena, non solo per la prodigiosa azione apostolica svolta dalla santa al servizio della politica pontificia, ma anche per la dottrina della. grande mistica domenicana sulla « celletta interiore », costante rifugio della vergine senese in mezzo alle agitazioni umane. Questo silenzio interiore, tanto caro a suor Elisabetta doveva assumere rapidamente in lei la forma di una ascesi universale, e prendere un posto eminente nella sua vita mistica. È puro Vangelo: chi vuole elevarsi a Dio con la orazione deve far tacere in sé le agitazioni vane del di fuori e il tumulto del di dentro, deve ritirarsi nel più profondo di se stesso e là, nel segreto, raccogliersi « a porte chiuse » (S. Matteo, VI-6) dinanzi al Volto del Padre. Così pregava Cristo nelle lunghe notti silenziose della Palestina, quando se ne andava solitario, a sera, sulla montagna, per rimanervi fino al mattino « in orazione con Dio » (S. Luca, VI, 12). Anacoreti e Padri del deserto dei primi secoli della Chiesa dimostrano efficacemente, con la loro vita sottratta ad ogni inutile contatto, l’azione purificatrice del silenzio nella concezione primitiva dell’ascetica cristiana. Il deserto li conduceva al silenzio dell’anima in cui abita Dio. Suor Elisabetta ha compreso questa verità evangelica in un senso tutto carmelitano, secondo la sua grazia personale: silenzio di tutte le potenze dell’anima vigilate e custodite per Dio solo. Nessun tumulto nei sensi esterni, nell’immaginazione, nella volontà. Non vedere nulla. Non ascoltare nulla. Non gustare nulla. In nulla arrestarsi, che possa distrarre il cuore o ritardare l’anima nella sua ascesa verso Dio. E, prima di tutto, sorvegliare gli sguardi. Non diceva il divino Maestro: « Se il vostro occhio vi è ragione di scandalo, strappatelo; perché, se l’occhio è semplice, tutto il corpo è puro e vive nella luce »? (S. Matth. VI, 22). L’impurità e una folla di imperfezioni derivano da questo difetto di vigilanza sugli sguardi. Davide, che ne aveva fatto la dolorosa esperienza, supplicava Iddio di « ritrarre i suoi occhi dalle vanità della terra » (Ps. CXVIII, 37) dove l’anima sua era venuta meno. – L’anima vergine non si permette un solo sguardo che non sia rivolto al Cristo. Il silenzio dell’immaginazione e delle altre potenze dell’anima non è meno necessario; è tutto un mondo interiore di sensazioni e di impressioni che portiamo dovunque con noi, e che ad ogni istante minaccia di sopraffarci. Anche in questo campo deve esercitarsi l’ascesi del silenzio. L’anima che si trastulla ancora coi suoi ricordi. « che va dietro a un desiderio qualsiasi » (Ultimo ritiro – 2° giorno) estraneo a Dio, non è un’anima di silenzio, quale la voleva suor Elisabetta della Trinità. Rimangono in lei delle « dissonanze » (Ibid.), delle sensibilità che fanno troppo rumore, e non lasciano salire a Dio il concerto armonioso che dalle potenze dell’anima dovrebbe elevarsi a Lui senza interruzione. L’intelletto, a sua volta, deve far tacere in sé ogni umano rumore. « Il minimo pensiero inutile » (Ibid.) sarebbe una nota falsa che bisogna eliminare ad ogni costo. Un intellettualismo raffinato che lasci troppo libero giuoco all’intelligenza è un ostacolo sottile al vero silenzio della anima, in cui essa trova Dio nella fede pura. E suor Elisabetta della Trinità, come il suo maestro san Giovanni della Croce, si mostra intransigente su questo punto. « Bisogna estinguere ogni altra luce » (Ultimo ritiro – 4° giorno.) e giungere a Dio, non per mezzo di un sapiente edificio di bei pensieri, ma nella nudità dello spirito. – Silenzio, soprattutto, nella volontà. È la facoltà dell’amore: in essa è in giuoco la nostra santità. E con ragione san Giovanni della Croce riferisce alla volontà le ultime purificazioni che preparano all’unione trasformante. Niente, niente, niente, niente, niente, lungo la salita; e, sulla Montagna, niente (Opere di san Giovanni della Croce.). Suor Elisabetta ha voluto seguire il suo maestro spirituale fino a questo punto estremo del Carmelo. Invita l’anima che vuol giungere all’unione divina, e fortemente la sollecita ad elevarsi al di sopra dei propri gusti, anche i più spirituali, fino a spogliarsi di ogni volontà personale: « Non sapere più nulla… non fare più differenza alcuna fra sentire e non sentire, godere e non godere » (Il paradiso sulla terra -2.2), mantenersi risoluta a tutto superare, per unirsi a Dio solo nell’oblìo e nello mento totale di se stessa. – Suor Elisabetta della Trinità aveva spinto fino a questo punto il suo ideale di silenzio e di solitudine assoluta, lungi da tutto il creato; e noi sappiamo che le ultime ore della sua vita ne furono la realizzazione vivente. Bisogna dunque intenderla come lei, questa ascesi del silenzio, e intenderla nel suo senso profondo. « Non è una separazione materiale dalle cose esteriori, ma una solitudine dello spirito, un distacco assoluto da tutto ciò che non è Dio» (Il paradiso sulla terra – 4a orazione.). « L’anima silenziosa, di fronte a tutte le vicende della vita esteriore come nella sua vita intima, rimane ugualmente indifferente; le supera, le oltrepassa, per riposarsi, al di sopra di tutto, nel seno stesso del suo Dio ». È la notte descritta da san Giovanni della Croce; è la morte ad ogni attività naturale. « L’anima che aspira a vivere in contatto con Dio, nella fortezza inespugnabile del santo raccoglimento, deve essere spogliata, distaccata, separata da tutte le cose, almeno in ispirito » (Il paradiso sulla terra – 5a orazione.). È il silenzio assoluto. alla presenza di Dio solo. Suor Elisabetta della Trinità ha consacrata tutta una elevazione dell’ultimo suo ritiro a cantare questa condizione beata dell’anima che il silenzio interiore ha reso perfettamente libera. – « Vi è un altro canto di Cristo, che io vorrei ripetere incessantemente: « Per te custodirò la mia fortezza » (Salmo LVIII-10 – Isaia, XXX-15). E la mia regola mi dice: « La tua forza sarà nel silenzio ». Dunque, serbare la propria forza per il Signore mi pare che significhi fare l’unità nel nostro essere per mezzo del silenzio interiore; raccogliere tutte le proprie potenze per applicarle al solo  esercizio dell’amore; avere quell’occhio semplice che permette alla luce di irradiarci » (Ultimo ritiro – 2° giorno). Un tale silenzio assorbe tutto. « Un’anima che scende a patti col proprio io, che si occupa delle sue sensibilità, che va dietro a un pensiero inutile, a un desiderio qualsiasi, quest’anima disperde le proprie forze: non è concentrata in Dio. La sua lira non vibra all’unisono; e quando il divino Maestro la tocca, non può trarne armonie divine. Vi è ancora troppo di umano, e si produce una dissonanza. L’anima che si riserba ancora qualche cosa del suo regno interiore e le cui potenze non sono tutte « raccolte » in Dio, non può essere una perfetta lode di gloria; essa non è in grado di cantare senza interruzione il « canticum magnum » di cui parla san Paolo, perché in lei non regna l’unità. E invece di proseguire la sua lode attraverso tutte le cose, in semplicità, bisogna che si affanni continuamente a radunare le corde del suo strumento disperse un po’ da per tutto » (Ultimo ritiro – 2° giorno.) Vi è un altro silenzio che l’anima non ha il potere di produrre con la propria attività, ma che Dio stesso opera in lei se rimane sempre fedele, e che costituisce uno dei frutti più elevati dello Spirito Santo: il divinum silentium degli scritti di san Giovanni della Croce. Le potenze non errano più, disperse in cerca delle cose. L’anima non sa più che Dio. È l’unità. – « Come è indispensabile questa bella unità interiore all’anima che vuol vivere quaggiù la vita dei beati, cioè degli esseri semplici, degli spiriti! Mi sembra che proprio a questa unità mirava il Maestro quando parlava alla Maddalena dell’« unum necessarium » (S. Luca, X-42). E come l’aveva compreso bene la grande santa! L’occhio dell’anima sua illuminato dalla fede aveva riconosciuto il suo Dio sotto il velo dell’umanità; e, nel silenzio, nell’unità delle potenze, ascoltava la parola ch’Egli le diceva. Poteva veramente cantare: « L’anima mia è sempre nelle mie mani» (Salmo CXVIII-109,) e soggiungere la breve parola: « Nescivi!» (Cantica VI). Sì, ella non sapeva più niente altro che Lui. Potevano far rumore, potevano agitarsi intorno a lei: «Nescivi! ». accusarla: « Nescivi! ». Nemmeno le ferite recate al suo onore erano capaci, più delle cose esteriori, di farla uscire dal suo sacro silenzio. Così è dell’anima entrata nelle fortezze del santo raccoglimento. – Con l’occhio aperto alle chiarezze della fede, scopre il suo Dio presente, vivente in lei; ed ella, a sua volta, si tiene così fedelmente presente a Lui nella sua bella semplicità, che egli la custodisce con cura gelosa. Possono sopraggiungere le agitazioni esterne, le interne tempeste; può venire intaccato il suo onore: « Nescivi! ». Dio può celarsi, può sottrarle la sua grazia sensibile: « Nescivi! ». E, con san Paolo, esclama: « Per suo amore, ho tutto perduto » (Filippesi, III-8). Allora, il Signore è libero, libero di effondersi, di donarsi a suo beneplacito; e l’anima, così semplificata e unificata, diviene il trono dell’Immutabile, perché l’unità è il trono della Trinità santa » (Ultimo ritiro – 2° giorno.). – San Giovanni della Croce, in un passo celebre, fa allusione al silenzio della Trinità. « Dio Padre non ha che una Parola: il suo Verbo; e la pronuncia in un eterno silenzio… ». In questo silenzio della Trinità, suor Elisabetta ha trovato l’esemplare del suo: «Si faccia, nell’anima, un profondo silenzio, eco di quello che è un canto nella Trinità» (Alla sorella). – L’unione trasformante fa entrare in questo silenzio di Dio. Nell’anima tutto si acquieta: più nulla della terra, più nessun’altra luce che la Luce del Verbo, nessun altro amore che l’eterno Amore. Ed essa, l’anima, riveste i « costumi divini ». La sua vita, superando e dominando da tanta altezza tutte le terrene agitazioni, partecipa alla vita immutabile, « … immobile e tranquilla — secondo la espressione di suor Elisabetta — come se già fosse nella eternità ». Per un tocco speciale dello Spirito Santo, uno dei tocchi più segreti, la sua vita è trasportata nell’immutabile e silenziosa Trinità. Mediante la fede, quaggiù, ma per uno degli effetti più sublimi del dono della sapienza, l’anima vive di Dio, alla maniera di Dio, tutta trasfusa in Lui. Essa più non ascolta che l’eterna Parola: la generazione del Verbo e la spirazione dell’Amore. L’universo tutto quanto è per lei come se non fosse. Giunto a questo grado, il silenzio è il rifugio supremo dell’anima di fronte al mistero di Dio. « Di questo silenzio « pieno, profondo », parlava Davide quando esclamava: « Il silenzio è la tua lode » (Ps. LXV, 2). Sì; è la lode più bella, perché è quella che cantasi eternamente in seno alla tranquilla Trinità » (Ultimo ritiro – 2° giorno). I « divini costumi » sono l’esemplare delle virtù dell’anima giunta a tali vette. E fino ad esse suor Elisabetta della Trinità si era elevata negli ultimi giorni della sua vita, dimentica di sé, spoglia di tutto, per cercare il suo ideale di silenzio e di solitudine in seno a Dio. « Siate perfetti come il vostro Padre Celeste è perfetto » (S. Matth. V, 48). E san Dionigi ci dice che « Dio è “il grande solitario”. Il mio Maestro mi chiede di imitare questa perfezione, di rendergli omaggio con l’essere io pure solitaria ». L’Essere divino vive in un’eterna, in un’immensa solitudine; e, pur interessandosi ai bisogni delle sue creature, non ne esce mai, perché non esce mai da se stesso. E questa solitudine altro non è che la sua Divinità. Perché nulla possa farmi uscire da questo bel silenzio interiore, sono necessarie le stesse condizioni, sempre: lo stesso isolamento, la stessa separazione, lo stesso spogliamento. Se i miei desideri, i miei timori, le mie gioie, i miei dolori, se tutti i movimenti provenienti da queste quattro passioni non saranno perfettamente regolati e orientati a Dio, io non sarò solitaria; vi sarà del tumulto in me. È dunque necessaria la calma, il sonno delle potenze, l’unità dell’essere. « Ascolta, figlia mia, porgi l’orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre; e il Re amerà la tua bellezza» (Salmo XLIV-11). Questa chiamata mi sembra che sia un invito al silenzio: « Ascolta, porgi l’orecchio… ». Ma, per udire, bisogna dimenticare la casa paterna, cioè tutto quello che ha relazione con la vita naturale, quella vita della quale vuol parlare l’Apostolo quando dice: « Se vivrete secondo la carne, morrete » (Rom. VIII, 13). « Dimentica il tuo popolo »; è cosa più difficile, mi sembra, perché questo popolo è tutto quel mondo che fa parte di noi stessi: è la sensibilità, sono i ricordi. le impressioni, ecc…, l’îo, in una parola. Bisogna dimenticarlo, abbandonarlo. E quando l’anima ha fatto questo strappo, quando è libera da tutto ciò, allora il Re s’innamora della sua bellezza, perché la bellezza, soprattutto quella di Dio, è unità » (Ultimo ritiro – 10° giorno). – « Il Creatore, vedendo il silenzio bellissimo che regna nella sua creatura, considerandola tutta raccolta nella sua solitudine interiore, si innamora della sua bellezza; e se la porta in quella solitudine immensa, infinita, in quel luogo spazioso cantato dal Profeta, che altro non è se non Lui stesso » (Ultimo ritiro – 11° giorno). Questa solitudine suprema stabilisce l’anima nel silenzio stesso della Trinità. E proprio qui si rifugia suor Elisabetta, nel volo sublime con cui termina la sua preghiera, per perdersi, fin da questa vita, nella tranquilla e immutabile Trinità. «O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi interamente, per fissarmi in Te, immobile e quieta, come se la mia anima già fosse nell’eternità. Che nulla come possa turbar la mia pace né farmi uscire da Te, o mio Immutabile, ma che, ad ogni istante, io penetri sempre più nelle profondità del Tuo Mistero… O miei «tre», mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, immensità nella quale mi perdo, io mi abbandono a Voi come una preda; seppellitevi in me perché io mi seppellisca in voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra Luce l’abisso  abisso delle Vostre grandezze ».

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (7)

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (21)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (21)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni

ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO V.

ART. II. — GLI EFFETTI DELLA SANTA MESSA.

La santa Messa, essendo sostanzialmente lo stesso Sacrificio della croce, produce i medesimi effetti. Ha anzi il vantaggio di applicare a ognuno di noi i frutti della redenzione secondo le nostre disposizioni e la parte più o meno grande che prendiamo all’offerta del santo Sacrificio. Conviene quindi approfondire su questo punto la dottrina della Chiesa, onde poter ricavare dalla Messa i maggiori vantaggi. Diremo quindi :

1°) quali sono gli effetti della Messa;

2°) chi sono coloro che partecipano ai frutti della Messa;

3°) in che misura vi partecipano.

1° Quali sono gli effetti della santa Messa.

Questi effetti, come quelli del Sacrificio della croce, si compendiano in due parole: glorificar Dio e santificare gli uomini.

A) Il primo dovere dell’uomo è certamente di glorificar Dio: da Lui creato e santificato, ricolmo di ogni specie di beni naturali e soprannaturali, ei deve innanzi tutto adorare il suo Creatore e ringraziare il supremo suo Benefattore. Ma troppo spesso l’uomo dimentica questo suo dovere, unicamente sollecito di ottenere nuovi benefici. Ë ingiustizia ed ingratitudine; ma è anche negligenza dei propri interessi; perché il mezzo migliore per ottenere nuovi favori è di riconoscere umilmente quelli che si sono già ricevuti. Ora la santa Messa ci offre il mezzo più efficace di adorare e di ringraziar Dio. Dio ha diritto ad ossequi infiniti; ma come potremo renderglieli noi che abbiamo piena coscienza di essere creature finite e imperfette? Coll’assistere piamente alla Messa. Allora infatti il Verbo Incarnato, i cui ossequi hanno valore infinito per ragione della infinita dignità della sua Persona e dell’infinito valore della Vittima da Lui offerta, mette a nostra disposizione le sue adorazioni e i suoi ringraziamenti, così che noi possiamo farli nostri e presentarli a Dio per glorificarlo. Quando il Sacerdote, in nome di tutta la Chiesa, leva l’ostia e il calice verso il cielo, noi possiamo dire a Dio: « O Padre, io mi riconosco debitore alla vostra divina Maestà di milioni e milioni di debiti: debiti di adorazione, di gratitudine, di amore; e sono incapace di pagarveli. Ma vi offro gli ossequi infiniti che vi porge il vostro divin Figlio immolato in questo momento sull’altare. Sono ossequi che mi appartengono, perché, sebbene indegno, sono membro di quel Corpo mistico di cui Egli è il Capo. Accettate dunque, o Padre misericordioso, accettate questi atti di adorazione, di gratitudine, di amore che Gesù vi offre così in nome mio come in nome suo. Vi unisco quanto vi è di meglio nel mio cuore così povero e così miserabile; con Lui, per Lui e in Lui, io vi adoro, io vi ringrazio, io vi lodo, io vi amo. Volgete innanzi tutto lo sguardo agli ossequi suoi e non considerate i miei se non come atti di uno dei suoi membri; graditeli per rispetto suo e siate benedetto, amato e glorificato per tutta l’eternità ». Possiamo star sicuri che una tale offerta sarà bene accolta da Dio; perché, come è giustamente dichiarato dal Concilio di Trento (Sess. XXII, c.1), la Messa è quell’ostia purissima che nulla può macchiare, neppure l’indegnità o la malizia di coloro che l’offrono. Quale consolazione per noi il poter così glorificar Dio come si merita!

B) Ma possiamo inoltre ottenere per noi e per i nostri fratelli tutte le grazie di cui abbiamo bisogno.

a) Il primo nostro desiderio è quello di essere perdonati. Abbiamo offeso Dio ed essendo Dio maestà infinita, l’offesa nostra ha qualche cosa di infinito che da soli non possiamo riparare. Anche qui il santo Sacrificio viene a supplire la nostra impotenza; perché è nello stesso tempo propiziatorio e soddisfattorio, È propiziatorio, vale a dire che ci rende Dio propizio e lo inclina a misericordiosamente perdonarci. – Certo la Messa non purifica direttamente l’anima del peccatore come fa il Sacramento della Penitenza, ma se uno vi assiste con divozione o se gli viene applicata, può, in virtù dei meriti di Cristo, ottenere il dono della contrizione e quindi il perdono dei peccati. È quello che spera la Chiesa quando fa dire al Sacerdote, in nome del popolo cristiano: « Accogli, o Padre santo, quest’ostia immacolata che io ti offro per i peccati, le offese e le negligenze mie senza numero » (pregh. dell’Offertorio). Infatti, poiché nella santa Messa tutta la Passione del Salvatore viene posta sotto gli occhi del Padre, Ei si sente appagato e sodisfatto oltre ogni credere; e, abbassando sui di noi il misericordioso suo sguardo, perdona e purifica le anime sinceramente contrite e umiliate. Questo Sacrifizio è anche soddisfattorio, vale a dire che rimette infallibilmente ai peccatori pentiti una parte almeno della pena temporale dovuta ai loro peccati, in proporzione delle disposizioni più o meno perfette con cui assistono alla Messa. – Questa remissione della pena si applica non solo ai vivi, ma anche alle anime del Purgatorio. Quando si fa celebrar la Messa o vi si assiste per loro, la virtù del sangue di Gesù scende, rugiada benefica, a dar refrigerio a quelle povere anime, alleviarne i patimenti e abbreviarne il tempo della espiazione. Quanto è dolce per noi il pensare che possiamo con questo mezzo recar conforto a quei cari defunti che attendono con brama così accesa il giorno della loro liberazione! Temporaneamente separati da quel Dio che amano e che solo li può rendere beati, ci supplicano di abbreviare il tempo della loro espiazione. Rammentiamoci che la Messa è il mezzo più efficace per rispondere alle supplichevoli loro voci.

b) Ma abbiamo pure grazie da chiedere per noi e per gli altri, così per il presente come per l’avvenire. Continuo è il bisogno che abbiamo dell’aiuto di Dio per vincere le tentazioni, per adempiere i nostri doveri, per progredire nella virtù. E se apriamo gli occhi della fede e dell’amore, quanti infedeli e quanti eretici da ricondurre all’ovile! quanti peccatori da convertire! Quanti giusti da santificare! Sentiamo tutta la nostra impotenza a conseguire tutti questi fini, perché per un verso la grazia di cui abbiamo bisogno è essenzialmente gratuita e per l’altro le nostre preghiere non hanno che scarso valore a ottenere aiuti da noi non meritati. Ebbene ecco la Messa che soccorre alla nostra incapacità. Gesù, presente sull’altare, prega continuamente per noi e per tutti i bisogni della Chiesa; prega con gemiti inesplicabili, e le sue preghiere sono sempre esaudite per ragione dei suoi meriti infiniti. Se quindi facciamo nostre le preghiere di Colui di cui siamo le membra e vi uniamo le nostre suppliche, come già più sopra spiegammo, o non si avrà da avverare la promessa di nostro Signore: « In verità, in verità vi dico… qualunque cosa domanderete al Padre in nome mio, lo farò; affinché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa in nome mio, lo farò » (S, Giov., XIV, 13-14). – Quando nella santa Messa preghiamo con Gesti e per mezzo di Gesù, non preghiamo forse in suo nome? e non siamo quindi sicuri di essere esauditi? Ecco una ragione molto forte per eccitare la nostra confidenza nella preghiera.

2° Chi sono coloro che partecipano ai frutti della Messa.

Partecipano ai frutti della Messa tutti coloro pei quali fu offerto il Sacrificio della Croce, cioè tutti i membri del Corpo mistico di Gesù Cristo, o lo siano di fatto perché incorporati a Lui col Battesimo, o lo siano solo di diritto; vale a dire tutti coloro che vivono sopra questa terra, perché, se non hanno ancora ricevuto il Battesimo, sono però chiamati a riceverlo. Ne vengono esclusi soltanto i dannati perché  irrevocabilmente separati dal Salvatore. Lasceremo i fedeli defunti, di cui abbiamo già detto una parola parlando dell’effetto soddisfattorio della Messa, e non ci occuperemo qui che dei viventi.

A) Tutti sono chiamati a partecipare ai frutti del santo Sacrificio della Messa. Nella Chiesa primitiva si inculcava praticamente ai fedeli questa verità col recitare per le varie classi di persone molteplici preghiere a cui gli assistenti si associavano coll’Amen finale; cosa che si fa ancora il Venerdì santo dopo il canto del Passio. Oggi, perché la Messa riesca più corta; queste lunghe orazioni vennero soppresse, ma se ne conservò lo spirito, offrendo esplicitamente l’ostia santa non solo per tutti i Cristiani, ma anche per tutto il mondo: « Ti offriamo, o Signore, il calice salutare, supplicando la tua clemenza che ascenda al cospetto della divina tua Maestà in odore di soavità per la salute nostra e per quella di tutto il mondo! » (Offertorio, offerta del calice. Si vedano le preghiere per l’offerta del pane e quelle che si recitano al Memento dei vivi). – Scende dunque ogni giorno, e a ogni istante del giorno e della notte, una pioggia di grazie sul mondo, perché non vi è momento in cui in qualche parte della terra non venga offerto il Sacrificio santificatore. Non è forse un gran conforto il pensare che riceviamo continuamente vantaggio spirituale da tutte le Messe che si dicono sulla faccia della terra? Ma non fermiamoci a una gioia che potrebbe parere alquanto egoista. Studiamoci di avere un cuor largo come quello di Cristo: abbiamo desideri e ambizioni ampie quanto il mondo, affinché, quando assistiamo alla Messa, o in persona o in ispirito, le nostre preghiere non si fermino a noi e a quelli che sono dei nostri, ma siano veramente cattoliche, cioè universali. Chiediamo, sì, grazie per noi e per i nostri, ma chiediamone pure per tutti gli uomini, perché Dio sia conosciuto e amato da tutta la terra. Non è forse ciò che ci suggerisce Nostro Signore nel Pater: « Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra »?

B) Ma se tutti i viventi ricevono vantaggio dalla Messa, non tutti però lo ricevono nella stessa misura. La regola che governa la dispensa delle grazie è questa: posto che tutte le altre condizioni siano pari, uno riceve in proporzione del concorso prestato alla celebrazione del santo Sacrificio.

a) Chi, dunque, riceve di più è il Sacerdote che dice la Messa, perché è il rappresentante di Gesù, Sommo Sacerdote, e vi presta il concorso più attivo ed efficace. A lui è riserbato il frutto specialissimo, ossia tutto quel complesso di grazie che gli danno modo di trasformarsi in un altro Cristo, di pensare, di parlare, di operare, di vivere, come Nostro Signore stesso se fosse al suo posto. Gli è per questo che il Pontificale gli raccomanda così istantemente di imitare ciò che fa all’altare e di vivere vita talmente santa da poter ripetere con san Paolo: « Vivo, ma non più io, vive in me Gesù Cristo » (Gal. II, 20). Se lo rammenti quando sale al santo altare, e celebri degnamente e religiosamente, accompagnando colla mente e col cuore le parole che pronuncia ed eccitando dentro di sé i sentimenti di Colui di cui è ministro e rappresentante.

b) Il chierico o l’inserviente che serve la Messa riceve più grazie dei semplici assistenti quando procuri di animarsi bene dello spirito del suo ufficio, appunto perché ha parte più attiva nel santo Sacrificio. È cosa molto importante che si inculchi questa verità ai chierichetti scelti per cotesto servizio. Si troveranno allora più facilmente dei volenterosi che, invece di annoiarsi o trastullarsi durante la Messa, penseranno a coglierne copiosi frutti.

c) Vi hanno pure una parte maggiore quelli che offrono insieme col Sacerdote, vale a dire coloro che danno la limosina perché si dica la Messa secondo la loro intenzione, o che colla loro generosità contribuiscono alle spese del culto. È una cosa che si deve ricordare, sempre però con prudenza, al popolo cristiano, perché si mostri generoso così per i defunti come per il mantenimento della casa di Dio.

d) Vengono poi i fedeli che assistono alla Messa, il cui vantaggio è in proporzione della divozione ed attività con cui vi assistono. Lo dice chiaro la Chiesa, che mette sul labbro del Sacerdote queste parole: « Ricordati, o Signore… di tutti i circostanti, dei quali è a te cognita la fede e nota la divozione ». (Canone della Messa; Memento dei vivi.). Si rammentino queste cose ai fedeli, affinché non restino puramente passivi alla Messa, ma, consapevoli della parte attiva che vi hanno, recitino anch’essi con attenzione ed amore le sublimi preghiere suggerite dalla Chiesa.

e) Vi sono poi di quelli che non possono esser presenti di corpo al santo Sacrificio, ma vi assistono col cuore e collo spirito: sarà, per esempio, una madre di famiglia che non può lasciare i figli e le faccende domestiche; sarà un vecchio a cui le forze non permettono più di recarsi in chiesa; sarà un infermo inchiodato su un letto di dolore; saranno tante anime buone che il lavoro assiduo tiene forzatamente lontane dalla chiesa. Ebbene, sappiano tutti costoro che possono partecipar largamente ai frutti della Messa, se vi assistono col cuore, unendosi al Sacerdote che celebra e specialmente a Gesù-Ostia. Questo pensiero sarà per loro di grande consolazione e di grande vantaggio.

f) Da ultimo anche le persone che non pensano a unirsi al santo Sacrificio non rimangono totalmente prive dei suoi frutti: la Chiesa prega anche per loro ed esse ricevono grazie secondo che hanno l’anima aperta ai doni di Dio.

3° In che misura partecipiamo ai frutti della Messa,

In teoria i frutti del santo Sacrificio della Messa sono senza limiti. Tutte le grazie, come spiega bene san Paolo sul principio della Lettera agli Efesini, ci vengono per mezzo di Cristo Redentore, il quale, essendosi immolato per noi sul Calvario, ci meritò tutti gli aiuti di cui abbiamo bisogno per glorificare Dio e per santificarci. Ora la Messa, come fu detto, non è altro in sostanza che il sacrificio del Calvario continuato sui nostri altari in nome della Chiesa dai rappresentanti visibili del Sommo Sacerdote; la Messa quindi per sé ha la stessa efficacia del Sacrificio del Calvario: nel Sacrificio del Calvario Gesù acquista i meriti, nel Sacrificio della Messa li applica. In pratica però quest’applicazione si fa sempre in modo limitato, in una misura che dipende dal Sacerdote che celebra, da colui per cui si celebra, e, in ultima analisi, dalla libera e misericordiosa volontà di Dio.

a) Il Sacerdote principale che offre il santo Sacrificio è lo stesso Nostro Signore, e per questo verso l’offerta è necessariamente efficace, perché il Padre non può non esaudire il Figlio. Anche la Chiesa, essendo la sposa di Cristo, interviene nell’offrire la vittima divina; ora la Chiesa è santa e la sua preghiera, come la sua offerta, è sempre benignamente accolta da Dio. Ma il ministro che celebra in nome della Chiesa e i fedeli che si associano al Sacerdote non sono tutti egualmente degni dei favori divini; si dovrà quindi tener conto, in quella misura che Dio solo conosce, del fervore e della santità del celebrante e degli assistenti. Abbiamo dunque qui un fattore incognito e variabile, che può aumentare o diminuire l’applicazione dei frutti della Messa. È una ragione di più perché Sacerdote e assistenti si uniscano il più perfettamente possibile ai sentimenti di Gesù Cristo e della Chiesa.

b) È chiaro che bisogna tenere anche conto delle disposizioni di coloro per i quali viene offerta la Messa. L’uomo, finché vive sulla terra, rimane libero di accettare o di ricusare, a suo arbitrio, le grazie di Dio. Può aprirvi l’anima più o meno ampiamente e corrispondervi con maggiore o minore generosità. Quindi, benché i frutti della Messa siano per sé infiniti, la loro applicazione a questa o a quell’anima può esser nulla, se quest’anima ricusa assolutamente di aprirsi alla divina operazione; e può essere scarsa se non vi si apre che molto imperfettamente. Cosa da richiamarsi alla mente quando, facendo celebrar Messe per questa o per quella persona, non se ne scorgono che pochi frutti. Non è però da scoraggirsi: il frutto della Messa non è mai interamente perduto; se non giova a questa o a quella persona, in questo o quel dato momento, Dio sa trarne partito per altre anime e specialmente per quelle che hanno fatto generosamente offrire il santo sacrificio.

c) Se l’uomo è libero nell’accettazione dei doni divini, tanto più libero è Dio nella distribuzione di questi suoi doni. Dio, in virtù della sua sapienza e della sua misericordia infinita, tiene certamente contro di tutte le preghiere, specialmente di quelle che si fanno al santo altare; e a tutti coloro che pregano e che si offrono in unione colla Vittima divina concede con santa prodigalità le grazie necessarie alla salute. Dio però non si lega alla legge dell’uguaglianza: a chi dà dieci talenti, a chi ne dà cinque, a chi uno, secondo i disegni della sua sapienza. « O non posso io fare del mio ciò che voglio? » (Matth. XX, 15), dice Gesù nella parabola evangelica; quasi volesse dire: « puoi tu forse farmi rimprovero di dar più all’uno che all’altro quando ognuno riceve quanto e più di quello che gli è dovuto? ». Dio infatti vuole la gerarchia così nell’ordine soprannaturale come nell’ordine naturale, vuole che ci siano anime più sante e anime meno sante, perché in questa varietà nell’unità sta la bellezza dell’universo, e solo per mezzo della gradazione dei doni si palesa nelle creature l’infinita perfezione di Dio. Ciò che ci deve stare a cuore è di far fruttare i doni di Dio, qualunque siano. Il giorno del giudizio ognuno riceverà secondo le sue opere. Mostriamoci intanto sempre grati a Dio anche delle minime grazie che benignamente ci comparte, trafficandole meglio che possiamo. – Aggiungeremo terminando che l’efficacia della Messa è maggiore di qualsiasi altra preghiera. La Messa ha sempre un valore speciale che le viene dall’offerta e dalla preghiera di Cristo e della Chiesa: onde supera sempre e di molto il merito proprio di ogni nostra offerta. La Messa, essendo il sacrificio del Calvario perpetuato, è la fonte più copiosa delle grazie che Dio continuamente versa sulla Chiesa e sulle anime. È lei che merita al Sacerdote le grazie che quotidianamente applica alla santificazione propria e a quella delle anime che gli sono affidate; lei che trae ai piedi del pulpito l’incredulo e il peccatore dove si convertono; lei che fa che il Cristiano trionfi delle più seducenti tentazioni; lei che sostiene il coraggio di coloro che, al focolare domestico e nell’officina, debbono praticare virtù semplici ma eroiche; lei che conduce le anime generose alle cime dell’unione mistica; lei insomma che applica a ognuno di noi i frutti della Redenzione. Non potremo quindi meditare mai abbastanza le parole dell’Imitazione (Imit. IV, 5, 2): « Quando il sacerdote celebra, onora Dio, rallegra gli Angeli, edifica la Chiesa, aiuta i vivi, procura riposo ai defunti e fa se stesso partecipe di tutti i beni ». È il caso di ripetere con san Paolo (Hebr. IV, 16): « Appressiamoci dunque con fiducia al trono della grazia per ottenere misericordia e trovar grazia ad aiuto opportuno ».

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (21)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (5)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (5)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed.Brescia, 1957.

CAPITOLO PRIMO

ITINERARIO SPIRITUALE

III

VERSO L’UNIONE TRASFORMANTE

Quando, il 21 novembre 1904, suor Elisabetta della Trinità compose di getto, senza la minima correzione, la sua elevazione sublime alla Trinità non aveva ancora raggiunte le ultime vette dell’amore. E non a caso, fino dalla seconda frase della sua preghiera, immediatamente dopo il primo atto di adorazione alla Trinità, suor Elisabetta, ricadendo su di sé, implora: « Aiutami a dimenticarmi interamente! ». Dopo tre anni di vita religiosa, un ostacolo fin allora insormontabile ingombra la sua vita spirituale: il proprio io. Non è giunta ancora a quel distacco sovrano delle anime che, dimentiche di se stesse, non hanno più altra occupazione che amare. Ebbene, sarà questo l’impegno e il lavoro degli ultimi due anni: lavoro, dapprima, lento e faticoso, sostenuto per diciotto mesi da fedeltà nascoste; poi rapido, quasi fulmineo, quando, dalla sera della domenica delle Palme, Dio, piombando su di lei come sulla sua preda, verrà a compiere Egli stesso nel corpo e nell’anima sua la divina opera di distruzione e di consumazione. Giungerà allora all’unione trasformante, non sul Thabor, ma, come l’aveva desiderato, nella somiglianza a Gesù Crocifisso e nella conformità alla Sua morte. È la fase più sublime di questa vita, ed è quella che ci rimane da analizzare. Da molti mesi, suor Elisabetta della Trinità soffriva di un malessere così penoso che, senza il soccorso di Dio, avrebbe dovuto soccombere. Addetta com’era all’ufficio di portinaia, doveva fare un vero sforzo per salire i primi gradini della scala, quando veniva chiamata; non si reggeva in piedi. « La mattina, dopo la recita delle Ore minori — confesserà poi alla sua Madre Priora — mi sentivo già spossata e mi domandavo come avrei potuto arrivare fino a sera. Dopo Compieta, la mia viltà giungeva al colmo, tanto che ebbi a volte la tentazione di invidiare una mia consorella dispensata dal Mattutino. Il tempo del silenzio rigoroso lo passavo in una vera agonia; la univo a quella del mio divino Maestro, standomene vicina a Lui. presso la grata del coro. Era un’ora di puro patire che mi otteneva però la forza per il Mattutino che recitavo, riacquistando una certa facilità di applicarmi a Dio. Ma poi, mi ritrovavo nella mia impotenza; e, protetta dall’oscurità risalivo alla meglio in cella, appoggiandomi al muro » (Ricordi). AI principio della Quaresima del 1906. dopo la ricreazione del mezzogiorno, suor Elisabetta. aprendo a caso come soleva fare, il suo caro san Paolo, incontrò questo versetto: « Ciò che io bramo è conoscere Lui, è la partecipazione ai Suoi patimenti, la conformità alla Sua morte » (Filipp. III, 10). Queste ultime parole la colpiscono: la conformità alla Sua morte. Sono forse l’annunzio della prossima liberazione? In piena Quaresima, si manifestano i sintomi di una grave malattia di stomaco; e, dopo la festa di san Giuseppe, suor Elisabetta della Trinità era definitivamente in infermeria. Lo sapevo che san Giuseppe sarebbe venuto a prendermi quest’anno — diceva tutta lieta. Eccolo già che viene ». Si organizzò una vera crociata di preghiere: ma invano, ché il male progrediva. Suor Elisabetta esultava. Oltrepassando ogni considerazione sulle sue cause seconde, ella chiamava quella malattia misteriosa: la malattia dell’amore. « È Lui che mi lavora e mi consuma; io mi dono, mi abbandono all’opera sua, contenta fin d’ora di tutto ciò che farà ». – La domenica delle Palme, sopraggiunse una sincope ad aggravare improvvisamente il suo stato, tanto che fu chiamato, nella notte, un Sacerdote. Suor Elisabetta, con lo sguardo luminoso, le mani giunte, stringendo al petto il bel Crocifisso della sua professione, ripeteva con invocazione ardente: « O Amore, Amore! ». « Ho assistito molti malati — diceva il Sacerdote che le aveva amministrato l’Estrema Unzione — non ho visto mai un simile spettacolo ». – Il venerdì santo pareva che dovesse spirare; ma la crisi fu superata; anzi, la mattina del sabato, le infermiere meravigliate la trovarono inginocchiata sul letto. Il ritorno alla vita fu quasi una delusione per lei. « La sera della domenica delle Palme ho avuto una forte crisi e ho creduto che fosse giunta finalmente l’ora di prendere il volo verso le regioni infinite, per contemplare svelatamente quella Trinità che è ora mia dimora, quaggiù. Nella calma silenziosa della notte, ho ricevuto l’Estrema Unzione e la visita del mio Gesù. Credevo che Egli avrebbe scelto quell’istante per rompere i miei legami. Che giorni ineffabili ho passato, nell’attesa della grande visione! » (Lettera a G. de G… – Maggio 1906). – « A voi, che siete sempre stato il mio confidente, so di poter dire tutto. La prospettiva di andare a vedere presto, nella sua ineffabile bellezza, Colui che amo e di inabissarmi in quella Trinità che è già il mio Cielo quaggiù, dà all’anima mia una gioia immensa. Quanto mi costerebbe se dovessi ritornare sulla terra; La terra mi pare così brutta uscendo dal mio bel sogno! Soltanto in Dio tutto è puro, bello e santo » (Lettera al Canonico A… – Maggio 1906.). Questa crisi violenta l’aveva avvicinata al mondo invisibile. Abituata a vivere al disopra delle cause seconde, suor Elisabetta comprese, fino dal primo istante, la ragione provvidenziale di quella malattia; vi scoprì la mano di Dio, il suo « troppo grande amore » che più intensamente la incalzava e, immediatamente, aderì al piano divino. « Se Dio mi ha reso un po’ di vita — disse a se stessa — non può essere che per la Sua gloria ». Sì: Dio voleva sollevarla e stabilirla sulla più alta cima della montagna del Carmelo dove, secondo il celebre scritto di san Giovanni della Croce, « non c’è più che l’onore e la gloria di Dio ». – Nell’estate del 1905, qualche mese prima di questa crisi, mentre si intratteneva intimamente con una consorella durante una licenza (Le « licenze » sono alcuni giorni nei quali le suore possono visitarsi nelle celle e intrattenersi insieme,), aveva trovato, in san Paolo il suo definitivo nome di grazia: « Laudem gloriæ » e, da allora, tutti gli sforzi della sua vita interiore si volgevano in questo senso. La cosa avrebbe potuto languire, col tempo. Dio tagliò corto. Avviene spesso così. Egli lascia che le anime avanzino col loro passo nelle vie divine; poi, intervenendo all’improvviso, prende Lui personalmente la direzione della loro vita nei minimi particolari; finalmente, nello slancio di una grazia irresistibile, le rapisce a sé. Si serve delle cause seconde; una grande prova che schianta tutta una vita, una malattia che sembra condurre alla morte…! in realtà, è l’ora divina del Calvario che tutto «compie e perfeziona. – Così fu per suor Elisabetta della Trinità. La crisi fulminea della sera delle Palme e del venerdì santo fu il segnale della liberazione suprema, fu l’entrata definitiva nella unione trasformante. Da quel momento, estranea a tutte le cose della terra, viveva quaggiù con l’anima già immersa nella eternità. Le consorelle che entrarono maggiormente nella sua intimità confessano che fu per esse la rivelazione di una santa. « Sentivamo che stava per lasciarci ». — « Non potevamo più seguirla; era già una creatura dell’al di là ». La si vedeva procedere nella via del dolore « con la dignità di una regina », secondo l’espressione usata da un testimonio, senza saper che era l’espressione stessa di suor Elisabetta. Appariva con evidenza che, quanto più il suo essere fisico si andava disfacendo, altrettanto l’anima, sempre più beata, oltrepassando se stessa, si obliava. Da un unico pensiero era dominata, sempre: la lode di gloria alla Trinità; da un unico desiderio: consumare la sua vita a bene delle anime; da un unico sogno: morire trasformata in Gesù Crocifisso.

« Mi indebolisco di giorno in giorno, e sento che ormai il mio Signore non tarderà molto a venire a prendermi. Esperimento e gusto gioie ineffabili: le gioie del dolore… Sogno di essere trasformata prima di morire in Gesù Crocifisso » (Lettera a G. de G… – Fine di ottobre 1906.). – Gli ultimi mesi di quest’anima essenzialmente trinitaria furono tutti pervasi dal pensiero del Crocifisso; tanto è vero, come afferma santa Teresa, che anche negli stati mistici più elevati, il ricordo dell’Umanità di Cristo non deve indebolirsi mai. Colui che, come Dio, è il termine, come Uomo rimane sempre la via che a Dio conduce: il Calvario è il solo cammino per giungere alla Trinità. Al pensiero costante della gloria della Trinità santa, pensiero che domina luminosamente tutta la vita interiore di suor Elisabetta, si unisce l’intima contemplazione del Crocifisso. « Configuratus morti eius »: ecco l’altro pensiero che non mi abbandona mai, che mi dà forza nei patimenti. Se sapeste quale opera di distruzione sento in tutto l’essere mio! È la via del Calvario ormai aperta dinanzi a me; e io sono felice di camminarvi, come una sposa a lato del divino Crocefisso. Il 18 di questo mese, avrò 26 anni; non so se questo nuovo anno della mia vita si compirà nel tempo o nella eternità: e vi chiedo, come una bimba al Padre suo, di volermi consacrare, durante la santa Messa, come un’ostia di lode alla gloria di Dio. Consacratemi così interamente, che io non sia più io, ma Lui; così che il Padre, guardandomi, possa riconoscere Lui in me. Che io divenga « conforme alla sua morte », che io soffra in me ciò che manca alla sua Passione per il suo Corpo mistico: la Chiesa. E poi, bagnatemi nel Sangue di Cristo, perché mi renda forte della sua stessa forza » (Lettera al Canonico A… – Luglio 1906.).Così, la vita spirituale, di suor Elisabetta si riduceva sempre più all’essenziale: la trasformazione in Cristo per amore, l’intimità filiale di quasi tutti gl’istanti con la Vergine santa, il senso trinitario del suo Battesimo. Il movimento della sua vita interiore rapita nell’anima del Crocefisso, diviene ben presto semplicissimo: la gloria della Trinità: e basta. Essa è giunta, oramai, alla superiore unità dell’anima dei santi che hanno raggiunto Cristo in pienezza. Tutto il resto, o rientra in questa unicità, o scompare. Nell’anima sua tutto si armonizza. Il « palazzo della beatitudine o del dolore » per lei, è tutt’uno; ma il desiderio della sofferenza non esclude quello del Cielo che, anzi, l’attrae sempre di più, da che il suo spirito ha preso contatto con gli ultimi capitoli dell’Apocalisse sulla Gerusalemme celeste, divenuto ora la lettura delle sue lunghe notti d’insonnia. Mai la si vide così divina insieme e così umana. La sua tenerezza si manifestava soprattutto verso le sue sorelle di religione. « Il cuore di Cristo non fu mai così espansivo come nell’ora suprema, in cui stava per abbandonare i suoi. Anch’io, sorellina mia (Così scrive ad una postulante che una circostanza speciale aveva ricondotta in famiglia, e della quale, nel Carmelo, era stata l’angelo, secondo gli usi dell’Ordine, la suora incaricata di iniziare una postulante alle abitudini della Comunità -N. d. T.-.), non ho provato mai, come ora, un bisogno così grande di avvolgerti nella mia preghiera. Quando i miei dolori si fanno più acuti, mi sento talmente spinta a offrirli per te, che non potrei non farlo. Chi sa perché! Ne hai forse bisogno in modo speciale? Sei afflitta da qualche pena? Le mie te le dono tutte, perché tu ne disponga pienamente. Se tu sapessi come son felice al pensiero che il mio Maestro divino sta per venire a prendermi! Come è bella e ideale la morte per coloro che Dio ha custoditi, affinché non cercassero le cose visibili che sono passeggere, ma le invisibili che non hanno fine! In Cielo, io sarò più che mai il tuo angelo. So quanto la mia sorellina ha bisogno di essere custodita, in quella Parigi dove è costretta a vivere. San Paolo dice che Dio ci ha eletti in Lui, prima della creazione del mondo, affinché siamo santi e immacolati al suo cospetto, nell’amore (Efes. I, 4); ed io, con tutta l’anima, pregherò che questo grande decreto della sua volontà si compia in te. Ascolta, quindi, il consiglio del medesimo Apostolo: Camminate in Gesù Cristo, radicati in Lui, edificati in Lui, fortificati nella fede, crescendo in Lui sempre di più (Coloss. II, 7). Mentre contemplerò la bellezza ideale nella sua luce infinita, le chiederò di imprimersi nell’anima tua perché fin d’ora, su questa terra in cui tutto è macchiato, tu sia bella della Sua bellezza, luminosa della Sua luce. A Dio. Ringrazialo per me, perché la mia gioia è immensa. Ti dò appuntamento nell’eredità dei santi. Là, nel coro delle Vergini, generazione pura come la luce, noi canteremo lo stupendo cantico dell’Agnello e il Sanctus eterno, sotto l’irradiazione del Volto di Dio. Allora, dice san Paolo, saremo trasfigurati di luce in luce, assumendo la stessa figura di Lui (II Cor., 3-18). Ti abbraccio con tutto l’affetto del mio cuore, e sono il tuo angelo per l’eternità » (Lettera a C… B… – Fine dell’estate 1906.). La sera del 2 agosto 1906, anniversario della sua entrata al Carmelo, suor Elisabetta, non riuscendo a prender sonno, si siede presso la finestra, e vi rimane quasi fino alla mezzanotte, in colloquio col suo Signore. Quella fu per lei una serata divina: « Il cielo era così calmo, così azzurro! Nel monastero regnava un silenzio profondo… Ed io rivivevo col ricordo questi cinque anni pieni di tante grazie » (Lettera alla mamma – 3 agosto 1906). –  Sentendo avvicinarsi lo spogliamento supremo, ella chiede alla sua Madre Priora di poter entrare in ritiro la sera del 15 agosto, per prepararsi al suo passaggio alla eterna vita; ne dà notizia ad una consorella, annunziandole in un biglietto che parte con Janua cœli per alcuni giorni di preghiera e di raccoglimento: « Laudem Gloriæ » entra questa sera nel noviziato del Cielo per ricevervi la veste di gloria, e ha bisogno di venire a raccomandarsi alla sua suor A…  “Quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza — dice san Paolo — li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo” (Rom. VII, 29). Ecco ciò che vado a farmi insegnare: la conformità al mio Maestro adorato, il Crocifisso per amore. Allora, potrò adempiere il mio ufficio di Lode di gloria e cantare già il Sanctus eterno, nell’attesa di intonarlo negli atri divini della casa del Padre » (Biglietto ad una delle sue consorelle). Fu proprio in quelle sere e in quelle notti di silenzio con Dio, in cui sentiva che il Maestro divino la incamminava verso il suo Calvario, che, per desiderio della sua Madre Priora, compose « L’ultimo ritiro di Laudem gloriæ », per dirle come concepiva il suo ufficio di lode di gloria. Fino all’ultima settimana, la si vide trascinarsi alle « Laudi notturne », e là, tutta raggomitolata in un angolo della tribuna, estrarre fin l’ultima stilla dal suo essere esausto. Nella misura che le permetteva la debolezza estrema, restò fedele sino all’ultimo alle minime osservanze del suo Ordine. Spesso, durante insonnie interminabili, soffriva nel corpo e nell’anima un vero martirio; allora, con grande spirito di fede, si rifugiava presso la sua Madre Priora che ella chiamava suo sacerdote, incaricato da Dio di consumare il suo sacrificio supremo. – « Ore 11. Dal palazzo del dolore e della beatitudine. Madre mia, mio sacerdote, la vostra piccola « Lode di gloria » non può dormire; soffre. Ma nell’anima sua, per quanto vi passi l’angoscia, regna però tanta calma. Ed è stata la vostra visita che mi ha recato questa pace di cielo. Aiutatemi a salire il mio Calvario! Sento così fortemente la potenza del vostro sacerdozio sull’anima mia, e ho tanto bisogno di voi. – Madre mia, sento che i miei “Tre” mi sono tanto vicini. Sono sopraffatta più dalla gioia che dal dolore. Il Signore mi ha ricordato che qui Egli vuole che io rimanga, e che non tocca a me scegliere le mie sofferenze; mi inabisso dunque insieme a Lui nel dolore immenso, con tutti i miei timori e le mie angosce » (ottobre 1906). – « Madre, amato mio sacerdote, la vostra piccola ostia soffre molto, molto; è una specie di agonia fisica; e si sente così vile! vile fino a gridare. Ma l’Essere che è Amore, pienezza d’Amore, viene a trovarla, a tenerle compagnia, l’associa a sé, mentre le fa comprendere che, fin quando la lascerà sulla terra, le dispenserà sempre il dolore » (ottobre 1906). – Mai si poté sorprendere in lei la minima debolezza, anche fra le più acute sofferenze; il suo bel sorriso non l’abbandonò mai. Nelle ultime settimane che furono un vero martirio, il dono della forza |si manifestò in lei stupendamente. Le fu chiesto, un giorno, se soffriva molto; essa fece un gesto come per indicare che le venivano straziati i visceri… e il volto le si contrasse; poi, riprese subito la sua amabile serenità. Proprio in questo stato di estrema spossatezza, la rivide il Padre Vallée, per l’ultima volta, il 15 ottobre. Fu colpito dall’opera di distruzione compiuta da Dio in quest’anima, rendendola così ineffabilmente, così devotamente bella; e la invitò ad elevarsi ancora di più, elevarsi in uno sforzo supremo fino all’amore che oltrepassa anche il dolore. Ed essa, consolata da quest’ultima visita del suo Padre, ascese quelle vette che Egli le aveva fatte intravedere. Questi stati superiori di unione trasformante, sul Calvario, non hanno più nulla di paragonabile a quanto accade sulla terra. Il 29 ottobre, grazie ad un lieve miglioramento, poté scendere in parlatorio e rivedervi tutti i suoi cari. Le avevano condotto le sue nipotine, « due bei gigli tutti candore ». La mamma loro le fece inginocchiare presso la grata, e suor Elisabetta, sollevando il grande Crocifisso della sua professione, le benedisse. Nel momento dell’addio, ebbe il coraggio di dire alla mamma: « Mamma, quando la nostra suora commissionaria verrà ad avvertirti che ho finito di soffrire, tu ti prostrerai in ginocchio esclamando: — Mio Dio, tu me l’avevi data, tu me l’hai presa; sia benedetto il tuo Santo Nome» (Quando la signora Catez, avvertita dalla suora commissionaria, si recò nel parlatorio dove la salma della sua figliola era esposta, ebbe un grido di dolore. Allora, un’amica che l’accompagnava le disse: Ricordatevi ciò che vi ha detto Elisabetta ». La coraggiosa madre se ne ricordò; e, cadendo in ginocchio mormorò: « Mio Dio, tu me l’avevi data, tu me l’hai presa. Sia benedetto il tuo santo nome! ».). – Il giorno seguente, suor Elisabetta della Trinità non poteva più lasciare l’infermeria. Alla sera, fu presa da un tremito fortissimo che tutta la scuoteva nel suo lettuccio; la notte, sembrò che il cielo le si aprisse nuovamente: bisognava far presto. E, fin dalla mattina del 31, le fu rinnovata la grazia degli ultimi Sacramenti. La Chiesa cantava i primi Vespri della festa di Ognissanti, e suor Elisabetta, non potendo ormai più scrivere, dettò un ultimo messaggio: « Ecco; io credo che sia giunto il gran giorno desiderato ardentemente del mio incontro con lo Sposo unicamente amato, adorato. Ho la speranza di potermi trovare, stasera, fra “quella grande moltitudine”, contemplata da san Giovanni dinanzi al Trono dell’Agnello in atto di servirlo notte e giorno nel suo santo tempio. Vi do appuntamento in questo bel capitolo dell’Apocalisse, e nell’ultimo che eleva così bene l’anima al di sopra della terra, nella visione in cui sto per immergermi… per sempre… ». A mezzogiorno, tutte le campane della città suonarono l’Angelus. «Ah Madre! — esclamò — queste campane mi dilatano il cuore; suonano per la partenza di Laudem gloriæ. Mi faranno morire di gioia, queste campane. Partiamo, dunque! ». E tendeva le braccia al cielo. – Il 1° novembre, festa di tutti i Santi, verso le 10 del mattino, sembrava giunta l’ora suprema, e la comunità si riunì in infermeria per recitare le preghiere degli agonizzanti. Suor Elisabetta, sollevandosi dalla sua prostrazione, assicuratasi che tutte le suore erano presenti, chiese loro perdono. Poi, per compiacere al desiderio che le esprimevano, mormorò, come in un sospiro, queste frasi: « Tutto passa… Alla sera della vita, non rimane che l’amore… Bisogna fare tutto per amore… Bisogna dimenticarsi sempre… Il buon Dio gradisce tanto che ci si dimentichi. Ah, se l’avessi fatto sempre! ». Cominciarono, da allora, nove giorni di penosa agonia. Distesa sul suo letto come sopra un altare, gli occhi chiusi, la vita concentrata tutta nel profondo dell’anima, la santa vittima pregava. Quando si cercava di consolarla per la dolorosa privazione della santa Comunione che non poteva più ricevere: « Lo trovo sulla croce — diceva — Egli mi dona la vita ». Violentissimi dolori al capo fecero temere una meningite; fu scongiurata con continue applicazioni di ghiaccio il quale si fondeva istantaneamente. Le pareva di avere il cervello in fiamme; la parola, che diveniva quasi inafferrabile, rivelava una divina unione consumata. Il suo volto emaciato e irriconoscibile, assumeva talvolta in modo impressionante i lineamenti dolorosi del santo Volto. Sembrava un Cristo in croce. Tre settimane prima, aveva confidato alla sua Madre Priora: « Se il mio Signore mi facesse scegliere fra la morte in un’estasi o nell’abbandono del Calvario, sceglierei quest’ultima per assomigliare a Lui ». E il Signore l’aveva pienamente esaudita: era la desolazione del Calvario, nell’intimo come al di fuori. Dopo una crisi violenta, la si era udita esclamare: « O Amore, Amore, consuma tutta la mia sostanza per la tua gloria! Che essa possa distillarsi goccia a goccia per la tua Chiesa ». L’antivigilia della morte, il medico non le nascose la estrema debolezza del suo polso; ne esultò, e trovò la forza di dire: « Fra due giorni, sarò in seno ai miei “Tre”. Sarà la Madonna, questo essere tutto luce, che mi prenderà per mano per condurmi al Cielo ». Il medico, incredulo, si meravigliava di una tale gioia; e suor Elisabetta gli parlò allora dell’adozione divina, del grande mistero dell’Amore che si china su di noi… Questi ultimi slanci l’avevano interamente esaurita; si poté però sentirla mormorare ancora, quasi in tono di canto: « Vado alla Luce, all’Amore, alla Vita! ». Furono le ultime parole intelligibili. Il venerdì, 9 novembre, alle cinque e tre quarti del mattino, si piegò sul lato destro, col capo arrovesciato all’indietro. Il volto le si illuminò; i suoi begli occhi, da otto giorni chiusi e quasi spenti, si aprirono, fissandosi con espressione ineffabile in un punto un po’ al di sopra della Madre Priora, inginocchiata presso il suo letto. Era bella come un Angelo. Le suore che, intorno a lei, recitavano le preghiere degli agonizzanti, non potevano distaccarne lo sguardo. – Poi, senza che fosse dato loro di sorprenderne l’ultimo respiro, si accorsero che suor Elisabetta non era più. Era l’alba della « Dedicazione », una delle feste a lei più care. Mentre, in coro, alla presenza delle sue spoglie mortali, le suore cantavano le lodi della Casa di Dio: « Beata pacis visio », suor Elisabetta, già nell’immutabile visione di pace e negli splendori della celeste Gerusalemme, che era stato il pensiero più assiduo degli ultimi suoi giorni, era unita alla moltitudine dei Beati che, con le palme in mano, ripetono incessantemente il cantico: « Santo, santo, santo, il Signore onnipotente che era, che è, che sarà, nei secoli dei secoli ». – Con essi, prostrandosi, adorando e gettando ai piedi del trono dell’Agnello la sua corona, ricompensa del suo martirio d’amore, ella ripeteva senza posa: « Dignus es, Domine. Sì, Tu sei degno, Signore, di ricevere onore, potenza, sapienza, forza e divinità » (Apoc. V). Alla presenza della Trinità Santa, suor Elisabetta era divenuta Lode di Gloria per l’eternità.

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (6)

PROFEZIA DI SAN FRANCESCO D’ASSISI: LO “STERMINATORE” È TRA NOI VISIBILE DAL 28 OTTOBRE 1958

PROFEZIA DI SAN FRANCESCO D’ASSISI: LO STERMINATORE È TRA Noi VISIBILE DAL 28 OTTOBRE 1958

Dopo aver convocato i suoi fratelli poco prima della sua morte (1226), Francesco ha avvertito su tribolazioni future, dicendo:

« Fratelli agite con forza e fermezza in attesa del Signore. Un periodo di grandi tribolazioni e afflizioni in cui grandi pericoli e imbarazzi temporali e spirituali accadranno; la carità di molti si raffredderà e l’iniquità dei malvagi abbonderà. Il potere dei demoni sarà più grande del solito, la purezza immacolata della nostra comunità religiosa e altri saranno appassiti al punto che ben pochi fra i Cristiani vorranno obbedire al vero sommo Pontefice e alla Chiesa Romana con un cuore sincero e perfetta carità.

« Nel momento decisivo di questa crisi, un personaggio non canonicamente eletto, elevato al Soglio pontificio, si adopererà a propinare sagacemente a molti il veleno mortale del suo errore.

Mentre gli scandali si moltiplicheranno, la nostra Congregazione religiosa sarà divisa tra altre che saranno completamente distrutte, perché i loro membri non si opporranno, ma consentiranno all’errore. Ci saranno così tante e tali opinioni e divisioni tra la gente, e tra i religiosi e i chierici che, se quei giorni malefici non fossero abbreviati, come annunciato dal Vangelo, anche gli eletti cadrebbero nell’errore (se fosse possibile), se in tale uragano non fossero protetti dall’immensa misericordia di Dio. Così la nostra Regola e il nostro modo di vita saranno violentemente attaccati da alcuni. Delle tentazioni terribili sorgeranno.

« Coloro che supereranno la grande prova riceveranno la corona della vita. Guai a quelli tiepidi che metteranno ogni loro speranza nella vita religiosa, senza resistere saldamente alle tentazioni consentite per provare gli eletti. Coloro che nel fervore spirituale abbracceranno la pietà con la carità e zelo per la verità, subiranno persecuzioni e insulti come se fossero scismatici e disobbedienti. Perché i loro persecutori, spronati da spiriti maligni, diranno che in questo modo prestano grande onore a Dio nell’uccidere e rimuovere dalla terra degli uomini tanto cattivi. Allora il Signore sarà il rifugio degli afflitti e Lui li salverà, perché hanno sperato in Lui. E poi per rispettare il loro Capo, agiranno secondo la Fede e sceglieranno di obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, acquistando con la morte la vita eterna, non volendo conformarsi all’errore e alla perfidia, per assolutamente non temere la morte.

« Così alcuni predicatori terranno la verità in silenzio e negandola la calpesteranno.

“La santità di vita sarà derisa da coloro che la professano solo esteriormente e per questa ragione Nostro Signore Gesù Cristo invierà loro non un degno pastore, ma uno sterminatore“.

[Opera Omnia S. FRANCISCI ASSISIATIS, col. 430 Paris Imp. Bibliothèque écclésiastique 1880 (dalle annotations de Louis-Hubert Remy) – Grassetto e colore, redazionale -].

Tutto si sta realizzando nei minimi dettagli … La profezia del Santo serafico è allineata perfettamente alle profezie bibliche: Apocalisse, S. Paolo in II Tess., Daniele XII, S. Matt. XXIV, etc… Lo sterminatore con il suo veleno modernista è tra noi dal 1958 incarnato nei masso-prelati Roncalli, Montini, Woitila …  fino ai sigg. Ratzinger e Bergoglio … Ma non lo temiamo, la nostra fede irremovibile nella parola di Cristo e nel santo Magistero Ecclesiasticio, lo abbatterà e ci salverà l’anima. Per i seguaci dello “sterminatore” (modernisti del novus ordo, i discepoli del cavaliere kadosh, i sedevacantisti e i cani sciolti vari) c’è lo stagno di fuoco ad attenderli … in eterno.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (20)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (20)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni

ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO V.

Del santo Sacrificio della Messa.

Ciò che siamo venuti discorrendo di Gesù Sommo Sacerdote e del suo sacrificio, e della partecipazione che la Vergine Maria, il Sacerdote e i fedeli hanno al suo Sacerdozio, ci deve già far capire quanta sia l’importanza del santo Sacrificio della Messa nella vita del Cristiano e le disposizioni con cui vi si deve assistere. – L’ufficio essenziale del sacerdote è, dice san Paolo, di offrire oblazioni e sacrifizi (Hebr. V, 1); quindi se il Sacerdote cattolico partecipa veramente al Sacerdozio di Nostro Signore Gesù Cristo, deve offrire anch’esso un sacrificio. Ora nella nuova Legge non vi è in sostanza che un solo Sacrificio, come non vi è che un solo Sacerdote: « Cristo, dice san Paolo, non ha bisogno, come i sacerdoti dell’antica Legge, di offrire quotidiani sacrifici per i peccati suoi e per quelli del popolo; perché questo fece una volta per tutte, immolando se stesso » (Hebr. V, 27). Ma quest’unico Sacrificio, anticipato nell’ultima Cena e compiuto poi sul Calvario, si rinnova quotidianamente sui nostri altari per ministero dei Sacerdoti, onde applicarne i frutti a ognuno di noi. Di questo divino Sacrificio intendiamo ora parlare, spiegandone: 1° la natura; 2° gli effetti; 3° il modo di trarne profitto a perfezionamento della nostra vita interiore.

ART. L. — NATURA DEL SACRIFICIO DELLA MESSA.

Il Concilio di Trento (Sess. XXII, cap. I e II) c’insegna che Gesù, volendo lasciare alla diletta Sua sposa la Chiesa un Sacrificio visibile, istituì la santa Messa, perché fosse memoriale iperenne e vivente rappresentazione del Sacrificio della Croce e vitale Comunione con Lui. Dottrina importantissima che verremo ora spiegando.

1°. La santa Messa è memoriale perenne del Sacrificio della Croce.

a) Nell’ultima Cena, Gesù, dopo che ebbe cangiato il pane nel suo corpo e il vino nel suo Sangue, disse agli Apostoli: « Fate questo in Memoria di me » (Luc. XXII, 19). Con queste parole comunicava loro il potere di consacrare il suo corpo e il suo sangue, ma imponeva anche il dovere di ricordarsi di Lui. E in che modo se ne ricorderanno? Ce lo spiega san Paolo: « Ogni volta che mangiate questo pane e bevete questo calice, voi annunziate la morte del Signore » )I Ep. Cor. XI, 26). Bisogna dunque nella santa Messa ricordarsi di Gesù crocifisso. Ma poi non aveva forse detto il Maestro che il corpo che porgeva agli Apostoli era il suo corpo rotto, stritolato, che il suo sangue era sangue versato, Sparso per noi? Espressioni che chiaramente si riferiscono alla sua morte. La santa Messa sarà dunque innanzi tutto il memoriale della Passione, e nell’assistervi dovremo recarci in ispirito sul Calvario e rappresentarci Gesù crocifisso, Gesù agonizzante, Gesù morente per noi. Ha quindi ragione Bossuet (La Cène, I partie, XXII jour) quando, nel commentar questo passo, pone sul labbro di Gesù queste tenere parole: « Ricordatevi in eterno del dono che vi fo questa notte; ricordatevi che sono Io che ve l’ho lasciato e che feci questo testamento; che vi ho lasciato questa Pasqua; e che la mangiai con voi prima di patire. Se vi do il mio corpo come destinato ad essere consegnato, anzi come già consegnato alla morte per voi, e il mio sangue come sparso pei vostri peccati; se insomma ve lo do come vittima, e voi come vittima mangiatelo, e ricordatevi che avete qui una prova che essa venne immolata per voi ».

b) La Chiesa si dà premura di rammentarcelo nella sacra liturgia. Quando il Sacerdote sale all’altare, è vestito di paramenti sacri che richiamano alcune delle scene della Passione; e la pianeta che tutto lo avvolge, è segnata con una gran croce: è quindi un altro Gesù che sale a un nuovo Calvario. Al principio della Messa, e Spesso nel corso del santo Sacrificio, il Sacerdote fa il segno di croce ora sopra di sé, ore sulle oblate, per rammentare al popolo cristiano che la grande azione che sta celebrando è il memoriale della morte del Salvatore. Dopo avere offerto l’ostia e il calice, che già rappresentano il corpo e il sangue del divin Crocifisso, supplica la santissima Trinità di accettare quell’offerta in memoria della passione, « ob memoriam passionis ». Ma specialmente al momento della consacrazione richiama le varie circostanze che accompagnarono l’istituzione di questo Sacrificio, cominciando dal rilevare che fu istituito la vigilia della sua morte, « qui pridie quam pateretur ». Sentiamo da Bossuet (Médit, sur l’Ev., I p., XIX giorno) il commento di queste parole: « Gesù intendeva, in questo mistero, di farci presente la sua morte, di trasportarci in ispirito sul Calvario dove il suo sangue fu Sparso sgorgando a fiotti da tutte le sue vene… Perché tutto corrispondesse al suo disegno, bisognava che questo mistero fosse istituito la vigilia di quella morte cruenta, la notte stessa in cui doveva esser dato in mano dei suoi nemici, come nota san Paolo, quando Giuda, che aveva già tramato il nero suo delitto, stava per andarlo ad eseguire.… Tutte le volte dunque che assistiamo al suo mistero o che ci comunichiamo, tutte le volte che ascoltiamo le parole: « Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue », dobbiamo richiamare in quali circostanze, in quale notte, fra quali discorsi esse vennero pronunciate ». Or tutto questo intenderemo anche meglio, quando avremo veduto che la Messa non è soltanto un memoriale, ma anche una rappresentazione del Sacrificio del Calvario. »

-2°. La Messa è vivente rappresentazione del Sacrificio della Croce.

Tale è l’insegnamento della Chiesa nel Concilio di Trento: « Gesù Cristo, Dio e Signor Nostro, sebbene una volta sola doveva offrire se stesso a Dio Padre morendo sull’altare della croce, per operarvi l’eterna redenzione, nondimeno, per lasciare alla diletta sua Sposa la Chiesa un Sacrificio visibile, come la natura dell’uomo esige, col quale fosse rappresentato quel Sacrificio cruento che doveva compiersi una sola volta sulla croce, nell’ultima cena, nella notte in. cui veniva tradito, dichiarandosi Sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech, offri a Dio Padre il suo corpo e il suo sangue sotto le specie del pane e del vino; e li porse in cibo, sotto i simboli di queste stesse Cose, agli Apostoli, che costituiva allora Sacerdoti del nuovo Testamento; e con queste parole « Fate questo in Memoria di me », diede ad essi e ai loro successori nel sacerdozio il comando di offrirli: conforme sempre intese ed insegnò la Chiesa cattolica ». Troviamo in questa esposizione della fede cattolica, fatta in modo così ampio e con sentimento così profondo, specialmente tre idee che fanno al nostro argomento: a) la Messa è una ripetizione della Cena; b) la Cena fu un vero sacrificio; c) la Messa, come la Cena, è una reale rappresentazione del Sacrificio della Croce.

A) Che la santa Messa sia una ripetizione dell’ultima Cena è direttamente insegnato dal Concilio di Trento nel testo ora citato e nei canoni 1° e 2° che condannano la dottrina protestante. Afferma, infatti, il Concilio che la Messa è un vero Sacrificio; e che questo Sacrificio fu istituito nell’ultima cena quando Gesù diede agli Apostoli il potere di rifare ciò che Egli aveva allora fatto. Onde la Cena è veramente la prima Messa, celebrata da Nostro Signore, Messa che gli Apostoli e i loro successori diranno ogni giorno ripetendo le parole del Sommo Sacerdote. È cosa del resto che risulta dalla narrazione evangelica e dalle parole del Canone. Che fa Gesù nell’ultima Cena? Giunta l’ora, si pone a mensa coi dodici Apostoli. Terminato il solenne banchetto pasquale, prende del pane, e, rese grazie a Dio, lo spezza e lo distribuisce agli Apostoli dicendo: « Questo è il mio corpo che è dato per voi: fate questo in memoria di me ». Lo stesso fa del calice : « Questo è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza, Sparso per molti in remissione dei peccati ». Orbene e non rifà la stessa cosa il Sacerdote ogni giorno nel canone della Messa? Ripete le parole stesse di Nostro Signore; cangia in nome suo il pane nel corpo e il vino nel sangue di Cristo, e offre a Dio quest’ostia pura, santa e immacolata. È una vera ripetizione della Cena, abbiamo sull’altare il Sacrificio offerto nel Cenacolo.

B) Infatti la Cena fu un vero Sacrificio. È ciò che insegna il Concilio di Trento nel testo citato più sopra, e anche ciò che si ricava dalla narrazione evangelica. Nel Vangelo la Cena tiene immediatamente dietro al banchetto pasquale e ne prende il posto: l’agnello che i Giudei immolavano non era se non il simbolo del vero Agnello di Dio che viene ad immolarsi per cancellare i peccati del mondo. Quest’Agnello sarà cruentamente immolato sulla croce soltanto il giorno dopo, è vero, ma nella Cena viene già offerto e immolato incruentamente come vittima previamente consacrata alla morte cruenta; ecco perché Gesù adopra espressioni che indicano lo stato di vittima in cui pone il suo corpo e il suo sangue: mangiate, è il mio corpo dato per voi; bevete, è il mio sangue versato per voi. Nel testo greco i verbi sono al presente, non al futuro; quindi fin da quel momento Gesù si offre vittima, liberamente accettando la morte che gli sarà inflitta il giorno appresso; immola in modo mistico la vittima che il dimani sarà immolata in modo cruento: la sua vita più non gli appartiene, l’ha ormai data per la salute del mondo. In ciò si vede che Gesù è sacerdote secondo l’ordine e il rito di Melchisedech: Melchisedech aveva offerto in sacrificio a Dio del pane e del vino; Gesù, nell’ultima cena, offre se stesso sotto le specie del pane e del vino, e diviene così Sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech, come molti secoli prima aveva predetto il Salmista (Ps. CIX, 4). La Cena è dunque un vero Sacrificio; onde la Messa, che ne è la ripetizione, è anch’essa, secondo l’autorevole insegnamento del Concilio di Trento, un vero sacrificio. Resta a vedere quali sono le relazioni che corrono tra la Cena, la Messa e il Sacrificio del Calvario.

C) La Messa è la rappresentazione reale e vivente del Sacrificio del Calvario. Sentiamo di nuovo il Concilio di Trento (Sess. XXII, c. II): « In questo divino Sacrificio, che si fa nella Messa, è contenuto e incruentamente immolato quello stesso Cristo che una sola volta offrì in modo cruento se stesso sull’altare della croce.….. Ë infatti una sola e medesima la vittima; e Colui che si offre ora per il ministero dei Sacerdoti, è quello stesso che offri allora se stesso sulla croce; la diversità sta soltanto nel modo di offrirsi ». – Deve quindi dirsi, stando alla dichiarazione del Concilio di Trento, che questi due sacrifici, pur differendo quanto al modo, si rassomigliano quanto alla sostanza. Differiscono in questo che, sulla croce, l’immolazione di Gesù fu cruenta, cioè con reale spargimento di sangue e con morte vera ed effettiva. Si rassomigliano, perché e nell’uno e nell’altro c’è lo stesso Sacerdote e la stessa Vittima.

a) C’è lo stesso Sacerdote: come già ripetutamente dicemmo, il Sommo Sacerdote della nuova Legge, anzi, a dir vero, l’unico Sacerdote, è Gesù Cristo. Nella Messa si offre, è vero, per mano dei Sacerdoti ed è ministero necessario; ma, Si noti bene, le cose non stanno così se non per un atto di libera volontà di Gesù, che volle legare la sua presenza sull’altare alla volontà e all’opera di un uomo. Il Sacerdote quindi, chi consideri l’origine del suo sacerdozio, non è Sacerdote se non in dipendenza da Cristo e non opera se non come suo rappresentante. D’altra parte, pronunciate le parole della consacrazione ed effettuatasi la transustanziazione, Gesù è veramente presente sull’altare in atto di offrirsi da sé al Padre, e l’offerta che ne fa il Sacerdote, e con lui tutta la Chiesa, non solo è associata alla sua ma anche dipendente dalla sua. Nella Messa quindi è innanzi tutto Gesù che offre se stesso; e noi suoi Sacerdoti non l’offriamo se non con Lui, per Lui, in Lui. Onde Gesù rimane, come sul Calvario, il Sacerdote del suo Sacrificio.

b) E ne è pure la Vittima: per il fatto stesso che il Sacerdote pronuncia le parole della consacrazione, il Salvatore si fa realmente presente sull’altare, nascosto sotto il velo delle sacre specie; e c’è cogli stessi sentimenti e colle stesse disposizioni che aveva sulla Croce. Vi sta adorando il Padre; confessando, come uomo, la totale Sua dipendenza da Lui; chiedendo perdono dei nostri peccati; ancora disposto, se occorresse, ad essere ubbidiente fino alla morte di croce. Avendo dunque sull’altare lo stesso Cristo con le stesse disposizioni del Calvario, abbiamo pure lo stesso Sacrificio; perché in fondo ciò che vale è prima di tutto la cosa in sé, non il modo. La cruenta immolazione del Calvario è quella che a noi fa più impressione, ma non è quella che conta di più agli occhi di Dio, il quale pregia certamente assai più i sentimenti di amore filiale e di religione profonda che indussero Gesù ad accettare un tale Sacrificio per la gloria del Padre. Per il Sacrificio visibile che Cristo voleva offrire, occorreva una manifestazione sensibile degli interni suoi sentimenti; e nulla, di certo, poteva esprimerla meglio dell’immolazione del Calvario; ma ciò che dà pregio e valore a quest’immolazione è l’amore, sono tutti i sentimenti di religione che la ispirano. « Sappiate, dice l’Olier (Cat. Crist., II, 1, 3), che in Nostro Signore, come in tutti i Cristiani sue membra, la cosa principale non è l’esterno delle opere che si vedono, ma ci che si deve maggiormente stimare è l’operazione segreta e interiore dello Spirito Santo che è l’autore e il principio di tutte le opere buone, come è anche ciò in cui Dio maggiormente si compiace. Le auguste disposizioni interiori di Gesù essendo le stesse sulla croce che sull’altare, sotto i veli del pane che sotto i veli della carne, queste noi dobbiamo pur sempre maggiormente stimare ed onorare nel sacrificio di Nostro Signore, che incominciò sulla croce e continua sui santi altari ». – Facciamo tesoro di questo pensiero per richiamarlo a tempo opportuno. Potrebbe essere che fossimo tentati di comportarci verso questa vittima che il Sacerdote leva in alto dopo la consacrazione come se fosse insensibile e morta; no, Gesù è nell’ostia perfettamente vivo, risorto, glorioso, l’anima sua però è sempre in quell’atteggiamento verso il Padre che aveva quando venne levato in croce dai carnefici.

c) Ma in che modo Gesù viene immolato sull’altare, dacché Cristo risorto non può più né patire né morire?

1) Viene immolato innanzi tutto in modo mistico, ma reale, nel senso che le parole della consacrazione, mettendone da una parte il corpo e dall’altra il sangue, rappresentano in modo reale e vivente l’immolazione del Golgota, e sarebbero in sé capaci di causarla se Cristo risorto potesse ancora morire. Ecco come spiega la cosa Bossuet: « Nella consacrazione il corpo e il sangue sono misticamente separati, perché Gesù disse separatamente: Questo è il mio corpo e questo è il mio sangue; il che esprime una viva ed efficace rappresentazione della morte violenta da Lui sofferta ». (Exposition de la doctrine catholique sur les matières de Controverses, XIII). – « Il corpo e il sangue sono Separati; si, separati, il corpo da una parte, il sangue dall’altra: la parola della consacrazione fu la spada, fu l’affilato coltello che operò questa mistica separazione. In virtù della parola, sotto le specie del pane, non vi sarebbe altro che il corpo, e sotto le specie del vino non vi sarebbe altro che il sangue; se l’uno si trova coll’altro è perché in Gesù risorto queste due cose sono ormai inseparabili, non potendo più Gesù risorto né patire né morire. Ma a imprimere su questo Gesù il carattere della morte da Lui veramente sofferta, ecco la parola della consacrazione che mette il corpo da una parte ed il sangue dall’altra, e ognuno sotto segni diversi » (Médit, sur l’Ev., La Cène, I partie, LVII jour). – Le parole della consacrazione tendono dunque direttamente, secondo Bossuet, a darci sull’altare un Cristo realmente immolato: se questo non avviene e se di fatto Cristo è tutto intiero sotto le Specie del pane e tutto intiero sotto le specie del vino, la ragione è che Egli è morto una volta per tutte e che risorto non può più morire. Ma in virtù della doppia consacrazione e della reale separazione delle specie, noi abbiamo sull’altare una vera immagine della Passione del Salvatore. Non c’è Gesù immolato in modo cruento, essendo ciò ormai impossibile, ma c’è immolato in modo mistico e sacramentale. Il che è tanto vero che il Sacerdote parla come se le specie del pane contenessero il solo corpo del Salvatore e le specie del vino il solo sangue versato. Molte sono le volte che si regola a questo modo: per esempio, prima di consumare l’Ostia santa, dice: « Il corpo di Nostro Signore Gesù Cristo custodisca l’anima mia per la vita eterna ». E parimenti, prima di bere il sacro calice, dice: « Il sangue di Nostro Signor Gesù Cristo custodisca l’anima mia per la vita eterna ».

2) Ma ciò che fa che la santa Messa sia un vero e attuale sacrificio è che Colui che si immolò sul Calvario è veramente e sostanzialmente presente sull’altare e vi si offre colle stesse disposizioni interiori di amore e di obbedienza che ebbe sulla croce. – Sull’altare abbiamo dunque sostanzialmente lo stesso Sacrificio del Calvario: vi è infatti lo stesso Sacerdote e la stessa Vittima; diverso è soltanto il modo d’immolarsi. Nel momento della consacrazione schiudonsi i cieli, Gesù discende in mezzo a noi, e si offre per le mani del Sacerdote perché Dio sia glorificato e gli uomini salvati. – Possiamo aggiungere col Padre M. de la Taille che, come la Cena fu un vero sacrificio perché offriva la vittima che doveva essere poi immolato il dimani, cosi anche la santa Messa è un vero Sacrificio perché rinnova l’offerta della Vittima già immolata sul Calvario. Queste due spiegazioni non solo non si escludono ma si compiono a vicenda. – A perfezionare il suo sacrificio Gesü si dà in cibo all’anime nostre onde incorporarci a Lui; perché la comunione è parte integrante della Messa e mirabile suo compimento.

La Messa è comunione con Gesù e con Dio.

Come sopra dicemmo, la comunione ci unisce alla Vittima, e per lei a Dio stesso. Ecco perché non ci può esser Messa senza Comunione, almeno da parte del Sacerdote; ed ecco perché il Concilio di Trento desidera che i fedeli che assistono al santo Sacrificio ricevano essi pure il corpo e il sangue di Gesù per entrare in più intima comunione col suo spirito e colla sua vita. Infatti, il fine propostosi da Nostro Signore nell’istituire l’Eucaristia è di incorporarci a Lui, perché possiamo per Lui e in Lui glorificare Dio e unirci alle tre divine Persone.

A) La Comunione ci incorpora a Gesù.

È questa la ragione per cui Gesù la istituì sotto le specie del pane e del vino e ci dice: « Prendete e mangiate, questo è il mio corpo; prendete e bevete, questo è il mio sangue ». Cibandoci del suo corpo, del suo sangue, della sua anima e della sua divinità, ci incorpora a sé, e ci dà il diritto di far nostri i sentimenti suoi, di non far più con Lui che un cuore solo e un’anima sola.

a) Quanto sia stretta quest’unione viene bellamente spiegato da Bossuet (Médit. sur l’Ev., La Cène, 1 partie, XLIX jour), il quale dice che far bene la santa Comunione significa: « Essere incorporato a Gesù Cristo, essere perfettamente unito a Lui col corpo e coll’anima, essere con Lui una stessa carne e uno stesso spirito colla consumazione di questo casto sposalizio; essere osso delle sue ossa e carne della sua carne come una sposa fedele; ma essere anche anima della sua anima, in modo che Egli disponga di tutto, del nostro corpo, della nostra anima, del nostro amore, come noi disponiamo del suo essere, in una parola, il corpo di Gesù Cristo, essergli unito membro a membro, come sono unite le membra tra loro, come sono unite tutte le membra al capo; e questo per sempre, senza mai divisione o freddezza né con lui né con alcuno dei suoi membri, bramando Egli non solo di venire in noi ma anche di dimorarvi ».

b) È pure unione permanente: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me ed io in lui » (Giov. VI, 56). Gesù rimane in noi col divino suo Spirito che opera nelle anime nostre disposizioni simili alle sue; e noi rimaniamo in Lui per una specie di Comunione spirituale che c’infonde i pensieri e i sentimenti del Salvatore.

c) È unione santificatrice, perché ci trasforma adagio adagio in altri Cristi. I nostri pensieri e i nostri giudizi si vengono a mano a Mano modificando: in cambio di giudicar delle cose secondo le massime del mondo, ne giudichiamo secondo le massime del Vangelo. La nostra volontà si conforma a quella del divino Maestro: persuasi che Egli solo è nel vero perché Sapienza eterna, non vogliamo se non ciò che vuol Lui e con Lui ripetiamo: Padre, sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra! Il nostro cuore sgombera a poco a poco da sé gli affetti egoistici e troppo sensibili, per amare generosamente, ardentemente, supremamente Colui che solo merita di essere amato. Così la Comunione compie il Sacrificio, facendoci entrare nei sentimenti della Vittima divina, rendendo i nostri corpi e le anime nostre ostie veraci che, unite all’Ostia santa per eccellenza, glorificano Dio. Anche san Paolo stimolava i primi Cristiani a offrirsi come vittime : « Vi esorto, o fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi ostia vivente, santa, a Dio gradita; che è il culto spirituale vostro » (Rom. XII, 1).

B) Unendoci a Gesù, la Comunione ci unisce a Dio, ci unisce alle tre divine Persone della santissima Trinità. Gesù infatti è il Figlio eterno di Dio, è il Verbo incarnato; in Lui troviamo le altre due Persone della santissima Trinità, perché queste divine Persone vivono l’una nell’altra. – Il Figlio di Dio non viene quindi solo nell’anima nostra, ci viene col Padre che continuamente lo genera e collo Spirito Santo che per via di amore procede dal Padre e dal Figlio. Incorporati a Cristo, siamo perciò stesso figli adottivi di Dio ed entriamo nella sua famiglia. Oh! che onore e che gaudio per noi! Si effettua a questo modo il fine inteso da Dio da tutta l’eternità, la nostra intima unione colla Divinità. Il santo Sacrificio della Messa è dunque davvero l’atto per eccellenza del culto cristiano, il centro della religione, la fonte più feconda della vita soprannaturale. Memoriale della Passione, ci trasporta sul Calvario e ci fa contemplare, mossi da compunzione e da amore, il divin Crocifisso che soffre, che agonizza, che muore per noi. Rappresentazione vera e vivente del dramma del Calvario, mette a nostra disposizione tutto il valore del Sacrificio offerto sul Golgota: uniti a Gesù, vittima immacolata, possiamo glorificar Dio come si merita, ottenere il perdono dei nostri peccati per quanto gravi, e chiedere sicuri tutte le grazie necessarie alla nostra santificazione e alla nostra salute; perché à Gesù stesso che prega per noi con gemiti inesplicabili. Comunione intima con Gesù e con Dio, ci trasforma in altri Cristi, ci rende simili al nostro divino modello e ci avvicina alla perfezione del Padre celeste. Cose che intenderemo anche meglio quando avremo meditato gli effetti del santo Sacrificio.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (21)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII “SÆPE NOS”

Il Santo Padre Leone XIII, in questa breve Enciclica, richiama il popolo cattolico irlandese, coinvolto in burrascose vicende politiche e sociali, a moderare gli animi verso i nemici della Chiesa, senza venire mai meno né ai doveri civili verso le autorità né alle esigenze della carità verso i fratelli. Parole quanto mai opportune oggi, tempo di animosità e ribellioni sociali e personali verso ogni autorità e soprattutto di quella somma Autorità divina che tutto regola secondo perfetti meccanismi ove somma si manifesta la legge della carità. Meditiamo queste espressioni di pace e di carità cristiana, espressioni che sono le medesime impiegate dal Maestro divino e dai suoi Apostoli, ripetute da tutti i suoi Vicari in terra attraverso il Magistero infallibile ed irreformabile della vera Chiesa Cattolica, contestato appunto da tutti i facinorosi adepti alle conventicole demoniache che agiscono nell’ambito sociale, politico e pseudo-religioso ben camuffati da filantropi ipocriti e lupi ingannatori in talare, pronti a sbranare le malcapitate pecorelle erranti che pensavano di affidarsi a loro per salvarsi dalla rovina del corpo e dell’anima. Seguiamo il “vero” Santo Padre, anche solo di desiderio, fortifichiamoci nella fede, studiamo giorno e notte la dottrina della Chiesa di sempre, rifuggiamo dai novatori modernisti del “novus ordo” e da chi non si introduce nell’ovile per la porta, come i falsi religiosi senza autorità, senza missione né giurisdizione canonica, i ladri e briganti del cavaliere kadosh, i sedevacantisti ed i vari cani sciolti autoreferenziati… Che la Vergine Maria, Madre di Dio, schiacci quanto prima la testa di cobra, bungari, crotali e vipere di tante specie che numerosi cercano di avvelenare coi loro morsi fatali tante ignare anime riscattate con il Sangue preziosissimo di Nostro Signore Gesù Cristo versato sulla croce.

Leone XIII
Sæpe Nos

Lettera Enciclica

Spesso, dall’atto di questo Apostolico ufficio, Noi abbiamo dedicato attenzioni e riflessioni ai vostri concittadini Cattolici: più di una volta abbiamo espresso il nostro proposito con pubbliche lettere, nelle quali è manifesto ad ognuno, senza alcun dubbio, da quali sentimenti siamo animati verso l’Irlanda. Oltre i decreti che negli anni precedenti la Sacra Congregazione di Propaganda Fide promulgò a nome Nostro sulle questioni irlandesi, parlano abbastanza chiaro le lettere che a più riprese abbiamo inviato al Nostro Venerabile Fratello Cardinale Mac-Cabe, Arcivescovo di Dublino; lo stesso si dica del discorso che abbiamo recentemente rivolto a molti cattolici della vostra nazione, dai quali abbiamo ricevuto non solo felicitazioni e voti per la Nostra salute, ma anche espressioni di gratitudine per la Nostra buona disposizione verso gli Irlandesi. Anche in questi ultimi mesi, quando si decise di innalzare in questa alma Città un tempio in onore di Patrizio, grande Apostolo degli Irlandesi, Noi abbiamo incoraggiato questo proposito con tutto il fervore dell’anima e ne favoriremo il compimento secondo le Nostre forze. – Ora, mentre perdura in Noi questo stesso paterno affetto, non possiamo tuttavia nascondere la profonda angoscia che Ci proviene dalle recenti vicende di costà. Ci riferiamo a quella inattesa concitazione degli animi, sorta all’improvviso in seguito al decreto del Santo Ufficio che nella lotta contro i nemici della Chiesa proibisce di usare quel metodo che si chiama piano di campagna e boicottaggio a cui molti avevano cominciato a far ricorso. – Ed è ancor più deplorevole il fatto che siano in gran numero coloro che si ostinano a radunare il popolo in tumultuose assemblee nelle quali si diffondono sconsiderate e pericolose opinioni, senza rispetto per l’autorità del decreto che viene travisato con fallaci interpretazioni, molto lontane dal fine cui esso realmente tende. Anzi, negano perfino che da esso derivi l’obbligo dell’obbedienza, come se la missione vera e propria della Chiesa non fosse quella di giudicare della onestà e della malvagità delle azioni umane. Un tal modo di agire si allontana parecchio dalla professione del nome Cristiano, di cui senza dubbio sono compagne le virtù della moderazione, del pudore, dell’obbedienza verso il potere legittimo. Inoltre non conviene, in una buona causa, dare l’impressione di imitare quegli uomini che pretendono di ottenere con le agitazioni ciò che chiedono senza alcun diritto. E ciò è tanto più grave in quanto Noi abbiamo esaminato con cura ogni questione per poter conoscere a fondo e senza errore la vostra situazione e i motivi delle proteste popolari. Abbiamo informatori degni di fede; abbiamo personalmente interrogato voi stessi e inoltre, lo scorso anno, Noi vi abbiamo inviato come Legato un uomo apprezzato e serio con l’incarico di ricercare con la massima diligenza la verità e di riferirla fedelmente a Noi. Per questo nostro zelo il popolo Irlandese volle renderci pubblici ringraziamenti. Non è dunque avventato chi afferma che Noi abbiamo giudicato senza un’adeguata cognizione di causa? Tanto più che abbiamo riprovato azioni che gli uomini onesti concordemente condannano, cioè tutti coloro che non sono coinvolti in codesta vostra contesa e quindi possono esaminare i fatti con più sereno giudizio. – È del pari offensivo il sospetto che la causa dell’Irlanda non Ci stia debitamente a cuore e che non Ci preoccupiamo abbastanza della condizione del vostro popolo. Al contrario, la sorte degli Irlandesi Ci colpisce assai più di chiunque altro, e nulla desideriamo maggiormente che di vederli sereni, dopo aver conseguito la pace e la prosperità dovuta e meritata. Ad essi Noi non abbiamo mai contestato il diritto di battersi per una vita migliore, ma si può sopportare che nella contesa si dia adito ai delitti? Anzi, proprio perché nell’irrompere delle passioni e degli interessi delle fazioni politiche, il lecito e l’illecito si trovano rimescolati nella stessa causa, Noi ci siamo sempre preoccupati di distinguere ciò che è onesto dal disonesto, e di distogliere i Cattolici da tutto ciò che la morale cristiana non approvava. Perciò con tempestivi suggerimenti abbiamo raccomandato agli Irlandesi di ricordare la loro fede cattolica, di non fare mai nulla che contrastasse con la normale onestà e che non fosse consentito dalla legge divina. Pertanto il recente decreto non deve essere giunto inatteso, tanto più che Voi stessi, Venerabili Fratelli, riuniti a Dublino nel 1881, avete raccomandato al Clero e al popolo di evitare ogni atto contrario all’ordine pubblico e alla carità; di non insistere nel negare a chi di diritto la restituzione di ciò che gli è dovuto; di guardarsi dal far violenza alle persone o ai beni di chicchessia o di opporre la forza alle leggi, o anche a coloro che ricoprono un incarico pubblico; di non aggregarsi in associazioni clandestine o in altre dello stesso genere. Queste raccomandazioni, ispirate a giustizia e del tutto opportune, hanno ottenuto i Nostri elogi e la Nostra approvazione. – Tuttavia, dato che il popolo era travolto e sconvolto da inveterato ardore di passioni, né mancavano coloro che ogni giorno suscitavano nuove fiammate, abbiamo compreso che occorreva formulare precetti più definiti di quelli di carattere generale che in precedenza avevamo ricordato a proposito di giustizia e di carità. Il Nostro ufficio ci proibiva di tollerare che tanti Cattolici, la cui salvezza è anzi tutto affidata a Noi, continuassero a percorrere una via lubrica e precipitosa che conduceva alla sovversione più che a un lenimento delle miserie. Occorre dunque la situazione secondo verità: l’Irlanda riconosca in quel decreto il Nostro animo ricolmo d’amore per essa e concorde nel desiderio di prosperità, poiché una causa, per quanto giusta essa sia, non incontra mai tanti ostacoli come quando è difesa con la forza e con gli oltraggi. – L’Irlanda apprenda, grazie al vostro magistero, Venerabili Fratelli, ciò che vi abbiamo scritto. Noi abbiamo fiducia che Voi, uniti, come è necessario, da idee e volontà comuni, e sorretti non solo dalla vostra ma anche dalla Nostra autorità, conseguirete i migliori risultati e specialmente quello di impedire che le tenebre delle passioni offuschino ancora la facoltà di distinguere il vero e soprattutto che i sobillatori del popolo si pentano di aver agito in modo temerario. Siccome sono molti coloro che sembrano cercare pretesti per sfuggire ai doveri, anche i più elementari, fate in modo di non concedere spazio all’ambiguità circa l’efficacia di quel decreto. Comprendano tutti che non è assolutamente lecito adottare una linea di condotta che Noi abbiamo interdetta. Cerchino tutti, onestamente, beni onesti, e soprattutto, come si addice ai Cristiani, serbando intatte la giustizia e l’obbedienza alla Sede Apostolica: in queste virtù l’Irlanda ha trovato in ogni tempo conforto e forza d’animo. – Frattanto, come auspicio di celesti doni e come testimonianza del Nostro affetto, a Voi, Venerabili Fratelli, al Clero e al popolo Irlandese, con grande amore nel Signore impartiamo l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 24 giugno 1888, nell’anno undicesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA VI DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA VI DOPO PENTECOSTE (2022)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Un solo pensiero domina tutta la liturgia di questo giorno: bisogna distruggere in noi il peccato con profondo pentimento e chiedere a Dio di darci la forza per non ricadervi. Il Battesimo ci ha fatto morire al peccato e l’Eucarestia ci dà la forza divina necessaria per perseverare nel cammino della virtù. La Chiesa, ancora tutta compenetrata del ricordo di questi due Sacramenti che ha conferito a Pasqua e a Pentecoste, ama parlarne anche « nel Tempo dopo Pentecoste ». – Le lezioni del 7° Notturno, quali si leggono nel Breviario, raccontano, sotto la forma di apologo, la gravità della colpa commessa da David. Per quanto pio egli fosse, questo grande Re aveva lasciato entrare il peccato nel suo cuore. Volendo sposare una giovane donna di grande bellezza, di nome Bethsabea, aveva ordinato di mandare il marito di lei Uria, nel più forte del combattimento contro gli Ammoniti, affinché restasse ucciso. Così sbarazzatosi in questo modo di lui, sposò Bethsabea che da lui già aveva concepito un figlio. Il Signore mandò il profeta Nathan a dirgli: « Vi erano due uomini nella città, uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva pecore e buoi in gran numero, il povero non aveva assolutamente nulla fuori di una piccola pecorella, che aveva acquistata e allevata, e che era cresciuta presso di lui insieme con i suoi figli, mangiando il suo pane, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno: essa era per lui come una figlia. Ma essendo venuto un forestiero dal ricco, questi, non volendo sacrificare nemmeno una pecora del suo gregge per imbandire un banchetto al suo ospite, rapì la pecora del povero e la fece servire a tavola ». David sdegnatosi, esclamò: « Come è vero che il Signore è vivo, questo uomo merita la morte ». Allora Nathan disse: « Quest’uomo sei tu, poiché hai preso la moglie di Uria per farla tua sposa, mentre potevi sceglierti una sposa fra le giovani figlie d’Israele. Pertanto, dice il Signore, io susciterò dalla tua stessa famiglia (Assalonne) una disgrazia contro di te ». David, allora, pentitosi, disse: Nathan: « Ho peccato contro il Signore ». Nathan riprese: « Poiché sei pentito il Signore ti perdona; tu non morrai. Ma ecco il castigo: il figlio che ti è nato, morrà ». Qualche tempo dopo infatti il fanciullo morì. E David umiliato e pentito andò a prostrarsi nella casa del Signore e cantò cantici di penitenza (Com.). « David, questo re cosi grande e potente, dice S. Ambrogio, non può mantenere in sé neppure per breve tempo il peccato che pesa sulla sua coscienza: ma con una pronta confessione, e con immenso rimorso, confessa il suo peccato al Signore. Così il Signore, dinanzi a tanto dolore, gli perdonò. Invece gli uomini, quando i Sacerdoti hanno occasione di rimproverarli, aggravano il loro peccato cercando di negarlo o di scusarlo; e commettono una colpa più grave, proprio là dove avrebbero dovuto rialzarsi. Ma i Santi del Signore, che ardono dal desiderio di continuare il santo combattimento e di terminare santamente la vita, se per caso peccano, più per la fragilità della carne che per deliberazione di peccato, si rialzano più ardenti alla corsa e, stimolati dalla vergogna della caduta la riparano coi più rudi combattimenti; cosicché la loro caduta invece d’essere stata causa di ritardo non ha fatto altro che spronarli e farli avanzare più celermente » (2° Nott.). Da ciò si comprende la scelta dell’Epistola nella quale S. Paolo parla della nostra morte al peccato. Nel Battesimo siamo stati seppelliti con Cristo, la nostra vecchia umanità è stata crocifissa con Lui perché noi morissimo al peccato. E come Gesù dopo la risurrezione è uscito dalla tomba, così noi dobbiamo camminare per una nuova via, vivere per Dio in Gesù Cristo (Ep.). E qualora avessimo la disgrazia di ricadere nel peccato, bisogna domandare a Dio la grazia di esserci propizio e di liberarcene (V. dell’Intr., Crad., All., Secr.), ridonandoci la grazia dello Spirito Santo, poiché da Lui parte ogni dono perfetto (Oraz.). Poi bisogna accostarci all’altare (Com.) per ricevervi l’Eucaristia la cui virtù divina ci fortificherà contro i nostri nemici (Postcom.) e ci manterrà nel fervore della pietà (Oraz.), poiché il Signore è la forza del suo popolo che lo condurrà per sempre (Intr.). Per questo la Chiesa ha scelto per Vangelo la narrazione della moltiplicazione dei pani, figura dell’Eucaristia, che è il nostro viatico. La Comunione, identificandosi con la vittima del Calvario, non solamente perfeziona in noi gli effetti del Battesimo, facendoci morire con Gesù al peccato, ma ci fa trovare al santo banchetto la forza che ci è necessaria per non ricadere nel peccato e per « consolidare i nostri passi nei sentieri del Signore » (Offert.). E in questo senso S. Ambrogio, commenta questo Vangelo. Cristo disse: « Io non voglio rimandarli digiuni per paura che essi muoiano per via. Il Signore pieno di bontà sostiene le forze; se qualcuno soccomberà non sarà per causa del Signore Gesù, ma per causa di se stesso. Il Signore pone in noi elementi fortificanti; il suo alimento è la forza, il suo alimento è il vigore. Così, se per vostra negligenza, avete voi perduta la forza che avete ricevuta, non dovete incolpare gli alimenti celesti che non mancano, ma voi stessi. Infatti Elia, quando stava per soccombere, non camminò per quaranta giorni ancora, avendo ricevuto il cibo da un Angelo? Se voi avete conservato il cibo ricevuto, camminerete per quarant’anni e uscirete dalla terra d’Egitto per giungere alla terra immensa che Dio ha promesso ai nostri Padri.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVII: 8-9 Dóminus fortitudo plebis suæ, et protéctor salutárium Christi sui est: salvum fac pópulum tuum, Dómine, et benedic hereditáti tuæ, et rege eos usque in sæculum.

[Il Signore è la forza del suo popolo, e presidio salutare per il suo Unto: salva, o Signore, il tuo popolo, e benedici i tuoi figli, e govérnali fino alla fine dei secoli.]

Ps XXVII: 1 Ad te, Dómine, clamábo, Deus meus, ne síleas a me: ne quando táceas a me, et assimilábor descendéntibus in lacum.

[O Signore, Te invoco, o mio Dio: non startene muto con me, perché col tuo silenzio io non assomigli a coloro che discendono nella tomba.]

Dóminus fortitudo plebis suæ, et protéctor salutárium Christi sui est: salvum fac pópulum tuum, Dómine, et benedic hereditáti tuæ, et rege eos usque in sæculum.

[Il Signore è la forza del suo popolo, e presidio salutare per il suo Unto: salva, o Signore, il tuo popolo, e benedici i tuoi figli, e govérnali fino alla fine dei secoli.]

Oratio

Orémus.

Deus virtútum, cujus est totum quod est óptimum: ínsere pectóribus nostris amórem tui nóminis, et præsta in nobis religiónis augméntum; ut, quæ sunt bona, nútrias, ac pietátis stúdio, quæ sunt nutríta, custódias.

[O Dio onnipotente, cui appartiene tutto quanto è ottimo: infondi nei nostri cuori l’amore del tuo nome, e accresci in noi la virtú della religione; affinché quanto di buono è in noi Tu lo nutra e, con la pratica della pietà, conservi quanto hai nutrito.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom. VI: 3-11

“Fratres: Quicúmque baptizáti sumus in Christo Jesu, in morte ipsíus baptizáti sumus. Consepúlti enim sumus cum illo per baptísmum in mortem: ut, quómodo Christus surréxit a mórtuis per glóriam Patris, ita et nos in novitáte vitæ ambulémus. Si enim complantáti facti sumus similitúdini mortis ejus: simul et resurrectiónis érimus. Hoc sciéntes, quia vetus homo noster simul crucifíxus est: ut destruátur corpus peccáti, et ultra non serviámus peccáto. Qui enim mórtuus est, justificátus est a peccáto. Si autem mórtui sumus cum Christo: crédimus, quia simul étiam vivémus cum Christo: sciéntes, quod Christus resurgens ex mórtuis, jam non móritur, mors illi ultra non dominábitur. Quod enim mórtuus est peccáto, mórtuus est semel: quod autem vivit, vivit Deo. Ita et vos existimáte, vos mórtuos quidem esse peccáto, vivéntes autem Deo, in Christo Jesu, Dómino nostro”.

[“Fratelli, quanti siamo stati battezzati in Gesù Cristo, siamo stati battezzati nella morte di Lui. Per il battesimo siamo stati, dunque, sepolti con Lui nella morte; affinché a quel modo che Gesù Cristo risuscitò dalla morte, mediante la gloria del Padre, così, anche noi viviamo una nuova vita. Infatti, se siamo stati innestati a Lui per la somiglianza della sua morte, lo saremo anche per quella della resurrezione; ben sapendo che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso in Lui, affinché il corpo del peccato fosse distrutto, sicché non serviamo più al peccato. Ora, se siamo morti con Cristo crediamo che vivremo pure con Cristo; perché sappiamo che Cristo risuscitato da morte non muore più: la morte non ha più dominio su di Lui. La sua morte fu una morte al peccato una volta per sempre; e la sua vita la vive a Dio. Alla stessa guisa, anche voi consideratevi morti al peccato e viventi a Dio in Cristo Gesù Signor nostro”.]

NOVITÀ MONDANA E NOVITA’ CRISTIANA.

La novità è una delle sollecitudini, potremmo anche dire delle manie del giorno. Dalla donna vana, che cerca la novità della moda, al letterato ambizioso che cerca la novità dell’arte, all’uomo grave che vuole la novità in politica, novità si vuole su tutta la linea. Povere cose vecchie! e come siete: screditate oggi! e come diventate vecchie e spregevoli rapidamente! Il Cristianesimo ha l’aria di non assecondare troppo questi fremiti di novità, queste ansie per la novità, il Cristianesimo colla santa immutabilità dei suoi dogmi, il Cristianesimo con la forza delle sue vetuste tradizioni. Qualcuno lo dipinge volentieri per metterlo alla berlina, tutto volto al passato, imbalsamatore di cadaveri. E certo il Cristianesimo non folleggia, come il mondo irrequieto, dietro la novità e le novità. Il mondo ha la mania di correre, muoversi, agitarsi, come un epilettoide: il mondo… il Cristianesimo, pacato senza essere ozioso, ha la preoccupazione ben più sacra di arrivare. Il suo ideale non è il nuovo, è il vero, è il bene. Diversità di temperamenti e di orientazioni. Ma nella epistola di quest’oggi ai Romani troviamo una frase che mostra la unilateralità di quella rappresentazione arcaica, la cui mercè altri vorrebbe far onta al Cristianesimo. « Camminiamo (dice San Paolo ai primi Cristiani) nella novità della vita… morti a ciò che c’è in noi di vecchio e di stantio…» La parola di San Paolo ci riporta per incanto ai giorni in cui il Vangelo apparve e fu una grande novità nel mondo… Novità assoluta, profonda di fronte al mondo pagano, novità, non allo stesso modo e nello stesso senso, ma novità anche di fronte al mondo giudaico. Aria nuova che irrompe in un ambiente chiuso parve il Vangelo ai Giudei, aria nuova in un ambiente chiuso, mefitico, così parve ai pagani il Vangelo. Novità la stessa unità di Dio, nonché è molto più il mistero della Trinità, mistero l’amore della Incarnazione, Redenzione, cose non mai più udite, cose contrarie a quelle che si erano udite fino allora. – E nuovi sentieri tracciava questa novità ideale alla vita della umanità. L’umanità operosa da secoli, colla sua operosità, aveva scavato false strade simili a quelle carreggiate che nel fango della strada mal fatta scavano i veicoli. Erano ormai antichi quei sentieri, infossati. Si chiamavano i sentieri dell’orgoglio, della voluttà, dell’egoismo: roba consolidata dal tempo, staremmo per dire dal tempo consacrata. C’era un tipo d’uomo fatto così, orgoglioso, sensuale, egoista, violento. Il Cristianesimo è venuto a scancellare, a disfare, a seppellire questo tipo in nome e a vantaggio d’un altro tipo, altro in tutto e per tutto altro, diverso e perciò nuovo. E nuovo perché fresco, perché vivo davvero. Questa vita d’orgoglio, di sensualità, d’egoismo, era una parvenza di vita, una illusione: febbre più che vita vera e propria. Il febbricitante non s’accorge sempre della sua febbre, non se ne accorge subito: ma a poco a poco sì: l’organismo si strugge; si fiacca. Nostro Signore Gesù è venuto ad uccidere e vivificare; uccidere quella vecchia infelicissima incrostazione di cattive consuetudini ch’era la umanità, e far vivere su quelle rovine, di quelle rovine una umanità nuova… nuova di zecca, e nuova per sempre. Noi siamo, noi dobbiamo essere questa umanità, perennemente viva e fresca, perché perennemente buona, vittoriosa del male e sul male. Il battesimo fa questa morte e questa vita nuova, ma dal battesimo in poi noi non dobbiamo invecchiare, tornando indietro, ringiovanire dobbiamo, andando avanti, andando in su « in novitate vite ambulemus ». E la nostra novità è la nostra giovinezza perenne.

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. – Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Ar.Mediolani, 1-3-1938]

Graduale

Ps LXXXIX: 13; LXXXIX: 1 Convértere, Dómine, aliquántulum, et deprecáre super servos tuos.

V. Dómine, refúgium factus es nobis, a generatióne et progénie. Allelúja, allelúja.

[Vòlgiti un po’ a noi, o Signore, e plàcati con i tuoi servi.

V. Signore, Tu sei il nostro rifugio, di generazione in generazione. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XXX: 2-3 In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me: inclína ad me aurem tuam, accélera, ut erípias me. Allelúja.

[Te, o Signore, ho sperato, ch’io non sia confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e allontanami dal male: porgi a me il tuo orecchio, affrettati a liberarmi Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Marcum.

Marc. VIII: 1-9 In illo témpore: Cum turba multa esset cum Jesu, nec haberent, quod manducárent, convocatis discípulis, ait illis: Miséreor super turbam: quia ecce jam tríduo sústinent me, nec habent quod mandúcent: et si dimísero eos jejúnos in domum suam, defícient in via: quidam enim ex eis de longe venérunt. Et respondérunt ei discípuli sui: Unde illos quis póterit hic saturáre pánibus in solitúdine? Et interrogávit eos: Quot panes habétis? Qui dixérunt: Septem. Et præcépit turbæ discúmbere super terram. Et accípiens septem panes, grátias agens fregit, et dabat discípulis suis, ut appónerent, et apposuérunt turbæ. Et habébant piscículos paucos: et ipsos benedíxit, et jussit appóni. Et manducavérunt, et saturáti sunt, et sustulérunt quod superáverat de fragméntis, septem sportas. Erant autem qui manducáverant, quasi quatuor mília: et dimísit eos.

(In quel tempo: Radunatasi molta folla attorno a Gesú, e non avendo da mangiare, egli, chiamati i discepoli, disse loro: Ho compassione di costoro, perché già da tre giorni sono con me e non hanno da mangiare; e se li rimanderò alle loro case digiuni, cadranno lungo la via, perché alcuni di essi sono venuti da lontano. E gli risposero i suoi discepoli: Come potremo saziarli di pane in questo deserto? E chiese loro: Quanti pani avete? E risposero: Sette. E comandò alla folla di sedersi a terra. E presi i sette pani, rese grazie e li spezzò e li diede ai suoi discepoli per distribuirli, ed essi li distribuirono alla folla. Ed avevano alcuni pesciolini, e benedisse anche quelli e comandò di distribuirli. E mangiarono, e si saziarono, e con i resti riempirono sette ceste. Ora, quelli che avevano mangiato erano circa quattro mila: e li congedò).

Omelia

G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956).

LA FAME DELLE TURBE

Migliaia di persone avevano seguito Gesù in un luogo deserto, lontano dall’abitato. Eran tre giorni che lo seguivano: eppure non sentivano che il desiderio di rimanere con Lui, di udire la sua parola, di imparare le opere di salvezza. Ma al terzo giorno il Signore ebbe pietà di loro: « Da tre giornate sono con me e ora non hanno di che mangiare! Se li rimandassi digiuni perirebbero nel ritorno, poiché molti sono venuti da lontano ». Ordinò allora di farli sedere tutti in terra, sull’erba verde. Ma non si trovarono che sette pani e pochi pesciolini, ed erano migliaia di bocche. Non importa: Gesù benedice quel poco che c’era e lo distribuisce. Ecco: quattro mila persone si saziano e sopravanzano sette panieri di roba. In questo episodio evangelico, più che la miracolosa moltiplicazione dei pani, ci deve stupire come le turbe per tre giorni non abbiano avuto fame che di Gesù, della sua parola, delle sue opere. Oggi invece il mondo non ha che una brama sola: arricchire e godere. I luoghi di divertimento e di traffico brulicano giorno e notte, mentre Gesù Eucaristico è abbandonato nel suo tabernacolo, mentre i sacerdoti invano ripetono le parole di Dio, mentre le opere che dànno gloria al Signore sono trascurate. Bisogna ridestare in noi la mirabile fame di quelle turbe, Fame dell’Eucaristia: perché chi non mangia di questo Cibo morrà in eterno. Fame della parola di Dio: perché non di pane materiale soltanto ha bisogno l’uomo, ma anche e soprattutto di una parola che scende dalle labbra del Signore. Fame di opere buone, perché sono l’unico tesoro che la morte non distruggerà. – 1. FAME DELL’EUCARISTIA. Nei primi decenni del sec. XV, predoni di terra e di mare avevano invaso la Groenlandia, messo a fil di spada una parte della popolazione cristiana, e il rimanente tratto in schiavitù. Tutte le chiese erano state rase al suolo e tutti i Sacerdoti uccisi. Più volte i poveri Groenlandesi avevano ricorso a Roma, dov’era Papa Innocenzo VIII, ma inutilmente. Il mare tutto all’intorno della loro inospite spiaggia s’ara agghiacciato così che da ottant’anni nessuna nave straniera aveva potuto approdare. Privi di Vescovo e di Sacerdoti, molti già avevano dimenticata la fede dei loro padri, ritornando ai vizi del paganesimo. Solo pochi avevano saputo conservarsi fedeli alla Religione. Essi avevano ritrovato un corporale, quello su cui nell’ultima Messa celebrata dall’ultimo prete groenlandese aveva riposato il Corpo del Signore. Ogni anno lo esponevano alla pubblica venerazione: intorno ad esso i vecchi tremando e piangendo pregavano, intorno ad esso le mamme conducevano i loro figliuoli perché imparassero a conoscere Gesù. Intorno ad esso, tutti si stringevano come affamati intorno a una bianca mensa su cui non era rimasto più se non il profumo della vivanda: «Signore! — esclamavano — mandaci presto il Sacerdote che consacri, dacci ancora, una volta almeno, la tua Carne da mangiare e il tuo Sangue da bere, altrimenti anche noi perderemo la fede, e morremo da pagani » (L. PASTOR, Storia dei Papi, vol. III, pagg. 448-449). – Come ci deve far meditare quest’episodio commovente! Noi abbiamo Gesù sempre vicino a noi. Eppure pensate quante chiese rimangono deserte per tutta la giornata, senz’altro segno di vita che una fiammella che trema sull’altare. Pensate al numero grande dei Cristiani che nelle città tumultuose ha dimenticato perfino di fare Pasqua. Pensate a tutti quelli che lo ricevono senza voglia, una volta all’anno, con il cuore freddo e immerso nei desideri mondani e magari peccaminosi. Pensate a tutte le volte che noi avremmo potuto riceverlo e non l’abbiamo ricevuto. Non l’abbiamo ricevuto per la pigrizia di levarci mezz’ora prima dal sonno, non l’abbiamo ricevuto per rispetto umano, temendo quasi d’apparire bigotti; non l’abbiamo ricevuto perché a Gesù preferimmo tenere in cuore quella relazione illecita, quell’affetto impuro; quel rancore vendicativo. Gli uomini non hanno più fame del Pane di vita: come faranno a vivere? – 2. FAME DELLA PAROLA DI DIO. S. Efrem, stando in orazione, sentì una voce che diceva: « Efrem, mangia ». Stupito di quel grido e non sapendo donde venisse, il santo rispose: « E che cibo mi darai? ». La voce allora aggiunse: « Va’ da Basilio: egli ti istruirà e ti porgerà il cibo eterno ». Subitamente corse in cerca del Vescovo Basilio e lo trovò in chiesa che predicava. Allora conobbe che la parola di Dio era il cibo che doveva mangiare. Come il pane materiale è necessario per sostentare il corpo, così la divina parola è necessaria per sostentare l’anima. Un’anima priva di questo spirituale alimento si consuma di fame e va miseramente a perire. Perché in tanti Cristiani la fede è illanguidita, così da far temere per la loro eterna salvezza? Perché non hanno più fame della parola di Dio. Come non si può tenere accesa una lampada senza versarci ogni giorno un po’ d’olio, così in mezzo ai pericoli del mondo è impossibile conservare la fede senza ascoltare le prediche e la spiegazione della dottrina cristiana. E senza la fede non si può né piacere a Dio né entrare in paradiso. La parola di Dio non solo è necessaria per illuminare la mente, ma anche per fortificare la nostra volontà nel bene. La terra, quando non è bagnata dall’acque isterilisce e non produce che rovi e spine; così anche il nostro cuore, quando la celeste rugiada della parola di Dio non lo fecondi più. Eppure ci sono dei Cristiani che non solo hanno dimenticato l’obbligo della dottrina cristiana, del quaresimale, delle Missioni, ma non vogliono ascoltare più nemmeno la spiegazione del Vangelietto festivo. A costoro ripeterò alcune terribili parole di s. Ilario. Mentre saliva il pulpito s’accorse che alcune persone uscivano dalla chiesa per non annoiarsi della predica che stava per fare. Egli le fermò sulla soglia e gridò: « Ora potete ben fuggir dalla Chiesa, ma un giorno non potrete più uscir dall’inferno ». – 3. FAME DI OPERE BUONE. S. Benedetto aveva preannunciato il momento della sua morte. I discepoli lo sostenevano, ed egli, levate le mani in cielo, pregando morì. Due frati in quel momento ebbero una visione: videro una via piena di molti stendardi tutta splendente; essa partiva dalla cella di Benedetto e allungandosi verso oriente attingeva il cielo. Intanto s’udì una voce dall’alto che disse: « Questa è la via che Benedetto si è preparato con le sue opere durante la vita: per essa ora ascenderà al Cielo ».  Se la morte ci colpisce quest’oggi, quali stendardi ci sarebbero sulla via dell’eternità a dir le nostre opere buone? Che cosa abbiamo fatto finora di bene? Tanta smania di riempire i granai, di mettere danari alle banche, di farci un posto più comodo nel mondo e nessuna briga di radunare qualche cosa per la vita eterna, e farci un posto nel cielo. Eppure, di tutte le cose terrene non una ci potrà confortare nel terribile momento della morte, mentre invece anche il più piccolo atto buono assumerà allora un gran valore. Dobbiamo desiderare di farci dei meriti presso il Signore, dobbiamo aver fame delle opere di giustizia e di misericordia. Voi forse vi abbandonate ai balli, ai teatri; e intanto ci sono degli orfani che muoiono di fame, e intanto c’è un missionario che vede le anime perire e non le può salvare per mancanza di mezzi. Voi forse passate la vita nei caffè, nei ritrovi, e bevete fino a sazietà e più ancora; e intanto c’è un povero vecchio infermo che desidererebbe una goccia di vino per scaldarsi le vene e non l’ha. – Voi forse tutta la domenica consumate in gite sui monti o sui laghi e poi non c’è tempo di visitare un ammalato, e di fargli dimenticare almeno per un istante la sua infelicità. Voi forse sprecate danaro e danaro in abiti sfarzosi, in feste magnifiche, in profumi, in fiori e ci sono le opere della vostra parrocchia che languiscono per mancanza di chi le sostenga. Intanto che possiamo, facciamo opere buone, che tutte le troveremo, come San Benedetto sulla splendida strada che ci condurrà alla vita eterna. Imitiamo le turbe. Cerchiamo prima Gesù; la sua parola, il suo regno, ed il pane materiale ci verrà dato per giunta. – LA PROVVIDENZA. Si studiassero i miracoli di Cristo! Ognuno vi sentirebbe la voce di Dio — dice S. Agostino, — ognuno vi troverebbe un profondo insegnamento per la sua anima. Interrogemus ipsa miracula Christi; habent enim, si intelligantur, linguam suam. Quand’è così, rivolgiamo la nostra attenzione al miracolo che oggi il Vangelo ci ricorda, e raccogliamo la voce e l’insegnamento del Signore, in esso racchiuso. Gesù si trovò circondato da moltitudine grande, che per tre giorni lo seguì bramosa d’udire ogni parola che dicesse, di vedere ogni gesto che facesse. Allora il Signore disse ai discepoli raccolti vicino a Lui: « Sentite: io ho compassione di questo popolo che da tre giorni si trattiene con me, ed ora non ha più da mangiare. Con che cuore posso io rimandarli a casa digiuni, se molti venuti da lontano cadranno sfiniti lungo la strada del ritorno?… ».— « Maestro! — obiettarono i discepoli tristemente. — Siamo nel deserto e son quattro mila bocche… ». Ma Dio non udiva nemmeno questi dubbi umani e piccini. « Ditemi: avete con voi qualcosa? ». « Sette pani e scarsi pesciolini di companatico ». Oh Cristiani, com’è buono il Signore; non ha sopportato nemmeno che stessero in piedi; e come li vide comodamente seduti all’ombra e sulla fresca erbetta, diede a ciascuno pane e pesce a sazietà. A colazione finita, si raccolsero nientemeno che sette ceste di roba avanzata. Ed ora, secondo il consiglio di S. Agostino, interroghiamo il miracolo di Cristo per sentire che insegnamento ci dà. Migliaia d’uomini che per seguire Gesù abbandonano le loro case, senza pensare al vitto e alle altre mondane faccende; un Dio che, mosso a compassione di loro, provvede miracolosamente, sovrabbondantemente alla loro fame: tutto ciò non ci predica ad alta voce che la Provvidenza c’è e che nostro indispensabile obbligo è di confidare in Lei?1. LA PROVVIDENZA C’È. Troverete moltissimi Cristiani che, fino a quando tutto va bene, se la spassano allegramente: e non riflettono che ogni loro fortuna è dono della Provvidenza. Perciò non un pensiero mai di gratitudine per il Signore, non uno sforzo di corrispondenza a tante grazie, non un’offerta… Ma lasciate che la miseria bussi alla porte della loro casa; che la disoccupazione inaridisca le fonti d’entrata; che la malattia li costringa in un letto di sofferenze per settimane lunghe, che la morte strappi a loro dintorno qualche persona cara, allora si ricorderanno tosto della Provvidenza, ma per mormorare contro di essa, ma per calunniarla, ma per bestemmiarla, ma per negarla. « La Provvidenza perché non m’aiuta? che cosa ho fatto di male da meritarmi queste tribolazioni? son io solo peccatore su questa terra? O la Provvidenza è ingiusta o non c’è… ». La Provvidenza non c’è!? credono che uno Stato non si possa possa ben governare senza la saviezza e il consiglio di uno che lo diriga; credono che una casa non possa mantenersi senza la vigilanza ed economia d’un padre di famiglia; credono che una nave non possa navigare l’oceano senza l’attenzione e la perizia del pilota; eppure affermano che il mondo — questo grande stato, questa grande famiglia, questa nave immensa che solca gli spazi — possa andare avanti così, senza Provvidenza alcuna. Ma non è a codesta gente illogica e senza coerenza, che noi andiamo a chiedere se la Provvidenza esista. Ben altri ce ne fanno testimonianza sicura e autorevole. È Giobbe, privato di terra e di casa, senza più danaro né figli, senza nemmeno la salute e l’onore, che a Sofar, uno dei tre amici venuti a trovarlo, così afferma la Provvidenza: … interroga le bestie e ti ammaestreranno, / gli uccelli dei cieli e te lo mostreranno; / parlane alla terra, ed essa ti risponderà / e te lo spiegheranno i pesci del mare. / Chi non sa che tutte queste cose / le ha fatte la mano del Signore? / Egli nel cui potere è l’anima d’ogni vivente / e lo spirito d’ogni uomo formato di carne. (Giob., XII, 7-10) – È il santo re Davide che, raccogliendo il suo popolo, diceva: « Son vecchio ormai, e dalla mia giovinezza ne sono passati degli anni!… eppure vi garantisco che un uomo giusto non lo vidi mai abbandonato, né vidi mai un suo figliuolo mendicare un tozzo di pane » (Salmo XXXVI, 25). L’amabilissimo Gesù riprese l’invito di Giobbe e interrogò le bestie della terra e gli uccelli dell’aria. « Non v’angustiate per il vostro vivere: di quel che mangerete. Né per il vostro corpo: di quel che vestirete. Guardate gli uccelli dell’aria che non seminano, né mietono, né colmano granai, eppure il Padre celeste li nutre. Pensate i gigli come crescono, eppure né lavorano, né filano: or vi dico che nemmeno Salomone, in tutta la sua splendidezza, fu vestito mai come uno di essi… « Considerate i corvi che non hanno campi né granai, e di fame non muoiono, poiché Dio li mantiene… « Del resto cinque passerette non si possono comprare sul mercato con un solo quattrino? eppure neanche una di essa è dimenticata da Dio. Non temete dunque! voi costate assai più d’infiniti passeri… « Ma io vi dico che tanta e tale è la cura della Provvidenza per voi, che i vostri capelli sono contati fino all’ultimo, e non uno vi sarà tolto dal capo senza che Dio lo sappia… ». Dio!… Nessuno ha potuto mai dubitare della sua potenza e della sua sapienza. Ma Gesù ci ha svelato che Egli è misericordiosissimo, Gesù ha voluto che noi levassimo gli occhi e le mani a Lui e lo chiamassimo: — Padre! Padre nostro che sei in cielo…. Si può ancora essere increduli della Provvidenza, se Dio è nostro Padre? C’è un padre che a suo figlio dà uno scorpione, se gli domanda un pesce? a sua figlia dà un sasso, se gli domanda un pezzo di pane? Dunque la Provvidenza c’è. – 2. AFFIDIAMOCI AD ESSA. Una volta che Santa Caterina era assai tribolata, Gesù le apparì e disse: « Tu pensa a me! Io, sollecito d’ogni tuo cruccio, penserò a te ». Ecco il segreto per metterci nelle mani della Provvidenza. Quando le croci, le disgrazie, le persecuzioni ci fanno pressura d’ogni parte, dimentichiamole per un momento e mettiamoci a pensare seriamente al Signore; a pregarlo, ad onorarlo con opere buone, ad ubbidirlo nelle sue leggi, ed Egli, che tutto può, comincerà a pensare alle nostre croci, alle disgrazie nostre, alle persecuzioni che ci tormentano. Guardate i quattromila Giudei che seguirono il Maestro nel deserto: quando si accorsero d’aver fame e di non aver pane e di essere lontani d’ogni panettiere, forse che incominciarono a temere di morir affamati, e fuggirsene indietro, a bestemmiare contro il Figlio di Dio che li aveva ingannati? No: essi pensarono solo ad ascoltare la parola di Gesù, a imparare i suoi esempi; così furono provveduti di tutto e ne sopravanzò. Se Dio è con noi, chi potrà essere contro di noi? non la fame, non la miseria, non la malattia, non la calunnia, non la morte. Ricordate del resto che alla Provvidenza sapientissima è bastato un filo di ragno per difendere un santo da frotte di omini con lancia e spada. Uditelo l’esempio di S. Felice di Nola, di cui vi gioverà, nei momenti di sfiducia, il ricordarvi! Già da tempo era cercato a morte, ed egli costretto a fuggire da un luogo all’altro, era giunto a ripararsi in un nascondiglio tra le muraglie sfasciate. Era appena entrato che sopraggiunsero i nemici; ma intanto un ragno s’era calato da una crepa e distendeva i primi fili attraverso l’ingresso del rifugio di S. Felice. « Qui è impossibile sia entrato! — esclamarono. — Non vedete come sono intatti i fili del ragno? », e passarono via. E Felice fu salvo una volta ancora. Senza una illimitata fiducia nella Provvidenza, come vi spieghereste le imprese dei santi, la loro forza, la loro serenità? S. Giovanni Crisostomo viveva abbandonato nelle braccia di Dio, come un bimbo sul seno materno. Si era fatto un motto di questo suo stato d’animo: « sia glorificato Iddio in ogni evento » e lo ripeteva con la stessa pace nei giorni più oscuri e nei più luminosi della vita. « Glorificato Iddio! » disse quando nell’entusiasmo del popolo lo consacrarono Vescovo. « Glorificato Iddio! » disse ancora quando le folle traevano al suo pulpito bramose d’ascoltarlo e gli stilografi raccoglievano velocemente ogni parola che cadesse dalla sua bocca d’oro. « Glorificato Iddio! » ripeté anche quando cacciato in esilio dalla perfida imperatrice Eudossia, volgendosi indietro vide la sua chiesa di S. Sofia, il suo palazzo ruinare in fiamme tra le urla del popolo e dei soldati. E quando, il 14 settembre 407, legato e malmenato mentre lo spingevano verso Pitio sul Mar Nero, fu sorpreso dai dolori di morte, raccolse le ultime forze e disse ancora: « Glorificato Iddio in ogni evento ». – Senza la fiducia nella Provvidenza, come S. Camillo de Lellis, S. Gerolamo Miani, S. Giovanni Bosco, il Cottolengo avrebbero potuto ricoverare e mantenerne migliaia di persone, migliaia di infelici? Leggete le loro storie: giungevano certe sere in cui il danaro mancava, il vestito mancava, la farina mancava: soltanto non mancava la fiducia nella Provvidenza. E la Provvidenza provvedeva farina, vestito, danaro. Considerate infine chi sono quelli che negano la Provvidenza: o sono i disperati incapaci di sopportare il peso della loro vita, incapaci di avere un po’ di coraggio per qualsiasi cosa buona, o sono gente che pone la propria fiducia in altri uomini. Scuotono il giogo di Dio, grande e paterno, per imporsi il giogo di omuncoli, gretti e invidiosi. Maledictus homo qui confidit in homine (Gerem., XVII, 5). – Ho serbato, in ultimo, la difficoltà più grave: quella che ciascuno di voi aveva sulla punta della lingua e m’avrebbe già rivolto fin dal principio, se l’avesse potuto. « Se la Provvidenza c’è, perché allora mi ha messo in queste angosciose circostanze? Se Dio è padre, perché non m’aiuta? ». Dici bene: Dio è padre. Anzi è madre. Ma qualche volta anche le madri, per addestrare i loro bambini, fingono di abbandonarli, correndo a rimpiattarsi in qualche luogo vicino. E il loro cuore materno freme di gioia udendosi chiamare con tanta forza d’amore dalla loro creatura spaurita, e non tardano a volare ad essa, stringendosela fortemente, levarle dagli occhi con le dita le lagrime grosse. Così, mi pare, Dio fa talvolta con noi. Si nasconde, finge di abbandonarci nella solitudine: ma i nostri gemiti spauriti fanno fremere il suo Cuore misericordiosissimo. Coraggio; noi non lo vediamo: ma ci è vicino, e non tarderà a riabbracciarci più fortemente, a rasciugarci colle sue mani onnipotenti e materne le nostre lagrime grosse. « Oh se io avessi un segno — dirà forse qualcuno di voi, — se io avessi almeno un segno che mi rassicurasse che è proprio così, sentirei la forza necessaria a portare la mia croce, aspettando in tranquillità… ». E il segno l’avete: il Crocifisso. Guardate il Crocifisso. Se il Padre che è nei cieli ha lasciato il suo Unigenito morire inchiodato per nostro amore, forse che non avrà provvidenza di noi? — LA MISERICORDIA DI DIO. Misereor super turbam. Ho compassione di questo popolo che cammina e non ha da mangiare. La Storia Sacra ci presenta spesso gli uomini stanchi in cammino. Ora sono gli Israeliti per quarant’anni vaganti verso una terra di beatitudine promessa: e Dio li sostentò di manna. Ora è il vecchio profeta perseguitato che, spossato dalla fuga, si abbandona sulla terra, sotto un albero, aspettando la morte; e Dio lo confortò con pane e con vino. E nel Vangelo, due volte le turbe sono sorprese dalla fame nel deserto: e due volte Gesù le nutre di pane e di pesce. Questa gente in viaggio verso un arduo destino è un simbolo dell’umanità che ascende verso la salute eterna. Ma nessuno vi potrebbe giungere, se Dio non avesse misericordia di noi, Consideriamo le tre espressioni più grandi di questa divina misericordia: la pazienza col peccatore; la confessione; la comunione. – 1. LA PAZIENZA DI DIO COL PECCATORE La vita del Venerabile Queriolet, contemporaneo di S. Vincenzo de’ Paoli, ne è la più bella prova: si direbbe inventata per questo se non fosse veramente testimoniata dai suoi biografi. Fino a 30 anni, quest’anima impetuosa aveva vissuto in una continua alternativa di confessioni e di peccati. Poi fu preso da un tale odio satanico contro Cristo, che partì verso Costantinopoli per farsi maomettano. Dio l’aspettava sul cammino: in una foresta di Germania fu assalito dagli assassini, che uccisi i due compagni suoi, lui pure volevano finire. Davanti alla morte Queriolet tremò e fece voto alla Vergine di convertirsi se avesse potuto scampare. E scampò. Ma non si convertì: e non avendo potuto farsi maomettano, tornò in Francia e si fece ugonotto. Ma Dio lo rincorreva come il pastore dietro all’agnello che disvia. Una notte oscura di temporale è svegliato da un fragore scrosciante; il fulmine era caduto sulla sua casa ed abbruciava il tetto e il soffitto; pioveva dentro. Queriolet balza come una belva, stringe i pugni e bestemmia. Ma Dio non è sfiduciato, non è stanco di lui, lo persegue anche quando il più umile degli uomini già si sarebbe vendicato almeno col disinteressamento. A Loudun una povera donna sconosciuta lo ferma e gli dice: « Tu hai un voto senza compimento: ti ricordi la foresta di Germania quando ti volevano finire? ». Queriolet trema come in quel giorno tra le mani dei briganti. Come mai quella donna sapeva quello che egli a nessuno aveva svelato? Forse Dio suscitava quella donna per lui? Ma Dio, dunque, aveva ancora misericordia da chiamarlo così? Questo pensiero lo vinse: finalmente. E dopo alcuni anni Queriolet, risorto per non più cadere, meraviglia tutti con le sue virtù. Quel Dio che, agli angeli caduti una sola volta, non diede perdono, ha compassione dell’uomo ogni volta che lo vede traviare. Questo pensiero vinca pure ogni nostra diffidenza: in qualsiasi foresta di peccati ci fossimo smarriti, avessimo incappato anche nel demonio assassino d’anime, torniamo a Dio, Egli ci aspetta. – 2. LA MISERICORDIA DI DIO NELLA CONFESSIONE. I poeti antichi cantavano di una fontana misteriosa che gli dei avevano largito agli uomini: la fontana della giovinezza. I vecchi, quando v’entravano, lasciavano le rughe e gli acciacchi e riuscivano brillanti di giovinezza, cinti del diadema del loro ventesimo anno. Gli ammalati pallidi e stremati riuscivano col colore e col vigore della sanità. Oh, con quanto ardore i vegliardi tremuli si volgevano indietro, dal freddo orlo della tomba, sospirando a questa fontana misteriosa. Quante volte gli inquieti infermi dal loro letto vi sospiravano! Ma invano. Questa fontana zampillava solo nella mente dei poeti e distendeva le sue acque solo nei loro carmi. Quello però che gli dei falsi non avevano saputo dare ai loro amici, il nostro Dio vero l’ha preparato per i suoi nemici. Sì, l’uomo che col peccato, diventando nemico di Dio, diventa pure vecchio, rugoso, brutto e malato, ha nella Confessione una fontana di giovinezza che facendolo amico di Dio, lo rifà giovane e brillante. I Giudei avevano molta superbia per una vasca con cinque portici, a Betsaida. Talvolta lo Spirito scendeva a commuovere lo specchio dell’acqua: chiunque si fosse allora gettato dentro nel bagno, sarebbe stato guarito da qualsiasi male. Ma Dio è stato più misericordioso con noi: ci ha dato una vasca, dove, non appena in certe rare ore, ma sempre, facilmente ci guarisce dal male del peccato: la Confessione. S. Giovanni nella sua prima lettera afferma: «Il sangue di Gesù Cristo ci lava da ogni peccato » e nell’Apocalisse dice: « Ci ha lavati dai nostri peccati nel suo sangue ». Il romanziere francese, Paolo Bourget, prima della sua conversione scriveva: « Mio Dio! se ci fosse qualche acqua salutare in cui annegare il ricordo di tutte le febbri malsane!… Ma quest’acqua non esiste ». Sì, sì! esiste. La Confessione, – 3. LA MISERICORDIA DI DIO NELLA COMUNIONE. Ci fu una volta un figliuolo, che nonostante fosse idolatrato da suo padre, pure fuggì di casa, e con i suoi amici se ne andò in terra lontana. Fuori dallo sguardo paterno, senza freno e senza ritegno, commise ogni turpitudine, e accontentò il capriccio di ogni passione. Ma in quella terra lontana passò la carestia, e quel figliuolo fu sorpreso senza un soldo e senza un pane. E dovette girare di paese in paese, stracciato, lurido, famelico, cercando un mestiere. E trovò soltanto un uomo che gli fece fare il porcaio. E quel figliuolo fuggito da una ricca casa faceva il porcaio e aveva fame: di soppiatto allungava le mani nel trogolo e rubava le ghiande. Avrebbe desiderato, riempirsi il ventre anche con le ghiande che mangiavano i porci, e nessuno glie ne dava, neppure una manata. – Un giorno che la fame lo martoriava si ricordò che nella casa del suo ricco padre c’era pane bianco: tanto pane bianco. Si ricordò che tutti, perfino i servi ne potevano mangiare a sazietà… Non ne poté più. Buttò il suo bastone in mezzo ai porci che grugnivano e fuggì attraverso i prati lanciando un grido sublime. « Basta, tornerò da mio Padre ». Cristiani! quand’anche noi fossimo fuggiti dalla paterna casa di Dio verso la città dei peccati, quand’anche avessimo riempito la nostra anima col cibo dei porci e avessimo tuffato le nostre mani nel loro trogolo, gridiamo: « Basta! ». Il pensiero del Pane che la misericordia di Dio con tanta abbondanza distribuisce nella sua casa, il pensiero di questo Pane, che solo ci può sfamare, ci spinga ritornare sopra un via di santità e di purezza. Dio ci aspetta nella Comunione: nella Comunione che è il segno supremo del suo amore. Nella Comunione ha voluto rimanere con noi: « le mie delizie sono tra i figli dell’uomo ». Nella Comunione ha voluto sacrificare tutto per noi: la sua gloria divina, la sua maestà umana. E da infinito si fece piccolo come un boccone di pane. Nella Comunione ha voluto darci da mangiare la sua carne e da bere il suo sangue. – Meditando la misericordia di Dio, S. Caterina esclamava: « Oh, s’io potessi salire la vetta più eccelsa e di là gridare a tutto il mondo addormentato nei peccati: — O uomini! l’Amore non è amato! — ». Davvero. L’amore di Dio è troppo spesso un pretesto per abusare. E si abusa della sua pazienza, della Confessione e della Comunione.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps XVI: 5; XVI: 6-7 Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine.

[Rendi fermi i miei passi sui tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino: porgi l’orecchio ed esaudisci la mia preghiera: fa risplendere le tue misericordie, o Signore, Tu che salvi quelli che sperano in Te.]

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, et has pópuli tui oblatiónes benígnus assúme: et, ut nullíus sit írritum votum, nullíus vácua postulátio, præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche, e accogli benigno queste oblazioni del tuo popolo; e, affinché di nessuno siano inutili i voti e vane le preghiere, concedi che quanto fiduciosamente domandiamo realmente lo conseguiamo.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXVI: 6 Circuíbo et immolábo in tabernáculo ejus hóstiam jubilatiónis: cantábo et psalmum dicam Dómino.

[Circonderò, e immolerò sul suo tabernacolo un sacrificio di giubilo: canterò e inneggerò al Signore].

Postcommunio

Orémus.

Repléti sumus, Dómine, munéribus tuis: tríbue, quæsumus; ut eórum et mundémur efféctu et muniámur auxílio.

[Colmàti, o Signore, dei tuoi doni, concédici, Te ne preghiamo, che siamo mondati per opera loro e siamo difesi per il loro aiuto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (211)

LO SCUDO DELLA FEDE (211)

LA VERITÀ CATTOLICA (IX)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. E libr. Sales. 1878

ISTRUZIONE IX

L’uomo

Siamo creati da Dio, che ci ama da padre; e siamo creati, per conoscerlo, amarlo, per adorare insomma il Creatore, il Padre, il Sommo Bene che è Dio, e per essere con Lui beati per sempre in Paradiso. Ecco tutto quello che ci debba più importar di sapere; questo è il principio della vera sapienza. La ragione nostra, contenta di aversi sentito a dire dalla cara parola di Dio che il Signore creò tutte le cose nel mondo, per sua bontà, per avere poi noi sempre con Lui felici, allarga il cuore consolandosi di questa speranza, che poi infine è poi tutta la grande nostra speranza. Ben potrei dirvi qui: o figliuoli, andate là, conservatevi sempre nel cuore questa gran verità di Dio. Non ci resta che attaccarci a Gesù Cristo, Figliuol di Dio, che, come vi ho detto, si è fatto uomo e morì sulla croce, per condurci salvi con Dio. Viviamo secondo la sua santa legge: e in tutto quello che facciamo nella nostra vita diamo gloria a Dio, che vuole usarci tanta misericordia. Ma ahi, che alcuni disgraziati, abbandonato Iddio che è benedetto in eterno, come il demonio, si arrabattono per strascinare anche noi col demonio lontani da Dio! Non par da credersi, ma è pur troppo vero, gli svergognati!… tentano di darci d’intendere, che veniam dalle bestie noi! e ci vorrebbero avvoltolare nel fango con loro. – Oh i tristi! non pensano che ci renderebbero troppo più miserabili delle bestie istesse; perché, almeno le bestie non conoscendo niente, non si trovano disperate alla morte. Ma noi uomini!… senza Dio in vita!… ma noi uomini… senza Dio poi nella morte!… Ah Gesù benedetto, salvate me e questi miei cari figliuoli dalla disperazione di morir senza fede in Voi! Noi sì, noi vogliamo morire nel bacio del vostro amore! E Voi con quella parola che vien dai palpiti del Vostro cuore, fatemi spiegar chiaramente, quanto sia contro la fede, contro la ragione, contro il buon senso, il dir che la terra si sia da se sola trasmutata in piante, che le piante si siano poi mutate in animali, e che gli animali si siano cambiati in uomini. Oh Maria nostra Madre benedetta, ma sentite, che tenterebber di farci!…. Eh vorrebbero strapparci via da Gesù nostro che vuol condurci con Voi al Padre in Cielo, e buttarci giù colle bestie nel fango, e mandarci a perdere in vita bestiale! – E voi, o figliuoli, fissatevi ben in mente ciò che io voglio dimostrarvi, cioè che Dio, creato il mondo, le piante e gli animali, creò noi superiori a tutte le creature in terra ad immagine sua per servirlo in terra, e poi per averci seco beati in Paradiso. Fatemi grazia a ripeterlo (si fan ripetere) vi ho da dimostrare che Dio creato il mondo; le piante, gli animali, creò noi superiori ecc. Intanto ascoltatemi con attenzione, perché qui si tratta d’imparare a difendere le nostre persone contro questi nemici del genere umano, che tentano di farci il più indegno insulto, col confonderci colle bestie, e farci imbestiare con quelle. Io vi ho già spiegato nella istruzione precedente come Dio creata e disposta la terra, per mantenere in essa tutte le creature terrene, creò poi le piante e gli animali. Ma lì per creare l’uomo, per farci intendere come l’uomo è tutt’altra creatura ben diversa dalle altre tutte, e come le altre cose create in terra sono anzi ordinate per l’uomo, prima di crearlo (per parlare umanamente), Dio Stesso sì consigliò col Figliuol suo e coll’Eterno Amore, lo Spirito Santo col dire « Ora che son create tutte queste cose, facciamo l’uomo che comandi a loro; ma facciamolo ad immagine e somiglianza nostra – faciamus hominem ad immaginem et similitudinem mostram, quasidire « egli creato così, ci conoscerà, eseguirà i nostricomandi; e Noi ammetteremo lui servo fedele, agodere della nostra eterna felicità. »Per questo, tutt’altro che confonderci colle bestie,e farci dell’istessa natura, ci creò anzi ad immaginesua per poter Egli amar Noi, come padre; e noi amare Lui, come i figli amano naturalmente i padri loro. Quindi ci collocò in mezzo di questo mondo di cose, da Lui preparate, come un padre colloca i suoi figliuoli in mezzo ai possedimenti suoi che provvide per loro. Volendo poi Egli che noi le governassimo vivendo secondo la sua santa volontà, la quale fu tanto buono di farci conoscere, ci mise in mezzo a questo visibilio di creature terrene e senza ragione; quindi per metterci in relazione a trattare con loro, ci diede il corpo; ma poi ci diede l’anima ragionevole, per innalzarci a trattare con Lui e rendergli onore e gloria, e adorazione in nome ditutto. Onde noi pel corpo camminiamo coi piedi in terra; ma coll’anima siam destinati a comunicare con Dio in cielo. Siamo, è vero, grevi qui col peso del corpo materiale attaccati alla terra; ma coll’anima nostra spirituale voliam oltre le basse cose del mondo, liberi e ragionevoli, come gli Angioli, capaci con essi ad amare il sommo bene Iddio in Cielo. Così tutte noi creature insieme, cominciando dai granelli di polvere (atomi) e salendo su sempre le une sopra le altre, fino a’ più grandi Angioli Serafini in Cielo, formiamo una gran catena, che dal più basso della terra, arriva fino a’ piedi del Trono dell’altissimo Iddio. Su, su, dunque noi di grado in grado, su dal tempo all’eternità sempre a lodare, ad amare la somma bontà di Dio. Ah via da noi la brutta gente, che ci vuol gettar giù a vivere, come le bestie. E per tutta ragione ci dicono che siam simili agli animali. Ben è vero che tutte le creature hanno una certa somiglianza fra di loro; ma restano divisi in ordini diversi nella diversa natura lor propria: si avvicinano, dirò così, tra di loro per somiglianza; ma si allontanano per l’essere lor naturale tutto diverso. Quindi non si mischiano mai, né si confondono da cambiarsi le une nelle altre di specie di diversa classe. E siccome abbiamo detto che tutte le creature formano come una catena; bene appunto, come gli anelli di una catena avvicinandosi gli uni agli altri si legano insieme, ma non sì confondano; così le diverse specie di creature si trovan vicine, si aiutano, si sostengono le une colle altre, sempre distinte e diverse fra loro: sicché sassi e terra la materia morta insomma non diventano mai piante: né le piante non si cambian in bestie: e tanto più poi le bestie non si trasmutano in uomini. – Ora vi spiegherò, come una classe di creature può essere simile, ma resta sempre diversa dalle creature di altra classe. Vedete difatti che le piante sono vicine alla terra, anzi vi penetran dentro, e paiono talvolta simili alla terra; ma non son terra morta, no; perché le piante sono vivaci, e germogliano altre simili piante: così gli animali hanno delle somiglianze colle piante, poiché han dentro di loro tanti fili, fibre, costole, e vene come quelle; ma non son piante, no; perché gli animali senton di vivere, vanno da loro in cerca, coll’inclinazione, che si sentono dentro, (istinto), di tutto quello che li può soddisfare. Quindi pure noi uomini abbiamo un corpo animato, come hanno gli animali; ma siam ben al tutto diversi e da loro lontani, perché abbiamo la forza della ragione da dominar sopra di loro. Sicché al considerarci tanto superiori a quelli, noi siamo obbligati ad esclamare « Oh! Signore, quanto è ammirabile la vostra bontà con noi! – Domine quam admirabile est Nomen tuum: Voi avete assoggettate  a’ nostri piedi tutte le creature della terra, e poco men che gli Angioli ci avete innalzati verso il Cielo; minuisti paulo minus ab Angelis (Psal. VIII.). Eh noi, collocati in tanto onore da Dio, vorremmo noi lasciarci mettere insieme colle bestie brutte senza ragione? Homo cum in honore comparatus est iumentis ‘insipientibus? (Sal.) Figliuoli di bestie voi, che m’intendete per bene, spiegherò meglio e metterò sott’occhio come le creature di specie diverse e di ordini superiori possono aver somiglianza fra loro; benché sieno di tutt’altra natura. Voi forse avrete veduto come d’inverno l’umidità e i vapori gelati hanno sui vetri delle finestre la somiglianza di tanti rami, e saprete come dentro le montagne, dove si scavano i metalli, il rame, l’argento, l’oro si trovano dispersi in mezzo del sasso in forma di ramificazioni, che somigliano le piante: ma anche voi sapete però che quei giri giri di gelo sui vetri, che quei rami di metallo sparsi nelle viscere dei monti non sono né rami, né piante; poiché non hanno dentro quella forza di crescere, di vegetare, di far sementi, di germogliare altre piante simili a loro. Hanno un bel somigliare alle piante; ma sono cosa morta e non mai pianto vivaci. Ascoltate ancora: le piante hanno filamenti sottili di dentro che sembrano nervi, hanno delle vene come i corpi degli animali: e vi sono delle piante che hanno costoline e fili così sottili, che, appena toccate, restano scomposte e piegano giù le foglie, (come fa l’erba sensitiva, che si chiama sensitiva appunto, perché par che senta; benché non senta in modo alcuno) Ma perché non vi è dentro quella forza di vita animale, per cui gli animali hanno l’istinto di conservarsi, e vanno a cercare ciò che sentono che fa bene a loro, si ritirano da ciò che fa male, così mostrano di sentirsi di vivere: le piante con tutte le lor fibre e vene saran sempre piante; e non animali mai. Finalmente possono gli animali imitar le operazioni degli uomini. Lo stordo e il pappagallo possono articolare parole, altri animali fan versi e moine che somigliano agli atti degli uomini; ma perché non hanno la forza della ragione, saranno sempre bestie. Questa forza poi di germogliare nelle piante non può venire in loro dalla terra; perché la terra non l’ha; ma viene dalla parola di Dio Che le creò: questa forza degli animali di sentire ciò che vedono, toccano, fiutano, assaggiano, e di muoversi al piacer loro, non può venir dalla terra e dalle piante; perché esse non l’hanno; ma viene da Dio che li creò tali. Così questa forza della ragione per cui noi siam creati sopra gli animali e li dominiamo è una comunicazione di un Lume che viene da Dio. Sì veramente è Dio che diede all’uomo colla sua parola, che creò la potenza di eseguir quello che Egli vuole, e di comandare a tutte le creature. E fu sempre così. Mentre non vi fu mai animal così svelto, così ardito, così forte, da poter neppure tentare di assoggettare il più meschinello di uomo, a prestargli i suoi servigi. Gli uomini sempre maneggiarono le cose create secondo la lor volontà, gli uomini dominarono sempre sugli animali. –  Eppure ci vorrebbero darci d’intendere che discendiam dalle bestie!… Oh! ma voi, mi direte, chi è matto così da poterlo sognare? — Chi?… Vel dico io, per non lasciarvi ingannare. Sono uomini, che si vantano di essere sapienti, e perdono la testa, da parlar come stolti — dicentes se esse sapientes, stulti facti sunt. E siedono fin sulle cattedre delle più grandi scuole (le università), e vendono certi lor strani sogni, come fossero oro colato di prette verità da loro scoperte. E a vederli! e a sentirli! con quel loro gran fare in robone da professori, dettare in nome della scienza, stranezze da far spiritare i nostri più eletti giovani. Buon, che i giovani non sono come i paperi, i quali bevono grosso nel guazzo fangoso delle loro grandi oche. Quindi è vero che i bravi giovani danno la berta a quei venditori di favole; ma è poi anche purtroppo vero che alcuni pochi, e voi li conoscete che sono i più grami, ritornati da quelle scuole, per darsi l’aria di sapere un gran che più che la buona gente, la quale ha più giudizio di loro, pretendendo di far aprire gli occhi agli ignoranti dicono le più brutte, le più matte cose del mondo. Quasi il buon popolo non avesse, per grazia di Dio, tanto di cognizione, da non sapere distinguere gli uomini dalle bestie; si vantano di aver tanto studiato, figuratevi! fino a credersi bestie essi stessi. Per me, mi consolo con voi, benedetti figliuoli, perché venite alla dottrina; poiché fin anco quel povero incredulo di Voltaire, ci dice chiaro, che in fatto di sapere come furono create le cose, e per qual fine siamo creati noi uomini, ne sa più la vecchiarella contadina, che va tutte le feste alla dottrina del Parroco, e ne sanno di più anche i fanciulletti, che cinguettano appena il catechismo. Sì proprio, ne sanno di più di coloro che si vantano di saperlo di propria testa; i quali, se si ascoltassero, ci farebbero disperare coi loro, lasciatemi dire, spropositi da cavallo: come questo che dicono che la terra si mutò in piante; e che le piante si mutarono in animali; e poi gli animali in noi: così da trovarci poi noi uomini belli fatti dalle bestie in noi trasformate! Ebbene ecco adunque quel che insegna la dottrina cristiana: e voi lo intenderete bene; perché va tanto d’accordo colla nostra ragione. La quale ben debba restar soddisfatta nel conoscere come fummo creati noi, consolandosi dal sentirci tanto amati da Dio. Vi ricorderete che nella passata istruzione vi ho già detto, come Dio creò la terra, le piante, gli animali: ed ora per non lasciare darvi d’intendere che dalla terra vennero le piante e che dalle piante gli animali e che da loro poi nascessero gli uomini; vi dirò come è Dio Onnipotente, che creò nelle piante e negli animali la forza di produrre altre piante, altri animali della istessa natura di loro, quando disse colla sua parola: che crescessero e si moltiplicassero; ma ciascuno di essi nella loro propria specie, secondo il proprio genere: in species:… secundum genus suum; cioè secondo lanatura in cui Egli ha creato le diverse classi diloro. Dimodoché dalle piante si producessero altre piante, dagli uccelli nascessero simili uccelli, daipesci simili pesci, da tutti gli altri animali animali di simil natura. E poi già anche voi colla vostra ragione e col vostro buon senso conoscete, come vedete coll’esperienza di tutti i di, che le cipollenon producono mai cavoli, che dai cavoli non nascono serpenti, né dai serpenti nascono colombe, come da tutte bestie nascono sempre bestie della natura di quelle che le generarono. Questo sì è sempre veduto dacché mondo è mondo. Si trovano difatti negli antichi sepolcri (massime nelle montagne d’Egitto, dove si scavarono degli antichi sepolcrico sì grandi che si chiamano necropoli, cioè le città de’ morti) si trovano grani, serpenti, gatti e scimmie. Ebbene? sono proprio gli stessi grani, che ancor seminati da noi danno gli stessi grani, gli stessi serpenti, che strisciano ancor là nelle sabbie abbruciate dell’Africa, sono gli stessi gatti delle nostre cucine e le scimmie colle quattro zampe istesse, che sì arrampicano sugli alberi ai nostri dì. Le quali, si vede, che non si sognarono mal nel lunghi, almeno sei mila anni, di farsi scimmie un po’ migliori. – Ma insomma anche noi, per poco che vogliamo pensarvi, vedendo che le piante e gli animali sono così ben formati, e come dentro di loro son così ben congegnate tutte le parti, che formano i loro organi con cui possono vivere, ben conosciamo che tutto fu disposto da chi li voleva far vivere nel loro modo; cioè furono creati da Dio, che solo poté pensarle colla sua Mente Divina e colla sua Onnipotenza le poté formare. Eh si che dobbiamo esser ben certi, che la terra, per sognarsi un dì di cambiar se stessa in piante, che prima non aveva, bisognava bene che avesse pensato avanti come dovevano essere fatte le piante (figuratevi se la terra poteva pensare!): poi che le piante, per sentirsi la voglia di diventare animali, bisognava, che avessero anch’esse pensato che cosa fossero gli animali, e che avessero potuto crearli animati così, mentre esse animate non erano. Ascoltate ancora: anche gli animali poi per sentir l’ambizione di diventare uomini, sì che dovevano studiar ben la maniera di crearsi dei figliuoli un po’ migliori, e di quella bellezza, che non avevano ancora mai veduto tra quei brutti ceffi, e che inventassero delle anime le quali avessero la ragione, da mettervi dentro: perché già di ragione gli animali non seppero averne mai. Bisognava insomma che la terra, le piante, gli animali avessero una mente capace d’immaginarsi col pensiero creature al tutto nuove, diverse, e che poi avessero la forza onnipotente da poter essi crearle!….. Oh vedete disgrazia di coloro che non vogliono credere in Dio Eterno Creatore di ogni cosa! diventano matti così, da credere che la terra sia essa l’onnipotente creatore; creatori sian le piante, e creatori degli uomini, sian le bestie! non sono pazzi frenetici che hanno perduto il bene della ragione? Noi, che per grazia di Dio siamo ragionevoli ancora, facciamo il più bell’uso della ragione umana col dire insieme con tutto il genere umano « io credo in Dio Creatore del cielo e della terra. » Via adunque tante stranezze mostruose, cui si trovano ridotti ad inventare quei poveri disgraziati che non vorrebbero confessar che Dio creò noi uomini tanto superiori, come v’ho detto finora, a tutti gli animali: poiché ci creò ad immagine sua: come vi spiegherò adesso. – Vi ho già detto come Dio ci ha fatto intendere che ci voleva creare superiori a tutte le creature in terra, da comandare ad esse. Perciò volendoci creare colla ragione ad immagine sua, ci formò un corpo appunto adattato a servire all’anima ragionevole: parlerò del corpo nostro e poi dell’anima. – Anche qui Dio, per adattarsi al modo di pensare di noi, ci fa intendere come volendo creare l’uomo ragionevole gli formò, o quasi per dir così, impastò di sua mano la creta, per formare questo corpo nostro. Dio fece come un ingegnoso architetto. Questi nel costruire un grande edifizio, dispone in esso in bell’ordine tutte le membra di dentro, per servire ai bisogni di chi è destinato ad abitarlo; ma poi il bravo, di fuori in sulla facciata, coi più belli ornamenti esprime tutto il suo pensiero, e fa sì, che al solo contemplar quella, s’intenda e il fine per cui l’edificio è fabbricato, e s’indovinino le membra ben disposte di dentro: improntando così su di essa tutto il suo pensiero, e lasciandovi vedere sopra un lampo del suo genio. Così Iddio formò di terra il corpo umano facendo, che tutte le parti del corpo fossero esattamente adattate a servire ai bisogni dell’anima che pensa, che ragiona, e dispone di tradurre in atto i suoi pensieri, diversa in tutto dall’anima sensitiva degli animali. Egli lasciò in tutto in tutto quello l’impronta della sua sapienza, ma nel volto come una figura dell’Immagine sua, però la fece trasparire più viva. Contemplate di fatto come ebbe formato il corpo; in modo di stare sulla pianta de’ piedi fermo e sicuro, colla vita dritta che posa sui larghi fianchi con dignità; colle braccia snelle e le mani pronte ad eseguire i più industriosi e delicati lavori; con quella bella testa che posa con grazia sulle spalle in aria di comandare, e la gira con scioltezza a tutto d’intorno in ogni a lì per dire, che egli ha da tener d’occhio i suoi interessi per tutta la terra, e poi fare eseguire i suoi comandi a tutte le creature. Ci ha fatto poi il petto più largo in proporzione, perché il cuore dovea palpitar più forte, quanto sarebbero più vivi gli affetti dell’anima, capace di amar senza fine. Ma sul volto poi vuol che si esprima tutto che vi è dentro nell’uomo. Nel volto quegli occhi che girano inquieti sopra tutte le creature; ma per essi l’anima uscirà fuori ben sovente, come a cercare nel cielo il ben che non trova sopra la terra. Sul volto poi i più teneri sentimenti di lei ed i gravi pensieri ed i dolori di lei che non ha consolazione qui e la maestà di re della terra: mentre in quel sorriso di pudica bellezza si esprime l’anima innocente che ride in terra, come un angelo in cielo. Insomma nel volto traluce un raggio della bellezza di Dio, perché Dio v’infuse dentro ad abitarvi un’anima immagine di sé medesimo, poiché è ragionevole. Formatolo così, quando poi l’ebbe vivificato poté pigliarlo per mano, farlo sorgere in piedi, e dirgli: « piglia possesso e signoria di questo mondo che io assoggetto al tuo dominio.» – Ora vi ho da cercar di spiegarvi come l’anima è immagine di Dio e ragionevole. Dio bontà infinita voleva avere delle creature in terra, come vi ho già spiegato, le quali lo conoscessero e lo amassero; per potere amarle anch’Esso coll’amore di padre. Ora vedete ben voi come i padri amano nei figli l’immagine propria, e come sono capaci di far tutto il bene per loro, care immagini di sé medesimi; ebbene, Dio appunto creò noi uomini proprio ad immagine sua, per amarci, come il padre ama i suoi figliuoli. Fa Iddio di noi come tanti ritratti di Sé, piccole immagini, e come in miniatura; ma veri ritratti, che al possibile in qualche modo gli somigliamo. Ora vi spiegherò alla meglio come siamo creati somiglianti a Dio. Come nella piccolissima pupilla dell’occhio umano si vedono in piccolo tutte le cose dell’orizzonte, e fino una parte del cielo di sopra; così nell’anima, quale è creata da Dio si vede un’immagine proprio sua, e fino una somiglianza degli attributi di Lui. Difatti Dio è un Lume Eterno che conosce Se Stesso; e noi abbiam le anime, che conoscono anch’esse. Creandole par dica Iddio « creature mie, voi mi conoscete colla ragione in qualche modo, almen che Io sono: ebbene, cercatemi, che Io mi vi lascerò trovare; diliges Dominum ex tota mente tua » Dio è una Volontà benevolissima, é tutto amore eterno: ebbene Dio ci ha creati capaci d’amare, e par che ci dica « amatemi, che io vi amerò ». Dio fa tutto colla sua santa volontà, a sua libera elezione; ebbene Dio nel crearci, affinché gli diamo la prova di amarlo di buona volontà, ci mise in mezzo a queste cose create, che domandano anch’esse di essere da noi amate; onde noi dicessimo alle creature « tacete, tacete perché noi più che voi, vogliamo amare Iddio, l’amiam più di tutto, più di noi stessi; poiché Egli è il Sommo Bene diliges ex toto corde tuo ». Dio è somma Giustizia, e ci dice« siate giusti; perché, se non siete giusti, non possoamarvi: » e noi per essere giusti, dobbiamo amare più Dio, che lo merita più che tutte le creature.Ma io voglio dirvi qui ciò, che veramente deve farci tremare il cuore della tenerezza più viva. Voi lo sapete che Dio è così grande nella sua Divina Bontà da amarci tanto, fino a farsi uomo e morire per noi. Ebbene anche in questo ha voluto che l’anima nostra gli rendesse immagine della sua bontà. Poiché quando colla grazia sua divina conosciam Dio che merita d’essere stimato, d’essere amato infinitamente, più di noi medesimi: pere ssere giusti verso di Lui, lo vogliamo amare ditanto amore, da voler morire e dare la vita per provache l’amiam più di noi medesimi!…. Ora potremo capire un poco come Dio creandoci con tanta bontà così, ci debba dire (lasciatemi parlar così col cuore n mano) « creature del mio amore, care immaginette di Me Medesimo, figliuoli miei, la mia bontà divina non è contenta mai, per vostro riguardo, finché Io non vi avrò a vivere con me beati in Paradiso ». Ma come potrete farlo, o Signore?… E Diorisponde: « V’immergerò nella mia beatitudine infinita, eterna, vi darò tutto Me Stesso, Ego ero merces tua ». Ecco adunque che siam creati ragionevoli, cioè coll’anima capace di conoscere, di amare e di essere beati con Dio: ah maledetta la bestemmia che troppo insulta Dio ed insulta noi creati che siamo come figliuoli di Dio, capaci d’imitarlo nella sua bontà, destinati a vivere eternamente con Dio, maledetta a bestemmia, che ci dice figliuoli di bestie! No: gli uomini non soffrirono mai un insulto peggiordi questo di sentirci a dire figliuoli di bestie. AImeno i pagani, benchè, meschinelli! non adorassero il vero Dio tutt’altro, che far bestia l’uomo, volevano dell’uomo fare un dio; e quando volevano adorare il dio della bellezza dicevano che quel dio era una bella creatura umana: e quando poi volevano figurarlo, non scolpivano l’immagine d’una brutta scimmia, no; ma scolpivano un’immagine di persona umana risplendente di tale bellezza, che per loro pareva divina. Quando poi essi volevano rappresentare il dio re del loro cielo, non scolpivano un gran bestione, no!….; ma si scolpivano nel Giove di Fidia un uomo sfavillante di un lampo di bellezza ancora che pur pareva divina. Adunque anche i poveri pagani credevano anch’essi, o almeno avevano un sentore, che I’uomo creato da Dio rappresentava l’immagine di Dio Stesso. E noi Cristiani abbiam da star lì tranquilli e senza sdegno a sentirci dire, che noi siamo le più grandi bestie? Ah costoro che non vogliono intendere, che noi uomini ragionevoli capaci di essere amati come figliuoli da Dio, costoro sì, che meritano di esser chiamati, come li chiama s. Paolo uomini animali: animalis homo non percipit quæ Dei sunt.Deh! facciamo almeno il viso dell’armi, e vogliodire, ributtiamo da noi questi indegni bestemmiatori; e se li sentiamo abbaiarci appresso tali bestialità, corriamo a coprire le venerate immagini deinostri Santi; affinché non vi mettano su il grugnoquesti uomini imbestiati, ad insudiciarle della loro orrida bava! Deh, che s. Luigi Gonzaga, quell’angelo in carne, com’era, non si senta dire che egliè figliuolo dello schifoso macaco! Deh, che quella grand’anima di s. Carlo Borromeo tutto carità,com’era, immagine della bontà di Dio, non si senta dire che egli è figliuolo di quell’orsaccio di orangotano! Deh che quelle angeli che vergini sante,Agnese, Cecilia, Catterina e Rosa, fiori del Paradiso che spuntarono su questa aiuola della terra innaffiate dal Sangue di Gesù Cristo, non si sentano dire che sono sorelle carnali di quel mostro di scimpanzè,che fa orrore a vederlo! E quelle sante Margherita ed Elisabetta, care madri dei poveri e tutti i santi immagini viventi di Dio, che Egli fece veder sulla terra nella sua misericordia, per guidarci col loro esempio per mano dove ci aspettano in Paradiso, deh deh che non si sentano a dire di Paradiso che esse sono carne d’ossa dei feroci gorilla, che hanno il grugno di jena! Eh noi figliuoli di questi orrendi mostri? ah no! Dio li ha fatti troppo brutti e schifosi e troppo orrendi, per avvisare noi, che noi siamo da loro al tutto diversi, e che le dobbiamo sdegnosamente ributtare lontane da noi come brutte bestie; mentre noi siamo immagini viventi di Dio. Noi, che abbiamo, come figliuola di nostra famiglia, e per madre dell’anime nostre, Maria. Oh Madre benedetta Maria, la più bella immagine del Ss. Iddio in persona umana! Certo che pensava a voi il Creatore Iddio, quando impastava, per dir così, la creta da formare il corpo umano da infondervi poi l’anima ragionevole, e così creare l’uomo ad immagine di Sé Medesimo. – Dio fin d’allora nel principio del tempo contemplava Voi, che sareste nata Immacolata, e si compiaceva di Voi, come dell’opera sua più bella in figliuola dell’uomo. Noi pensiamo che Dio dicesse « questa creatura sarà così santa, e al possibile degna di Voi, o Figliuol mio, sicché Voi la potrete pigliare per Madre e formarvi in quel seno, puro come il Paradiso, il Vostro Corpo e infondervi Anima per opera del Nostro Amore Eterno; e così nascere Uomo e Dio in una sola Persona: come l’uomo in anima ed in corpo forma una persona sola. Ah intendiamo adesso che cosa è l’uomo! è creatura ragionevole, immagine viva di Dio, destinato a mostrar sulla terra una figura, un’immagine insomma, che aiutasse a fare intendere in qualche modo il miracolo più grande della bontà di Dio: e come noi siamo anima e corpo in una sola persona umana, così rappresentassimo Dio fatto Uomo in una sola Persona Divina, Gesù nostro Salvatore benedetto, Dio fatto uomo, per far noi uomini beati in Dio. Viva Dio! che per Gesù suo Figlio siamo immagini non solo di Dio; ma siamo anche figliuoli del Sangue suo Divino.

Pratica.

Amiamo Dio sopra ogni cosa e viviamo come Figliuoli uniti di sangue al Figliuolo Eterno Sostanziale di Dio.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (19)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (19)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni

ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO IV.

In che senso il popolo cristiano partecipa al sacerdozio di Gesù Cristo.

L’Apostolo san Pietro, volendo esortare i primi Cristiani a unirsi a Nostro Signore Gesù Cristo per progredir nella santità, richiama i loro titoli di nobiltà : « Voi siete, egli dice, una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo di acquisto, per predicare le perfezioni di Colui che vi ha chiamato dalle tenebre all’ammirabile sua luce; voi che una volta non eravate suo popolo e che siete ora il popolo di Dio » (S. Petr. II, 9-10). Bellissime parole molto atte a farci intendere tutta la dignità del Cristiano. Se il popolo di Israele era detto una volta il popolo eletto per le tante meraviglie che per lui operò il Signore, che dire ora del popolo cristiano che lo stesso Figlio di Dio si acquistò col prezzo del suo sangue? Incorporandoselo col Battesimo, Gesù volle farlo partecipare in un determinato grado anche al regale suo Sacerdozio. Riserba, è vero, il carattere sacerdotale ai soli suoi Sacerdoti, come già sopra spiegammo, ma vuole che anche ogni Cristiano abbia vera parte, sebbene secondaria, ai poteri e agli uffici del Sacerdozio, e che non si contenti di ricevere i doni. divini, ma che concorra attivamente, sempre però subordinatamente, alla celebrazione del santo Sacrificio della Messa, all’amministrazione di certi sacramenti e all’esercizio dell’apostolato; il che lo obbliga ad essere egli pure nello stesso tempo ostia e sacrificatore. Ecco ciò che intendiamo ora spiegare, affinché i pii fedeli divengano sempre più collaboratori del sacerdote.

ART. I. — PARTE CHE HA IL CRISTIANO NELLA CELEBRAZIONE DEL SANTO SACRIFICIO DELLA MESSA.

L’asserzione che il semplice Cristiano concorre attivamente anch’esso alla celebrazione del santo sacrificio della Messa è fondata sul dogma della nostra incorporazione a Cristo, che abbiamo già precedentemente esposto. Quando Gesù per mano dei suoi Sacerdoti offre il santo Sacrificio, essendo Capo di un Corpo mistico di cui i Cristiani sono le membra, anche tutti i Cristiani offrono il Sacrificio con Lui. Difatti le membra di un corpo non sono puramente passive; ma, ricevendo dal capo il moto e la vita, reagiscono a loro volta e partecipano attivamente a tutti gli atti del capo; avviene ciò che dice san Paolo « se patisce un membro, tutte le membra patiscono con lui; se Gioisce un membro, tutte le membra gioiscono con lui! » I. Ep. Cor., XII, 26). Specialmente nel santo Sacrificio della Messa, dice sant’Agostino (De civ. Dei, 1. X, 6), i Cristiani, unendosi col loro Capo e tra loro in una stessa preghiera, offrono il corpo e il sangue della vittima divina e con Lei offrono se stessi alla santissima Trinità. Così il Pontefice eterno trae a sé e a sé unisce l’intiera sua Chiesa, con tutti e singoli i suoi membri, e s’immola con Lei in un medesimo olocausto.

1° Ne abbiamo bella prova nelle preghiere e nei riti della Messa  (« Conviene tener presente il carattere speciale della sinassi religiosa nella Chiesa primitiva. A differenza dei moderni che, in chiesa, senza intender nulla, si contentano di unirsi in ispirito al Sacerdote che prega, gli antichi volevano he l’actio (la Messa e la parte precipua della santa Messa, cioè il canone) fosse veramente sociale, collettiva, eminentemente drammatica, così che non soltanto il Vescovo, ma il presbitero, i diaconi, il clero, i cantori, e il popolo, ciascuno avesse la propria parte distinta da rappresentare » (SCHUSTER, Op. cit., Vol. I, p. 7).

a) Se consideriamo le preghiere, vediamo che il celebrante non parla che raramente in proprio nome, ma che si volge a Dio e offe il santo Sacrificio in nome di tutti i fedeli, in nome dell’intero popolo cristiano, di cui è il rappresentante ufficiale. – Che l’offerta del santo Sacrificio sia fatta in nome di tutta la Chiesa, è chiaro specialmente dalle preghiere dell’Offertorio. Elevando il calice il Sacerdote dice; « Ti offriamo, o Signore, il calice salutare, supplicando la tua clemenza che,al cospetto della divina tua Maestà, tu lo riceva in odore di soavità per la salute nostra e per quella di tutto il mondo ». E subito dopo offre associato alla vittima divina l’intero popolo cristiano: « In ispirito di umiltà e con animo contrito, deh! siamo da te accolti, o Signore, e così si faccia oggi il nostro sacrificio al tuo cospetto che piaccia a te, o Signore Iddio ». Il popolo cristiano è dunque anch’esso, sebbene in modo secondario, sacrificatore e vittima. Risulta di qui imperiosa la necessità per ogni Cristiano di conformare la vita alle parole, ossia di avere un cuore veramente contrito e umiliato onde offrire degnamente col sacerdote la materia del Sacrificio. – Viene poi la preghiera alla santissima Trinità, fatta essa pure in nome di tutti, « in memoria dei vari misteri di Nostro Signore, in onore della Vergine Santissima e dei Santi ». Quindi il Sacerdote, baciato l’altare, si volta al popolo e gli dice queste significative parole: « Pregate, o fratelli, affinché il sacrificio mio e vostro sia accettevole presso Dio Padre onnipotente ». A nome di tutti i fedeli in generale e di ciascuno in particolare, l’inserviente risponde: « Riceva il Signore il sacrificio dalle tue mani, a lode e a gloria del nome suo, e a vantaggio pure nostro e di tutta la Chiesa sua santa ». – Nel momento solenne del Prefazio, prima di cominciare il Canone, corre tra il Sacerdote e i fedeli un sublime dialogo, che mostra quale parte attiva prenda il popolo cristiano al Sacrificio. « In alto i cuori », dice il Sacerdote: « lì teniamo sollevati al Signore », rispondono i fedeli. « Rendiamo grazie al Signore Dio nostro », ripiglia il celebrante: « È cosa degna e giusta », risponde il popolo. Allora con volo sublime il Sacerdote penetra i cieli e si associa a Gesù glorioso, mediatore di Religione, e per mezzo di Lui agli Angeli e ai Santi e a tutti i fedeli della terra, e, in nome loro, proclama la santità e la gloria della santissima Trinità e benedice Colui che dall’alto dei cieli sta per discendere sull’altare. Poi il Sacerdote offre anticipatamente la Vittima divina per tutta la Chiesa, pei suoi capi, per tutti i suoi membri, e in particolare per certe persone da lui designate: « Ricordati, o Signore, dei tuoi servi e delle tue serve… e di tutti i circostanti, i quali ti offrono questo sacrificio di lode ». – Disceso Gesù sull’altare nella consacrazione, il Sacerdote lo leva in alto fra le sue mani e tutta l’assemblea si prostra ad adorarlo; quindi, associandosi nuovamente i fedeli, continua a pregare: « Memori, o Signore, noi tuoi servi, ma anche il santo tuo popolo, della passione, risurrezione e ascensione di Cristo Figlio tuo e Signor Nostro, offriamo alla preclara tua Maestà l’ostia pura, l’ostia santa, l’ostia immacolata… Supplici ti preghiamo, o Dio onnipotente, ordina che queste cose (Gesù vittima divina e con Lui il suo Corpo mistico) siano portate per mano del santo Angelo tuo sul tuo sublime altare, nel cospetto della divina tua Maestà, affinché quanti parteciperemo a questo Sacrificio, siamo riempiti di ogni benedizione celeste e « di grazia ». Un venerando autore del secolo XII, sant’Oddone di Cambrai (In exposit, Can., dist. III), così commenta queste parole: « L’ostia dev’essere portata sopra il sublime altare di Dio. Ora che cosa può voler dire questo se non che per mezzo dell’offerta di noi stessi, unita a quella del Verbo, vogliamo essere ricevuti e come assorbiti in Dio? » È chiaro quindi che nella santa Messa il Cristiano non solo offre a Dio la materia del Sacrificio, ma diviene in qualche modo vittima con Gesù Cristo nella perfettissima unità del suo Sacrificio.

b) Se dalle preghiere della Messa passiamo ai riti che le accompagnano, ne vediamo uscir fuori in modo efficacissimo la parte attiva dei fedeli nel santo Sacrificio. L’uso di infondere alcune gocce di acqua nel vino, che deve poi essere cangiato nel sangue di Cristo al momento della consacrazione, fu sempre costante nella Chiesa latina, la quale vede in questo rito il simbolo dell’unione dei fedeli con Cristo sacrificatore. « Quando nel calice l’acqua viene mescolata col vino, dice san Cipriano (Epist. LXII ad Cæcilium, 12-13), tutto il popolo si unisce col Signore. Non si può offrire acqua sola o solo vino; se si offrisse solo vino, significherebbe che il sangue di Cristo comincia ad essere senza di noi; se acqua sola, significherebbe che il popolo comincia ad essere senza Cristo; quando invece l’uno e l’altro si mescolano insieme, allora il Sacramento spirituale e celeste si compie ». I membri di Cristo, che sono i fedeli rappresentati nell’acqua, vengono allora collegati col loro Capo che è Cristo, significato nel vino. Senza questa unione infatti, come spiega bene il P. Giraud (Prétre et hostie, cap. XXIII), il mistero pare incompleto; perché  o Cristo rimane solo, quasi che il capo potesse essere separato dalle membra, oppure la Chiesa è isolata da Cristo; il che sarebbe la sua morte e la sua rovina. Anche altri riti esprimono quest’unità di Cristo e dei suoi fedeli nel Sacrificio della Messa. Quando – dice Bossuet  (Explication de quelques avi difficoultée sur les  prières a de la Messe, L’Eglise s’offre elle-meme)  – il Sacerdote poco prima della consacrazione stende le mani sui sacri doni, lo fa per indicare che offre se stesso e i Cristiani colle oblate che sta per consacrare; come una volta, nell’antica Legge, si poneva la mano sulla vittima per dire che l’offerente si univa con lei e con lei si consacrava a Dio. Risulta chiaro da questo complesso di preghiere e di cerimonie che tutti i fedeli hanno una parte attiva nella celebrazione del santo Sacrificio.

2° Tuttavia vi sono di quelli che vi prendono parte in modo più speciale e che ne colgono quindi frutti più copiosi; e sono coloro che danno al Sacerdote la elemosina perché celebri secondo la loro intenzione. Ad intelligenza di questa pratica, richiamiamo brevemente ciò che si faceva nell’antica Legge e nei primi tempi della Chiesa. Quando un Israelita voleva offrire un sacrificio a Dio, conduceva al sacerdote la vittima, per esempio una pecora; e il sacerdote la immolava e la offriva al Signore a nome del fedele. Qualche cosa di simile avveniva nei primi secoli cristiani; molti fedeli portavano al Sacerdote la materia del Sacrificio, il pane e il vino; era quindi in un certo senso la loro vittima e il loro sacrificio che il Sacerdote offriva onde essi venivano ad averci parte più attiva di coloro che, non avendo portato nulla, si contentavano di assistere alla Messa. Ora, nella presente disciplina ecclesiastica, ciò che tiene il posto dell’offerta fatta dai Cristiani dei primi secoli è l’onorario, o elemosina o stipendio che si voglia dire, che i pii fedeli danno al Sacerdote; ecco perché il Sacerdote, pur dicendo la santa Messa per tutta la Chiesa, la applica in modo speciale secondo l’intenzione di chi dà l’elemosina. Di qui si spiegano le parole del Canone:« Ricordati, o Signore… di coloro che ti offrono questo sacrificio di lode ». – Ci riesce ormai facile l’intendere come il fedele che assiste alla santa Messa o dà l’onorario, non è soltanto un semplice spettatore, ma vi prende parte attiva, verissima, nobilissima, vantaggiosissima, di cui deve ben persuadersi e rendersi ben conto. Egli è in un certo senso sacerdote, perché prende parte alla celebrazione del Sacrificio, e, benché non rivestito del carattere sacerdotale, viene però ad avere alcune delle prerogative sacerdotali. Assistere alla Messa il più spesso possibile, dare la corrispettiva limosina per aver più larga parte ai frutti del Sacrificio, associarsi intimamente al celebrante nell’offerta che fa della vittima divina, comunicarsi frequente e con Gesù offrire se stesso al Padre, tale deve essere la sincera brama di un Cristiano pio e la più grande delle sue consolazioni.

ART. II. — PARTE CHE HA IL CRISTIANO NELL’AMMINISTRAZIONE DI CERTI SACRAMENTI.

Sebbene la parte che gli spetta nell’offerta del sacrificio della Messa sia importantissima, il fedele non può, a rigor di termini, essere detto ministro del Sacrificio, essendo questo titolo riserbato al Sacerdote. Ma ci sono due Sacramenti in cui il semplice fedele è veramente ministro; e sono i sacramenti del Battesimo e del Matrimonio.

a) Infatti ogni fedele può, in caso di necessità, amministrare il battesimo, e, purché segua la forma essenziale prescritta dalla Chiesa, l’atto da lui compiuto avrà tutto il suo valore sacramentale. Verrà rimesso il peccato originale e Dio prenderà possesso dell’anima del battezzato per farsene un tempio prediletto. Non è lecito, è vero, a una persona secolare di amministrare il Battesimo fuori del caso di necessità, perché è ufficio riserbato al Sacerdote e al diacono; ma, se lo amministrasse, ne produrrebbe certamente l’effetto. Or chi non vede qui quanto sia grande il potere anche del semplice fedele, dacché, con poche gocce d’acqua versate sulla fronte di un bambino e con una breve formola, diviene la causa ministeriale di cui Dio si serve per causare la rigenerazione di un’anima, per renderla figlia di Dio, sposa di Cristo, abitazione dello Spirito Santo?

b) Ma se il fedele non è ministro del sacramento del Battesimo se non in casi straordinari, è invece ministro ordinario del sacramento del Matrimonio. È bene richiamare spesso ai Cristiani questa verità, perché molti purtroppo, anche fra le persone colte, hanno su questo punto idee assai confuse. E ciò proviene dal fatto che ignorano come Nostro Signore volle che il sacramento del Matrimonio fosse essenzialmente costituito dal consenso degli sposi e che ne fossero veri ministri le due parti contraenti. La Chiesa, per ottime ragioni, ha stabilito sotto pena di nullità che tale consenso sia dato dinanzi a persone che ne possano ufficialmente attestare l’esistenza, cioè dinanzi al proprio parroco e a due testimoni. Ma, ripetiamolo, i veri ministri del sacramento sono gli sposi stessi; e per mezzo loro, col loro ministero, Dio conferisce la grazia sacramentale che li aiuterà poi ad adempiere cristianamente i doveri del proprio stato. – Chi dunque non vede l’alta dignità del matrimonio, che dev’essere, come dice san Paolo, « onorato in tutto »? (Ep. Ebr., XII, 4). Oggi, che tanto si deplora la decadenza di questo stato di vita, è bene ricordarsi che, se presso certe classi di persone il matrimonio gode poca stima, nel pensiero di Dio rimane sempre cosa sacra, e che è un vero sacramento, e che l’amore scambievole che gli sposi si debbono deve modellarsi sull’amore di Nostro Signore per la sua Chiesa: « L’uomo è capo della donna, come Cristo è capo della Chiesa… Voi, o mariti, amate le vostre spose come Cristo amò la Chiesa e diede se stesso per lei, per santificarla… onde presentarsela gloriosa, santa e immacolata » (Ep. Efes, V, 23-27). Gli sposi quindi si considerino come persone destinate all’eterna felicità del paradiso dove non può entrar nulla di inquinato e di sozzo, come « templi dello Spirito Santo » (I Ep. Cor., VI, 19), e serbino quindi la debita modestia, badando di non offuscare né nell’anima né nel corpo quel limpido oro della purità in cui il Signore vuole ravvisare la sua immagine. Restino insomma sempre degni di quel sacramento di cui sono stati ministri. – Partecipando dunque, in modo limitato ma vero, ad alcuni degli uffici sacerdotali, i Cristiani non debbono dimenticare che è anche obbligo loro di partecipare pure alla santità del sommo Sacerdote e imitarne le virtù, ognuno secondo il proprio stato. Così s’accosteranno ogni dì di più all’ideale proposto da san Pietro: « Voi siete una stirpe eletta, un regale sacerdozio, una nazione santa, per celebrare le perfezioni di Colui che vi vi ha chiamati dalle tenebre all’ammirabile sua luce ».