I SERMONI DEL CURATO D’ARS: PER IL GIORNO DELL’ASCENSIONE – “IL CIELO”

PER IL GIORNO DELL’ASCENSIONE

[Discorsi di San G. B. M. VIANNEY, Curato d’Ars, vol. II, IV ed. TORINO – ROMA; Marietti ediz. 1933]

Il Cielo.

“… laudate et exultate, quoniam merces vestra copiosa est in cælis.”

(MATTH. V., 12).

Queste furono, F. M., le consolanti parole che Gesù Cristo rivolse ai suoi Apostoli per confortarli, ed animarli a soffrire coraggiosamente le croci e le persecuzioni future. ” Sì, figli miei, diceva loro questo tenero Padre, diverrete oggetto dell’ira e del disprezzo dei cattivi, sarete vittime del loro furore, gli uomini vi odieranno. vi condurranno davanti ai principi della terra per essere giudicati e condannati ai supplizi più spaventosi, alla morte più crudele ed ignominiosa: ma, lungi dallo  scoraggiarvi, rallegratevi, poiché una gran ricompensa vi è preparata in cielo. „ O cielo bello! chi non ti amerà, poiché tanti beni tu racchiudi? Non è infatti il pensiero di questa ricompensa che rendeva gli Apostoli infaticabili nel loro lavoro apostolico, invincibili contro le persecuzioni che soffrirono dai loro nemici? Non è il pensiero di questo bel cielo che faceva comparire i martiri davanti ai giudici, con un coraggio che meravigliava i tiranni? Non è la vista del cielo che spegneva l’ardore delle fiamme destinate a divorarli, e spuntava le spade che li dovevano colpire? Oh! come erano felici di sacrificare i beni, la vita per il loro Dio, nella speranza di passare ad una vita migliore che non finirebbe mai! O fortunati abitanti della città celeste, quante lagrime avete versate e quanti patimenti sofferto per acquistare il possesso del vostro Dio! Oh! ci gridano essi dall’alto di quel trono di gloria, sul quale si trovano; oh! come Dio ci ricompensa di quel po’ di bene che abbiamo fatto! Sì, noi lo vediamo, questo tenero Padre: sì, lo benediciamo questo amabile Salvatore: sì, lo ringraziamo questo caritatevole Redentore, per anni senza fine. O felice eternità! esclamano essi; quante dolcezze e gioie non ci farai tu provare! Cielo bello, quando ti vedremo noi? O momento fortunato, quando verrai per noi? Senza dubbio, F. M., desideriamo tutti e sospiriamo beni sì grandi: ma per farveli desiderare con maggior ardore, vi mostrerò, per quanto mi sarà possibile,

1° la felicità della quale sono inebriati i santi in cielo;

2° la strada da seguire per andarvi.

È certo che noi siamo fatti per essere felici: ognuno dal più povero fino al più ricco, cerca qualche cosa che l’accontenti e compia i suoi desideri. (Nota del Beato),

I. — Se’ dovessi, F. M., farvi il triste e doloroso quadro delle pene che soffrono i reprobi nell’inferno, comincerei a provarvi la certezza di queste pene: poi spiegherei innanzi ai vostri occhi con spavento, od, a meglio dire, con una specie di disperazione, la grandezza e la intensità dei mali che soffrono, e che soffriranno eternamente. A questo racconto lagrimevole, vi sentireste presi d’orrore; e per farvelo ancor meglio comprendere, vi mostrerei le ragioni per cui quelle anime sono divorate dalla disperazione senza tregua. Vi direi che sono quattro: la privazione della vista di Dio, il dolore che soffrono, la certezza che non finirà mai, ed i mezzi che ebbero, coi quali potevano così facilmente schivarla. Infatti, se un dannato, per mille eternità, quando ve ne potessero essere mille, domandasse con le grida più strazianti e commoventi la felicità di veder Dio per un minuto solo, è certo che giammai gli verrebbe accordata. In secondo luogo, vi dico che ad ogni istante egli soffre da solo più che non abbian mai sofferto tutti i martiri insieme, o, per dir meglio, soffre in ogni minuto dell’eternità tutti i patimenti che deve sentire durante l’eternità. La terza causa dei loro supplizi è che, malgrado il rigore delle loro pene, sono sicuri che non finiranno mai. Ma ciò che metterà il colmo ai loro tormenti, alla loro disperazione, sarà il ricordo di tanti mezzi così efficaci non solo per evitare quegli orrori, ma anche per essere felici per tutta l’eternità: ricorderanno che avevano a lor portata tutte le grazie che offrì loro Iddio per salvarsi: e queste saranno altrettanti carnefici che li tortureranno. Dal fondo di quelle fiamme vedranno i beati seduti su troni di gloria, accesi d’amore sì ardente e tenero da immergerli in una ebbrezza continua: mentre il pensiero delle grazie a loro concesse da Dio, il ricordo del disprezzo fattone farà ad essi emettere urla di rabbia e di disperazione così spaventose che l’intero universo, se Dio permettesse fossero intese, ne morrebbe e cadrebbe nel nulla. E bestemmie orribili lanceranno gli uni contro gli altri. Un figlio griderà che è perduto solo perché i suoi genitori lo vollero, e invocherà la collera di Dio, e gli domanderà colle più orribili grida di concedergli d’essere il carnefice del padre suo. Una giovane strapperà gli occhi a sua madre che invece di condurla al cielo, l’ha spinta, trascinata all’inferno co’ suoi cattivi esempi, colle parole che spiravano solo mondanità, libertinaggio. Quei figli vomiteranno bestemmie orribili contro Dio per non aver abbastanza forza e furore di far soffrire i loro parenti : correranno attraverso l’abisso disperati, prendendo e trascinando i demoni, gettandoli sui padri e sulle madri loro: per fare sentire ad essi che non saranno mai abbastanza tormentati di averli perduti, mentre facilmente potevano salvarli. O eternità infelice! o sventurati padri e madri, quanto sono terribili i tormenti a voi riservati! Ancora un istante, e li proverete; ancora un istante, ed abbrucerete nelle fiamme!… – Ma no, F. M., non andiamo più oltre: non è il momento di trattenerci su un argomento così triste e doloroso: non turbiamo la gioia che abbiamo provato all’avvicinarsi del giorno consacrato a celebrare la felicità di cui godono gli eletti nella città celeste e permanente. – Vi dissi, che quattro cose opprimeranno di mali i reprobi nelle fiamme: lo stesso avviene dei beati. Quattro cose si uniscono insieme per non lasciar loro nulla più a desiderare. Queste cose sono:

1° la vista e la presenza del Figlio di Dio, che si manifesterà in tutto lo splendore di sua gloria, di sua bellezza, e di tutte le sue amabilità; cioè quale è nel seno del Padre suo;

2° il torrente di dolcezze e di caste delizie che godranno, e sarà simile al traboccar d’un mare agitato dal furore della tempesta: esso li travolgerà nei suoi flutti e li sommergerà in una ebbrezza così estasiante che quasi oblieranno di esistere.

3° Altra causa di felicità in mezzo a tutte le delizie sarà la certezza che esse non avranno mai fine, e da ultimo,

4° ciò che li immergerà totalmente in questi torrenti d’amore, sarà che tutti questi beni sono dati loro per ricompensa delle virtù e delle penitenze esercitate. Quelle anime sante vedranno che alle proprie opere buone sono debitrici dei casti amplessi dello sposo. Anzitutto il primo trasporto d’amore che si accenderà nel loro cuore sorgerà alla vista delle bellezze che scopriranno accostandosi alla presenza di Dio. In questo mondo sia pur bello e seducente un oggetto che ci si presenta, dopo un istante di piacere il nostro spirito si stanca e si volge da un’altra parte, per trovarvi di che soddisfarsi meglio; passa da una ad altra cosa senza poter trovare d’accontentarsi: ma in cielo non sarà così: bisognerà anzi che Dio ci partecipi le sue forze, per poter sostenere lo splendore delle sue bellezze, e delle cose dolci e meravigliose che si offriranno continuamente ai nostri occhi. E ciò sprofonderà le anime degli eletti in un abisso tale di dolcezza e d’amore, che non potranno distinguere se vivano o se siano tramutate in amore. O avventurata dimora! o felicità permanente! chi di noi ti gusterà un giorno? Poi per quanto grandi e inebrianti siano queste dolcezze, sentiremo continuamente gli Angeli ripetere che esse dureranno sempre. Vi lascio pensare quanto i beati ne godranno. Notate, P. M., se gustiamo in questo mondo alcuni piaceri, non tardiamo a provare qualche pena che ne diminuisce le dolcezze, sia per il timore che abbiamo di perderli, sia anche per le premure necessarie per conservarli: dal che avviene che non siamo mai perfettamente contenti. In cielo non succederà così: ci troveremo nella gioia e nelle delizie, sicuri che nulla potrà mai rapircele né diminuirle. Finalmente l’ultimo dardo d’amore che colpirà il nostro cuore, sarà il quadro che Dio metterà davanti ai nostri occhi di tutte le lagrime venate e delle penitenze fatte durante la nostra vita, senza lasciare da parte neppure un pensiero o un desiderio buono. Oh! qual gioia per un buon Cristiano, vedere il disprezzo avuto per se medesimo, il rigore esercitato sul suo corpo, il piacere che provava in vedersi disprezzato, vedere la sua fedeltà nel respingere quei cattivi pensieri coi quali il demonio aveva cercato di turbare la sua immaginazione: ricorderà le preparazioni per la confessione, la premura di nutrire l’anima sua alla sacra mensa: avrà davanti agli occhi tutte le volte che si privò degli abiti per coprire il fratello povero e sofferente. “O mio Dio! mio Dio! esclamerà ad ogni istante, quanti beni per così poca cosa!„ Ma Dio, per infiammare gli eletti di amore e di riconoscenza, metterà la sua croce sanguinosa in mezzo alla sua corte celeste, e farà loro la descrizione di tutti i patimenti sofferti per renderli felici, mosso com’era soltanto dal suo amore. Vi lascio immaginare i loro trasporti di amore e di riconoscenza: quali casti abbracci non le prodigheranno durante l’eternità, ricordandosi che questa croce è lo strumento di cui si servì Iddio per donar loro tanti beni! I santi Padri, facendoci la descrizione delle pene che soffrono i reprobi, ci dicono che ognuno dei loro sensi è tormentato, a seconda delle colpe commesse e dei piaceri gustati: chi avrà avuto la sfortuna di essersi abbandonato al vizio impuro sarà coperto di serpenti e dragoni che lo divoreranno per tutta l’eternità: i suoi occhi che ebbero sguardi disonesti, le orecchie che si compiacquero di canzoni impudiche, la bocca che pronunciò quelle impurità, saranno altrettanti canali donde usciranno turbini di fiamme a divorarli: gli occhi non vedranno che oggetti orribili. Un avaro soffrirà tal fame che lo divorerà, un orgoglioso verrà calpestato sotto i piedi degli altri dannati, un vendicativo sarà trascinato dai demoni tra le fiamme. Non vi sarà parte alcuna del nostro corpo che non soffrirà in proporzione dei peccati da essa commessi. O orrore! o sventura spaventevole! Altrettanto sarà della felicità dei beati nel cielo: la felicità, i piaceri, le gioie loro saranno grandi in proporzione di quanto fecero soffrire ai loro corpi durante la vita. Se avremo avuto orrore delle canzoni e dei discorsi disonesti, non udremo lassù che cantici dolci e meravigliosi, di cui gli Angeli faran ripercuotere la vòlta dei cieli: se saremo stati casti negli sguardi, i nostri occhi non saranno occupati che in contemplare oggetti, la cui bellezza li terrà in continua estasi senza potersene stancare: cioè scopriremo sempre nuove bellezze, come ad una sorgente d’amore che scorre senza esaurirsi mai. Il nostro cuore che aveva emesso gemiti, pianto durante l’esilio, proverà una ebbrezza tale di diletto che non sarà più padrone di sé. Lo Spirito Santo ci dice che le anime caste saranno simili ad una persona stesa sopra un letto di rose, le cui fragranze lo tengono in un’estasi continua. In una parola, solo di piaceri casti e puri i santi saranno nutriti ed inebriati per tutta l’eternità. – Ma, penserete dentro di voi, quando saremo in cielo, saremo tutti felici ugualmente? — Sì, amico mio, ma v’è qualche distinzione da fare. Se i dannati sono infelici e soffrono secondo i delitti commessi, parimente non devesi dubitare che più i Santi fecero penitenze, più la lor gloria sarà brillante; ed ecco come avverrà. E necessario, o piuttosto, conviene che Dio ci dia aiuti proporzionati alla gloria della quale vuol incoronarci, perciò ci darà soccorsi in proporzione delle dolcezze che vuol farci gustare. A coloro che fecero grandi penitenze, senza aver commesso peccati, darà delle forze sufficienti per reggere alle grazie che comunicherà loro per tutta l’eternità. È verissimo che saremo tutti completamente felici e contenti, perché troveremo tante delizie quante ce ne occorrerà per non lasciarci nulla a desiderare. – “O mio Dio! mio Dio! esclamava san Francesco in una furiosa tentazione provata, i vostri giudizi sono spaventosi: ma se io fossi tanto sventurato da non amarvi nell’eternità, accordatemi almeno la grazia d’amarvi quanto potrò in questo mondo.„ Ah! poveri peccatori che non volete tornare al vostro Dio, se almeno aveste gli stessi desideri di questo gran santo, amereste il Signore quanto potete in questa vita! O mio Dio! quanti Cristiani che mi ascoltano non vi vedranno mai! O cielo bello! o bella dimora! quando ti vedremo? Mio Dio! sino a quando ci lascerete languire in questa terra straniera? in questo esilio? Ah! se vedeste Colui che il mio cuore ama! ah! ditegli che languisco d’amore, che non vivo più, ma che muoio ad ogni ora!… Oh! chi mi darà ali come di colomba per lasciar questo esilio e volare nel seno del mio diletto?… O città felice! donde sono bandite tutte le pene, e dove si nuota in un torrente delizioso di eterno amore!…

II. – Ebbene! amico mio, vi affliggerà di essere in questo numero, mentre i dannati abbruceranno e manderanno grida orribili senza speranza che ciò debba finire? — Oh! mi direte, non solo non me ne affliggerò, ma vorrei già esservi. — Pensavo bene che m’avreste risposto così: ma non basta desiderare il cielo, bisogna lavorare per guadagnarselo. — E che si deve fare adunque ? — Nol sapete, amico mio? ebbene, eccovi: ascoltate bene, e lo saprete. Bisognerebbe non attaccarvi tanto ai beni di questo mondo, aver un po’ più di carità per la moglie, i figli, i domestici e i vicini: aver un cuore un po’ più tenero per gli sventurati: invece di non pensare che ad accumular denaro, acquistar terreni, dovreste pensare a guadagnarvi un posto in cielo: invece di lavorare la domenica, dovreste santificarla venendo nella casa di Dio per piangervi i vostri peccati, domandargli di non più ricadervi, e di perdonarvi: lungi dal non conceder tempo ai figli ed ai domestici di compiere i loro doveri di religione, dovreste essere i primi ad indurveli colle parole e col buon esempio: invece di incollerirvi alla minima perdita o contraddizione che vi succede, dovreste considerare che essendo peccatore, ne meritate ben di più, e che Dio si diporta con voi nel modo più sicuro per rendervi un giorno felice. Ecco, amico mio, ciò che occorrerebbe per andare in cielo, e che voi non fate. E che sarà di voi, fratello mio, poiché seguite la strada che conduce là dove si soffrono mali sì spaventosi? Ricordatevi, che se non lasciate questa strada, non tarderete a cadervi: fate le vostre riflessioni, e poi mi direte che cosa avrete trovato; ed io vi dirò che cosa bisognerà fare. Non invidiate forse, amico mio, tutti quei felici abitanti della corte celeste? — Ah! vorrei esservi già; almeno sarei liberato da tutte le miserie di questo mondo. — Ed anch’io lo vorrei; ma v’è ben altro da fare e da pensare.  Cosa devesi dunque fare e lo farò? — Le vostre intenzioni sono assai buone: ebbene! ascoltate un istante, e ve lo mostrerò. Non dormite, per favore. Bisognerebbe, sorella mia, essere un po’ più sottomessa al marito, non lasciarvi salire il sangue alla testa per un nonnulla; bisognerebbe avere con lui un po’ più di garbo; e quando lo vedete tornare a casa ubbriaco, ovvero dopo aver fatto un cattivo contratto, non dovreste scagliarvi contro di lui e farlo infuriare tanto che non sappia più trattenersi. Di qui vengono le bestemmie e le maledizioni senza numero contro di voi, e che scandalizzano i figli ed i domestici: invece di girar per le case a riferire quanto vi dice o fa il marito, dovreste occupare questo tempo in preghiere per domandare a Dio di darvi la pazienza e la sottomissione dovuta al marito: domandare che Dio gli tocchi il cuore per cambiarlo. So bene quanto sarebbe ancora oltre a ciò necessario per andare in cielo: madre di famiglia, ascoltatelo e non vi sarà inutile. Sarebbe necessario impiegare un po’ più di tempo nell’istruire i figli e i domestici, nell’insegnar loro ciò che devono fare per andar in cielo: sarebbe necessario non comperar loro abiti così belli, per aver modo di fare elemosina, ed attirar le benedizioni di Dio sulla vostra casa; e fors’anche poter pagare i vostri debiti: bisognerebbe lasciar da parte le vanità; e che so io? Bisognerebbe che non vi fossero nella vostra condotta che dei buoni esempi, l’esattezza nel far le vostre preghiere mattina e sera, nel prepararvi alla santa Comunione, nell’accostarvi ai Sacramenti: sarebbe necessario il distacco dai beni del mondo, un linguaggio che mostri il disprezzo che avete di tutte le cose di quaggiù, ed il conto che fate delle cose dell’altra vita. Ecco quali dovrebbero essere le vostre occupazioni e tutte le cure vostre: se fate diversamente, siete perduta: pensatevi bene oggi, forse domani non sarete più in tempo: fatevi sopra il vostro esame, giudicatevi da voi stessa: piangete i vostri sbagli, e procurate di far meglio; altrimenti non entrerete mai in cielo. Non è vero, sorella mia, che tutte queste meravigliose bellezze di cui i santi sono inebriati vi fanno invidia? — Ah! mi direte, si invidierebbe anche una fortuna meno grande di questa. — Avete ragione, ed anch’io sono del vostro parere: ma m’inquieta il pensiero che non ho fatto nulla per meritare il cielo; e voi? — Qualsiasi cosa occorra fare, pensate voi, la farei se la conoscessi: che cosa non dovrebbesi fare pur di procurarsi un sì gran bene? Se fosse necessario tutto abbandonare e sacrificare, lasciare il mondo per passare il resto dei propri giorni in un monastero, lo farei ben volentieri. — Ecco una bellissima disposizione: questi pensieri sono degni davvero d’una buona cristiana: non credeva che il vostro coraggio fosse così grande: ma vi dirò che Dio non ve ne domanda tanto. — Ebbene! pensate voi; ditemi che cosa bisogna fare, e la farò assai volentieri. — Vel dirò adunque, e vi prego di porvi ben attenzione. Occorrerebbe non prender tanta cura del vostro corpo, farlo soffrire un po’ di più: nontemer tanto che questa beltà si perda o diminuisca: non essere così lunga alla domenica mattina in abbigliarvi, osservarvi davanti allo specchio, per aver più tempo da dare al buon Dio. Bisognerebbe avere un po’ più sottomissione ai parenti, ricordandovi che dopo Dio dovete ad essi la vita, e obbedir loro di buon animo e non mormorando. Bisognerebbe anche, invece di vedervi ai divertimenti, ai balli, alle conversazioni, vedervi nella casa del Signore a pregare, a purificarvi dei peccati, e nutrir l’anima vostra col pane degli Angeli. Bisognerebbe anche essere un po’ più riservata nelle vostre parole, nelle relazioni che avete con persone di sesso diverso. Ecco quanto domanda Dio da voi: se lo fate, andrete in cielo. – E voi, fratel mio, che pensate voi di tutto ciò? da qual lato volgete i vostri desideri? — Ahi voi dite, preferirei bene d’andare in cielo, giacche vi si sta così bene, piuttosto che d’esser cacciato all’inferno dove si soffre tanto ed ogni sorta di tormenti: ma v’è molto da fare per andarvi, e mi manca il coraggio. Se un solo peccato ci condanna, io, che ad ogni istante vado in collera, non cerco neanche di incominciare “Voi non osate provare? Ascoltatemi un momento, e vi mostrerò chiaramente che non è tanto difficile come credete: e che fareste meno fatica per piacere a Dio e salvar l’anima vostra, che per procurarvi i diletti e per contentare il mondo. Rivolgete solo a Dio le cure e premure che aveste pel mondo; e vedrete che Egli non ve ne domanda tante quante il mondo. I vostri piaceri sono sempre uniti a tristezza ed amarezza, seguiti dal pentimento d’averli gustati. Quante volte ritornato dall’aver passato una parte della notte all’osteria od al ballo, dite: “Son malcontento d’esservi stato: se avessi saputo quanto vi avviene, non vi sarei andato.„ Ma, invece, se aveste passato una parte della notte in preghiere, ben lungi dall’esser afflitto sentireste dentro di voi una tal gioia, una dolcezza che vi accenderebbe il cuor d’amore. Ripieno di gioia, direste come il santo re David: “Mio Dio! un giorno passato nella casa vostra quanto è preferibile a mille passati nelle riunioni del mondo.„ I piaceri che provate nel mondo vi disgustano: quasi ogni volta che vi abbandonate ad essi, risolvete di non più ritornarvi: spesso anche vi sciogliete in lagrime, sino a disperarvi di non potervi correggere: maledite coloro che incominciarono a sviarvi: ve ne lamentate ad ogni istante: invidiate la fortuna di quelli che ora scorrono tranquillamente i loro giorni nella pratica della virtù, in un intero disprezzo dei piaceri del mondo: quante volte anche gli occhi vostri versano amare lagrime vedendo quella pace, quella gioia che brillano sulla fronte dei buoni Cristiani: che dico? Invidiate sin coloro che hanno la ventura di abitare sotto il vostro tetto. Dissi, amico mio, che quando avete passata la notte negli eccessi del vino, non trovate in voi che agitazione, noia, rimorso, disperazione: eppure avete fatto quanto potevate per accontentarvi, ma senza alcun risultato. Ebbene! amico mio: vedete quanto è più dolce soffrir per Iddio che pel mondo. Quando si ha trascorsa una notte o due in preghiera, lungi dall’esserne annoiati, pentiti e dall’invidiare coloro che passano questo tempo nel sonno e nelle comodità, si piange invece la loro sventura ed accecamento: mille volte si benedice il Signore di averci mandata l’ispirazione di procurarci tante dolcezze e consolazioni: lungi dal maledire chi ci fece abbracciare un tal genere di vita, non possiam vederlo senza la sciare scorrere lagrime di riconoscenza, tanto ci troviamo felici: lungi dal risolvere di non più ritornarvi ci sentiamo decisi di fare ancor più, ed abbiamo una santa invidia di coloro che non sono occupati che a lodare il buon Dio. Se avete speso del danaro per i vostri piaceri, il domani lo piangete: ma un Cristiano che l’ha adoperato per conservare in vita un povero che non poteva sostenersi, un Cristiano che ha vestito uno sventurato ignudo, lungi dal rimpiangerlo, cerca invece di continuo il mezzo di farlo ancor più: è pronto se occorre, a privarsi del necessario, a spogliarsi di tutto, tanta gioia risente soccorrendo Gesù Cristo nella persona dei suoi poveri. Ma, senza andar così lontano, non vi costerà certo di più, amico mio, quando siete in chiesa, lo starvi con rispetto e modestia che non ridere e volger attorno lo sguardo: sareste egualmente comodo avendo le ginocchia piegate a terra quanto tenendone uno levato per aria: quando ascoltate la parola di Dio, sarebbe più penoso ascoltarla con intenzione di approfittarne e di metterla in pratica appena il potrete, oppure andarvene fuori per divertirvi a chiacchierare di cose indifferenti, forse cattive? Non sareste più contenti se la coscienza non vi rimproverasse di nulla, e vi accostaste di tempo in tempo ai Sacramenti, ricevendo così molta forza per sopportare con pazienza le miserie della vita? Se ne dubitate, F. M., domandate a coloro che fecero la loro pasqua, come erano contenti per un po’ di tempo; cioè sino a quando ebbero la fortuna di restare amici del buon Dio. Ditemi, amico mio, vi sarebbe più duro e penoso che i parenti vi rimproverassero perché vi fermaste troppo in chiesa, ovvero vi rinfacciassero d’aver passato la notte negli stravizi? — No, no, amico mio, da qualsiasi lato consideriate quanto fate pel mondo, vi costa più caro che fare ciò che occorre per piacere a Dio e salvare l’anima vostra. Non vi parlerò della differenza, che vi sarà all’ora della morte, tra un Cristiano che servì bene Iddio, ed i rimorsi e la disperazione di chi non seguì che i suoi piaceri, non cercò che d’accontentare i corrotti desideri del cuore: perché nulla è tanto bello quanto il veder morire un santo: Dio stesso si compiace assistervi, come narrasi nelle vite di molti. Si può forse paragonarla agli orrori che accompagnano quella del peccatore, mentre i demoni lo circondano sì dappresso, e si dilaniano gli uni gli altri, per avere la barbara soddisfazione d’essere i primi a trascinarlo negli abissi? Ma, no, lasciamo tutto ciò: consideriamo soltanto la vita presente. Concludiamo, che se faceste per Iddio quanto fate pel mondo, sareste santi. — Oh! soggiungete dentro di voi, ci andate dicendo che non è difficile arrivare in cielo; a me sembra che v i siano molti sacrifici da fare. — Non v’ha dubbio: vi sono dei sacrifici da fare, altrimenti Gesù Cristo, contro verità, ci avrebbe detto che la porta del cielo è stretta, che bisogna sforzarsi per entrarvi, che occorre rinunciare a se stessi, prender la croce e seguirlo, che molti non saranno nel numero degli eletti: perciò ci promette il cielo come una ricompensa che avremo meritata. Vedete quanto fecero i santi per procurarsela. Andate, F. M., in quegli antri in fondo ai deserti, entrate nei monasteri, percorrete quelle rocce, e domandata a tette quelle schiere di santi: Perché tante lagrime e penitenze? Salite sui patiboli, ed informatevi dai martiri che cosa aspettano. Tutti vi diranno che fanno così per guadagnarsi il cielo. O mio Dio! quante lagrime versarono quei poveri solitari durante tanti anni! O mio Dio! quante penitenze e rigori non esercitarono sui loro corpi tutti quegli illustri anacoreti! Ed io non vorrò soffrir nulla! io, che ho la medesima loro speranza, ed il medesimo giudice che mi deve esaminare? O mio Dio, quanto sono neghittoso quando trattasi di lavorare pel cielo! Come mi condanneranno i santi, quando mostreranno tanti sacrifici da loro fatti per piacervi! Voi dite che è faticoso andar in cielo: ma, amico mio, non costò forse nulla a san Bartolomeo il lasciarsi scorticare vivo per piacere a Dio? Nulla a S. Vincenzo martire l’essere disteso su d’un cavalletto, ove gli si abbruciò il corpo con torce accese, finché le sue viscere caddero nel fuoco, e l’essere poi condotto in prigione, ove gli si fece un letto di pezzi di vetro e vi fu steso sopra? Amico mio, domandate a S. Ilarione perché durante ottanta anni visse nel deserto, piangendo giorno e notte. Andate, interrogate S. Girolamo, quel gran santo: domandategli perché si percuoteva il petto con un sasso, fino ad esserne tutto ammaccato. Andate nelle spelonche a trovare il grande Arsenio, e domandategli perché lasciò i piaceri del mondo per venire a piangere tutto il resto dei suoi giorni frammezzo alle belve feroci. Non avrete altra risposta, amico mio, che questa: “Ahi per guadagnar il bel cielo; eppure non ci è costato nulla: oh! queste penitenze sono ben poca cosa, se le confrontiamo alla felicità che ci preparano! „ Non vi è qualità di tormenti che i santi non siano stati pronti a soffrire per guadagnare il cielo. Leggiamo che l’imperatore Nerone, trattò i Cristiani con crudeltà sì spaventose, che il solo pensiero ci fa fremere ancora. Non sapendo conqual pretesto incominciare la persecuzione contro di essi, incendiò la città, per far credere che n’erano stati autori i Cristiani. Vedendosi applaudito dai suoi sudditi, si abbandonò atatto quanto il furore suo poteva ispirargli. Simile aduna tigre furibonda, spirante strage, faceva uscire gli uni entro pelli di belve, e li gettava nel circo in pasto aicani: altri faceva ricoprire di vestiintrise dipece e zolfo, poi li appendeva agli alberi dellevie maggiori por servir da torce ai passeggieri durante la notte: egli stesso ne aveva disposti due file nel suo giardino, e di notte li faceva accendere per avere il barbaro diletto di condurre il suo cocchio allo splendore di questo spettacolo triste e  straziante. Non trovandosi ancora soddisfatto ilsuo furore, inventò un altro supplizio: fece fondere urne di bronzo in forma di toro, nelle quali, arroventate per più giorni, gettava i Cristiani in gran numero e stava a vederli abbrustolire spietatamente. In questa stessa persecuzione S. Pietro fu messo a morte. Essendo in prigione con S. Paolo, al quale fu troncata la testa, trovò S. Pietro il mezzo di fuggire. Sulla strada apparvegli nostro Signore, che gli disse: “Pietro, vado a Roma a morire una seconda volta, „ e scomparve. S. Pietro conoscendo da ciò che non doveva fuggire la morte, ritornò in prigione, e fu condannato a morire in croce. Quando udì pronunciar la sentenza: “O grazia! esclamò: o felicità, il morire della morte del mio Dio! „ Ma domandò un favore ai suoi carnefici, di essere cioè crocifisso con la testa in giù : ” … perché, diceva, non merito la fortuna di morire in modo somigliante al mio Dio. „ Ebbene! amico mio, non è costato nulla ai santi l’andare in cielo? O cielo bello! se deve costare a noi quanto a tutti questi beati, chi di noi vi andrà? Ma no, F. M., consoliamoci Dio non ci domanda tanto. Ma, penserete, cosa bisogna far dunque per andarvi? — Ah! amico mio, lo so ben io cosa bisogna fare. Avete desiderio d’andarvi? — Oh! senza dubbio, voi dite; è ben questo il mio desiderio; se prego, se faccio penitenze è appunto per meritar questa fortuna. — Ebbene! ascoltatemi un istante e lo saprete. Cosa dovete fare? non tralasciar le preghiere mattina e sera: non lavorare in domenica: frequentar di tratto in tratto i Sacramenti: non ascoltare il demonio quando vi tenta, e ricorrere subito a Dio. — Ma, penserete voi, molte cose si possono benissimo fare, ma certe altre, il confessarsi, p. es., non è tanto comodo. — Non è tanto comodo, amico mio? dunque preferite restare in mano al demonio che cacciarlo per rientrare nel seno di Dio, che tante volte vi fece provare quanto è buono? Non considerate adunque come il momento più felice per voi quello in cui avete la fortuna di ricevere il vostro Dio? O mio Dio! se vi si amasse come si sospirerebbe questo momento felice!…Coraggio, amico mio, non disanimatevi: presto sarete al termine delle vostre pene; guardate al cielo, quella dimora santa e permanente; aprite gli occhi,e vedrete il vostro il vostro Dio che vi stende la mano per attrarvi a Lui.  Si, amico mio, tra poco farà con voi ciò che fu fatto con Mardocheo, per celebrare la grandezza delle vostre vittorie sul mondo e sul demonio. Il reAssuero per riconoscere i benefizi del suo generale,volle farlo montare sul suo carro di trionfo, con un araldo che camminava innanzi a lui, gridando: “Così il re ricompensa i servizi a lui resi. „ Amico mio, se adesso Dio presentasse agli occhi nostri uno di quei beati in tutto lo splendore della gloria di cui è rivestito in cielo, e ci mostrasse quelle gioie, quelle dolcezze e delizie delle quali sono inondati i santi nella patria celeste, e gridasse a noi tutti: O uomini! Perché non amate il vostro Dio? Perché non faticate a guadagnare un sì gran bene? O uomo ambizioso, che attaccasti il tuo cuore alla terra, che cosa sono gli onori di questo mondo frivolo e perituro a confronto degli onori e della gloria che Dio ti prepara nel suo regno? O uomini avari che desiderate queste ricchezze periture, quanto siete ciechi a non lavorare per meritarvi ora quelle che non finiranno mai! L’avaro cerca la felicità nei suoi beni, l’ubbriacone nel vino, l’orgoglioso negli onori, e l’impudico nei piaceri della carne. Ah! no, no, amico mio, vi ingannate; alzate gli occhi dell’anima vostra verso il cielo, volgete i vostri sguardi a questo cielo bello e troverete la felicità perfetta: calpestate e disprezzate la terra etroverete il cielo! Fratel mio, perché ti immergi in questi vizi vergognosi? Osserva quali torrenti di delizie Gesù Cristo ti prepara nella patria celeste! Ah! sospira questo felice momento!… „ Sì, F. M., tutto ci predica, tutto ci sollecita di non perdere questo tesoro. I santi che sono in quel bel soggiorno ci gridano dall’alto dei loro troni di gloria: “Oh! se poteste comprendere bene la felicità di cui godiamo per alcuni momenti di combattimento. „ Ma i dannati cel dicono in modo più toccante: “O voi che siete ancor sulla terra, quanto siete fortunati di poter guadagnare il cielo, che noi perdemmo! Oh! se fossimo al vostro posto quanto saremmo più saggi di quello che fummo: abbiam perduto il nostro Dio, e l’abbiamo perduto per sempre! O sventura incomprensibile!… o sventura irreparabile!… cielo bello non ti vedremo mai!… „ F. M., chi di noi non sospira una sì grande felicità?

SALMI BIBLICI: “LAUDATE NOMEN DOMINI” (CXXXIV)

SALMO 134:  “LAUDATE NOMEN DOMINI; LAUDATE … “

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 134

Alleluja.

[1] Laudate nomen Dominum;

laudate, servi, Dominum:

[2] qui statis in domo Domini, in atriis domus Dei nostri.

[3] Laudate Dominum, quia bonus Dominus; psallite nomini ejus, quoniam suave.

[4] Quoniam Jacob elegit sibi Dominus, Israel in possessionem sibi.

[5] Quia ego cognovi quod magnus est Dominus, et Deus noster prae omnibus diis.

[6] Omnia quæcumque voluit Dominus fecit, in cælo, in terra, in mari et in omnibus abyssis.

[7] Educens nubes ab extremo terræ, fulgura in pluviam fecit; qui producit ventos de thesauris suis.

[8] Qui percussit primogenita Ægypti, ab homine usque ad pecus.

[9] Et misit signa et prodigia in medio tui, Ægypte, in Pharaonem, et in omnes servos ejus.

 [10] Qui percussit gentes multas, et occidit reges fortes:

[11] Sehon, regem Amorrhæorum, et Og, regem Basan, et omnia regna Chanaan;

[12] et dedit terram eorum hæreditatem, hæreditatem Israel populo suo.

[13] Domine, nomen tuum in aeternum; Domine, memoriale tuum in generationem et generationem.

[14] Quia judicabit Dominus populum suum, et in servis suis deprecabitur.

[15] Simulacra gentium argentum et aurum, opera manuum hominum.

[16] Os habent, et non loquentur; oculos habent, et non videbunt.

[17] Aures habent, et non audient; neque enim est spiritus in ore ipsorum.

[18] Similes illis fiant qui faciunt ea, et omnes qui confidunt in eis.

[19] Domus Israel, benedicite Domino; domus Aaron, benedicite Domino.

[20] Domus Levi, benedicite Domino; qui timetis Dominum, benedicite Domino.

[21] Benedictus Dominus ex Sion, qui habitat in Jerusalem.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXXXIV

Esorta i fedeli alle lodi di Dio. Il che conviene a quei che già arrivarono in patria, ed anche a quelli che i gradi di perfezione già salirono, o molto nel salire profittarono.

Alleuija: lodate Dio.

1. Lodate il nome del Signore, lodate il Signore, voi servi suoi.

2. Che fate il vostro soggiorno nella casa del Signore, ne’ cortili della casa del nostro Dio.

3. Lodate il Signore, perché è buono il Signore; cantate inni al nome di lui, perché è soave.

4. Perché il Signore elesse per sé Giacobbe, per sua proprietà Israele.

5. Perché io ho conosciuto come è grande il Signore, e il nostro Dio sopra tutti gli dei.

6. Tutte le cose che ha voluto, le ha fatte il Signore in cielo e in terra, in mare e in tutti gli abissi.

7. E i che fa venir le nuvole dall’estremità della terra, fece i lampi per segnale della pioggia.

8. Egli i venti trae fuora da’ suoi tesori, egli percosse i primogeniti dell’Egitto, dall’uomo fino al bestiame.

9. E mandò segni e prodigi in mezzo a te, o Egitto; contro Faraone e contro tutti i suoi servi.

10. Egli che abbatté molte genti, e uccise de’ re robusti;

11. Sehon re degli Amorrei, e Og re di Barsan, e tutti i regni di Chanaan.

12. E diede la loro terra in retaggio, in retaggio ad Israele suo popolo.

13. Signore, il tuo nome è in eterno: Signore, la memoria di te per tutte le generazioni.

14. Perché il Signore farà giustizia al suo popolo, e si placherà co’ suoi servi.

15. I simulacri delle nazioni sono oro e argento, opere delle mani degli uomini.

16. Hanno bocca e non parleranno; hanno occhi, e non vedranno.

17. Hanno orecchi, e non udiranno; imperocché non vi è spirito nella loro bocca.

18. Sien simili ad essi coloro che li fanno, e tutti quei che in essi confidano.

19. Casa d’Israele, benedici il Signore; benedici il Signore, casa d’Aronne.

20. Casa di Levi, benedici il Signore; voi che temete il Signore, benedite il Signore.

21. Di Sionne si benedica il Signore, che abita in Gerusalemme.

Sommario analitico

Il Salmista rivolge ai Sacerdoti lo stesso invito del salmo precedente, ma lo motiva meglio [Questo salmo ed il seguente sono stati composti dopo il ritorno dalla cattività, come dimostra il colore moderno del loro stile. Il Salmo CXXXIV è composto in parte da citazioni di salmi anteriori.].

I. Egli li invita a lodare il Signore:

1° perché essi sono suoi servi (1, 2);

2° perché il Signore è buono ed il suo nome pieno di dolcezza, ragione che sviluppa in tutto lo svolgimento del salmo (3);

3° perché è pieno di amore per Israele che ha scelto per farne sua eredità (4);

4° perché Egli è infinitamente possente, come lo provano tutte le meraviglie che Egli ha operato: a) nell’ordine fisico (3-7); b) nell’ordine della sua provvidenza morale sui nemici del suo popolo dei quali ricorda i castighi (9-14);

5° perché Egli è al di sopra di tutti gli dei, ciò che il salmista rende sensibile con il contrasto tra la sua potenza con la vanità degli idoli (15-18).

6° Termina invitando di nuovo i ministri del Signore e tutti i fedeli a glorificare il Dio potente che li protegge (19-21). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-17.

ff. 1, 2. Notiamo che il Profeta, dall’esordio del salmo, ci eccita a lodare Dio, mentre nei salmi precedenti ci esortava solo a benedirlo. Ora, nessuno dubita che la lode non prevalga sulla benedizione. La benedizione viene in primo luogo e si consuma nella lode. E questa non è una lode confusa nel suo oggetto, ma essa procede con ordine. « Lodate il nome dl Signore. » In effetti è con la conoscenza del nome di Dio che noi perveniamo a conoscere Lui stesso (S. Hilar.). – Utilità per noi il lodare Dio: la lode di Dio è per noi come un freno che ci impedisce di correre a nostra perdita. « Laude mea infrenabo te ne intereas. » (Isai. XLVIII, 9). Noi dobbiamo lodarlo perché siamo suoi servi. Cosa c’è di più giusto che lodare il Signore? Cosa è più convenevole? Cosa di più delizioso? In effetti, se i servitori del Signore non lo lodassero, sarebbero dei superbi, degli ingiusti, degli empi. E cosa fanno se non lodano il Signore, se non attirarsi la sua severità? Il servo ingrato che rifiuta di lodare il suo padrone, non di meno ne resta servo. Lodate il Signore, non lo lodate … voi siete suoi servi; se lo lodate ve lo rendete propizio, se non lo lodate, lo offendete (S. Agost.) – Il salmo ci esorta, il Profeta ci esorta, lo Spirito di Dio ci esorta, il Signore stesso ci esorta a lodare il Signore. Le nostre lodi non lo fanno più grande, ma fanno noi più grandi. Dio non diviene più perfetto se lo lodate, non resta sminuito se voi lo accusate; ma voi, lodando Colui che è eccellente, diventate migliori, mentre accusandolo diventate peggiori di quanto non siate; quanto a Lui, Egli resta ciò che è (S. Agost.). –  Voi che state nella casa del Signore. » Voi che state ritti e non cadete. Ora, coloro che stanno in piedi, secondo la Scrittura, sono coloro che perseverano nella pratica dei Comandamenti di Dio con vera fede, con la speranza incrollabile ed una carità sincera, che onorano la sua Chiesa e non causano scandalo con i loro cattivi costumi, e coloro che vogliono entrare nella Chiesa ma che trovano sulla loro strada pietre di inciampo. Di conseguenza: « Voi che state ritti nella casa del Signore, lodate il Nome del Signore. Siate riconoscenti; voi siete all’esterno ciò che avete dentro. Poiché voi siete così in piedi, non è forse un dovere che non potete dimenticare, il riconoscere e il lodare il Signore nella dimora ove Egli merita di essere lodato, per avervi rialzato dalla vostra caduta ed avervi concesso di restare nella sua casa? È dunque un beneficio di poco valore restare nella casa del Signore? A Lui dobbiamo un poco di riconoscenza di averci concesso di restare quaggiù, in questo luogo di passaggio, in questo luogo di esilio, in questa casa che si chiama ancora una “tenda da viaggio”? Noi non dobbiamo considerare che stiamo in piedi? Non dobbiamo considerare ciò che siamo diventati? Non dobbiamo considerare che alcun empio cerchi il Signore, e che Egli abbia cercato coloro che non lo cercano; e dopo averli trovati, li ha risvegliati; e dopo averli risvegliati, li ha chiamati; e dopo averli chiamati, li ha introdotti nella sua casa ed ha concesso di restarvi? (S. Agost.). – In questa vita, noi siamo abitanti degli atri della casa del Signore. Noi non siamo ancora nel tempio eterno in cui Dio fa il suo soggiorno; ma noi siamo nella Chiesa che ne è l’entrata, ed in questa Chiesa, noi possediamo il Santo dei Santi, poiché Gesù-Cristo vi risiede con il suo Spirito, con l’influenza delle sue grazie e con la presenza reale del suo Corpo adorabile (Berthier).

ff. 3. Per qual motivo noi dobbiamo lodare il Signore? « Perché il Signore è buono. » In una sola parola, il Profeta ha spiegato la lode che dobbiamo al nostro Dio: « Il Signore è buono, ma Egli è buono in altra maniera che le cose che ha fatto buone. In effetti, Dio ha fatto tutte le cose molto buone; esse non sono solamente buone, ma molto buone, eccellenti. Egli ha fatto buoni e molto buoni il cielo e la terra, e tutte le cose che ha create. Se Egli ha fatto buone tutte queste cose, quale deve essere la bontà di Colui che le ha fatte? Egli è in sé il molto-buono, dal quale viene tutto ciò che è buono, perché Egli ha creato tutto ciò che è buono; ma Egli è l’Essere sovranamente buono, che nessuno ha creato. Egli è buono per bontà propria e non per partecipazione ad una bontà estranea; Egli è buono per bontà propria e non per unione alla bontà altrui, mentre tutti gli altri hanno avuto bisogno di Lui per divenire buoni (S. Agost.). – L’utilità si trova congiunta al piacere. Il frutto più prezioso che noi raccogliamo da questo santo esercizio è cantare le lodi di Dio, purificare la nostra anima, elevare i nostri pensieri, avere una conoscenza perfetta delle verità divine ed un’idea giusta del presente e dell’avvenire. La melodia dà allora a questi canti un fascino ineffabile che consola, riposa l’anima e rende degna di venerazione colui che ama cantare i ritmi sacri. (S. Chrys.) – « Cantiamo alla gloria del suo Nome, perché Egli è soave. » Forse potrebbe essere buono senza essere soave, senza concedervi di gustarlo? Ma se Egli si mostra così propizio agli uomini, che ha loro inviato il pane dal cielo (Giov. VI, 32-51), e che ha datolo loro suo Figlio, uguale a Lui, che è Egli stesso, perché fosse fatto uomo e fosse messo a morte per la salvezza deli uomini, affinché, per quanto voi siate, possiate gustare in Lui ciò che voi non siete. Vi era in effetti, ben difficile gustare la soavità di Dio, perché Dio era infinitamente lontano da voi, e posto ad un’altezza infinita, mentre che eravate ancora un essere abietto, sprofondato nel fondo dell’abisso; ma tra queste due estremità sì distanti, vi è stato inviato un Mediatore. Voi non potevate, non essendo che un uomo, salire fino a Dio; Dio si è fatto uomo, affinché voi, che come uomo potevate avvicinarvi all’uomo, benché non lo possiate con Dio, voi aveste accesso come uomo a Dio; e il Cristo Gesù, come Uomo è stato mediatore tra Dio e gli uomini … (I. Tim. II, 5). Egli è il Mediatore, ed è così che ha messo la sua soavità alla vostra portata.  Cosa c’è di più soave del pane degli Angeli? Come potrebbe il Signore non essere soave, allorché l’uomo mangia il pane degli Angeli? (Ps. LXXVII, 25)? In effetti, l’uomo vive di un nutrimento, l’Angelo di un altro: questo nutrimento è la verità, è la saggezza, è la forza di Dio; ma voi non potete gioirne come ne gioiscono gli Angeli; perché, come ne gioiscono essi? Essi lo possiedono così com’è: « In principio era il Verbo, ed il Verbo era in Dio, ed il Verbo era Dio, e per mezzo di Lui tutte le cose, sono state fatte. » (Jov. I, 1). Ma voi, come lo possedete? Nel fatto « che si è fatto carne ed ha abitato tra noi; » (Ibid. 14); perché, affinché l’uomo mangiasse il pane degli Angeli, il Creatore degli Aneli, si è fatto uomo. (S. Agost.).

ff. 4. Egli ha posto le altre Nazioni al di sotto degli Angeli, ma « il Signore ha scelto Giacobbe per averlo con Lui, ed Israele per possederlo in sé. » Egli ha fatto della sua Nazione un campo che coltiva, che semina e, benché abbia dato l’esistenza a tutte le Nazioni, ha affidate le altre alla guardia degli Angeli, e si è riservato il possesso e la conservazione di questa Nazione, di questo popolo di Giacobbe. Lo ha scelto per i suoi meriti o per la sua grazia? Esso è stato conosciuto prima di ogni merito, predestinato prima di ogni merito, eletto prima di ogni merito; esso non è stato scelto per i suoi meriti, ma è la grazia di Dio che è venuta a trovarlo e renderlo alla vita per grazia di Dio. (Rom. IX, 11-13). Di tutte le Nazioni è così; perché per essere innestato sull’ulivo fertile, cosa aveva meritato l’ulivo selvatico per l’amarezza delle sue bacche e per la sua sterilità l’albero della foresta? Esso non era che un albero della foresta e non un albero del campo del Signore; e tuttavia il Signore, nella sua misericordia, lo ha impiantato sull’ulivo fertile (S. Agost.).

ff. 5-7. « Perché io ho riconosciuto che il Signore è grande. » Il suo spirito prendendo il volo verso il cielo, elevandosi sopra della carne e liberandosi da ogni creatura, ha riconosciuto che il Signore è grande. Egli non ha dato a tutti il conoscerlo per averlo visto; essi lo glorificano nelle sue opere, « Egli è pieno di soavità, ha scelto Giacobbe per averlo con sé, ed Israele per possederlo come sua proprietà. » lodatelo per i suoi benefici. « Perché io ho riconosciuto che il Signore è grande, » dice il Profeta, che è entrato nel santuario di Dio, ove forse ha ascoltato delle parole ineffabili che è non è permesso all’uomo il ridire; (II Cor. XII, 4); egli ha detto agli uomini ciò che poteva essere loro detto. Ascoltiamo ciò che noi possiamo intendere e crediamolo su ciò che possiamo comprendere (S. Agost.). – I santi, da questa vita partecipano in qualche modo alla conoscenza che gli abitanti del soggiorno celeste hanno di Dio. « Io ho conosciuto da me stesso che Dio è grande. » Questa conoscenza non gli è venuta solo dallo spettacolo dell’universo, con l’istruzione dei suoi maestri, dalla frequentazione degli altri profeti; egli lo ha ricevuto da Dio stesso con una speciale rivelazione, e questa scienza è intima in lui, egli gusta la grandezza di Dio. Quando tutti gli uomini fossero nell’ignoranza di Dio, egli ne sarebbe stato non meno penetrato da ciò che sa, perché è a lui che Dio si è comunicato. Questa conoscenza della grandezza di Dio, opera degli effetti meravigliosi nell’anima di colui che la possiede; essa eleva al di sopra di tutti gli oggetti creati, gli dà una forza superiore, sia per combattere le sue passioni, sia per compiere tutti i doveri che Dio gli ha imposto, sia per sopportare tutte le tribolazioni di questa vita … L’anima che ha conosciuto, come il Profeta, che Dio è grande, afferra questo grande oggetto e si rivolge a Lui con il trasporto dell’amore più vivo, più tenero e più generoso. (Berthier). –  Qual è dunque questa grandezza veramente degna di Dio e che non conosce che Lui solo? « Il Signore ha fatto tutto ciò che ha voluto nel cielo e sulla terra. » Vedete questa potenza alla quale nulla assolutamente manca? Vedete questa fonte di vita? Vedete questa forza invincibile? Vedete questa superiorità incomparabile? Vedete questo potere che non conosce ostacoli? Come tutto gli è semplice, come tutto gli è facile? Qual è stato il teatro della sua potenza? Il cielo e la terra! (S. Chrys.). – Chi può conoscere tutte queste cose? Chi può enumerare le opera del Signore nel cielo e sulla terra, nel mare e negli abissi? Tuttavia, se non possiamo conoscere tutto ciò che esiste, noi dobbiamo credere, con fede incrollabile, che tutte le creature del cielo, tutte le creature della terra, tutte le creature del mare e di tutti gli abissi, sono stati fatti dal Signore … Egli non è stato obbligato a fare tutto ciò che ha fatto, « Egli ha fatto ciò che ha voluto. » La sua volontà è stata la causa di tutto ciò che ha fatto. Voi costruite una casa, perché se non vorreste farlo, restereste senza un’abitazione: la necessità vi forza a costruire una casa, qui non è la vostra libera volontà che agisce. Voi vi fate un vestito perché, se non lo fate, camminereste nudo; è dunque la necessità e non la vostra libera volontà che vi conduce a fare questo vestito. Voi piantate di vigne una montagna, seminate una terra, perché se non lo fate, non avreste di che nutrirvi. Tutte queste cose le fate sotto l’imperativo della necessità. Dio ha creato tutto per bontà, e non ha avuto alcun bisogno di avere qualche cosa; ecco perché Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto. (S. Agost.) – Il Profeta non parla qui che delle opere meravigliose che Dio fa nel cielo aereo, sulla terra e nelle acque, opere che noi vediamo, benché ne ignoriamo le cause. Esempio ne sono le nubi che vengono dalla terra e si condensano nel cielo per tornare come acqua sulla terra. – Gli apostoli ed i predicatori, come cibo spirituali, passano da un’estremità della terra all’altra, per diffondervi le acque della dottrina di salvezza. Timori salutari sono quelli che essi imprimono nell’animo dei peccatori, lanciando su di essi i fulmini che sono il terrore dei giudizi di Dio. – Altro effetto della potenza di Dio, è la produzione dei venti, con tutta la sottigliezza di cui lo spirito umano non può scoprire l’origine. «Lo spirito soffia dove vuole, e voi ascoltate la sua voce, ma non sapete da dove viene e dove va. »Soffio dello Spirito divino che ispira delle inclinazioni tutte spirituali e sante, come principio della nostra vita novella. Dio lo trae dai suoi tesori, vale a dire da se stesso, e ce lo comunica quando e nella maniera che gli piace. (Dug.). « … La nuvole spandono la loro luce. » (Giob. XXXI, 51). Perché, si domanda S. Gregorio? Perché i predicatori del santo Vangelo nello stesso tempo fecondano le nostre anime con l’effusione della loro parola, li rischiarano e le rallegrano con l’irradiamento della loro vita santa. Felici dunque il suolo privilegiato sul quale passano le nubi che fecondano e che rischiarono, ma maledetto colui che ha meritato questo arresto terribile del Signore: « Io ordinerò alle mie nuvole di non piovere su di lui! » Maledetta l’anima che non vede più la luce, almeno attraverso la nube. Quanti popoli hanno visto passare sopra di essi le nubi benefiche? « Dio solo – è detto nel libro i Giobbe – conosce i grandi cammini che seguono le nubi. » (Giob. XXXVII, 16). Stiamo attenti a che Dio non li spinga verso le contrade che non sarebbero più le nostre; facciamo attenzione che le nubi non abbiano più per noi né la pioggia della divina parola, né la luce dei santi esempi; stiamo attenti a che Dio non faccia diventare il cielo di bronzo al di sopra delle nostre teste. (Mgr DE LA BOUILLERIE, Symb.)

ff. 9-12. —  Il Profeta passa dalle meraviglie della natura, ai miracoli propriamente detti, e secondo l’uso delle Scritture, aggiunge ai miracoli i prodigi terreni dei benefici, perché gli uomini sono più sensibili al terrore che non alla riconoscenza.  Bisogna far risaltare questa verità, che tutte queste vittorie raccontate nei libri dei Numeri e di Giosuè sono state l’opera di Dio e non l’effetto del valore dei combattenti. Gli uomini non attribuiscono mai questi grandi esempi e le rivoluzioni degli imperi se non a cause tutte umane. Ve n’è tuttavia una causa primaria nel cielo, alla quale le seconde sono sottomesse. (Berth. e Duguet). – Così, quando Dio vuol donare la vittoria ad un popolo, nulla gli resiste; quando Egli la ritira, non serve più nulla: né le armi sono più temprate, né i coraggi non sono più invincibili e, come dice Bossuet, né i cavalli sono veloci, né gli uomini sono abili se non solo a fuggire davanti al vincitore … È la storia di questi ripieghi molteplici, di questi disastri inauditi nella storia di una Nazione, fino ad allora vittoriosa, e di cui lo Spirito-Santo ci dà qui la spiegazione: « È Dio che colpisce le Nazioni numerose, è Lui che stermina i re potenti. »     

ff. 13, 14. — Il Profeta interrompe la sequela della sua recita per lodare Dio, secondo il costume dei santi. Appena hanno cominciato a parlare delle meraviglie della mano di Dio, l’amore che li avvolge li forza ad interrompersi per benedire e lodare l’autore di questi prodigi e soddisfare così il desiderio del loro cuore. (S. Chrys.). – Si possono applicare al popolo di Dio le due parti di questa proposizione: « Il Signore giudicherà il suo popolo e si lascerà piegare dalle preghiere dei suoi servi, » in questo senso che Dio comincerà con il castigare, ed all’azione della sua giustizia succederà la consolazione. Si può anche dividerla, cioè applicare al popolo di Dio l’esercizio della bontà, e restringere ai suoi nemici l’azione della giustizia divina (S. Chrys.). 

ff. 15-18. –  v. nel Ps. CXIII,   ai vv. ff. 12-16.

II. — 19-21

ff. 19-21. — Il Profeta ha abbracciato qui tutta la Chiesa nelle distinzioni che stabilisce tra le differenti membra del popolo di Dio, che egli esorta a benedire il Signore (S. Hilar. ). – Benediciamo Dio, ognuno secondo il proprio stato, secondo la vocazione che Dio ci ha dato e gli impieghi che ci affida. La casa di Israele, i semplici Cristiani che vivono nella luce della fede, lo benedicano per il beneficio inestimabile della verità che hanno ricevuto da Dio. – La casa di Aronne, i sacerdoti che partecipano al sacerdozio di Gesù-Cristo, benché più eccellente di quello di Aronne, benedicano il Signore nelle loro preghiere e nei loro sacrifici. – La casa di Levi, i diaconi e gli altri ministri dell’altare, benedicano Dio ciascuno nell’esercizio delle loro funzioni. – Tutti coloro che temono il Signore lo benedicano con le loro parola e con la pietà delle loro azioni. – La Chiesa, infine, che è la vera Sion, deve lodare e benedire incessantemente il Signore, che dimora in mezzo ad essa, ma che abita e regna in maniera ancor più eclatante nella Gerusalemme celeste.

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (7)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (7)

[ chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]

SECONDA PARTE

MEZZI GENERALI DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Capitolo VI

IL CUORE DI GESÙ, SANTUARIO DELLO SPIRITO SANTO

Testimonianza di San Giovanni Battista sulla comunicazione dello Spirito Santo, fatta dal Padre al Figlio.

San Giovanni ci dice che i discepoli di Giovanni Battista, stupiti dal successo di Gesù e gelosi della sua gloria, andarono ad incontrarlo e gli dissero: « Maestro, Colui che era con te dall’altra parte del Giordano, al quale hai reso testimonianza, ecco sta battezzando e tutti vanno a Lui » (Giovanni III, 26). – L’umile Precursore rispose loro con una grandezza d’animo che servirà sempre da modello per tutti gli uomini: « Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stato dato dal cielo. Voi stessi mi siete testimoni che ho detto: non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a Lui. Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire. Chi viene dall’alto è al di sopra di tutti; ma chi viene dalla terra, appartiene alla terra e parla della terra. Chi viene dal cielo è al di sopra di tutti. Egli attesta ciò che ha visto e udito, eppure nessuno accetta la sua testimonianza; chi però ne accetta la testimonianza, certifica che Dio è veritiero. Infatti colui che Dio ha mandato proferisce le parole di Dio e dà lo Spirito senza misura. Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa. » (Joan. III, 27-35). Fermiamoci allora a sviluppare tutto ciò che questa ammirevole testimonianza contiene. Ci concentreremo su una sola parola, per far conoscere il rapporto del Cuore di Gesù con lo Spirito Santo – che è il suo Santuario – e con Dio Padre, che effonde il suo Spirito Divino in Lui senza misura. Senza dubbio tutti i Cristiani conoscono bene il nome di questa adorabile Persona della Trinità. La invocano ogni volta che si fanno il segno della croce, ne confessano l’esistenza ogni volta che recitano il Credo. Ma molti limitano a questo tutta la loro devozione allo Spirito Santo. Tuttavia, se sono figli di Dio, lo devono all’intima dimora dello Spirito Santo nella loro anima. È grazie a Lui che vivono la vita divina. Egli deve essere il loro maestro e guida, e l’intima unione tra loro e Lui è la norma che indica il grado del loro avanzamento nella santità.

Chi è lo Spirito Santo?

Lo Spirito Santo è l’amore sostanziale del Padre e del Figlio; e poiché il cuore è l’espressione dell’amore, lo Spirito Santo potrebbe essere chiamato il cuore della divinità. In Lui la vita divina raggiunge la sua pienezza, perché consiste nella conoscenza infinita della Sua infinita verità e nell’amore assoluto della Sua sovrana bontà. Conoscendo se stesso come Dio, Egli produce un’immagine di sé esattamente uguale a quella di Colui da cui essa è prodotta, il Verbo, la seconda Persona della Santa Trinità. Ma non basta che Dio conosca se stesso. La sua vita non sarebbe né perfetta né felice, se al pensiero della conoscenza della verità non si unisse quello dell’amore per la sua bontà. E come potrebbe non amare se stesso citando la sua infinita amabilità che gli è così perfettamente nota? – Egli ama se stesso, e nell’amare se stesso, ama in sé tutto ciò che sia amabile, poiché ciò che esiste al di fuori di Lui non ha maggior bene di quello che sia disposto a concedere come donazione puramente gratuita. Fin dall’eternità, quando non eravamo ancora nulla in noi stessi, Dio ha visto in noi una bontà che gli ha permesso di amarci come ha amato se stesso; ma questa bontà non è stata trovata in noi, se non come ricevuta da Lui. – Lo Spirito Santo è il fine eterno di quell’amore eterno per mezzo del quale Dio ama se stesso, e per mezzo del quale ama in sé tutto ciò che è amabile. È proprio nella sua produzione che si raggiunge la pienezza della vita di Dio: perché è impossibile concepire qualcosa al di fuori di quell’amore perfetto del Bene sovrano. È attraverso di Lui che Dio gode della sua perfezione; è attraverso di Lui che è assolutamente perfetto. Perché – secondo sant’Agostino – essere felici è possedere ciò che si ama, quando si ama ciò che sia veramente amabile. Per quanto infinita possa essere la perfezione e l’intelligenza di Dio, se non si amasse come si conosce, l’Infinito mancherebbe nella sua vita, alla sua felicità. Lo Spirito Santo è come il sigillo della perfezione divina. Esso è il legame ineffabile che unisce il Padre e il Figlio nello stesso amore. Distinte queste due Persone divine per la conoscenza, Esse sono unite dall’amore, e lo Spirito Santo è il nodo che le unisce.

Dio è amore

Quando San Giovanni ha voluto definire Dio con una sola parola ha detto: Dio è amore! Gli altri nomi di Dio possono esprimere il suo Essere, la sua maestà, il suo potere; ma se si può dare un’idea chiara della sua vita, c’è solo questa parola: Amore. Quando vogliamo sapere come possiamo perfezionare l’immagine di Dio in noi, essere iniziati alla sua vita e condividere la sua felicità, dobbiamo rivolgerci allo Spirito Santo che ci insegni ad amare come Dio ama. Perché siamo fatti ad immagine di Dio, e quindi non possiamo acquisire la perfezione e la felicità in nessun altro modo che non sia Dio stesso. – Comprendiamo allora questo: se l’amore del bene non è in noi pari alla conoscenza della verità, se nel perfezionare la nostra intelligenza dimentichiamo la perfezione del cuore, vivremo solo per metà strada, e saremo senza paragoni più sfortunati che se il nostro spirito fosse meno coltivato, poiché la nostra conoscenza più perfetta avrà creato in noi bisogni che il disordine delle nostre affezioni non ci permetterà di soddisfare. Dio stesso, pur essendo Dio, cesserebbe di esserlo se, cosa impossibile, lo Spirito Santo, che è come il suo cuore, non fosse del tutto uguale al Padre e al Verbo. Come ci aspetteremmo di essere felici se, permettendo agli affetti del nostro cuore di essere in opposizione alle luci del nostro spirito, mutilassimo in noi stessi l’immagine della Divina Trinità?

La fecondità dello Spirito Santo.

Sappiamo già che cosa sia lo Spirito Santo in sé. Si differenzia dalle altre due Persone divine per il fatto che solo Lui, nella Santissima Trinità, sia prodotto e non produca. Dio Padre non è prodotto e produce il Figlio e lo Spirito Santo; Dio Figlio è prodotto dal Padre e produce con Lui lo Spirito Santo; ma Dio Spirito Santo, prodotto dal Padre e dal Figlio, non produce nessun’altra persona. Ma i santi Dottori avvertono che lo Spirito Santo sembra rivalersi con la sua fecondità al di fuori di Dio, per quella sorta di sterilità che è il suo stesso carattere nel seno della natura divina. A Lui, infatti, sono attribuite in modo speciale le opere più eccellenti di Dio, quelle soprannaturali. La Sacra Scrittura ci mostra lo Spirito Santo, nei primi giorni del mondo, che feconda il mondo dandogli la virtù di produrre la vita. Ma la sua virtù è molto più manifesta quando si tratta di produrre una nuova creazione e di comunicare la vita di Dio alle creature razionali. – Questa è l’opera dello Spirito Santo, e si chiama “grazia”. Senza di essa, la nostra vita avrebbe potuto avere una lontana somiglianza con la vita di Dio; ma il nostro Creatore ha voluto stabilire una parentela più stretta con noi. È Sua volontà che noi venissimo un giorno a conoscerlo come Egli stesso si conosce, ad amarlo come Egli ama se stesso e ad essere felici della sua stessa felicità. E poiché non era nelle nostre forze naturali raggiungere questo fine soprannaturale, Egli ci ha dato il Suo Spirito.

Il fine della Provvidenza di Dio è di comunicarci il suo Spirito.

Tutta la provvidenza di Dio sull’umanità ha avuto come fine la comunicazione, sempre più perfetta, dello Spirito Divino ai figli di Adamo. Molti Dottori vedono il principio di questa comunicazione nell’atto stesso con cui Dio ha creato l’uomo. Dopo aver formato il suo corpo dal limo della terra, la Sacra Scrittura ci dice che gli soffiò in faccia un soffio di vita. – Questo soffio può riferirsi all’anima che anima il corpo e gli fa vivere una vita animale e razionale. Ma possiamo anche comprenderlo come vero Spirito di Dio, il principio della vita soprannaturale che Adamo ricevette contemporaneamente a quella naturale, e che trasmise con esso a tutti i suoi discendenti. Ma questa prima comunicazione dello Spirito di Dio all’umanità era ancora molto superficiale. Molti secoli dovevano passare prima che la grazia dello Spirito Santo, che fino ad allora non aveva attraversato la terra se non nello stato di un insignificante rivolo d’acqua, la inondasse come un nuovo diluvio. Finalmente arrivò il momento predetto dai Profeti. – Uno stelo uscì dal ramo di Jesse, e da quello stelo un fiore su cui riposava lo Spirito di Dio. Lo stelo che è uscito dalla radice di Jesse è la Vergine Maria, figlia di Davide, e il fiore benedetto che è uscito da quello stelo è il Salvatore Gesù. Lo Spirito di Dio riposava su quel fiore. Lo Spirito Santo ha unito l’anima del Salvatore con un’unione più completa di quella dei Patriarchi e dei Profeti. A quest’anima santa lo Spirito Santo non è stato dato con misura, come agli altri uomini, ma in tutta la sua pienezza. Dio Padre ama suo Figlio e ha messo tutto nelle sue mani. Non può, quindi, avergli dato il suo Spirito con misura. – C’è un’altra ragione però per aver comunicato la vita dello Spirito Santo all’anima del Salvatore: il suo Cuore Divino deve essere la fonte che distribuisce questa vita in tutto il mondo. Quel Cuore è l’oceano dove le onde di questa vita divina devono essere riversate senza misura. Se l’umanità è la tempesta che lo Spirito Santo costruisce per se stesso nel susseguirsi dei tempi, il Cuore di Gesù è il santuario di quella tempesta. Diciamo il Cuore e non solo l’umanità del Salvatore, perché il cuore, l’organo dell’amore umano, è anche la sede speciale dell’amore divino. – Nel Cuore di Gesù, lo Spirito di Dio ha posto la sua dimora, e da essa dirige tutti i movimenti dell’umanità: « Il mio amore è un peso che mi trascina – dice sant’Agostino – che mi porta ovunque io vada. Il nostro Maestro non era diverso dagli altri uomini sotto questo aspetto. Anche Lui era governato, trascinato dal suo amore. Ma il suo amore era governato dall’amore divino, lo Spirito Santo. « Tutte le azioni del Nostro Salvatore – dice San Basilio – sono state compiute sotto l’influenza dello Spirito di Dio ». Questo Spirito Divino lo condusse nel deserto, dove sarebbe stato tentato da satana. Per mezzo di Lui ha fatto miracoli, come Egli stesso ha testimoniato, quando ha detto: « Se per lo Spirito di Dio scaccio i demoni … » Allo Spirito Santo anche la Sacra Scrittura attribuisce le virtù del Cuore di Gesù, anche quelle che sembrano appartenere allo Spirito, come l’intelletto, il consiglio, la sapienza.

Il Cuore di Gesù ci comunicalo Spirito Santo e quindi la Vita Divina. –

Anche lo Spirito Santo, che fa del Cuore di Gesù il suo tempio privilegiato, vuole venire da noi. Ma è il Cuore di Gesù che ce lo comunica. E da chi potremmo riceverlo se non da Colui che, possedendo in precedenza quello Spirito della vita, è sceso dal cielo per comunicarcelo? – È vero che Dio Padre comunica con il suo Figlio unigenito il possesso dello Spirito Divino: lo producono insieme con un unico atto e lo danno a chi vogliono. Inoltre, abbiamo sentito Gesù dire che ci avrebbe dato lo Spirito della verità e che questo Spirito ci sarebbe stato dato da suo Padre. Ma come il Figlio lo dà solo per volontà del Padre (Gv XV, 26), il Padre lo dà solo nel Nome di Gesù Cristo (Gv XV, 26). Mandando suo Figlio nel mondo e unendolo ad una natura simile alla nostra, Dio Padre ha in qualche modo trasferito a questo Uomo-Dio tutti i suoi diritti sull’umanità e su tutto il creato. Soprattutto, gli ha conferito il potere assoluto (Sal. II, 6) di governare, giudicare, resuscitare e vivificare, non solo come Figlio di Dio, ma come Figlio dell’uomo (Gv. V, 21 segg.). Non solo il Figlio di Dio, ma anche il Figlio dell’uomo, che nell’Apocalisse è chiamato l’Alfa e l’Omega, l’Inizio e la Fine (Apoc. XXII, 13). « Del Verbo fatto carne si dice che Egli si è mostrato pieno di grazia e di verità, e che dalla sua pienezza tutti abbiamo ricevuto » (Gv. I, 14-16). Quando Gesù Cristo afferma che Egli è la vite e noi siamo i tralci, che senza di Lui non possiamo fare nulla, mentre uniti a Lui produrremo molto frutto (Gv XV, 1 sec.), parla direttamente – secondo Sant’Agostino – della sua umanità (S. Agostino, tract. 80 in Io.) Ora, la linfa che la vite divina trasmette ai suoi tralci, l’influenza costante attraverso la quale il Cuore di Gesù vuole comunicare la sua vita e la sua fecondità, è la grazia dello Spirito Divino. – La grazia ci viene dal Cuore dell’Uomo-Dio. Come lo Spirito di Dio è la nostra vita in quanto dona alla nostra anima la vita di Dio, così il Cuore di Gesù è la nostra vita in quanto solo Lui può comunicarci lo Spirito di Dio, è l’unica fonte da cui lo Spirito Divino può essere riversato nelle anime. Non appena si rompe il canale che li unisce ad esso, essi partecipano solo alla sterilità e alla morte. – Non è senza ragione che attribuiamo questa prerogativa di essere la vita delle nostre anime al Cuore Divino di Gesù. Perché il cuore, come sappiamo, è l’organo dell’amore. Lo Spirito di Dio, che è l’amore sostanziale del Padre e del Figlio, abita nel Cuore di Gesù come in un santuario privilegiato. E da Lui si distribuisce nelle nostre anime. Ma per venire da noi deve aspettare di essere mandato di nuovo dal Cuore di Gesù, perché nessun uomo può possederlo se non nella misura in cui l’Uomo-Dio glielo dona con un atto libero del suo amore e con un movimento spontaneo del suo Cuore. – Come il nostro cuore invia a tutte le membra il sangue che le riscalda e le ravviva, così il Cuore di Gesù, attraverso palpitazioni molto più continue e forti, distribuisce a tutti i membri della Sua Chiesa lo Spirito Santo che li fa vivere divinamente. Un membro che non riceve alcuna influenza dal cuore è un membro morto. Il Cristiano che non riceve l’influenza del Cuore di Gesù ha perso la vita di Dio; è paralizzato e se non si sottomette nuovamente alla sua influenza vivificante, non può sfuggire alla morte eterna.

Il Cuore di Gesù è la fonte della grazia.

Tali sono i nostri rapporti con il Cuore di Gesù, che è per tutti gli uomini la fonte della grazia. La grazia, infatti, non è altro che la vita soprannaturale prodotta nelle anime dalla loro unione con lo Spirito Santo. Come la vita del nostro corpo deriva dalla sua unione con l’anima, così la vita della nostra anima, risulta dalla sua unione con lo Spirito di Dio. Ma, come l’anima rimane unita alle membra del corpo solo nella misura in cui le membra stesse rimangono unite al cuore, così lo Spirito di Dio rimane unito al Cristiano solo nella misura in cui il Cristiano rimane unito al Cuore di Gesù. Cosa succede se uno strumento tagliente recide le vene e le arterie che mettono in comunicazione il cuore con la mano? Questa perderà la vita e si decomporrà. La stessa cosa accade all’anima che non è unita al Cuore di Gesù attraverso la preghiera e i Sacramenti, i canali della grazia: perde tutto il calore, tutta la forza. Presto la vedrete in potere della morte del peccato e del putridume dei vizi. – Il Maestro stesso ci inculca questa verità quando dice: « Rimanete in me e Io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. » (Jn. XV, 4-6)

Il Cuore di Gesù è il Cuore della Chiesa e del Cristiano.

Possiamo affermare che ogni volta che compiamo un atto soprannaturale siamo sotto l’effettiva influenza del Cuore di Gesù. Se il Cuore Divino non toccasse i nostri cuori, noi non saremmo in grado di credere, né di sperare, né di amare, né di fare il minimo sacrificio soprannaturale, né di guadagnare il più insignificante dei meriti. Come il movimento delle arterie alle estremità del corpo non è altro che la ripercussione del battito del cuore, così il più piccolo atto soprannaturale nell’ultimo dei Cristiani non è altro che la ripercussione dei movimenti del Cuore di Gesù. – Questo Cuore Divino è veramente il Cuore della Chiesa. Come dà vita fisica al corpo naturale di Cristo, come organo dell’amore del Salvatore, dà vita soprannaturale al suo Corpo mistico. Ed è per questo che la Chiesa è chiamata Corpo di Cristo, perché in realtà non riceve meno la vita del suo Spirito di quanto il nostro corpo non riceva la vita della nostra anima. Lo Spirito di Dio che il Cuore di Gesù ci comunica, non è unito a noi in modo tale da formare una persona con noi. La sua unione con la nostra anima è meno stretta dell’unione della nostra anima con il nostro corpo. Ma, a seconda di come la si guarda, è molto più intima, poiché lo Spirito Santo penetra molto meglio tutte le facoltà della nostra anima, penetrando nelle membra del nostro corpo. L’unione della nostra anima con il nostro corpo è così fragile che si dissolve continuamente. In ogni istante perdiamo alcune parti della nostra sostanza, finché tutto il nostro corpo non viene portato via dall’irresistibile potere della morte. Ma lo stesso non accade con il Corpo di Gesù Cristo. Quando il Cuore del Divin Salvatore ha preso un’anima ed è stato unito ad essa dai beni dell’amore, non c’è alcun potere, sulla terra o all’inferno, in grado di strappargliela. Solo essa stessa può distruggere la vita divina con il più orribile dei suicidi. – Possiamo fare opere divine, se lo vogliamo. E cosa facciamo per questo? Imitare il Cuore di Gesù e lavorare sotto l’influenza dello Spirito di Dio. In questo modo la devozione allo Spirito Santo si confonde in noi con la devozione al Sacro Cuore e ci riempie, secondo l’espressione di San Paolo, della pienezza di Dio.

Capitolo VII

LA PRESENZA REALE DELLO SPIRITO SANTO NELLE NOSTRE ANIME, CAUSA PROSSIMA DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

In cosa consista la nostra divinizzazione

Il vescovo di Tulle, mons. Berteaud, ha detto dei giovani Cristiani che erano “dei in fiore”. Espressione poetica ma interamente conforme agli insegnamenti della sana teologia. Se, come ci insegna San Pietro, siamo stati Ammessi da Gesù Cristo alla partecipazione della natura divina, siamo divinità, ma divinità per partecipazione. – La divinità non è in noi come in Gesù Cristo che la possiede per diritto proprio, piena e perfetta fin dall’inizio. La nostra divinizzazione sta aumentando come la pianta che all’inizio non è altro che un germe è impercettibile e poi cresce, fiorisce e finisce per dare i suoi frutti. Così il Cristiano, inizialmente ha solo il germe della sostanza divina (Eb III, 14), e gli viene dato il tempo della vita presente per coltivare e sviluppare questo germe, per crescere in Dio e far crescere Dio in se stesso, finché la pianta divina, pienamente sviluppata, non produca in cielo il suo frutto, che è la felicità divina. Ma non basta credere a queste cose: bisogna sforzarsi di capirle. A questi titoli della nostra eredità divina si applicano infatti le parole di sant’Anselmo: « Chi non si sforza di capire ciò che la fede gli rivela è colpevole di negligenza ».

Lo Spirito Santo dimora nell’anima giusta.

San Bonaventura, ci espone: « Quando si vuole spiegare in cosa consista il dono della grazia, che rende l’uomo simile a Dio, i savi propongono visioni diverse. Ci sono, infatti, alcuni punti determinati dalla fede e altri lasciati alla ricerca della ragione. Ciò che la fede e la Sacra Scrittura stabiliscono, tuttavia, con certezza è che senza il dono della grazia è impossibile piacere a Dio; in secondo luogo, che l’uomo non può essere gradito a Dio se non riceva lo Spirito Santo, un dono increato. Pertanto, tutti coloro che hanno un concetto preciso di questo mistero riconoscono che, in tutte le anime giustificate dalla grazia, risiede realmente lo Spirito Santo, “Dono increato”. E se qualcuno la pensasse diversamente, è da considerare come un eretico. (S. Bonav., in II Sent., q. 2: vol. III, p.241). Abbiamo in noi una perfezione di questo tipo, ma non c’è dubbio, secondo il Serafico Dottore, che l’anima in stato di grazia possiede veramente lo Spirito Santo e con Lui tutta la Trinità. – San Bonaventura non esita a chiamare eretico chi nega questo dogma. Il più autorevole dei maestri della dottrina cattolica – San Tommaso – afferma che sarebbe un errore contrario alla fede dire che il Cristiano, nello stato di grazia, possieda solo i doni dello Spirito Santo e non la sua Persona (S. Th. I q. XLIII, a. 3). Non c’è verità più frequentemente affermata nelle Scritture che il dogma della reale presenza dello Spirito Santo nell’anima del Cristiano. Il Maestro, che l’aveva spesso inculcata nei suoi Apostoli durante i tre anni della sua vita pubblica, la ricordava con particolare insistenza alla vigilia della sua morte. Nella persuasione di questa presenza reale, intima, perpetua dello Spirito Santo nei loro cuori, Egli vuole far loro trovare non solo consolazione nella tristezza causata dalla sua imminente separazione, ma anche un sovrabbondante compenso per l’immensa perdita che avranno quando li lascerà: « Non vi lascerò orfani – dice loro – pregherò per voi il Padre mio; ed Egli vi darà un altro Paraclito, un consolatore che rimarrà con voi per sempre ». Poiché vi ho detto queste cose, il dolore ha riempito i vostri cuori; ma vi ho detto la verità: è a vostro vantaggio che Io me ne vada, perché se Io non me ne vado, il Paraclito non verrà da voi; ma se me ne vado, ve lo manderò. » Sentendo promesse così chiare, come potevano gli Apostoli dubitare che sarebbe stato realmente dato loro lo Spirito Santo e che Egli avrebbe veramente dimorato nelle loro anime? Se non avesse dovuto unirsi a loro se non moralmente, se non avessero dovuto possederlo se non in figura, come avrebbe potuto questo possesso metaforico e questa unione morale supplire e con vantaggio la presenza sostanziale del Figlio di Dio e la sua così intima unione con Lui? – Gesù Cristo ha voluto promettere il vero dono del suo Spirito e ha usato i termini più precisi per spiegarlo. Se avesse voluto esprimere una semplice somiglianza con la santità divina, avrebbe usato un linguaggio più improprio e fuorviante per chi lo ascoltava.

Il dogma della presenza reale dello Spirito Santo nelle anime giuste è uno dei fondamentali maggiori da essere creduto.

Le promesse del Salvatore non sono rivolte solo agli Apostoli, ma a tutti i Cristiani che saranno santificati dai successori degli Apostoli fino alla fine dei secoli. Ciò che è stato visibilmente realizzato in loro il giorno di Pentecoste è invisibilmente realizzato in tutti coloro che sono rigenerati dal Battesimo ed unti con l’olio santo della Cresima. Lo Spirito Santo non è dato a tutti nella stessa misura, ma tutti lo ricevono con la stessa realtà. San Paolo si rivolge a tutti i Cristiani e ricorda loro questo dogma come uno dei primi della loro fede che a nessuno è permesso di ignorare o dimenticare: « Non sapete che i vostri membri sono tempio, che quello che avete da Dio è in voi, e che non siete voi? » (1 Cor. VI, 19). Per San Paolo, la presenza o l’assenza dello Spirito Santo fa la differenza tra le anime. Chi possiede lo Spirito Santo è vivo, come è vivo il nostro corpo quando l’anima è presente in esso. Le anime in cui lo Spirito Santo non abita sono cadaveri. È vero che ci sono dei gradi nella vita, come ce ne sono nella morte; infatti le anime vive possono essere più o meno intimamente unite allo Spirito Santo, mentre le anime morte più o meno sono separate da Esso. Ma per tutti questa unione è il principio della vita, ed è quindi reale come lo è la vita stessa.

I primi Cristiani vivevano la presenza realedello Spirito Santo nelle loro anime.

Illuminati dagli insegnamenti delle Scritture, i primi Cristiani si nutrivano della meditazione di questo dogma. In essa cercavano conforto nelle persecuzioni e la forza nella lotta contro i tiranni. Quando sant’Ignazio di Antiochia fu portato davanti al giudice, quest’ultimo gli chiese il suo nome: « Mi chiamo Teoforo, Portatore di Dio », rispose il santo Vescovo. Aveva dimenticato il suo nome umano, perché aveva smesso di vivere una vita puramente umana e non era più consapevole di nulla se non della presenza del Dio che abitava in lui. – Santa Lucia, quando il tiranno la minacciò per farla tacere condannandola ai flagelli, rispose: « Le parole non possono mancare ai servi di Gesù Cristo perché il loro Maestro ha promesso che quando saranno davanti ai giudici, il suo Spirito parlerà attraverso le loro bocche. » – Allora lo Spirito Santo è in te, chiese il tiranno? -« Sì – rispose la vergine – coloro che vivono con castità e pietà sono tempio dello Spirito Santo. » Non le ci volle molto tempo per dimostrare la verità della sua affermazione con un miracolo. Il giudice miscredente le ordinò di essere portata in un luogo di dissolutezza, ma non poterono spostarla: la potenza dello Spirito Santo la rese una colonna incrollabile. Qui c’è un fatto notevolissimo che dimostra quanto i primi Cristiani fossero profondamente convinti della reale presenza dello Spirito Santo nelle loro anime. Quando Eunomio e Macedonio, degni successori di Ario, osarono insegnare che lo Spirito Santo non era come il Verbo di Dio, se non una creatura, ecco cosa risposero i Santi Dottori: « Non c’è se non un solo Dio che possa essere presente ovunque contemporaneamente, penetrare tutte le anime, riempirle di sé e divinizzarle per mezzo della sua unione con esse; ora, lo Spirito Santo fa tutto questo; allora lo Spirito Santo non è una creatura, ma un vero Dio ». I Santi Dottori hanno dimostrato che lo Spirito Santo è Dio presente nelle anime giuste divinizzandole; hanno supposto che coloro che negavano la sua divinità erano costretti a confessare la realtà della Sua presenza e della divinizzazione che ne derivava. San Cirillo d’Alessandria è colui che meglio di tutti ha forse evidenziato questo mistero: « Chiederò ai miei avversari se una natura creata può fare, di coloro che non lo sono, degli dei. Si  può concepire una creatura deificante? Ovviamente, questo potere può essere attribuito solo a Dio, che, donando il suo Spirito alle anime giuste, le rende partecipi di ciò che Egli possiede per natura. – Per mezzo di questo Spirito diventiamo simili all’unico Figlio per natura, e meritiamo di essere chiamati come Lui dei e figli di Dio… Quindi, poiché il potere di divinizzare da se stesso è superiore alla condizione di una creatura, qualunque essa sia, lo Spirito Santo non può essere collocato tra le creature » (Dial. VII, De Trinitate, MG. 75, 1075). – E continua: « Siamo chiamati templi di Dio e ci viene dato persino il titolo di divinità. Chiedete la ragione di questo ai nostri avversari, secondo i quali la grazia della quale partecipiamo, sia una realtà non sostanziale, ma una pura qualità. Dio non voglia che succeda! Noi siamo i templi dello Spirito Santo esistente e sussistente; e il nome di dei ci è ben dato, poiché con la nostra unione con questo Spirito Divino partecipiamo alla sua natura divina ». – Sant’Atanasio usa un argomento simile nella sua epistola a Serapione: « Lo Spirito Santo è il balsamo ed il sigillo con cui il Verbo di Dio consacra e segna coloro che gli appartengono; e tutti coloro che sono stati segnati con il suo sigillo sono, secondo San Pietro, associati alla natura divina… Ma questa intima unione non avrebbe realtà se lo Spirito Santo fosse una creatura. Poiché se siamo veramente associati a Gesù Cristo e a Dio, è chiaro che questa unzione non appartiene alla natura creata, ma alla natura del Figlio che, donandoci il suo Spirito, ci unisce al Padre suo » (S. Agostino, in Joan. Tract. 80 ML.: 35, 1839). – San Giovanni insegna la stessa cosa quando scrive: « Siamo certi di abitare in Dio e che Dio abiti in noi, poiché ci dona il suo Spirito. Se poi la nostra unione con lo Spirito Santo ci fa partecipare alla natura divina, sarebbe sciocco dire che Egli non possieda questa natura in sé, ma che sia del numero degli esseri creati. Perché, con la nostra unione con lo Spirito Santo ci fa partecipare alla natura divina, sarebbe insensato dire che Esso non possieda questa Natura in sé, ma sia uno degli esseri creati. Perché solo essendo Dio, Esso può essere in noi e farci divinità. » – Didimo di Alessandria, nel suo Trattato sullo Spirito Santo, presenta la stessa prova sotto un altro aspetto: « Si dice di certi uomini che siano pieni di Spirito Santo; ma mai, né nella Sacra Scrittura, né nel linguaggio comune, si dice di un uomo che sia pieno di una creatura …. Una tale proprietà può solo adattarsi alla natura divina. Si può benissimo dire di un uomo che sia pieno di virtù e di scienza. Ma lo Spirito Santo non riempie le anime allo stesso modo di queste qualità, perché si comunica alle anime attraverso la sua sostanza. Egli, bontà sussistente, riempie con la sua natura santificante ciò che è veramente buono, ed in tal modo alcune persone giuste sono piene di Spirito Santo (Didimo di A. Lib. 1 MG: 39, 1033). – C’è una differenza essenziale tra la presenza reale dello Spirito Santo nelle anime che Egli santifica e la presenza degli Angeli nelle anime che assistono. Questa, come gli Angeli stessi, è necessariamente limitata, quella è infinita. Ascoltiamo ancora Didimo: « L’Angelo che si è preso cura dell’Apostolo quando stava in Asia, non poteva allo stesso tempo prendersi cura degli altri Apostoli sparsi per il mondo; mentre lo Spirito Santo è presente non solo negli uomini più lontani tra loro, ma in tutti gli Angeli, in tutti i principati, in tutti i troni, in tutte le dominazioni, ed Esso non solo li assiste, ma vi abita » (Ibidem).

La presenza dello Spirito Santo nell’anima dei giustiè diversa da quella che risulta dall’immensità divina.

Va notato che questa presenza dello Spirito Santo nell’anima dell’uomo giusto è molto diversa da quella che risulta dall’immensità divina, per mezzo della quale le tre Persone divine della Santissima Trinità sono ovunque, anche nell’inferno. Anche il Figlio di Dio è immenso ed è presente ovunque, ma questo non ci impedisce di adorarlo soprattutto nell’Eucaristia, perché sappiamo che Egli è lì in un modo particolare. Così, per grazia, lo Spirito Santo è in noi per unirci, per donarsi a noi e santificarci. È questa una presenza particolare, indipendente in un certo senso dalla prima. Suàrez lo spiega dicendo che se, per un caso impossibile, l’immensità divina non rendesse presente lo Spirito Santo in noi, lo farebbe la grazia. Possiamo immaginare un uomo molto povero accanto ad un immenso tesoro, senza che per questo diventi ricco standogli vicino, perché ciò che fa la ricchezza non è la vicinanza, ma il possesso del tesoro. Tale è la differenza tra l’anima giusta e l’anima del peccatore. Il peccatore e il condannato hanno al loro fianco e in se stessi il bene infinito, eppure rimangono nella loro miseria, perché questo tesoro non appartiene a loro. Il Cristiano nello stato di grazia invece ha in sé lo Spirito Santo e, con Lui, la pienezza delle grazie celesti come un tesoro in suo possesso. (Ibidem).

Conseguenze pratiche.

Quanto potere avrebbe questa verità per allargare i nostri cuori! Che influenza avrebbe sulla nostra vita se la tenessimo presente! La persuasione che abbiamo la presenza reale del corpo di Gesù Cristo nel ciborio, ispira in noi l’orrore più profondo della profanazione del calice. Quale orrore non avremmo della profanazione del nostro corpo, se non avessimo dimenticato il dogma della reale presenza in noi dello Spirito Santo! Lo Spirito Santo è per caso meno santo della sacra carne dell’Uomo-Dio? Pensiamo che Egli dia più importanza alla santità di quei calici che ai loro templi viventi e ai tabernacoli spirituali? Impossibile dubitarne: la facilità con cui tanti Cristiani cadono nelle colpe più vergognose nasce soprattutto dalla dimenticanza di questa verità.  – La devozione al Cuore di Gesù, destinata a rigenerare la società cristiana, raggiungerà questo obiettivo dando a tutti, Sacerdoti, religiosi e semplici Cristiani, una perfetta comprensione di questo dogma. Se vogliamo che questa devozione produca in noi tutti i suoi frutti; se vogliamo cooperare alla realizzazione delle promesse che hanno accompagnato la sua rivelazione, abituiamoci a considerarla sotto questo aspetto; sforziamoci di divulgare questa dottrina, con la quale, come con una leva divina, solleveremo sulla terra le anime che il naturalismo del nostro secolo ha così miseramente schiavizzate.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/05/21/il-cuore-di-gesu-e-la-divinizzazione-del-cristiano-8/

SALMI BIBLICI: “ECCE NUNC BENEDICITE DOMINUM” (CXXXIII)

SALMO 133: “ECCE NUNC BENEDICITE DOMINUM”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 133

Canticum graduum.

[1] Ecce nunc benedicite Dominum,

omnes servi Domini: qui statis in domo Domini, in atriis domus Dei nostri.

[2] In noctibus extollite manus vestras in sancta, et benedicite Dominum.

[3] Benedicat te Dominus ex Sion, qui fecit cælum et terram.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXXXIII

È Salmo (l’ultimo dei graduali) che esorta i viatori, che aspirano alla patria, a lodare Dio; o meglio, che anima quei che già arrivarono in patria a darsi tutti alle lodi di Dio, ufficio perpetuo di quei che abitano nella casa di Dio.

Cantico dei  gradi.

1. Su via benedite adesso il Signore, tutti voi servi del Signore.

2. Voi che fate vostro soggiorno nella casa del Signore, ne’ cortili della casa del nostro Dio.

3. La notte alzate le vostre mani verso il santuario, e benedite il Signore.

4. Benedica te da Sionne il Signore, che fece il cielo e la terra.

Sommario analitico

In questo salmo, che termina la serie dei salmi graduali, il popolo, nel momento in cui finisce e cessa di lodare Dio, desidera vedersi sostituito da coloro che, consacrati specialmente al suo culto, possono e devono restarvi incessantemente.

I.- Il sommo sacerdote, con il popolo, esorta i sacerdoti, i leviti e tutto il popolo a lodare Dio notte e giorno; e alzando le loro mani verso il tempo, e benedicendo Dio di cuore e di bocca (1, 2):

II. – Il popolo prega Dio di benedire il sommo Sacerdote:

1° Perché egli ha scelto il tempio per farne la sua dimora; 2° Perché Egli è il Creatore del cielo e della terra (3).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-3.

ff. 1. –  « Benedite il Signore, voi tutti che siete  servi del Signore; » voi che non siete più schiavi del peccato, ma i servi di Dio. Pensiamo che sia un lieve vantaggio il dire: «Io sono il servo del Signore? » È il colmo della virtù meritare questo favore. Ci si onora nel mondo nel poter dire: io sono il servo dell’imperatore; è una dignità l’appena avvicinarsi ad un servo dell’imperatore. A maggior ragione è dignità sovrana, infinita, potersi dire servo del Signore. Così l’Apostolo si glorifica di questo titolo, scrivendo all’inizio di tutte le sue Epistole: « Paolo, servo di Gesù-Cristo. » Benedite dunque il Signore, voi tutti servi del Signore, voi che Egli ha riscattato, voi che non riconoscete se non Dio per padrone, voi sui quali la collera non ha impero, che non siete schiavi né della voluttà, né delle altre passioni; ma non è sufficiente che essi siano servi del Signore, bisogna che si tengano in piedi. «Tenetevi in piedi nella casa del Signore. » (S. Girol.). – La benedizione che diamo a Dio viene originariamente da quella che Egli ci dà: Dio ci benedice, quando ci ricolma di beni che ci vengono dalla sua bontà, e che noi, non potendo dargli niente, confessiamo con compiacenza le sue perfezioni e ce ne rallegriamo con tutto il nostro cuore. (Bossuet, Elev. , XVIIIa sem., IXa El.). – È un dovere per tutti i Cristiani, che sono servi di Dio, il benedirlo; ma per una ragione speciale, questo dovere è più rigoroso per i sacerdoti, le cui funzioni chiamano così sovente nelle mura della sua casa, e che sono esclusivamente consacrati al culto del Signore. – Che significa: « Ora? » Nel tempo presente, perché è evidente che dopo che le nostre tribolazioni saranno passate, noi non saremo occupati se non a benedire il Signore: « Beati coloro che abitano nella vostra casa, essi vi loderanno nei secoli dei secoli. » (Ps. LXXXIII, 3). Coloro che allora benediranno il Signore senza mai fermarsi, cominceranno a benedirlo quaggiù, cioè nelle tribolazioni, nelle tentazioni, nelle sofferenze, in mezzo alle avversità del mondo, in mezzo alle insidie del nemico, in mezzo agli inganni ed alle violenze del demonio (S. Agost.). – « Voi tutti che state nella casa del Signore. » Questa casa di Dio, è la Chiesa, secondo queste parole dell’Apostolo san Paolo: « Affinché, se mi capita di tardare lungo tempo, voi sappiate come comportarvi nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, la colonna ed il sostegno della verità. » (I Tim. III, 15). Ora la Chiesa non consiste nelle mura materiali di un edificio, ma nella verità dei dogmi. Là dov’è la vera fede, là c’è la Chiesa (S. Girol.). – « Voi che state nella casa del Signore, » cioè che perseverate; perché è stato detto di colui che era altra volta un Arcangelo: « egli non è nella verità. » (Giov. VIII, 14). È stato ancora detto dell’anima dello sposo: « ma l’anima dello sposo resta là e l’ascolta, ed ella è piena di gioia alla voce dello sposo. » (Giov. III, 19).

II. — 2.

ff. 2. – « Alzate le vostre mani durante la notte, verso le cose sante. » Alzate le vostre mani, perché Gesù le ha stese sulla croce. Perché il Profeta aggiunge: « Verso le cose sante? » Eccolo: Gli eretici, i Giudei, gli stessi pagani, alzano le loro mani. Essi fanno anche delle elemosine; se vedono un povero, essi aprono le loro mani. Non sembra che le elevino? Si, essi le elevano, ma non verso le cose sante, perché essi non conoscono Gesù-Cristo … Voi, al contrario, servi del Signore, alzate le vostre mani verso le cose sante, verso il santuario, cioè confessate Gesù-Cristo, di modo che tutto ciò che fate, lo fate per Lui. .. Tutto ciò che facciamo, lo facciamo nel nome di Gesù-Cristo. noi leggiamo le Scritture, noi apprendiamo i salmi, studiamo i Vangeli, cerchiamo di comprendere i Profeti: noi non dobbiamo farlo per essere glorificati dai nostri fratelli, ma per piacere a Gesù-Cristo, affinché la sua parola risuoni sulle nostre labbra …Costui ha più appreso che poi fatto. Se io traduco nelle mie opere ciò che voi apprendete, queste opere sono molto più impregnate, penetrate dalle scritture che le parola che vi faccio intendere (S. Girol.) – In questa notte di ignoranza, di insidie, di infermità, di concupiscenze, di vizi, eleviamo le mani verso le cose sante, non solo per pregare, ma per fare delle buone opere. La preghiera da sola, non è sufficiente: bisogna elevare le nostre azioni all’altezza delle cose sante, dando i vestiti a coloro che sono ignudi, del pane a coloro che hanno fame, consolando gli afflitti, soccorrendo gli oppressi con una carità che si estenda a tutti senza eccezione. Ecco le opere che ci santificano, che sono sante e gradite a Dio (S. Hil.). – Non bisogna dare al sonno la notte tutta intera, e le nostre preghiere sono più pure quando l’anima è meno caricata dalle faccende, e la calma più profonda (S. Chrys.). –  La notte è il tempo più favorevole per lodare e pregare Dio, allorché tutto è piombato nel riposo ed il silenzio regna tutt’attorno  noi: « Io mi levo nella notte per lodare il Signore: » (Ps. CXVIII); « La mia anima vi ha desiderato di notte; » (Isai. XXVI); « Alzatevi, lodate il Signore durante la notte, all’inizio delle veglie. » (Gerem. Lam. II.). Tutti i santi hanno raccomandato questo esercizio, e la maggior parte degli istitutori di ordini monastici hanno prescritto gli uffici della notte. Il raccoglimento è più profondo quando tutta la natura è nel silenzio; i cantici di lode sono più graditi a Dio, quando si sacrifica una parte del proprio riposo col contemplare le sue perfezioni ed a celebrarne i benefici. È come un apprendistato della vita del cielo, ove gli eletti servono Dio giorno e notte nel suo tempio; è un’opera di opposizione, e nello stesso di riparazione contro gli usi del mondo, che consacra il tempo della notte ai divertimenti, ai piaceri ed all’intemperanza. – Voi che vi alzate durante la notte, che solitari levate a Dio mani innocenti, nell’oscurità e nel silenzio, e voi, Cristiani, che lodate Dio durante le tenebre, benedite il Signore (BOSSUET, Elev. XVIII, S. m, E.). – Pratica notevole, quando ci si svegli di notte è alzare le mani, ed ancor più il proprio cuore a Dio, adorarlo, lodarlo, benedirlo in un tempo in cui è dimenticato da quasi tutti. – « Alzate le vostre mani verso il santuario, » o, secondo un’altra versione: « Elevatele santamente, », cioè che la vostra anima, pregando, debba essere pura dai cattivi pensieri, dall’odio, dall’avarizia, e da ogni peccato che gli dà la morte (S. Chrys.).

ff. 3. Il Signore benedice da Sion; le sue grandi benedizioni sono nella Chiesa, ed il fine di queste benedizioni è il possesso del soggiorno celeste, di cui Sion fu la figura. (Berthier) – Il Profeta eleva in seguito a più alti pensieri lo spirito di coloro ai quali si rivolge, ricordando loro che Dio è dappertutto … che noi possiamo, di conseguenza, pregarlo in ogni luogo, nella campagna, all’interno delle nostre case, sulla pubblica piazza, nella solitudine, sul mare, nelle osterie, in una parola, ovunque noi siamo. Alcun luogo è, per sua natura, contrario alla preghiera, purché la nostra vita non si opponga alla sua efficacia (S. Chrys.). – Nessuno tra voi dica: Questa benedizione non è giunta fino a me. A chi pensate che si indirizzi il Profeta dicendo: « Che il Signore vi benedica da Sion? » Egli ha benedetto l’unità, siate nell’unità, e la benedizione giungerà fino a voi. I fratelli fanno numero, perché sono plurimi, ma essi non sono che uno, perché la carità li unisce. (S. Agost.).  


I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “IL DIGIUNO DELLE QUATTRO TEMPORA E LE PROCESSIONI DELLE ROGAZIONI”

IL DIGIUNO DELLE QUATTRO TEMPORA E LE PROCESSIONI DELLE ROGAZIONI

“Surrexit David et abiitet universus populus utadducerent arcam Dei.”

(II Reg. VI, 2).

Possiamo, Fratelli miei, trovare una cerimonia più commovente di questa: vedere il santo re, accompagnato da tutti i sacerdoti e leviti, ai quali teneva dietro il popolo, trasportare l’Arca santa dal Tabernacolo di Silo (L’arca era stata prima a Silo (I Reg. I- IV); ma quando Davide pensò di condurla a Gerusalemme, l’arca non era più a Silo, ma a Cariathiarim (I Paral., XIII, 5) nel luogo preparatole in Gerusalemme? I sacerdoti ed i leviti compivano attorno ad essa le funzioni del loro ministero, ed ogni tribù camminava sotto il proprio stendardo. Vediamo in questo trionfo del popolo giudeo che conduce l’Arca, una figura ben naturale del pio concorso dei Cristiani che vanno in processione da un luogo all’altro, condotti dai loro pastori, con alla testa la croce e gli stendardi. Riuniti insieme formano un piccolo esercito formidabile al demonio e potente presso Dio, per ringraziarlo di qualche grazia, o per domandarne di nuove. È quindi assai necessario farvi comprendere perché furono stabilite queste processioni, e come dobbiamo assistervi. Dirò anche qualche parola sull’astinenza, che è stabilita press’a poco per gli stessi motivi: cioè per domandar al buon Dio di conservar i raccolti, e per darci modo di soddisfar la sua giustizia pei nostri peccati, ed insieme preservarci dal commetterne dei nuovi. E adunque vostro interesse ascoltar bene questa istruzione, che vi insegnerà i mezzi d’approfittare di questi beni che la Chiesa ci offre.

I. — Vi dirò anzitutto, F. M., che la prima e più antica legge che il buon Dio abbia imposto all’uomo è quella dell’astinenza. Quando Adamo fu creato, Dio lo pose nel paradiso terrestre, dandogli ogni potestà su tutte le creature, ma gli proibì nello stesso tempo di toccare il frutto d’un certo albero che gli indicò. Se Adamo fosse stato fedele a questa legge, non avremmo avuto bisogno che la Chiesa ci imponesse nuove astinenze. Ma pel peccato essendosi ribellata la nostra carne allo spirito, bisognò necessariamente domarla col digiuno e l’astinenza. Perciò la Chiesa ordina a’ suoi figli, oltre i digiuni della Quaresima, quelli delle Vigilie e delle Quattro Tempora, e l’astinenza del Venerdì e del Sabato. Ecco, F.M., il fine generale che la Chiesa si propone ordinando l’astinenza ed il digiuno in certi giorni: è per mantenere nei suoi figli lo spirito di penitenza, che Gesù Cristo non cessò di raccomandare quand’era sulla terra, e che è come il riassunto della divina morale. Sì, F.M., mortificando i nostri corpi indeboliamo le nostre passioni, possiamo espiare i peccati commessi, e applichiamo un rimedio per preservarci dal commetterne dei nuovi. E giacché, F.M., abbiam tante colpe da espiare, dobbiam approfittare di mezzi così efficaci per soddisfare la giustizia di Dio. Sì, abbiam tutti delle passioni da domare, ed è precisamente col diminuire quanto può lusingarci nel gusto, che le potremo vincere. La Chiesa, che sa il bisogno che ne abbiamo e la nostra ripugnanza a farlo, viene in nostro soccorso, facendocene un precetto, per determinare più efficacemente la nostra volontà a sottomettervisi. Ma, oltre questa legge generale, ha ancora delle ragioni particolari: così ci ordina i digiuni nelle vigilie delle grandi feste per disporci colla penitenza a celebrarle con maggior pietà e ricavarne frutto più grande. Come la Chiesa ha consacrato la domenica alla memoria della risurrezione di Gesù Cristo, così ha consacrato il venerdì al ricordo della passione e morte di Lui. Non è giusto che consacriamo questo giorno alla penitenza ed alla mortificazione, poiché furono i nostri peccati che crocifissero Gesù Cristo alla croce? Non è giusto che prendiamo parte alle sue sofferenze, se vogliamo aver parte alla grazia della redenzione? Perciò, F. M., nei primi secoli della Chiesa, tutti i venerdì erano giorni di digiuno. Si digiunava anche al sabato per onorare la sepoltura di Gesù Cristo, ed insieme per prepararsi alla santificazione della domenica. Poiché, F. M., questi sono giorni di grazia e di benedizione, dobbiam prepararvici colla mortificazione, se vogliam ricevere in abbondanza i beni che Dio ci vuol in essi largire. Oggi, F. M., come il vedete, questo digiuno del venerdì e del sabato si riduce soltanto a privarsi di mangiar carne, e la Chiesa ce ne fa un precetto: “Non mangerai carne al venerdì e al sabato.„ E devono tutti sottomettersi a questa legge, anche i fanciulli, quando lo possono: soltanto coloro che non lo possono, ne sono dispensati. Ma, ahimè! in qual secolo disgraziato siamo noi nati? Non si riconosce più tra i Cristiani quali sono i figli devoti della Chiesa: quasi tutti sembrano dilettarsi di trasgredire le leggi dell’astinenza. Ahimè! nessuno si fa più scrupolo di mangiar carne il venerdì od il sabato: la cattiva compagnia vi fa rinunciare alla vostra Religione. Quanti peccati mortali! Vedete voi degli sposalizi celebrati in sabato, senza che si mangi carne, come tanti pagani od idolatri? Ahimè! quale scandalo per i fanciulli, e quale fonte di maledizioni per quelli che si sposano! — È l’abitudine! — Amico mio: se è abitudine di mangiar carne al venerdì, il buon Dio non prenderà mai l’abitudine di ricevere in cielo chi disprezza la sua legge. La religione perde piede in mezzo a noi, perché non facciam più conto delle sue leggi. Se Adamo si è perduto mangiando il frutto proibito, così noi ci perdiamo mangiando carne nei giorni vietati. Oh! triste pensiero, il preferir di abbruciare nell’inferno per una eternità, anziché privarsi di mangiar carne! —

Ma, mi direte: è la compagnia! Ah,! la compagnia! Essa non vi sforza: non vi apre la bocca per mettervi dentro carne. — Sfortunati, avrete ben il tempo di pentirvi !… No, no, F . M., giammai questo maledetto rispetto umano vi farà fare un’azione così indegna del Cristiano, e che rivela una grande ingratitudine verso Dio. Ecché! Amico mio, voi temete il mondo: ma gettate adunque i vostri sguardi su questa croce: vedete se il vostro Dio ebbe vergogna di morirvi tutto ignudo, alla vista d’una folla immensa di popolo. — Andate, disgraziati, voi siete sconoscenti: il buon Dio vi aspetta davanti al suo tribunale, dove pagherete caro il vostro rispetto umano. Temete vi si derida? Oh! certamente, siete proprio un personaggio, per temer tanto che si rida di voi! Guardate adunque il vostro modello, F . M.; ha temuto Egli le derisioni fattegli durante la sua passione? Se le avesse temute, non ci avrebbe lasciato nella schiavitù del demonio? Andate, miserabile, andate a mangiar la vostra carne; avrete ben tempo di rimpiangerla per tutta l’eternità!… No, F. M., giammai questo maledetto rispetto umano vi faccia tradir così vilmente il vostro dovere. – Ma passiamo ad una seconda riflessione sui digiuni delle Quattro Tempora. Leggiamo nella S. Scrittura che i Giudei scacciati da Gerusalemme e per le loro infedeltà, condotti in ischiavitù a Babilonia, lontani dal tempio del Signore, riconoscendo che i peccati avevan loro meritato tutti questi castighi, vollero tentare di placare la collera di Dio, e perciò si imposero di digiunare il quarto, il quinto , il settimo ed il decimo giorno del mese ed è a questo esempio che la Chiesa istituì i digiuni delle Quattro Tempora, per farci espiare i peccati che non cessiamo di commettere ogni giorno; e per attirare su di noi con questa penitenza generale, che è molto più meritoria che se ce la imponessimo da noi stessi, per attirarci, dico la misericordia e le benedizioni del cielo (il testo del profeta Zaccaria: Jejunium quarti et jejunium quinti, et jejunium septimi, et jejunium decimi erit domui Juda– Zach. VIII, 19 – s’intende, secondo gl’interpreti, del digiuno del quarto, del quinto, settimo e decimo mese. I Giudei digiunavano il nono giorno del quarto mese, il decimo giorno del quinto mese, il terzo giorno del settimo mese, od il decimo giorno del decimomese, per diverse ragioni che si posson vedere nella Bibbia di Carrières e Menochio, a questo passo di Zaccaria. – Questa differenza d’interpretazione non indebolisce affatto, come è evidente, il valore dell’esempio proposto dal Beato). Converrete con me che i tre giorni di digiuno che pratichiamo ad ogni stagione, cioè ogni tre mesi, non hanno proporzione con i peccati che abbiam la disgrazia di commettere ogni giorno. Tuttavia la Chiesa, che è una madre buona ed ama i suoi figli, si accontenta di così poco, so lo facciamo bene e di buon cuore, del digiuno cioè e delle altre opere buone. Per farci meglio sentire la necessità in cui siamo di ben adempiere questi santi digiuni, ce ne fa un precetto: “Digiunerai nelle Quattro Tempora e nelle Vigilie. „ Essa vuole coi digiuni delle Quattro Tempora farci ricordare che come non v’è tempo in cui non si abbia la mala sorte di offendere il buon Dio, così non ve ne deve essere alcuno in cui non facciamo penitenza per placare la collera di Dio col sacrificio d’un cuore contrito ed umiliato. Ecco la prima ragione che indusse la Chiesa ad istituire le Quattro Tempora.

La seconda ragione riguarda i nostri bisogni temporali. Sapete che vi sono i digiuni delle Quattro Tempora in primavera, perché  allora il ritorno del sole incomincia a rianimar la natura, ed aprir la terra per la produzione dei frutti. La Chiesa ci avverte di domandar a Dio che abbia a dare la fecondità alla terra colle sue benedizioni. In estate, giacché il raccolto è esposto a mille peripezie dolorose, l’intenzione della Chiesa è che noi preghiamo il buon Dio di conservarcelo, e di accordarci nella sua misericordia quanto ci è necessario alla vita durante l’anno. Dico, F . M., nella sua misericordia: perché essendo noi tanto peccatori, non abbiamo alcun diritto ai beni necessari alla vita. Perciò dobbiamo umilmente domandare al buon Dio il nutrimento e il vestito, come una elemosina che può rifiutarci senza ingiustizia, e riceverli con grande riconoscenza, come un beneficio affatto gratuito, che sparge su di noi per sua pura bontà. Quindi in autunno, quando si è occupati nella raccolta, ed in inverno quando è terminata, la Chiesa vuole che offriamo a Dio i nostri digiuni e le elemosine come un sacrificio di rendimento di grazie per tutti i beni accordatici durante l’anno.

La terza ragione per la quale la Chiesa ha istituito le Quattro Tempora è per domandare al buon Dio la grazia di fare un buon uso dei beni che ci ha dati, e di non perder mai di vista Chi ce li ha dati. Ma, sventuratamente, non facciamo così. Ahimè! chi di noi potrebbe non deplorare la cecità dei Cristiani che nel tempo della raccolta dovrebbero ringraziare il buon Dio dei beni che ci largisce, ed invece sembrano raddoppiare il loro furore contro di Lui coi peccati che commettono nel medesimo tempo che raccolgono i beni che Dio ha dato loro. Dobbiamo adunque concludere, F. M., che se ci troviamo in istato di digiunare, e non lo facciamo, pecchiamo mortalmente; e se non possiamo digiunare dobbiamo sempre supplirvi con opere buone: sia privandoci di qualche cosa nei pasti, sia assistendo alla S. Messa, ovvero facendo qualche preghiera più degli altri giorni. Dobbiamo poi unirci alla Chiesa, eccitarci alla contrizione dei nostri peccati, gemere perché non possiamo far penitenza, e almeno così soddisfare la giustizia di Dio pei nostri peccati.

La quarta ragione che ha indotto la Chiesa ad istituire il digiuno è quella di domandare al buon Dio che i Vescovi abbiano ad ordinare solo buoni Sacerdoti: perché è per mezzo del Sacerdote che il buon Dio ci illumina, ci conduce, ci distribuisce le sue grazie, e ci applica nei Sacramenti il prezzo del sangue di Gesù Cristo. Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il Signore possa accordare ad una parrocchia, ed uno dei doni più preziosi della misericordia divina. Al contrario, un prete cattivo è uno dei più terribili flagelli della collera di Dio: perciò la Chiesa invita e comanda, a tutti coloro che possono, di digiunare, affine di attirar sui Vescovi i lumi necessari per conoscere bene coloro che Dio destina al suo servizio, e perché Egli effonda i suoi doni e le sue grazie su coloro che saranno ordinati. Vedete, M. P., come tutti vi siamo interessati, poiché ne dipende la nostra salvezza; infatti, se siete condotti da un buon Sacerdote, potete ricevere ogni sorta di benedizioni, sia per le preghiere che farà per voi, sia per i buoni consigli che vi darà.

II — In secondo luogo, dissi che vi avrei parlato delle differenti processioni che si fanno durante l’anno, e che hanno ciascuna un oggetto particolare. La processione del Ss. Sacramento ha per oggetto di celebrare il trionfo che Gesù Cristo fece riportare alla sua Chiesa sui suoi nemici che negavano la presenza reale di Lui nell’adorabile Sacramento; e nello stesso tempo per fargli rendere gli omaggi che Gli si devono in questo Sacramento di amore. È la più augusta di tutte le processioni, poiché Cristo vi cammina in persona. Oh! di qual rispetto ed amore non dovremmo esser penetrati in questo momento così felice, se avessimo la fortuna di ben comprenderlo; abbiamo il medesimo vantaggio di coloro che seguivano il Salvatore quando era sulla terra! La processione delle Palme si fa peronorare l’andata e l’entrata trionfale di Gesù Cristo in Gerusalemme, cinque giorni prima della sua morte: quella della Parificazione per raffigurare il Viaggio che la santa Vergine fece alTempio, portando Gesù Cristo tra le sue braccia: quella dell’Assunzione fu istituita per celebrare il trionfo della Madre di Dio assunta in cielo, e per rinnovare la consacrazione della Francia a questa augustaRegina, che tante prove ci ha dato della suaprotezione. Nelle domeniche, prima della Messa parrocchiale, si fa una processione per onorare Gesù Cristo risuscitato, che andò da Gerusalemme in Galilea: perché tutte le domeniche sono un continuo ricordo della risurrezione di Gesù Cristo. Questa processione vien fatta prima della Messa, per ricordare il viaggio che fece Gesù Cristo andando al Calvario; poiché il santo Sacrificio della Messa non è altro che la continuazione del sacrificio della croce. Ditemi, se aveste ben considerato che la processione che facciamo alla domenica prima della Messa è per onorare il viaggio, che Gesù Cristo fece andando al Calvario, con qual premura non vi interverreste per avere la bella sorte di seguire in ispirito Gesù Cristo che va ad immolarsi una seconda volta per noi? con quale pietà, M. F., e con qual rispetto vi assistereste! Non vi sembrerebbe di vedere il Sangue che questo divin Salvatore sparse sul Calvario? Ahimè! se vediamo tanta indifferenza e poco rispetto è perché  non si conosce quanto si fa, né i misteri che queste differenti cerimonie ci rappresentano. Felice il Cristiano che è istruito od entra nello spirito della Chiesa! – Vediamo che in tempo di pubbliche calamità i Vescovi comandano processioni straordinarie per calmare la collera di Dio, o per ottenere dalla sua misericordia qualche grazia particolare. In queste processioni si portano alcune volte le reliquie dei Santi, affinché il buon Dio, alla vista di quei preziosi depositi, si lasci piegare in nostro favore. La Chiesa ha stabilito quattro giorni all’anno per fare queste processioni di penitenza, e sono: il giorno di S. Marco, ed i tre giorni delle Rogazioni. In queste processioni si porta una croce e si portano stendardi, sui quali è dipinta l’immagine della Ss. Vergine e del Patrono della parrocchia: è per avvertire i fedeli, che debbono camminar sempre dietro Gesù Cristo crocifisso, e sforzarsi d’imitare i Santi, che la Chiesa ci ha dati per patroni, protettori e modelli. Dobbiamo riguardare tutte le processioni che facciamo, come una specie di trionfo, in cui accompagniamo Gesù Cristo ed i Santi. Gesù Cristo si compiace di spargere benedizioni in tutti i luoghi dove passa la sua immagine o quella dei santi: è quanto si vide in modo particolare a Roma, quando sembrò che la peste non volesse risparmiar alcuno. Il Papa vedendo che né le penitenze, né le altre buone opere potevano far cessare questo flagello, ordinò una processione generale, in cui si portò l’immagine della Ss. Vergine, dipinta da S. Luca. Appena la processione si fu incamminata, dappertutto, dove passava l’immagine della Ss. Vergine, cessava la peste: e si adivano gli angeli cantare: “Regina cœli lætare, alleluia.„ Poi la peste cessò interamente. Questo cammino che noi facciamo, seguendo la croce, ci richiama che la nostra vita non dev’essere altro che un’imitazione di quella di Gesù Cristo, che ci si è dato per esser nostro modello, ed insieme nostra guida: e che tutte le volte che noi lo abbandoniamo siamo certi di smarrirci. La croce e gli stendardi, F. M., che vediamo in capo alle processioni, sono per i veri fedeli un grande soggetto di gioia: così raccolti noi formiamo un piccolo esercito, che è formidabile al demonio, e ci dà diritto alle grazie di Dio: giacche nulla è tanto efficace quanto le preghiere che facciamo tutti insieme riuniti sotto la guida dei pastori. Ricordate, M. F., ciò che avvenne agli Israeliti, sotto la condotta di Giosuè: fecero per sette giorni il giro delle fortificazioni di Gerico con l’Arca, camminando rispettosamente coi ministri sacri. I Cananei se ne burlavano dall’alto delle loro mura: ma ben presto cambiarono pensiero. (Gio. VI).  Alla fine di questa processione strana, le fortificazioni caddero al semplice suono delle trombe; ed il Signore diede nelle loro mani i nemici, che non fecero alcuna resistenza, quasi fossero altrettanti timidi agnelli. Tale è, F. M., la vittoria che Gesù Cristo ci fa riportare sui nemici della nostra salute, quando abbiamo la ventura di assistere a queste processioni con grande religione e rispetto.

III. — In terzo luogo le processioni debbono farci pensare che noi non siamo che poveri viaggiatori sulla terra, che il cielo è la nostra vera patria, e che abbiamo dei lumi e delle grazie da Gesù Cristo per arrivarvi. Egli stesso è la via, poiché egli ci ha mostrato quanto dobbiamo fare per giungervi. – La Chiesa colle processioni vuole ispirarci che non dobbiamo attaccarci alla vita, ma a Gesù Cristo sino alla morte; perché Egli è la nostra ricompensa per l’eternità. Sì, F. M., ecco i vantaggi che troviamo nelle processioni, se abbiamo la fortuna di penetrarci bene di quanto facciamo. Ma ohimè! quanti disprezzi non riceve Gesù Cristo nelle processioni che facciamo? Gli uni non sanno più il motivo che ve li conduce: vi vanno come ridendo: gli altri vi chiacchierano, come in una pubblica piazza, guardando da una parte e dall’altra. Ahimè! quanti volgono gli sguardi loro su oggetti che animano ed infiammano le loro passioni, e. finita la processione, ne escono assai più colpevoli di quando si unirono ai fedeli. Dio mio, quante grazie disprezzate! quanti peccati si commettono in un momento cosi prezioso per ottenere i favori più abbondanti! quante cose che rallegrano il demonio!… Se vi andassimo con buone disposizioni! Dobbiam dunque farci un obbligo di assistere alleprocessioni quante volte ci è possibile: seassolutamente non possiamo assistervi, dobbiamsupplirvi recitando tutte le preghiere che recitano coloro i quali hanno la fortunadi assistervi, e sforzarci di avere le sante disposizioni che la Chiesa comanda. – La prima disposizione è di penetrarci di quanto la Chiesa vuol raffigurarci in ogni processione. Non perdiamo mai di vista, F. M. che per piacere a Dio e meritare le sue grazie, bisogna adorarlo in ispirito e verità, perciò non dobbiamo accontentarci di essere presenti alle processioni solo col corpo. Un buon Cristiano deve entrare nello spirito di quanto la Chiesa vuol rappresentargli in tutte le cerimonie che fa. Bisogna che egli creda davvero che si trova alla presenza di Dio, che lo segue come facevano i primitivi fedeli nel corso della sua vita mortale: e deve venire in queste processioni solo per domandare misericordia, sensibilmente afflitto d’aver offeso un Dio così buono. – La seconda disposizione che il buon Dio vuole vedere in noi quando accompagniamo le processioni, è di camminare con molto ordine: perché basta una persona mal composta, per dare molte distrazioni alle altre. L’ordine consiste nell’andare con modestia, senza guardar dall’una e dall’altra parte, senza parlare, senza ridere: perché sarebbe un disprezzo della presenza di Dio e delle cose sante. – La terza disposizione è di unire le proprie preghiere a quelle che fa la santa Chiesa durante la processione: cioè dovete unirvi al Sacerdote, facendo con lui tutte le preghiere che si fanno. Se non sapete leggere, ebbene, dite il vostro rosario, unendo le vostre preghiere a quelle del Sacerdote e di tutti gli altri fedeli. Bisogna guardarsi bene dal non lasciar distrarre il nostro spirito dagli oggetti differenti che vediamo davanti a noi: ma bisogna abbassare un po’ gli occhi, perché il demonio non ci offra tante occasioni di distrarci. Prima di cominciare, bisogna domandare al buon Dio perdono dei nostri peccati, affinché egli faccia discendere la sua misericordia su di noi. Ahimè! da quanti anni assistiamo alle sante processioni, e ciononostante non siamo migliori di prima! Sapete, F. M., donde può venirci tale sventura? È perché non siamo giammai ben penetrati di quanto facciamo, e sempre lo abbiamo fatto per abitudine, per usanza, e non per ispirito di pietà e di amore. Sì, F. M., un buon Cristiano deve assistere alle preghiere ed a tutti gli esercizi di religione con gusto sempre nuovo, sempre con nuovo desiderio d’approfittarne meglio che non fece finora. Quale bontà da parte di Dio di sopportarci alla sua santa presenza e di permetterci di fare quanto fanno i santi in cielo! Quanto migliore sarebbe l’uomo qui sulla terra, se avesse la fortuna di conoscere la santa religione!

 Ma diciamo ora qualche parola sulla processione di S. Marco e su quella delle Rogazioni. Ascoltate bene: è molto interessante. Bisogna che sappiate chi le ha istituite, quando furono istituite, e perché furono istituite. Nell’anno 442 i terremoti furono così grandi, e gli abitanti di Vienna nel Delfinato ne furon così atterriti, che si credevano giunti alla fine del mondo. Ciò che li spaventò ancor più, fu il fuoco caduto dal cielo sul palazzo di città, e che lo ridusse in cenere con molte case vicine. Le belve feroci uscivano dalle foreste, e venivano ad assalire gli uomini persino nelle pubbliche piazze. Gli abitanti, tutti impauriti, accorsero in chiesa coi loro Vescovo, per salvarsi da questi mostri. San Mamerto, loro Vescovo, ordinò molte preghiere e penitenze; ed in seguito, per domandar a Dio la cessazione di questi mali, ordinò, tre giorni prima dell’Ascensione, processioni solenni e digiuni per placare la collera di Dio. Le altre chiese di Francia, e parecchie di altri paesi fecero altrettanto, ed in seguito queste processioni si diffusero in tutto il mondo cristiano. – Niente v’è più edificante del modo col quale allora si facevano queste processioni: vi si assisteva a piedi nudi, vestiti di cilicio e aspersi di cenere: si osservava un digiuno rigorosissimo durante i tre giorni: era proibito lavorare, perché si avesse maggior tempo per la preghiera: e tutto questo tempo era impiegato nel domandar perdono a Dio dei peccati, nel pregare per la conservazione dei frutti della terra, e pei bisogni dello Stato. Quanto alla processione di S. Marco, essa fu istituita dal papa san Gregorio Magno nel 590, in occasione di un’orribile calamità che travagliava Roma. Essendosi stagnate le acque del Tevere per molto tempo, dopo una furiosa inondazione, esse corruppero l’aria, causando una pestilenza crudele, che fece perire una moltitudine considerevole di persone, di ogni stato ed età. La processione ordinata da S. Gregorio Magno, si fece con tanta pietà, fervore e lagrime, che la peste cessò sul momento. La Chiesa, vedendo che i peccati si moltiplicavano sulla terra, e che il buon Dio li puniva rigorosamente, ordinò di continuar quelle sante processioni, per indurci a penitenza, placar la giustizia di Dio, e ottenere laconservazione dei frutti della terra, esposti per nove mesi dell’anno a mille pericoli. Queste processioni si chiamano Litanie maggiori e minori, parola questa che significa preghiera o supplicazione. Le litanie non erano al principio che grida raddoppiate che s’innalzavano al buon Dio domandando misericordia,con queste parole: Kyrie eleison. Di poi siaggiunsero i nomi della S. Vergine e dei Santi, per pregarli di interessarsi di noi presso il buon Dio. La Chiesa, dopo aver invocato il nome di Dio e implorata l’intercessione dei Santi, espone in queste litanie i mali da cui sisente oppressa, ed i beni dei quali abbisogna: scongiura labontà di Dio, per tutti i misteri di Gesù Cristo, e specialmente per la sua qualità d’Agnello e Vittima di Dio pei nostri peccati, che è il titolo più capace di placare la collera di Dio. Sì, queste litanie, queste processioni, la santa Messa e l’astinenza che la Chiesa ci prescrive in questi giorni, ci mostrano perfettamente quali sono le sue intenzioni.(L’astinenza è ancora prescritta per i tre giorni delle Rogazioni, ed i Vescovi non ne dispensano i loro diocesani che in virtù di un indulto, che debbono sollecitare da Roma.). Dobbiamo adunque, F . M., per conformarci alla sua intenzione, riguardar questi giorni come giorni consacrati alla preghiera, alla penitenza, ed alle altre opere buone: farci gran scrupolo di mancare alle processioni, ed assistervi con un esteriore modesto e raccolto, con cuore contrito e profondamente umiliato sotto la potente mano di Dio: considerando i nostri peccati ed i castighi che essi meritano. Animati da questi sentimenti, dobbiamo sollecitare con insistenza in nome di Gesù Cristo la divina misericordia per noi, pei nostri fratelli, per tutti i bisogni della Chiesa, pei bisogni dello Stato, e particolarmente per la conservazione dei beni della terra. Ma, ahimè! doveri così necessari, e fondati su motivi così interessanti, sono quasi interamente dimenticati: mentre certuni si veggono, continuamente alle fiere del mondo. (Le fiere sono feste mondane e chiassose, date in certe epoche dell’anno nella regione Lionese, e che durano due e perfino otto giorni. Spettacoli forestieri, balli pubblici, formano l’attrattiva ed il danno di queste feste.). Ecché! Se la Chiesa ci prescrive delle preghiere per quattro giorni, non ci sforzeremo di assistervi, poiché è solo per placare la collera di Dio, e stornare i mali che meritano i nostri peccati? Sapete, F. M., a che cosa ci invita la Chiesa quando ci chiama alle processioni? Eccolo. Vuol che lasciamo per alcuni momenti il lavoro della terra, per occuparci di quello della nostra salute. Qual fortuna, quale grazia lo sforzarci in qualche modo di salvar l’anima nostra! Mio Dio, qual dono! in quel momento facciamo quanto i santi fecero per tutta la lor vita. Ditemi, F. M., che cosa fece Gesù Cristo durante la sua vita? Non fece altro, che lavorare a salvarci. Ebbene! Ecco che cosa facciamo nei giorni di S. Marco e delle Rogazioni. Qual fortuna, lavorare in quel momento alla salvezza dell’ anima nostra! Ahimè! F. M., il buon Dio si contenta di poco, se confrontiamo ciò che meritano i nostri peccati, e quanto fecero i santi! Essi non si sono accontentati di alcuni giorni di digiuno, e di alcuni viaggi di devozione, né di alcuni giorni di astinenza: ma vedete quanti anni di lagrime e di penitenza per peccati in numero assai minori dei nostri! Vedete S. Ilarione, che pianse per ottant’anni in un deserto. Vedete S. Arsenio, che passò il resto di sua vita tra due rocce. Vedete S. Clemente che sopportò un martirio durato trentadue anni. Vedete ancora quelle turbe di martiri, che diedero la lor vita per assicurarsi la salvezza. Ne abbiamo un esempio ben sorprendente in santa Felicita, madre di sette figliuoli, che viveva sotto l’imperatore Antonino. I sacerdoti idolatri, vedendo come questa santa sapeva far uscire le persone dall’idolatria, dissero all’imperatore: “Noi crediamo, signore, doverti avvertire che v’è in Roma una vedova con sette figli, che appartiene all’empia setta detta dei Cristiani, i quali fanno voti sacrileghi che renderanno i vostri Dei implacabili.„ Sull’istante, l’imperatore ordina al prefetto di far venire questa vedova, di costringerla con ogni sorta di tormenti a sacrificare agli Dei; e, se rifiuta, di farla morire. Il prefetto, fattala venire, la pregò con bontà di abbandonar la sua empia religione, e di sacrificare agli Dei dell’impero, altrimenti l’imperatore aveva ordinato di farla morire. Ma Felicita gli rispose con santa fierezza: “Non sperate, o Publio, di guadagnarmi colle preghiere o colle minacce. Avete la scelta di lasciarmi vivere, o di farmi morire: ma siate sicuro di restar vinto da una donna. — “Ma, dissele il prefetto, se vuoi morire, muori: almeno non esser la causa della perdita de’ tuoi figli.„ — “I miei figli, perirebbero, se sacrificassero ai demoni, che sono i tuoi Dei: ma se muoiono per il vero Dio, vivranno eternamente.„ Ed il prefetto: “Abbi almeno pietà dei tuoi figli, che sono nel fior degli anni. „ — “Tenete la vostra compassione per altri; noi non ne vogliamo.„ Poi voltatasi ai figli che erano presenti: “Vedete, figli miei, quel cielo così bello e così alto; è là che Gesù Cristo vi aspetta per ricompensarvi: combattete generosamente, figli miei, per il gran Re del cielo e della terra. „ Fu percossa crudelmente in volto. Il prefetto fece venire il primo de’ suoi figli, chiamato Gennaro: non potendo vincerlo, lo fece crudelmente staffilare, poi condurre in prigione. Poscia si presentò Felice, che gli rispose: “No, prefetto, non ci farete rinunciare al nostro Dio per sacrificare al demonio: fateci sopportare i tormenti che vorrete, noi non li temiamo. „ Publio li fece passare tutti davanti al suo tribunale, senza nulla ottenere, ed all’ultimo ebbe questa apostrofe: ” Ahi prefetto, se sapessi le fiamme che ti sono preparate e che ti abbruceranno per tutta l’eternità! Ah! se tu sapessi quanto la giustizia di Dio è vicina a colpirti! Approfitta del tempo che il nostro Dio ti lascia ancora e pentiti. „ Niente avendo potuto guadagnarli, furono fatti morire tutti. Durante l’esecuzione, la madre li eccitava a soffrire generosamente per Gesù Cristo: “Coraggio, figli miei: vedete il cielo dove Gesù Cristo vi attende per ricompensarvi.„

Ecco, F. M., i santi che non avevano che un’anima da salvare, un Dio da servire al par di noi, eppure vedete che cosa hanno fatto. Non si accontentarono di alcune preghiere, come le facciamo noi per pochi minuti quando la Chiesa ci chiama a pregare: ma diedero coraggiosamente la vita per salvar la loro anima. – Termino, F . M., dicendo che dobbiamo provare gran piacere, gran gioia di assistere a tutte queste sante processioni che si fanno nel corso dell’anno. Procuriamo di venirvi con desiderio sincero di domandar misericordia. Procuriamo che giammai il rispetto umano o qualche minimo incomodo siano capaci di farci trasgredire la legge dell’astinenza e del digiuno. Fortunati, se adempiremo tutte queste piccole pratiche di pietà, il buon Dio ne resta soddisfatto…

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII “MIRÆ CARITATIS”

Questa stupenda lettera Enciclica di S. S. Leone XIII, che porta la data del giorno del Corpus Domini del 1902, è una catechesi sul Culto eucaristico, centro di tutta la Religione di Cristo, della Chiesa Cattolica, e principio di salute per i singoli Cristiani e per i popoli del mondo. Ben sapeva questo la “sinagoga di satana” infiltrata da tempo nella Chiesa sotto le sembianze di pia devozione e di una falsa santità da marrani, che giorno dopo giorno, ha lavorato incessantemente fino all’abolizione pressoché totale, almeno di quello apparente e libero, del Sacramento eucaristico, oggi praticato in gran segreto in anfratti e sottoscala, vere moderne catacombe, dai pochi Sacerdoti cattolici, validamente consacrati da Vescovi “veramente” cattolici, cioè consacrati nella pienezza dell’Ordine secondo la formula canonicamente valida del 1947, ed “una cum” il vero Santo Padre da cui hanno ricevuto Giurisdizione e missione. Oggi, è verità di fede ecclesiastica e divina, il culto eucaristico è sparito dalla comune visibilità e validità, secondo la profezia del profeta Daniele, e con modalità analoga alla scomparsa del fuoco sacro del Tempio di Gerusalemme al tempi dei Maccabei, e che gli ingannati e forse in buona fede presunti cattolici, prendono in modo sacrilego, semplice pane mai consacrato da falsi chierici, o il cui ordine è totalmente invalido (quelli ordinati dopo il 18 giugno del 1968, senza tonsura, né ordini minori), o che appartengono al modernismo eretico ed apostatico del c. d. Vaticano II, oppure, come ladri e briganti, appartengono a sette pseudo-tradizionaliste, come i “figliocci” del cavaliere kadosh di Lille, o ai tesisti eretico-scismatici, o a gruppuscoli sedevacantisti eretici, scismatici che mai hanno ricevuto né missione, né tantomeno giurisdizione da chicchessia. Come la Venerabile A. K. Emmerich vide profeticamente, è distribuito pane, pane e soltanto pane senza alcuna forma sacramentale. C’è poi un passaggio attualissimo nell’Enciclica – che fa pure menzione di S. Pasquale Baylon designato come protettore celeste dei congressi eucaristici – « … una gran parte del genere umano sembra proprio volere attirarsi sul capo l’ira celeste, sebbene i mali stessi che ci premono, ci mostrano chiaramente che il giusto castigo è già maturato … »: e cos’è questa se non la profezia dei tempi attuali, tempi di castighi maturati per l’empietà crescente di popoli, di chierici e fedeli, e della apostasia da essi attuata ed accettata ed in atto dal 28 ottobre del 1958?

Leone XIII


Miræ caritatis

Lettera EnciclicaÆ

La santa eucaristia

28 maggio 1902

È nostro altissimo dovere tenere sempre presenti e diligentemente imitare i luminosi esempi della carità ammirabile di Gesù Cristo per la salvezza degli uomini. Abbiamo cercato fino ad oggi di fare questo, col suo divino aiuto, e Ci studieremo di continuare a farlo, fino alla fine della Nostra vita, Costretti a vivere in tempi assai avversi alla verità e alla giustizia, per quanto dipendeva da Noi, con gli insegnamenti, con le ammonizioni, con gli atti, come ne fa fede anche l’ultima lettera apostolica a voi indirizzata, non abbiamo mai tralasciato nulla di quello che poteva servire meglio sia a dissipare il molteplice contagio degli errori, sia a rinvigorire la pratica della vita cristiana. Fra questi atti, ve ne sono due più recenti, fra loro strettamente connessi, la memoria dei quali Ci torna di opportuna consolazione, in mezzo a tante cause di amarezza. L’uno ebbe luogo quando stimammo bene che tutta la famiglia umana si consacrasse al Cuore augustissimo di Cristo redentore; l’altro quando esortammo seriamente tutti coloro che si professano cristiani ad unirsi a lui stesso, il quale è in modo divino “via, verità, vita” non soltanto per i singoli individui, ma anche per l’intera società. – Ora poi da questa medesima carità apostolica, che veglia sui bisogni della Chiesa, Ci sentiamo mossi e come spinti ad aggiungere a quei due atti già compiuti, qualche altra cosa, come a loro coronamento: a raccomandare cioè, quanto più possiamo, al popolo cristiano la santissima eucaristia, come quel divinissimo dono uscito dal fondo del Cuore del medesimo Redentore, ardentemente bramoso di unirsi con questo mezzo agli uomini, mezzo escogitato specialmente per elargire i salutari frutti della sua redenzione. Anche in questo campo Noi abbiamo già promosse e raccomandate diverse opere. Ricordiamo con gioia specialmente di avere approvato e arricchito di privilegi molti istituti e sodalizi, che sono addetti all’adorazione perpetua della Vittima divina; di aver curato che i congressi eucaristici fossero numerosi e fruttuosi come conviene; di avere ad essi e ad altre opere simili assegnato per protettore celeste san Pasquale Baylon, che si segnalò nella devozione e nel culto verso il mistero eucaristico.  – Perciò, venerabili fratelli, di questo stesso mistero – nella difesa e illustrazione del quale si adoperò costantemente sia la solerzia della chiesa, non senza preclare palme di martiri, sia lo zelo di uomini dottissimi ed eloquentissimi, sia anche il magistero delle nobili arti -, Ci piace ora rilevare alcuni aspetti, affinché in modo più vivo risplenda la sua efficacia, specialmente per recare in maniera notevolissima rimedio ai bisogni dei nostri tempi. In verità, poiché Cristo Signore, la vigilia della sua morte, ci lasciò questo attestato d’immensa carità verso gli uomini, e questo presidio massimo « per la vita del mondo » (Gv 6,52), Noi, cui resta poco da vivere, nulla possiamo desiderare di meglio, di quello che Ci sia dato d’eccitare negli animi di tutti e coltivare il dovuto affetto di gratitudine e di devozione verso quell’ammirabile sacramento nel quale giudichiamo basarsi in modo speciale la speranza e l’efficienza di quella salvezza e di quella pace che è il sospiro di tutti i cuori. – Questo Nostro pensiero, che al mondo, da ogni parte turbato e ridotto in così misera condizione, convenga provvedere principalmente con simili aiuti e rimedi, ad alcuni certamente farà meraviglia, e da altri sarà forse accolto con superbo disprezzo. Ma ciò viene soprattutto dalla superbia, vizio che, quando alligna negli animi, vi snerva necessariamente la fede cristiana, la quale esige un ossequio religiosissimo della mente, e vi addensa più scura la caligine intorno alle cose divine, così che a molti si addice quel detto: « Bestemmiano tutto ciò che non conoscono » (Gd 10). Noi però, invece di desistere per questo dal Nostro proposito, continuiamo, con più vivo ardore, ad illuminare i ben disposti e ad impetrare da Dio perdono, interponendovi la fraterna implorazione dei giusti, ai bestemmiatori delle cose sante.  Il conoscere con perfetta fede quale sia l’efficacia della santissima eucaristia, vale quanto conoscere quale sia l’opera che, a beneficio del genere umano, Dio fatto uomo compì con la sua potente misericordia, come e infatti ufficio della fede retta professare e adorare Cristo quale sommo fattore della nostra salute, che, con la sapienza, con le leggi, con le istituzioni, con gli esempi, con l’effusione del sangue, restaurò ogni cosa; così ad essa appartiene professarlo e adorarlo realmente presente nell’Eucaristia in modo che, verissimamente egli rimane tra gli uomini sino alla fine del mondo, e da maestro e pastore buono e intercessore accettissimo verso il Padre, dà personalmente agli uomini, in continua abbondanza, i benefici della redenzione operata. – Fra questi benefici poi provenienti dall’Eucaristia, chi attentamente e religiosamente considera, vedrà primeggiare e risplendere quello che tutti gli altri contiene: dall’Eucaristia cioè proviene agli uomini quella vita che è la vera vita; « Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo » (Gv 6,52). In più maniere, come abbiamo detto altra volta, Cristo è “vita”. Egli diede per motivo della sua venuta fra gli uomini il voler loro portare una sicura abbondanza di vita più che umana: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in sovrabbondanza” (Gv 10,10). E infatti appena sulla terra « apparve la benignità e l’amore del Salvatore Dio nostro » (Tt 3,4), nessuno ignora che subito eruppe una certa forza creatrice di un ordine affatto nuovo di cose, e s’infiltrò in tutte le vene della società domestica e civile. Di là nuovi vincoli tra uomo e uomo; nuovi diritti privati e pubblici; nuovi doveri; nuova direzione alle istituzioni, alle discipline, alle arti; e, ciò che più importa, gli animi e le cure degli uomini furono volti alla verità della religione e alla santità dei costumi, e anzi fu comunicata agli uomini una vita del tutto celeste e divina. A ciò infatti si riferiscono quelle espressioni così frequenti nelle divine Scritture: « legno di vita, verbo di vita, libro di vita, corona di vita”, e soprattutto “pane di vita ». – Ma poiché questa medesima vita, di cui parliamo, ha una evidente somiglianza con la vita naturale dell’uomo, come l’una si alimenta e vegeta col cibo, così bisogna che anche l’altra, con cibo suo proprio, si sostenti e si accresca. E qui cade a proposito il rammentare in qual tempo e in qual modo abbia Gesù Cristo mosso e indotto gli animi degli uomini a ricevere convenientemente e degnamente il pane vivo che stava per dare. Perché quando si sparse la fama dì quel prodigio che egli aveva operato sulla spiaggia di Tiberiade, moltiplicando i pani per saziare la moltitudine, subito molti accorsero a lui, per vedere se per avventura potesse a loro toccare un ugual beneficio. E Gesù, colta l’occasione, come quando, dall’attingere che fece la Samaritana l’acqua del pozzo, prese lo spunto per mettere in lei la sete dell’acqua « che zampillerà in vita eterna » (Gv 4,14), così allora sollevò le menti avide delle moltitudini a bramare anche più avidamente un altro pane « che dura per la vita eterna » (Gv 6, 27). Né già questo pane, insiste ammonendo Gesù, è quella manna celeste che fu apprestata ai padri vostri pellegrinanti per il deserto; e neppure è quello che voi stessi testé avete ricevuto da me con tanta meraviglia; ma io medesimo sono questo pane: « Io sono il pane di vita » (Gv 6,48). E la stessa cosa va sempre più insinuando a tutti, ora con gli inviti, ora coi precetti: « Chi mangerà di un tal pane, vivrà eternamente; e il pane che io darò è la mia carne per la salute del mondo » (Gv 6,52). Dimostra poi la gravità del precetto asserendo: « In verità, in verità vi dico: Se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo, e non berrete il mio sangue, non avrete in voi la vita » (Gv 6,54). – Si corregga perciò quel dannosissimo errore comune, che fa credere che l’uso dell’eucaristia si debba lasciare a quelle persone che, libere da impegni e di animo gretto, amano dedicarsi alla vita devota. Quella cosa, che fra tutte è la più eccellente e salutare, appartiene a tutti, qualunque sia il loro grado e il loro ufficio; appartiene a tutti quelli cioè che vogliono (e ognuno deve volerlo) alimentare in loro la vita della grazia divina, che conduce al conseguimento della vita beata in Dio. – E Dio volesse che della sempiterna vita rettamente pensassero e si prendessero cura principalmente coloro, i quali, o per ingegno o per industria o per autorità, tanto possono nella direzione delle cose temporali e terrene, Ma invece siamo costretti a vedere e a deplorare che molti fastosamente spacciano d’aver essi dato al mondo vita nuova e felice, perché lo spingono a correre ardentemente all’acquisto di tutte le comodità e di tutte le meraviglie. Ma intanto, ovunque si guardi, si vede la società umana, che, se è lontana da Dio, invece di godere l’agognata tranquillità, soffre e trepida come chi è agitato da smaniosa febbre; mentre cerca ansiosamente la prosperità e confida solo in essa, se la vede sfuggire dinanzi, e corre dietro ad un’ombra che si dilegua. Perché gli uomini e la società, come necessariamente provengono da Dio, così in nessun altro possono vivere, muoversi e fare qualche bene, se non in Dio, per mezzo di Gesù Cristo; dal quale derivò sempre e deriva quanto vi è di buono e di eletto. Ma la sorgente e il coronamento di tutti questi beni è soprattutto l’augusta eucaristia, la quale, come nutre e sostenta quella vita, che tanto ci sta a cuore, così accresce immensamente quella dignità umana, che oggi sembra tenersi in gran pregio. Qual cosa infatti è maggiore o più desiderabile che l’essere reso, per quanto è possibile, partecipe e consorte della divina natura? Or questo ci fa Gesù Cristo specialmente nell’eucaristia, nella quale, prendendo l’uomo già innalzato dalla grazia alle cose divine, più strettamente lo unisce e stringe a sé. La differenza tra il cibo del corpo e quello dell’anima, sta in questo, che il primo in noi si converte, il secondo ci converte in lui; perciò Agostino fa dire a Cristo medesimo: « Non tu muterai me in te, come il cibo della tua carne, ma tu stesso sarai mutato in me ». – Il grande progresso, che gli uomini fanno in ogni virtù soprannaturale, deriva da questo eccellentissimo Sacramento, nel quale specialmente appare come gli uomini vengono inseriti nella divina natura. E prima nella fede. In ogni tempo la fede ebbe avversari perché, sebbene con la cognizione di importantissime cose elevi le menti umane, tuttavia sembra deprimere le menti umane, perché nasconde l’intima qualità di quelle cose che mostrò essere di soprannaturale. Una volta si combatteva ora questo ora quell’articolo di fede; nei tempi moderni invece la guerra divampò in campo assai più vasto, e siamo ora al punto che assolutamente nulla si ammette di soprannaturale. Orbene a ristorare negli animi il vigore e il fervore della fede nulla è più atto che il mistero eucaristico, detto per eccellenza il “mistero di fede”; come quello nel quale tutte le cose soprannaturali, con una singolare abbondanza e varietà di miracoli, sono comprese: « Ha lasciato un ricordo delle sue meraviglie il Signore clemente e misericordioso; ha dato un cibo a quelli che lo temono » (Sal CX, 4-5). Perché, se tutto quello che Dio fece di soprannaturale, lo riferì all’incarnazione del Verbo, in virtù del quale si doveva riparare la salute del genere umano, secondo quel detto dell’apostolo: « Ha stabilito… di riunire in Cristo tutte le cose, e quelle che sono nei cieli, e quelle che sono in terra » (Ef 1, 9-10); l’eucarestia, per testimonianza dei santi padri, deve considerarsi come una continuazione e un ampliamento dell’incarnazione. Per essa infatti la sostanza del Verbo incarnato si unisce coi singoli uomini, e si rinnova mirabilmente il supremo sacrificio del Golgota, come preannunziò Malachia: « In ogni luogo si sacrifica e si offre al mio nome un’oblazione pura » (Mal 1,11). Questo miracolo, massimo nel suo genere, è accompagnato da innumerevoli altri, perché qui tutte le leggi della natura sono sospese; tutta la sostanza del pane e del vino si converte nel corpo e nel sangue di Cristo, le specie del pane e del vino, senza appoggio alcuno, sono sostenute dalla potenza divina; il corpo di Cristo si trova contemporaneamente in tutti quei luoghi nei quali si compie simultaneamente il sacramento. Affinché poi si faccia più intenso l’ossequio dell’umana ragione verso così grande mistero, vengono, come in aiuto, i prodigi fatti a gloria di esso, in antico, e anche a nostra memoria; dei quali in più luoghi vi sono pubblici e insigni monumenti. In questo Sacramento dunque vediamo alimentarsi la fede, nutrirsi la mente, sfatarsi le fisime dei razionalisti, e illustrarsi grandemente l’ordine soprannaturale. – Allo snervamento della fede nelle cose divine molto contribuisce non solo la superbia, come abbiamo detto, ma anche la depravazione dell’animo. Perciò, se avviene ordinariamente che quanto più uno è morigerato, tanto più è sveglio di mente, e che i piaceri sensuali annebbiano la mente; come riconobbe la stessa prudenza pagana, e la sapienza divina ci aveva già prima ammoniti (cf. Sap 1,4); assai più ciò si verifica nelle cose divine, perché le voluttà corporali oscurano il lume della fede, ed anche, per giusto castigo di Dio, totalmente l’estinguono. Di questi piaceri oggi arde una insaziabile cupidigia, che quasi morbo contagioso infetta tutti fin dalla più tenera età. Ma un eccellente rimedio a questo gravissimo male a nostra disposizione sempre nella divina eucaristia. Perché, prima di tutto, aumentando la carità, raffrena la libidine, secondo quanto dice Agostino: “II nutrimento di essa (della carità) è lo smorzamento della passione, e la sua perfezione è il freno della passione”. Inoltre la carne castissima di Gesù reprime l’insolenza della nostra carne, come ammonì Cirillo di Alessandria: « Cristo venendo in noi sopisce la legge che infuria nelle nostre membra ». È anche un singolare e giocondissimo frutto dell’eucaristia quello che è significato da quel detto profetico: « Qual è il buono di lui (Cristo), qual è il bello di lui, se non il frumento degli eletti e il vino che fa germogliare le vergini? » (Zc 9,17), cioè il forte e costante proposito della sacra verginità, il quale, anche in mezzo a un mondo che si stempera nella mollezza, di giorno in giorno più largamente nella chiesa cattolica fiorisce rigoglioso: e con grande vantaggio e decoro della religione e della stessa convivenza umana, come ognuno può constatare. – Si aggiunge che con questo sacramento mirabilmente si rinforza la speranza dei beni immortali e la fiducia nei divini aiuti, Aumenta infatti sempre più il desiderio della beatitudine, che in tutti gli animi è insito e innato, constatando la fallacia dei beni terrestri, la ingiusta violenza dei malvagi, e tutte le altre molestie dell’anima e del corpo. Ora l’augusto sacramento dell’Eucaristia è causa insieme e pegno della beatitudine e della gloria, e ciò non solo per l’anima, ma anche per il corpo. Perché nel tempo stesso che arricchisce gli animi con l’abbondanza dei beni celesti, li sparge anche di soavissime gioie, che di molto sorpassano ogni umana estimazione e speranza; sostenta nelle cose avverse, fortifica nella lotta della virtù, custodisce per la vita sempiterna, e ad essa conduce quasi apprestando il viatico. Similmente nel corpo caduco e labile ingenera la futura risurrezione, perché il corpo immortale di Cristo vi inserisce un seme d’immortalità, che un giorno dovrà germogliare. La chiesa ha sempre insegnato che questi due beni, uno per l’anima e l’altro per il corpo, provengono dall’eucaristia; lo ha sempre insegnato in ossequio alla parola di Cristo: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna; ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno » (Gv 6,55). – Torna qui opportuno e molto importa il considerare che l’eucaristia, essendo stata da Cristo istituita quasi “memoriale perenne della sua passione”, manifesti al cristiano la necessità della penitenza salutare. Gesù infatti a quei primi suoi sacerdoti disse: « Fate questo in memoria di me » (Lc. XXII, 19), cioè fate questo per commemorare i dolori, le amarezze, le angosce mie, la mia morte di croce. Perciò questo sacramento e insieme sacrificio è per tutti i tempi un’esortazione alla penitenza e ad ogni maggiore mortificazione, e insieme è una grave e severa condanna di quei piaceri, che uomini impudentissimi vanno tanto magnificando: « Tutte le volte che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore, nell’attesa della sua venuta » (1Cor XI, 26). – Oltre a ciò, se si cercano le cause dei mali presenti, si troverà Che esse procedono dal fatto che, raffreddandosi la carità verso Dio, anche la carità fra gli uomini venne a languire. Si sono essi dimenticati di essere figli di Dio e fratelli in Gesù Cristo; non curano se non ciascuno le cose proprie; le cose altrui non solo le trascurano, ma spesso le combattono e invadono. Quindi sorgono, fra le diverse classi di cittadini, frequenti turbolenze e contese: arroganza, durezza, frodi nei potenti; miserie, odi, scioperi nei sottomessi. A questi mali si aspetta invano il rimedio dalla provvidenza delle leggi, dal timore delle pene, dai consigli dell’umana prudenza. Bisogna procurare, con ogni sforzo, ciò che più volte Noi stessi abbiamo particolarmente inculcato, che cioè le classi dei cittadini si concilino tra di loro mediante uno scambio di buone opere che, derivate da Dio, siano informate al vero spirito e alla carità di Gesù Cristo. Cristo portò la carità sulla terra, di questa volle infiammata ogni cosa, perché essa sola potrebbe fin d’ora far gustare qualche saggio della beatitudine non solo all’anima, ma anche al corpo. La carità infatti reprime nell’uomo lo smodato amore di se stesso e frena l’avidità delle ricchezze, che “è la radice di tutti i mali” (1Tm 6,10). Sebbene poi sia giusto che tra le classi dei cittadini tutte le parti della giustizia siano convenientemente tutelate; pure, con gli aiuti e moderazioni suggeriti dalla carità, sarà dato di ottenere che nell’umana società “si faccia quell’uguaglianza” (2Cor VIII, 14), che raccomandava san Paolo, e che, una volta realizzata, la si conservi. Ecco ciò che intese Cristo nell’istituire questo augusto sacramento: eccitando l’amor di Dio, volle fomentare il mutuo amore fra gli uomini. Perché questo da quello, com’è chiaro, naturalmente deriva e spontaneamente si effonde: né potrà mai mancare in parte alcuna, anzi sarà necessario che cresca e divampi, quando si consideri la carità di Cristo verso gli uomini, in questo sacramento; nel quale, come magnificamente spiegò la sua potenza e sapienza, cosi « effuse le ricchezze del suo amore divino verso gli uomini ». Dopo questo insigne esempio di Cristo, che ci dona tutte le cose sue, quanto dobbiamo noi amarci e soccorrerci a vicenda, ogni giorno sempre più uniti da un legame fraterno! E si noti come anche i segni esteriori di questo sacramento sono opportunissimi incitamenti all’unione. A questo proposito san Cipriano dice: « Infine anche il sacrificio del Signore dichiara l’universale unione dei Cristiani fra di loro, e, con ferma e inseparabile carità, uniti a lui. Perché quando il Signore chiama suo corpo il pane, fatto con l’unione di molti grani, significa che il popolo nostro da lui condotto è un popolo riunito insieme, e quando suo sangue chiama il vino, che è spremuto da grappoli e acini moltissimi e fuso in uno, significa similmente che il nostro gregge è composto di una mista moltitudine raccolta insieme ». Così l’angelico dottore, ripetendo un pensiero di Agostino,dice: « II Signore nostro ci lasciò rappresentato il corpo e il sangue suo in quelle cose che da più si raccolgono in uno; perché l’una di esse, cioè il pane, è un tutto formato da più grani, l’altra, cioè il vino, è un tutto composto di più acini: perciò Agostino dice altrove; O sacramento di pietà, o segno di unità, o vincolo di carità! ». Tutte queste cose si confermano con la sentenza del Concilio Tridentino, che insegna « avere Cristo lasciato alla Chiesa l’Eucaristia come simbolo di quella unità e carità, con la quale volle che i cristiani fossero congiunti e uniti fra loro, … simbolo di quel corpo uno, di cui egli è il capo, e al quale volle che noi, come membra, fossimo uniti con strettissimo vincolo di fede, di speranza e di carità ». E questo aveva detto Paolo: “Siccome vi è un unico pane, noi, pur essendo molti, formiamo un sol corpo, comunicandoci col medesimo pane” (1Cor X, 17), Ed è davvero un bellissimo e festosissimo spettacolo di cristiana fratellanza e uguaglianza sociale, l’accorrere che fanno assieme, ai sacri altari, il patrizio e il popolano, il ricco e il povero, il dotto e l’ignorante, partecipando ugualmente al medesimo convito celeste. – Che se giustamente nei fasti della chiesa nascente si attribuisce a lode sua propria che « la moltitudine dei credenti formava un solo cuore e un’anima sola » (At IV, 32), certamente appare che questo gran bene essi dovevano alla frequenza della comunione eucaristica, perché leggiamo di loro; « Erano assidui alla istruzione degli apostoli, nell’unione, nello spezzare il pane » (At 2,42), – Inoltre la grazia della mutua carità fra i viventi, che tanta forza e incremento riceve dal Sacramento eucaristico, in virtù specialmente del sacrificio, si partecipa a tutti quelli che sono nella Comunione dei Santi. Poiché, come tutti sanno, la Comunione dei santi non è altro che una scambievole partecipazione di aiuto, di espiazione, di preghiere, di benefici, tra i fedeli, o trionfanti nella celeste patria, o penanti nel fuoco del purgatorio. o ancora pellegrinanti in terra, dai quali risulta una sola città, che ha Cristo per capo, e la carità per forma, Sappiamo poi dalla fede che, sebbene l’augusto sacrificio solo a Dio possa offrirsi, si può pure celebrare in onore dei santi che regnano in cielo con Dio, “che li ha coronati”, al fine di ottenere il loro patrocinio, e anche, come sappiamo dalla tradizione apostolica, per cancellare le macchie dei fratelli, che già morti nel Signore, non siano ancora interamente purificati.
Dunque quella sincera canta, che a salute e vantaggio di tutti, tutto suole fare e patire, scaturisce e divampa operosa dalla santissima Eucaristia, dov’è lo stesso Cristo vivente, dove allenta il freno al suo amore per noi, e spinto da un impeto di carità divina rinnova perpetuamente il suo sacrificio. Così facilmente appare donde abbiano avuto origine le ardue fatiche degli uomini apostolici, e donde tanti e sì svariati istituti di beneficenza, insieme con l’origine, traggono le forze, la costanza e i felici successi. – Queste poche cose in materia sì ampia non dubitiamo che torneranno utilissime al gregge cristiano, se per opera vostra, venerabili fratelli, saranno opportunamente esposte e raccomandate, Ma un Sacramento così grande ed efficace da ogni punto di vista non si potrà mai da nessuno né lodare, né venerare secondo il merito. Sia che esso si mediti, sia che devotamente si adori, sia ancora che con purezza e santamente si riceva, dev’essere considerato quale centro in cui tutta la vita cristiana si raccoglie: gli altri modi di pietà, quali che siano, tutti a questo conducono e in questo finiscono. E quel benigno invito e quella più benigna promessa di Cristo: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, ed io vi ristorerò” (Mt XI, 28), si compie specialmente in questo mistero e in esso si avvera ogni giorno. – Infine esso è ancora come l’anima della Chiesa, e ad esso la stessa ampiezza della grazia sacerdotale si dirige per i vari gradi degli ordini, La Chiesa di là attinge ed ha tutta la virtù e gloria sua, tutti gli ornamenti dei divini carismi, infine ogni bene: ed essa perciò pone ogni cura nel preparare e condurre gli animi dei fedeli ad una intima unione con Cristo mediante il Sacramento del corpo e sangue suo: e, con l’ornamento di cerimonie santissime, gli accresce la venerazione. La perpetua provvidenza di santa madre Chiesa, in questa parte, emerge chiarissima, principalmente da quella esortazione, che fu fatta nel sacro Concilio di Trento, spirante una certa carità e pietà mirabile, davvero degna di essere qui da Noi tutta intera ripresentata al popolo cristiano: “Con paterno affetto, ammonisce il santo sinodo, esorta, prega e scongiura, per la bontà misericordiosa del nostro Dio, che, tutti e Singoli, quelli che appartengono alla professione cristiana, in questo segno d’unità, in questo vincolo di carità, in questo simbolo di concordia finalmente una buona volta si uniscano e si accordino; e memori di tanta maestà e di tanto esimio amore di Gesù Cristo Signore nostro, che diede la diletta anima sua a prezzo della nostra salute, e la sua carne ci porse a mangiare: con tanta costanza e fermezza di fede, con tanta devozione e pietà e culto, di cuore credano e adorino questi sacri misteri del corpo e sangue di lui, affinché possano frequentemente ricevere questo pane soprasostanziale, ed esso sia veramente la vita dell’anima loro, e la perpetua sanità della mente, e confortati dal suo vigore, possano giungere, dalla via di questo misero pellegrinaggio, alla patria celeste, dove mangeranno senza alcun velo questo medesimo Pane degli angeli, che ora ricevono velatamente”. – La storia poi ci mostra che la vita cristiana allora fiorì più rigogliosa, quando fu più in uso l’accostarsi spesso a questo divin sacramento. Invece è manifesto che quando gli uomini avevano questo pane celeste in noncuranza e come in fastidio, a poco a poco veniva languendo il vigore della professione cristiana. Il quale affinché un giorno non si estinguesse del tutto, opportunamente provvide, nel Concilio Lateranense, Innocenzo III, gravissimamente ordinando che ogni cristiano dovesse comunicarsi almeno per Pasqua. È chiaro poi che questo precetto fu dato a malincuore, e come rimedio estremo; perché il desiderio della Chiesa fu sempre questo, che ad ogni Messa vi fossero alcuni partecipanti a questa divina mensa. « Bramerebbe il sacrosanto sinodo che, nelle singole Messe, i fedeli assistenti si comunicassero non solo spiritualmente ma anche col ricevere sacramentalmente l’Eucaristia, affinché potessero percepire in maggior abbondanza il frutto di questo santissimo sacrificio ». – Certamente una ricca abbondanza di salvezza, non solo per i singoli, ma per gli uomini tutti, ha in sé questo augustissimo mistero, in quanto è sacrificio; perciò dalla Chiesa suole assiduamente offrirsi “per la salute di tutto il mondo”, del quale sacrificio è conveniente che tutti i buoni si uniscano per diffondere la devozione e il culto, anzi questo è, ai giorni nostri, assolutamente necessario, E perciò vorremmo che le sue molteplici virtù fossero più largamente conosciute e più attentamente valutate. – Sono princìpi chiari, al solo lume naturale, che Dio creatore e conservatore ha un supremo e assoluto dominio sugli uomini, in privato e in pubblico; che quanto siamo e quanto abbiamo di bene, in privato e in pubblico, tutto ci viene dalla divina bontà; e che per conseguenza noi dobbiamo somma riverenza a Dio, come Signore, e massima gratitudine, come munifico benefattore. Ma quanti sono oggi coloro che apprezzano e osservano come e quanto dovrebbero questi doveri? Più di ogni altra, l’età nostra riottosa s’inalbera contro Dio, e fa risuonare di nuovo contro Cristo quella nefanda parola: « Non vogliamo che costui regni su di noi » (Lc. XIX, 14), e quel nefando proposito: « Facciamolo sparire! » (Ger XI, 19); né altro con maggior forza molti cercano, se non che Dio venga allontanato dalla società civile. E, sebbene non si giunga ovunque a tale eccesso di scellerata demenza, è però cosa lacrimevole vedere quanti vivono affatto dimentichi della divina Maestà e dei suoi benefìci, e specialmente della salvezza portataci da Gesù Cristo, Orbene questa sì grande nequizia, o infingardaggine che dir si voglia, bisogna che sia riparata con un aumento di ardore nella comune pietà del culto del sacrificio eucaristico, del quale nulla può tornare a Dio più onorevole, nulla più gradito. Poiché la Vittima che si immola è divina, ne consegue che tanto di onore all’augusta Trinità per lei si rende, quanto l’immensa dignità di questa ne esige; offriamo altresì al Padre un dono e per prezzo e per soavità infinito, quale è il suo Unigenito; e così non solo alla sua benignità porgiamo grazie, ma veniamo ad offrirle un vero ricambio,  – E un altro doppio insigne frutto si può e si deve ricavare da tanto Sacrificio. Si stringe il cuore al pensare quanta colluvie di peccati dappertutto dilaga, una volta trascurata, come dicemmo, e disprezzata l’autorità di Dio. Una gran parte del genere umano sembra proprio volere attirarsi sul capo l’ira celeste, sebbene i mali stessi che ci premono, ci mostrano chiaramente che il giusto castigo è già maturato. Bisogna dunque eccitare i fedeli anche a questo; che piamente gareggino nel placare Dio, giusto giudice, e nell’implorarne gli opportuni aiuti al mondo pieno di calamità. Or queste cose, s’intenda bene, si devono ottenere principalmente per mezzo di questo sacrificio. – Ché il soddisfare abbondantemente alla giustizia di Dio e l’impetrare largamente i doni della sua clemenza, non può altrimenti farsi dagli uomini se non in virtù della morte sofferta da Gesù Cristo. Ma questa stessa virtù, sia d’espiare sia d’impetrare, volle Cristo che tutta intera restasse nell’Eucaristia, la quale non è una vuota e semplice memoria della sua morte, ma ne è una vera e mirabile, sebbene incruenta e mistica, rinnovazione. Per altro, non poco Ci rallegra, e lo palesiamo volentieri, che in questi ultimi anni si noti nei fedeli un certo risveglio dell’amore e dell’ossequio verso il Sacramento eucaristico; donde prendiamo augurio e speranza di tempi e cose migliori, Molte infatti e varie cose di questo genere, come da principio dicemmo, furono dalla solerte pietà introdotte, specialmente sodalizi, sia per accrescere lo splendore del culto eucaristico, sia per l’adorazione perpetua dell’augustissimo sacramento, sia per la riparazione delle ingiurie e contumelie che gli si fanno. In queste cose però, venerabili fratelli, non dobbiamo fermarci, né Noi, né voi; perché troppe altre ne restano da promuovere o da intraprendere, affinché questo divinissimo dono, presso quei medesimi che adempiono i doveri della Religione cristiana, sia posto in quella luce e in quell’onore che merita, e un mistero così grande sia venerato il più degnamente possibile.
Questo perché le Opere già avviate si hanno da condurre sempre più innanzi; le antiche istituzioni, se in qualche luogo andarono in disuso, si devono richiamare in vigore, come sono ad esempio i sodalizi eucaristici, le preghiere delle Quarantore, le solenni processioni, le visite al Santissimo Sacramento nel tabernacolo, e altre simili pratiche molto salutari; e di più s’ha da intraprendere tutto quello che la prudenza e la pietà potranno suggerire a questo proposito. Ma soprattutto bisogna adoperarsi perché rifiorisca, in ogni parte del mondo cattolico, la frequenza alla mensa eucaristica. Questo ci dicono i sopra allegati esempi della Chiesa nascente; questo i decreti dei condii, questo l’autorità dei padri e dei santi di tutti i secoli: perché come il corpo, così l’anima spesso abbisogna del proprio cibo, or l’alimento più vitale è fornito appunto dal Sacramento dell’Eucarestia. Perciò bisogna togliere del tutto certi pregiudizi degli avversari, certi vani timori di molti, certi pretesti per astenersene: si tratta di cosa della quale nessun’altra è più vantaggiosa ai fedeli, sia per redimere il tempo dalle troppe sollecitudini terrene, sia per risvegliare lo spirito cristiano e costantemente mantenerlo, Ad ottenere questo saranno di grande aiuto le esortazioni e gli esempi delle classi più ragguardevoli, e soprattutto la solerzia e l’industria del clero. Poiché i Sacerdoti, ai quali Cristo redentore affidò l’ufficio di celebrare e dispensare i misteri del corpo e sangue suo, non possono meglio ripagarlo del sommo onore ricevuto, che col promuovere con ogni diligenza, la sua eucaristica gloria, e con l’invitare e condurre, secondando cosi i desideri del suo sacratissimo Cuore, tutte le anime alle salutari sorgenti di un cosi grande sacramento e sacrificio. – In tale modo avverrà, ciò che grandemente bramiamo, che gli eccellenti frutti dell’Eucaristia si percepiscano sempre più abbondanti ogni giorno, mediante il felice aumento della fede, della speranza, della carità e d’ogni cristiana virtù, Ciò tornerà pure a vantaggio dello Stato: sempre più si manifesteranno i disegni della provvidentissima carità del Signore, che un tale mistero stabilì in perpetuo “per la vita del mondo”.

Con questa speranza, venerabili fratelli, a pegno dei doni divini e a testimonianza della Nostra carità, a tutti voi, al vostro clero, e al popolo, impartiamo con grande affetto la benedizione apostolica.

Roma, presso San Pietro, il giorno 28 maggio, vigilia della solennità del Corpo di Cristo, dell’anno 1902, anno XXV del nostro pontificato.

DOMENICA V DOPO PASQUA (2020)

DOMENICA V DOPO PASQUA (2020)

Semidoppio. Paramenti- bianchi.

La liturgia continua a cantare il Cristo risorto e ci invita, in questa settimana delle Rogazioni, ad unirci a quella preghiera con la quale il Salvatore ha chiesto a Dio di far partecipe, con l’Ascensione, la propria umanità di quella gloria che, come Dio, possiede fin dall’eternità (Off.). Anche noi possederemo un giorno questa gloria, poiché ci ha liberati dal peccato con la virtù del Suo Sangue (Intr., Comm.). Poiché Gesù Cristo partendosi da noi ci ha lasciato come consolazione « di poter pregare in nome suo, onde la nostra gioia sia perfetta », cosi domandiamo a Dio « per nostro Signore » di non rimanere senza frutto nella conoscenza di Gesù, affinché, credendo alla sua generazione da parte del Padre, (Vang.) noi meritiamo di entrare con lui nel Regno di suo Padre.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Isa. XLVIII: 20

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiate usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja.

[Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

Ps LXV: 1-2 Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus. 

[Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: dà a Lui lode di gloria].

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiáte usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja

[Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

 Orémus.

Deus, a quo bona cuncta procédunt, largíre supplícibus tuis: ut cogitémus, te inspiránte, quæ recta sunt; et, te gubernánte, éadem faciámus.

[O Dio, da cui procede ogni bene, concedi a noi súpplici di pensare, per tua ispirazione, le cose che son giuste; e, sotto la tua direzione, di compierle.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli.

Jac. I: 22-27

Caríssimi: Estóte factóres verbi, et non auditóres tantum: falléntes vosmetípsos. Quia si quis audítor est verbi et non factor: hic comparábitur viro consideránti vultum nativitátis suæ in spéculo: considerávit enim se et ábiit, et statim oblítus est, qualis fúerit. Qui autem perspéxerit in legem perfectam libertátis et permánserit in ea, non audítor obliviósus factus, sed factor óperis: hic beátus in facto suo erit. Si quis autem putat se religiósum esse, non refrénans linguam suam, sed sedúcens cor suum, hujus vana est relígio. Relígio munda et immaculáta apud Deum et Patrem hæc est: Visitáre pupíllos et viduas in tribulatióne eórum, et immaculátum se custodíre ab hoc sæculo

Omelia I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

LE BUONE OPERE

“Carissimi: Siate osservanti della parola, e non uditori soltanto, che ingannereste voi stessi. Perché se uno ascolta la parola e non l’osserva, egli rassomiglia a un uomo che contempla nello specchio il suo volto naturale. Contemplato, se ne va, e subito dimentica come era. Ma chi guarda attentamente nella legge perfetta della libertà, e persevera in essa, diventando non un uditore smemorato, ma un operatore di fatti, questi sarà felice nel suo operare. – Se alcuno crede d’essere religioso, e non frena la propria lingua, costui seduce il proprio cuore, e la sua religione è vana. Religione pura e senza macchia dinanzi a Dio e al Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni, e conservarsi incontaminati da questo mondo”. (Giac. 1, 22-27).

L’Epistola di quest’oggi è una continuazione di quella della domenica scorsa. S. Giacomo aveva insegnato che si deve accogliere con mansuetudine la parola di Dio. Ora insegna che questa parola bisogna metterla in pratica. Con il paragone di chi si presenta allo specchio, e se ne ritorna come prima, dice che chi conosce la dottrina cristiana e non la fa seguire dalle buone opere, fa cosa inutile: egli rimane come era prima che udisse la predicazione del Vangelo. Al contrario, sarà beato colui che, oltre considerare attentamente la dottrina del Vangelo, la fa seguire dalle buone opere. Indica, poi, alcune di queste buone opere, come: l’astenersi dalla mormorazione e l’esercizio della carità. Tutti dobbiamo essere persuasi della necessità delle buone opere, poiché, senza le buone opere:

1. Inganniamo noi stessi,

2. Ci burliamo della parola di Dio,

3. Non pratichiamo la vera religione.

1.

Siate osservanti della parola, e non uditori soltanto, che ingannereste voi stessi. Con queste parole San Giacomo vuol dire che s’inganna fortemente chi crede che ei possa andar salvi con la sola fede, senza darsi cura di conformare agli insegnamenti della fede la propria condotta. La fede è la base e il principio della nostra salvezza. Senza la fede non perverremo alla vita eterna; ma la Sacra Scrittura ci dice ripetutamente che non deve essere una fede morta; cioè, disgiunta dalle buone opere.S. Giovanni ci insegna che per arrivare alla vita eterna dobbiamo avere la cognizione del vero Dio e dell’unico Salvatore e Mediatore Gesù. « La vita eterna è questa, che conoscono te, solo vero Dio, e Gesù Cristo, mandato da te » (Giov. XVII, 13) ; ma ci insegna anche che « da questo sappiamo se lo abbiamo conosciuto, se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice che lo conosce e non osserva i suoi comandamenti è bugiardo » (1 Giov. II, 3-4). Chi non pratica le opere prescritte non ha, dunque, una conoscenza conveniente di Dio, e la sua fede, essendo una fede morta, non gli giova per la salute eterna. Gesù Cristo ci parla ancor più chiaramente: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli; ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Matt. VII, 21). E continua: « Adunque, chi ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà paragonato a un uomo avveduto che si è fabbricata la casa sulla pietra … E chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica sarà paragonato allo stolto che si è fabbricata la casa sulla rena » (Matt. VII, 24 …26). Come è destinata alla rovina una casa senza fondamento, così, non sfuggiranno alla rovina irreparabile coloro che, sul saldo fondamento che è la fede in Gesù Cristo, non costruiscono l’edificio delle loro opere; cioè, non adattano la loro vita agli insegnamenti che derivano dalla fede in Gesù Cristo. « Perché— dice Egli di costoro — mi chiamate, Signore, Signore, e poi non fate quello che vi dico? » (Luc. VI, 46). Del resto, basta un po’ di buon senso per capire come s’ingannino coloro che credono di arrivare alla vita eterna senza le buone opere, se si considera che l’eterna felicità è data da Dio in premio a quelli che qui sulla terra lo hanno servito. Nella parabola della vigna, venuta la sera, il padrone dice al suo procuratore: « Chiama i lavoratori e paga ad essi la mercede» (Matt. XX, 8). La mercede è data alla fine del giorno, come prescriveva la legge: ma è data a quei che hanno lavorato. Nessun di quei che hanno ricevuto la mercede si era rifiutato di seguire l’invito del padrone che lo chiamava al lavoro. Chi avesse preferito rimanere sulla piazza ozioso, non avrebbe ricevuto la mercede. Alla fine della nostra vita verrà data l’eterna ricompensa a coloro, che, assecondando la grazia di Dio, avranno lavorato a servirlo; ma dall’eterna ricompensa resteranno necessariamente esclusi quelli che si rifiutano di lavorare per il Signore. Il Paradiso non è per i poltroni.

2.

S. Giacomo con una bella similitudine dice che chi ascolta la parola del Signore e non la mette in pratica rassomiglia a un uomo che contempla nello specchio il suo volto naturale. Contemplatosi, se ne va, e subito dimentica come era». Colui che si porta davanti allo specchio per osservare com’è il suo volto, e poi non si cura di far scomparire le macchie che vi ha notato, fa opera per lo meno vana. Lo stesso fa colui che si accontenta di udire la parola del Vangelo, ma non si cura per nulla di metterla in pratica.« La misericordia del Signore — dice San Leone M.— nei suoi comandamenti ci ha dato un magnifico specchio nel quale l’uomo possa riflettere l’interno della sua mente» (Serm. 49, 4). Che serve aver davanti alla mente, come in uno specchio, i doveri cui il Cristiano deve attendere, e poi, di questi doveri non curarsi per nulla? E non può neppur scusarsi il Cristiano che assicura di non compiere opere cattive nella sua vita. « Poiché non operare il bene è già un far male. Dimmi, infatti, se tu avessi un servo che non rubi, non offenda, non contraddica, si astenga dell’ubriachezza e da tutto il resto, e stia continuamente seduto in ozio, e non compia nulla di quello che un servo deve fare per il suo padrone, non lo puniresti? » (S. Giov. Cris. In Epist. ad Eph. Hom. 16, 1). Il meno che si possa dire di lui è che sia un servo inutile, che si burla della volontà del padrone. Parimenti è inutile la vita del Cristiano, che non prende sul serio la parola di Dio, cercando di conformarvi la propria condotta. Ogni Cristiano è un albero piantato da Gesù Cristo nella sua vigna, la Chiesa. La grazia dei Sacramenti, la parola di Dio, le ispirazioni, tendono a rendere fruttifero questo albero. Ma, sgraziatamente, tante volte i frutti non si vedono. Troverai foglie, fronde; indarno, però, cercheresti qualche cosa di più sodo. Un po’ di apparenza, un po’ di religiosità superficiale; ma virtù soda, provata, non la trovi. Che giudizio dare di quest’albero? Quello che ha dato Gesù del fico in fruttifero: albero che ingombra il terreno (Luc. XIII,7). La parola di Dio deve produrre qualche cosa di più che una apparenza esteriore e ingombrante. Qualche atto religioso, l’assistenza alla Messa festiva, l’intervento a qualche solennità fanno credere a certuni d’essere religiosi nel pieno senso della parola. Ma se chi si esercita in queste opere, trascura gli altri obblighi imposti dal Vangelo non sfugge alla condanna che dà San Giacomo: La sua religione è vana. Qualche atto religioso non vuol dir tutta la Religione. L’ascoltar la parola di Dio in qualche caso, e nel resto non curarla, è un disprezzarla tutta.

3.

Religione pura e senza macchia dinanzi a Dio e al Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni, è conservarsi incontaminati da questo mondo. San Giacomo nomina in particolare il soccorso che si deve dare ai pupilli e alle vedove, perché sono le due classi di persone, generalmente, più bisognose. Ma è chiaro che le sue parole vanno oltre queste due classi di persone, e si estendono a tutti i nostri fratelli, chiunque essi siano, che hanno bisogno dell’opera nostra. Come è chiaro che l’opera nostra non deve limitarsi alle visite, ma esplicarsi per mezzo di tutti gli aiuti spirituali e materiali di cui il prossimo ha bisogno. E qui abbiamo davanti un campo vastissimo in cui tutti possiam operare, ciascuno secondo le proprie condizioni. Se ci rifiutiamo, non facciamo certamente onore alla nostra religione. Se la religione importa doveri verso il prossimo, importa principalmente doveri verso Dio. Il Cristiano che non volesse compiere questi doveri non può piacere a Dio, e la sua religione non è senza macchia all’occhio di Lui. Al compimento dei propri doveri verso Dio si oppone il mondo; e i Cristiani che vogliono servire a Dio in una religione pura e senza macchia devono conservarsi incontaminati da questo mondo. Chi non segue il mondo segue necessariamente Dio. Chi odia il mondo ama il Signore, lo prega, celebra le sue lodi, venera il suo nome, santifica i suoi giorni, fa ammenda delle offese che gli ha recato, e si adopera, per quanto sta in lui, di farlo amare anche dagli altri. Chi non segue la volontà del mondo, segue la volontà di Dio. La segue quando prescrive il distacco da quanto ci è caro, la segue quando ci prescrive azioni a cui la nostra indolenza vorrebbe sottrarci. La segue, anche se il mondo disapprova e ostacola. Chi non si accontenta di sapere a mente gli insegnamenti della Religione, ma cerca di fare quanto ha imparato, accumulerà di giorno in giorno un tesoro di buone opere che lo faranno accetto a Dio, e gli renderanno calmo e sereno il passaggio da questa all’altra vita. La mattina del 27 Agosto 1942 il Beato Cafasso venne chiamato al letto d’una giovane signora, gravemente inferma. Vi si era già recato altre volte, ma n’era stato corrisposto in malo modo dall’ammalata. Questa, fuggita giovanissima dalla casa paterna, aveva corse tutte le vie del vizio, rimanendone vittima. E ora, a 33 anni, perduti onore, roba e sanità, stava per perdere la vita del corpo e quella dell’anima. Questa volta l’inferma, per la cui conversione si era celebrata la Messa all’altare del Sacro Cuore di Maria, riceve il Beato, e, con la più grande spontaneità, fa la sua confessione tra le lagrime. Nell’amaro rimpianto di aver speso così male i suoi begli anni, fu udita più volte esclamare con tono accorato e pietoso: « Oh, aver da morir così giovane! Povera figliuola sacrificata dal mondo! E morire, senza poter contare un giorno, anche solo, in tutti i miei anni di gioventù ! » (Il Beato Cafasso – Istituto della Consolata – Torino, 1925, p. 30 segg.). Se non ci scorderemo che è una vera pazzia affannarsi col mondo nel godimento di beni esterni, e rimaner digiuni dei beni interni; se terremo ben fisso nella mente che « non coloro che sentono parlare della legge sono giusti davanti a Dio, ma saranno riconosciuti giusti quelli che praticano la legge » (Rom. II, 13), quando sarà giunta l’ultima ora potremo contare tanti bei giorni; potremo contare al nostro attivo tutti quei giorni in cui avremo fatto del bene dinanzi a Dio. Chi si mette in viaggio per una lontana meta, porta con sé il suo bagaglio, o, meglio, lo manda innanzi. Noi siamo in viaggio per la beata eternità. Non vi potremo, però, entrare senza il bagaglio delle buone opere. « Nessuno — dice Agostino — si vanti di potervi abitare, se, mentre dice di essere servo di Dio, è privo di buone opere… Nessuno quivi abita se non mediante le sue opere… Le tue opere, dunque, ti precedano » (En. 2 in Ps. CI, 15).

Alleluja

Allelúja, allelúja.

Surréxit Christus, et illúxit nobis, quos rédemit sánguine suo. Allelúja.

[Il Cristo è risuscitato e ha fatto sorgere la sua luce su di noi, che siamo redenti dal suo sangue. Allelúia.]

Joannes XVI: 28 Exívi a Patre, et veni in mundum: íterum relínquo mundum, et vado ad Patrem. Allelúja.

[Uscii dal Padre e venni nel mondo: ora lascio il mondo e ritorno al Padre. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem. 

Joann XVI:23-30

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Amen, amen, dico vobis: si quid petiéritis Patrem in nómine meo, dabit vobis. Usque modo non petístis quidquam in nómine meo: Pétite, et accipiétis, ut gáudium vestrum sit plenum. Hæc in provérbiis locútus sum vobis. Venit hora, cum jam non in provérbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiábo vobis. In illo die in nómine meo petétis: et non dico vobis, quia ego rogábo Patrem de vobis: ipse enim Pater amat vos, quia vos me amástis, et credidístis quia ego a Deo exívi. Exívi a Patre et veni in mundum: íterum relínquo mundum et vado ad Patrem. Dicunt ei discípuli ejus: Ecce, nunc palam loquéris et provérbium nullum dicis. Nunc scimus, quia scis ómnia et non opus est tibi, ut quis te intérroget: in hoc crédimus, quia a Deo exísti.

[“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: In verità in verità vi dico, che qualunque cosa domandiate al Padre nel nome mio, ve lo concederà. Fino adesso non avete chiesto cosa nel nome mio: chiedete, e otterrete, affinché il vostro gaudio sia compito. Ho detto a voi queste cose per via di proverbi. Ma viene il tempo che non vi parlerò più per via di proverbi, ma apertamente vi favellerò intorno al Padre. In quel giorno chiederete nel nome mio: e non vi dico che pregherò io il Padre per voi; imperocché lo stesso Padre vi ama, perché avete amato me, e avete creduto che sono uscito dal Padre. Uscii dal Padre, e venni al mondo: abbandono di nuovo il mondo, e vo al Padre. Gli dissero i suoi discepoli: Ecco che ora parli chiaramente, e non fai uso d’alcun proverbio. Adesso conosciamo che tu sai tutto, e non hai bisogno che alcuno t’interroghi: per questo noi crediamo che tu sei venuto da Dio”].

Omelia II

[M. Billot, Discorsi parrocchiali, II ediz. S. Cioffi ed. Napoli, 1840 – impr. ]

Sopra la Preghiera.

“Si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis.” [Jo. XVI].

Si ricerca egli di più, fratelli miei, per renderci prezioso il santo esercizio della preghiera? Se un principe della terra egualmente potente e benefico ci desse la stessa sicurezza, qual sarebbe nostra premura a profittare delle più favorevoli disposizioni a nostro riguardo? Donde avviene dunque che sempre così poveri, così deboli, così oppressi dalle miserie, non ostante la promessa fattaci qui da Gesù Cristo? Nulla vi ha che il cielo non accordi ad una fervida e cristiana preghiera e nulladimeno siamo sempre privi di grazia e di virtù. Ah! non è veramente difficile scoprire la cagione della nostra indigenza; essa si è che o non preghiamo, o se pure preghiamo le nostre preghiere non sono grate a Dio, né conseguentemente a noi vantaggiose. Non preghiamo perché non siamo convinti della necessità e dei vantaggi della preghiera; le nostre preghiere non sono grate a Dio perché esse non sono accompagnate dalle necessarie condizioni. Dobbiamo dunque meravigliarci se siamo infelici? Sa viver bene, dice s. Agostino, chi sa ben pregare. A che dunque stupirci se si vive male, giacché o non si prega o si prega male. Voglio perciò insegnarvi oggi a pregar bene, fratelli miei, affinché viviate bene. Per coloro che punto non pregano, io dimostrerò la necessità e i vantaggi della preghiera, e per coloro che pregano male, insegnerò loro le condizioni della preghiera. Questa materia è di somma importanza, perché riguarda ogni persona, di qualunque grado ella sia, perciocché non v è alcuno che non possa pregare e non ne abbia di bisogno. Ed appunto per animare il vostro zelo per questo santo esercizio, la Chiesa santa consacra questa settimana alle pubbliche preghiere ch’ella indirizza al cielo per i bisogni dei suoi figliuoli: e perciò questa si chiama settimana delle Rogazioni, cioè delle preghiere. Per uniformarmi allo spirito della Chiesa voglio ragionarvi della preghiera e delle sue qualità. Si deve pregare, primo punto; come si deve pregare, secondo punto. Obbligazione di pregare riguardo a coloro che non pregano. Condizioni della preghiera per coloro che pregano male. Chiediamo a Dio, ad imitazione degli Apostoli, la grazia di ben pregare. Domine, doce nos orare.

I. Punto. Necessità e vantaggi della preghiera.

Benché Iddio possa dispensare agli uomini i suoi doni indipendentemente dalle loro preghiere, nulla di meno nell’ordinario corso della provvidenza Egli esige in essi, certe disposizioni senza le quali non concede loro quelle grazie di cui hanno bisogno. Egli è ben vero che queste prime disposizioni dell’uomo sono già un effetto della “grazia preveniente” che incomincia in noi l’opera buona per ridurla quindi a perfezione. Ma Egli è certo ancora che noi dobbiamo cooperare a questa prima grazia che ci vien data da Dio, se vogliamo ottenere grazie ulteriori che riducano a compimento la grand’opera della nostra santificazione. Dobbiamo dunque esporre a Dio la nostra miseria se vogliam provare i soavi effetti della sua misericordia: s’Egli si degna di abbassarsi sino a noi per dar sollievo ai nostri mali, noi dobbiamo innalzarci a Lui per mezzo di fervorose preghiere, per meritare i suoi favori. In una parola, fratelli miei, Iddio vuole che noi lo preghiamo, ce lo comanda espressamente; e quando ancora non cel comandasse, il nostro proprio bisogno ci forzerebbe a pregarlo; questi sono i due fondamenti sui quali è appoggiata l’obbligazione della preghiera.Si, fratelli miei, Dio vuole che noilo preghiamo e gli domandiamo quanto ci è necessario. Vuole Egli con questo mezzo farsi riconoscere per Autore di tutti i nostri beni e farci conoscere la nostra dipendenza. Imperciocché se Dio accordasse all’uomo tutto ciò che gli è necessario senza essere pregato, l’uomo che già è cosi inclinato ad attribuire a sé stesso il bene che gli vien da Dio, molto maggiormente se l’attribuirebbe se gli venisse senza averlo domandato, e crederebbe essergli dovuto e non potersi a lui ricusare. Si deve dunque molto ammirare la sapienza di Dio, che comanda all’uomo di chiedergli ciò che gli fa duopo, imperciocché l’uomo pregando riconosce che tutto vien da Dio, gli rende omaggio, e riconosce la propria dipendenza quando ricorre a Lui colla preghiera: e perciò Gesù Cristo espressamente ci dice nel Vangelo, chiedete e riceverete, picchiate e vi sarà aperto: Petite et accipietis, pulsate et aperietur vobis (Luc. XI). Gli sta tanto a cuore l’osservanza di questo precetto ch’Egli vuole che si pratichi continuamente. Bisogna, dice Egli, pregare senza cessare giammai. Oportet. semper orare et non deficere (Luc. XVIII). Egli non ci comanda di digiunar sempre, di far sempre limosina, perché ciò non è in nostro potere, ma ci comanda di sempre pregare, perché sempre far lo possiamo. Imperciocché che cosa si ricerca per questo? Basta avere la mente e il cuore sempre elevato a Dio ed unito con Lui. Ammiriamo qui, fratelli miei, la bontà di Dio verso l’uomo. È già molto chei grandi del mondo, i principi della terra permettano che lor venga domandata qualche grazia, ma non Io comandano espressamente, e neppure sono visibili in ogni tempo e ad ogni sorta di persone. Ora non solamente Iddio ci permette d’indirizzarci a Lui, anzi vuole e ci comanda che conversiamo con Lui per mezzo della preghiera. Che cosa è l’uomo, o mio Dio, che vi degnatedi pensare a Lui? Come! diceva già Abramo, come! io parlerò al mio Dio, io che non son che terra e cenere? Loquar ad Dominum cum sim pulvis, et cinis (Gen. XVIII)? M’intratterrò con quella suprema maestà avanti a cui tutte le grandezze della terra sono un nulla! Come? un sì grande onore non basterà a farci amare il santo esercizio della preghiera? Se potessero indirizzarsi a Dio solamente i grandi della terra, i potenti del secolo, se Egli permettesse di accostarsi al suo trono solamente in certi tempi, solamente alle anime giuste, ai santi, forse sarebbe degna di scusa la negligenza vostra a pregare; ma a tutti questo è permesso, ai grandi e ai piccoli, ai ricchi e ai poveri, ai dotti e agli ignoranti, ai giusti e ai peccatori; ed in ogni tempo Iddio permette di pregarlo, anzi lo comanda espressamente, imperciocché in ogni tempo da Lui dipendiamo, in ogni tempo dobbiamo sperare in Lui e desiderare di possederlo. Ora la preghiera è un atto di speranza nella bontà di Dio, è un desiderio del nostro ultimo fine. Siccome dobbiamo sempre desiderare la nostra eterna felicità, dice S. Agostino, dobbiamo sempre pregare. Oportet semper orare et non deficere (Luc. XVIII). – Oltre il comando che Dio ci fa di pregarlo, a ciò ci spingono i nostri propri bisogni: se provate qualche difficoltà in adempiere questo precetto, forse vi moveranno i vostri veri interessi. Dio vuol salvi tutti gli uomini, ma niuno può salvarsi senza la grazia di Dio. L’uomo non è che tenebre, debolezza, miseria e povertà: egli è si cieco che non conosce la sua vera felicità; sì debole che non può fare un sol passo per arrivarvi; è un terreno così sterile che non può produrre da se stesso un solo buon pensiero per la salute, dice s. Paolo, Non quod sufficientes simus cogitare aliquid ex nobis, quasi ex nobis (2 Cor. 3). Tutto il suo potere, tutta la sua forza vien da Dio, soggiunge il santo Apostolo: sufficientia nostra ex Deo est. Egli ha dunque bisogno della grazia per salvarsi; senza la grazia non v’è salute. Ma sotto qual condizione promette Iddio e dà la sua grazia all’uomo? Egli vuole accordarla alla preghiera; togliete questa condizione, Iddio può, senza mancare alla sua parola, ricusarci la sua grazia: se dunque è necessaria la grazia per salvarsi, altrettanto è necessaria la preghiera per ottenere la grazia della salute. – Comprendete ora, fratelli miei, qual sia l’obbligazione della preghiera? Ah! se voi conosceste e sentiste il vostro bisogno, non sarebbe d’uopo di farvi vedere la necessità che di essa avete. È egli forse necessario di esortare un mendico a domandar sollievo alla sua miseria? La sua povertà per sé stessa lo rende eloquente e gli suggerisce espressioni valevoli ad intenerire il cuor dei ricchi ed ottenerne il domandato soccorso. Noi siamo altrettanti poveri avanti a Dio, dice s. Agostino, mentre ci presentiamo alla porta della misericordia, poveri senza comparazione più degni di compassione di coloro che vanno mendicando il pane, imperciocché questi conoscono e sentono la propria miseria, mentre noi siam ciechi ed insensibili sul nostro misero stato. – Nulladimeno, per poco che si voglia riflettere, facil cosa è il vedere a quante miserie noi siamo soggetti. La funesta inclinazione nostra al male, la somma ripugnanza che proviamo per fare il bene, i pericoli da cui siamo circondati, il gran numero de’ nemici che abbiamo a combattere e da’ quali siam sì sovente assaliti, le tentazioni alle quali è così malagevole il resistere; certi punti della legge che tanto difficili ci riescono ad osservare, non basteranno ancora a farci comprendere il bisogno che abbiamo del celeste soccorso? Iddio comandandoci di combattere, ci avvisa, dice s. Agostino, di fare quanto sta in nostro potere e di domandare quello che supera le nostre forze: iubendu monet et facere quod possis et petere quod non possis. E se voi implorate il suo soccorso, ve lo accorderà, affinché facciate quello che da voi soli non potevate: et adiavat ut possis. Non vi lamentate più dunque della difficoltà che provate a combattere certe tentazioni e a trionfare delle vostre passioni. Domandate la grazia di Dio, e riporterete sicura vittoria. Voi dite, per esempio, che è difficilissimo non soccombere sotto il peso della passione che vi strascina a vietati piaceri; che vi vuole uno sforzo di virtù per perdonare ad un nemico che crudelmente vi oltraggia: io lo confesso, voi nol potete da voi medesimi, ma chiedetene la grazia a Dio, e vi riuscirà di farlo: et adiuvat ut possis. Non v’ha cosa alcuna che con la preghiera ottener non si possa: questo è il canale per cui scorrono le grazie di Dio sino a noi; questa è la misteriosa scala di Giacobbe che porta i nostri desideri al cielo e ne fa scendere i tesori che ci arricchiscono; questa è la chiave che ci apre il seno della misericordia di Dio, e trattiene il braccio della sua giustizia: la forza della preghiera è sì grande, dice s. Giovanni Crisostomo, che ci fa in certa maniera trionfare di Dio medesimo; per mezzo di essa possono i peccatori ottenere la grazia della loro conversione, e i giusti la perseveranza nel bene. Ricorrete dunque tutti alla preghiera, di qualunque stato voi siate, o giusti o peccatori: se siete peccatori, questo mezzo vi è indispensabilmente necessario, per poter uscire dal funesto stato in cui vi trovate; se siete giusti, la preghiera vi è necessaria per perseverare nella grazia. Sì, peccatori, si è la preghiera quella che deve spezzar le vostre catene e liberarvi dalla schiavitù del demonio:e tanto più è per voi importante di servirvi di questo mezzo, perché lo stato in cui siete privandovi di quel diritto di ricevere quegli aiuti della grazia per salvarsi che hanno le anime giuste, la preghiera è forse per molti di voi il solo rifugio e l’unico mezzo che loro procurar possa la giustificazione, di maniera che, se non ne approfittano, non v’è più per loro speranza di salute. Imperciocché per salvarvi, o peccatori, dovete convertirvi, e voi non vi convertirete senza quelle grazie vittoriose che cangino del vostro cuore gli affetti, che forti vi rendano contro la contagione del secolo, e trionfar vi facciano dei nemici di vostra salute. Ora Iddio non è a voi debitore di queste grazie; per pura sua liberalità vi dà quella della preghiera, ed a voi tocca il servirvene per domandarne delle altre ed ottenerle. Imperò si può dire che la preghiera è in certa maniera egualmente necessaria che il Battesimo: senza di esso non v’è salute, e senza la preghiera non si dà la grazia della conversione, per conseguenza non si dà salute. Ed appunto per questa ragione, siccome Gesù Cristo, ha scelta l’acqua, elementare a preferenza di ogni altra, perché molto facile ad aversi, affinché fosse materia del Battesimo, essendo questo Sacramento cotanto necessario; così Egli ha voluto che la nostra salute dipendesse dalla preghiera, che tra tutti gli esercizi della nostra religione è il più facile e il più comodo per qualsivoglia sorta di persone. Per pregare non vuolsi esser sapiente o ricco, non si ricerca robustezza di sanità; gl’ignoranti al pari de’ dotti, i poveri come i ricchi, gli ammalati egualmente che i sani possono pregare: invano vi scusereste sul pretesto delle vostre occupazioni; imperciocché saranno le vostre occupazioni maggiori di quelle del reale profeta, che in mezzo agli affari del governo d’un gran regno pregava sette volte al giorno? Septies in die tandem dixi tibi. Se non si potesse pregare che in certi tempi, in certi luoghi, sareste in qualche maniera degni di scusa qualor nol faceste sì spesso: ma in ogni tempo, in ogni luogo si può pregare; e di giorno e di notte, in ogni ora, in mezzo dei più grandi imbarazzi d’affari, de’ lavori più faticosi, potete innalzare a Dio la mente ed il cuore; in ogni luogo si può pregare; imperciocché, quantunque siano le nostre chiese il luogo più convenevole, nulla dimeno voi potete farlo in casa, in campagna, per viaggio; dappertutto voi troverete il Signore pronto ad ascoltare le vostre preghiere.Non sareste voi dunque, fratelli miei, sommamente colpevoli, e non sarebbe questo un segno della vostra indifferenza per la salute, se trascuraste un mezzo cotanto facile per salvarvi come è la preghiera? Iddio vi offre, o peccatori, il perdono, ma vuole che voi glielo domandiate. Egli lo ha accordato al pubblicano e a tanti altri mentovati nel Vangelo, che a Lui ricorsero con la preghiera; e perché non accorderà a voi pure lo stesso favore? Per mezzo della preghiera i paralitici, i lebbrosi, gli zoppi, i ciechi ottennero da Gesù Cristo non solamente la guarigione delle loro corporali infermità, ma la sanità eziandio delle anime loro: la sua bontà non è minore a vostro riguardo, la vostra preghiera avrà dunque il medesimo effetto. Per questo mezzo il centurione Cornelio usci dalle tenebre della idolatria, giunse alla luce del Vangelo: le sue limosina e le sue preghiere, dice la Scrittura, erano arrivate al trono di Dio e gli ottennero la grazia di entrare nella chiesa di Gesù Cristo. Servitevi, fratelli miei, dello stesso mezzo per ottenere i doni della sua misericordia. Dal profondo abisso in cui siete sepolti, innalzate, e peccatori, come il reale profeta la vostra voce verso del cielo: De profundis clamavi ad te, Domine (Ps. CXXIX). – Ricorrete alla preghiera eziandio voi, o giusti, che possedete la grazia di Dio, perché ella vi è necessaria per ottenere la perseveranza. Benché la grazia di Dio, in cui siete, vi dia diritto di ricevere quegli aiuti che vi sono necessari per far il bene, Iddio non è obbligato a darvi quelle grazie speciali e privilegiate che fanno infallibilmente perseverare e che rendono sicura la predestinazione. Alcuno, dice s. Agostino, non può meritare queste grazie in rigore di giustizia, ma le può ottenere. Voi portate la grazia di Dio in fragil vaso, che ad ogni passo può rompersi; voi siete in una nave agitata dalle tempeste ed esposta a naufragare ogni momento: che cosa dunque dovete fare se non ricorrere, come gli Apostoli, a Gesù Cristo, che solo può comandare ai venti e alle tempeste? Domine, salva nos, perimus. Signore, salvateci; senza di Voi siamo perduti. Voi siete circondati da nemici che ognora contra di voi combattono per trarvi a morte. Nemici dentro di voi, nemici al di fuori. Dentro di voi siete agitati dal timore, al di fuori esposti ai combattimenti. Feris pugnæ, intus timores. Dentro divoi avete le passioni che si ribellano contro la legge di Dio; al di fuori il demonio che cerca di vagliarvi come si vaglia il grano: i cattivi esempi che fanno ne’ vostri cuori impressioni funeste; quanto grande è mai il pericolo in cui siete di perire, perdendo la grazia di Dio! Che cosa vi rimane a fare in tali circostanze? Pregate, il ripeto, e pregate incessantemente Colui che ha in voi incominciata l’opera buona, affinché la perfezioni, come dice l’Apostolo: qui cœpit in vobis opus bonum, ipse perficiet (Philip. 1). Con la preghiera riportò Mose vittoria sugli Amaleciti nemici del popolo di Dio, e con lo stesso mezzo voi pure riporterete la vittoria sui nemici della vostra salute. Questo sarà lo scudo che vi difenderà dai loro colpi. Se siete tentati, ella vi libererà dalle tentazioni: se siete nell’incertezza, e non sapete a qual partito appigliarvi in certi critici affari della salute, alzate gli occhi al cielo, e sarete illuminati; se siete nell’afflizione, la preghiera vi consolerà, vi fortificherà nella avversità e nella prosperità vi preserverà de’ suoi scogli: in una parola, qualunque ostacolo troviate alla salute, la preghiera vel farà superare.Per animarvi ancora maggiormente al santo esercizio della preghiera, mirate nella vita di coloro che la praticano assiduamente, i suoi mirabili effetti. Chi sono coloro che menano vita più regolata? Sono quelli che pregano spesso e che pregano bene: come vivono al contrario coloro che non pregano affatto? Voi lo sapete e lo vedete ogni giorno: queste sono persone schiave delle loro passioni, non pensano che ai piaceri e ai beni terreni: trovano sempre del tempo per gli affari del mondo, e non ne trovan mai per pregare: dovremo dunque stupirci, se vivono cosi male, se soccombono sì spesso alle tentazioni, se si lasciano strascinare dai cattivi esempi e dal torrente dell’usanza, e se alcun gusto non provano per lo servizio di Dio e per la loro salute? L’anima loro è come un terreno arido e sterile, che non è innaffiato dalla celeste rugiada e non produce buon frutto. E per qual cagione? Perché non pregano punto, perché non curano di far discendere su questa terra ingrata le celeste influenze che la renderebbero feconda. – Per evitar sì gran male, siate assidui alla preghiera e non tralasciate per qualsivoglia cagione questo santo esercizio: fissate l’ora del giorno che destinate ad essa: voi trovate pure il tempo di dare più volte al giorno il necessario alimento al corpo, e perché ricusante voi all’anima, infinitamente più preziosa, il suo nutrimento che è la preghiera? E infatti non sarebbe ella cosa strana, fratelli miei, che voi trovaste tempo per tutto, fuorché per pregare? – Voi avete le ore destinate al sonno, l’ora del mangiare, l’ora degli affari, l’ora dei divertimenti, del passeggio, del giuoco: e perchè non troverete in tutto il giorno l’ora della preghiera? Come! voi avete il tempo per piacere al mondo e non avete il tempo per servir Dio? Avete tempo per acquistare caduche ricchezze, e non avete tempo di acquistare tesori pel cielo, cioè avete tempo per dannarvi e non avete tempo per salvarvi: imperciocché non vi lusingate, non v’è che la sola preghiera che possa aprirvi l’entrata al cielo. Pregate dunque spesso e principalmente la mattina e sera, pregate eziandio più volte durante il giorno per mezzo di frequenti elevazioni del vostro cuore a Dio, pregate per voi medesimi, pregate per gli altri: padri e madri, pregate pei vostri figliuoli; figliuoli, pregate per i vostri genitori; peccatori, pregate per la vostra conversione; giusti, domandate al Signore la perseveranza, e chiedete la conversione dei peccatori, perché la preghiera del giusto è avanti a Dio molto efficace; ed affinché ella sia tale, imparatene ora le condizioni.

II. Punto Condizioni della Preghiera.

Se vi sono molti Cristiani che non pregano affatto, molti più ve ne sono di coloro che pregano male: e si può dire che il più gran male non proviene tanto dal non pregare, quanto dalle cattive disposizioni con le quali si prega. Non vi furono in alcun tempo giammai tanti esercizi di divozione né tante preghiere quante se ne veggono al giorno d’oggi, eppure si vider mai disordini maggiori? Regna per tutto fastosamente il vizio, in ogni stato signoreggiano le passioni; l’orgoglio, l’avarizia, i piaceri illeciti, la vendetta strascina seco in infinito un numero di schiavi che gemono sotto il peso delle loro catene e della loro miseria, non ostante le moltiplicate preghiere che indirizzano al cielo. E come? La preghiera non ha ella più la stessa forza appresso Dio ch’ella aveva altre volte? Si è Iddio cangiato per noi, o è abbreviato il braccio della sua misericordia? No, fratelli miei, Iddio è sempre lo stesso, sempre ricco in misericordia verso coloro che l’invocheranno. Ma la maggior parte di coloro che pregano, non provano l’effetto delle loro domande, perché pregano male, dice s. Giacomo, non accipitis, eo quod male petatis. Invece di placare Dio colle loro preghiere, l’irritano vieppiù: invece di far discendere su di essi la rugiada celeste coll’incenso delle preghiere, con i neri vapori che s’innalzano da’ loro cuori attirano fulmini e tempeste, che Dio non lascerebbe, di far piombare sopra di loro, se la sua misericordia nol trattenesse: invece di pregare in nome di Gesù Cristo, si fanno soltanto preghiere giudaiche, per mezzo delle quali si domandano cose indegne di quel santo nome, o se si chiedono cose che convengano alla sua grandezza, non si chiedono come si deve; di maniera che si può fare alla maggior parte de’ Cristiani lo stesso rimprovero che fece Gesù Cristo agli Apostoli: Voi non avete ancora, diceva loro, chiesta cosa alcuna in mio nome: Usque modo non petistis quidquam in nomine meo [Jo. XVI]. Bisogna dunque, fratelli miei, per pregar bene, pregare in nome di Gesù Cristo, cioè chiedere cose degne di questo nome salutevole e chiederle con le disposizioni che Egli esige da noi: e sono l’attenzione la fiducia, l’umiltà e la perseranza: tali sono le condizioni della preghiera; prestatevi tutta l’attenzione. – Per pregare in nome di Gesù Cristo, bisogna primieramente chiedere cose degne di questo augusto nome, cioè che si riferiscano alla gloria di Dio. alla nostra salute, dice s. Gregorio. Perciò voi pregherete nel nome di Gesù Cristo, o peccatori, allorché domanderete la vostra conversione, la grazia di vincere quell’orgoglio che vi signoreggia, l’avarizia che vi tiranneggia, l’invidia che vi divora, quella passione che vi tormenta, la collera, la vendetta che vi conturba, allorché lo pregherete di far regnare in voi l’umiltà, il distacco dai beni terreni, la carità, la pazienza, la mansuetudine, la purità: voi pregherete in nome di Gesù Cristo, quando chiederete la stabilità nel bene e la perseveranza nella grazia: in una parola, chiunque voi siate, pregherete in nome di Gesù Cristo, allorché, prendendo per modello la preghiera che ci ha nell’orazione domenicale insegnato di fare, gli domanderete la gloria del suo santo Nome, la venuta del suo regno, l’adempimento della sua volontà, le grazie necessarie alla salute, la liberazione dalle tentazioni, l’allontanamento dal peccato e da’ mali della vita futura: se voi chiedete altra cosa che il suo regno, o che ciò che può servirvi di strada, non è questo pregare in nome di Gesù Cristo, dice s. Agostino. Dio per altro non vieta chiedergli beni temporali; non vi proibisce di domandargli la sanità, la buona riuscita d’una lecita intrapresa, e ciò che è necessario a voi e alla vostra famiglia: anzi Gesù Cristo ci ha insegnato nell’orazione domenicale a domandargli il nostro pane quotidiano, e la Chiesa, guidata sempre dallo Spirito Santo, fa preghiere per la conservazione dei beni della terra. Ma se Dio vi permette di chiedere beni temporali, con questa restrizione vel permette, cioè in quanto solamente servono per ottenere il vostro ultimo fine; si cerchi prima il regno di Dio, dice Gesù Cristo, il resto verrà dietro. La gloria di Dio e la salute dell’anima vostra debbono essere i primi oggetti a cui mirino le vostre preghiere. Perciocché se i mezzi che da Dio vi sono dati per giungere al vostro ultimo fine voi li mirate come se fossero il fine medesimo; se non cercate che la pinguedine della terra invece della rugiada del cielo; se avete di mira solo i beni temporali e non i beni eterni, le vostre preghiere sono colpevolmente interessate, e voi non pregate in nome di Gesù Cristo, ma in nome delle passioni da cui siete signoreggiati: Usque modo non petistis quidquam (Jo. XVI). molto meno ancora preghereste in nome di Gesù Cristo, se domandaste cose contrarie alla sua volontà: potreste immaginarvi che Gesù Cristo volesse allora essere vostro intercessore per farvele ottenere, mentre Egli non ha cercato altra cosa che di fare la volontà di suo Padre e procurarne la gloria? Non sarebbe ella una abbominazione, l’impiegare una mediazione così potente e così santa per ottenere domande peccaminose, come sarebbe l’adempimento dei nostri sregolati desideri, la riuscita d’una ingiusta intrapresa? Lungi di qua dunque quelle preghiere che partono da un cuore ambizioso il quale ad altro non mira che agli onori: lungi di qua le preghiere di quell’uomo interessato, di quell’avaro, che pone unicamente nei beni passeggeri la sua felicità, che altro non cerca che di ammassar tesori, altri affetti non ha fuorché per la terra: lungi di qui le preghiere di quel voluttuoso che non ricerca i comodi della vita se non per contentare la sua mollezza: lungi di qui le preghiere di quell’uomo ingiusto che chiede la riuscita d’una malvagia lite da lui suscitata per opprimere il povero, la vedova, l’orfanello: ah! guai a voi che chiedete sì fatte cose! Se Iddio esaudisce le vostre preghiere, sarà un effetto del suo sdegno, s’Egli vi accorderà ciò che domandate, ciò non servirà che alla vostra riprovazione. Pregatelo piuttosto a non esaudirvi: o, per far meglio cangiate le vostre preci e raffrenate i vostri sregolati desideri e fate a Dio solamente giuste domande, e allora potrete sperare di averlo favorevole ai vostri voti. – Domandate prima d’ogni altra cosa, come Salomone, quello spirito di sapienza che guidi i vostri passi e presieda a tutte le vostre intraprese; voi proverete al pari di lui la bontà d’un Dio che è liberale nei suoi doni al di là di ciò che gli viene domandato. Poiché non mi hai domandato, disse Dio a quel monarca, né lunghezza di vita né abbondanza di ricchezze, né vittoria dei nemici, io ti accordo non solo quella sapienza che tanto brami, ma ancora un sì florido regno che il simile non fu veduto finora e non è per vedersi giammai. – In questa guisa, fratelli miei, chiedendo a Dio ciò che è conforme al suo divino volere, vi accorderà ciò che è conforme al vostro desiderio. Se voi domandate prima di tutto il suo santo amore, la sua grazia e l’eterno suo regno vi darà quei beni temporali di cui abbisognate per arrivarvi: e se non ve li accorda, dovete credere che non vi sono necessari e che è meglio per voi che ne siate privi. Ma dovete eziandio essere fermamente persuasi che trattate con un Dio infinitamente ricco verso coloro che l’invocano; onde sarete ricompensati con beni infinitamente più preziosi dei beni terreni: e saranno essi tesori di grazia che vi arricchiranno pel cielo e vi faran crescere di virtù in virtù, purché per altro le vostre preghiere siano accompagnate dall’attenzione e dalle altre qualità che grate debbono renderle a Dio. – Se chiediamo ai santi Padri della Chiesa che cosa è la preghiera, e se esaminiamo la generale idea che se ne ha, noi impariamo ch’ella è un’elevazione della nostra mente e del nostro cuore a Dio, per mezzo della quale esponiamo a Lui i nostri bisogni. Ora se la preghiera è un elevazione della nostra mente e del nostro cuore verso Dio, convien dunque che nella preghiera noi pensiamo a Dio e siamo occupati in ciò che riguarda Dio, o in ciò che gli domandiamo; e senza questa attenzione, la preghiera è un corpo senz’anima. Dio è spirito, dice Gesù Cristo, dunque coloro che l’adorano fa d’uopo l’adorino in ispirito e in verità, e che lo spirito s’accordi colle labbra. Imperciocché come volete finalmente, fratelli miei, che Dio vi ascolti allorché lo pregate, dice s. Cipriano, se non vi ascoltate voi stessi? Se, mentre dimenate le labbra, il vostro spirito è tutto occupato negli affari, il vostro cuore è rivolto verso l’oggetto della sua passione, invano vi lusingate di ottenere ciò che chiedete. La vostra preghiera, lungi di piacere a Dio, è per voi un nuovo peccato, voi uscite da essa più colpevoli ancora di prima: oratio eius fiat in peccatum (Ps.CVIII). – Eppure a quante persone, fratelli miei, potrebbe Gesù Cristo far lo stesso rimprovero che fece già a’ farisei e che altre volte il Signore aveva fatto per bocca del profeta! Questo popolo m’onora soltanto colle labbra, e il suo cuore è lungi da me: Populus hic labiis me honorat, cor autem eorum longe est a me (Matth. XIII), Voi fate a Dio molte preghiere, or recitandole a memoria, or leggendo un libro devoto; ma la vostra mente e il vostro cuore non c’entran per nulla: perché sono occupati in oggetti stranieri; qual meraviglia dunque se Iddio rigetta le vostre preghiere e se voi nulla ottenete? È lontano da Dio il vostro cuore, cor eorum longe est a me. – Ma, direte voi, è sì incostante la mente dell’uomo, è si leggiero il suo cuore, che è molto difficile il fissarli con quell’attenzione che la preghiera ricerca: l’uomo è soggetto a una infinità di distrazioni che conturbano la mente la più raccolta e non lasciano pensare lungamente sullo stesso soggetto. – A questo io ho due risposte a fare. La prima è per consolazione di coloro che temono Dio, e che soffrono loro malgrado molte distrazioni: esse non saranno loro ascritte a peccato perché o cercano di evitarle o le rigettano tostoché si presentano. Queste distrazioni non solamente non diminuiscono il merito delle loro preghiere, anzi lo accrescono a cagione dello sforzo che fanno per tener raccolto il loro spirito; onde esse non debbono cagionar inquietudine alcuna, purché si ponga cura di allontanarle: anche i santi più eminenti hanno provato in questa materia la leggerezza e l’incostanza della mente dell’uomo. – Ma le distrazioni volontarie, cioè quelle che non si è presa la precauzione di evitare per mezzo della preparazione alla preghiera o di rigettare quando si presentano, sono quelle che rendono peccaminose le preghiere d’innumerabili Cristiani dei nostri tempi: tali sono coloro che con i sensi mal custoditi e con lo spirito dissipato e tutto occupato in affari mondani, vanno a presentarsi alla preghiera, la continuano con queste disposizioni; parlano a Dio con minor rispetto che non farebbero ad un uomo; recitano così precipitosamente le loro preghiere che appena la mente può seguir le labbra. E come volete avere, fratelli miei, attenzione nelle preghiere se non usate alcuna precauzione di allontanare dalla mente ciò che può distrarla? Se vi collocate nei luoghi più valevoli a dissiparvi, per mirare ad essere mirati? Se date intera libertà ai vostri sentimenti e alla vostra immaginazione, senza fare alcuno sforzo per tenerli a dovere? Se, accorgendovi della dissipazione della vostra mente, invece di richiamarla al soggetto che deve fissar la sua attenzione, la lasciate andar vagando d’oggetto in oggetto a suo piacimento? Ecco ciò che si deve chiamare distrazione volontaria, che rende peccaminose e inutili le preghiere d’un gran numero di Cristiani i quali provocano – dice s. Agostino – lo sdegno di Dio con gli stessi mezzi che dovrebbero placarlo. – Per evitare, fratelli miei, questa disgrazia, bisogna, secondo il consiglio dello Spirito Santo, preparar l’anima propria all’orazione: Ante orationem præpara animam tuam (Eccl. XVIII). Cioè dovete allontanare tutti gli oggetti e tutti gli affari che possono dissiparvi, sciogliere i vostri cuori da’ legami che li tengono avvinti durante il tempo della preghiera; pensare alla presenza e alla maestà di quel Dio a cui parlate o all’importanza di quelle cose che gli chiedete; cercare quei luoghi che sono più acconci a tenervi raccolti: e con una decente compostezza far conoscere il rispetto che avete per la presenza di Dio; imperciocché Egli vuole esser onorato e coll’attenzione della nostra mente e con la modestia del nostro corpo: allorché avrete prese queste precauzioni se vi vengono distrazioni, abbiate cura di scacciarle ogni volta che ritorneranno, col sollevare lo spirito e il cuore: continuate in questa guisa la vostra preghiera, e ne proverete l’efficacia principalmente se sarà accompagnata da una ferma fiducia. – Che cosa può trovarsi più valevole che eccitare in voi questa fiducia che il pensare che il pensare che, pregando v’indirizzate ad un Dio la cui bontà è uguale alla sua onnipotenza, ad un Dio che, fedele nelle sue promesse, si è impegnato di accordarvi tutto ciò che gli domanderete? Si quid petieritis Patrem in nomen meo, dabit vobis (Jo. XVI). Osservate bene sin dove si estende la promessa, essa non è limitata a certe grazie particolari, ma si estende a tutte le grazie, a tutti i tempi, a tutti i luoghi: e di ciò ci assicura Gesù Cristo apertamente eziandio in un altro luogo: credete, dice Egli, che tutto ciò che domanderete vi sarà accordato: Quæaque orantes petitis, credite quia accipietis, et evenient vobis (Marc. XI). È Iddio che parla, Iddio che può tutto ciò che vuole e che non può mancar di parola, come non può lasciare d’essere Dio. Quanto è mai grande per conseguenza la virtù e l’efficacia che Iddio ha dato alla preghiera! Nella guisa ch’Egli ha fatto ogni cosa con una sola parola, ad una sola parola che viene da un cuore di fiducia ripieno. Iddio si rende, per così dire, ubbidiente: Voluntatem timentium se faciet et deprecationem eorum, exaudiet ( Psal. CXLIV). Non temete dunque di chiedere tutto ciò che vorrete. Se voi doveste esporre le vostre miserie ad un uomo, ad un grande del secolo, potreste temere di non essere esauditi nelle vostre domande, perché gli uomini non sempre sono verso di noi bene affetti, e quand’anche lo fossero, non sempre le loro forze corrispondono al buon volere; si stancano nel far doni, perché facendoli impoveriscono, e se continuassero a farne, si troverebbero essi medesimi ben presto nella miseria: e perciò le persone anche più benefiche si annoiano delle nostre importunità. Ma non è così col nostro Dio: sempre ricco in misericordia verso coloro che l’invocano, non è rattenuto, dice s. Tomaso né da scarsità di ricchezze né da timor d’impoverire. Non lo stancano le nostre importunità, che anzi Egli vuol essere da noi sollecitato; poiché il Signore quanto più ci dà, tanto più vorrebbe darci; più gli si chiede, più gli si dà gloria; sempre attento ai nostri bisogni, Egli è sempre pronto ad ascoltarci e a beneficarci: se dunque noi siamo nella miseria, la colpa è nostra, o perché siamo negligenti a pregare, o perché non preghiamo con ferma fiducia. – Qual cosa v’è inoltre più valevole ad eccitare in noi questa fiducia che il pensare che le nostre preghiere sono avvalorate dall’intercessione di Gesù Cristo che prega con noi e per noi e che offre per noi al suo divin Padre i suoi meriti? Questo pontefice, questo mediatore, che è stato esaudito, dice l’Apostolo, a cagione della sua dignità, non renderà efficacissime le nostre preghiere appresso Dio? Questa è la credenza della Chiesa, poiché in tutte le preghiere interpone essa la mediazione di questo sì possente intercessore, terminando le orazioni con queste parole: per Dominum nostrum Jesum Christum etc. Noi vi preghiamo, dice ella, in nome di Gesù Cristo: esaudite le nostre domande. Voi dovete parimenti, fratelli miei appoggiare sulla virtù di questo santo nome le vostre domande, e ne proverete l’efficacia. Ma in che consiste questa fiducia dalla quale debbono essere animate le vostre preghiere? Ella è una ferma credenza ed un ardente desiderio di ottenere ciò che domandate: imperciocché invano preghereste, se il desiderio d’essere esauditi non rende ferventi le vostre preghiere, invano, o peccatori, domandereste la vostra conversione e il perdono de’ vostri peccati, se foste tuttora disposti a commetterne dei nuovi, invano chiedereste a Dio di spezzare le vostre catene, di sciogliere quei lacci che vi tengono avvinti, e distruggere quegli abiti cattivi, se voi medesimi non fate alcuno sforzo per correggervi, se il vostro cuore è sempre affezionato all’oggetto della sua passione, alle ricchezze, ai piaceri, Iddio non ve ne staccherà vostro malgrado e sarebbe temerità la vostra fiducia. – E in questo senso è  vero quel che si dice, che Dio non esaudisce i peccatori; e come ascolterà egli quei peccatori che vanno con le armi alla mano a chiedergli perdono? Che vorrebbero ottenerlo senz’adoperare alcun mezzo per convertirsi, e non accompagnano le loro preghiere con verun buon desiderio, con veruna di quelle preparazioni del cuore che il profeta ricerca per esser esauditi? No, il Signore non ha promesso nulla a questi ribelli peccatori ostinati. Ma i peccatori che a lui si rivolgono come il pubblicano, con un sincero desiderio di cangiar vita ah! Dio li ascolta, dà loro quelle grazie di cui abbisognano, per compiere la propria conversione; presentatevi dunque, o peccatori, al trono della misericordia di Dio, con quella fiducia ed umiltà da cui debbono essere accompagnate ognora le vostre preghiere. Siano pur enormi, siano innumerabili i vostri peccati, ne otterrete il perdono, se con queste disposizioni le chiederete. Iddio non rigetta mai un cuore umiliato ed ascolta benignamente le preghiere degli umili: Respexit in orationem humilium (Ps.CI). Egli rigettò la preghiera d’Antioco perché pregava da empio, orabat scelestus, dice la Scrittura (Macc. IX); rigettò eziandio la preghiera del fariseo perché pregava da superbo: ma fu propizio al pubblicano, perché si umiliò, riconoscendosi indegno di comparire avanti a Dio, tal che in vista de’ suoi peccati non osava alzar gli occhi al cielo. Pregate in somigliante maniera, o peccatori, a voi pure, sarà come a lui, propizio il Signore: Deus, propitius esto mihi peccatori ( Luc. XVII). Umiliamoci tutti, chiunque noi siamo, sotto la possente mano di Dio, e riconosciamoci immeritevoli di ciò che domandiamo con questo mezzo ci renderemo in certa maniera degni di ottenerlo; imperciocché quello stesso Dio che resiste a’ superbi, dà agli umili la sua grazia: Humilibus dat gratiam ( Jac. l). Finalmente l’ultima qualità che deve accompagnar la preghiera è la perseveranza. Noi ne abbiamo un bell’esempio nella Cananea, che chiedendo la sanità per la figliuola, altro non provò da principio che repulse: ma piena di fiducia non si scoraggiò, e non cessi di pregare sinché ottenuta non ebbe la sua domanda. Con la sua perseveranza a pregare vinse la resistenza di Gesù Cristo, il quale lodò la sua fede: Magna est fides tua. Ecco, Cristiani miei, il bel modello che dobbiamo imitare; bisogna sempre pregare, sempre sollecitare, sempre picchiare alla porta, Dio si compiace della nostra importunità; Egli vuole che gli si faccia per cosi dire, violenza, perché in tal guisa noi gli diamo prove maggiori della nostra dipendenza. Se Egli tosto ci accordasse ciò che domandiamo, noi lasceremmo di pregare e di riconoscere per conseguente la dipendenza nostra. Con somma sapienza dunque il Signore per aumentare i nostri meriti, mette alla prova la nostra fiducia col differir d’esaudirci, ma nulla perdiamo a queste dilazioni: s’Egli non ci esaudisce ora, ci esaudisce in altro tempo. Non vi disanimate dunque, Cristiani miei, se Iddio non si mostra tosto propizio a’ vostri desideri: Egli sa meglio di voi quel che vi è d’uopo. Egli vuol farvi sentire i vostri bisogni e la vostra dipendenza. Se voi costantemente persevererete nelle preghiere, vi accorderà finalmente ciò che gli chiedete di più ancora. Non poterono essere abbattute le mura di Gerico se non al replicato suono delle trombe: e se, come Mose, non vi stancherete di alzar le mani, riporterete, al paro di lui, de’ nemici sicura vittoria.

Massime Pratiche. Sia dunque la preghiera la vostra ordinaria occupazione Io ve ne ho dimostrato la necessità, i vantaggi e le condizioni che debbono renderla grata a Dio e utile per voi. Pregate in ogni tempo, in ogni luogo nelle tentazioni, nelle afflizioni: pregate con attenzione, con fiducia, umiltà e perseveranza. Per aver quest’attenzione nella preghiera, prima d’incominciarla, mettetevi alla presenza di Dio con grande raccoglimento e domandategli la grazia di farla bene, Domine, doce nos orare; unite le vostre preghiere a quelle che Gesù Cristo fece sulla terra; pregate il vostro Angelo custode di presentarle a Dio, e nel tempo che pregherete siate penetrati della presenza di Dio, dicendo spesso tra di voi: A chi parlo io? Che cosa dimando? Non recitate in fretta le vostre preghiere. Poco e bene è meglio che molto e male. Fermatevi di tanto in tanto per raccogliervi, se vi accorgete che la vostra mente è distratta. – Dopo la preghiera chiedete perdono dei mancamenti da voi in essa commessi. Non tralasciate mai le vostre preghiere della sera e della mattina. Prendete l’usanza di fare in certe ore determinate nel corso del giorno orazioni giaculatorie, ora con atti di adorazione, di lode, di ringraziamento, ora di carità, di contrizione etc. Fate la sera le vostre preghiere in compagnia: perché Gesù Cristo ha promesso di essere in mezzo di coloro che saranno radunati nel suo nome: pregatelo incessantemente ch’Egli regni in voi con la sua grazia in questo mondo e con la sua grazia nell’altro. Così sia.

Credo …

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Offertorium

Orémus Ps LXV: 8-9; LXV: 20

Benedícite, gentes, Dóminum, Deum nostrum, et obœdíte vocem laudis ejus: qui pósuit ánimam meam ad vitam, et non dedit commovéri pedes meos: benedíctus Dóminus, qui non amóvit deprecatiónem meam et misericórdiam suam a me, allelúja. [Popoli, benedite il Signore Dio nostro, e fate risuonare le sue lodi: Egli che pose in salvo la mia vita e non ha permesso che il mio piede vacillasse. Benedetto sia il Signore che non ha respinto la mia preghiera, né ritirato da me la sua misericordia, allelúia].

Secreta

Súscipe, Dómine, fidélium preces cum oblatiónibus hostiárum: ut, per hæc piæ devotiónis offícia, ad coeléstem glóriam transeámus.

[Accogli, o Signore, le preghiere dei fedeli, in uno con l’offerta delle ostie, affinché, mediante la pratica della nostra pia devozione, perveniamo alla gloria celeste].

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Communio

Ps XCV: 2

Cantáte Dómino, allelúja: cantáte Dómino et benedícite nomen ejus: bene nuntiáte de die in diem salutáre ejus, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore, allelúia: cantate al Signore e benedite il suo nome: di giorno in giorno proclamate la salvezza da Lui operata, allelúia, allelúia].

Postcommunio

Orémus.

Tríbue nobis, Dómine, cæléstis mensæ virtúte satiátis: et desideráre, quæ recta sunt, et desideráta percípere.

[Concedici, o Signore, che, saziati dalla forza di questa mensa celeste, desideriamo le cose giuste e conseguiamo le desiderate.]

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LO SCUDO DELLA FEDE (112)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA vol. I

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XXII.

Si risponde alle accuse date alla provvidenza, perché ella tribola i buoni.

1. I naviganti mentre sono in tempesta, ansanti, agitati, non sono abili ad osservare l’arte di quel pilota, che fra tanti turbini regge la nave a stupore. Qual meraviglia è però, se il medesimo accade nel caso nostro? Non conosciamo la provvidenza attentissima di quel Dio che ci regge fra tanti mali, perché i mali ci sopraffanno, Ma però dunque dovrà da noi negarsi la Provvidenza, perché noi non la conosciamo? se non la conosciamo noi, l’hanno saputo conoscere tanti e tanti, di noi pratici in quella carta di navigare, che sola ha da rimirarsi in un mar sì alto. Che se nessuno l’avesse mai finita di conoscere, che rileva? Bella cosa in vero sarebbe che i naviganti volessero saperne al par del pilota. Venga però quel temerario, il qual disse:Cura rapiant mala fata bonos, ignoscite fasso, Sollicitor nullos esse putare Deos.

Che è ciò che egli non capisce? Perché tribolati i buoni? perché poveri? perché perseguitati? Perché depressi? Le cagioni sono le medesime a proporzione, per cui prosperati i cattivi.

II. Se non che prima di ripeterlo, io chieggo. Dove sono questi buoni così perfetti, che non abbiano mescolata con l’oro delle virtù veruna mondiglia? Nelle miniere nostrali mai non incontrasi un metallo sì eletto. Per quanto benignamente qualunque nuvola sia rimirata dal sole, non giunge a compire mai tutto il cerchio nell’imitarlo: finisce in arco. E per quanto l’anima sia favorita da Dio, mai non arriva ad esprimere tutte in sé lo divine fattezze perfettamente. Ogni sanità ha qualche intemperie, ogni sereno ha qualche intorbidamento, ogni beltà ha qualche neo, che la fa men cara. E questo mancamento è quello che Dio prende di mira con l’avversità, volendo Egli con questo fuoco avvedutamente distruggere quella ruggine.

III. Ma quando pure sì fatti buoni vi fossero, questa medesima avversità, come io dissi, è richiesta in essi per paragone della loro virtù. Non si conosce il soldato bravo tra l’ombre de’ padiglioni, né la spada nel suo fodero, né lo scudo ne’ suoi forzieri, né la saetta nel molle de’ suoi turcassi. Convien venire alla prova. Questa è che fa discernere il buono dal reo. Talora vi diamo a credere di essere dabbene, perché i mali tutti ci lasciano stare in pace. Eppure mentre poi non reggiamo al primo cimento di pochi che sopravvengono, diamo a vedere di quale tempera si fosse in quel medesimo tempo la virtù nostra, da noi riputata sì fina. Ora, perché la cognizione dello proprie infermità è un ingrediente richiesto, di necessità indispensabile, a quel medicamento che deve sanarci, per questo ordina Dio che i mali facciano sperimento di noi, e così ci diano a conoscere chi noi siamo: ponendoci questi nelle tenebre della infamia, della povertà, delle persecuzioni, de’ morbi, come i gioiellieri pongono il carbonchio nel buio di qualche stanza, perché si vegga, allo splendore che ivi fa, se egli sia verace, o sia falso.

IV. Né solo vale la tribolazione di prova a manifestarci quelli che siamo; ma anche di mezzo a farcì divenire quei che non siamo: più umili, più forti, più fervorosi, più veramente conformi ai voler divino. Che virtù effeminata sarebbe quella de’ giusti, se ella si vedesse sposata sempre al piacere? Sarebbe una virtù epicurea, in cui mai non distinguerebbesi l’amor dell’onesto dall’amato dall’amore del dilettevole: e come lama temperata nell’olio non farebbe giammai colpi di valore. AMfcque apparteneva alla provvidenza l’esercitare duramente i suoi servi, per dar loro capitale da trafficarsi una stabile e sempiterna felicità, la quale non fosse mero dono, ma premio e perciò rendesse duplicati i suoi frutti di onorevolezza congiunta al gaudio. Frattanto     visibilmente ci assiste Dio co’ suoi potentissimi aiuti al principio, al progresso, al fine delle nostre calamità: né solamente a guisa di attento medico tiene la mano al polso dell’ammalato, finché gli si cava sangue, per saper quanto possa reggere; ma di più gl’infonde vigore. Che però se noi non vogliamo vilmente cedere il campo, nostra sempre fia la vittoria. E ciò ridonda ancora in gloria del medesimo Dio, a cui finalmente il tutto va indirizzato, mentre si trovano tanti, che solamente per aggradirgli combattano alla gagliarda, e tengono in tutti gli avvenimenti, o prosperi o avversi fissi in Lui solo i lor occhi, come una fiaccola, che, comunque si volga, o di su, o di giù, mira tuttavia sempre ad un modo la sfera altissima.

V. Ecco dunque come tra i mille giri delle umane vicende non ve n’ó pur uno, il quale non abbia per contro una infinita sapienza. Ma noi sprovveduti di lume a scorgere intimamente questi misteri, non vogliamo né anche dar tempo che la divina provvidenza in faccia a tutto il mondo spieghi il suo arazzo compito per ogni verso: ma vogliamo darne giudizio, mentre esso tuttosta avvolto in ordine a quella parte che resta da lavorarsi, o mentre in ordine a quella che si va lavorando su gli occhi nostri noi possiam mirare fuorché a rovescio. Noi possiamo mirare in ordine a questa che si lavora, fuorché a rovescio, perché noi ordiniamo l’eterno al temporale, e bramando che il cielo serva alla terra, facciamo del fine mezzi, e de’ mezzi fine: ciò che Dio non può mai volere: onde non è meraviglia, se i suoi giudizi sieno si diversi da’ nostri, E noi possiamo vedere in ordine a quella che resti, da lavorare, se non avvolto, perché nulla al presente ci è noto dall’avvenire, che pure è tanto: Totum vide, totum lauda, scrisse prudentemente sant’Agostino. Non ti dar fretta a giudicare su ciò chi! ora tu rimiri: aspetta che, terminato il resto dell’opera, tu possa con un guardo conoscere tutta la corrispondenza, tutta la disposizione, tutto il disegno, e tutto il ripartimento di tante fila, quante sono quelle che unitamente concorrono a questa mirabilissima tessitura: e allor ne giudicherai. Frattanto dove non arrivi a capire ti basti il credere. Di tanti fiumi quanti son quei che si sprofondan sotterra, noi non sappiamo le vie: e nondimeno sappiamo che vanno al mare. Cosi degli occulti giudizi della provvidenza non sappiamo, è ver, gli andamenti; ma sappiamo che tutti termineranno una volta in gloria della divina sapienza, onde sono usciti: Ad locum, unde exeunt flumina, revertuntur (Eccl. 1. 7).

VI. Al fine dunque de’ secoli, quando Iddio verrà in forma di giudice a sciogliere il nodo di questa sì gran tragedia, vedremo chiaro quell’ordito e quell’ordine che ora ci nasconde. Vedremo che le nostre colpe potean recare lode al Signore, non biasimo: dacché, quanto più disordinate eran le scelleraggini, tanto migliore era Dio che le divietava; e che, mentre gli uomini eran sì empi, che si valevano male de’ beni, Egli era sì buono, che si valeva all’incontro bene de’ mali. Vedremo quanto momentanea si fosse quella perturbazione di cose, per cui il vizio prevalse all’innocenza, dopo cui seguirà una calma perpetua; e i colpevoli, quasi spighe vuote, che sollevate dalla loro medesima vanità hanno il capo sopra delle altre, saranno gettati al fuoco in vista degli innocenti, che quasi grano eletto saranno riposti in cielo. Vedremo che le tribolazioni venivano tutte a legge: e che benché fossero più tempestose di un mare irato, non passavano però mai punto i confini prescritti ai loro flutti da Dio. Vedremo che sebbene talora per questi mali sì accusava la provvidenza, non doveva ella però desistere dal suo modo di governare; come non è dovere che desista il suonatore dal tirare la corda al suo giusto tuono, per toma che non reggendo ella vada in pezzi. Queste e mille altre verità più stupende, più segnalate vedremo allora con gran chiarezza, se per impazienza di aspettare a vederle non ce ne verremo a rendere immeritevoli. – Fu recata già nel senato di Atene una causa sì difficile a definirsi, che i giudici convennero in dare alle parti questa risposta: Tornate por la sentenza di qua a cent’anni. Ancora noi, quando i nostri pensieri ci muovano fiera lite sopra i mali da Dio permessi, ed i beni distribuiti, diamo loro questa risposta, che solamente è la saggia: Tornate, non in capo ad un secolo, ma in capo a tutti quelli che ha Dio prefissi allo scoprimento del vero, e vi sarà fatta ragione, e ragion si aperta, che non vi rimarrà neppure animo a cavillare.

VII. Per ora sappiasi, che tutto l’error degli uomini in questo punto è non voler distinguere il termine dalla via. Appartiene alla provvidenza il far che nel termine dove sì sta eternamente, tutti i buoni abbian bene, i mali abbian male. Ma nella via non così. Nella via le vicissitudini hanno da intervenire comuni a tutti, per ciò medesimo, perché siam tutti in via. Vuol che la via non si distingua dal termine, chi vuole che alcuno qui sia sempre beato, o alcun sempre misero (1)

(1) La provvidenza divina si estende a tutto, quanto è ampio, l’indefinito universo papperò mala si giudica della medesima riguardando alcune minime parti del creato in se stesso, staccate da tutte le altre, con cui formano un unico, immenso disegno. Chi se’ tu. Che chiami la provvidenza divina al tribunale di tua ragione e la misuri colla veduta corta d’una spanna? Abbraccia prima, se puoi, e di un solo sguardo tutta l’immensa tela degli umani eventi, e riferisci i tempi tutti all’eternità, e poi levati giudice del provvedere divino. 

FINE DEL PRIMO VOLUME

SALMI BIBLICI: “ECCE QUAM BONUM ET QUAM JUCUNDUM” (CXXXII)

SALMO 132: ECCE QUAM BONUM ET QUAM JUCUNDUM”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 132

Canticum graduum David.

[1] Ecce quam bonum et quam jucundum,

habitare fratres in unum!

[2] Sicut unguentum in capite, quod descendit in barbam, barbam Aaron, quod descendit in oram vestimenti ejus;

[3] sicut ros Hermon, qui descendit in montem Sion. Quoniam illic mandavit Dominus benedictionem, et vitam usque in sæculum.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXXXII.

Il Salmo conviene alle moltitudini, dove trovasi la concordia e la comunione; e principalmente a quelli che dal pellegrinaggio giungono in patria.

Cantico de’ gradi, di David.

1. Oh quanto buona e dolce cosa ch’è che i fratelli sieno insieme uniti.

2. Come quell’unguento sparso sulla testa, (1) il quale cola fin sulla barba, sulla barba di  Aronne, e cola fino all’estremità della sua veste;

3. come la rugiada dell’ Hermon, che cade sul monte di Sion. (2) Perché quivi il Signore ha data benedizione e vita fino in sempiterno.

(1) L’unzione della testa è, nei costumi orientali, l’indice della gioia. (JUDITH. X, 3 ; VI, 10; ESTHER. II, 12; MATTH. VI, 17; LUC. VII, 46).

(2) C’era, nella tribù di Issacar, una montagna, Hermon molto meno lontana da Gerusalemme, rispetto ad Hermon vicino al Libano; ma quando si suppone che l’Hermon vicino al Libano sia lontano più di 200 chilometri da Gerusalemme, il testo del profeta sarebbe ancora spiegabile se si considera che il suo oggetto principale è quello di mostrare la comunicazione dei beni e dei servizi che si fanno nella società fraterna. In Oriente, le rugiade sono molto abbondanti e suppliscono alle piogge che sono molto rare. Non farebbe quindi meraviglia che la rugiada si espanda per un’estensione di cinquanta leghe, dal Libano, fino a Gerusalemme, e siccome l’Hermon vicino al Libano sia più elevato del monte di Sion, il salmista ha potuto dire che la rugiada cadendo dapprima sull’Hermon, sarebbe poi discesa sulla montagna di Sion.

Sommario analitico

In questo salmo, composto per essere cantato dai Giudei quando, dopo il ritorno dalla cattività, essi si trovavano riuniti nella pace, non formando che un unico popolo; il Salmista celebra le dolcezze della concordia e dell’unione fraterna  (Questo salmo, a giudizio di Lowht, è un modello perfetto di una sorta di ode che ha la dolcezza come carattere distintivo. Esso offre, riassunto, tutte le delizie di cui questo genere di composizione è suscettibile, ed è, secondo questo sapiente dottore, una dolce effusione di una sacra sorgente ed una bellezza nel suo pieno fiorire.).

I. Il salmista proclama altamente che questa concordia, questa unione è utile, piacevole (1)

II. Egli uscire le dolcezze di questa unione fraterna attraverso due comparazioni: il profumo sacro che fu effuso sulla testa di Aronne; la rugiada di Hermon, che si spande sul monte Sion, benché molto lontano dalla montana dell’Hermon. (2).

III. – Egli rende ragione di questi preziosi benefici, Dio ha legato a questa unione la sua benedizione e la vita eterna (3).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1.

ff. 1. – La melodia di queste parole è sì dolce che anche coloro che non conoscono i salmi, amano cantare questo versetto. Essa è così dolce come dolce è la carità che fa che dei fratelli abitino in comune. (S. Agost.). – E ci sono delle cose che sono belle,  anche senza essere piacevoli; altre sono piacevoli, ma prive di una vera bellezza, e queste due qualità si trovano difficilmente riunite. Qui al contrario, la piacevolezza e la bellezza morale si incontrano nello stesso oggetto. In effetti uno dei principali caratteri della carità, è che feconda in frutti preziosi, la pratica ne è ancora dolce e facile. (S. Cris., S. Girol.). – Ma è di tutti i Cristiani che è detto: « Ecco che è buono e dolce che fratelli abitino in comune, » ci sono uomini più perfetti che abitano così in comune che questa benedizione non si applichi a tutti, ma solo a qualcuno, dai quali tuttavia essa si effonde sugli altri. (S. Agost.). – Questo salmo conviene particolarmente ai Cristiani uniti da una fraternità spirituale fondata sulla professione di una vita santa, che abitano insieme nella stessa casa e seguono gli stessi esercizi di pietà; perché, benché si possa applicare alle Chiese in cui si riuniscono i Cristiani, c’è troppa differenza tra la maniera di vivere perché possa regnare tra essi una grande concordia. Qual è in effetti, questa fraternità dei Cristiani tra di loro? L’uno desidera tornare a casa sua, l’altro corre al circo, un altro, fin nella chiesa pensa ai suoi profitti da usuraio. Nelle comunità, al contrario, anche se non c’è un solo genere di vita, c’è un solo spirito.  « Come è buono e dolce che i fratelli abitino in comune. » Sì, è una cosa veramente buona e dolce. Per un fratello che abbiamo lasciato nel mondo, quanti altri ne abbiamo trovati? Il fratello che ci è unito dai legami di sangue, mi ama molto meno di quanto non ami il mio bene. Quanto a coloro che sono uniti dai legami di una fraternità tutta spirituale, se essi dimenticano i propri interessi, non è per cercare ciò che appartiene agli altri (S. Girol.). – Dunque, è da queste parole del salmo che i monaci ed i religiosi hanno ricevuto la loro vocazione, essi che vivono in comune, in modo da non costituire che un solo uomo, e realizzare questa espressione della Scrittura: « una sola anima ed un solo cuore, » (Act. IV, 32); diversi corpi, ma non diverse anime; più corpi ma non più cuori (S. Agost.). – Amate ciascuno con un grande amore caritatevole, ma non abbiate amicizia se non con coloro che possono comunicare con voi di cose virtuose, e più le virtù che mette nel vostro commercio saranno squisite, più la vostra amicizia sarà perfetta. Oh! Che si ami bene in terra come si ama in cielo, e si impari ad amarsi reciprocamente in questo mondo, come faremo eternamente nell’altro! … A buon diritto queste anime beate possono cantare: « Oh come è bello e giocondo che i fratelli abitino insieme! » Sì, perché il balsamo delizioso della devozione distilla da un cuore all’altro con una continua partecipazione, sebbene si possa dire che Dio abbia effuso su questa amicizia la sua benedizione, e la vita nei secoli dei secoli (S. Franc. de Sales.).

II. — 2, 3.

ff. 2, 3. – Il profumo versato sulla testa è disceso sulla barba. Dal Verbo divino, è venuto fino all’uomo, al quale il Verbo si è degnato unirsi. E qual frutto per noi di questa barba impregnata di profumi, e di quest’Uomo perfetto? Vediamo i vantaggi che ce ne derivano: « … Che scende fino all’orlo del suo vestito. » Se noi siamo il vestito di Cristo, noi rivestiamo la sua nudità con la nostra fede. Egli è inchiodato sulla croce, privato dei suoi vestiti, oggetto di scandalo per i Giudei e follia per i Gentili, e tuttavia è come rivestito dalla nostra fede, dai nostri discorsi, dalla nostra confessione. Sì, noi siamo il vestito di Cristo, e quando noi lo rivestiamo con la nostra confessione di fede, noi rivestiamo Gesù-Cristo stesso (S. Girol.). – Due comparazioni sono impiegate dal Salmista per esaltare il buon odore, l’abbondanza e la fecondità dell’unione fraterna, vale a dire la giocondità e l’utilità che traggono coloro che vivono in comune uniti come in un solo uomo. – Quest’olio versato sulla testa del Sovrano Pontefice, e che era dei più soavi, colava sulla sua barba e dalla barba all’orlo del vestito, cioè su questa parte che circonda il collo e che tocca immediatamente la barba. – Chi era Aronne? Il Sacerdote. Chi è sacerdote se non questo solo sacerdote che è entrato nel Santo dei santi? Qual è questo sacerdote se non è Colui che è stato contemporaneamente vittima e sacerdote? Se non Colui che non avendo trovato nulla da offrire nel mondo, si è offerto da Se stesso? Il profumo è sulla sua testa, perché il Cristo è intero con la Chiesa, ma questo profumo cola dalla testa. Il Cristo è la nostra testa; Egli è stato crocifisso e seppellito, è resuscitato, è salito in cielo e lo Spirito Santo è disceso dalla nostra testa. Dove è disceso? Sulla barba? La barba designa i forti; la barba è la figura dei giovani intrepidi, coraggiosi, pronti all’azione. Il profumo è dunque disceso dapprima sugli Apostoli, è disceso su coloro che hanno sostenuto il primo conflitto del secolo, … e dalla barba questo profumo è disceso sul bordo del vestito, vale a dire, sulla Chiesa, perché il vestito del sacerdote è simbolo della Chiesa. Essa è lo stesso vestito di cui l’Apostolo ha detto: « Il Cristo ha amato la Chiesa e si è immolato per essa alfine di farla apparire davanti a Lui una Chiesa gloriosa, senza macchia e senza rughe … » (Ephes. V, 27). Ma questo profumo non ha potuto che scendere dalla barba sul bordo che lambisce la testa, all’apertura in alto della tunica. – Tali sono coloro che abitano in comune; perché, così come la testa dell’uomo oltrepassa questo bordo del vestito, così il Cristo, nostra testa, entra, con la concordia fraterna, nel vestito che deve restare unito, e che è la Chiesa. (S. Agost.). – « Come la rugiada d’Hermon, etc. » Il Profeta vuol dire che è la grazia di Dio che fa abitare i fratelli in comune; che essi non lo devono né alle loro forze, né ai loro meriti, ma a un dono di sua parte, alla sua grazia, come la rugiada che cade dal cielo … Perché come la rugiada d’Hermon, montagna tanto lontana da Gerusalemme, essendo posta al di là del Giordano? Cercheremo una spiegazione nel senso stesso di questo nome: Hermon è un nome ebraico, che vuol dire « luce elevata. ». In effetti, la rugiada viene da Cristo, è di là che viene la rugiada dell’Hermon. Voi tutti dunque, che aspirate a vivere in comune, desiderate di ricevere questa rugiada, e di esserne irrorati insieme; altrimenti non potrete restare fedeli. Nella vostra professione, non potete osare neanche far professione di questa santa vita, se il Cristo non formi Egli stesso il temporale che darà questa pioggia, e voi non potrete persistere, se l’alimento che vi dà viene a mancarvi, perché questo alimento discende sulle montagne di Sion, vale a dire su coloro che sono grandi in Sion (S. Agost.). – Quando il profumo si versa sulla testa, che è Gesù-Cristo, sulla barba di Aronne, cioè dei suoi Pontefici, è per spandersi e colare su tutta la frangia dei vestiti; quando la rugiada dell’Hermon cade sulla montagna di Sion, è per discendere fino alla valle, perché il Signore ha posto là in alto una riserva di benedizione ed una fonte di vita fino alla fine dei secoli. – Quando la rugiada ha umettato le piante, esse dimenticano gli ardori del giorno che le aveva rinsecchite, e rialzano la testa, e si direbbe che si sentono felici della frescura che il cielo invia loro. – Non c’è un dolore, una disgrazia né una sofferenza che non siano alleviati dalla carità fraterna. Essa si intende su tutte le miserie, come la rugiada su tutto un campo: non c’è erba che la rugiada non faccia gioire, non c’è anima che la carità non consoli. (Mgr DE LA BOUILLERIE, Symb. p. 94). – Che significa questa espressione: « è là che Dio ha posto la sua benedizione? » In questa casa, in questa unione, in questa comunità di dimora e di sentimenti: è là veramente che sta la benedizione, come la maledizione si trova legata alla disposizioni contrarie (S. Crys.). – Dove Dio ha prescritto di porre la sua benedizione? Tra i fratelli che abitano in comune! Là Dio ha prescritto la benedizione; là coloro che abitano in comune benedicono il Signore, perché, nella discordia, non si benedice il Signore. Invano voi pretendete che la vostra lingua faccia risuonare le benedizioni del Signore, se non risuonano nel vostro cuore. Voi lo benedite con le labbra, ma lo maledite con il cuore: « Essi mi benedicono con le labbra e mi maledicono con il cuore. » (Ps. LXI, 5). Queste parole sono le nostre? Esse indicano certi uomini. Voi benedite Dio quando pregate, e continuando la vostra preghiera, maledite il vostro nemico. È là che comprendete le parole del Signore: « Amate i vostri nemici? » Che se al contrario, voi obbedite a Dio, se amate il vostro nemico, se pregate per lui, così come Dio « ha prescritto la benedizione, » così vi darà pure « la vita nei secoli. » (S. Agost.) – « E la vita per sempre. » Come i conflitti e le guerre sono un principio di morte, la chiarezza, l’unione dei cuori, sono una fonte di pace e di concordia, e la concordia e la pace sono sempre accompagnate da una vita al riparo da ogni danno, piena di fiducia e di sicurezza. E che bisogno c’è di parlare dei beni della vita presente? La carità ci mette in possesso del cielo e dei beni ineffabili ed eterni (S. Crys.).

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (6)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (6)

[chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]

SECONDA PARTE

MEZZI GENERALI DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE

Capitolo III.

LA GRAZIA

Cristo ci comunica la vita divina principalmente attraverso la grazia.

Attraverso l’Incarnazione, il Cuore di Gesù ha portato nel cuore della nostra natura ferita la Vita divina. Cosa gli restava quindi da fare? Solo una cosa: comunicare questa vita a ciascuno di noi così come l’aveva comunicata nella sua Persona alla nostra natura, applicando ad ogni uomo i meriti del sangue divino, versato sul Calvario per tutta l’umanità. Una volta raggiunto questo obiettivo, per quanto serio possa essere stato il pregiudizio della sua libertà, l’opera del Verbo Incarnato sarà terminata. Se ai miracoli d’amore già operati dal Cuore di Gesù, non se ne aggiungesse quest’ultimo, verrebbe a mancare la sua Sapienza e la sua bontà: i fiumi di sangue versati per il nostro bene sarebbero sterili. Il Cuore di Gesù però non ha lasciato il suo lavoro incompiuto: attraverso la grazia, soprattutto, il Cuore di Gesù diventa la nostra vita. Se vogliamo conoscere bene le relazioni intime che ci uniscono al Cuore Divino, è bene capire in cosa consista la grazia. D’altra parte, se vogliamo penetrare la natura della grazia, dobbiamo considerarla come un legame vitale che unisce il nostro cuore al Cuore di Gesù.

Cosa è la vita ed in cosa consiste la nostra vita divina.

La vita di grazia, che fa di noi dei Cristiani, è una vita veramente divina. La vita di cui parliamo ci appartiene veramente come tutte le nostre altre vite. Dobbiamo sapere che noi abbiamo più vite, anche se abbiamo una sola anima e una sola natura: dai nostri genitori secondo la carne abbiamo ricevuto la vita vegetativa, che ci è comune con le piante; la vita animale, che ci è comune con gli animali; la vita razionale, che ci è comune con gli uomini; ma il giorno del nostro Battesimo abbiamo ricevuto dalla Chiesa una quarta vita, che ci è comune con gli Angeli e con Dio stesso, perché è una partecipazione alla sua stessa vita. La vita consiste nel movimento. In realtà, non c’è vita dove non ci sia un reale movimento o potenza per muoversi. Ma non tutto il movimento costituisce la vita. L’acqua del fiume si muove eppure non vive, o la pietra può rotolarsi senza essere viva. Il fatto è che gli esseri chiamati inanimati ricevono i loro movimenti dall’esterno. L’essere vivente, al contrario, si muove da sé, e possiede in sé l’inizio e la fine dei suoi movimenti. Contempliamo quel chicco di grano che il vento porta qua e là: esso finisce nel terreno: fino ad allora, non manifestava una vita più di quella di un granello di sabbia, non aveva alcun movimento proprio, ed era in balìa di tutti gli agenti esterni. Ma, pochi giorni dopo essere stato sul terreno, le sue forze vitali, fino ad allora dormienti, si svegliano: il germe, quel suo principio impercettibile che conteneva, si sviluppa, mette radici che assorbono i succhi della terra; un fusto sempre più vigoroso perfora il terreno, appare alla luce, si copre di foglie attraverso le quali aspira l’umidità dell’aria. Da quel momento in poi, si stabilisce uno scambio ininterrotto di funzioni tra tutte le parti della pianta; ogni organo contribuisce alla conservazione e alla crescita di tutto il corpo; la linfa si diffonde attraverso tutti i rami e comunica loro la vita. Il tronco mostrerà presto questa vita in tutta la sua magnificenza e fecondità: i rami che coronano il tronco saranno ricoperti di fiori; i fiori saranno seguiti da frutti ed in ogni frutto saranno racchiusi numerosi semi, ognuno dei quali potrà poi produrre una pianta simile a quella che gli ha dato l’essere. Questa è la vita nel suo grado più basso, la vita vegetativa, che pone, nella scala degli esseri, la pianta più piccola al disopra del diamante più prezioso, perché anche se il diamante, per la sua luminosità, è superiore all’erba, non ha però di per sé il potere di muoversi, di alimentarsi, di crescere e di riprodursi. La vita è lo stato di un essere che possiede in sé il potere di muoversi; esso tanto più è perfetto quando la sua potenza è più intima e i movimenti che produce sono più potenti, variegati e completi. Ecco perché la vita animale è più perfetta della vita vegetativa. L’animale, invece di rimanere legato al suolo, e di aspettare, come una pianta, il suo cibo dall’aria e dalla terra che lo circonda, va alla ricerca del cibo necessario alla sua conservazione; fugge dal pericolo, si difende dai nemici, vede, sente, odora, palpa e possiede degli istinti. La vita dell’anima umana è incomparabilmente ancor più perfetta, perché i suoi movimenti sono di un ordine molto più elevato. Mentre l’animale è guidato da un istinto cieco, l’uomo è consapevole dei suoi atti: impara, capisce, inventa, conosce la ragione delle cose, ne comprende lo scopo, tende verso un fine lontano, vede la verità invisibile e sale verso l’infinito. La sua volontà non è meno potente della sua intelligenza: attraverso di essa può padroneggiare l’attrazione dei beni sensibili, amare il dolore, sacrificarsi per il bene dei fratelli, lavorare per l’eternità. Può esserci qualcosa di più grande di questa vita? Nel mondo creato non c’è nulla. Se gli spiriti puri possiedono una vita razionale in misura maggiore della nostra, essi sono nel nostro stesso ordine e non abbiamo motivo di pensare che Dio possa creare un ordine superiore a quello. Eppure, come Cristiani, noi siamo in un ordine molto più elevato. Il bambino appena battezzato vive una vita al di sopra della razionalità, la perfezione naturale degli spiriti puri non può essere paragonata alla perfezione soprannaturale di cui si è appena arricchito; e Dio, che in ogni momento dell’eternità può creare esseri uno più eccellente dell’altro, non può trovare nulla negli immensi tesori della sua onnipotenza che non sia inferiore alla dignità di quel bambino.

Che cos’è la nostra vita divina?

In cosa consiste dunque questa vita divina? Nella capacità di produrre movimenti ed atti divini. Come un bambino riceve dai genitori, insieme alla vita razionale, il potere di conoscere le verità razionali, così allo stesso modo, divenendo Cristiano, riceve dalla Chiesa il potere di conoscere le verità divine che appartengono alla vita intima di Dio. Per questo motivo nessuna creatura può acquisirle con le sole sue forze naturali: « Chi tra gli uomini – dice San Paolo – conosce le cose dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? » Per quanto perfetta possa essere una creatura, essa è sempre limitata e quindi si trova ad una distanza infinita dall’Essenza divina, che è infinita. Nel crearla, Dio l’ha posta al di fuori di sé, e l’ha esclusa dalla comunicazione ineffabile che hanno tra loro le tre Persone divine, le cui relazioni costituiscono la sua vita intima. Nessuno conosce queste relazioni in modo naturale, tranne le Persone divine stesse. Nessuno può entrare nell’interno di Dio, se Dio stesso non gli apre la porta: « Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo » (Mt. XI, 24), dice Gesù Cristo. Inoltre, quando Pietro mostrerà, con la sua generosa confessione, di possedere questa conoscenza soprannaturale del Figlio di Dio, Cristo gli dirà: « Beato te, Simone, figlio di Jona: perché non te l’ha rivelato la carne ed il sangue, ma il Padre mio che è nei cieli. » (Mt XVI, 17). Il bambino cristiano riceve nel Battesimo il potere di conoscere queste verità occulte, questi segreti di Dio, che l’Angelo stesso non può intuire; alla sua ragione naturale si è aggiunta un’intelligenza soprannaturale; gli è stata data la luce di Dio, con la quale vedrà l’interno stesso di Dio; potrà conoscerlo nella Trinità delle Persone, quaggiù con la luce della fede, e più tardi in tutto lo splendore della visione chiara. Per la stessa ragione per cui conosce Dio con la sua luce, lo ama con il suo stesso amore, perché la volontà deve sempre andare di pari passo con l’intelligenza. Le facoltà divine del bambino, in quanto tale, funzionano al momento solo come le sue facoltà umane. Ma aspettate un po’ e vedrete nascere nel suo cuore sentimenti che la natura non ha mai concepito. Egli amerà Dio come un buon Padre; lo temerà non con timore servile, ma con timore filiale, che teme l’offesa molto più della punizione; si affiderà alla sua bontà in mezzo alle prove più dure, e realizzerà con gioia, per compiacerLo, i sacrifici più dolorosi.

La felicità di Dio sarà la nostra felicità.

Queste facoltà divine sono accompagnate, nel cuore del Cristiano, da aspirazioni altrettanto divine. Dio gli disse: « Io stesso voglio essere la tua ricompensa. » (Gen. XV, 1). E allo stesso tempo ha acceso nel suo cuore desideri che nessuna felicità creata può soddisfare. Ad ogni essere la saggezza divina destina una felicità proporzionata alle sue capacità. Poiché nessun essere ha naturalmente una capacità divina, Dio non deve a nessuna delle sue creature la propria felicità. Ma ciò che Dio non deve a nessuno, lo destina e lo promette per pura liberalità al Cristiano, e gli dà allo stesso tempo la capacità di ricevere quella felicità ed il potere di meritarla. Che cosa serve di più al Cristiano per avere una vita veramente divina? Non è sufficiente che egli abbia in sé il potere di acquisire la conoscenza divina, di concepire un amore divino, la speranza e il desiderio di meritare e possedere la felicità stessa di Dio? Se questi doni ci sono stati veramente distribuiti, come può San Pietro dire in tutta verità e in senso non metaforico, che siamo stati resi partecipi della natura divina? (1 Pet. I, 4) Sì, queste parole sono di una rigorosa esattezza; perché la natura è l’essere in quanto principio delle sue operazioni, e l’essere divino ci è stato dato proprio sotto questo aspetto. Questo stesso Essere Infinito è stato comunicato in modo molto diverso alla natura umana di Nostro Signore Gesù Cristo. L’umanità del Divin Salvatore è stata resa partecipe della Persona del Verbo di Dio; essa sussiste anche in Lui e forma con Lui una sola Persona. Ma ognuno di noi conserva la sua personalità, quindi non siamo dèi come lo è Gesù Cristo. In noi il divino non è la sostanza, bensì le operazioni; noi siamo partecipi non della personalità divina, ma della natura divina; non siamo uomini-Dio, ma uomini divini.

Gesù Cristo è l’Uomo-Dio, noi siamo uomini deificati.

La Scrittura dà, in varie occasioni, il nome di divinità agli uomini e agli Angeli elevati allo stato soprannaturale. Così dice il Salmo XLIX: « Dio sta nell’assemblea degli dèi. » In effetti, questo nome ci si addice bene, perché noi abbiamo qualcosa di divino in noi stessi. Ma questa divinità è in noi, solo come un accidente eccellente e non influisce sulla nostra sostanza, per cui siamo lontani dall’essere dèi allo stesso titolo che Gesù Cristo. « È evidente – dice sant’Agostino, commentando queste parole – che gli uomini sono chiamati dèi in quanto sono divinizzati dalla grazia, non in quanto nati dalla sostanza divina. Essi sono divinizzati così come sono giustificati, perché, il giustificarli, li ha resi figli di Dio: “Ha dato loro il potere di diventare figli di Dio, dice l’Evangelista”. » (Giovanni. I, 12). « Se siamo diventati figli di Dio, siamo evidentemente diventati divinità, ma solo per grazia d’adozione e non per generazione naturale. Dio ha un solo Figlio, Dio come Lui, e forma un solo Dio con suo Padre; mentre gli altri che sono trasformati in divinità, lo sono per sua grazia. Non nascono cioè dalla sua sostanza, né saranno mai uguali al Figlio Unigenito; ma, per benevola concessione sono a Lui simili, e partecipano alla ripartizione della sua eredità. » (S. Aug. in Ps. XLIX; ML. 36, 564). La divinità del Cristiano è molto diversa da quella di Gesù Cristo, ma la sua divinizzazione non cessa comunque di essere molto reale. Noi non siamo dèi nel senso stretto della parola, ma divinizzati veramente.

La parola “deificazione” esprime meglio di “soprannaturale” lo stato

del Cristiano in grazia.

La parola “deificazione” esce continuamente dalla penna dei santi dottori ed è l’unica parola che esprime chiaramente lo stato del Cristiano adornato dalla grazia di Gesù Cristo. La parola “soprannaturale” non ha la stessa chiarezza, perché può riferirsi a doni od operazioni che superano le forze e le esigenze della natura umana, senza necessariamente dire nulla sull’elevazione di questa allo stato divino. La resurrezione di un morto è un’opera soprannaturale, eppure il morto risorto non è necessariamente arricchito dei doni della grazia. La conoscenza di cose lontane, che sarebbe per l’uomo una facoltà soprannaturale, non lo sarebbe per un Angelo. Al contrario, la fede, la speranza, la carità, la felicità del cielo sono cose ugualmente inaccessibili alle forze di tutte le creature, anche le più perfette. Perché? Perché sono doni veramente divini e non possono appartenere ad una creatura se non nel grado della sua divinizzazione. San Tommaso lo spiega molto bene: « Il dono della grazia è sopra ogni potere della natura creata, perché non è altro che una partecipazione alla natura divina, che è superiore a tutto lo stato naturale. È quindi del tutto impossibile per una creatura produrre la grazia. Il ferro non può ricevere le proprietà del fuoco se non si mette in esso, e nella misura in cui è unito ad esso; per questo solo Dio può divinizzare una creatura ammettendola ad una partecipazione della sua natura divina. » (Ia-IIa, q. 112, a.1). Molto prima del Dottore Angelico, San Cirillo di Alessandria, faceva contro i nemici della divinità dello Spirito Santo un ragionamento simile: « Come può accadere – egli diceva – che una natura creata possa fare degli dèi coloro che non lo sono? Non si può concepire una creatura deificatrice. Solo Dio ha il potere di divinizzare le anime giuste, alle quali concede, con il suo Spirito, una partecipazione alla dignità che gli è propria. » (S. Cirillo di Alessandria, Dial. VIII, de Trinitate, MG: 75, 1075). È già chiaro che la divinizzazione del Cristiano era per il Santo Dottore, e per tutta la Chiesa del suo tempo, qualcosa di talmente certo da non aver egli paura di appoggiarsi a questa verità per dedurne la divinità dello Spirito Santo.

La grazia ci rende partecipi della natura divina.

Da tutto ciò che precede è chiaro che la grazia abituale è davvero un dono soprannaturale che ci rende partecipi della natura divina. Per natura divina dobbiamo qui intendere la perfezione primitiva e primordiale, che è come la radice degli attributi di Dio e l’inizio delle sue operazioni. Perché, per la natura delle cose, i filosofi non hanno concepito altro che il grado di ciascun essere, da cui derivano le loro proprietà e le loro operazioni. Ora, la grazia santificante copia nell’anima quella perfezione primitiva e primordiale che noi concepiamo essere il principio di Dio. Così come Dio è, per sua natura, la radice dei suoi attributi divini e ha una inclinazione (che in Dio è Dio stesso) a vedersi intuitivamente, ad amarsi con un amore beatifico o divino e a fare per se stesso tutto ciò che fa fuori di sé, allo stesso modo, l’uomo spirituale, rigenerato dalla grazia santificante, ha la tendenza a vedere Dio intuitivamente, ad amarLo con un amore divino, a fare tutte le sue azioni per Dio solo. Questa grazia santificante è anche la radice della carità e delle virtù infuse che sono l’immagine delle perfezioni divine e delle conseguenze della grazia. La grazia santificante è una partecipazione alla natura divina per mezzo della quale l’anima tende a vedere Dio come è in sé (Contenson, Theologia mentis et cordis). Ma qual è la natura intima della grazia? Come dice il Dottore Angelico, la grazia santificante è una forma, una qualità dell’anima, che non opera come causa efficiente ma come causa formale, allo stesso modo in cui la pittura non fa la parete, ma la rende bianca. È una forma accidentale della sostanza dell’anima, per mezzo della quale Dio dà sostanzialmente ciò che è in Lui. Ciò che Dio possiede per sua natura, per la sua infinita perfezione, è infinitamente perfetto; ma ciò che l’anima possiede per grazia è contingente, limitato, imperfetto. La grazia è qualcosa di creato, nella misura in cui gli uomini sono trasformati in nuovi esseri dal nulla, cioè senza alcun merito proprio. La grazia non è una virtù, né una sostanza, ma la natura divina condivisa che produce nell’anima del Cristiano una qualità, un’attitudine. Ne consegue che la grazia è più nell’essenza dell’anima che nelle sue facoltà; nel modo che l’uomo, partecipando della conoscenza divina per mezzo della sua facoltà di conoscenza intellettuale, acquisisce un potere soprannaturale e divino, che è la fede. Partecipando all’amore divino, attraverso la sua volontà o facoltà d’azione, egli raggiunge un potere soprannaturale e divino che è la carità. Allo stesso modo è fatto partecipe, attraverso l’essenza stessa e la natura della sua anima, della natura divina e ottiene una certa somiglianza con Dio attraverso una sorta di rigenerazione o una nuova creazione.

Effetti che la grazia produce in noi, secondo San Bonaventura e Monsabré.

Tale è la natura della grazia che produce in noi degli effetti meravigliosi, di cui apprezzeremo la grandezza solo in cielo. San Bonaventura li riassume nei seguenti termini: « La grazia è il dono che fa della nostra anima la sposa di Gesù Cristo, una figlia dell’Eterno Padre e il tempio dello Spirito Santo. È un dono gratuito della bontà divina che purifica l’anima, la illumina e la perfeziona; la vivifica, la riforma e la rafforza; la eleva a Dio, la rende simile a Dio e la unisce a Dio. Come la nostra anima non assomiglia alla Santa Trinità se non per la virtù che ci purifica, ci rafforza e ci eleva, e per la chiarezza della verità che ci illumina, ci riforma e rassomiglia a Dio: in breve, siccome è questo insieme di doni che ci rende degni delle compiacenze e dell’amore del nostro Dio, ne consegue che questa influenza divina prende il nome generale di grazia, che esprime e riassume meravigliosamente i vari effetti dell’effusione dell’amore divino (S. Bonav., Breviloquium pars V, c. I). Anche il Padre Monsabré ha descritto gli effetti della grazia sull’anima: « Noi siamo partecipi della natura divina. Non abbiamo timore di confessare questo dogma a testa alta e di nutrire la nostra anima con questa consolante dottrina. Non è mai stato così necessario mantenere saldo lo spirito dei Cristiani e respingere gli attacchi dei nostri nemici. Satana rinnova, con più astuzia che mai, il tentativo che gli ha dato così buoni risultati nel Paradiso terrestre; egli dice agli uomini: « Sarete come dèi se vi scrollerete di dosso il giogo di Dio ». Il suggerimento è la più mostruosa di tutte le menzogne. Perché? Perché è la perversione della più utile di tutte le verità. Ciò che è falso nella parola di satana non è che l’uomo possa aspettarsi di essere come Dio, perché Dio stesso gli ha dato questo destino creandolo a sua somiglianza e ordinandogli di essere perfetto così come Egli lo è; il crimine consiste nel cercare la somiglianza di Dio nella ribellione contro Dio, con l’appoggiarsi, per derubare l’uomo, alla nobile ambizione di elevarsi a Dio: questo è ora, così come nel primo giorno del mondo, tutto il segreto della tattica di satana. » Come possiamo contrastare questa tattica? Non abbiamo altra scelta che far conoscere all’uomo la sua vera grandezza e presentare le sue immense aspirazioni con l’unico oggetto che possa soddisfarle. Alla falsa apparenza della divinità, che il panteismo fa risplendere ai suoi occhi e che non è altro che l’annientamento della sua personalità, delle sue facoltà, del suo essere, noi opponiamo la divinizzazione realissima che Gesù Cristo gli offre. Lasciando alla natura umana la sua completa integrità, vi aggiunge il dono magnifico della natura divina. Allora non sedurrà più le nostre anime quel mostruoso errore. Il vuoto che egli intende colmare sarà già divinamente colmato; le aspirazioni con cui vuole ingannare saranno pienamente soddisfatte. Rendiamoci inaccessibili alla seduzione, penetrando ogni giorno più intimamente la verità; apprezziamo, come meritano, i doni che Dio ci ha dato (1Cor. II, 12), e non saremo tentati di rincorrere a chimere. Apriamo gli occhi del nostro cuore per conoscere le magnifiche speranze della nostra vocazione, i tesori di gloria che costituiscono la nostra eredità nella dimora dei santi (Efes. I, 18), e non ci costerà nulla disprezzare tutte le promesse e le minacce del mondo. Dal momento in cui comprendiamo di essere degli dèi, non avremo più paura di diventare uomini: come partecipanti della natura e della vita di Dio come siamo, agiamo divinamente. Pensieri, opere, desideri, azioni, tutto assume proporzioni infinite nella nostra anima, perché tutto è impregnato della virtù dell’Altissimo e trasformato dalla Linfa Divina. » (p. Monsabré, Vie divine de l’homme).

Capitolo IV.

LA GRAZIA ED IL CUORE DI GESÙ

Intima unione del Verbo con l’umanità.

Appena la Madonna ha pronunciato il fiat liberatorio, il Verbo, scendendo dall’alto del cielo, prende su di sé l’umanità languente per farla propria e realizzare per essa i grandi progetti che nella sua misericordia aveva concepito. Fin dal primo momento, l’anima umana di Gesù è apparsa piena di bellezza agli occhi di Dio, che gli dà amorevolmente il bacio della pace, dicendo: « Sei la mia amata figlia, bella tra migliaia, e non c’è macchia in te. » La divinità ha riempito quell’anima e l’ha ridondata nel corpo, al punto che San Paolo poteva dire che la divinità abitava  corporalmente in Gesù. Quando il ferro è sottoposto al fuoco, lo penetra e si identifica con lui. Non cessa di essere ferro, ma diventa ferro rovente. L’unione del Verbo con l’umanità supera senza paragoni l’unione molto intima del ferro e del fuoco. Il Verbo assorbe nella sua personalità quella dell’umanità. Anche se sussiste la sua natura, vuole che la sua Persona la compenetri e la elevi ad una dignità che nessuna intelligenza umana potrebbe mai concepire. La mera unione del Verbo con l’umanità rende questa pura, innocente, bella, immacolata, degna dell’amore soprannaturale di Dio.

La grazia di Dio riempie l’anima di Gesù Cristo.

Dobbiamo noi dedurre che la grazia santificante o abituale non sia stata data all’anima di Gesù, o almeno che non potesse esserGli di alcuna utilità? Sant’Agostino afferma il contrario: « Gesù Cristo è pieno di grazia perché Dio lo ha unto con l’unzione dello Spirito Santo, non con l’olio visibile, ma con il dono della grazia. Un dono che rappresenta l’olio che la Chiesa usa nei battesimi. » ( S. Aug.: De Trinitate, 1, XV, c. XXVI; ML: 42, 1092). Tale era anche l’opinione di San Cirillo e di San Giovanni Crisostomo, basata su ragioni di congruenza, che hanno attirato l’attenzione di tutti i teologi portandoli a concludere, quasi all’unanimità, dell’esistenza della grazia santificante nell’anima di Gesù Cristo. Tutte le creature ricevono grazia e gloria da Dio (Ps. LXXXIII). Dio è il centro che irradia la grazia, la prima e unica fonte da cui sgorga l’acqua viva che estende la vita. Più ci si avvicina al fuoco, più si sente il calore; più ci si avvicina alla sorgente, più si è pronti ad attingere acqua abbondante e pura. Ora, quale creatura è stata più vicina alla divinità dell’umanità del Salvatore? Certo, c’è una linea di divisione tra essa e la Persona del Verbo che la sostiene; il Quale si è fatto tanto sua questa umanità, che dalla sua unione nasce un solo amore: l’Uomo-Dio. Egli è il Verbo, ma non solo il Verbo; Egli è il corpo e l’anima di un uomo, ma non solo un corpo e un’anima: è il Verbo incarnato, cioè il Verbo che penetra tutta l’umanità, come un balsamo che penetra con il suo profumo morbido il corpo con cui si mescola (Mons. De Segur: “Nos grandeur in Jesus”). L’anima di Gesù Cristo è intimamente unita alla divinità; non può quindi sottrarsi alla grazia di Dio che la inonda completamente e la riempie di tutta la pienezza di cui è capace una creatura.

Ragioni di questa pienezza di Grazia.

Tutto richiedeva in Nostro Signore questa pienezza: la sua intelligenza, destinata a penetrare il più intimo dei misteri, fino al cuore della divinità; la sua volontà che doveva amare Dio con un amore soprannaturale, la cui longitudine, latitudine, altezza e profondità superano ogni concezione; la sua natura umana che, vivificata – non distrutta – dalla Persona del Verbo divino, doveva sussistere nella sua interezza. È veramente lo strumento del Verbo, non quello inerte e inconscio del lavoratore, ma uno strumento animato che ha una sua vita, un suo modo di agire, una sua autonomia. Ha bisogno, questa natura, di un principio d’azione che diriga e perfezioni i suoi atti; ha bisogno, questa natura, essenzialmente umana, di un elemento che la soprannaturalizzi e la renda partecipe della natura divina: questo è ciò che fa la grazia che è comunicata come eredità. Gli attributi della personalità divina e della grazia rimangono in Gesù Cristo completamente diversi. L’unione ipostatica da sola, senza considerare altro che il suo effetto formale, comunica all’umanità la dignità della Persona. È una dignità divina e quindi la rende straordinariamente santa e gradita agli occhi di Dio, incapace di essere sfigurata dalla minima macchia. Ma perché il Verbo comunichi tutta la sua perfezione, deve dare con la perfezione, anche la santità della sua natura divina. È precisamente la grazia, che è stata definita così giustamente come una infusione della natura divina nella natura umana, che dona all’anima la bellezza, la forma che la prepara alla gloria che le è riservata. Cosa santifica il corpo, si chiede Suàrez? Una disposizione interiore segreta, che modera i suoi movimenti, li mantiene in ordine, facilitando le sue oneste operazioni. Senza dubbio, la Persona del Verbo santifica la carne di cui è rivestita, poiché diventa carne di Dio. Tuttavia, per essere elevato allo stato di santità richiesto dalla sua natura, Egli richiede anche la disposizione interiore che stabilisce l’ordine nelle sue facoltà, che non produce, almeno formalmente, la presenza della seconda Persona della Santissima Trinità. Questo è ciò che accade nell’anima di Gesù Cristo. L’anima, pur nobilitata e santificata dalla presenza del Verbo, non raggiunge tutta la perfezione di cui è capace finché la grazia non le comunica l’effetto fisico, la particolare disposizione che perfeziona il suo modo di agire e che noi chiamiamo grazia. È vero che questa perfezione è, se così si può chiamare, estrinseca, accidentale, eminentemente contenuta in ciò che conferisce la personalità divina; ma deriva anche dal Verbo incarnato, al quale non potremmo negarla senza avventatezza. Non è questa una conseguenza necessaria della presenza del Verbo, perché si fonda unicamente sul beneplacito di Dio. Ma si aggiusta, si adatta alla sua presenza in modo così armonioso, così perfetto, che sembra essere la sua naturale ed inseparabile compagna. Nel momento stesso in cui il Verbo si è incarnato nel grembo di Maria, la sua anima è stata abbellita dalla grazia santificante che gli è stata donata in tutta la sua pienezza. Se poi l’evangelista ci dice che il Bambino di Nazareth è cresciuto nell’età e nella grazia, dobbiamo capire trattarsi delle manifestazioni esterne di questa grazia, perché all’interno non era suscettibile né di aumentare né di diminuire. Dalla sua creazione l’anima di Gesù ha ricevuto tutta la grazia che sarà la sua eredità in eterno.

Significato della frase: «Pienezza della grazia ».

« Lo abbiamo visto pieno di grazia e di verità ». A proposito di questa parola di San Giovanni, i Dottori notano che l’espressione può avere diversi significati. A volte la Scrittura la usa per indicare un’abbondanza di grazie che si estende a tutte le opere virtuose, a tutte le potenze. In questo senso, San Paolo desidera che gli Efesini siano colmi della pienezza di Dio (Ef. III, 19). Altre volte la Scrittura vuole mettere in evidenza una grazia di elezione, conferita a un’anima in previsione della missione che Dio le riserva. Così Maria è stata salutata dall’Angelo, “piena di grazia”, perché aveva ricevuto tutte le grazie legate alla sua dignità di Madre di Dio. È solo in Gesù Cristo che la parola “pienezza della grazia” deve essere presa in tutta l’estensione del suo significato. Tutte le grazie delle altre creature, unite e paragonate alla grazia di Gesù Cristo, sono ciò che è uno stagno in relazione al vasto oceano. Infatti, mentre la grazia è stata data alle creature secondo una certa distribuzione, a Gesù Cristo è stata data senza alcuna misura. Quindi, sebbene questa grazia sia essenzialmente finita, perché creata e della stessa specie di quella che viene conferita a noi, è talmente sovrabbondante in Gesù da poter essere giustamente chiamata infinita. Le opere di Nostro Signore raggiungono un valore infinito grazie a questa unione. Essa dà infinito merito alle azioni del Salvatore, infinita soddisfazione a tutte le sue azioni compiute in spirito di penitenza. Questa unione influenza anche la grazia santificante, e le conferisce una forza d’azione infinita, in modo che la grazia renda l’anima di Nostro Signore infinitamente gradita e santa agli occhi di Dio. Dico infinitamente santa, ma non dobbiamo dimenticare che rimane sempre la differenza tra la santità conferita all’anima di Nostro Signore dalla grazia santificante e la santità di Dio: questa è infinita per essenza, quella per comunicazione.

Accostiamoci al Cuore di Gesù con fiducia.

Ognuno di noi deve mettere in pratica il consiglio dell’Apostolo di avvicinarsi al trono della grazia con fiducia, per ottenere da Lui la misericordia. Che cos’è questo trono di grazia? È il Cuore di Gesù, perché in Lui regna la carità; in Lui, dunque, ha sede la grazia, come una regina piena di maestà e di benevolenza. Non abbiamo paura; Gesù stesso ci chiama: « Venite – ci dice attraverso Isaia – venite a comprare vino e latte senza denari. » (Is. LXV, 1). Quel vino e quel latte sono la grazia che si insinua così dolcemente nell’anima, nel rispetto della sua libertà, e che le comunica allo stesso tempo una forza, un vigore cento volte superiore alle sue forze naturali. Il Cuore di Gesù è la fonte di acqua viva che giunge fino alla vita eterna della grazia. Questa fontana è stata aperta sul Calvario dalla lancia. Tutti coloro che desiderano attingere dalla grazia si avvicinino al Cuore di Gesù. E cosa possiamo temere? Dio non ha forse depositato per noi questa sovrabbondanza di grazia nel Cuore di suo Figlio? E cosa desidera il Cuore di Gesù se non arricchirci con i tesori che custodisce? In ogni pagina delle rivelazioni di Santa Margherita Maria, possiamo vedere questo desiderio del buon Maestro. Ascoltiamo alcune sue parole: « Il mio Cuore Divino è così appassionato d’amore per gli uomini che, non potendo contenere in sé le fiamme della sua ardente carità, vede come necessario il comunicarle e manifestarsi ad esse, per arricchirle con i suoi preziosi tesori. Il Cuore amabile di Gesù – dice la Santa – ha un desiderio infinito di essere conosciuto e amato dalle sue creature, nelle quali vuole stabilire il suo impero come fonte di ogni bene, per prendersi cura dei loro bisogni. Lo dico con tutta certezza che, se sapessimo quanto è gradita questa devozione a Gesù Cristo, non ci sarebbe un Cristiano che, per quanto poco amore possa avere per l’amabile Redentore, non la praticherebbe. Nostro Signore riserva tesori incomprensibili a coloro che sono impegnati nella sua istituzione. Mi ha spesso promesso che coloro che sono devoti al Suo Sacro Cuore non periranno mai e che, essendo Lui la fonte di tutte le benedizioni, le distribuirà con generosità dove l’immagine del Cuore amoroso è esposta per essere amata e onorata. » Nelle lettere di Santa Margherita troviamo un fatto che dimostra quanto sia opportuno che soprattutto noi, sacerdoti di Gesù Cristo, facciamo ricorso a questo Cuore pieno di grazia, per noi prima di tutto, e anche per le anime che ci sono affidate. Ad un religioso della Compagnia la Santa aveva chiesto di mettere la sua cura nella composizione di un’incisione del Sacro Cuore. Impedito da altre occupazioni, questi aveva impiegato molto tempo per farlo. « Il buon Padre – scrive la Santa – è così impegnato con mons. De Autun, nella conversione degli eretici, che non ha né il tempo né l’opportunità di impegnarsi in quest’opera che l’adorabile Cuore del nostro Maestro desidera con tanta veemenza. Non potete immaginare, mia carissima Madre, quanto questo ritardo mi affligga e mi faccia soffrire. Devo confessarle in confidenza che, a mio parere, questa è la causa delle poche conversioni degli infedeli nel suo popolo. Mi sembra di sentire continuamente queste parole: se il buon Padre avesse prima adempiuto ciò che aveva promesso al Sacro Cuore, Gesù avrebbe cambiato e convertito i cuori degli infedeli, per il piacere che avrebbe provato nell’essere onorato nell’immagine che desidera; ma poiché gli antepone altre cose, per darGli questo piacere, naturalmente per la sua gloria, indurirà i cuori di quegli infedeli, e le opere di quella missione saranno di poco frutto. »

Capitolo V

IL CUORE DI GESÙ FONTE DELLA GRAZIA

Cristo Restauratore di tutto il creato ed Autore della grazia.

Alcuni Padri della Chiesa dichiarano che la morte di Cristo sia stata un bene per tutta la creazione. Essi basano la loro affermazione su motivi di congruenza e sulla testimonianza di San Paolo che afferma che Cristo ha provato la morte per tutti (Eb II, 9). « Nel mondo materiale, anche gli esseri privi di ragione e di sentimento non riescono a trovare la loro giusta ragione, la perfezione che si addice loro, se non nel soprannaturale, e quindi in Cristo e per mezzo di Cristo. Ma si dice ancora poco nell’affermare che il soprannaturale spieghi e perfezioni il mondo materiale: si dovrebbe dire che lo nobiliti, che gli conferisca un valore incomparabile, facendolo partecipare, nella misura in cui permette la sua natura, alla grandezza a cui l’uomo stesso è stato elevato. Spero di potervi far capire che il mondo materiale non sia stato escluso dalla magnifica restaurazione di tutte le cose in Cristo che Dio intende realizzare (Ef. I, 9-10); e anche che esso sia stato poi abbellito quanto più possibile. » (P. Curci, La nature et la gràce, t. I , 15 discorso). La Sacra Scrittura ripete spesso che Nostro Signore sia la fonte della grazia; che la grazia e la verità siano stati fatti da Gesù Cristo; che Dio doni la sua grazia attraverso il suo Figlio prediletto. Tutte queste sono espressioni che rivelano una verità importantissima, di cui è bene avere una conoscenza profonda prima di studiare i mezzi con cui Nostro Signore comunica la grazia divina. Per quanto intima possa essere l’unione del Verbo con l’umanità in Nostro Signore Gesù Cristo, le sue operazioni divine rimangono completamente distinte da quelle umane. Supponendo questo, chiediamoci prima di tutto chi produca la grazia, se la divinità o l’umanità. Alcuni teologi, seguendo le attrattive di una pietà mal illustrata, hanno osato dire che l’umanità del Salvatore fosse la causa principale della Grazia e che Egli esercitasse su di essa un’azione diretta e fisica. Questo è un errore manifesto, perché nella creazione della grazia non c’è altro che uno strumento; così il Concilio di Trento, trattando della causa efficiente della grazia, parla sempre di Dio escludendone l’umanità. Gli effetti non possono essere di ordine diverso dalla causa che li produce; la grazia, essendo di un ordine infinitamente superiore alla natura umana, non può essere prodotta da essa, ma è imperiosamente rivendicata da un altro Autore. – In che senso, dunque, la Sacra Scrittura e tutti i Padri proclamano Gesù Cristo Autore della grazia? Cerchiamo di capire bene questa verità, perché ci unirà molto di più al Cuore di Gesù, facendoci penetrare molto al suo interno, ed accenderà i nostri cuori alla riconoscenza e all’amore, rivelandoci tutti i benefici che abbiamo ricevuto da Lui.

Non possiamo fare nulla senza la grazia.

Cosa possiamo noi fare nell’ordine soprannaturale della grazia? Una parola riassume il tutto: NULLA! Nemmeno possiamo pronunciare il Nome del Nostro Salvatore, né avere un inizio di fede che sia proficuo per la nostra salvezza: « Infatti – dice il Concilio di Orange – se qualcuno afferma che l’inizio della fede, per cui noi crediamo in Colui che giustifica l’empio, non sia l’effetto del dono della grazia, ma ci venga dall’ordine naturale, si oppone ai dogmi apostolici. » (cfr. 5). Non c’è una sola opera dell’ordine naturale che possa meritare la grazia, non solo – volendo impiegare il linguaggio delle scuole – de condigno, ma nemmeno de congruo. Questo è stato permesso da Dio, perché l’uomo fosse umile, riconoscendo così la sua completa dipendenza da Dio in tutto ciò che riguardi la sua salvezza. Non possiamo fare alcuna opera soprannaturale senza la grazia, né possiamo meritarla, per quanto ci sforziamo. Siamo veramente ridotti alla povertà estrema, e se qualche amico non viene ad aiutarci nella nostra necessità, siamo infallibilmente perduti. Ma consoliamoci: questo amico benefattore, tanto ricco da farci l’elemosina della grazia, esiste: è Gesù! che con i suoi infiniti meriti ce l’ha meritata, e proprio per questo lo salutiamo con il titolo di Autore della grazia.

Gesù Cristo ci ha meritato la grazia.

Quali misteri d’amore ci rivelano queste semplici parole! Il Verbo, in tutto ciò che è pari al Padre suo, non potrebbe meritare; ma, per l’amore che ha per noi, farà un miracolo che gli permetterà di soddisfare allo stesso tempo tutte le condizioni richieste per il merito. Egli scende dal cielo, veste la sua divinità con la livrea del genere umano, unisce la natura umana alla sua natura divina nell’unità della Persona. Da allora, l’Uomo-Dio, Uomo perfetto, Dio uguale al Padre e allo Spirito Santo, possiede tutte le qualità richieste per il merito, elevato al più alto grado di perfezione. Mentre la sua anima, nella parte superiore, contempla il volto di Dio e gode già della felicità della patria, nella parte inferiore è soggetta a tutte le nostre infermità; il suo corpo è sottoposto ad un duro lavoro, e solo a prezzo di molte sofferenze può entrare nel regno della gloria, verso il quale cammina dolorosamente come ogni uomo venuto al mondo. In Gesù, la volontà divina vuole e ama necessariamente; ma la sua volontà umana rimane completamente libera e quindi ha la possibilità di offrire a Dio Padre il sacrificio dei suoi atti e di conseguenza di meritare. Quando dico che Cristo era libero, non intendo dire che la sua volontà potesse essere incline al male; al contrario, era determinata al bene. Ma va notato – con san Tommaso – che il potere di inclinarsi al peccato, lungi dal’essere la perfezione della libertà, ne è il suo difetto. La volontà umana non è mai più libera di quando, rinunciando al folle progetto di farsi la propria regola di condotta, prende come regola la volontà stessa di Dio, sempre infallibile. Al di fuori della volontà divina, la volontà umana non trova altro che la schiavitù: « Chi pecca, diventa schiavo del peccato. » (Joann. VIII, 34). Ma ciò che accresce all’infinito il merito di Nostro Signore è che tutte le sue azioni sono state le azioni di un Uomo-Dio. « È facile dire che la sua volontà umana, unita alla divinità con il vincolo della carità e della grazia santificante, che aveva in tutta l’abbondanza che si addiceva all’anima di un Uomo-Dio, meritasse più, in tutto ciò che incarnava, di quanto lo spirito umano potesse comprendere, perché la grandezza dei suoi meriti si misura con la grandezza della sua grazia; eppure ciò non significa che i suoi meriti siano infiniti, poiché la sua grazia santificante, come creatura, non è infinita. Ma se si considera l’unione ipostatica che fa dell’uomo che lavora, soffre e merita, un vero Dio, si ha il principio del valore infinito e della dignità di tutti i suoi meriti. Se si smette di affermare che non solo che le sue azioni provenissero semplicemente dall’umanità, ma dall’umanità totalmente inabissata e trasformata in Dio, penetrata dall’unzione divina e aureolata con il bagliore della divinità, si giudicherà, e con molta ragione, che tutto ciò che è abissale fosse divino e di infinito valore. Giudicherete, e giustamente, che tutto ciò che era santo era divino e di infinito valore. Noterete non solo che la santa umanità fosse completamente piena, e se possiamo parlare in questo modo, traboccante ovunque di grazia santificante; ma anche che, unita in modo tale al divino da formare con esso una sola Persona, sembri aver avuto come radice certa l’aver penetrato a sufficienza la stessa divinità e gli stessi attributi divini, da cui ha tratto una vita infinita, un vigore, un’eccellenza ed una dignità che ha riversato in tutte le sue opere per cui ha dato loro un merito davvero infinito. » (D’Argentan, Grandeurs de JésusCrist.).

Beni che ci vengono dai meriti di Cristo.

Gesù Cristo ha lavorato e meritato per noi e i beni che ci vengono dai suoi meriti sono innumerevoli. Non parlo degli Angeli, che devono anche loro tutte le grazie ricevute ai meriti previsti di Gesù Cristo.  « Tutti hanno ricevuto dalla sua pienezza », dice San Giovanni; e, come avverte San Tommaso, tutti gli Apostoli, i Patriarchi, i Profeti, i giusti che sono esistiti, esistono e esisteranno, anche gli Angeli stessi. Perché la pienezza della grazia che è in Cristo è la causa di tutte le grazie che sono in tutte le creature razionali. Allo stesso modo, San Gregorio commenta il v. 2 del capitolo 2 del Primo Libro dei Re: « Non c’è nessun santo come il Signore, perché non c’è nessun altro fuori di Lui. » San Gregorio dice che « Non c’è nessun altro all’infuori di Lui », da intendersi come la prima espressione: « Non c’è nessun altro santo all’infuori di Te », perché nessuno tra gli uomini o tra gli Angeli è Santo se non Cristo. « Benedetto sia Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei beni celesti in Cristo, come Egli ci ha scelti in Lui stesso, prima della creazione del mondo, perché siamo santi e irreprensibili davanti a Lui nell’amore; che ci ha predestinati a Cristo, perché ci adotti come figli secondo lo scopo della sua volontà, a lode e gloria della sua grazia, con la quale ci ha reso gradevoli nel suo Figlio diletto. » (Eb. I, 3-6). Con queste parole San Paolo solleva un po’ il velo che ci nasconde l’immenso tesoro di grazie racchiuso nei meriti del Salvatore. Dio ha davanti a sé, da tutta l’eternità, il Figlio suo Gesù Cristo, fatto da Lui Re di tutta la creazione e tipo ideale di tutte le creature. Ma prima di far uscire il mondo dal nulla, prima di creare il cielo e la terra, Egli ci ha scelto da tutta l’eternità per essere nel numero di coloro che formeranno la corte del suo amato Figlio. La verità è che il peccato sembra venire prima di tutto a destabilizzare il piano primitivo. Ma Dio saprà renderlo più grande e più bello sempre attraverso suo Figlio Gesù: Proposuit omnia instaurare in Christo, sivequæ in cælis, sivequæ in terris sunt. Questo Gesù che prima di tutto parla di essere unicamente un Re di gloria, sarà per noi un Uomo di dolore; salirà su una croce e dal suo Cuore aperto farà scorrere sopra di noi il sangue riparatore che cancellerà tutte le nostre colpe. Ma per la gloria di questa grazia, per far risplendere la sua potenza in tutto il suo splendore e la sua meravigliosa fecondità, ci predestina ad essere figli adottivi di Dio; una gloria che dobbiamo interamente ai meriti di Gesù Cristo. Grazie a Gesù Cristo, siamo chiamati ad essere cittadini del cielo, eredi delle ricchezze dell’Eterno Padre, anche se nulla ci è dovuto. Siamo destinati ad essere coeredi di Gesù Cristo, ad essere figli di Dio. Dio, da parte sua, non perdonerà nulla?, ma per mezzo di Gesù Cristo ci benedirà con ogni sorta di benedizioni spirituali: « Perciò – dice sant’Ambrogio – vedendo come vengono tutte le grazie da Cristo, se qualcuno lo disprezza e crede di poter essere benedetto da Dio, si è immancabilmente ingannato. » Considera che un tale sia nato alla grazia in un Paese cattolico e da una famiglia cattolica. Gesù gli ha meritato il Battesimo. Quando la grazia santificante discende in un’anima, nel momento in cui l’acqua rigenerante scorre sulla fronte del nuovo Cristiano, la bagna come una regina, accompagnandola con la fede, la speranza e la carità, con tutte le virtù morali e con i doni dello Spirito Santo. Gesù fa crescere nella virtù e guida i nostri passi; perché la sua “grazia preveniente” accompagna e corona tutte le vostre opere. Non lavorate voi da soli, ma la grazia di Gesù è con voi, e ad essa dovete tutto ciò che c’è di buono e santo in voi, poiché senza di essa nessuna delle vostre azioni potrebbe essere gradita a Dio. » (Conc. Trid. I, 6, cf. 16). Guardate la grazia di Gesù nella buona ispirazione che passa attraverso il vostro spirito, nel buon movimento che fa battere il vostro cuore, nel buon desiderio che vi conduce alla virtù. Quando la tentazione vi fastidisce, c’è la grazia di Gesù che vi incoraggia e moltiplica le vostre forze. Quante volte avete forse tradito la causa di Gesù! Quante volte avete calpestato il suo prezioso Sangue! L’avete crocifisso di nuovo nel vostro cuore! Voi vi pentite, va bene; ma sappiate che alla sua grazia dovete anche l’atto di contrizione, e ai suoi meriti il perdono di tutte le colpe mortali e veniali; anche a Lui dovete la perseveranza finale, il dono dei doni, il dono supremo della grazia. Nell’ora della morte, quando tutte le vostre ricchezze e i vostri parenti e amici vi hanno abbandonato, Gesù, il vostro vero amico, non vi lascerà. Grazie ai suoi meriti, il cielo si aprirà a voi e potrete, per tutta l’eternità, glorificare l’Agnello immolato dall’inizio del mondo, il cui Sangue vi ha liberato dalla schiavitù del peccato e vi ha reso eroi.

Conseguenze pratiche.

Come ci fa capire bene questa verità il paragone che Gesù usava quando diceva: « Io sono la vite, voi i tralci. » I rami, infatti, devono tutto alla vite che li sostiene: nascita e crescita; attraverso di essa vivono, germogliano e si ricoprono di foglie, fiori e frutti. Dobbiamo tutto a Gesù Cristo nell’ordine soprannaturale, e molto nelle circostanze naturali che hanno un rapporto più diretto con la nostra predestinazione, dalla nascita alla grazia fino alla consumazione nella gloria (Ef. I, 23 – S. Aug. in ps. CVIII – Xon. Tris. S. XIV, CFR. 8). Dio aveva promesso al suo Figlio diletto che se fosse morto per l’espiazione dei peccati, avrebbe visto l’emergere di una numerosa posterità. Un giorno ci sarà dato di vedere la realizzazione di quel patto. Quanto sarà glorioso per Gesù il giorno solenne in cui, Re della gloria, apparirà in cielo scortato dalle sue legioni di Angeli che lo proclameranno loro Sovrano, accompagnato da una folla innumerevole di Patriarchi, Profeti, Apostoli, Martiri, Confessori e Vergini che lo acclameranno come loro Redentore, e faranno risuonare i cieli con l’inno trionfante che l’Angelo di Patmos ha udito: « Degno è l’Agnello che è stato immolato di ricevere amore, onore, gloria e benedizione nei secoli dei secoli. » Fino a quel giorno benedetto, mettiamo tutto il nostro impegno per non sprecare nessuno dei grandi benefici che possiamo trarre dai meriti di Gesù Cristo. Chiediamo a Dio, sull’esempio della Santa Chiesa, tutto ciò di cui abbiamo bisogno, ma chiediamolo nel nome dei meriti di suo Figlio Gesù Cristo. « Ho letto molte volte in Louis de Blois – dice il V. Louis de la Puente – che dobbiamo offrire tutto ciò che facciamo in unione con i meriti di Gesù: la mia povertà unita alla povertà di Gesù, i miei atti di obbedienza all’obbedienza del Salvatore, le mie opere alle opere di Gesù, e così via. Questo è ciò che significa offrire le mie azioni a Dio, unendole ed incorporandole a quelle che Gesù ha fatto per me. Da questa offerta e da questa unione le nostre azioni ricevono un lustro speciale ed un valore maggiore, che le rende più gradite. Infatti, per mezzo di questa pratica, riconosciamo Gesù Cristo come nostro Capo, come principio del nostro bene e come nostro mediatore; purché lo chiediamo con perseveranza, usando i suoi meriti come titoli che ci danno il diritto di essere ascoltati. » (Vita di P. La Puente, c. XVIII, p. 143). Tutto ciò che abbiamo spiegato finora non ci porta come per mano a concludere che il Cuore di Gesù sia la fonte della grazia? Perché, qual è la prima ed ultima ragione di tutta la vita di Nostro Signore Gesù Cristo, la ragione che ci conduce al segreto di tutte le sue azioni, se non il suo amore per noi, il cui simbolo più espressivo è il suo Cuore? L’Apostolo ci lascia forse il minimo dubbio al riguardo? Dilexit! Mi ha amato! Questa è la parola chiave di tutti i misteri. Mi amò, e perché mi amava è venuto sulla terra, ha sofferto, ha meritato, si è donato completamente per il mio maggior bene e beneficio (Corn. A Lapide, Effig. S. Pauli). O Cuore di Gesù! Sto appena cominciando a considerare la tua grandezza e già ti presenti a me come il fuoco che irradia tutta la luce; come il vero centro da cui hanno origine tutte le cose buone, tutte le cose giuste, tutte le grandi, tutte le sante! Sì, la mia vita, la mia vera vita sarà il tuo Cuore divino; il mio pensiero sarà il tuo Cuore; la mia speranza sarà il tuo Cuore; il mio amore sarà il tuo Cuore. Per me, volere, parlare, agire, sarà il tuo Cuore; non voglio, non amo se non il tuo Cuore; quello che faccio, penso, dico, deve essere il tuo Cuore Divino.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/05/19/il-cuore-di-gesu-e-la-divinizzazione-del-cristiano-7/