LO SCUDE DELLA FEDE (227)

LO SCUDO DELLA FEDE (227)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (1)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

PREFAZIONE

L’uomo ha bisogno di Dio ; sempre qualche cosa gli manca, che non trovano i poveri nei loro tuguri, né i ricchi nei loro palazzi, né altri in mezzo ai traffici, neppure in mezzo al trionfi. Questa cosa che manca agli uomini è Dio, che solo può soddisfarli interamente; e Dio si usa cercarlo nei templi. Per questo in ogni angolo della terra, appena si trova un gruppo di uomini, si affrettano subito di formarsi un tempio, e nel tempio rizzare un altare quasi per farsi scala in cerca di Dio: quando poi l’uomo non ne può più della vita, a riposarsi de’ suoi sogni crudeli, corre a gettarsi ginocchioni nel tempio, fissa gli occhi all’altare, e su per esso, sull’ali della preghiera cerca di sollevarsi a Dio per respirare nel suo seno il profumo di una vita migliore. Ma allora che si innalza a Dio col suo pensiero, deve sentire il suo nulla l’uomo meschino dinanzi a Lui, e da Lui riconoscere tutto, e tutto da Lui aspettare. – Anche convien confessare che sollevandosi l’animo a Dio, sente il peso della propria miseria, e dinanzi a Lui un tristo pensiero l’accompagna, che s’attraversa all’unione con Dio. E la coscienza della propria colpa, che rompe l’armonia tra il Creatore e l’opera sua, e sturba la pace che l’uomo sperava di trovare in Dio. Pur troppo tutti gli uomini di tutti i tempi si sentono rei fin dal loro nascere, e, come per istinto, pare che dicano almen confusamente: « Ecco siam concepiti in iniquità, ed in peccato ci han generati le madri nostre. » Questo lor sentimento gli uomini confessarono di provare in tutti i tempi, in tutti i luoghi con tutte le forme dei riti, manifestando in ogni religione il bisogno non solo d’onorare, ma anche di placar Dio con sacrifici. (Vedasi Roselly de Lorques. — Della morte anteriore all’uomo ecc. cap. X, dott. dell’espiazione. De-Maistre — Del sacrificio e dei sacrifizi religiosi di tutte le nazioni. Trattato storico-Critico, opera del Card. Tadini Arciv. di Genova, — Nicolas: Studi filosofici, etc). – Così la Chiesa Cattolica, che fa conoscere il dovere ed il bisogno che hanno gli uomini di placare, di adorare, ringraziare e supplicare Dio con sacrificio, e lo dà loro in man preparato, trova un’eco nel cuore degli uomini alla sua dottrina, e pare che tutte le nazioni del mondo le debbano rispondere « Voi dite bene; ci avete voi interpretati i sentimenti che noi proviamo confusi, e così provvedeste ai nostri bisogni. » Perché difatti la storia di tutti i popoli mostra che essi furono persuasi in ogni tempo di questa spaventosa verità: che si vive sotto la mano di Dio irritato, e che Egli si deve solo placare coi sacrifizi (« La caduta dell’uomo degenerato è il fondamento della Teologia di tutte le nazioni antiche. » Voltaire, Filosofia della Storia. Questio i sull’Enciclop.). Vediamo di più, che tutti i popoli del mondo, pur tra loro d’indole, di favella, di leggi e fino di colore così diversi, non solamente vennero sempre ad offrire sacrifici, ma per sacrifici offrirono quasi sempre vittime d’animali. Essi cioè essendo persuasi d’esser colpevoli, col fare le loro offerte dell’animale in sacrificio, mostrarono di credere, che si potesse mettere innanzi una vittima per pagare la pena a conto dell’anima, che ha peccato; credettero adunque sempre gli uomini, che, ad unirsi e comunicare con Dio, come richiede la loro necessità, non bastasse la preghiera e l’oblazione; ma che fosse d’uopo prima placare la giustizia Divina, e a togliere di mezzo l’ostacolo della colpa si dovesse mettere innanzi la morte del colpevole, almeno nel sacrificio rappresentata. Ora, se per la soddisfazione dovuta sì credeva potesse valere un animale sacrificato, tanto più facilmente si pensava, che potesse un uomo per un altro uomo soddisfare. Quindi in tutte le religioni furono con gran rispetto osservati quegli uomini, che si sacrificarono per aiutare la povera umanità. Ben appare da questo, che gli uomini s’accorgevano d’esser tutti insieme come una sola famiglia, che viene da una sola radice, e forma come un corpo solo; di cui le membra sono solidarie fra loro; cioè l’un può per l’altro portarne i pesi, le pene, ed offrirsi in soddisfazione alla Divinità, a cui pensavano dover riuscire soprattutto accettevole il sacrificio della verginità e dell’innocenza. Ora per procedere colla maggior chiarezza, ritorniamo a dire in breve il già detto; ed è che gli uomini sentono di dover adorar Dio, e che dinanzi a Dio sentono d’essere colpevoli, e d’aver bisogno di offrirgli sacrifizi, che credono di poter sostituire una vittima per la soddisfazione dovuta dall’anima colpevole. Le vittime difatti anticamente si chiamavano anti-psyche, parola che vuol dire vice-anima, quasi pro anima, cioè anima sostituita per un’altr’anima (Lami, Appar. Ed. Bib. I, 7). E queste verità che troviam confessate nelle religioni di tutti i popoli, ben dovettero essere già fisse nella mente umana prima di ogni istituzione di riti, perché le pratiche religiose le suppongono già, e sono ordinate a tradurre in atto e ad eseguire quanto insegnano esse; potendosi affermare che presso i diversi popoli della terra « di tante varie religioni nessuna havvene, che non abbia per iscopo la espiazione (Voltaire, Filosofia della Storia — Quest. sull’Enciclop.) per mezzo dei sacrifizi: mentre i sacrifizi praticati in tutte le religioni non furono semplici offerte fatte in ossequio alla Divinità. Perché, quando gli uomini avessero voluto fare semplici offerte, vi avrebbero recata cogli altri doni, se si vuole, anche la carne; ma la carne se l’avrebbero, noi crediamo, provveduta altrove, e coperta di fiori, profumata d’incensi, o preparata altrimenti, per venire poi con solenni funzioni a farne l’offerta: e non sarebbero venuti a sgozzar l’animale, azione per altro in se stessa tutt’altro che festosa e bella. Ma no: nei sacrifici la solennità delle funzioni sta appunto nell’immolare la vittima, che si vuole sacrificare sull’altare col versarne il sangue dinanzi a Dio. E perché questo atto, che sa di sdegno? Perché questa vendetta, questa effusione di sangue? Perché è diffuso nella coscienza de’ popoli un sentimento indeterminato di quella verità, che fu poi così chiaramente rivelata dal Cristianesimo; che per la via della carne formata ed irrorata di sangue fu trasfuso il peccato nella umanità, per la quale tutti quanti nascono dal sangue e dalla volontà della carne, non nascono più figliuoli in grazia di Dio. Si vuole adunque nel sacrificio al cospetto di Dio colpire d’anatema il mezzo per cui si trasfonde nella generazione viziata un peccato, cagione di tutte le altre colpe. Siccome gli uomini nascono di sangue peccatori, offerendosi per loro espiazione la vittima, della vittima si sparge il Sangue: perché è questo veicolo, che si vuol versare a placare Iddio, quasi per distruggere il mezzo per cui nel mondo s’introdusse il mal germe dell’iniquità: per così, col versare il sangue, procurare l’espiazione. Così tutti i culti, anche quelli che paiono non avere alcun parentado col culto nostro Divino, se penetriamo sotto alle apparenze ed alle aggiunte delle superstizioni, troviamo che vanno a confondersi nella maestà di un culto universale: e questo culto universale depurato, santificato, a cui aspira l’umanità, splende degno di Dio nella Religione Cattolica. – Colla scienza di questa verità gli uomini inferociti per brutali passioni, furono traboccati nei più grandi eccessi da diaboliche superstizioni. Si vorrebbe poter negare: ma la storia l’attesta in troppi luoghi, che gli uomini furono spinti a sacrificar gli uomini, ed a mangiar le carni « Si vuol sangue, » pareva che lor gridasse un tremenda voce misteriosa; e correvano a scannare in sacrificio prima i colpevoli, che si guardavano come sacri allo sdegno della Divinità; (quindi il sacrificare i rei si diceva espiare, cioè dissacrare, il che vuol dire sciogliere il voto dell’offerta col dare a Dio ciò che gli era sacro; poi si sacrificavano i nemici, poi gli stranieri; perché, quando non vi è carità, si trovano mille titoli per tener come nemici i nostri simili. Noi conserviamo ancor una parola per significare la materia di che si prepara il sacrificio, che noi chiamiamo Ostia. Questa parola viene dalla parola latina hostis, e hostis significa nemico ed anche straniero. V’era adunque ben poca differenza tra i nemici, e gli stranieri, quando si trattava di scannarli in sacrificio. Ora noi Cattolici, quando prendiamo in mano quel po’ di pane candidissimo che chiamiamo Ostia, siamo in obbligo di confessare che la Religione Cattolica colle idee ha ben mutati i costumi! Noi adesso sentiamo ribrezzo e spavento a quegli orrori. Bene sta: ma per carità! non dimentichiamoci che noi siamo nati in seno alla Chiesa Cattolica, pietosa madre, che alla nostra culla ci parlò d’amore di Dio e ci fece sorridere coll’immagine di un Dio Bambino innamorato di patire per noi. Del resto, se domandassimo un poco ai poveri Missionari, che nell’Asia, nell’Oceania, nell’Africa affrontano i furori della superstizione, ci risponderebbero, che ancora ai di nostri nelle Polinesie. Nel Tonchino, ed altrove si squartano i Missionari, e da loro agonizzanti si strappa il cuor dal petto, e si mangian le viscere palpitanti innanzi agl’idoli (V. Annali Prop. Della Fede). Non dimentichiamoci che nel 1793 nella nazione più incivilita del mondo si abolì il sacrificio di Gesù Cristo, e si rovesciarono gli altari, ma subito fu inondata di sangue umano; non dimentichiamo quegli orrori!…. ed altri che avverrebbero… Credono adunque tutti, che senza effusione di sangue non si fa remissione. Ci vuol sangue! Ecco la persuasione universale. E qual sangue? Eh! non potevano gli uomini immaginarsi di qual sangue avessero bisogno. Veramente noi Cristiani, entrati la prima volta nell’America, abbiam trovato, che gli Americani si credevano obbligati a preparîfr fino ventimila teste da sacrificar sugli altari delle orribili loro divinità (Cong. De la Nueva Espana 3, 3), e serbavano a tal fine i nemici, e quando mancavano, facevano guerra apposta per far prigionieri da farne carne, e quando si mancava anche di questi, tagliavano la testa fino ai proprii figli (Lettere Americane de’ Carli). Ma quando, invece di vedere quei feroci sacrificanti con furore di demonio diguazzare nel sangue, gli Americani videro la prima volta il sacerdote cattolico mite, compunto  confidente in Dio, alzar fra le mani teneramente adorando la Santa Ostia, consacrata sopra i fedeli che prostesi a terra picchiavansi il petto con umiltà; allora quei poveri Americani avranno chiesto « che volesse dire quel rito, e che fosse ciò, che al ciel si alzava: » e i Cattolici avranno risposto: Questa è l’offerta del Figliuol di Dio, che paga per tutti i mostri peccati. » Oh si! quei Catecumeni, abbracciandosi fra loro per consolazione, e le madri baciando con largo sospiro i lor bambini, avranno esclamato « Sia Benedetto il Grande Spirito, che non si scanneranno più sugli altari i nostri figli. » Ah! ripariamo noi adunque la nostra povera umanità intorno all’Altare, e, tenendoci attaccati ad esso, mostriamo al cielo il tremendo Mistero in quell’Ostia pacifica, Corpo e Sangue di Gesù Cristo, che riconcilia gli uomini con Dio, pel cui mezzo il Sangue di Dio, mischiandosi col sangue degli uomini, oltre al salvarci le anime risparmia ben anche di molto sangue umano. Noi abbracciati con Gesù sulla Croce gridiamo pure: tutto è consumato, consummatum est! Sì, veramente a questo grido dalla croce, e dall’Altare il velo del tempio si squarcia, i secreti del Santuario ben addentro son conosciuti. Dio ha mostrato in una maniera degna di Sé ciò che il genere umano, senza ben intendere, confessava; cioè che gli uomini creati per adorare l’Eterno, radicalmente tutti peccatori, sarebbero tutti perduti; e che a salvarli ci voleva sangue, e sangue innocente, Sangue Divino. Così Dio ha pur manifestato i segreti della sua Divinità; ed ecco in qual modo ci proviamo di esporre qualche idea della sua ineffabile manifestazione. In principio Dio, Essere infinito, creava l’universo come per isfogo della sua bontà, e, contemplando poi le opere sue, vedendole buone, pure non poteva essere soddisfatto, finché lo sguardo suo, per dir così, non s’incontrasse fra le creature in due occhi che collo sguardo al cielo cercassero di Lui. Allora Dio lasciava scorrere un piccolo raggio della sua luce divina sopra l’argilla più perfettamente organizzata, ed accendeva il lume dell’intelletto umano, spirandovi sopra un soffio della sua bocca; e die’ principio a quel movimenti d’affetti nel cuor dell’uomo, che sono come tanti slanci, per cui l’anima nostra irrequieta sopra la terra non trova più pace fino che non salga a beatitudine in seno a Dio. Così era creato l’uomo ad immagine di Dio. Quando, avendo Adamo prevaricato, e reso sé e tutti i suoi posteri eternamente infelici, il Verbo di Dio contemplò la sua immagine, che è quest’anima umana, caduta in basso dopo il peccato; ne senti una vivissima compassione, e per la sua carità infinita, quasi un bisogno di aiutarla a risorgere, a ritornare a sé; affinché questa luce della ragione umana non andasse come luce fosforica errando terra a terra mischiata al fango, volle pertanto vivificarla della potenza del suo raggio divino, per farla riflettere divinamente: vivida verso il suo Principio. Quindi il Figliuol divino, per abbassarsi a sorreggere l’umanità, e a salvarla, discese Egli stesso Lume di lume, Dio di Dio. Per iscaldare dei raggi di sua Divinità l’umana natura, unì la sua Divinità alla natura umana: incarnandosi nell’umanità, l’umanità fu assunta in Dio così da essere una Persona in due nature, l’Uomo-Dio, il Verbo Divino Figliuolo di Dio e Figliuol di Maria, Gesù Cristo Salvatore nostro. – Ora quest’Uomo-Dio, comprendendo appieno Dio in tutto l’esser suo, colla sua mente divina ben conobbe quanto Iddio merita d’esser conosciuto, adorato, amato e ringraziato, perché fonte inesauribile di ogni bontà: ben conobbe quale immensa offerta gli è dovuta in ricognizione di Lui, a cui tutto si deve! Dall’altra parte vedeva essere Iddio orribilmente sconosciuto ed offeso dagli uomini, e, trovandosi anche Egli fratello degli uomini, porzione dell’umanità, membro solidario di questo gran corpo, che trovava reo dinanzi a Dio, dovette sentir bisogno di tutta adoperare la ricchezza della sua divina umanità, Per far di se stesso per tutti la grande offerta, che si voleva per adorare Dio, ringraziarlo, rendergli soddisfazione come si merita. Se qui ci fosse permesso tradurre in forma umana i pensieri dell’Uomo-Dio, vorremmo dire che Gesù Cristo avrà dovuto esclamare in tutta la sua vita: « Ah! dove è una vittima degna del mio Padre Iddio? Lungi dall’Altare di Dio vittime di fungo… Ecco vengo Io, o Padre… Io son ben fortunato che voi m’abbiate datò un corpo da offrirvi degno di Voi: Io vengo, io vengo ad offerirvelo. » Corpus autem aptasti mihi. une mihi: ecce venio (Ps, XXXIX e Hebr. X). Quindi come sulla Croce, qui sugli Altari, in tutte le Messe Gesù Cristo cade a nulla dinanzi a Dio per adorarlo, si getta ai piedi del Suo trono per ringraziarlo: e, mostrando il suo Corpo consacrato sotto la Specie di pane, ed il suo Sangue consacrato sotto la Specie di vino, e così sacramentalmente, il Sangue diviso dal Corpo, sta davanti a Dio sotto le forme di agnello svenato, e trova in cielo la Reden- zione. (S. Cip. ad Heb. IX, 12). Così adunque sarà soddisfatto e contento Gesù? No, no: il Divin Figliuolo è uno coll’Essenziale bontà, e la bontà tende a sfogarsi comunicando il bene a chi n’ha bisogno. –  Fatto mediatore tra Dio e gli uomini, Ei guarda gli uomini suoi fratelli, e li vedo affamati di bene, e bisognosi al tutto di Dio. Quindi sull’altare sacrificaridosi a Dio, la sua bontà non è contenta appieno, se agli uo- mini non si comunica in modo infinito; e per l’amor suo, vorremmo dire, che non ha pace, finché non li ravvicini, e non li riassorba in Dio. Ecco in vero, che, quando si andava a sacrificare sulla croce, parve che sentisse troppo forte i legami, che lo strin-gevano al suoi poveri fratelli; e in sull’andare al Calvario dona agli uomini nella San- tissima Eucaristia il suo Corpo, il suo Sangue da offrirsi a Dio per loro nella santa Messa, e da riceversi nella santa Comunione. Ah! quando il Padre Divino ci donò il suo Figlio, e il Figlio, sacrificandosi al Padre, ci donò Se stesso; e lo Spirito Santo cooperò al mistero dell’amor infinito, noi siamo veramente divenuti padroni dei tesori della Divinità, avendo acquistato diritto a tutti i doni divini — ommia nobis donavit — Replichiamo ancora: sì veramente qui tutto è consumato! Perché Dio ha palesato il Mistero della sua Divinità: poiché nel Sacrificio della S. Messa noi possiamo dire, che abbiam conosciuto la grandezza, la bontà, la giustizia di Dio, e sopra esse vediamo trionfare la sua misericordia; e grandezza, bontà, giustizia, misericordia infinita sono attributi essenziali di Dio: abbiam dunque veduto la gloria di Dio nell’Unigenito del Padre pieno di grazia e di verità. – Grazie, eterne grazie a Dio!

LA GRAZIA E LA GLORIA (44)

LA GRAZIA E LA GLORIA (44)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO II

La visione beatifica, considerata quanto alla sua esistenza.

1. Fatta per la verità, l’intelligenza umana, ridotta alle sue forze naturali, ha la vista ben corta. È vero che la fede, questa luce della vita presente per i figli adottivi di Dio, apre davanti ai loro occhi orizzonti magnifici, dove nessun occhio umano saprebbe giungere. È la fede che ci ha rivelato i misteri di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, che sono nascosti nelle profondità dell’eternità; essa ci ha anche mostrato il Dio fatto uomo che conversava tra noi e ci ha detto: Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. – Senza la fede non conoscerei né i Sacramenti, poiché a ciascuno di essi si applica, nella sua misura, ciò che la Chiesa afferma soprattutto del più sublime di tutti, la divina Eucaristia: mysterium fidei – mistero della fede; né gli alti destinati a cui è piaciuto alla bontà divina chiamare la sua creatura gracile e colpevole, né tutti i grandi doveri che questa vocazione così gratuita ci impone. Cosa devo dire? La fede, nella condizione attuale del genere umano, gli conferisce il potere di conoscere prontamente, con ferma certezza e senza alcuna mescolanza di errore, quelle verità divine che di per sé appartengono al dominio naturale della ragione (Concilio Vaticano De Fide Cath., c. 2). È quindi a ragione che il Sacramento che lo infonde nelle nostre anime, il Battesimo nel nome della Trinità, è chiamato Sacramento di illuminazione, che i battezzati sono gli illuminati, i figli della luce e del giorno, e che il loro ingresso nella Chiesa è salutato come il passaggio dalle tenebre alla luce miracolosa di Cristo (Ebr.-VI. 4; I Tess., V, 5; 1.Joan., I, 7; I Pet., I, 6). – Ma infine, per quanto grande sia lo splendore con cui la fede ci circonda, non è questo lo splendore del sole, e nemmeno la sua alba. Che cos’è allora? « Una lampada che brilla in un luogo oscuro, fino a quando il giorno comincia ad apparire e la stella del mattino sorge splendente nel suo cuore » (II Pt. I, 6, ecc.). La consumazione finale del figlio di Dio sarà di vedere ciò che crede; passare dalle ombre al Sole, dalla conoscenza imperfetta al pieno possesso della verità, contemplata faccia a faccia in Dio, la luce per essenza e la Fonte di ogni luce. – Per procedere con ordine, stabiliamo innanzitutto l’esistenza della visione intuitiva; in seguito diremo, per quanto la nostra debolezza lo consenta, quali siano la sua natura e le sue proprietà. È di fede che questo grande destino sarà il nostro. A parte le prove esplicite che raccoglieremo presto, sia nella rivelazione evangelica (Rom. V; Joan. I, 7; I Pet. I, 19), sia nella Tradizione della Chiesa, ci basterebbe sapere ciò che Dio ha già fatto in noi con la sua grazia, per intuire con certezza ciò che un giorno farà per noi nel regno della sua gloria. – Che cos’è la grazia? La vita eterna nel suo principio. Che questa vita divina si sviluppi e fiorisca, ne diventi la vita gloriosa come è in Dio, una vita che scorre senza fine nella contemplazione amorosa della bellezza divina. Cos’altro è la grazia? Una partecipazione alla natura stessa di Dio. Chi non vede che la partecipazione alla natura porta direttamente alla partecipazione agli atti, e di conseguenza all’operazione propria di Dio, cioè all’intuizione dell’essenza divina? – Cosa fa la grazia in noi? Ci rende figli adottivi di Dio, suoi eredi; fratelli, membri, collaboratori di Gesù Cristo: tanti titoli, per chi li sa capire, di questa visione benedetta. La grazia e la gloria sono così strettamente legate l’una all’altra che San Tommaso ha potuto dire in tutta verità che esse « appartengono allo stesso genere: perché la grazia non è che solo l’inizio della gloria in noi » (San Tommaso, 2-2, q. 24, a. 3 ad 2); e che il catechismo del Concilio di Trento chiama la gloria « la grazia nel suo stato di compimento e perfezione » (Catechismo del Concilio di Trento, de Orat. dom. p. IV). Questo è ciò che Origene voleva esprimere quando disse all’uomo giusto, che portava l’immagine dell’uomo celeste: « Tu sei un cielo e andrai in cielo. Cœlum es et in cœlum ibis » (Orig. In Hier. hom. 8, n. 2. P. Gr., t.13, p. 340). – Ma lasciamo qui le induzioni e prestiamo l’orecchio agli oracoli, dove la visione di Dio ci viene espressamente e direttamente affermata. « Chi mi ama – ha detto Gesù Cristo – sarà amato dal Padre mio e Io lo amerò e mi manifesterò a lui » (Giovanni, XIV, 21). Altrove, per confermare la sua raccomandazione di rispettare i piccoli e i bambini, dà questa motivazione: « perché i loro Angeli vedono senza posa la faccia del Padre che è nei cieli » (Mt XVIII, 10). Ora, come Egli stesso afferma, saremo in cielo come gli Angeli di Dio (Matth., XXII, 30). Dobbiamo ricordare ancora una volta la beatitudine promessa alla purezza di cuore, quella beatitudine che non è altro, nella sua perfezione, che la vista di Dio? (Mt. V) Finora abbiamo ascoltato il Maestro. I suoi discepoli non parlano in modo diverso da Lui. « Ora – dice San Paolo – noi conosciamo imperfettamente, profetizziamo imperfettamente. Ma quando verrà ciò che è perfetto, allora ogni imperfezione scomparirà… Attualmente vediamo Dio come in uno specchio, in un enigma, in immagini oscure; ma allora lo conoscerò come Io stesso sono da Lui conosciuto » (Cor. XIII, 10-12), cioè immediatamente e per intuizione. Lo stesso insegnamento ci è dato dall’evangelista San Giovanni: « Miei diletti, ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo un giorno non è ancora apparso. Sappiamo che nel giorno in cui Dio si manifesterà nella sua gloria, saremo simili a Lui, perché lo vedremo come Egli è in se stesso » (I Giovanni III, 2), e non più solo come si mostra a noi attraverso le sue opere o alla pallida luce della fede. – Meditiamo su queste ultime parole dell’Apostolo: « Saremo simili a Lui, perché lo vedremo », per ora la somiglianza soprannaturale non è completa. Uno schizzo più o meno fedele non è ancora la perfezione del ritratto. La nube che copre il volto di Dio deve scomparire e la luce eterna che ci colpisce, per così dire, in volto, deve completare l’immagine di Dio in noi per sempre. « Come una nuvola che il Sole penetra con i suoi raggi diventa tutta luminosa, tutta brillante e si vede in essa un oro, una brillantezza; così la nostra anima esposta a Dio, mentre la penetra, è penetrata da Lui, e noi diventiamo degli dei guardando attentamente la divinità, secondo le parole di san Gregorio di Nazianzo: Un Dio unito agli dei » (Bossuet).

2. – L’evidenza di questa verità nella rivelazione è così grande che la Santa Chiesa non ha mai avuto bisogno di stabilirla con definizioni esplicite. Io so che i Padri e i Pontefici hanno più volte difeso il nostro dogma dagli attacchi dell’eresia; ma in verità i novatori, lungi dal negare la visione immediata di Dio, l’hanno rivendicata, al contrario, come un privilegio della natura. Lo testimoniano gli Anomei del IV secolo, che sostenevano di vedere e comprendere Dio come Egli vede e comprende se stesso; lo testimoniano anche i beghini del Medioevo, condannati da Clemente V al Concilio ecumenico di Vienne (Clemente, L. V, tit. 3 de hæret., c. 3, prop. 5). Una definizione più importante, dal punto di vista che qui ci interessa, è quella che giunse, nel 1336, a porre fine ad una controversia in cui l’eresia non aveva alcuna parte. Alcuni teologi, fuorviati da una falsa interpretazione di alcuni testi scritturali, ritenevano che gli eletti, per godere della visione di Dio, dovessero attendere il giudizio generale e la risurrezione dei morti. Un papa, Giovanni XXII, in qualità di dottore particolare, ha addirittura difeso, se non la certezza, almeno la probabilità di questo parere. Non è il caso di fare la storia di una controversia che è stata piuttosto vivace per alcuni anni, ma la decisione finale deve essere citata, almeno in parte, perché esprime molto chiaramente la fede della Chiesa su questo argomento: è di Papa Benedetto XII. « Definiamo in virtù dell’autorità apostolica che, dalla morte e passione di Nostro Signore e, secondo l’ordine ordinario della divina provvidenza, le anime di tutti i Santi… purché abbiano compiuto la loro purificazione…… vedono l’Essenza divina; che esse la vedono con una visione intuitiva e facciale, in modo che questa Essenza divina si manifesti loro immediatamente, chiaramente, apertamente, senza che nessuna creatura si interponga come oggetto tra i loro occhi e Dio. Definiamo, inoltre, che dalla stessa visione nasce il godimento dell’Essenza divina, e che questo godimento e questa visione rendono le stesse anime veramente felici, nel seno della vita e del riposo eterno… Infine: Noi definiamo che la visione intuitiva e facciale con il godimento, una volta iniziata per essi, continuerà senza fine o intermittenza fino all’ultimo giudizio e oltre, durante l’eternità » (Benedetto XII, Cost. “Benedictus Deus“, 4. cal. Febr. 1336). – Il Concilio di Firenze, dove fu ristabilita, per un tempo purtroppo troppo breve, la riunione dei Greci con la Chiesa romana, Madre e Maestra delle Chiese, definì ancora una volta che « le anime dei giusti, sia quelle che non hanno contratto alcuna macchia di peccato dopo il Battesimo, sia quelle che avendola contratta se ne sono lavata, sia quando abitavano nel corpo, sia quando l’hanno lasciato, entrano senza indugio in cielo, e lì vedono Dio chiaramente e come Egli è, nell’unità della sua natura e nella Trinità delle Persone; non con la stessa perfezione, ma secondo la diversità dei meriti. » (Conc. Fiorentino. Decreto. Unionis Græcor. in Bulla Eugen IV, « Lætentur cœli »). – Il lettore avrà sicuramente fatto un’osservazione confrontando questi due testi: laddove Benedetto XII parla solo della visione dell’Essenza divina, i Padri di Firenze fanno esplicita menzione della Trinità. Questa differenza di linguaggio è stata motivata da qualche errore generato da un periodo all’altro? La storia non lo dice.  Del resto, in una forma leggermente diversa, si tratta sempre della stessa dottrina. Quale adoratore della Trinità potrebbe convincersi che sia possibile contemplare l’Essenza di Dio in sé, senza vedere il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo insieme? – « Forse – si chiedeva Sant’Agostino – saremo felici della vista del Padre senza godere della vista del Figlio? Ascoltate Cristo: Chi vede me vede il Padre mio (Gv. XIV, 9). Infatti, quando vediamo l’unico Dio, vediamo contemporaneamente il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo » (S. August., Enarr. in Psalm LXXXI, n. 9). Se per un’ineffabile immanenza il Padre è nel Figlio, e il Figlio nel Padre, e il Figlio nello Spirito Santo, e lo Spirito Santo in entrambi; se tutti e tre, pur restando distinti, sono una sola cosa, una sola e medesima luce, una e medesima infinita Verità; infinitamente se questa stessa unica e semplicissima Essenza è davvero il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, come parlano i Padri e i Concili, vedere intuitivamente una Persona senza vedere le altre, contemplare l’essenza senza contemplare le Persone, cosa sarebbe se non vedere e non vedere? È vero che, allo stato imperfetto della nostra conoscenza, queste astrazioni non siano impossibili; e Dio può essere conosciuto nella sua unità, senza la conoscenza e la fede della Trinità. Ma perché? Perché non godiamo della visione facciale; perché la nostra conoscenza è improntata alle molte immagini di Dio, diffuse da Lui nella creazione. – Sì, credo che se sarò fedele al mio Dio, lo contemplerò nella terra dei vivi. Lo vedrò nella sua natura e nelle sue Persone, faccia a faccia, senza intermediari, senza oscurità, senza veli. Questa professione di fede, posta per così dire alla base, mi permette di studiare con umile sottomissione il come di ciò che credo. È una fede in cerca di intelligenza: « Fides quærens intellectus », una ricerca che la Chiesa non condanna, quando è umile; che approva e persino incoraggia, mentre la indirizza affinché non si allontani dai sentieri della verità.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (7)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (7)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO II

LA VITA IN GESÙ CRISTO

3. La Comunione dei Santi.

Abbiamo già accennato al posto che occupano i Santi, la Chiesa trionfante, nel Corpo mistico di Cristo, ma la devozione verso di loro e specie verso Colei che la Chiesa teneramente invoca Regina di tutti i Santi, è così spiccatamente cattolica che, a costo di ripeterci, ci sembra questo il momento adatto per parlarne più diffusamente. Il Cattolico sa benissimo che vi è un solo Dio e un unico mediatore, Cristo Gesù. “Poiché uno è Iddio, uno anche il mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo, colui che diede se stesso prezzo di riscatto per tutti, testimonianza fatta nel suo proprio tempo” (I Tim. II, 5, 6). Tuttavia, egli crede che, nella sua sapienza e bontà, Dio si è compiaciuto di darci altri protettori intercessori, modelli della nostra stessa natura, che sono o almeno sembrano in un certo senso più vicini a noi, a motivo appunto di questa loro parentela umana con noi. Dio si è servito di ogni mezzo per attirarci più vicino a Sé, non esclusa la stessa natura per la quale tutti gli uomini son fratelli. – Ecco i Santi, membri dello stesso Corpo mistico al quale apparteniamo noi, che, vivendo quaggiù in condizioni simili alle nostre, hanno riprodotto in loro stessi i lineamenti e le perfezioni di Gesù Cristo, hanno messo in pratica il suo insegnamento e sono perciò diventati nostro esemplare e nostra ispirazione pur rimanendo nostri fratelli. Nell’osservare le loro opere a servizio di Dio e degli uomini siamo portati a chiederci: “Perché non potremmo ancor noi fare altrettanto?” Li pensiamo nel paradiso ch’è il loro premio e sappiamo che l’amore non può morire: ne concludiamo, e la Sacra Scrittura lo conferma, che dal loro posto accanto al trono di Dio essi ci ascoltano e ci soccorrono; anzi, crediamo che Dio mostra di approvare la nostra devozione accordandoci non di rado, per loro intercessione, speciali favori. Noi li onoriamo per quello che sono e per l’onore che la loro vita ha reso a Dio e all’umanità. Parliamo loro come si parla ad amici, li preghiamo di aiutarci come il povero può ricorrere al ricco che ama e in cui ha fiducia, come il viandante sperduto domanda una guida a chi ha già esplorato la sua stessa strada. Inoltre, nell’onorare i Santi, noi sappiamo di onorare maggiormente Iddio poiché, dopo tutto, è l’immagine di Lui che in essi onoriamo. Li onoriamo proprio perché e per i motivi medesimi per cui Dio li ha onorati e nella maniera stessa in cui crediamo Egli desideri di vederci onorare quelli che l’hanno servito fedelmente e che hanno meritato il suo amore e la sua approvazione. Quando imploriamo la loro intercessione, è a Dio stesso che si rivolge la nostra supplica, poiché a loro, fratelli privilegiati, noi non chiediamo che di pregare con noi ai piedi del Padre comune. Quando ci proponiamo di imitarli, è Gesù Cristo riflesso in loro che ci proponiamo a modello. « Siate miei imitatori — diceva arditamente San Paolo ai suoi neofiti — come io lo sono di Cristo ». Essi ci servono di stimolo, come accade di tutti i grandi che ci hanno preceduto. “Un fratello aiutato da un fratello è come una città forte”. Li preghiamo di mostrarci in qual modo possiamo, come loro, riprodurre Gesù Cristo in noi. Ben lungi dall’ostacolare il nostro culto verso Dio o verso il Verbo Incarnato, la devozione ai Santi non fa che avvicinarci sempre più ad entrambi, come i secoli hanno dimostrato; essa completa e consolida il nostro culto. Vicini a loro, siamo in compagnia di Colui ch’essi hanno amato più di chiunque altro: nessuno ha mai avuto vera divozione per i più degni seguaci di Cristo senza desiderare ardentemente di seguir Lui com’essi fecero. E nutriamo fiducia che, in compenso, i Santi del cielo s’interessino a noi. Se essi sono i nostri fratelli, noi siamo i loro; se noi abbiamo affetto per loro, quello stesso affetto potenziato dalla loro presente unione con Dio deve render noi molto cari e vicini al loro cuore. Stando i Santi intorno al trono di Dio, adesso che la loro battaglia è finita e la vittoria assicurata, la loro voce non può che esser potente su Colui pel quale essi hanno vissuto e pel quale son morti: perciò noi li invochiamo e ne imploriamo l’aiuto guardando al cielo coi nostri poveri occhi miopi, fiduciosi che le nostre suppliche saranno benevolmente accolte. Noi viviamo nelle tenebre, cercando a tastoni la via; vediamo come in uno specchio, e specchio di fattura umana; sappiamo bene che “occhio non vide, né orecchio udì, né a cuor d’uomo fu dato d’intendere ciò che Dio preparò a quelli che lo amano”, ma facciamo il poco che è in nostro potere. E quelli che vedono “faccia a faccia”, dopo essere ancor loro passati per questa valle di lacrime, non vorranno adesso, nel guardar verso di noi, rifiutarci compassione ed affetto. Quando alla nostra volta morremo, abbiamo fiducia ch’essi vorranno accoglierci in loro compagnia, anche perché abbiamo amato ed onorato la loro memoria e ci siamo gloriati di loro come di quelli fra i nostri che il Re si è compiaciuto di premiare. – Ma fra le creature che vivono il trionfo della santità una ve n’è che nel culto cattolico occupa un posto di eccezione, e questa vogliamo considerare con tutte le sue prerogative. La Beata Vergine Maria, la Madre terrena di Cristo Figlio di Dio, il Verbo Incarnato, deve essenzialmente a quella maternità la sua posizione affatto unica. Il giorno dell’Incarnazione Maria, la Vergine di Nazaret, divenne la vera Madre di Dio sceso in terra: essa diede del proprio corpo per formare quello di Lui, del proprio sangue per generarne la vita umana. Se non avesse altri titoli alla nostra venerazione e devozione, questo solo basterebbe. Ma la storia dell’Incarnazione va oltre ancora: ogni parola del racconto è piena di significato, e la Chiesa Cattolica ne è vissuta in ogni tempo. Maria è salutata con rispetto da un Angelo, e con parole che senz’altro la pongono al disopra di ogni creatura. Prima che il messaggio sia comunicato essa è salutata “piena di grazia”; “il Signore è con lei” in una maniera tutta particolare ed essa è “benedetta fra le donne”. A nessun’altra creatura fu reso un simile onore, attraverso tutte le generazioni da Adamo ai giorni nostri. E quando il messaggio è pronunciato, esso annuncia la nascita non di un figlio semplicemente, ma di un Salvatore, di un Redentore atteso e sospirato dalle nazioni. Ecco la natura della maternità di Maria. “Concepirai nel tuo seno e darai alla luce un figlio a cui porrai nome Gesù. Questi sarà grande e sarà chiamato Figliuolo dell’Altissimo; il Signore Iddio gli darà il trono di Davide suo padre ed egli regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe” (Luca, I, 31, 32). È l’annuncio dell’avvento del Messia aspettato, e Maria lo sapeva bene. Eppure, perché la promessa si compisse, occorreva il suo libero consenso; il disegno di Dio per la redenzione del mondo doveva dipendere dal “fiat” della Vergine di Nazaret. Liberamente essa lo diede, e all’istante si iniziò l’opera della Redenzione: Dio volle che il mondo intero avesse a ringraziare la giovane Vergine del “si” che pronunciò. “Ecco l’ancella del Signore; si faccia di me secondo la tua parola”. – Fu un atto di dedizione completa che molto le costò, come lo prova la sua domanda all’Angelo; e Maria sapeva pure che cosa implicasse per il futuro essere associata a Colui che doveva redimere il mondo. Pochi giorni dopo fece una profezia che si è meravigliosamente avverata: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore, perché Egli ha rivolto i suoi sguardi sulla bassezza della sua ancella e così da questo momento tutte le nazioni mi chiameranno beata”. (Luca I, 46, 48). – Così, Maria occupa un posto unico: Madre del nostro Signore Gesù Cristo Redentore del mondo, in virtù del suo “fiat” associata, come nessun’altra creatura poteva esserlo, all’opera di Lui, novella Eva, Madre della vita nuova in perfetto contrasto con la prima Eva. Nessuna meraviglia che Iddio abbia in anticipo benedetto quell’anima, ornandola come nessun’altra mai fin dall’istante del suo concepimento. Di più, pel solo fatto di essere vera Madre di Cristo, il Figlio di Dio, Maria veniva immediatamente a trovarsi rispetto alla SS. Trinità in una posizione nuova che trascendeva quella di ogni altra creatura. Era la diletta, la eletta dal Padre, sua collaboratrice personale nell’opera dell’Incarnazione. Era la Madre dell’Unigenito Figlio di Dio, con tutto il diritto naturale di una madre al suo rispetto, al suo amore e, in terra, perfino alla sua obbedienza. Anzi, per quella intimità che unisce il figlio alla madre, essa aveva anche il diritto di condividere in tutto la sua sorte: le gioie di Lui eran gioie sue, e così pure i dolori; e quando venne la vittoria finale chi poté più di Lei parteciparvi? Inoltre, Ella era, in un modo affatto intimo e suo proprio, tempio vivo dello Spirito Santo come l’Angelo aveva predetto: “Lo Spirito Santo scenderà in te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra? (Luca I, 35). Era il suo santuario di elezione, la sua sposa; con Lui e in obbedienza a Lui, eppur nondimeno per spontanea e completa sua cooperazione, avrebbe adempiuto alla sua missione di Madre di Cristo e Madre degli uomini generandoli tutti in Dio. Né si pensi che questo sia solo un titolo vago e poetico. Maria ha un particolare diritto a esser chiamata Madre del genere umano, come noi abbiamo diritto di chiamarla così. Abbiamo visto in altra parte di questo stesso capitolo l’importanza e il significato di quel Corpo mistico di cui Gesù Cristo è il capo. Maria, essendo Madre di Lui, Madre di quel principio vitale che ha dato vita a tutto il Corpo mistico, è pure Madre di tutto quel corpo. In un senso reale sebbene mistico le membra vive di quel corpo posson considerarla loro madre; la Madre di Gesù Cristo secondo la carne diventa Madre secondo lo spirito di tutte le sue membra. E quasi a confermare e sanzionare personalmente questa interpretazione, quasi a incoraggiare i suoi discepoli a portarla alla sua conseguenza logica, Nostro Signore Gesù Cristo volle che ci rimanesse il ricordo di un episodio memorabile svoltosi sul Calvario. Nell’istante in cui, con la sua morte, stava per compiersi l’opera della Redenzione, in cui, secondo le leggi di natura, il cuore della Madre avrebbe dovuto spezzarsi con l’ultimo battito del cuore del Figlio ed Ella quindi avrebbe dovuto morire con Lui, Cristo sostò a contemplarla. Le mostrò il suo diletto discepolo Giovanni e le affidò in lui il resto dell’umanità dicendo: “Donna, ecco tuo figlio”. Con quel dono veniva a sostituire Giovanni a se stesso nel cuore della Madre. Volle che la tenerezza materna di Maria trovasse uno sbocco nel discepolo prediletto. “Ogni volta che avete fatto ciò al minimo fra questi miei lo avete fatto a me”. Similmente mostrò Maria a Giovanni e gli ordinò di esser per Lei un figlio, in vece sua. “Ecco tua Madre” disse; e “Da quel momento egli la prese con sé”. Da quel momento e in virtù di quella raccomandazione, ogni devoto discepolo del Figlio ha accolto la Madre nel proprio cuore. – È questa l’interpretazione autentica del racconto di San Giovanni. È giunta sino a noi, tramandata nei secoli fin dal tempo di Origene e prima ancora, e gli storici non si stancano di ripeterci le felici conseguenze che ne derivarono alla cristianità, la liberazione della donna e il rispetto assicuratole, la sconfitta della brutalità dei barbari, la fondazione e lo sviluppo della cavalleria, la stima della castità e con essa di tutta la legge morale, e anche la gioia e la speranza offerte ai poveri e agli oppressi. – In questi due titoli, Madre di Dio e Madre del genere umano, si fonda tutta la devozione del Cattolico alla Beata Vergine Maria. Essa è la seconda Eva come Cristo è il secondo Adamo; come la caduta avvenne per colpa di una donna, per una donna si compì la riparazione. Ella rimane unica; unita così al Figlio di Dio, Ella è immacolata, esente — come nessuno — da macchia di peccato, e Dio si compiace di onorarla come Madre; come Madre gli piace ch’Ella venga onorata da noi, e in qualità di Figlio si degna di accordarle ciò ch’Ella chiede, quando lo supplica a favore dei suoi innumerevoli figli. Il Cattolico deve farsi violenza per non dire di più. Ama Maria con una tenerezza di figlio; pensa. a Lei e ne canta le lodi con cuore di fanciullo. Fin dai suoi primissimi anni il nome di Lei è sulle sue labbra; Ella è sempre stata l’ispirazione della sua arte e della sua letteratura; tutto ciò che di più bello è nel Cristianesimo è venuto da Lei. E oggi anche il tugurio più misero e l’infimo strato della nostra vantata civiltà trovano l’unico sollievo e l’unica luce loro nella devozione alla Madonna. – È giusto dire che la miglior riprova di una religione sta nell’aiuto ch’essa fornisce ai poveri. Sotto quest’aspetto, quante delle nostre moderne architetture di sofismi si riducono al nulla! Ma così non è della Chiesa Cattolica: essa è dovunque per eccellenza la religione del povero. “Pauperes evangelizantur”; e questo è particolarmente vero della devozione alla Madonna. – L’ultimo anno della guerra mondiale, nel mese di maggio, in uno dei quartieri più poveri di una grande città nostra, una povera donna era inginocchiata dinanzi a una statua della Vergine. Suo figlio, l’unico suo sostegno, era al fronte. Con le lagrime agli occhi essa esclamava: “Madre di Dio, sii buona col mio figliolo, e io sarò buona col tuo!”. Non aggiungeremo che questo: più si apprezza e si ama il Figlio, più si apprezza e si ama la Madre, e l’esperienza ce lo dimostra chiaramente. Così, quanto più si ama la Madre, tanto più aumenterà la devozione per il Figlio, poiché è innanzi tutto a motivo di Lui che si onora Lei.

LA GRAZIA E LA GLORIA (43)

LA GRAZIA E LA GLORIA (43)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO PRIMO

Nozioni preliminari. Come l’adozione abbia solo in cielo il suo ultimo compimento.

Finora abbiamo studiato i figli adottivi di Dio nella loro intima natura e nella loro crescita. È giunto il momento di considerarli nella loro perfezione finale. Ora, è necessario sottolineare che, approcciandoci a queste considerazioni sulla gloria, non usciamo dal nostro argomento, cioè l’adozione dei figli. Il Battesimo ci ha conferito questo privilegio quando, dandoci la grazia con l’effusione dello Spirito Santo, ci ha incorporato a Gesù Cristo. Quando siamo usciti dalle acque rigeneranti, eravamo figli di Dio; eppure, in un senso molto reale, non lo eravamo, poiché anche dopo questo bagno vivificante ci è stato raccomandato di diventare: ut ſilii sitis Patris vestri (Matth. V, 45). Santificati da una vita cristiana, uniti nella divina Eucaristia da legami sempre più stretti con il Figlio di Dio, trasformati in Lui in modo che il Padre non possa né guardarci senza avere il suo Cristo in noi, né guardarlo senza vedere noi in Lui, nulla sembri più mancare alla verità della nostra adozione. No, questa filiazione, per quanto reale in sé, non è ancora completa. La prova di ciò si manifesta nelle Scritture e nei loro autorevoli commentari. « Avete ricevuto lo Spirito di adozione di figli in cui gridiamo: Abba, Padre; e lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio » (Rom. VIII, 15, 16). La dottrina di San Paolo è ben riconosciuta. Un’adozione fondata su un’affermazione così precisa potrebbe lasciare qualche dubbio? Ma ascoltate il seguito: « La creatura è nell’attesa: aspetta la rivelazione dei figli di Dio. Infatti, soggetta come è alla vanità, non volontariamente, ma a causa di colui che l’ha sottoposta, spera che lei stessa, come creatura, sarà liberata dalla corruzione, per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio. » – Forse non si tratta qui che d’una restaurazione di natura materiale, degradata come la stessa natura umana, in punizione per il peccato. Si potrebbe crederlo se l’Apostolo non continuasse in questi termini: « Sappiamo che ogni creatura geme fino a quest’ora e si affanna nelle doglie del parto. E non solo, ma pure noi stessi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo, aspettando l’adozione dei figli di Dio, la redenzione dei nostri corpi. In effetti, noi siamo stati salvati, ma solo nella speranza, anche se siamo stati salvati dall’acqua della rigenerazione » (Tt. III, 5); la nostra adozione totale rimane nella speranza come la salvezza stessa. – Inoltre, Gesù Cristo ci assicura che questa rigenerazione che ci viene così spesso proposta come effetto proprio dei battezzati, sia ancora da farsi. Ecco come si esprime, parlando della ricompensa promessa a coloro che hanno lasciato tutto per seguirlo: « In verità vi dico, voi che mi avete seguito, nel tempo della rigenerazione, quando il Figlio dell’uomo siederà sul trono della sua gloria, anche voi sarete su dodici troni, che rappresentano le dodici tribù d’Israele » (Mt XIX, 27, 28). – E non è solo sull’adozione e sulla rigenerazione che troviamo affermazioni apparentemente contraddittorie, ma anche, e forse più insistentemente, sui principi che le costituiscono e sugli effetti che ne derivano. Era incorporato a Cristo, questo Apostolo delle genti che ha chiesto la dissoluzione del suo corpo per essere con Cristo? (Fil. I, 22)? Sono uniti a Dio, coloro che, secondo lo stesso Apostolo, attaccati a dei corpi mortali, « camminano lontano dal Signore » (II Cor. V, 6). Che altro dire: un’anima, per quanto la si ritenga pura, è in senso completo un tempio vivente dello Spirito Santo, quando deve implorare la Sua venuta? I doni che costituiscono il figlio di Dio hanno raggiunto la loro misura definitiva, quando lo stesso Spirito è ancora in lui sotto forma di « pegno e deposito »? (II Cor., V, 5; Efes., I, 14).  La grazia, questo seme di Dio, ha attecchito, come dovrebbe, in un cuore che lotta dolorosamente contro il peccato, che a volte vi soccombe, sebbene lo Spirito Santo ci assicuri che chi la possiede « non pecca »? (I Joan. III, 9). Infine, per riassumere tutto in una parola, possediamo noi l’eredità dei figli, noi a cui il Padre appare ancora attraverso dei veli? Pertanto, è necessaria una conclusione: il figlio di Dio non ha ancora raggiunto la sua perfezione finale, non è completo. Il Complemento Supremo manca all’opera (Da notare qui una bella nota di S. Bernardo sulle prime parole dell’orazione domenicale: Pater noster qui es in coelis. « Fidelis sermo cujus ipsa primordis et divinæ adoptioniset terrenæ peregrinationes admoneant: ut hoc scientes quod, quamdiu non sumus in cœlo, peregrinamur a Domino, gemamus intra nosmetipsos, adoptiones filiorum expectantes, præsentiam utique Patris » Serm. De Aquæd. N. 1). Qual complemento, questo è ciò che ora dobbiamo spiegare!

2. – Ma, prima di entrare nel merito, voglio ricordare una bella dottrina di sant’Agostino che conferma quanto abbiamo detto innanzi.  I pelagiani, non contenti di pretendere che l’uomo nasca senza peccato originale, insistevano anche sul fatto che potesse arrivare sulla terra a quella perfezione di giustizia che esclude ogni colpa, anche minima. A supporto di quest’altra eresia, ricorrevano proprio al testo di San Giovanni a cui si è appena accennato. « Chi è nato da Dio non pecca, perché è nato da Dio ». – A questa incredibile pretesa, rinnovata ai nostri giorni dai fanatici del protestantesimo, il grande Dottore rispodeva: « Si ingannano coloro che non considerano che l’uomo sia figlio adottivo di Dio, nella misura che possiede la novità dello spirito, cioè è rinnovato nell’uomo interiore, ad immagine di Colui che lo ha creato » (Colos III, 10). Ora, uscire dalle acque battesimali non significa aver deposto tutte le infermità del vecchio uomo. Il rinnovamento inizia con la remissione dei peccati, con il gusto per le cose spirituali in coloro che già le possiedono. Tutto il resto è più o meno nella speranza, fino al pieno rinnovamento che avverrà con la risurrezione dei morti. Ecco perché Nostro Signore dà a questa il nome di rigenerazione, non perché sia una rigenerazione simile a quella che avviene nel Battesimo, ma perché completerà nel corpo ciò che è già iniziato nello spirito. Nel giorno della rigenerazione – egli dice – quando il Figlio dell’uomo siederà sul trono della sua maestà, anche voi siederete su dodici troni, a giudicare le dodici tribù d’Israele. – « Se infatti il frutto attuale del Battesimo, oltre alla piena e completa remissione dei peccati, fosse ancora un passaggio completo e perfetto alla novità eterna dell’uomo, non dico nel Corpo, troppo evidentemente dominato dall’antica corruzione; ma nell’anima, nell’uomo interiore, l’Apostolo non direbbe: … Anche se il nostro uomo esteriore tende alla rovina, l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno (II Cor. IV, 16). Certamente, chi si rinnova continuamente giorno per giorno, non è del tutto nuovo; e nella misura in cui non si rinnova, appartiene alla vetustà: figlio del secolo per l’obsolescenza che rimane; figlio di Dio per la novità di cui è rivestito… Ecco perché l’Apostolo dice in un altro luogo: … sappiamo che ogni creatura geme e soffre come nel travaglio del parto. E anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo in noi stessi, aspettando l’adozione a figli di Dio, la liberazione del nostro corpo, ed infatti siamo ancora salvati solo nella speranza (Rom. VIII, 22, 24)… Dunque la piena adozione dei figli sarà consumata dalla liberazione del nostro corpo. – « È vero, noi abbiamo ora le primizie dello Spirito, ed ecco perché noi siamo realmente figli di Dio, ma per il resto, laddove siamo salvati e rinnovati solo nella speranza, non siamo ancora né salvati né rinnovati, siamo anche figli di Dio nella speranza, e di fatto figli del secolo. Perciò, man mano che avanziamo in questa giustizia e in questo rinnovamento che ci rende figli di Dio, noi non possiamo peccare; ma dal momento che siamo figli del secolo, noi possiamo ancora peccare, fino al giorno in cui non sarà avvenuta la trasformazione. E così si accordano queste due verità apparentemente inconciliabili: chi è nato da Dio non pecca; e: … se diciamo di non avere peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi (1 Giovanni I, 10; III, 2). « Così verrà anche il giorno in cui ciò che resta in noi del figlio della carne e del secolo, sarà pienamente consumato nel giorno in cui sarà perfetto ciò che è del figlio di Dio, rinnovato nello spirito. Perciò lo stesso Giovanni dice altrove: « Miei diletti, ora siamo figli di Dio ma ciò che saremo non è ancora manifesto ». Che cosa significano queste parole: noi siamo e noi saremo, se non che noi siamo in speranza e che noi saremo nella realtà? Infatti aggiunge: « Sappiamo che nel giorno della sua manifestazione saremo simili a Lui, perché lo vedremo come Egli è in se stesso » (1 Giovanni III, 2); ora, dunque, le primizie dello Spirito hanno abbozzato la somiglianza; ma la dissomiglianza rimane ancora nei resti della nostra vetustà. Figli di Dio per rigenerazione spirituale e nella misura della nostra somiglianza, non possiamo peccare; figli della carne e del mondo nella proporzione della nostra dissomiglianza, se ci lusinghiamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi; e questo, fino al giorno benedetto in cui, avendo l’adozione preso possesso di tutto il nostro essere, il peccatore svanirà a tal punto in noi (Sal. XXXVI, 10), che si cercherà il suo posto e non lo si troverà più » (S. August, de Peccat. merit. et remiss., L. II, n. 9 e 10). Questo testo è molto lungo, lo confesso, ma contiene una spiegazione così chiara di ciò che manca ai giusti della terra per essere nella pienezza della loro adozione, che non ho pensato di poterlo omettere, e nemmeno abbreviare. – Possiamo quindi distinguere tre gradi nella filiazione adottiva. Nella prima c’è l’adozione che spettava ai giusti che erano soggetti alla legge mosaica e, più in generale, a tutti i Santi che vivevano prima della Redenzione attraverso Gesù Cristo, Nostro Signore: adozione vera, ma iniziale, le cui principali imperfezioni abbiamo descritto altrove (L. IV, c. 6). Al secondo grado, c’è la filiazione più completa, appannaggio dei fedeli che appartengono alla legge del Vangelo. Nel terzo e supremo grado, troviamo la filiazione che non è più della terra ma del cielo. I figli di adozione, nella misura in cui facevano parte dell’Antico Testamento, erano per quelli della legge di grazia in rapporto di un servitore rispetto al figlio di casa (Galati IV, 5, 6, 24, 27; Romani VIII, 15 ss.). I figli, che camminano ancora sulla via, ma governati e vivificati dalla nuova Economia, sono rispetto agli abitanti gloriosi della patria, quello che un bambino appena uscito dalle fasce, è nei confronti dell’uomo perfetto. (I Cor. XIII, 12, 13). Non basta aver dimostrato la necessità di un complemento per la consumazione finale dei figli adottivi di Dio. Ci resta da dire quali perfezioni comporti; e poiché il figlio di Dio che siamo è sia spirituale che corporale, tratteremo in seguito le perfezioni che gli sono promesse e che lo attendono da questo duplice punto di vista.

LA GRAZIA E LA GLORIA (44)

9 NOVEMBRE (2022): DEDICAZIONE DELL’ARCIBASILICA DEL SS. SALVATORE IN LATERANO

9 NOVEMBRE: DEDICAZIONE DELL’ARCIBASILICA DEL SS. SALVATORE IN LATERANO

(Benedetto Baur O.S. B.: I Santi nell’Anno Liturgico; Herder Ed. 1958)

1. – La Basilica lateranense gode di una speciale importanza per essere la Chiesa madre di tutte le chiese del mondo, la prima chiesa del Salvatore, eretta dall’imperatore Costantino. Poiché dal tempo di Costantino per quasi dieci secoli i Papi risiedettero nel palazzo del Laterano, questa basilica è anche la Chiesa Cattedrale del Papa. Come cattedrale papale e come « madre di tutte le chiese », la basilica del SS. Salvatore fu agli occhi del mondo cattolico il simbolo dell’autorità pontificia. La chiesa del Laterano fu consacrata da Papa Silvestro il 9 novembre 324. Nell’896 crollò in seguito a un terremoto, fu ricostruita sotto Sergio III e ricevette come patrono S. Giovanni Battista. Nel secolo XIV subì due incendi, uno nel 1308 e un altro nel 1361. Col restauro barocco del secolo 17° l’interno della basilica perdette molto del suo carattere primitivo e medioevale. – Nella festa della Dedicazione la Chiesa non pensa soltanto alla casa di pietra: questa è per lei il simbolo e la rappresentazione della Chiesa vivente, della Chiesa qui sulla terra e della Chiesa celeste. Questo simbolismo si addice in modo particolare alla chiesa «madre e capo di tutte le chiese ».

2.-« In quel tempo Gesù, entrato a Gerico, attraversava la città. Ed ecco che un uomo, per nome Zaccheo, che era capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non poteva a motivo della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e montò sopra un sicomoro per vederlo, perché egli doveva passar di là. E come Gesù fu giunto in quel luogo, guardò su, lo vide e gli disse : « Zaccheo, scendi presto, perché oggi devo albergare in casa tua. Ed egli s’affrettò a scendere e lo accolse con allegrezza ». In Zaccheo, pagano e pubblicano, la liturgia della festa della Dedicazione riconosce la Chiesa che è pervenuta a Cristo, alla salvezza, dal paganesimo. Piccolo di statura e insignificante, disprezzato dal popolo eletto d’Israele, il paganesimo anela ardentemente di conoscere il Salvatore che il giudaismo, nel suo accecamento, rigetta. In Zaccheo esso precorre il popolo d’Israele ed ottiene per primo la salvezza. Presso la Chiesa proveniente dalla gentilità il Signore prende alloggio ed elargisce benedizioni. Essa lo accoglie con allegrezza. « Oggi su questa casa (la santa chiesa), è venuta la salvezza », poiché in Zaccheo anch’essa, la Chiesa delle Genti, è divenuta un « figliuolo di Abramo » cui va l’eredità del popolo eletto. Essa, la santa Chiesa è diventata « il tabernacolo di Dio in mezzo agli uomini ». Nella Chiesa « Egli abiterà con loro: ed essi saranno Suo popolo » (Epistola). Essa, la santa Chiesa sa di essere l’abitazione di Dio, piena di Dio e di Cristo, piena di grazia e di verità, « la casa di Dio e la porta del cielo ». Per questo la Chiesa ringrazia ed esulta senza fine. Essa accoglie il Signore con allegrezza in ogni santo Sacrificio, in ogni sua parola, in ogni grazia che Egli dona ai suoi figli. « Oggi su questa casa è venuta la salvezza ». « Ma Zaccheo si presentò al Signore e gli disse: Ecco, Signore, la metà dei miei la dò ai poveri, e se ho frodato qualcuno, gli rendo il quadruplo » (Vangelo). Non appena il Signore è entrato nella casa di Zaccheo, opera una completa conversione e trasformazione nel cuore del pubblicano. Che cosa eravamo, che cosa avevamo prima che venissimo alla Chiesa e a Cristo? « Eravate morti per i vostri falli e i vostri peccati, seguendo le cupidigie della carne. Facevamo i voleri della carne e dei pensieri ed eravamo per natura figliuoli dell’ira. Ma Dio, ricco di misericordia, ci richiamò in vita con Cristo, e con lui ci risuscitò » (Efes. II, 1 segg.). Il Signore alloggia presso Zaccheo. Egli solleva la gentilità fuor dall’abisso del suo traviamento e della sua perdizione, riempie le anime con la sua luce, con la sua vita col suo spirito di santità. La gentilità abbandona la precedente perversione e diviene la « santa » Chiesa, la Sposa del Signore « senza macchia, né  ruga » (Efes. V, 27). Così dice il Signore: « Ecco, io rinnovo tutte le cose » (Epistola). Questo è il gioioso ringraziamento della Chiesa nella giornata odierna. Noi ci associamo.

3 – Il giorno in cui Papa Silvestro consacrò la basilica Lateranense, Cristo Signore nel Santissimo Sacramento ha preso dimora in questo tempio e da allora, attraverso lunghi secoli ha salvato e santificato innumerevoli uomini. Nell’odierno anniversario della dedicazione lo ringraziamo per questo suo continuo e misericordioso operare. Nella Chiesa-madre del mondo riconosciamo la sublime immagine della santa Chiesa da Cristo fondata. Cristo continua a vivere, attraverso tutti i tempi, nella sua Chiesa. Egli la sorregge e guida e la compenetra del suo Spirito e della sua forza, della sua verità e della sua grazia, cosicché in definitiva « è lui che mediante la Chiesa battezza e ammaestra, lega e scioglie, offre ed immola ». Se già il popolo d’Israele considerava una grandissima gioia di pensare al suo tempio in Gerusalemme (Ps. CXXXVI, 5-6) « con quanta maggior gloria e più ampio gaudio abbiamo noi il dovere di esultare appunto per questo che siamo cittadini di una Città costruita sul monte santo con vive e scelte pietre e della quale è pietra angolare Gesù Cristo » (Efes. II, 20; 1 Pietr. II, 4-5). Giacché niente si può immaginare di più glorioso, niente di più nobile, niente senza dubbio di più onorifico, che appartenere alla santa, cattolica, apostolica e romana Chiesa, per la quale diventiamo membra di un unico e così venerando Corpo, siamo guidati da un unico e così eccelso Capo, siamo ripieni di un unico divino Spirito, siam nutriti in questo terrestre esilio da una sola dottrina e da uno stesso Pane angelico, finché ci ritroveremo a godere di un’unica sempiterna beatitudine nei cieli » (Papa Pio XII, Enciclica sul Mistico Corpo di Cristo).

Preghiera

O Dio, che da pietre vive e scelte prepari alla tua Maestà una eterna abitazione, soccorri il tuo popolo che ti prega, affinché mentre la tua Chiesa si sviluppa nello spazio materiale, moltiplichi anche i suoi progressi spirituali. Amen.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (6)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (6)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO II

LA VITA IN GESÙ CRISTO

2. – Applicazione.

Accettata questa dottrina come una verità viva, è logico ch’essa influisca su tutta la nostra concezione della vita. Vero è che abbiamo esposto un ideale, e non a tutti è dato di realizzare l’ideale; tuttavia, anche per l’essere più meschino che pure ancora crede la luce è lì che splende e gli illumina il cammino. Quando tutto intorno è grigio e desolato egli trova anche sulla terra uno scopo alla vita, ed è cosa assai più preziosa di quanto di meglio il mondo possa mai offrire. In grazia di questo ideale tutte le cose di quaggiù acquistan nuovo valore e nuove proporzioni, e il mondo stesso appare in una prospettiva affatto diversa. E s’illuminano di luce nuova gli articoli della fede cristiana che alcuni credono di avvilire chiamandoli dogmi, e la ragione trova un altro punto di partenza, maggiori argomenti e orizzonti nuovi che da sé sola non avrebbe mai potuto scoprire. –  Prendiamo ad esempio un punto fra i tanti: che cosa intende il cattolico per vita sacramentale. Per chi crede nella presenza di Gesù Cristo i sacramenti sono assai più di quanto appare dal loro rito esteriore. Sono l’innesto nel corpo, sono le articolazioni delle membra, sono le vene per le quali il sangue di Cristo circola in ogni parte dell’organismo. Siccome Egli stesso li ha istituiti e ha conferito loro efficacia, per essi si inizia il movimento di quella vita che la loro azione successiva alimenta ed accresce. Così, l’importanza del Battesimo determina in certo modo quella dei sacramenti che lo seguono. Per virtù sua propria, secondo la promessa di Cristo e senza alcun merito nostro, esso ci inserisce nel corpo e nella vita di Lui, e l’azione degli altri sacramenti, indipendentemente da noi, per virtù propria accresce in noi quella medesima vita. Ciò è vero soprattutto della Santa Eucarestia, quello che il Cattolico devotamente chiama il Santissimo Sacramento e che è il cibo per la vita dell’anima. Ma la vita ch’esso viene ad alimentare altro non è che la vita di Cristo presente in noi, e quella non può esser nutrita se non dal Cristo vivo che viene a noi. Non occorrono incitamenti al cattolico perché sia devoto dell’Eucaristia. È la sua gloria, il pegno  dell’amore di Dio, l’alimento quotidiano di quella sua vita soprannaturale che gli è assai più cara della stessa vita materiale. È la visita dall’amico per eccellenza che penetra nel suo cuore, o meglio, lo attira in un Cuore che ama come nessun altro sa amare. Come potrebbe il Cattolico non desiderare ardentemente che anche altri conoscano questa Via, questa Verità, questa Vita e di essa come lui si glorino? –  Ma non sono i sacramenti l’unico mezzo con cui si accresce in noi la vita di Cristo. Ogni atto meritorio che compiamo, dopo essere stati per il Battesimo uniti a Cristo, ci ottiene un aumento di vita divina e ci unisce a Lui ancor più intimamente. E così è soprattutto se viviamo, ci muoviamo, operiamo in unione con Lui, quando ci lasciamo guidare da Lui, quando aspettiamo da Lui l’impulso vitale che ci occorre, quando lo invitiamo a vivere in noi e a operare per mezzo nostro, non secondo la nostra ma secondo la sua volontà. Allora noi siamo davvero membra sue, tralci della vite resi fecondi dalla sua stessa linfa vitale. Quando la sua volontà si compie in noi e per noi, allora Egli vive davvero in noi in modo reale, e noi lo esperimentiamo sempre meglio, a ciascun atto che compiamo in unione con Lui. “Colui che dimora in me e nel quale io dimoro porta abbondanti frutti”. (Giov. XV, 5). Questo è quindi pel Cattolico nella vita pratica, come conseguenza della abitazione di Cristo in lui, il secondo ideale che si sforza di raggiungere. E proponendosi di coltivare sempre più la sua unione col Cristo vivo, egli sa di perseguire lo scopo essenziale della sua esistenza. Darà a Dio la lode, la reverenza, il servizio che gli deve, e con ciò farà in questo mondo e nell’altro l’essere perfetto che Dio vuole egli sia. Non lascerà passare nessuna giornata senza offrirla al suo Dio in unione a Cristo che vive in lui. Nell’alzarsi al mattino vorrà subito unirsi a Cristo e con Lui offrirsi al Padre per fare la sua volontà. “Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra” è l’offerta mattutina di ogni vero Cristiano. E nel resto della sua preghiera il Cristo gli sarà ancora modello e ispirazione. Se fa meditazione, cerca una guida nel suo Maestro, studia la verità e la virtù e gli ideali di tutta l’umanità come in Lui si manifestano, a Lui chiede luce per poter vedere il meglio e forza per eseguirlo. E se vuole di più, la santa Messa è ogni giorno a sua disposizione. Assistervi quotidianamente non è per lui una singolarità né un eccesso di devozione: è cosa naturale per chi crede che Gesù Cristo suo Signore è morto per lui, che la sua immolazione si rinnova ogni giorno sull’altare e che, inginocchiato dinanzi alla croce che lo sovrasta, egli può meglio associarsi a quel sacrificio d’amore e ottenere il perdono dei suoi peccati e la grazia e la provvidenza di Dio per sé e per tutti. Né egli si contenta della Messa quotidiana. Sa che gli è possibile, se vuole, anche la Comunione quotidiana; e si contano a migliaia, grazie a Dio, anche solo in Inghilterra, coloro che di tale possibilità approfittano. Così iniziano la giornata con la Comunione, cantando il loro Magnificat, e rinnovano col loro Signore e Maestro quel patto di unione che vorranno mantenere ad ogni costo. Nella Comunione si svolge la prima conversazione della loro giornata con Colui il cui orecchio è sempre disposto ad ascoltarli, e gli espongono i loro bisogni non solo, ma anche quelli di tutti gli uomini, della Chiesa intera. E si partono dall’altare con una luce nuova negli occhi, e nel cuore quella calma, quella pace che il mondo non può dare né può togliere. – Come potrà un giorno iniziato così essere un giorno sprecato o soltanto futile? Come potrà una nazione, in cui ciò si verifichi quotidianamente, non essere benedetta agli occhi di Dio e degli uomini? Così vorrà dunque il Cattolico fervente dar principio alla sua giornata, se non sempre di fatto almeno in ispirito, e quand’anche la pratica della Messa e Comunione quotidiana non gli sia abituale né  possibile, per lo meno non la troverà strana negli altri. E così preparato, si avvierà al lavoro. Anche l’umile contadino può sapere non solo che Cristo fu Egli operaio, ma ch’Egli stesso oggi lavora in lui. Può rammentare a se stesso che nell’attendere a qualsiasi occupazione egli fatica in unione con Cristo quale membro attivo del corpo di Lui, per il bene di tutti. Può mangiare, bere, riposare, sapendo che anche Cristo conobbe e soddisfece la fame, la sete. la stanchezza, e prese il necessario riposo qualche volta in luogo deserto e appartato, qualche volta presso i suoi amici; e quanto fece allora fa adesso in coloro che sono membra attive del suo corpo. Durante il giorno possiamo vedere in ogni Chiesa e ad ogni ora, quasi dappertutto e come cosa naturale, il Cattolico che entra a visitare il suo grande amico per intrattenersi con Lui sia pur brevi istanti e rinnovare con Lui l’intesa reciproca. Le parole: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed oppressi e io vi ristorerò” hanno per lui un significato pratico nella vita d’ogni giorno; e nell’ora del bisogno non dimentica Colui che “può salvare perfettamente coloro che per via di Lui si accostano a Dio, sempre essendo da poter intercedere in loro favore. “Ebr. VII, 25). –  E se l’unione con Cristo determina ed orienta così l’anima e l’atteggiamento dei Cattolici per quel che riguarda il ritmo ordinario della vita privata, altrettanto farà dei loro rapporti col prossimo. Anche senza rendersene conto esplicitamente, il Cattolico non potrà mai dimenticare che Nostro Signore Gesù Cristo vive in tutti gli uomini o almeno desidera di vivervi, e che tutti come lui sono chiamati a esser membri di quel Corpo mistico che è Cristo al quale egli appartiene. Da questo pensiero fa derivare la propria concezione dell’autorità e il proprio atteggiamento verso di essa. Non dimentica che per legittima autorità il Maestro disse: « Chi ascolta voi ascolta me, e chi disprezza voi disprezza me » (Luca X, 16) e che anche di un’autorità indegna della sua fiducia poté dire: “Sulla cattedra di Mosè stan seduti gli Scribi e i Farisei. Fate dunque e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non imitate le loro opere » (Matt. XXIII, 3). Perciò, quando obbedisce a un padrone legittimo che gli comanda un qualsiasi atto lecito, egli sa di obbedire a Cristo stesso; ma se il comando impone cosa illecita, e viene a violare una legge più alta, allora egli resisterà anche a costo della vita. Il Cattolico sa pure che per la pratica dell’obbedienza egli si fa più simile a Colui la vita del quale si può sintetizzare in questa semplice affermazione: “stava loro soggetto” e del quale si può raccontare la storia con queste altre parole: “fatto obbediente fino alla morte”. Analogamente, per quel che riguarda i suoi simili, egli sostiene e segue un principio che non è nuovo ma che, in sostanza ha trasformato il mondo e ha fondato la nostra civiltà e al quale oggi ci richiamiamo davanti alla instabilità di tutte le basi della nostra società. “In verità vi dico, tutte le volte che avete fatto qualche cosa a uno di questi minimi tra i miei fratelli l’avete fatto a me», (Matt. XXV, 40). – Non dimentichiamo che, come già abbiamo osservato, in questa espressione ripetuta sotto varie forme dal fondatore del Cristianesimo, sta la chiave di tutta la nostra interpretazione della vita sociale. Il Cattolico ha imparato attraverso i secoli a riconoscere nel minimo dei fratelli il suo Signore e Maestro, il suo Cristo, a servir Lui in loro, ad amarli come ama se stesso, anzi di più, ad amarli com’egli è amato da Cristo. Ricorda San Paolo che intercede per Onesimo, lo schiavo fuggitivo, presso il padrone di lui Filemone, e trova facile, anzi più che naturale, accettar la dottrina che fra gli uomini non c’è né schiavo né padrone. Il padrone stesso addolcirà il suo comando nel ricordare che il suo servo è per lui come Cristo Signor nostro “colui che serve”. Non potrà più l’eguale proporsi di superare o di schiacciare il suo eguale, perché esso è per lui al posto di Cristo. Con questi principî il Cristianesimo è sempre stato una religione di aiuto reciproco, e il presente lo attesta dovunque non meno del passato. Se il Cristianesimo, se la Chiesa Cattolica si sviluppa, la carità in azione progredirà di pari passo; soffocatela, e la carità andrà decadendo. È una realtà che il governo inglese conosce bene e di cui si vale in paesi nei quali senza l’aiuto della Chiesa poco o nulla potrebbe fare. – E guardando oltre l’ambito del Cristianesimo, considerando in patria o all’estero coloro pei quali Cristo è nulla, il vero seguace di Cristo sa che non per questo essi sono esclusi dall’incommensurabile amore di Lui. Per quanto colpevoli siano, per quanto lo disprezzino e l’oltraggino, pure proprio per essi Cristo implorò: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Sebbene essi lo sfuggano, convinti — perché così fu loro insegnato — che Cristo sia un falso maestro, una minaccia alla loro libertà e ai loro diritti, un prevaricatore da doversi evitare e combattere e possibilmente sconfiggere con tutti i suoi seguaci, pure Egli li insegue col suo amore e non li lascerà finché vivranno. Cristo vorrebbe incorporare a Sé anche loro, vorrebbe accogliere ancor loro nel suo ovile. “Ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche quelle bisogna che io conduca”. Nei riguardi loro il vero discepolo di Cristo vorrà pensare e comportarsi come Lui, e come Lui adoperarsi a loro vantaggio. Sa che Cristo, Re di tutte le creature, il cui regno ricopre la terra intera, i cui diritti sono assoluti, chiede anche in questo la collaborazione dell’uomo, per restaurare in Sé tutte le cose e riunire tutti quanti in Sé; e il Cattolico si offrirà a questo nobile compito con la preghiera, con la parola, con l’azione, con l’esempio e, se chiamato, anche con la dedizione di tutto se stesso. Credendo tutto ciò che crede di Cristo e del suo Corpo mistico e desiderando di condurvi tutti gli uomini, ogni Cattolico, se sincero e coerente, deve di necessità essere apostolo. “La vostra luce risplenda dinanzi agli uomini in modo tale che, vedendo le vostre opere buone, dian gloria al Padre vostro che è nei cieli”. (Matt. V, 16). E da ultimo, con Gesù Cristo è entrato nel mondo anche nei rapporti coi nostri nemici uno spirito affatto nuovo. Aristotile, come risulta dalla sua Etica, aveva dell’uomo un alto concetto, ma di fronte all’ingiuria e all’insulto non sapeva concepire altra nobiltà che nella giustizia quale egli l’intendeva e nella vendetta.  Anche il Vecchio Testamento domandava “occhio per occhio, dente per dente”. Gesù Cristo propone un’altra misura. « Avete sentito che è stato detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Io invece dico a voi: “Amate i vostri. nemici, fate del bene a chi vi odia, e pregate per quelli che vi perseguitano e vi calunniano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli il quale fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se voi amate coloro che vi amano, qual ricompensa meritate? Non fanno forse altrettanto anche i pubblicani? E se voi salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno forse altrettanto anche i Gentili? Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli » (Matt. V, 43, 48). – Fu e rimane ancor oggi lezione difficile per la natura umana, ma appunto per questo forse Cristo non si stancò di ripeterla. E col tempo l’uomo ha compreso. Fu l’ultima lezione che gli Apostoli riuscirono ad afferrare, sebbene impartita loro fin dal principio, e una volta assimilata fu la lezione più importante che dovettero insegnare agli altri. In ciò solo il mondo ha trovato una nuova luce e una nuova vita “per Gesù Cristo”. “E lapidarono Stefano mentr’egli invocava Gesù e diceva: “Signore Gesù, ricevi lo spirito mio”. Poi, caduto ginocchioni, gridò a gran voce: “Signore, non imputar loro questo peccato”. E, detto questo, “si addormentò nel Signore”. (Atti VII, 58, 59). – San Paolo e San Pietro non si scostano da questa lezione. “Non lasciarti vincer dal male, ma vinci nel bene il male ». (Rom, XII, 21). “Poichè è una grazia se per riguardo a Dio uno sopporta molestie soffrendo ingiustamente. Infatti, quale gloria c’è quando si soffre perché si è peccato e si è puniti? Ma se vi tocca patire quando fate del bene, e voi lo sopportate pazientemente, codesta è grazia presso Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo ha sofferto per noi, lasciando a voi l’esempio, affinché seguiate le sue orme. Egli non fece mai peccato e mai sul labbro di lui fu trovato inganno. Maledetto, non malediceva; soffrendo, non minacciava, anzi si rimetteva nelle mani di chi ingiustamente lo giudicava. Egli stesso ha portato i nostri peccati sul suo corpo, sul legno, affinché morti al peccato viviamo per la giustizia, risanati dalle sue piaghe. Infatti, eravate come pecore erranti, ma ora siete ritornati al pastore e vescovo delle anime vostre”. (I Pietr. II, 19, 25). E tutto ciò San Paolo riassume nella sua definizione pratica e indimenticabile della carità cristiana, superiore a quante ne siano state date prima di lui: “La carità è longanime, è benigna; la carità non ha invidia, non agisce invano, non si gonfia, non è ambiziosa, non è egoista, non si irrita, non pensa il male, non si compiace dell’ingiustizia, ma gode della verità; soffre ogni cosa, ogni cosa crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non mai vien meno”. (I Cor. XIII, 4, 8). Ecco quello che possiamo chiamare il programma d’azione del Cattolico il quale considera la sua fede né più né meno come l’incorporazione al Corpo mistico di Cristo nostro Signore. La sua vita è la vita di Cristo stesso. “Per me vivere è Cristo e morire è un guadagno”. (Filipp. I, 21). Il suo ideale è riprodurre Cristo, farlo vivere in sé. “Vivo, non più io, ma vive in me Cristo”. (Gal. II, 20). Avendo coscienza di questa incorporazione, e della propria dignità di vero figlio adottivo di Dio che ne è la conseguenza, nulla è difficile. Egli ha nuove prospettive, ormai: il suo orizzonte si allarga oltre i confini di questo mondo. Ogni cosa di quaggiù perde valore in se stessa e solo conserva quello di mezzo ad un fine più alto, di mezzo con cui dar prova di amore e di fedeltà al Signore. Perché questo amore si sviluppi deve necessariamente esercitarsi, e trova il suo oggetto nel prossimo che Cristo pure ama. Così ogni relazione coi nostri simili assume un significato nuovo. Amarli come membri del Corpo di Cristo è amar Cristo stesso, render loro servigio è renderlo a Lui, e noi sappiamo benissimo che ne saremo ripagati il centuplo con un aumento di amore, qualunque sia quaggiù il nostro destino visibile. – E amar Dio e il prossimo così, ecco l’adempimento della legge, ecco la perfezione dell’uomo anche secondo i canoni di questo mondo. Non è questo l’ideale di tutti, ché anzi, ad alcuni, potrà apparire strano ed irrealizzabile, ma precisamente questo fu insegnato da Colui che è la stessa verità e che nel magistero di essa non ha eguali né simili; è l’ideale che per diciannove secoli milioni di anime hanno vissuto e che ancor oggi differenzia la civiltà cristiana da tutte le altre. Milioni di anime lo vivon tuttora, e anche a coloro che trovano la sua perfezione troppo alta per creature imperfette quali noi siamo, a noi stessi, quest’ideale appare come luce radiosa se pur lontana, avvicinarsi alla quale è indice sicuro di progresso, ideale superiore ad ogni altro che mai sia stato immaginato per noi e per tutto il genere umano. Quando dunque io mi chiedo che cosa è la mia Chiesa, mi sento subito come assorbito in un centro più grande, come una pietra nell’edificio, come il ramo nel suo albero, come il membro nel corpo. La mia Chiesa rappresenta per me assai più di quanto io non rappresenti a me stesso; essa ha più di me pienezza di vita, e io non vivo che come parte di lei. Tanto è vero che i suoi pensieri e i suoi ideali sono i miei, la meta ch’essa si propone diventa la mia meta; in senso proprio e per me affatto naturale, io vivo, ma non più io: essa vive in me. Come la mia mano non si considera minimamente, ma considera soltanto me cui essa appartiene, non avendo alcuna vita di per sé ma solo quella che le viene dalla mia persona viva, così io come Cattolico posso non considerarmi affatto, ma solo considerare il corpo al quale appartengo e vivere non per mio conto, ma solo in quanto attingo vita da lui che vive indipendentemente da me e che in me fa scorrere il suo principio vitale. Nella Chiesa io vivo e mi muovo e ho l’esser mio; e tutto ciò è diventato così naturale per me che non posso più pensarmi, isolato, che come un atomo sperduto, membro distaccato e inanimato nel quale non è vera vita. La mia vita è la sua, il mio essere è il suo, ad essa vanno il mio amore e il mio servizio, allo stesso modo che a me spetta tutta la docilità, tutto il servizio della mia mano. Essa è l’organismo vivo. io non sono che uno dei suoi organi; essa il corpo, io solo un membro; essa è il tutto vivente, io solo una Parte; essa la sposa di Cristo, io null’altro che uno dei suoi lineamenti. E io posso venerare così la mia Chiesa e aderire a lei così, perché so che il suo spirito è lo spirito di Cristo stesso. Egli abita in lei come nel suo proprio Corpo; essa è risorta con Lui dalla tomba e perciò non può più morire: la morte non ha più su di lei alcun potere. Con essa e per essa, e perciò “in Cristo Gesù” sono anch’io risorto da morte, sono ripieno del suo spirito, sono non più l’io naturale e inanimato, ma un membro di Lui, e quando il mio corpo morrà, allora conoscerò che cosa è vivere. Ora vedo come in uno specchio e in maniera oscura, allora vedrò a faccia a faccia. Egli è il capo vivo e reale di questo corpo vivo e reale, e io sono membro, parte di quel medesimo corpo che è il corpo di Cristo, — tanto la Chiesa Cattolica è viva, feconda e intimamente unita ai suoi veri membri, tanto, per essa, ì suoi membri sono uniti a Cristo nostro Signore.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (7)

LA GRAZIA E LA GLORIA (42)

LA GRAZIA E LA GLORIA (42)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VIII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. — I SACREMENTI, E SPECIALMENTE L’EUCARISTIA, SECONDO MEZZO DI CRESCITA.

CAPITOLO IV

In cui si mostra come l’Eucaristia, per la natura stessa del suo frutto, sia l’agente più efficace della nostra crescita spirituale, e in qual misura la operi.

1. – Non è senza un disegno che io abbia sviluppato così a lungo, forse troppo a lungo se ci atteniamo alle apparenze, i principali effetti della Santa Eucaristia. Era necessario esporli, per così dire, davanti agli occhi del lettore per mostrare che esso è, in modo eccellente per i figli di Dio, il Sacramento della crescita. Partiamo dal presupposto che, per ricevere questo nutrimento divino con frutto, bisogna avere regolarmente la grazia di Dio nel cuore (Un gran numero di teologi di ogni scuola, e dei più gravi, insegnano che, in alcuni casi particolari, si può, accostandosi alla sacra mensa con una colpa mortale che non sarebbe stata né accusata né perdonata, non solo non è peccare, – cosa su cui tutti sono d’accordo – ma anche si riceve la Comunione con frutto. Ma perché ciò avvenga, sono assolutamente necessarie due condizioni. In primo luogo, il colpevole non deve essere consapevole del suo peccato, perché se ne fosse consapevole dovrebbe innanzitutto presentarsi al Sacerdote per ricevere l’assoluzione. In secondo luogo, nel cuore non deve esserci nulla che si opponga al recupero della grazia, e di conseguenza nessun attaccamento al peccato commesso, poiché senza pentimento e senza un proposito è impossibile riconciliarsi con Dio. Quando queste due condizioni sono soddisfatte, l’Eucaristia produce i suoi effetti di grazia, cosicché chi l’ha ricevuta da peccatore torna ad essere quello che in buona fede avrebbe dovuto essere: un figlio e un amico di Dio. Essi sostengono questa opinione con autorità così forti e ragioni così convincenti che non ho alcuna esitazione ad essere del loro avviso). Prenderla consapevolmente e volontariamente con una di quelle colpe che ci renderebbero sacrileghi nemici di Dio, sarebbe un attacco sacrilego al corpo e al sangue di Gesù Cristo. Le ragioni di ciò, per non parlare del costante insegnamento della Chiesa, sono evidenti e numerose. Ricevere la Comunione significa mangiare. E mangiare è l’atto di un essere vivente. Vivete della vita spirituale e divina, prendete questo pane della vita, mangiatelo: è per voi, è vostro. Ma se voi siete morti, che diritto avete di avvicinarvi ad una tavola imbandita solo per i vivi, e che potere avete di ricevere e assimilare il suo cibo celeste? – Ricevere la Comunione significa agire da amico. Ascoltate coloro che la Sapienza chiama al banchetto: « Amici miei, mangiate e bevete, inebriatevi, miei diletti » (Cant. V., 1). Chi sono coloro che Gesù Cristo ha invitato per la prima volta al banchetto dell’Eucaristia? Gli Apostoli ai quali aveva appena detto: « Voi siete miei amici, ed è con questo nome che voglio chiamarvi » (Gv. XV, 14-15); gli Apostoli ai quali Egli aveva lavato i piedi, per insegnare loro la purezza di cuore che chiede ai suoi commensali. Il figliol prodigo che torna dai suoi lunghi errori non si siede al banchetto preparato per celebrare la gioia del suo ritorno, se non prima di aver ricevuto il bacio paterno ed aver scambiato la sua sordida veste con quella che indossava prima. Ricevere la Comunione significa prendere, sotto le sfumature appropriate al nostro stato di prova, il cibo divino, oggetto e fonte della beatitudine eterna. Ora alla cena beata delle nozze dell’Agnello non ci sarà posto per « cani, avvelenatori, fornicatori, assassini, idolatri, per chiunque ami e pratichi la menzogna » (Apoc. XXI, 8; XXII, 15). – Infine, ricevere la Comunione significa affermare che si appartiene a Cristo; diciamo di più, che si è, in una certa misura, Cristo stesso. « I fedeli conoscono il corpo di Cristo, se essi non dimenticano di essere del Corpo del Cristo. I fedeli conoscono il corpo di Cristo, se non trascurano di essere del corpo di Cristo. Che diventino il corpo di Cristo, se pretendono di vivere dello Spirito di Cristo: perché nulla vive dello Spirito di Cristo, se non il corpo di Cristo » (S. August., Tract. XXXVII in Joan. N. 13). Così parla Sant’Agostino. E altrove: « Chi mangia a questa tavola è tenuto ad essere ciò che viene a mangiare » (Sant’Agostino nel Salmo XLVIII, Serm. 1 n. 3). È per farci comprendere questa bella dottrina che il Salvatore, prima di dare il suo corpo ai suoi discepoli, se ne è nutrito per primo; e che, prima di distribuire il suo calice, vi intinse le sue divine labbra. Il corpo e il sangue di Gesù Cristo, che appartengono solo a Lui, abbiamo il diritto di prenderli solo a condizione di essere incorporati alla sua Persona mistica. Che cos’è il Cristiano che fa la Comunione? Un dio che si nutre di Dio (anche Giovanni Crisostomo parla della Comunione del Salvatore). La ragione che egli adduce, sebbene diversa, non ne è però contraria. « Egli non voleva che gli Apostoli lo sentissero dire: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue; mangiate e bevete, e che fossero perciò turbati e pensassero: E che, mangeremo della carne e berremo del sangue? Perciò Egli stesso fu il primo a compiere ciò che li esortava a fare. Affinché potessero partecipare ai misteri con animo tranquillo, Egli stesso bevve il proprio sangue » – Homil. 82, al. 83 in Matth, n. 1. P. Gr., t. 5, p. 58, 79).

2. – Qual conclusione dobbiamo trarre da questo? Lo stesso che stiamo perseguendo dall’inizio della nostra meditazione sulla Santa Eucaristia. Poiché l’Eucaristia presuppone tutto ciò che fa lo stato di grazia e che tuttavia essa produce, ed è per questo che viene istituita non per introdurla nell’anima, ma per darle sviluppo e crescita. Quelle cose grandi e sublimi che si trovano nel profondo di ogni anima fedele, la grazia santificante, la carità con il suo corteo di virtù, l’unione più intima con Dio, l’immagine del Figlio eterno del Padre, la vita soprannaturale, in una parola: tutto questo, dico, attende dall’Eucarestia il suo complemento e la sua pienezza. Spetta all’Eucaristia farci passare con un continuo progresso dalle debolezze e dalle imperfezioni dell’infanzia spirituale alla maturità dei figli di adozione. Questa è la sua funzione propria, il suo privilegio e, per così dire, il suo destino, in quell’insieme incomparabile di mezzi di santificazione che sono chiamati i Sacramenti della Nuova Alleanza. – La teologia non si accontenta di affermarlo, fondandosi sulla Sacra Scrittura, sui Padri e sui Concili. Per rendere più evidente questa verità per contrasto, confronta il frutto del sacramento dell’altare con quello degli altri sacramenti. Questo frutto differisce dall’effetto del Battesimo: infatti il Battesimo ha come fine diretto non quello di farci crescere nella grazia, ma di darci una nascita spirituale, né quello di stringere i legami che ci incorporano a Cristo, ma di crearli. Non dico che se il catecumeno è già giustificato dalla carità perfetta, il Battesimo non operi in lui l’aumento della grazia in proporzione alla sua disposizione; affermo solo che il motivo determinante dell’istituzione del Battesimo non è stato quello di farne un sacramento di crescita ma di rigenerazione. Ecco perché nessuno può diventare figlio di Dio, per quanto perfetta sia la sua disposizione, senza aver fatto almeno il voto del Battesimo, e come il Battesimo stesso sia necessario per entrare nella partecipazione dei beni affidati alla nostra madre, la Santa Chiesa. San Tommaso riassume questa dottrina in poche parole: « La ricezione del Battesimo è necessaria per iniziare la vita spirituale; l’Eucaristia, per perfezionarla e consumarla. » – Sembrerebbe, a prima vista, che il contrasto non sia più lo stesso, quando si confronta la Confermazione e l’Eucaristia insieme. L’effetto della Confermazione non è forse come il passaggio dall’infanzia spirituale alla maturità dell’uomo fatto? È questa che, prendendo il bambino appena nato dalle acque del Battesimo, gli infonde quel vigore che si addice al soldato della fede. Quel che fa il progresso dell’età nell’ordine della natura per la formazione dell’essere umano la Confermazione lo fa nell’ordine soprannaturale per la perfezione del nostro essere di grazia. Attraverso di essa noi raggiungiamo lo sviluppo della forza e della vita che contraddistingue la maggiore età. Questo bambino di pochi anni, una volta cresimato, non è più un bambino nella sua anima e davanti a Dio: è un uomo (vir), ufficialmente arruolato nell’esercito di Cristo e consacrato a combattere le battaglie della fede. Questo, se non mi sbaglio, è il frutto proprio della Confermazione. – Ma per quanto possa sembrare simile a quella prodotta dalla Comunione, c’è comunque una grande differenza tra la crescita di cui i due sacramenti sono il principio. Infatti, dice San Tommaso d’Aquino, « la Confermazione aumenta la grazia in noi, in modo da rafforzarci contro i nemici esterni di Cristo; mentre nell’Eucaristia, l’aumento della grazia e della vita spirituale tende a rendere l’uomo perfetto in se stesso mediante un’unione sempre più stretta con Dio » (S. Thom. 3. P.; 4. 79, a. 1, ad 1.). E questa differenza si rivela anche nel modo di ricevere i due sacramenti. La Cresima viene data una sola volta, come il Battesimo, perché non si tende all’infinito verso la virilità. L’Eucaristia, invece, può essere l’alimento di tutti i giorni intimo tra l’uomo e la bontà divina, che può essere interrotta solo alla fine del cammino, cioè alla morte. Di per sé questi effetti non hanno limiti oltre i quali non possano essere perfezionati o estesi. – Passate in rassegna tutti gli altri sacramenti e non ne troverete uno che sia solo e direttamente un principio di crescita e che tenda a questo come a un fine proprio. Il sacramento della Penitenza restituisce la grazia o la aumenta, ma a scopo di riparazione: è il rimedio divinamente istituito per richiamare in vita i morti spirituali e per perdonare le colpe ai colpevoli. Essa presuppone il peccato nel Cristiano; così che chi, per un privilegio specialissimo, non ha macchiato con alcuna colpa il candore immacolato del suo Battesimo, pur potendo crescere nella grazia, non potrebbe chiedere la perfezione nella Penitenza. Non più di questa, l’Unzione dei morenti non è ordinata direttamente alla crescita dell’uomo interiore. Dio ce l’ha data come rimedio supremo contro le infermità e la debilità spirituale, gli sfortunati resti del peccato. Ma, poiché è la grazia a fortificarci contro queste debolezze, essa ce la conferisce e attraverso di essa rimette il peccato, se nulla si oppone al perdono (S. Thom. Q. 30, a.2). Da ciò risulta evidente che l’effetto dell’Estrema Unzione è ben diverso da quello dell’Eucaristia. – Finora ho parlato solo di quei sacramenti che riguardano il bene individuale dei Cristiani; ma ciò che ho detto di essi si applica ai due Sacramenti che per loro natura riguardano la vita sociale, i Sacramenti dell’Ordine e del Matrimonio. Quest’ultimo, infatti, riversa su di loro la grazia, affinché la loro alleanza sia fedele e santa, ad immagine dell’unione di Gesù Cristo con la sua Chiesa; e il primo, consacrando a Dio i suoi ministri, li santifica, affinché essi possano esercitare degnamente le funzioni sacre in mezzo al suo popolo. – Il Santo Concilio di Firenze, nel suo Decreto per gli Armeni, stabilisce con grande chiarezza questa differenza di effetto tra il Sacramento del corpo del Signore e gli altri sacramenti. « L’effetto dell’Eucaristia –  esso afferma – quello che produce nell’anima di chi la riceve degnamente è l’unione dell’uomo con Cristo. E poiché è la grazia che incorpora l’anima a Cristo e la unisce alle sue membra, questo Sacramento accresce in noi la grazia ed apporta un aumento di virtù » (Decreto pro Armenis, in Bulla Eugen. IV “Exultate Deo“). – Riassumiamo tutto questo insegnamento in un brano di un grande teologo e servo di Dio, padre Francis Suarez. « Il Sacramento dell’Eucaristia – egli ci dice – ha nei suoi effetti un carattere essenzialmente proprio. Gli altri non vanno solo e direttamente a nutrire la carità, per crescere nell’anima e unirci più strettamente a Gesù Cristo. Ma ognuna di essi ha un proprio fine speciale, per il quale conferisce un aiuto particolare con un aumento della grazia. Quanto a questo Sacramento, esso è ordinato di per sé a completare l’unione dei fedeli con Cristo e il Corpo di Cristo « (Suarez, de Euchar., D. 63, S. 1). – San Bonaventura aveva scritto con meno parole, un pensiero simile: « Questo Sacramento è quello dell’unione; di conseguenza il suo effetto primario è quello di unire, non producendo la prima unione, ma stringendo l’unione già fatta » (S. Bonav. in IV. D. 12, a. . a. 2). Pertanto, crescere in Gesù Cristo per grazia, per carità, per una sempre maggiore somiglianza di affetti, di operazioni, di vita soprannaturale, questa è la parola finale dell’Eucaristia. – E questa crescita dei figli di Dio non si ferma all’anima: come abbiamo visto, anche il corpo partecipa ai frutti del Sacramento. Ogni comunione le infonderà quindi un germe più potente di risurrezione: attraverso ognuna di esse diventerà più duttile e docile ai movimenti della grazia, e parteciperà di più, almeno in linea di principio, a quello stato beato che la attende nella gloria. E questo è ciò di cui Dio si è compiaciuto di darci segni e testimonianze nelle meraviglie che talvolta mostra ai corpi dei santi: luminosità, profumi celestiali, preservazione dalla corruzione della tomba, per non parlare delle altre ben note. E questo è di per sé una vera crescita per il corpo, poiché tutto ciò tende per sua natura ad assimilarlo al Corpo glorificato dell’uomo perfetto, Gesù Cristo Nostro Signore.

3. In che misura e secondo quali leggi l’Eucaristia produce questa crescita? Certamente, se guardiamo solo alla potenza del principio da cui emana, l’incremento spirituale proveniente dall’Eucaristia dovrebbe essere infinito, poiché la causa immediata e diretta è Gesù Cristo stesso in persona. Ma non dobbiamo dimenticare che questa causa è libera, e che l’alimento eucaristico non agisce per principio cieco ma per volontà. Come Dio, nel creare il mondo, pur essendo l’Onnipotente, ha saputo confinare le sue opere entro i limiti determinati dalla sua infinita bontà, così sa anche definire i limiti della sua volontà. Sa anche come definire la misura della grazia che deve rispondere ad ogni Comunione della sua sacra carne. Ci basti pensare che la Sua liberalità supera di gran lunga le nostre deboli concezioni. – Una cosa, però, che ci è estremamente utile sapere è che questo Agente divino produce i suoi effetti in noi in proporzione alle disposizioni che ci preparano a riceverli. Cosa facciamo quando andiamo a sederci alla sacra mensa? Portiamo il nostro cuore ad essa, come un recipiente immerso in una sorgente traboccante d’acqua. Più è grande la sua capacità, più sarà riempita con l’acqua vivificante che è il dono dell’Eucaristia. Ora, cosa determina nella nostra anima la prossima capacità di ricevere la grazia del Sacramento? La disposizione che Gesù Cristo Nostro Signore vi trova; diciamo meglio, che vi produce con la nostra cooperazione. – Conosciamo già la disposizione assolutamente indispensabile. « Innocentiam ad altare apportate; portate l’innocenza all’altare », diceva Sant’Agostino ai fedeli del suo tempo; e la Chiesa, allo stesso tempo, ripeteva per bocca dei suoi ministri: « Sancta sanctis, ai santi le cose sante ». Ma oltre a questa disposizione generale che purifica il vaso, ve ne sono altre che lo dilatano: e tra queste disposizioni la più eccellente e la più efficace è l’amore della carità. È la carità che ha fatto dire a San Paolo, scrivendo ai fedeli di Corinto: « Per voi la nostra bocca si è aperta ed il nostro cuore si è dilatato. Non siete allo stretto in noi »  (1 Cor. VI. 11). Che questa santa carità, dunque, venga ad allargarsi riscaldandola con i suoi fuochi e moltiplichi, per così dire, la capacità che il Dio dell’Eucaristia vuole riempire con la sua grazia. – Questa prerogativa della tua carità è dovuta alla natura stessa delle cose: esso è il sacramento dell’amore, perché nasce, per così dire, dall’eccesso di amore, e perché va con tutto il suo peso all’amore perfetto. Come ricevere l’Eucaristia in modo più fruttuoso se non con l’amore? Senza dubbio, l’amore è al fondo di ogni anima che si accosta ad essa con la necessaria preparazione: perché dove c’è la grazia santificante, c’è la carità, suo inseparabile accompagnamento. – Ma l’amore di cui parlo come la disposizione più eccellente non è un amore addormentato nell’anima. È un amore che si risveglia all’avvicinarsi del Diletto, che risponde ai suoi atti con degli atti: un amore vivo, che agisce e parla. « E lo Spirito e la Sposa dicono: “Venite”. E chi ascolta dica a sua volta: Venite, venite, Signore Gesù. E chi ha sete venga, e chi vuole riceva gratuitamente l’acqua della vita » (Ap., XXII, 17, 20). È un amore che si estende da Gesù ai fratelli di Gesù, che soffoca ogni avversione e dissipa ogni ira: perché Gesù viene a noi con tutto il suo Corpo; non entra nelle anime mutilate, e chi avesse solo indifferenza per le sue membra, si lusingherebbe invano di essere tutto amore per Lui. – Ma qual è questo amore che rende migliore e più fruttuosa la preparazione a ricevere l’Eucaristia? È una domanda di grande importanza, perché è proprio perché non ne conoscono, o almeno perché troppo spesso ne dimenticano la risposta esatta che tante anime confondono o si illudono nel giudicare le loro disposizioni. Ora, questa risposta io la trovo nella contemplazione di ciò che mi viene dato quando faccio la Comunione. Gesù Cristo è ora nel seno della gloria, impassibile, immortale nel suo corpo, come lo è nella sua anima. Così la carne che ricevo, è una carne glorificata che non soffre né può soffrire; come quella che è uscita trionfalmente dal sepolcro il giorno della risurrezione. Eppure, non è in questa forma e in questa gloria, anche se temperata per occhi mortali, che Gesù Cristo me la dà. « Questo è il mio corpo dato, spezzato per voi; questo è il mio sangue versato », ci dice il Salvatore nella persona dei suoi discepoli. – Le specie eucaristiche mi mostrano sia il corpo che il sangue nello stato indicato dalle parole del Maestro, cioè nello stato di vittima immolata. Non che la doppia formula consacratoria lo richieda, la vera separazione del corpo e del sangue di Gesù Cristo, avvenuta sul Calvario.  Ma ciò che non richiede o fa per l’essere fisico del Salvatore, lo richiede e lo fa per il suo essere sacramentale. In altre parole, Gesù Cristo, in virtù di queste formule divine, riveste per noi, sotto i simboli che lo manifestano, l’intero aspetto esteriore di una vittima: è infatti solo la sua carne che esse uniscono alle specie del pane, solo il suo sangue che esse pongono sotto gli accidenti visibili del vino. Se il corpo non è separato dal sangue, né il sangue dal corpo, la ragione di ciò va ricercata non nel significato delle parole sacramentali, ma nell’unione inseparabile stabilita tra loro dalla vita immortale del Salvatore. È questo che rende la Consacrazione un Sacrificio commemorativo dell’immolazione cruenta nella Passione. – Così « il Cristo, immolato una sola volta nella sua propria natura, viene immolato ogni giorno per il popolo nel Sacramento del suo corpo e del suo sangue divino » (S. August., ep. 99, n. 9. Cfr. Bossuet, Exposition de la doct. § 14; Explicat. De la messe, § 17). Questo è ciò che sentiamo nella stessa voce in tutte le Liturgie della santa Chiesa, anche quelle stesse che, separate da noi da scismi ed eresie, delle comunioni hanno conservato l’uso. Ovunque e sempre si parla del Sacrificio presente e perpetuo, dell’ostia propiziatoria, dell’agnello sgozzato, dell’immolazione che avviene sotto gli occhi dei fedeli, di Cristo che viene offerto, come se stesse ancora compiendo in se stesso l’opera di Dio.: « offertur, quasi recipiens passionem ». – Questa idea è così familiare nel Cristianesimo che si ritrova naturalmente anche nello stile epistolare: ne è testimonianza la conclusione di una lettera scritta da san Gregorio di Nazianzo al suo amico, il Vescovo Anfiloco: « O santissimo adoratore di Dio, non mancate di pregare o intercedere per noi, quando con la parola attirate la Parola eterna, quando, usando la vostra voce come una spada, separate con una sezione incruenta il corpo ed il sangue del Signore » (« O Dei cultor sanctissime, ne cuncteris orare et legatione fungi pro nobis, quando verbo Verbum attrahis, quando incruenta sectione secas corpus et sanguinem dominicum, vocem adhibens pro gladio ». – S. Gregorio Nazareno, 171, ad Amphil. P. Gr., vol. 37, p. 279). – Ecco, dunque, Gesù Cristo disteso sull’altare e rivestito dei sacri segni di una vittima sempre viva e sempre sacrificante; eccolo, dico, ed è in questo stato che mi viene presentato da mangiare, che lo ricevo e che devo assimilarlo nel riceverlo. – Posso, dopo questo, non capire il carattere dell’amore che mi dispone a mangiare questo Agnello di Dio, e dell’amore che sarà l’effetto naturale di tale cibo. Posso capire che i beati abitanti del cielo si nutrano del mio Salvatore nell’eccitazione di un amore piacevole: lo possiedono senza veli e nella sua gloria. Ma l’amore che ci si addice è quello che corrisponde allo stato di nostra ostia, un amore modellato su Colui che ce lo ha donato nell’Ultima Cena; un amore che si arrende, che è l’unico che può dirsi un amore per il Signore. È un amore che si dona, che si offre, che non si sottrae alla sofferenza e vive di rinuncia e sacrificio. E quanto più di questo amore portiamo al banchetto divino, tanto più la nostra anima sarà pronta a infiammarsi al contatto con la sacra carne del Salvatore; tanto più abbondanti saranno i frutti di grazia che speriamo dall’Eucaristia. – Quindi non è tanto il numero quanto il fervore delle Comunioni a far progredire la santità. Qual è l’effetto santificante di mille Comunioni di un’anima tiepida, rispetto a una sola comunione eucaristica della Vergine, Madre di Dio! Il corpo del suo Figlio unigenito che Lei ha ricevuto, lo ricevono pure queste anime e la sua virtù sacramentale non varia. Da dove deriva allora la differenza? Dalla preparazione d’amore. – Avremmo meditato solo in modo molto imperfetto su ciò che l’Eucaristia è per la crescita spirituale dei figli di Dio, se ci limitassimo all’effetto presente che essa produce. Ricordiamo che si tratta, secondo il pensiero dei Padri, di quel carbone ardente di cui parla Isaia (S. J. Damasc., de Fid. Orth, L. IV: c, 141). Il fuoco che essa accende non è quindi un fuoco che si spegne quando cessa la presenza sacramentale. La carità che ha vivificato nell’anima tende a crescere, a diffondersi. Essa moltiplica le sue azioni ed è necessario che estenda la sua influenza salutare su tutta la vita, tutte le opere, tutti i movimenti del fedele. –  A questo punto, le due cause principali del nostro sviluppo si uniscono per darsi un aiuto potente e reciproco. Infatti, da un lato, la cooperazione che diamo alla grazia è una disposizione tanto più perfetta per ricevere i frutti del Sacramento, in quanto più meritoria in sé; e dall’altro, il Sacramento per i frutti che porta, contribuisce direttamente a rendere le nostre opere buone non solo più numerose, ma soprattutto più meritorie, poiché sviluppa in noi il regno e l’azione della carità. – Da tutta questa dottrina sull’Eucaristia, emerge una grande e preziosa conclusione per la nostra vita spirituale: è della massima importanza che noi veniamo a questo banchetto celeste il più spesso possibile e, ancor più, di prepararci con scrupolosa applicazione a mangiare il cibo divino che l’amore vi serve all’amore. Non diamo retta a quei moralisti disperanti che respingono dalla santa mensa, o che ammettono solo a rarissimi intervalli chi non è grande in grazia e carità. In passato la Chiesa dava il corpo del Signore ai bambini piccoli. Lo offre ancora a coloro che sono piccoli e deboli, non per età ma per virtù. Per loro, se hanno un umile senso della loro infermità, se vengono con cuore sincero a cercare nell’Eucaristia ciò che manchi alla loro anima, il Sacramento diventerà l’alimento della grande “cibus grandium“, perché produrrà il suo effetto proprio e diretto, la crescita nel Cristo. Lo dirò dunque? All’estremo rigorismo che in passato faceva della Comunione, soprattutto di quella frequente, il premio di un’eminente perfezione, succede talvolta ai nostri giorni una facilità davvero eccessiva da parte di alcuni direttori d’anime. Li vediamo permettere quasi indistintamente alle persone che governano di venire a sedersi alla sacra mensa spesso, persino ogni giorno; e non solo lo permettono, ma addirittura li esortano a farlo. Eppure, nessun serio emendamento nella vita; nessuno sforzo nemmeno per superare se stessi e avanzare nella virtù. Cercate la preparazione del cuore per un mistero così grande, e troverete il più delle volte solo mollezza, divagazioni ostinate, lo stesso attaccamento alle cose vane, le stesse abitudini irregolari e gli stessi difetti caramente trattenuti nel fondo del cuore. Si arriva per consuetudine, per moda, sotto l’impulso di non so qual segreta vanità. Si tratta davvero di una risposta ai disegni del Salvatore e di « mettere alla prova se stesso », come chiede l’Apostolo? – Lungi da me sottolineare che queste Comunioni siano sacrileghe. So che c’è una sola disposizione assolutamente necessaria, lo stato di grazia, e la presumo nelle anime tiepide e codarde di cui parlo. Né affermo che non ne traggano un aumento di grazia, almeno abituale. Ma ciò che mi sembra indubbio è che ci sarebbe un vantaggio generale per le anime di questo tipo, se il permesso di ricevere la divina Eucaristia fosse saggiamente misurato per loro. – Avvicinandosi ad essa con maggiore riverenza, un umile pentimento, il raccoglimento e la santa avidità, troverebbero in un’unica Comunione ciò che non avrebbero ricevuto in tutte quelle di cui sono stati privati. Imparerebbero anche che la vita spirituale si nutre meno di pratiche facili che di sforzi generosi a cui ci prepara la grazia del Sacramento. Finalmente, per dire tutto in una parola, invece di vegetare miseramente, sempre deboli e quasi sterili nelle opere sante, pur mangiando il pane della vita, presto forse usciranno da questa deplorevole inerzia e si rinnoveranno nello spirito del fervore. Da quel momento in poi, potranno prendere parte al cibo celeste e, poiché nulla paralizzerà la virtù di questo cibo divino, si ammirerà in esso una crescita sempre nuova con una meravigliosa fecondità (Cfr. Bourdaloue. Essai d’Octave du S. Sacrament, 5° giorno. Sermone sulla comunione frequente).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII “ETSI CUNCTAS “

Breve è questa lettera Enciclica che S. S. Leone XIII indirizza al Primate di Irlanda per trasmettere i sensi del suo paterno affetto verso il popolo a lui spiritualmente soggetto colpito da attacchi ripetuti alle proprie ataviche tradizioni cattoliche e al tenace attaccamento alla Cattedra di San Pietro. Era già iniziata da tempo la ribellione dei popoli europei alla Chiesa Cattolica, unica vera Chiesa fondata e voluta dal Figlio di Dio incarnato ed affidata al suo Vicario in terra, il Santo Padre, il Papa, Pastore universale dei fedeli e dei prelati del collegio apostolico a lui associati. I ripetuti attacchi si sono poi moltiplicati sia dall’esterno della Santa Chiesa, sia soprattutto dal suo interno, infiltrata dalla quinta colonna dei marrani e degli adepti delle logge di perdizione che sono giunti a ribaltare, come sappiamo, tradizione divina, dottrina, culto ecclesiastico, pubblica morale e tutto quanto di sacro la Chiesa conservava, con il conciliabolo di stampo massonico, roncallo-montiniano, i cui effetti funesti sono sotto gli occhi delle persone ancor sane di mente dell’intero contesto umano. I vari focolai di ribellione al Cristo, di cui quello irlandese costituiva un segnale piccolo ma importante, si sono ingigantiti e moltiplicati convergendo sul fulcro dell’intero Cristianesimo, il Santo Padre, cacciato da Roma, impedito e sostituito da fantocci, burattini manipolati e teatranti ipocriti, canonicamente falsi e teologicamente eretici fino a sfociare nell’apostasia esoterico-pagana attuale nella quale sono immerse la totalità delle Nazioni un tempo fedeli seguaci del Credo evangelico e del Magistero infallibile della Sposa di Cristo, sgorgata dal costato del Cristo morto sulla croce. Ma certi che le porte del male e degli inferi non prevarranno mai sulla vera Chiesa di Cristo, e che il calcagno della Santa Vergine schiaccerà alfine il capo del dragone maledetto e dei suoi servi immondi fin nello stagno di fuoco eterno, leggiamo con serenità questo breve documento.

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Leone XIII
Etsi cunctas

Lettera Enciclica

Sebbene Noi abbracciamo con paterno sentimento di carità tutti e ogni singolo componente del gregge del Signore di cui Ci fu affidata la cura, tuttavia le Nostre premure e il Nostro pensiero si rivolgono in particolare a coloro che avvertiamo afflitti da qualche difficoltà. Sperimentiamo infatti in Noi stessi ciò che dalla natura è stato prescritto ai genitori, cioè d’incoraggiare e proteggere, primi tra gli altri, quei figli che sono stati colpiti da qualche sventura. Perciò con singolare benevolenza abbiamo sempre nutrito un affetto particolare per i Cattolici d’Irlanda, messi a dura prova da varie e insistenti disgrazie; per consuetudine li avemmo molto più cari, poiché furono ammirevoli per pazienza e tenacia, in quanto nessun dolore valse a distruggere o a diminuire il loro avito sentimento religioso. – Noi li abbiamo spesso ammoniti, e in questi ultimi tempi abbiamo emesso un decreto: cioè, abbiamo decretato e ammonito in quanto vedevamo che tali provvedimenti da una parte erano coerenti con la verità e la giustizia, e dall’altra giovevoli ai vostri interessi. Infatti, il Nostro animo non può rivolgersi a voi col rischio di nuocere in qualche modo alla causa per la quale si batte l’Irlanda, qualora s’interferisca in modo da essere giustamente riprovati. Pertanto, affinché sia più esplicita questa Nostra volontà nei confronti degl’Irlandesi, mandiamo costà dei doni, una parte dei quali consiste in paramenti, vasi e ornamenti d’arredo sacro, che destiniamo alle Chiese Cattedrali d’Irlanda perché sia più splendido il decoro della casa di Dio e del culto divino; l’altra parte consiste in offerte di minor pregio che Noi stessi abbiamo valorizzato con la benedizione e che sono strumenti atti a favorire la pietà dei singoli; con essi abbiamo voluto compensare i privati, come ti spiegheremo in modo più esplicito. Non dubitiamo che questo Nostro gesto possa rendere più evidente che il Nostro paterno amore verso gli Irlandesi è rimasto sempre immutato. Di questo amore essi saranno ancor più degni in futuro, se sapranno perseverare in una disposizione d’animo docile e fiducioso verso di Noi, se eviteranno attentamente gl’inganni di coloro che non esitano a interpretare i Nostri suggerimenti nel senso peggiore per sradicare, se fosse possibile, quel nobile ossequio verso la Chiesa cattolica che è da annoverare tra i più insigni meriti degl’Irlandesi, e che hanno ricevuto dai padri e dagli avi come un’importante e nobilissima eredità. – Invocando tutti i più preziosi doni della grazia celeste, a te, Venerabile Fratello, al Clero e al popolo che tu governi, e a tutta l’Irlanda, impartiamo con molto affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 21 dicembre 1888, nell’anno undecimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

In quest’epoca le letture dell’Officiatura sono spesso tolte dal Libro dei Maccabei. Giuda Maccabeo, avendo udito quanto potenti fossero i Romani e come avessero sottomesso dei paesi assai lontani ed obbligato tanti re a pagar loro un tributo annuale, e d’altra parte sapendo che essi solevano acconsentire a quanto veniva loro chiesto e che avevano stretto amicizia con tutti coloro che con essi si erano alleati, mandò a Roma alcuni messi per fare amicizia ed alleanza con loro. Il Senato romano accolse favorevolmente la loro domanda e rinnovò più tardi questo trattato di pace con Gionata, e poi con Simeone che succedettero a Giuda Maccabeo, loro fratello. Ma ben presto la guerra civile sconvolse questo piccolo regno, poiché dei fratelli si disputarono tra di loro la corona. Uno di questi credette fare una mossa abile chiamando i Romani in aiuto; essi vennero infatti e nel 63 Pompeo prese Gerusalemme. Roma non soleva mai rendere quello che le sue armi avevano conquistato e la Palestina divenne quindi e restò una provincia romana. Il Senato nominò Erode re degli Ebrei ed egli, per compiacere costoro, fece ingrandire il Tempio di Gerusalemme e fu in questo terzo tempio che il Redentore fece più tardi il suo ingresso trionfale. Da quel momento il popolo di Dio dovette pagare un tributo all’imperatore romano ed è a ciò che allude il Vangelo di oggi. Questo episodio avvenne in uno degli ultimi giorni della vita di Gesù. Con una risposta piena di sapienza divina, il Maestro confuse i suoi nemici, che erano più che mai accaniti per perderlo. L’obbligo di pagare un tributo a Cesare era tanto più odioso agli Ebrei in quanto contrastava allo spirito di dominio universale che Israele era convinto di aver ricevuto con la promessa. Quelli che dicevano che si doveva pagarlo, avevano contro di loro l’opinione pubblica, quelli che dicevano che non si dovesse farlo, incorrevano nell’ira dell’autorità romana imperante e degli Ebrei che erano a questa favorevoli e che si chiamavano erodiani. I farisei pensavano dunque che forzare Gesù a rispondere a questo dilemma voleva sicuramente dire perderlo, sia davanti al popolo, sia davanti ai Romani, e che tanto dagli uni come dagli altri avrebbero potuto farlo arrestare. Per essere sicuri di riuscirvi gli mandarono una deputazione di Giudei che appartenevano ai due partiti, « alcuni dei loro discepoli con degli erodiani », dice S. Matteo. Questi uomini, per ottenere una risposta, cominciarono col dire a Gesù che sapevano come Egli dicesse sempre la verità e non fosse accettatore di persone; poi gli tesero un tranello: « È permesso o no pagare il tributo a Cesare?». Gesù, conoscendo la loro malizia, disse loro: « Ipocriti, perché mi tentate?» Poi, sfuggendo loro destramente, domandò che gli mostrassero la moneta del tributo, per forzarli, come sempre faceva in queste circostanze, a rispondere essi stessi alla loro domanda. Infatti, quando gli Ebrei gli ebbero presentato un danaro che serviva per pagare il tributo: « Di chi è questa effigie e questa iscrizione? » chiese loro. «Di Cesare», risposero quelli. Bisognava infatti per pagare il tributo, cambiare prima la moneta nazionale in quella che portava l’effigie dell’imperatore romano. Con questo scambio gli Ebrei venivano ad ammettere di essere sotto la dominazione di Cesare, poiché una moneta non ha valore in un paese se non porta l’effigie del suo sovrano. Acquistando dunque quel denaro con l’impronta di Cesare, riconoscevano essere egli il signore del loro paese, al quale essi avevano l’intenzione di pagare il tributo. « Rendete dunque a Cesare — disse loro Gesù — quello che è di Cesare ». Ma allora il Maestro, diventando ad un tratto il giudice dei suoi interlocutori interdetti, aggiunse: « Rendete a Dio quello Che è di Dio ». Ciò vuol dire: che appartenendo l’anima umana a Dio, che l’ha fatta a propria immagine, tutte le facoltà di quest’anima devono far ritorno a Lui, pagando il tributo di adorazione e di obbedienza. « Noi siamo la moneta di Dio, coniata con la sua effigie, dice S. Agostino – e Dio esige il suo denaro, come Cesare il proprio » (In JOANN.). « Diamo a Cesare la moneta che porta l’impronta sua, aggiunge S. Girolamo,, poiché non possiamo fare diversamente, ma diamoci anche spontaneamente, volontariamente e liberamente a Dio, poiché l’anima nostra porta l’immagine sfolgorante di Dio e non quella più o meno maestosa di un imperatore ». (In MATT.). – « Questa immagine, che è l’anima nostra – dice ancora Bossuet – passerà un giorno di nuovo per le mani e davanti agli occhi di Gesù Cristo. Egli dirà ancora una volta guardandoci: Di chi è quest’immagine e quest’iscrizione? E l’anima risponderà: di Dio. È per Lui ch’eravamo stati fatti: dovevamo portare l’immagine di Dio, che il Battesimo aveva riparato, poiché questo è il suo effetto e il suo carattere. Ma che cosa è diventata questa immagine divina che dovevamo portare? Essa doveva essere nella tua ragione, o anima cristiana! e tu l’hai annegata nell’ebbrezza; tu l’hai sommersa nell’amore dei piaceri; tu l’hai data in mano all’ambizione; l’hai resa prigioniera dell’oro, il che è un’idolatria; l’hai sacrificata al tuo ventre, di cui hai fatto un dio; ne hai fatto un idolo della vanagloria; invece di lodare e benedire Iddio notte e giorno, essa si è lodata e ammirata da sé. In verità, in verità, dirà il Signore, non vi conosco; voi non siete opera mia, non vedo più in voi quello che vi ho messo. Avete voluto fare a modo vostro, siete l’opera del piacere e dell’ambizione; siete l’opera del diavolo di cui avete seguito le opere, di cui, imitandolo, vi siete fatto un padre. Andate con lui, che vi conosce e di cui avete seguito le suggestioni; andate al fuoco eterno che per lui è stato preparato. O giusto giudice! dove sarò io allora? mi riconoscerò io stesso, dopo che il mio Creatore non mi avrà riconosciuto? » (Medit. sur l’Èvangile, 39e jour) In questo modo dobbiamo interpretare il Vangelo, in questa Domenica, che è una delle ultime dell’anno ecclesiastico e che segna per la Chiesa gli ultimi tempi del mondo. Infatti, a due riprese, l’Epistola parla dell’Avvento di Gesù, che è vicino. S. Paolo prega Dio che ha cominciato il bene nelle anime, di compierlo fino al giorno del Cristo Gesù », poiché è da Lui che viene la perseveranza finale. E l’Apostolo invoca appunto questa grazia: che « la nostra carità abbondi vieppiù in cognizione e discernimento, affinché siamo puri e senza rimproveri nel giorno di Gesù Cristo » (Epistola). In questo terribile momento, infatti se il Signore tiene conto delle nostre iniquità, chi potrà sussistere davanti a Lui? (Introito). « Ma il Signore è il sostegno e il protettore di coloro che sperano in Lui » (Alleluia), poiché « la misericordia si trova nel Dio d’Israele » (Intr., Segret.). E noi risentiremo gli effetti di questa misericordia se saremo noi stessi misericordiosi verso il prossimo. « Come bello è soave è per i fratelli essere uniti! » dice il Graduale. E dobbiamo esserlo soprattutto nella preghiera, all’ora del pericolo, poiché se gridiamo verso il Signore, Egli ci esaudirà » (Com.). E la preghiera eminentemente sociale e fraterna, alla quale Dio è più specialmente propizio, è la pregherà della Chiesa, sua sposa, che Egli ascolta ed esaudisce come fece il re Assuero, allorché, come ricorda l’Offertorio, la sua sposa Ester si rivolse a Lui per salvare dalla morte il popolo di Dio (v. 19a Domenica dopo Pentecoste). Il dono della perseveranza nel bene ci viene da Dio. San Paolo domanda a Dio di accordarlo ai Filippesi, che gli sono sempre stati uniti nelle sue sofferenze e nelle sue fatiche apostoliche e che egli ama, come Cristo Gesù stesso li ama. La loro carità dunque cresca continuamente, affinché il giorno dell’avvento di Gesù, colmi di buone opere, rendano gloria a Dio. « Se noi siamo attaccati ai beni che dipendono da Cesare, dice S. Ilario, non possiamo lamentarci dell’obbligo di rendere a Cesare quello che è di Cesare; ma dobbiamo anche rendere a Dio quello che gli appartiene in proprio, cioè consacrargli il nostro corpo, l’anima nostra, la nostra volontà » (Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps. CXXIX: 3-4

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Ps CXXIX: 1-2

De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: O Signore, esaudisci la mia supplica.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Deus, refúgium nostrum et virtus: adésto piis Ecclésiæ tuæ précibus, auctor ipse pietátis, et præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.

[Dio, nostro rifugio e nostra forza, ascolta favorevolmente le umili preghiere della tua Chiesa, Tu che sei l’autore stesso di ogni pietà, e fa che quanto con fede domandiamo, lo conseguiamo nella realtà.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses

Phil I: 6-11

“Fratres: Confídimus in Dómino Jesu, quia, qui cœpit in vobis opus bonum, perfíciet usque in diem Christi Jesu. Sicut est mihi justum hoc sentíre pro ómnibus vobis: eo quod hábeam vos in corde, et in vínculis meis, et in defensióne, et confirmatióne Evangélii, sócios gáudii mei omnes vos esse. Testis enim mihi est Deus, quómodo cúpiam omnes vos in viscéribus Jesu Christi. Et hoc oro, ut cáritas vestra magis ac magis abúndet in sciéntia et in omni sensu: ut probétis potióra, ut sitis sincéri et sine offénsa in diem Christi, repléti fructu justítiæ per Jesum Christum, in glóriam et laudem Dei”.

(“Fratelli: Abbiam fiducia nel Signore Gesù, che colui il quale ha cominciato in voi l’opera buona la condurrà a termine fino al giorno di Cristo Gesù. Ed è ben giusto ch’io nutra questi sentimenti per voi tutti; poiché io vi porto in cuore, partecipi come siete del mio gaudio, e nelle mie catene, e nella difesa e nel consolidamento del Vangelo. Mi è, infatti, testimonio Dio come ami voi tutti nelle viscere di Gesù Cristo. E questa è la mia preghiera: che il vostro amore vada crescendo di più in più in cognizione e in ogni discernimento, si da distinguere il meglio, affinché siate puri e incensurati per il giorno di Cristo, ripieni di frutti di giustizia, mediante Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio”).

AUGURI CRISTIANI DI UN APOSTOLO.

Che cosa dobbiamo noi Cristiani desiderare ed augurare a noi stessi e agli altri? dico così: a noi e agli altri, perché dovendo noi amare il prossimo come noi stessi, s’ha da desiderare agli altri ed augurare né più, né meno di quello che desideriamo ed auguriamo a noi. È un problema molto pratico, se si consideri il gran numero d’auguri che per consuetudine antica, si scambiano in mille circostanze diverse, anche fra noi Cristiani. I quali spesso, troppo spesso, ci auguriamo, quello stesso che si augurano fra di loro i pagani, come se il Cristianesimo non esistesse, come se nelle fatti specie non avesse un bel nulla da insegnarci. Opportunissima è al proposito l’Epistola paolina di questa domenica, nella quale San Paolo lascia libero sfogo al suo grande cuore. E dice ai suoi figli, ai Cristiani da lui convertiti, da lui rigenerati al fonte battesimale, quale sia l’oggetto precipuo e costante delle sue preghiere per loro. La preghiera, giova ricordarlo tra parentesi, è la forma cristiana dell’augurio. Il pagano augura, il Cristiano prega. Ordunque che cosa augura e prega il grande Apostolo ai suoi cari? Una carità in un aumento costantemente progressivo. « Chiedo a Dio che la vostra carità abbondi più e più ». Che cosa auguriamo noi istintivamente a quelli che amiamo? Lo si sa: salute e felicità. E dicendo salute, quando parliamo il linguaggio comune, fondato sulla comune psicologia, intendiamo la salute del corpo, e la felicità del tempo. Ebbene: noi Cristiani sappiamo che c’è una salute più preziosa della corporea: è la salute dell’anima; c’è una felicità più vera della comunemente intesa, è la felicità spirituale ed eterna. Tutto questo è nella carità. La carità cristiana, amore fervido di Dio e dei fratelli, unico moto con due poli ed estremità, la carità; l’ardore di essa è la vita dell’anima. Si vive di carità; senza essa si muore, muore la parte più vera, più intima, più umana di noi: « qui non diligîit, manet in morte. » E questo amore divino, divino sempre, divino ancora quando sembra diventare umano, è la gioia più profonda ed indistruttibile. L’amore profano con le sue gioie è un abbozzo della gioia che porta nell’anima l’amore celeste. Desiderare la carità agli altri (e a noi) significa desiderare (e chiedere, per conseguenza), la vita, la salute più vera e la felicità più completa. Lo sentiamo noi questo? ne siamo noi veramente convinti? Ecco, se mai, una buona occasione per ridestare in noi questa convinzione, per rettificare nella nostra anima, come dicono oggi, la scala dei valori. In cima a questa benedetta scala, che regola poi in pratica i moti, i voli della nostra anima; in cima la carità. Nella quale non si progredisce mai abbastanza e bisogna progredire sempre. Quando si è convinti della preziosità di una cosa qualsiasi, non se ne ha, non si crede mai di averne abbastanza, se ne desidera sempre di più. La carità è il nostro tesoro per eccellenza, il vero tesoro cristiano. Paolo la desidera, la prega ai fedeli sempre maggiore, in aumento continuo e indefinito. E sempre meglio. Fiamma più ardente e fiamma più pura. Progresso in quantità e in qualità. In che cosa l’Apostolo faccia consistere il miglioramento qualitativo, non è chiarissimo. Ma tra le interpretazioni in cui s’indugiano i critici, gli esegeti, la migliore mi par questa: la nostra carità S. Paolo desidera e prega diventi sempre più conscia (questo significa quello che il testo chiama progresso in scientia), alimentata cioè da una conoscenza sempre più chiara, esatta, profonda di Dio, Signor Nostro. – Meglio si vede una cosa o persona bella e più acceso ne ferve in noi il desiderio, nell’ordine naturale. Lo stesso nell’ordine soprannaturale: più, meglio, si conosce Dio e più e meglio lo si ama. E anche il prossimo nostro lo amiamo tanto più quanto più lo guardiamo, e vediamo in una luce divina colta, afferrata bene dal nostro occhio interiore. Ma lì nel prossimo ci vuol giudizio. San Paolo dice proprio: la carità divina verso Dio sempre più conscia; la carità verso il prossimo sempre più giudiziosa. Non si potrebbe dire di meglio.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

  Ps CXXXII: 1-2

Ecce, quam bonum et quam jucúndum, habitáre fratres in unum!

[Oh, come è bello, com’è giocondo il convivere di tanti fratelli insieme!]

V. Sicut unguéntum in cápite, quod descéndit in barbam, barbam Aaron.

[È come l’unguento versato sul capo, che scende alla barba, la barba di Aronne. ]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CXIII: 11

Qui timent Dóminum sperent in eo: adjútor et protéctor eórum est. Allelúja.

[Quelli che temono il Signore sperino in Lui: Egli è loro protettore e loro rifugio. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt XXII: 15-21

In illo témpore: Abeúntes pharisæi consílium iniérunt, ut cáperent Jesum in sermóne. Et mittunt ei discípulos suos cum Herodiánis, dicéntes: Magíster, scimus, quia verax es et viam Dei in veritáte doces, et non est tibi cura de áliquo: non enim réspicis persónam hóminum: dic ergo nobis, quid tibi vidétur, licet censum dare Caesari, an non? Cógnita autem Jesus nequítia eórum, ait: Quid me tentátis, hypócritæ? Osténdite mihi numísma census. At illi obtulérunt ei denárium. Et ait illis Jesus: Cujus est imágo hæc et superscríptio? Dicunt ei: Caesaris. Tunc ait illis: Réddite ergo, quæ sunt Cæsaris, Cæsari; et, quæ sunt Dei, Deo.

( “In quel tempo, i Farisei ritiratisi, tennero consiglio per coglierlo in parole. E mandano da lui i loro discepoli con degli Erodiani, i quali dissero: Maestro, noi sappiamo che tu sei verace, e insegni la via di Dio secondo la verità, senza badare a chicchessia; imperocché non guardi in faccia gli uomini. Spiegaci adunque il tuo parere: È egli lecito, o no, di pagare il tributo a Cesare? Ma Gesù conoscendo la loro malizia, disse: Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo. Ed essi gli presentarono un danaro. E Gesù disse loro: Di chi è questa immagine e questa iscrizione? Gli risposero: Di Cesare. Allora egli disse loro: Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”).

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano).

CESARE E DIO

Per tutta l’ultima settimana di sua vita mortale, Gesù fu assalito dai suoi nemici con un’esasperazione accanita e coperta. Volevano ad ogni costo ucciderlo, salvando però le apparenze legali. Vanno dunque da Lui e scaltramente gli dicono: « Maestro, noi sappiamo che tu sei sincero, e non guardi in faccia a nessuno e non defletti minimamente quando si tratta della verità. Dicci, dunque: è permesso o no pagare la tassa a Cesare? La dobbiamo o non la dobbiamo pagare? ». La questione posta in questi termini era terribilmente insidiosa. Per le autorità romane, il rifiuto della tassa era un atto tale di ribellione da far mandare alla morte; ma agli occhi del popolo, pagare la tassa era il più odioso segno di sottomissione alla tirannia prepotente dello straniero. Che cosa avrebbe, ora, risposto Gesù? La risposta di Gesù fu semplice e decisa. Chiese di vedere una moneta e gliene presentarono una ch’era romana, con la sua brava faccia dell’imperatore circondata da queste parole: « Tiberio Cesare figlio del divo Augusto ». Allora domandò: « Di chi è questa faccia e di chi è questo nome? », « Di Cesare ». « Date dunque a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio ». In queste parole c’è una regola divinamente equilibrata, la sola che può dare al mondo l’ordine e la pace, la sola che può nel medesimo tempo conservare agli uomini la vera libertà. Agli Ebrei che, fieri del loro antico regime teocratico, rifiutavano ogni autorità di re o d’imperatore decisi a sottomettersi soltanto a Dio, Gesù insegna che bisogna rispettare e ubbidire anche le autorità costituite: « Date a Cesare quello che è di Cesare ». Ai Romani che, sostenendo il pregiudizio opposto, facevano dello Stato un potere assoluto, e davano a Cesare un ossequio illimitato, Gesù insegna che il potere politico ha dei limiti e non può violentare le leggi della coscienza e della fede che sono di Dio: « Date a Dio quello che è Dio ». A questo proposito si è rifatta oggi nel mondo tanta confusione e molti oscillano tra due estremi opposti: dall’anarchia e dall’individualismo esagerato che rifiutano l’autorità e il controllo dello Stato, sì giunge fino a certi nazionalismi assurdi, che soffocano la libertà e la personalità. Fra tanto strepito e smarrimento, il Vangelo soltanto ha una parola giusta da metterci; tanto giusta che dagli esagerati dall’una e dall’altra parte viene combattuta: combattuta perché gli uni la trovano troppo servile e gli altri troppo poco favorevole all’autorità dello Stato. Assalita sempre, spenta mai, la parola di Cristo, resta accesa sugli ondeggiamenti della storia come un faro di salvezza per gli uomini di buona volontà. – 1. DATE A CESARE QUEL CHE È DI CESARE. Che cosa deve dare un Cristiano a Cesare, cioè alla sua patria terrena e a quelli che la governano? a) Anzitutto la preghiera. S. Paolo in una lettera scrive queste raccomandazioni: « Vi supplico per prima cosa che facciate suppliche e voti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli costituiti in alte cariche, affinché possiamo menare vita quieta e tranquilla con tutta pietà ed onestà. Vi assicuro che questo sarà ben fatto e molto gradito al cospetto del Signore Dio nostro, il quale vuole che tutti gli uomini si salvino ed arrivino al conoscimento della verità ». b) E poi deve amore. Il nostro divin Salvatore, che pure era disceso in terra per la salute di tutti gli uomini, diceva che voleva evangelizzare i suoi connazionali per i primi. Questi lo ripudiarono, ma Egli non cessò d’amare la patria sua che lo maltrattava. E pensando alla rovina imminente che sovrastava alla capitale, non poté trattenere le lagrime e pianse. Nessun patriota ha versato un pianto, così puro e intenso d’amore come quello!… Dobbiamo essere Cristiani, cioè imitatori di Cristo, anche nell’amore alla patria godere dei suoi trionfi, piangere delle sue sventure, cooperare alla sua prosperità. Ricordiamoci pure che l’amore vero non è mai scompagnato dal sacrificio. c) Il Cristiano deve saper fare molti sacrifici per la sua patria. Il sacrificio dell’ubbidienza alle leggi: e S. Paolo ne dà il motivo profondo, osservando che ogni potere viene da Dio, e chi resiste al potere legittimo resiste a Dio.  Il sacrificio del proprio danaro: pagando senza inganni le imposte e persuadendoci che in certi momenti di crisi e angustia mondiale bisogna sobbarcarci anche a pesi straordinari, perché è necessario per il benessere sociale, e per l’indipendenza morale della patria. Il sacrificio del proprio tempo e delle proprie capacità, quando la patria ci affida un compito di responsabilità e di governo. Formiamoci intanto una coscienza diritta, inflessibile, religiosa anche per amore della nostra patria. C’è un’altra rivoluzione da fare, e bisogna avere il coraggio d’affrontarla: la riforma e il miglioramento interiore di ciascuno di noi. Solo i cittadini e i magistrati di coscienza incorrotta e disinteressata che fanno la prosperità di un popolo. Anche il sacrificio della vita ci può essere chiesto dalla patria in certe ore d’estrema necessità. E il Cristiano non deve mancare neppure alla prova più grande dell’amore: la morte. – 2. DATE A DIO QUEL CHE È DI DIO. La patria terrena però non è l’unico fine e nemmeno il principale. Educare delle generazioni fisicamente forti, addestrarle al pericolo, agili nel maneggio delle armi, abituare alla disciplina militare, è buona cosa, ma non è tutto. Lo scopo supremo della nostra vita sulla terra è di conoscere, amare, servire il Signore, per meritare poi dopo la morte di vederlo e goderlo per sempre in paradiso. Nessuno può toglierci o diminuirci in qualsiasi modo questa libertà di andare a Dio e di raggiungere la nostra piena felicità. A Tangeri, il 21 luglio dell’anno 298, si celebrava il giorno natalizio dell’Imperatore. Gli Ufficiali della legione Traiana avevano organizzato una festa patriottica con banchetti, baldorie invereconde, e sacrifici agli dei e al Genio del divo imperatore. Solo il centurione Marcello se ne stava in disparte, stomacato. I suoi camerati vollero costringerlo a partecipare alla festa come loro, e per il suo contegno l’accusavano di scarsa fedeltà all’esercito e alle sorti delle armi imperiali. Il centurione Marcello, convinto che quel festino era un’indegna profanazione, gettò a terra il cinturone militare e anche il bastone flessibile di legno di vite che era il segno del suo grado, e davanti alle insegne della legione fece questa dichiarazione: « Se non si può essere soldati che a condizione di offrire sacrificio agli dei e agli Imperatori, e di prostituire la mia coscienza, rinunzio al mio grado, ed esco dall’esercito ». Rimasero stupiti soldati ed ufficiali all’udire parole così inattese; poi lo afferrarono e lo trascinarono nel carcere militare. Il 30 ottobre fu processato. L’ufficiale giudiziario, di nome Agricolano, cominciò l’interrogatorio. « Militavi come centurione regolare? », Marcello rispose :« Sì ». Agricolano disse: « Che pazzia t’ha preso, da rinnegare il tuo giuramento e parlare in tal modo? ». Marcello rispose: « Servire e temere Dio, tu lo chiami pazzia? ». Agricolano soggiunse: « Hai proprio detto tutte le frasi di cui sei accusato? ». Marcello rispose: « Le ho dette ». « E hai gettato le armi? ». « Le ho gettate perché non m’era più lecito, come Cristiano, di portarle ». Allora Agricolano concluse: « Il caso del centurione Marcello è tale che deve essere punito per tutelare la disciplina militare ». E pronunziò la sentenza. « Ordino che sia decapitato Marcello, il quale, militando come centurione regolare, ha pubblicamente rinnegato il giuramento dichiarando di esserne disonorato, e inoltre ha proferito frasi ingiuriose ». Mentre veniva tratto al supplizio, si voltò indietro e disse ad Agricolano: « Dio ti dia bene, poiché non m’hai fatto applicare pene infamanti: così, di spada, conveniva che un centurione uscisse da questo mondo» (S. Colombo, Atti dei Martiri, S.E.L,, pag. 259, ss.).  Dal commovente episodio emergono chiaramente due concetti: a) Il Cattolicesimo non è una religione nazionale. E come un giorno non si lasciò confondere con la politica dell’Impero Romano, così ora non può lasciarsi confondere con la politica di nessun Stato moderno. Esso è religione del Dio vero ed unico, del Dio Padre di tutti: perciò non è di nessuna nazione esclusivamente, ma di tutte le umane coscienze, senza distinzione di classe o di paese. Di fronte a Dio, di fronte al Cattolicesimo un selvaggio del Kenia è sullo stesso piano di un lord Inglese. b) Il martirio del centurione Marcello ci insegna ancora che il potere dello Stato ha dei limiti. La Religione è superiore alla politica, la vita eterna deve soprastare alla vita terrena; e la coscienza morale e religiosa ha le sue inviolabili libertà che nessuna legge d’un uomo può soffocare. Cesare non deve pretendere ciò che è di Dio; e se lo pretendesse, ogni vero Cristiano deve morire piuttosto che cedere. Per questa libertà, hanno saputo morire molti Cristiani in ogni secolo e anche nel nostro. – Machiavelli ha detto che la religione cristiana impedisce l’eroismo patriottico per la difesa e per la grandezza della patria, poiché avvezzando gli uomini a collocare nel paradiso le speranze e i desideri, li rende fiacchi e indifferenti per gli interessi di quaggiù (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, libro, II, cap. II). Di quando in quando c’è qualcuno che rimette a nuovo questo rugginoso ferramento e vuol farne un’arma d’offesa contro la Chiesa e impedirle di educare la gioventù, quasi ne fosse intrinsecamente incapace. Che il Cattolico, per ragione della sua fede nel paradiso, non possa essere patriota con giustizia e con libertà, patriota ardente fino all’eroica morte, questo è smentito dai fatti, è smentito dalla dottrina… Con maggiore slancio può morire sul campo di battaglia chi è certo che la vita data per Cesare gli viene resa da Dio, più grande e più bella. – – LA ROBA D’ALTRI. Non vi siete mai chiesto qual peccato nel mondo si detesti di più? Provate a pensarci. E vedrete che è quello contro al settimo comandamento: Non rubare. Non all’ateo, non al libertino, ma alla persona che, in qualsiasi modo, si appropria l’altrui, il mondo getta in faccia il suo anatema: « Tu sei un disonesto ». Onestà e disonestà per il mondo sono quindi in rapporto al non rubare. Ma se il furto è il peccato più aborrito e temuto dagli uomini, pure ben pochi se ne possono dire innocenti. E doveva essere così fin dal tempo di S. Giovanni Crisostomo al sec. IV, perché è lui che fa questa osservazione. Sul furto perciò mediteremo deducendo qualche pensiero dal Vangelo domenicale.  Dare a ciascuno il suo: ecco la giustizia. Quella giustizia che gli uomini violano in due modi: o rubando o non restituendo roba già rubata. E quanto è facile rubare, altrettanto è poi difficile restituire. Sono questi i due pensieri della nostra riflessione. Ma prima è bene ricordare l’osservazione di S. Tommaso: perché Gesù Cristo parla prima di restituire a Cesare e poi a Dio? Non già che l’interesse del prossimo prevalga sull’interesse di Dio, ma perché nessuno può dare a Dio ciò che gli spetta, se prima non ha dato al prossimo ciò che gli è dovuto. Reddite ergo quæ sunt Cæsaris Cæsari! – 1. È FACILE RUBARE. Il figlio di Sirach cercava da per tutto un uomo che avesse le mani nette dalla roba d’altri. E girando in cerca, vide una moltitudine di gente che correva dietro l’ingiustizia; gente che arricchiva troppo in fretta per arricchire onestamente; gente che, abbagliata dal luccicore dell’oro, non sapeva più distinguere il « tuo dal mio ». Dice la Sacra Scrittura: « Fatemi vedere un ricco senza macchia ed io lo chiamerò uomo miracoloso ». Quis est hic, et laudabimus eum? (Eccl., XXXI, 9). Sì, è davvero un miracolo della grazia di Dio che l’uomo si conservi lontano da ogni usurpazione verso il suo prossimo. Due sono le cause che ci spingono a trasgredire il « non rubare » del decalogo: l’attacco bramoso che ognuno sente alla roba del mondo, e la continua occasione in cui ci troviamo di poter facilmente, e senza rischio, appropriarci danaro o roba d’altri. Domandiamoci: perché, quando osserviamo un nostro vicino più ricco di noi, più benedetto negli affari di noi, dal mondo cupo della nostra natura si eleva un sentimento di gelosia, che diventa invidia, la quale se non è repressa, diventa rabbia di non possedere anche noi quanto egli, e più ancora? È l’avidità dei beni terreni che ci assale; è l’avarizia che non dice mai basta; è uno dei sette vizi capitali che ha radice in ogni cuor d’uomo. Fu questa cupidigia che insegnò le vie più losche dell’arricchire: l’usura, il contratto falso, il fallimento doloso, il furto sfacciato. Se a questa mal nata tendenza; aggiungete le minute occasioni che ogni giorno ci si offrono per rubare, abbastanza onorevolmente, si capisce perché il figlio di Sirach abbia cercato invano l’uomo con le mani nette dalla roba altrui. Un servo ha sempre tra le mani i beni del suo padrone: se non ha la coscienza più che timorosa, un po’ oggi e un po’ domani, sapreste calcolar voi quanto ruba in un anno? Un negoziante vende e compra continuamente: un decimetro di più quando si compra, un decimetro meno quando si vende, due pesi e due misure, ed egli crede di saper fare il proprio mestiere e invece fa il ladro. Un principale che defraudasse anche di mezza lira al giorno, i suoi operai, sa egli a quanto ammonta il suo furto ogni mese? Lo stipendiato che alla sera, sotto gli abiti, trafuga un ferro, un legno, un articolo del suo lavoro, non s’illuderà forse d’aver coscienza chiara? E tutti quelli che dopo aver contratto un debito si rifiutano di pagare, e aspetta un mese e pazienta un altro mese, fanno bestemmiare i creditori, forse che non rubano? Per rubare non è necessario forzare una toppa col grimaldello, o saltare entro una finestra di notte, ma basta aiutare, consigliare in qualsiasi modo un altro a rubare; basta comprare la roba rubata, basta ritenere la roba trovata. – 2. È DIFFICILE RESTITUIRE « Io voglio, o fratelli, — scrive S. Agostino nel libro delle cinquanta omelie — voglio raccontarvi ciò che ho visto, ciò che mi ha tanto commosso, perché ecciti in voi pure un forte sentimento di religione. Viveva a Milano un uomo, povero di beni terreni ma ricco di beni celesti. Un giorno per una via trovò una borsetta, l’aperse e vide luccicarvi dentro duecento monete d’oro. Per lui che viveva in caldo e in gelo nelle strettezze di un abbaino rappresentavano un patrimonio più che discreto. Lo illumina un sorriso di gioia, ma per un istante, poi il suo volto si fa scuro e triste: roba trovata non si può tenere. E si affliggeva più lui a possedere — benché innocentemente — danaro non suo, che non l’altro d’averlo smarrito. E non ha pace: quella borsa gli scotta nelle mani, nel petto lo soffoca, in casa gli brucia. S’informa, cerca e finalmente trova: mandò un grido di gioia. « Ah, sei tu! prendi ch’è tuo ». E gli buttò nelle mani la borsa e, levati gli occhi al cielo, sospirò come se si fosse sgravata una pietra dal petto. L’altro, per una giusta ricompensa, gli offre venti di quelle monete d’oro; ma il povero nasconde le mani dietro la schiena e si mostra offeso. L’altro insiste: « Prendete, è giusto: vi spettano ». « Non voglio, non mi spettano, tenetele ». Il padrone del danaro, commosso, lo guardava: guardava quegli abiti dimessi e smunti, quelle mani incallite sul lavoro opprimente, guardava impressi in quel volto onesto i segni della miseria. Preso, allora, da un sentimento vivo d’ammirazione per la nobiltà di quell’anima, gli abbandonò la borsa nelle mani, gridando « Tutto vostro: non pretendo più nulla ». « Ed io pretendo meno ancora di voi: niente è mio », ribatté il povero e, aprendo le mani, lasciò che la borsa cadesse per terra, facendo tintinnare le duecento monete d’oro. — Esempio memorabile — conclude S. Agostino — nobile gara di due anime oneste veramente! — Ma dove sono ora gli imitatori di questa lealtà? Dove sono anime così delicate riguardo alla roba degli altri, che non possono ritenere presso a sé un oggetto trovato? Non è più così: a molte coscienze non solo non pesa più la roba trovata, ma neppure la roba rubata. « Ma io non posso più restituire! » ecco il gemito di scusa di molti che non san decidersi al proprio dovere. « Non posso restituire, perché rovinerei la famiglia; rovinerei i miei figliuoli che innocenti della mia ingiustizia, ne porterebbero la pena s’io li privassi di una eredità che già aspettano ». A questa scusa rispondo con l’austera parola del Crisostomo: « E non è meglio rovinar la famiglia nei beni passeggeri di questo mondo, piuttosto che farla bruciare nell’inferno per tutta l’eternità? Quando i tuoi figliuoli avranno questa sostanza che tu hai rubato, credi tu che nelle loro mani cesserà d’essere roba rubata? E pensi forse che Dio la vorrà benedire e farla prosperare? No: le cose di cattiva origine hanno un pessimo fine » — Ci son altri che dicono: « Non posso restituire, altrimenti dovrei perdere la mia condizione in società, mettermi anch’io in qualche bottega ». Ricordate che in paradiso si può entrare vivendo in qualsiasi condizioni nella società, ma non si può entrare senza restituzione. — Altri ancora soggiungono: « Non posso restituire, perché mi mancherebbe il necessario per la vita ». A costoro si può rispondere. che vi è una Provvidenza in cui sono obbligati a confidare, e che certamente non li lascerà morir di fame quando avranno compiuto tutto il loro dovere. — Un’ultima scusa, la più futile, è di coloro che dicono: « Non posso restituire perché mi farei conoscere per chi sono: un ladro ». Ma non sanno dunque costoro per quante vie occulte si può fare la restituzione senza perdere il proprio onore? E se quelli a cui s’è derubato non esistessero più o non si potessero più rintracciare, ci sono sempre però i poveri, le chiese, le opere pie. Ma la roba rubata va restituita perché nessun ladro, nessun avaro, nessun ingordo entrerà in paradiso. Neque fures, neque avari, neque rapaces, regnum Dei possidebunt (I Cor., VI, 10). Se rincasando di notte, per un sentiero boschivo, un’ombra vi afferrasse per il petto e sibilasse: « o la borsa o la vita » e intanto sentiste alla gola la lama fredda d’un pugnale, che fareste voi? Vi lascereste uccidere? Non credo; ma gli buttereste il portafoglio e fuggireste. Ebbene non è un assassino, ma la giustizia di Dio che ci grida: « o la borsa rubata o la vita eterna! o restituzione o dannazione ». Perdiamo pure il denaro o la roba non nostra, ma sia salva l’anima. « Perde pecuniam ne perdas animam » (S. Agostino). – Un sarto lavorando nel suo mestiere aveva messo da parte alcuni ritagli di qualche considerazione. È troppo facile lasciarsi vincere dalle piccole cose: il sarto comincia con gli scampoli, il fabbro con i ritagli di ferro, il falegname con quelli del legno. Ma quel poverino d’un sarto venne in punto di morte e si vide arrivare al suo letto il diavolo, in atto d’alfiere che porti bandiera: una strana bandiera fatta di ritagli diversi, cuciti assieme. Egli, con sbarrate ciglia, li vedeva tutti; li distingueva: ecco quel ritaglio di velluto sottratto a un abito per signora; quell’altro è un pezzo d’orléans fatto avanzare dal taglio di un soprabito; ecco quel tabì, quel crépe, anche il tulle, anche lo zendado, perfino quella saglia a grossa spiga… tutti, tutti… E il diavolo, ridendo a pie’ del letto, gli faceva vento con quello stendardo, e glielo faceva fischiare nell’aria e ondeggiare sul volto. Ad ogni contatto il morente smaniava come se fosse scottato da una fiamma. Dio, per quella volta, gliela fece buona ancora, e guarì. Il sarto volle emendarsi e comandò alla moglie, ai figli, ai garzoni che ad ogni drappo che lo vedessero tagliare, gli dicessero: « ricordati della bandiera ». E non sapevano perché, ma lo sapeva bene il sarto. Questa bandiera ricordiamo anche noi, sempre che qualche po’ di roba altrui ci faccia gola; e temiamo che il diavolo non ce la porti, ghignando, sul letto dell’agonia per tormentarci in quel supremo istante. — A CIASCUNO IL SUO. Presso gli antichi violare i diritti del prossimo non sempre era delitto; anzi in qualche popolo il rubare, quando non ci si lasciava sorprendere in flagrante, non era punito dalla legge. Per Gesù Cristo, no: ad ognuno si deve dare il suo. Ledere i diritti del prossimo è un peccato come quello di ledere i diritti di Dio. Reddite Cæsari quæ sunt Cæsaris. I veri Cristiani hanno sempre sentito questa parola di giustizia.Nel 921 quando Roberto duca di Normandia col suo esempio indusse il suo popolo ad abbracciare la religione di Cristo e a ricevere il Battesimo, non s’intese più parlare di furto o di violenza in quella gente fino allora vissuta di rapina. Anzi era tale il rispetto che si aveva della roba altrui, che il duca Roberto avendo dimenticato, in un giorno di caccia, il suo mantello sopra un albero, tre anni dopo ripassando di là lo trovò sospeso come l’aveva lasciato. Forse non è con questa delicatezza di coscienza che noi conviviamo. Eppure cidiciamo Cristiani. Eppure ciascuno professa un grande orrore per il peccato di furto: e se si domandasse ad un uomo qualsiasi se talvolta si è impossessato della roba altrui, lo vedreste indietreggiare ed esclamare: « Questo poi, mai! Sarò un bestemmiatore,un bevitore, ma ladro no! ». Ma se nessuno ruba, come mai tanto spesso capita di sentire gente violata nei propri diritti?Esaminiamo la nostra coscienza se forse non ci rimorde di qualche coserella, in proposito. In due modi si viola la giustizia: col prendersi ciò che si dovrebbe lasciare, e col tenere ciò che si dovrebbe consegnare.1. COL Prendere. Se uno si mette sopra una strada e di notte assalta i viandanti e li spoglia; se uno entra nascostamente nella casa d’un altro e cerca di portar via roba o danaro costui è un ladro. Tutto il mondo si leva a condannarlo, a cacciarlo in prigione, e mettere in guardia! Bisognerebbe avere la mente guasta o il cuore degenerato per toccare il fondo di quest’abisso di miseria. Ci sono però altri modi più educati e galanti di prendersi la sostanza degli altri; contro questa specie di furto il mondo non grida perché vi è immerso fino alla gola e ciascuno cerca d’ingannare la coscienza dicendo: « Io faccio il mio interesse ». Ma davanti a Dio non è così: la sua legge parla poco, ma chiaro: date a Cesare quel ch’è di Cesare. Comincerò a spiegarmi con un esempio della Storia Sacra. Il vecchio Tobia era tanto povero e per di più gli era capitato la disgrazia di perdere anche la vista. Anna, la sua donna, era costretta ogni giorno ad andare a lavorare al telaio e dal lavoro delle sue mani portava in casa quel poco ch’era necessario per tirare innanzi. Accadde che una sera tornò con un capretto: Tobia ne udì il belato ed un sospetto lo angustiò. Sapeva bene che la moglie in una giornata non poteva averlo guadagnato e temette che la necessità, in cui vivevano, non l’avesse spinta a rubarlo. « Guarda bene, — disse il santo vecchio — che questo capretto non sia venuto per mala via; e se fosse così, restituiscilo a’ suoi padroni perché a noi non è lecito né di mangiare né di toccare la roba degli altri. In realtà ad Anna quel capretto era stato regalato, ma essa sdegnata rispose al marito: « Sì! fatti scrupolo di queste sciocchezze: intanto guarda in che miseria sei ridotto. Gli altri, che sono più avveduti di te, sanno godersela » (Tob.; II, 19-23). Com’è pieno di verità e di insegnamento questo episodio! Sembra raccolto dalla vita dei nostri giorni. Ma non tutti hanno la delicatezza di Tobia, e troppi ragionano con la coscienza di Anna. a) Molti genitori vedono che i figliuoli tornando dal lavoro portando in casa qualche oggetto, sia pure di poco valore, ma senza diritto: eppure tacciono, se non approvano. Se fanno qualche rimprovero, lo esprimono così: « Guarda che il padrone ci può cogliere e scacciare con una gran figura ». E non dicono che il Signore, il vero padrone, li ha già colti fin dalla prima volta. b) Oltre alla rapina e al furto, altri modi ci sono e più onorati ancora, per violare la giustizia. Forse che non si macchia la propria coscienza colui che consiglia il furto o aiuta a nascondere la roba di male acquisto? E non dite che questo è saper fare buoni affari; questo è rubare. c) C’è poi la frode: guardate i commerci degli uomini e li troverete pieni. Chi vende una merce per un’altra, chi falsifica i pesi, chi inganna sulle misure, chi non mantiene i patti stabiliti. E tutti costoro son persuasi di non rubare. (Sarò un bestemmiatore, sarò quel che volete, ma ladro poi mai!…). d) C’è l’usura: gente che approfitta delle necessità altrui per imprestare danaro ad un interesse superiore a quello che di solito si usa, e poi si vanta d’aiutare il prossimo. e) Ci sono anche i processi ingiusti. Capita, e non di raro, specialmente nelle questioni di eredità di ricorrere al tribunale per difendere del danaro che in coscienza si conosce di non poter tenere. E poi, se la sentenza riesce favorevole, si crede di essere in pace anche in faccia a Dio. Ma non è così. Reddite Cæsari quæ sunt Cæsaris. Davanti a Dio non si potrà mai essere in pace: se prima non si restituisce al suo padrone la cosa rubata. E se la cosa non si possiede più, si è obbligati a rendere un equivalente in danaro. E se il padrone è morto, si deve restituire ai’ suoi eredi; e se non ha eredi si deve dare in elemosina ai poveri. Solo dopo questo la coscienza può stare in pace e dire: « Ho dato a Cesare ciò che era di Cesare e a Dio ciò che era di Dio ».2. COL Tenere. S. Francesco da Paola prima di intraprendere un lungo viaggio per la Francia, si recò a far visita al re di Napoli. Questi gli si presentò con un bacile colmo di monete d’oro, perché ne prendesse per l’erezione di nuovi conventi. Il Santo le guardò un momento e poi con la mano fece cenno di rifiutarle. « Prendetene quante ne volete! Prendetene! » insisteva il re di Napoli. Allora il Santo disse: « Io non desidero il sudore e il sangue dei sudditi ». E dicendo così, prese una moneta, la spezzò, ed ecco! stillava sangue vivo. Il re di Napoli vide e non senza terrore. Dite, Cristiani: se un Santo o un Angelo, passando da casa nostra, spezzasse il danaro che noi possediamo, nessuna moneta gronderebbe sudore o sangue? Sudore di operai che hanno faticato nell’officina per settimane intere; sudore di vedove che agucchiano tutta la giornata per campare la vita; sudore di onesti padri di famiglia che hanno numerosi figli a cui preparare l’avvenire; sudore di orfani a cui fu contesa una giusta eredità. Fin tanto che si tiene danaro o roba tolta ingiustamente al prossimo, gronda sudore e sangue. Gronda sudore e sangue anche la cosa trovata di cui si conosce il padrone, ma che non si vuol restituire. Quando si trova un oggetto di valore si ha l’obbligo grave di farlo annunciare perché il proprietario venga a riprenderla. E se nonostante la buona diligenza usata il proprietario non risulta, quantunque non si abbia più nessun obbligo, è buona cosa largire in carità e in opere buone. Contro la giustizia vanno pure quelli che potendolo non pagano i debiti a tempo opportuno. Il creditore ha diritto di essere soddisfatto, poiché anch’egli ha interessi da compiere. È vero che talvolta si è nell’impossibilità di pagare, ma allora si ha l’obbligo di fare delle economie più rigorose, di tagliar via ogni superfluo, per rendersi, il più presto possibile, in grado di compiere il proprio dovere. Invece ci sono di quelli che hanno debiti e, senza darsene pensiero, non li pagano mai, e vivono senza imporsi delle restrizioni e che aggravano di giorno in giorno la loro situazione finanziaria. Questo non è secondo la nostra religione. Reddite, quæ sunt Cæsaris, Cæsari.Sentite com’è significativa la leggenda di S. Medardo! Sui pascoli di Piccardia, il giovinetto custodiva le mandrie del padre suo. Un meriggio, mentre dormiva passò di là una ladro e gli portò via un torello che aveva al collo un campanello che serviva di richiamo a tutta la mandria. Il ladro con la sua preda fuggì lontano lontano, e confuso tra le sue bestie nella sua stalla legò il torello rubato. Ma anche quando l’animale ruminava anche di notte in riposo, il campanello sonava, sonava. Spaventato dal prodigio, il ladro glielo strappò dal collo, e lo nascose, sotto tanta roba, in una cassa: ma il campanello come prima sonava, sonava. Allora scavò un buco profondo nel suolo e lo seppellì con sassi e con terra, poi stette in ascolto: il campanello sonava ancora. Tremando e piangendo quell’uomo prese il torello e lo restituì a S. Medardo che sui pascoli di Piccardia custodiva le mandrie paterne. E il campanello cessò di suonare. Fermatevi un momento, Cristiani, e tendete l’orecchio nel silenzio della vostra coscienza. Non udite un simbolico campanello suonare? Colui che ha preso o ritiene roba e danaro del prossimo ha nel proprio cuore uno squillo continuo che dice « Se non restituisci, sei dannato ». Accettate un consiglio salutare: se le riflessioni che abbiamo dedotte dal Santo Vangelo vi hanno destato qualche pena, esponetela senza timore a un buon confessore, che vi insegnerà la maniera facile per riacquistare la pace con Dio, col prossimo, col vostro cuore. E il campanello, anche per voi, cesserà di suonare.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Esth XIV: 12; 13

Recordáre mei, Dómine, omni potentátui dóminans: et da sermónem rectum in os meum, ut pláceant verba mea in conspéctu príncipis.

[Ricòrdati di me, o Signore, Tu che dòmini ogni potestà: e metti sulle mie labbra un linguaggio retto, affinché le mie parole siano gradite al cospetto del príncipe.]

Secreta

Tua, Dómine, propitiatióne, et beátæ Maríæ semper Vírginis intercessióne, ad perpétuam atque præséntem hæc oblátio nobis profíciat prosperitátem et pacem.

[Per la tua clemenza, Signore, e per l’intercessione della beata sempre vergine Maria, l’offerta di questo sacrificio giovi alla nostra prosperità e pace nella vita presente e nella futura.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XVI: 6

Ego clamávi, quóniam exaudísti me, Deus: inclína aurem tuam et exáudi verba mea.

[Ho gridato verso di Te, a ché Tu mi esaudisca, o Dio: porgi il tuo orecchio ed esaudisci le mie parole.]

Postcommunio

Orémus.

Súmpsimus, Dómine, sacri dona mystérii, humíliter deprecántes: ut, quæ in tui commemoratiónem nos fácere præcepísti, in nostræ profíciant infirmitátis auxílium.

[Ricevuti, o Signore, i doni di questo sacro mistero, umilmente Ti supplichiamo: affinché ciò che comandasti di compiere in memoria di Te, torni di aiuto alla nostra debolezza.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (226)

MEDITAZIO LO SCUDO DELLA FEDE (226)

MEDITAZIONI AI POPOLI (XIII)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE XIV

Il Santissimo Sacramento (2)

“Ascoltate: Se mentre voi siete qui raccolti, proprio in questo istante giungesse uomo a tutta carriera sulla porta della Chiesa, e gridasse in terrore: Il tale è qui fra voi?… — ciascuno di noi al sentirsi chiamar col nome balzerebbe innanzi rispondendo: sì, sono io qui…. e che è mai? — Il vostro padre, o la vostra madre… la persona insomma che avete più cara al mondo, venuta è or ora da lontano paese per consolarvi del suo amore… ma ahi! là sopra via ve l’ha assalito un vostro nemico, e percosso sul capo! L’ha ferito nelle mani: cadde squarciato orribilmente nel petto; ed ora per terra col cuor caldo che sanguina ancora… — Oh buon Dio!… ci mancherebbe la vita, se il dolore infuocato non ci slanciasse a cercare quella cara persona… Ma se si spalancasse la porta, ohimé! e ci venissero a deporre quella cara vita trafitta qui in mezzo di noi!… Dite: io, voi, che faremmo? Buttatici sopra quel corpo, vorremmo… ah, ci treman le viscere al solo pensarvi!… Deh, figlioli miei, è proprio qui Gesù: ma affinché niente ci turbi la tenerezza, e per non lasciarci egli che consolazioni a godere, è qui con quelle piaghe aperte si, però son gloriose; è qui con quel Cuor che fa sangue; però in fiamme d’amore che vuol travolgerci in beatitudine seco. Per noi qui è cielo, ed un sovrabbondare di gaudio più che celeste, perché qui è il nostro Gesù… (Imit. Di G. C., lib. 4). Infelice chi non l’amò mai! E noi? E noi, come lo trattiamo? e come lo dobbiamo trattare? – Come lo dovremmo trattare? Risponderò?… Come debbe volere il cuor nostro, e come vuole il Cuor di Gesù, il quale sta qui nel Sacramento, appunto come per fare un’unione di vita con Lui in paradiso. Ma dirò prima che mi compunge alle lacrime un pensiero confondere!… Eh pensare che sono mille ottocento e più anni che Gesù la dura in questo mistero d’amore!… Fa male al cuore il ricordare che se ne ebbe da soffrir delle crude da’ suoi nemici …. e i più atroci insulti di quei crudeli inveleniti di rabbia proprio il Sacramento del suo amore … Ma egli soffre; e questo ancor più amaro per lui torna, che Egli soffre la villana indifferenza e l’ingrata dimenticanza, in cui lo lasciano anche i fedeli suoi che non sono cattivi. Pure Egli continua a soffrire, perché ha i suoi secreti interessi tenerissimi colle anime, le quali l’intendono per bene. Sì, soffre tutto e sta sempre qui, perché ha cuori che hanno bisogno che riceva le suppliche, le confidenze, gli sfoghi cuore a cuore delle anime, le quali, disingannate dal mondo cercano un po’ di pace in seno al Padre della bontà. Ma voi ricordatevelo a conforto come Egli non lascia andare perduto un sospiro, un gemito, non una sola parola, ma si riceve tutto nel Cuore e vi prepara per tutti una grazia. Soffre tutto tutto, e resta sempre qui, perché poi alla fine, quando ci troveremo nella paura della morte, e sopra il baratro dell’eternità cogli occhi sbarrati metteremo un grido di raccapriccio a chiamar aiuto, egli correrà nel santissimo Viatico, si siederà sulle sponde del nostro letto, ci stenderà la sua mano sul cuore; e quando ahi! lotteremo colla morte in gelido sudore, in quell’ansia tremenda, ci scalderà coi suoi palpiti divini il nostro povero petto. Oh Gesù mio, noi nell’ultimo anelito dell’agonia spireremo l’anima, e allora… Deh silenzio, silenzio!… parla Gesù: figliuol del mio sangue, ti porto ecco io stesso in braccio al Padre nostro in paradiso! ubi ego sum… (Jo. XVII, 24). Mio Gesù! si inaridisca fin d’ora la mia lingua sul labbro se lasciasse mai di parlare di Voi nel Santissimo Sacramento. Deh facciamo dunque di rispondere d’amore a tanto suo amore divino; e vediamo ora come lo dobbiamo trattare qui sempre in mezzo di noi. – Ma io son troppo povero di cuore non so più che dirvi. Guardo come estatico la Chiesa, quasi la città santa nuova caduta dal cielo, in cui noi facciamo a coro cogli angioli appresso di Dio come essi in paradiso fanno, fortunati domestici di Gesù: contemplo nel santuario una porzione di quella terra nuova preparata pei predestinati a vita eterna, e qui caduta, nel mondo del tempo a maniera di nuovo paradiso terrestre; e l’albero della vita in mezzo, cioè il santissimo Sacramento, che alimenta nei fedeli la vita intima iniziale dell’immortale beatitudine. Ma qui, miei fratelli, che faremo noi?… All’altare, all’altare dov’è il nostro Gesù. Oh santa Madre Chiesa, che vivi in terra palpitando sul Cuore di Gesù nel Sacramento, quanto è grande la tenerezza tua, che può infondere la vita fino nelle morte cose, e scuotendo i freddi metalli delle campane, con essi sospiri, piangi, preghi e chiami tanto sovente i tuoi figliuoli, cui vorresti avere sempre a Lui intorno. Eh! ti sentiamo quando suoni! Sull’ali dei venti, colle onde sonore tu ci vieni a cercare da Per tutto, e con ogni tocco di campana ci comunichi un palpito del tuo cuore per farci teco viver d’amore col nostro Gesù. Per questo, miei fratelli, non appena comincia a ridere coll’aurora la luce del giorno, Ella si affretta a sorprenderci tra il sonno e la veglia, rompendo il silenzio coll’argentino tintinni la campanella dell’Ave Maria, a fine di chiederci il primo vergine pensiero da offrire a Luì, che qui vigila sempre amoroso. Su su dunque, o figliuoli, allo squillo dell’Ave Maria diamo la mano alla Madonna; ché la benedetta! anch’Ella ha qui il suo cuore, perché il Verbo Figliuolo di Dio suo Sangue restò sempre ad abitare tra noi. Ave Maria… benedicta tu … et Verbum caro factum est a habitavit in nobis. A mezzo giorno fermatevi un e, posate a terra la croce dei vostri travagli; che la Chiesa vi viene ad abbracciare nel petto per farvi dire: Ave Maria: o Maria, a quest’ora voi incontraste il vostro Figliuolo sul Calvario, l’abbracciaste sotto la croce, e restaste tutta bagnata di Sangue. Deh! Confortateci sotto le nostre croci, e pregate Gesù qui tra noi, affinché ci piova del suo Sangue sui travagli di questa povera vita. — Alla sera poi sull’Ave Maria ritiratevi come in famiglia intorno a Maria, e confidatele piangendo le mancanze del giorno. Ella è Madre, ed alle madri sì possono dire fino alle più abbiette nostre miserie: e pregatela che vi metta a dormire col Cuore di Gesù in una Comunione spirituale. Dormite allora sicuri; ché, se la morte credesse sorprendervi, oh la sorpresa vostra con Gesù finirebbe in paradiso: Ad gloriam perducamur; per Christum Dominum nostrum… Ma non sentite che le campane suonano a gioia? È la Chiesa che ci annuncia giubilante come l’Amor suo Divino esce fuori in Sacramento a guisa di un principe ben amato, il quale viene fuori dall’appartamento per gettarsi in braccio al suo caro popolo. Ricchi e poveri, a gara a gara in processione festeggiatelo in mezzo di voi, portatevelocorteggiandolo per le vostre contrade, mostrategli iluoghi delle più care vostre affezioni, dei vostri patimenti. Ma la campana ancora pare che sospiri tante volte alla mattina. Egli è per avvisarvi proprio in quest’ora che Gesù nella Messa va sull’altare a trattare insiem col Padre col Cuore suo aperto i vostri interessi. Se non potete andarvi a Lui in queste occasioni, confortatevi, ché resta qui sempre in mezzo di noi; e noi possiamo almeno anche da lontano, come la santa Sposa dei cantici tra le gelosie della sua casa, mandargli mille volte al dì i nostri sospiri. Sì si, o Gesù Cristo, il nostro cuore in ogni luogo vi arderà sempre davanti come il turibolo dell’incenso arde i profumi, come arde continuamente quella lampadella di lato all’altare. Lampada fortunata, io t’invidio, perché, posata davanti a Gesù, sfavilli per l’onor suo, e nel tremolio della tua fiammetta sembri consumarti palpitando come il mio cuore. Deh, com’io ardo di desiderio di consumarmi come tu fai! Mi possa io consumare in santo amore col diletto nostro di paradiso Gesù, nel fare il bene per tutta la vita col cuore in lui! Questa lampada, o fratelli, vi ricordi di mandare delle giaculatorie da qualunque luogo voi siate a Gesù, sempre in mezzo di noi, vero tesoro dei nostri cuori. – Noi crediamo fermamente che Gesù è proprio qui. Dunque tutta la vita cristiana sta qui, cercar di unirci a Gesù nel Sacramento e far tutto il bene con Lui. Io sono la vite, dice Gesù, con bontà divina, e voi i tralci; e i tralci allora sì fanno vivi e producono i grappoli del liquor prezioso, quando sono colla vite uniti. — Dunque dobbiamo essere in Gesù come sono colla radice i germogli. Gesù è dunque la vita, è il Cuore della Chiesa. No, non abbiamo paura noi che la nostra Madre Chiesa ci possa mancare. Quando pure non ce l’assicurasse l’infallibile promessa divina, solo perché Gesù ci dice: « Io son qui con voi per sempre, » noi non ne temiamo la morte, perché è con Gesù, il Verbo Creatore, il quale mantiene la vita in tutte le creature; e con Gesù si vive la vita eterna. Come poi noi nella vita umana, quando ci s’ammortisce un membro nella nostra persona, cerchiamo cogli stimoli per mezzo del sangue di riammetterlo in comunicazione col cuore, perché riabbiasi alla vita; così la Chiesa, quando si risente di umanità, e par che le si affievolisca la vita, ed alcune membra le vengon meno e le si distaccano dal corpo suo, ella si scuote: colla disciplina, colle pratiche della pietà, e coi Sacramenti rimette i suoi figli in comunicazione viva viva con Gesù Cristo. Allora le sue membra rivivono, ed essa si ristora, si rinnovella sempre a gioventù eterna. Al tempo del furore del protestantesimo le si straziavano le membra d’intorno: i suoi nemici gridavano: « Riforma! riforma! E a colpi di scure distruggevano culto, Sacramenti, altari, la Messa, tutto mettendo a pezzi fino il Crocifisso. Allora la Chiesa si raccolse nel Concilio di Trento intorno a Gesù nel santissimo Sacramento, richiamò i fedeli ad adorarlo, nobilitò i modi di onorarlo, animò tutti a vivere in maniera da riceverlo in tutte le Messe; e disse che lo desidererebbe sì: optaret; e così fu ristorata. Essa allora alla riforma della distruzione contrappose la riforma della carità nelle opere sante; e quindi, riscaldati a questo focolare di vita divina, che è l’altare, sorsero quegli operatori di miracoli di divozione e di carità, che furono s. Carlo Borromeo, s. Filippo, s. Luigi, s. Gaetano, s. Vincenzo, e poi santa Teresa di Gesù e cento altre anime santissime, spettacolo al mondo caro e agli angioli (Questi pensieri seguenti si vollero aggiungere per accennare quanto debba influire in tutta la vita cristiana il dogma della Presenza Reale. No, finché non si farà dell’educazione, delle pratiche di pietà, di tutta la vita insomma delle persone che si vogliono salvare, centro Gesù Cristo col Cuore aperto qui con noi nel Sacramento, e non si piglieranno da Lui le inspirazioni, e a Lui non si dirigerà l’insieme della vita cristiana si otterrà ben poco e con molta perdita di tempo, e di profitto delle anime. Questo il sommo Pontefice raccomanda in tante occasioni; e noi non ne abbiamo fatto un argomento di particolare meditazione, perché a tale scopo sono dirette tutte le scritture nostre, massime quella che ha per titolo: La Madre Chiesa nelle sue relazioni con Dio e coi suoi figliuoli. Se siamo lunghi, si perdoni: è perché il cuore non finirebbe mai.). Eh converrebbe avere il cuore di sant’Alfonso Maria per saper comprendere quante generose risoluzioni si pigliano, quanti generosi proponimenti si fanno coi cuori sul Cuor di Gesù! Si può dire che le anime buone tutti i dì a gara intorno al Sacramento in contemplando il Corpo santissimo con santo entusiasmo gli bacian le Piaghe per dirgli a furia di baci: Gesù Cristo!!! lasciate fare a noi che ve le medicheremo per bene!… e sopra ciascuna Piaga mettono una promessa d’un’opera di carità, un fior di virtù, un profumo di sacrifici sempre nuovi. – Quanti sacerdoti che, innamorati di Gesù, come san Giovanni sul petto riposando di Lui, metton la bocca al suo Costato nella santa Messa e quindi discendendo dall’altare nell’estasi d’un’anima innamorata dappertutto travedono l’amato Gesù. Gesù mirano nei bimbi; e lasciateli fare che nei catechismi, nelle confessioni ve li abbracceranno per formare di loro il regno de’ cieli: Gesù raffigurano nelle anime devote, e le voglion tutte condurre al tanto amato Gesù: Gesù negli infermi: Gesù in tutti i più miserabili; e. si battono, si direbbe, petto a petto coll’umane sciagure a fine di porre al coperto dei loro colpi quei cari che sono membra di Gesù Cristo. Se poi nelle pesti trionfa la morte, e l’inferno fa calcolo di poter tanti ingoiare, ed eglino si slanciano ardimentosi a strappar via le anime figliuole del Sangue di Gesù Cristo, come soldati in attacco rianimati dalla presenza, e dalla parola che Gesù dice al loro cuore dal Sacramento. Cadranno forse morti tra gli appestati, ma partiranno colle loro anime salve in paradiso portando seco le anime dei morienti da loro assistiti. – Eh lasciateli andare a sfidare le tempeste dei mari, a cimentarsi coi feroci delle orde selvagge, ne andasse la vita! Son là da tre mila proprio ai nostri di nell’America e nell’Oceania, fra gli orsi bianchi del polo, forse a farsi mangiar vivi, ma al tutto vogliono sposare le anime a Gesù in Sacramento. Il mondo che si arrovella nella cerchia dell’amor proprio a fabbricarsi comodità, quando vede i sacerdoti uscire fuori dell’orbita di quella loro ragione, li chiama pazzi. Li chiami pur tali: ma, signori miei, la loro è pazzia sublime che inspira l’eroismo nel sacrificio tutte mattine sull’altare con Gesù: è pazzia epidemica la quale si attacca al contatto di Gesù. Ma ve? che, fatta la Comunione, discendono dall’altare ardite tante figliuole, formate alla purità di Maria Vergine, all’amor di Maria Madre e, al coraggio di Maria Addolorata; e corrono appresso di Lei, come le buone Marie, fin sul Calvario per medicar le piaghe all’umanità più abbandonata. Sono le monache dei vari Ordini della Carità le quali si han sentito a dire da Gesù ricevuto nel loro petto: andate; quel che fate ai miserabili più meschini, lo fate a me stesso. – Vi hanno poi dei cuori così delicati come sono certe pianticelle che si pascolano sol volentieri di rugiada; e la Chiesa le coltiva queste pianticelle, quasi in orti chiusi nei monasteri dove sì espandono come gigli nel candor della vita intorno a Gesù. Benedette voi, o monache sante, che nelle vostre clausure fate sentire intorno a Gesù in terra il cantico delle nozze eterne, che gli cantano le vergini celesti in paradiso! E benedette voi, Sacramentine! Come la colomba escita fuori dell’arca in quel diluvio di immondezze sorvolava, e vedendo cadaveri, belletta e ributti dell’acque in marciume dappertutto, non sapeva dove posar il piede color di rosa senza lordarlo, quindi batteva l’ali immacolate e volava volava intorno all’arca pigolando e gemendo, finché il salvatore Noè non aperse la finestrina e se la raccolse in seno, non altrimenti voi non sapendo far posata sopra questa povera terra gemeste intorno alla tenda del vostro Amore. Gesù ve l’apri, vi si espose in mezzo a voi col Cuore aperto; e voi, espandendovi innanzi coi cantici dell’amore, il dì e la notte gli fate provare nel Sacramento, che Egli non s’ingannò che vi sarebbero dei cuori in terra capaci di amarlo indivisibili come sì ama in cielo. Col cuor sulle labbra noi vi ringraziamo, perché ci fate la bella carità di farvi interpreti dei nostri poveri cuori. Qui nell’Eucaristia è il tesoro dei nostri cuori; è qui dunque il centro della vita cristiana. – Genitori, il vostro matrimonio è gran Sacramento, perché esprime questo sposalizio di Gesù colla sua Chiesa in terra: deh portate i figli, di cui vi feconda la sua benedizione, ancor bambini a bamboleggiare col Bambino Gesù. La pietà cristiana sa che i bambini se la intendono con Lui Bambino; ond’ella volle far dipingere, ed ama vagheggiare il san Giovannino con Lui sulle ginocchia alla Madre di tutte le grazie. Crescerannovi intorno alla santa Mensa ridenti come le olivette queste care speranze. Volete poi grandicelli bellamente educarli al sant’amore di Dio ed al vostro affetto? Portateli tutte le mattine alla chiesa, e, palpitando voi d’amor con Gesù sui figliuoli delle viscere vostre che vi tenete davanti, fate con loro unione di intima vita con Gesù. Assuefateli nelle vostre case a tenersi con Lui, a guardarlo come un Compagnetto il quale abita nella stessa contrada, il quale dal suo Tabernacoletto sta in mezzo nelle vostre famiglie.. Egli sarà come se il vedessero crescer con loro, e lavorar come garzoncin di bottega con Giuseppe e Maria, tanto quasi da mettergli nel grembiule i loro lavorietti, i loro piaceri e tutti i sacrifici, ché ne han tanti da fare anch’essi avvegnaché piccini. Ma più di tutto assuefateli a prepararsi, come alla più cara festa, a ricevere Gesù nella Comunione. L’innocenza ed il cuore amoroso dei fanciulletti è la più bella disposizione alla Comunione. E perché aspettare tanto a far loro ricevere il Signore, mentre i fiorelli in sullo sbucciare sono il più bell’ornamento intorno all’altare suo Santo? – Signori maestri, a voi rivolgo questa solenne parola. Voi, pigliando a coltivare la gioventù delle famiglie cattoliche, vi assumete una terribile responsabilità, che non è già una morta parola come è quella delle carte degli umani statuti, ma è un obbligo da renderne conto all’inesorabile Esattore della giustizia eterna. Voi dovete educare i giovani a vita proba; e proba, disingannatevi, non è la nostra vita, se non é cristiana; e non è cristiana la vita senza di Gesù Cristo. Signori maestri, voi tradite le famiglie, tradite voi stessi, tradite i giovani se non li menate alla Comunione con Gesù Cristo nei Sacramenti; tradite la vostra missione, dice il grande Agostino (Tract. 45 in Io. post. Ini.), se lasciate che per ignoranza non conoscano, o per superbia disprezzino chi li indirizza, chi li sostiene, chi li conduce al loro fine, che è Gesù Cristo. Dotti, anche a voi da Gesù Cristo scendono le più sublimi ispirazioni. Fu il Santissimo Sacramento che rifulse come mistico sole in petto a quell’uom più dotto del mondo, che fu s. Tommaso. Egli lasciò un dolcissimo monumento del suo genio nell’officio della SS. Eucaristia. Amò, amò in un modo indicibile Gesù Sacramento; a lui sciolse l’ultimo cantico dell’amore nell’interpretare la Cantica: palpitò come sposa divina, e, nello sciogliere quel cantico volò al suo Diletto in paradiso. – Artisti, fino a voi io discendo, o meglio mi slancio ad elevarmi col vostro genio. Ma se Michelangelo potente ad erigere il Panteon della grandezza romana fin fra le nubi, è per innalzarlo in cupola in San Pietro sul tabernacolo di Gesù Cristo. Ma Leonardo nella Cena trasfuse quella maestosa, immensa bontà di Dio sul volto al Salvatore, è perché lo dipinse in atto di dar tutto Se stesso in Comunione. Ma se Tiziano mostrò nella gran Vergine Maria la purità e l’amor divinizzati, e se Rafaello trasfigurò Gesù in quel mar di beatitudine, è per esprimere come l’umanità si ha da immergere in Dio. E dove mai, in terra, o fratelli, l’umanità si può immergere in Dio se non nel Sacramento?… O figliuoli degli uomini, perché brancicando le vanità della terra vi andate a perdere?… Finite una volta d’ingannarvi: supremo Bene dell’umanità è Dio. Venite adunque a Gesù che col darvi Se stesso vi unisce a Dio in Comunione. – Si, Gesù si dà a noi in Comunione. Contempliamo con quanto amore diede Se stesso a fine di esser dentro di noi ricevuto; e facciamo di comprendere nel modo più possibile quanto tesoro di bontà vi sia in questo abisso d’amore, che è la Comunione. Ah io vi confesso, che nella foga dei troppi affetti mi si affollano le idee! Io resto confuso, e sento che con lingua d’uomo, ma neppure di angelo potrebbe dir degnamente di tanto amore divino. La povera mia parola finisce in un sospiro… Eh! Sarà meglio contemplare Gesù come racconta nella semplicità divina il santo Vangelo. – Stava Gesù in mezzo ai discepoli in quella notte in cui disponeva nel suo amore ogni cosa per andare domani a morire per noi. Che istante solenne e troppo tenero per un padre il quale dir dovesse: Dimani io voglio andare, o cari figliuoli, a morire per voi!… Ma e che tento io mai coll’amor di un tenero padre terreno misurare l’amor di Gesù? Adoriamo! è in Lui, nel più bel Cuore d’uòmo la onnipotenza dell’amor di un Dio! Profondità di mistero, che accresce la beatitudine a contemplarlo dentro fino in paradiso! Meditiamo l’amore divino con cui si diede a noi nell’istituire il santissimo Sacramento. Dio è carità, Deus charitas est (Jo. II, 16), e carità è l’essenziale bontà, la quale sente il bisogno di dare del suo bene a tutte le creature; e ne dà tanto all’insettuccio anche più minuto, al più piccol germoglio di pianticella, e tanto fino al granellino di polvere, quanto son così capaci di riceverne. A versare poi la ricchezza di tutta la sua bontà Dio creò noi uomini con un cuor così vasto, che quando bene v’entrasse tutto, fosse pur l’universo, gli farebbe sempre sentire il vuoto maggiore; poiché noi siamo capaci di posseder Dio! E Dio per abbassarsi a noi si fece uomo, assunse l’umana natura, le comunicò la pienezza della Divinità, la mise seco in comunicazione di Vita; e così Dio fatto uomo è Gesù Cristo. Dio così umanato si trovò con noi uomini in relazione nuova, in relazione di fratello, in relazione di sangue; ché Dio è carne della nostra carne: Verbum caro factum. Laonde in Gesù l’uomo è personificato con Dio. Quindi l’Uomo-Dio sente in sé il suo Corpo attivo dell’onnipotente attività di Dio, sente che il suo Sangue è fonte inesauribile saliente a vita eterna, com’è fonte di tutta vita Iddio istesso, sente il suo Corpo, il Sangue divino che sono espansivi e comunicabili, com’è espansiva, e comunicabile la bontà di Dio. –  Venuto in terra, per unire in Sé gli uomini con Dio, nell’ultimo istante non poté più soffrire ritegno, e si diede tutto a noi Dio-Uomo in questo amplesso che è la Comunione, mistero d’amore divino, fine di tutti i misteri: cum dilexisset suos, in finem dilexit eos (Jo. XIII, 1). Deh deh, che fa Egli?… La ragione, il cuor si annientino davanti all’operazione divina!… Piglia in mano il pane, lo benedice, e: « Prendete, questo è il mio CORPO …. Poi: questo è il mio SANGUE… » Pietro dal carattere ardente si dovette trovar per terra esterrefatto, ed avrà esclamato: O Signor mio Dio, che fate? Mai no, chè noi siamo peccatori: Exi a me, quia homo peccator sum, Do mine (Luc. V, 8). Giovanni dall’amor tenerissimo slanciato si sarà ad abbracciarlo nel petto e: Signore, no, non fate; Gesù mio buono, non vi date agli uomini: han troppo poco cuore per Voi!… Tutti gli Apostoli in ginocchio allargargli le braccia, e coi cuori trepidante ripetergli: Signore, non siamo degni, noi!… non siamo degni!… Ma Gesù: Taci, Pietro! lascia fare. Giovanni! pigliate animo, amici… ricevetemi! Mettetemi nel vostro cuore; mi sarà cara questa dimora.. Signore! non sapendo più dire vi adoriamo confusi. Ma tant’è: rapito in santo entusiasmo, coll’arditezza dell’amore, audace interprete dei più segreti misteri, con una lingua da innamorato, lasciate pur che io balbetti in qualche espansione. E seabbiamo contemplato con quanto amore Gesù diedeSe stesso ad essere ricevuto nella Comunione, portiamo l’amoroso ardimento fino a meditare ben dentro perché ci si dia nella Comunione in cibo.Oh le fiamme del Cuor di Gesù mandano in questo abisso di Amore una mistica luce, che ci pare,..pare che ne faccia comprendere ben qualche cosa.  Ecco insomma: noi veniamo da Dio; Dio ci vuolseco beati, e chi ci ha da portare a Lui è questoSignor Dio nostro Gesù. Noi meschini ci troviamptroppo lontani e indegni di Dio: troppo più grande è Dio; e noi proprio nulla, noi. Eppure Dioci fece per sé: fecisti nos ad te. Troppo poi altosi è il cielo, e noi troppo in basso sprofondati nell’abissodelle nostre miserie: ma questo abisso inGesù è scomparso. In Gesù i due termini, Dio el’uomo, sono uniti in una sola Persona; Dio assunsela carne: Verbum caro factum est (Jo. I, 14); umanacarne resta assorbita dalla Divinità… e 1’Uom-Dioresta di noi.Fermatevi ora un istante a pensare come l’anima nostra colla potenza della sua vita per mezzo del corpo attinge le materiali cose, ne fa suo cibo; e così assorbe il cibo materiale nel vortice dell’animalità, lo assimila a se stesso, lo diffonde in tutta la sua persona, lo fa diventare personale. Sicché quel cibo diventa porzione del corpo animale, e vive nell’anima della sua vita, partecipa, direi, a’ suoi pensieri, a’ suoi affetti, brilla con lei lieto, con lei triste impallidisce. Per simil guisa Gesù Cristo nella Comunione si mette in relazione personale per mezzo del suo Corpo con esso noi: piglia la sua carne come inzuppata (deh deh perdonate la espressione alla parola umana troppo meschina per cose tanto divine!), la sua Carne piglia come imbevuta del balsamo ristoratore e vivificante della Divinità, la trasfonde dentro di noi per santificare colla sua Divinità, col Corpo e coll’Anima sua divina l’anima nostra e il corpo nostro. Perocché l’uomo è anima e corpo; e con questa unione Egli è bella immagine di Dio-Uomo. E come Gesù Dio si comunica alle anime nostre coll’effusione della grazia, così Gesù Uomo Divino si trasfonde col suo Corpo, e col suo Sangue nel nostro corpo, e nel nostro sangue, quando si fa nostro cibo spirituale; ci compenetra tanto, da doverci dir sue membra, da tenerci in rispetto santo; di modo che contaminare le nostre persone, è un contaminare ahi! Le membra di Gesù Cristo. Siamo diventati corpo del suo Corpo, sangue del suo Sangue, partecipi della natura di Dio, capaci anche col corpo di esser immersi nella beatitudine della vita eterna, come ce lo assicura quell’amabile sua bocca divina: qui manducat meam Carnem et bibit meum Sanguinem,vivet in æternum (Jo. VI, 55, 57). Che diremo? noi esclameremocon una parola da non si poter tradurre per benecol linguaggio umano: « Dii estis! (Ps. LXXXI, 6 – Jo. X, 34): siamo invita di Dio! » Come dice Dionisio, diventiamo deificati: participes divinæ naturæ. perché siamo degni di esser amati da Dio, gli attiriamo il Cuore così, da volerci seco persempre. Poiché l’amore vuole l’unione; e l’amore èsempre con persone fra le quali sì sia stabilita unacerta quale equazione per una qualche somiglianza odi età o di condizioni, od almeno di affezioni che s’incontrano.Ora per mezzo di Gesù tra noi e Dio esisterelazione di vero amore nel Sacramento; essendonoi elevati fino a Dio in Gesù, ‘gli siam tanto carie troppo preziosi, poiché ci siamo uniti anche colcorpo a Lui.Provate un poco voi unire dell’oro in grande abbondanzacon poco piombo: quando i due metalli sianofusi insieme, il piombo muta il suo valore da nulla, ecoll’oro è computato prezioso anche il piombo. Noici eleviamo più in su, perché ci richiama la parola stessadel Salvator nostro. Uniti che siamo in Gesù, noiattiriamo lo sguardo di Dio: Iddio Padre guarda innoi la sua sostanziale Immagine del Figliuolo, e vedeil Sangue divino dentro di noi; col suo Amor Sostanzialelo Spirito Santo si abbassa in noi, ci abbraccia,in noi dimora, e vuol sommergerci nella beatitudinesua… ad eum veniemus et mansionem apud eum faciemus (Jo. XIV, 23).Ancora ancora (e se siamo arditi, o Signore, ci fatali il troppo grande amore vostro). Noi vogliamodire di voi, santissimo Iddio, come di un padre edi una madre. I genitori guardano nella loro proleil proprio loro sangue, ravvisano in essi l’un dell’altrola propria immagine e una porzione di loro;di che vogliono dare ai figli di ogni lor bene, esospirano di averli seco felici. In tale maniera sospira Gesù che nessun si perda: O Padre, questi,che mi avete dati, li voglio meco dove son io, ubi ego sum (Jo. XII, 26), nel celestiale gaudio della nostra Divinità.Così il Sacramento resta pegno di vitaeterna.Per potere meglio ciò comprendere, considerateuna madre (poiché noi crediamo che Dio nel formareil cuor della madre guardasse al proprio Cuore). Èda vedere la madre quando si delizia col bimbo suo.In quei cari vezzi, in quelle innocenti delizie guardacon tutta l’anima negli occhi del bimbo, amor suo:se lo stringe al cuore, lo bacia; poi torna a riguardarlo,e sel ribacia più infervorata, quasi volesse labuona per la bocca versare l’anima nel suo bambino,e col cuore nel cuore compenetrarlo, e darglitutto il suo bene. Ma ella trova quel corpicciuol chele si attraversa, e l’impedisce; ed ella in baciarlovorrebbe come assorbirsi quel corpicciuol delle visceresue, e con un cotal amoroso furore quasi mangiarseloa furia di baci, inviscerarsi quella caravita come porzion della sua. Ora la madre nonpuò mettersi dentro del petto il suo bambino. Ebbene,quello che non può, e vorrebbe pur fare lamadre colla potenza del suo amore, lo può Gesùcoll’onnipotenza dell’amor divino. E li sull’altarenella santa Messa, pacifica il Padre colle sue Piaghe,e col suo Cuore squarciato; e dopo essersi sacrificatotutto per noi, cerca noi tutti d’intorno; ètutto nostro, vuol darsi tutto a noi… A Lui dunque,a Lui! ché Egli trovò modo di darci sotto le speciesminuzzate del pane e del vino il suo Corpo e ilsuo Sangue a fine di penetrarsi nella nostra personasotto specie le quali in noi si dileguano. Pertal maniera diventa nostro cibo la sua Carne sposataalla Divinità. Apri adunque, dice Gesù col Sacramento, apri, o diletto mio, ché io sto per entrare! allarga il tuo cuore, dammi te stesso, come Io a te mi dono. Così entra nella nostra persona il suo Corpo e il suo Sangue e si mischiano col corpo e col sangue nostro! Egli scende ad abbracciar l’anima nel più intimo centro della vita umana; ed allora la nostra persona umana sì tocca, si bacia la sua Persona divina, e in lei si unisce. Dio è nell’uomo, l’uomo in Dio, tanto ché con san Paolo può dire il fortunato fedele: vivo io; ma no, non son già io che vivo, ma vive in me Gesù Cristo. Deh, corriamogli in braccio! Per questo la vita dei Santi è un sospiro d’amore a Gesù, ed un continuo a Lui anelare; ond’ei non sanno altrimenti quietare ed empiere la propria fame se non hanno con dolcezza infinita e spirituale avidità preso il santissimo Corpo. Ed oh, quanto Gesù si compiace di abbandonarsi a loro che l’amano così! Santo Stanislao Kostka: « Signore, vi voglio! Sospirava d’in mezzo a quel gentame che non permettevano lo ricevesse: Signore, vi voglio! E Gesù adorato appare a lui personalmente a dargli il suo santissimo Corpo. S. Luigi Gonzaga non può più mai, mai il cuore, il pensiero e la persona sua disgiungere da Gesù; e: se io debbo, gli dice, per poco dimenticarvi, allontanatevi Voi da me!… ah no, che io non posso! … — Sorgete, o padre, gridava santa Caterina da Siena, prevenendo l’aurora alla porta del Beato Raimondo: sorgete a comunicarmi, o che io muoio per volar con Gesù! — S. Giuseppe da Copertino che fa mai? Ammirate! fa la Comunione spirituale; ma vola col corpo in aria verso al Ciborio dov’è personalmente Gesù. E l’innamorato s. Filippo Neri riceve Gesù, e in tal enfasi di gaudio il cuore gli batte sì forte, che trovando troppo angusto il petto all’amore divino, gli solleva due coste. Oh sentite una vocina di bimba che piange: ma, Gesù mio, a me, a me!… È la beata Imelda la quale grida di mezzo alla chiesa, in vedendo Gesù in mano al sacerdote che comunicava. Le monache a lei: taci, bambina, lo riceverai quando sarai ammessa. Ella non sente, e grida più forte: Gesù mio, vi voglio! Gesù mio, vi voglio! e Gesù parte di mano dal sacerdote, vola a lei. Lo riceve la bimba, palpita, palpita di quell’amore, di cui non si vive in terra, e vola subito in paradiso. Che bella morte improvvisa in quella prima Comunione in seno a Gesù! E fino là morto sul feretro in mezzo della chiesa s. Pasquale di Bailon alla elevazione della Messa solleva la testa, guarda l’Ostia santissima, e a Lei si inchina sì che direste che il suo corpo morto si vivificasse ancora della vita di cui già l’anima beata viveva in Dio. – Miei fratelli, e noi e noi che facciamo? Deh, non mi ricordate i villani rifiuti all’invito del Signore del Vangelo; ché troppo mi fa male al cuore sentire a dirgli: ho una creatura che amo, ho campi, ho bestie da curarmene troppo più che non del vostro convito. Sento le fiamme al volto al pensare a quegli sciagurati… Lo riceveremo noi, sì, lo riceveremo tutti i dì, lo riceveremo a tutte ore nella Comunione spirituale, e vivremo in modo da poterlo sempre ricevere, stimando con sant’Ambrogio essere per noi troppo pauroso castigo della Comunione Santissima esser privati. Su su, d’ogni condizione fedeli, facciamo una lega, corriamo ad ascriverci alla santa crociata, diventiam tutti, ché ci vien concesso, cavalieri di onore, e portiamo sulla nostra bandiera: — Viva Gesù nel Sacramento, — A lui sia tutta sacra la nostra vita; corriamo, a Lui; corriamo dove è tutto il nostro cuore, e vegliamo di e notte intorno al Re del nostro amore… – A questo fine di non lasciare Gesù Cristo in mezzo a noi da noi abbandonato si va stabilendo la cara società che è chiamata col bel nome di Guardia d’onore. In essa gli ascritti d’ogni condizione si recano all’ora stabilita, d’accordo fra loro, per far la guardia al SS. Sacramento; ed è bello il vedere come s’ingegnano di surrogarsi l’un l’altro nelle ore concertate. Oh l’amor verace e vivo sa pure trovar tempo, inventare industrie ed adoperare argomenti, per fare che il Diletto divino Gesù nelle nostre chiese abbia sempre un cuor umano che palpiti d’amore per Lui a nome di tutti i fedeli! Nelle parrocchie, dove è istituita siffatta Guardia d’onore, a qualunque ora voi entriate nelle chiese, vi accorgete se vi è il Santissimo, più che dalle fiamme delle lampadelle o dei ceri, dai cuori dei fedeli che gli palpitano intorno a fargli la guardia. O Maria, quanto sarete contenta voi che quei buoni vi accompagnino là dove deve essere il vostro cuore. Signori, viva Dio! La pietà e l’amor di Gesù non sono spenti nei fedeli. Lo prova oggi questo fatto che l’amore è come potenza elettrica latente…. Su via adunque, su via, uomini di gran Cuore, date le scosse, e scintillerà una luce vivace d’amor celeste dappertutto. Voi vi commovete? Aveva dunque ragione di dirvi io in sul principio, che solo per vedervi ricevere tutti Gesù mi trovo già consolato. Egli è perché vi amo d’amor di madre! Figliuoli del nostro Sangue di Gesù, che in tutti scalda la nostra vita, stendete le mani verso Maria, tra le sue braccia ponetevi al sicuro, riparandovi nel Cuor di Gesù: Vita vestra abscondita cum Christo (Colos. III, 3). Come sta il bimbo in grembo alla mamma; e come quando il bambino balzato dalle sue ginocchia si allontana per poco, e sentendo rumor che lo spaventi, ed egli torna correndo subito ancor alla mamma; così fate voi ad ogni principio di tentazione: ad ogni pensiero cattivo correte subito col cuor a Gesù nel Sacramento, sempre col grido: — Gesù e Maria. — E siccome se mai entrasse in casa un tale che minacciasse di metter le mani sul bambino, egli balza prestamente in seno alla madre, le nasconde dentro nel petto la sua testolina, e allora non ha più paura! Anche noi, anche noi adoperiamo così: nelle tentazioni più forti, rifuggiamoci nel Costato aperto di Gesù, stringendoci al suo Cuore in una Comunione spirituale: La tentazione continua? e noi sempre in Comunione spirituale con Gesù. Sfidiamo in Gesù i demoni; e quanto più saranno, e continui negli attacchi, noi più vivamente attaccati a Gesù, farem cum tentatione proventum (Cor. X, 13). Ieri, oggi, sempre in eterno in Gesù: con lui in combattimento, con lui in agonia e con lui finalmente in gloria nella beatitudine in paradiso; perché la Comunione è il pegno della vita eterna.