QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉSET MÉDITÉS
A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES
SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.
[I Salmi
tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e
delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli
oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]
Par M. l’Abbé
J.-M. PÉRONNE,
CHANOINE
TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et
d’Éloquence sacrée.
[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di
Scrittura santa e sacra Eloquenza]
TOME TROISIÈME (III)
PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878
IMPRIM.
Soissons, le 18
août 1878.
f ODON, Evêque de Soissons et Laon.
Salmo 131
Canticum
graduum.
[1] Memento, Domine, David,
et omnis mansuetudinis ejus;
[2] sicut juravit Domino, votum vovit Deo Jacob:
[3] Si introiero in tabernaculum domus meæ; si ascendero in lectum strati mei;
[4] si dedero somnum oculis meis, et palpebris meis dormitationem,
[5] et requiem temporibus meis, donec inveniam locum Domino, tabernaculum Deo Jacob.
[6] Ecce audivimus eam in Ephrata; invenimus eam in campis silvæ.
[7] Introibimus in tabernaculum ejus; adorabimus in loco ubi steterunt pedes ejus.
[8] Surge, Domine, in requiem tuam, tu et arca sanctificationis tuae.
[9] Sacerdotes tui induantur justitiam, et sancti tui exsultent.
[10] Propter David, servum tuum, non avertas faciem christi tui.
[11] Juravit Dominus David veritatem, et non frustrabitur eam: De fructu ventris tui ponam super sedem tuam.
[12] Si custodierint filii tui testamentum meum, et testimonia mea hæc quæ docebo eos, et filii eorum usque in sæculum sedebunt super sedem tuam.
[13] Quoniam elegit Dominus Sion, elegit eam in habitationem sibi.
[14] Haec requies mea in sæculum sæculi; hic habitabo, quoniam elegi eam.
[18] Inimicos ejus induam confusione; super ipsum autem efflorebit sanctificatio mea.
[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.
Vol. XI
Venezia, Girol.
Tasso ed. MDCCCXXXI]
È Salmo che Salomone cantò nella dedicazione del
Tempio (lib. 2, c. 6, Paralip.). Si rammenta il desiderio di Davide di
edificare il tempio, e la petizione a Dio che il regno si stabilisca nei suoi
posteri. Il Salmo è tra i graduali, perché da cantare dal popolo reduce dalla
schiavitù, avendosi innanzi da imitare il desiderio di Davide per la casa di
Dio, e la diligenza di Salomone in edificarla.
Cantico dei gradi.
1.
Ricordati, o Signore, di David e di tutta la sua mansuetudine; E del come ei
giurò al Signore, e di come fe’ voto al Dio di Giacobbe:
3. (Dicendo) – Se io entrerò al coperto nella mia casa, se io salirò al mio letto per riposare,
4.
Se darò sonno ai miei occhi e quiete alle mie pupille,
5.
E requie alle mie tempia, (1) fino a
tanto che io trovi un luogo al Signore, un tabernacolo al Dio di Giacobbe.
6.
Ecco che noi udimmo come (sua sede) era in Ephrata; la trovammo nei campi selvosi.
7.
Entreremo nel suo tabernacolo ; lo adoreremo nel luogo dove i suoi piedi si posarono.
8.
Su via, o Signore, vieni nella tua requie, tu e l’arca di tua santità.
9.
I tuoi sacerdoti si rivestano di giustizia, esultino i tuoi santi.
10.
Per amor di David tuo servo non allontanare la presenza del tuo Cristo.
11.
Il Signore ha fatto promessa giurata e verace a David, e non la renderà vana La
tua prole porrò io sul tuo trono,
12.
Se i tuoi figliuoli saran fedeli al mio
testamento e ai precetti che io ad essi insegnerò. I loro figliuoli
ancora in perpetuo sederanno sopra il tuo trono. (2)
13.
Perché il Signore si è eletta Sionne se la è eletta per sua abitazione
(dicendo):
14.
Questa è la mia requie pei secoli; qui io abiterò perché me la sono eletta.
15.
La sua vedova benedirò largamente; satollerò di pane i suoi poveri.
16.
I suoi sacerdoti rivestirò di santità, ed esulteranno grandemente i suoi santi.
17.
Ivi farò che a David spunti regal possanza: Ho preparata al mio Cristo una
lampana.
18.
I nemici di lui coprirò di confusione; ma in lui fiorirà la mia santità.
(1) « Né il riposo alle mie tempia », questa addizione non si trova né
nell’ebraico, né nel caldeo, né nel siriaco, né in san Girolamo. Si ritrova
solo nell’arabo.
(2) Tra le promesse che Dio fece a Davide, una è assoluta: « Io stabilirò
sul tuo trono il figlio che nascerà da te; » l’altro è condizionale: « Se tuo
figlio conserverà la alleanza con me, etc. »
Sommario analitico
In un primo senso, questo salmo è
applicabile alla consacrazione ed alla dedicazione del primo tempio, ed è stato
possibile essere ugualmente cantato dai Giudei al ritorno dalla schiavitù,
durante la consacrazione del secondo. Esso è stato probabilmente composto da
Salomone, se non da Davide stesso.
I. Il salmista ricorda a Dio:
1° la dolcezza
di Davide in tutti i suoi rapporti con i vicini (1);
2° la sua
pietà verso Dio che lo ha indotto a:
– a) fare a
Dio il giuramento di costruirgli una dimora (2);
– b) a
sacrificare al compimento dei suoi desideri;
– c) gli
splendori della sua dimora (3);
3° le dolcezze
del sonno (4);
4° ogni specie
di riposo (5)
II. Il popolo fa conoscere:
1° il suo
ardore nel cercare l’arca;
2 ° la
felicità nel trovarla (6);
3 ° il suo
fervore nel rendergli il culto dovuto (7)
III. – Il salmista prende occasione da questo voto
e dal suo compimento per spingere Dio:
1° a prendere
possesso del tempio che gli è stato destinato (8);
2° a benedire ed a santificare i suoi sacerdoti
ed i suoi fedeli adoratori (9);
3° a mantenere
le promesse che Egli ha fatto a Davide (10) e che consistono:
.- a) mettere
sul trono uno dei suoi figli (11);
– b) a
perpetuare il trono nella sua famiglia, se i suoi figli gli restassero fedeli
(12);
– c) a
scegliere la montagna di Sion come il suo luogo di predilezione e di riposo
(13, 14);
d) a ricoprire
della sua protezione le vedove ed i poveri (15);
e) a rivestire
i sacerdoti di santità ed i fedeli di gioia (16);
f) ad
accrescere la potenza di Davide ed a preparare una lampada al suo Cristo (17);
g) a coprire di confusione i suoi nemici (18).
In un secondo
senso letterale, o, se si vuole, in senso spirituale, queste diverse
promesse convengono molto meglio a Gesù-Cristo, vero Figlio di Davide, ed alla
Chiesa che Egli è venuto a fondare sulla terra.
I. – Il salmista espone a Dio:
1° La dolcezza
e la pazienza di Cristo (1);
2° La sua
risoluzione di non risalire al cielo, dopo la sua discesa nel sepolcro, prima
del ristabilimento della Chiesa (2, 6);
3° gli oracoli
dei Profeti sulla nascita del Cristo e la \testimonianza dei pastori sul luogo
ove Egli è nato (6, 7);
4° la
consolazione e la gioia degli Apostoli dopo l’Ascensione di Gesù-Cristo (8);
5° la promessa
fatta a Gesù-Cristo ed il compimento della sua preghiera (10).
II. – Egli segnala le promesse che Dio ha fatto alla Chiesa.
1° la sua
perpetuità in Gesù-Cristo, suo Capo, e nei suoi Vicari (11, 12);
2° la
santificazione della Chiesa con la presenza di Dio stesso, sotto le specie
eucaristiche (12, 13);
3° la virtù
salutare del sacerdozio e del ministero ecclesiastico (16);
4° l’estensione
del suo regno, la confusione dei suoi nemici e lo splendore di cui sarà
circondata (17, 18).
Spiegazioni e considerazioni
I. — 1-5.
ff. 1-5. – Salomone non fa
qui menzione della dolcezza di Davide, ad esclusione di tutte le sue altre
virtù, sia perché la dolcezza era la virtù eminente del Re-Profeta, sia ancora perché
la dolcezza piace soprattutto agli occhi del Signore, come compagna
inseparabile dell’umiltà e della carità: « La preghiera di coloro che sono
umili e dolci vi è stata sempre gradita; » (Giudit. IX, 18); ed essa
rende l’uomo simile a Dio, che è pieno di dolcezza e di soavità e di una
immensa misericordia per tutti quello che lo invocano (Ps. LXXXV). – Davide è figura
di Gesù-Cristo, che ha dominato tutto con la dolcezza della sua parola e della
sua grazia. Mai i fedeli che sono il Corpo mistico del divin Salvatore,
trionfano altrimenti dei nemici della salvezza. È la dolcezza dei loro costumi,
la modestia dei loro discorsi, l’umiltà dei loro sentimenti, la loro pazienza
nelle avversità che li renderanno invincibili. « Imparate da me, dice loro il
Salvatore, che sono dolce ed umile di cuore. » (Berthier). – Ecco gli
effetti della dolcezza e dell’umiltà di Davide, dolce ed umile di cuore, che credeva
indegno di lui avere una dimora da abitare ed un letto per riposare, mentre che
l’Arca di Dio non aveva una dimora permanente, cioè un tempio in cui fosse
onorato in maniera stabile, occorrendo trasferirla continuamente da un luogo
all’altro (II. Re, VII; I Paralip. XXII e XXVIII, 11; c. III) – Che sia
Salomone o Davide a parlare in questo salmo, ne consegue sempre che l’uno e
l’altro fossero persuasi del bisogno del soccorso di Dio per compiere le
promesse fatte. Questa espressione: « Ricordatevi, Signore, del giuramento e
del voto di Davide, » ne è la prova. Si è dunque temerari quando si fanno a Dio
dei voti senza implorare la sua grazia, e non lo è di meno quando ci si illude
di essere fedele senza la sua protezione (Berthier). – Quale santa attività! Il
salmista non solo non entrerà nella sua casa, non salirà sul suo letto di
riposo, ma non vuole neanche gioire liberamente del riposo che la natura ci
rende necessario, fino a che abbia trovato un luogo ed un tabernacolo al Dio di
Giacobbe. Non è il contrasto che Dio rimproverava ai Giudei, quando diceva
loro: « è tempo per voi di abitare case ornate di legno, mentre il mio tempio è
deserto? » (Agge., I, 4). – « … Prima di aver trovato un luogo al Signore.
» Ammirate di nuovo lo zelo e la sollecitudine estrema di Davide; egli non
aveva solo l’intenzione di costruire un tempio, ma voleva farlo nel luogo
migliore e più conveniente alla sua santità (S. Chrys.) – Dove il
Re-Profeta cercava un’abitazione per il Signore? Se era pieno di mansuetudine,
egli la cercava in se stesso. Come poteva essere l’abitazione del Signore?
Ascoltate il Profeta: « Su chi riposerà il mio spirito? Sull’uomo umile e
dolce, che trema alla mia voce. » (Isai. LXVI, 2). Volete essere
l’abitazione del Signore? Siate umile e dolce, ascoltate tremando le parole di
Dio, e diventerete voi stessi ciò che cercate … « Io non salirò sul letto
preparato per dormire. » Ogni proprietà privata della quale l’uomo si compiace,
rende orgogliosi; ecco perché il Profeta ha detto: « io non salirò. » Ogni uomo
è inevitabilmente orgoglioso di ciò che possiede di proprio … « Io non
concederò sonno ai miei occhi. » Molti, perché dormono, non preparano
l’abitazione per il Signore. L’Apostolo li sveglia dicendo: « Alzatevi, voi che
dormite, e resuscitate dai morti, ed il Cristo vi illuminerà. » (Ephes.
V, 14). Egli dice ancora: « ma noi che apparteniamo al giorno, vegliamo
e restiamo sobri; perché coloro che dormono, dormono di notte, e coloro che si
inebriano, si inebriano di notte. » (I Tess. V, 7-8). Per notte, egli
designa l’iniquità, nella quale dormono coloro che desiderano i beni della
terra; e tutte queste apparenti felicità del mondo sono sogni di uomini
addormentati .,.. ma ci sono di alcuni che, senza dormire, si assopiscono un
po’; essi si ritirano un poco dall’amore dei beni temporali, e vi si lasciano
introdurre di nuovo, e come uomini che dormono, si lasciano nuovamente cadere
la testa. Svegliatevi, scuotetevi dal sonno; sonnecchiando, voi cadrete: il
salmista non vuole che colui che cerca un’abitazione per il Signore, permetta né
il sonno ai suoi occhi, né l’assopimento alle sue palpebre (S.
Agost.) – « Fino a che io non abbia trovato una casa per il Signore,
una tenda per il Dio di Giacobbe. » Benché si chiami spesso tenda di Dio la
casa di Dio, e casa di Dio la tenda di Dio, tuttavia, questo nome di “tenda” si
applica particolarmente alla Chiesa del tempo presente, ed il nome di casa alla
Chiesa della Gerusalemme celeste, ove andremo. In effetti la tenda appartiene
specialmente ai soldati ed ai combattenti; la tenda è l’abitazione del soldato
in campagna, che si trova in una spedizione. Dopo tanto tempo che abbiamo
combattuto un nemico da abbattere, noi issiamo una tenda per Dio; ma quando il
tempo del combattimento sarà passato, allora gioiremo di questa pace che
sorpassa ogni intelligenza, secondo queste parole dell’Apostolo: « E la pace
del Cristo, che sorpassa ogni intelligenza, » (Filip. IV, 7) perché,
qualunque cosa noi possiamo immaginare su questa pace, il nostro spirito, appesantito
dal corpo, non può arrivare alla realtà; quando giungeremo nella nostra patria,
allora l’abitazione di Dio sarà una casa; liberi come saremo da ogni nemico,
non arriveremo più a darle il nome di tenda. Noi non usciremo più a combattere
il nemico, ma vi resteremo per lodare Dio. In effetti cosa è detto di questa
casa? « Felici coloro che abitano nella vostra casa; essi vi loderanno nei
secoli dei secoli. » (Ps. LXXXIII, 5) noi gemiamo ancora
sotto la tenda; noi loderemo Dio nella sua casa. Perché? Perché i gemiti sono
per gli esuli, e la felicità di lodare Dio per coloro che abitano nella patria.
Quaggiù, cominciamo con una tenda per il Dio di Giacobbe (S. Agost.) – Volete
essere l’abitazione del Signore? Siate umili e dolci, ascoltate tremando le parole
di Dio, e diventerete voi stessi ciò che cercate. Se in effetti ciò che cercate
non si realizza in voi, a cosa vi servirà che si realizzi in un altro? È vero
che talvolta, per mezzo di un predicatore del Vangelo, Dio procura la salvezza
altrui, se questo predicatore dice e non fa, ed i suoi discorsi preparano in un
altro una abitazione al Signore senza che sia egli stesso questa abitazione; ma colui che fa
bene ciò che egli insegna e che insegna da sé, diviene, così come coloro a cui
insegnano, l’abitazione del Signore, finché tutti coloro che credono, non facciano per il Signore che una sola
dimora (S. Agost.).
II. – 6, 7.
ff. 6, 7. – « Noi abbiamo udito che essa era in Ephrata.»
Ephrata designa lo stesso che Bethléem, ove il Signore è nato dalla Vergine
Maria, una testimonianza stessa del Profeta: « E tu Bethleem, non sei la più
piccola tra le città di Giuda, perché da te uscirà colui che dominerà su
Israele. » (Mich. V, 11; Matth. II, 6). È là, abbiamo saputo,
che Dio si è dapprima riposato, là dove il Figlio unico di Dio si è degnato di
abitare in una carne umana, e che ci si diceva essere in Ephrata, noi lo
abbiamo trovato nei campi della foresta. È dunque in Bethleem che noi vediamo
l’inizio della Chiesa; essa è cominciata con Gesù-Cristo, ma noi la troviamo in
mezzo alle nazioni che sono i campi delle foreste; orribili come erano, esse
sono diventate splendenti; da sterili, feconde; da alberi destinati al fuoco,
la regione che produce il pane di vita; da riparo delle bestie selvagge, luogo
del riposo, la casa, il tempio, il possesso di Dio (S. Ilar,). – Davide
cercava un luogo per costruirvi la casa di Dio: noi abbiamo trovato nella
Persona di Gesù-Cristo, non soltanto il tempio di Dio, ma Dio stesso, abitante
tra gli uomini. Ora, per gioire pianamente della sua presenza, è nella
solitudine che dobbiamo ritirarci. Noi lo troveremo, come si esprime il
Profeta: « Nelle campagne della foresta; » non che sia necessario abbandonare
le città, e nasconderci, come i solitari, nelle ombre ridotte degli alberi: il
nostro Dio deve essere nel nostro cuore, ed il cuore totalmente separato dal
mondo diventerà il tempio di Dio. – Tre cose sono da notare in questo versetto:
Silo, Bethleem, il deserto; vale a dire, Gesù-Cristo, la sua greppia, e la
solitudine del cuore, tre oggetti che dovrebbe occuparci incessantemente. Noi
possiamo dire come il Profeta, che abbiamo inteso parlare di tre cose, possiamo
dire di averlo trovato? (Berthier). – « Noi entreremo nel suo
tabernacolo. » Noi entriamo nelle nostre case per abitarvi, e non entriamo
nella casa di Dio perché Egli abiti in noi; perché Dio è ben al di sopra di
noi; quando dunque Egli verrà ad abitare in voi, vi porterà la beatitudine …
entrate dunque nella casa di Dio, per essere abitati da Dio; entrate, non per
appartenervi, ma per appartenere a Dio (S. Agost.) – Profondo è il rispetto
con il quale noi dobbiamo entrare nei nostri templi, che sono il tabernacolo
della casa di Dio, ed offrire gli omaggi della nostra adorazione
all’Eucarestia, della quale l’Arca era figura ed in cui Gesù-Cristo è veramente
presente, non solamente come Dio, ma come uomo.
III. — 8-18.
f. 8-10. – « Levatevi, Signore, per entrare nel vostro riposo. » Salomone, sul punto di introdurre l’arca nel tempio costruito con la più grande magnificenza, invitava così il Signore, in uno stile poetico, a lasciare la soglia del tempio e a prenderne possesso con l’arca della sua santità. – Nessuna preghiera è più conveniente per il momento in cui i fedeli partecipano al corpo di Gesù-Cristo: questo divino Salvatore, posto alla destra del Padre, si alza in qualche modo dal suo trono per venire ad abitare in noi; Egli considera il nostro cuore come il luogo del suo riposo, ma « … quale è questa casa che voi mi preparate? » dice per bocca del suo Profeta, (Isai. LXVI, 1, 2), e qual è il luogo del mio riposo? Tutto ciò che esiste, l’ha fatto la mia mano, e tutto è stato fatto da me – dice il Signore – ed ascolterò i sospiri del cuore lacerato e pentito che obbedisce alle mie parole (Berthier). – « Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola, ed il Padre mio l’amerà e verremo a lui, e faremo in lui la nostra dimora. » (Giov. XIV, 23) – Introdotta l’Arca nel tempio, Salomone prega prima per i sacerdoti, poi per il re, perché su queste teste auguste riposa la salvezza di ogni nazione: I sacerdoti governano il popolo nelle cose spirituali, i re negli interessi temporali. Salomone chiede due cose per i sacerdoti: la giustizia e la santità, due virtù nelle quali essi non saprebbero avvicinarsi alle loro funzioni e lodare Dio con ardore. « Che i sacerdoti siano rivestiti di giustizia, » cioè di tutte le virtù, perché la parola di giustizia le comprende tutte; e non siano solamente giusti nel fondo del loro cuore, ma pure esteriormente; la loro intera vita, le loro parole e gli atti respirino la giustizia più perfetta. (Bellarm.) – « Non allontanate la faccia dal Vostro Cristo. » Ogni nostro bene consiste in un doppio sguardo, nello sguardo di Dio verso noi e nel nostro verso Dio, di tal modo che ci guardi con la bontà affettuosa di un padre, e che noi lo riguardiamo con la pietà filiale di figli sottomessi. Questo mutuo scambio di sguardi è la fonte e l’origine di tutti i beni (Bellarm.).
ff. 11, 12. – « Il Signore ha
fatto a Davide un giuramento, etc. » Salomone ricorda qui le promesse che Dio
aveva fatto a suo padre, al fine di ottenere più facilmente ciò che domanda.
Queste promesse sono espresse nel capitolo VIII del secondo Libro dei Re,
indicate nel salmo CXXXVIII, e ricordate nel secondo capitolo degli Atti degli
Apostoli. – Qui il giuramento interviene per dare al segno ed alla promessa un
sovrappiù di potenza, e Dio, per il quale giura ogni spirito quando vuole
attirare credito alla sua parola, discende con questa risorsa davanti alla sua
creatura e prende Egli stesso testimonianza della sua sincerità, sotto una
forma tanto più augusta, quanto più sembra indegna di Lui. Così, duemila anni
dopo, San Paolo, tutto emozionato da questo giuramento fatto ai suoi padri,
diceva alla loro posterità (Ebr., VI, 16-17): « Gli uomini
giurano per uno più grande di loro, ed il giuramento richiamato a conferma dei
loro diritti, mette fine ad ogni loro controversia. Ecco perché Dio, volendo
mostrare agli eredi dell’Alleanza l’inviolabilità del suo consiglio, interpose
tra sé e loro un giuramento, affinché, con due cose immobili che non permettono
a Dio di mentire, noi avessimo nella sua parola una indistruttibile consolazione.
» (Lacord,. LXVIII conf.) – Egli sembra
dire: Davide ha giurato al Signore di elevargli una dimora, ed il Signore a sua
volta ha giurato a Davide di stabilire un Regno eterno nella sua casa. Dio, in
effetti, non può lasciarsi vincere in generosità, e ricompensa centuplicato,
non solo le azioni, ma pure la volontà ed i desideri. – Il giuramento e la
promessa senza ripensamento non si applicano che al Figlio unico di Dio,
Gesù-Cristo, il cui regno non avrà fine. Allo sguardo di tutti gli altri, la promessa
è condizionata. I discendenti di Davide non hanno ottenuto l’effetto di queste
promesse perché non sono rimasti fermi nella fedeltà che dovevano a Dio. –
Queste promesse si compiono nella Chiesa, ove coloro che perseverano fino alla
morte nell’osservanza della legge di Dio e della sua alleanza santa, regnano
eternamente con Gesù-Cristo (Bellarm., Duguet).
ff. 13, 14. – La Chiesa di
Gesù-Cristo è la Sion spirituale che il Signore ha scelto come sua dimora; Egli
vuole dimorare pertanto almeno in questa dimora speciale e tutta d’amore (Dug.)
– Dio ci ama a questo punto che là dove noi riposiamo, dice di riposare Egli
stesso. In effetti, Egli non è mai turbato e non ha bisogno di riposarsi; ma
dice di riposarsi là dove noi gioiremo del riposo (S. Agost.).
ff. 15-18. – Questo ed i
seguenti versetti promettono alla città di Davide – che è Sion – un gran numero
di beni che possono senza dubbio applicarsi alla città terrestre che era figura
della Chiesa; ma che si applicano in modo ancor più perfetto alla Chiesa
stessa. – « … Io ricolmerò la sua vedova di benedizioni e riempirò di pane i
suoi poveri. » Ogni anima che si sente priva di ogni soccorso, se non è quello
di Dio, è una vedova. In effetti come ha
descritto la vedova l’Apostolo? « Colei che è veramente vedova e desolata, ha
sperato nel Signore » (I Tim. V, 5), egli parlava di queste
vedove che tutti noi chiamiamo nella Chiesa con questo nome. Egli aveva detto:
« colei che è nelle delizie, è morta ancor vivente, » e non la annoverava tra
le vedove. E cosa ha detto nel descrivere le sante vedove? « Colei che è veramente
vedova e desolata ha sperato nel Signore ed ha perseverato giorno e notte nelle
preghiere e nelle suppliche. » Qui egli aggiunge: « Ma colei che vive nelle
delizie è morta ancora vincente. » Come dunque ella è vedova? Perché non ha
soccorso se non da Dio. Le donne che hanno marito si inorgogliscono quasi del
soccorso che trovano in essi; le vedove sembrano abbandonate, ma esse hanno un
soccorso più potente di quello delle alter donne. Tutta la Chiesa è dunque una
vedova unica, sia negli uomini, sia nelle donne, sia negli sposi, sia nelle
donne maritate, sia nei giovani che nei vecchi, sia nelle vergini che la
compongono. Tutta la Chiesa non è che una vedova unica, abbandonata in questo
mondo, se comprende: se essa comprende, conosce la sua vedovanza, perché allora
è a sua disposizione il soccorso di cui ha bisogno. Che significano ancora
queste parole: « … io sazierò di pane i suoi poveri? » Siamo poveri, e saremo
saziati. Molto Cristiani presumono del mondo e si danno all’orgoglio; essi
adorano il Cristo, ma non sono saziati; perché se sono saziati questo è
l’abbondanza del loro orgoglio. Di essi è detto: la nostra anima è un «
soggetto di obbrobrio per i ricchi e di disprezzo per gli orgogliosi. » Essi
sono ricchi, ecco perché mangiano; ma essi non sono sazi. A loro soggetto è
detto in altro salmo: « Tutti i ricchi della terra hanno mangiato ed hanno adorato
» (Ps,
XXI, 30), essi adorano il Cristo, venerano il Cristo, indirizzano al
Cristo delle suppliche; ma non sono saziati dalla saggezza a dalla giustizia
del Cristo. Perché? Perché non sono poveri. Ora, i poveri, cioè gli umili di
cuore, mangiano ancor più, quanto più grande è la loro fame; e la loro fame è
tanto più grande, quando sono vuoti dei beni di questo mondo. (S.
Agost.) – I Sacerdoti della nuova legge, devono essere rivestiti della
santità per se stessi e dal potere di operare la salvezza nei riguardi degli
altri. Questa seconda qualità manca loro meno della prima, perché la Chiesa può
ben consacrarli a suo servizio, ma non renderli santi; è a Gesù-Cristo solo che
appartiene l’operare queste meraviglie, ed è ciò che la Chiesa non cessa di
chiedergli (Berthier). – « Io rivestirò i suoi sacerdoti di Colui che ci dà
salvezza. » Cosa significano queste parole? Ascoltate San Paolo: « Voi tutti
che siete stati battezzati in Cristo, siete rivestiti di Cristo. » (Galat.
III, 27) « E i suoi santi si daranno ai trasporti di gioia. » Perché?
La loro gioia non viene da loro, ma viene dal fatto che essi sono rivestiti di
Colui che dà la salvezza. Essi sono, in effetti, divenuti luce ma nel Signore, perché
prima erano nelle tenebre (Ephes., V, 3). Ecco perché il
Profeta aggiunge: « Là alzerò il corno di Davide (Ps. CXXXI, 17), affinché
si ponga fiducia nel Cristo, » perché il corno figura l’elevazione, ed una
elevazione spirituale. E qual è la vera elevazione spirituale, se non quella che
consiste nel mettere la propria fiducia nel Cristo, e a non dire: sono io che
agisco, sono io che battezzo; ma: « … è Lui che battezza? » (Giov.
I, 33). Là dove è il corno di Davide, notate ciò che segue: « Io ho
preparato una lampada per il mio Cristo. » (Ps. CXXX, 1) qual è
questa lampada? Voi conoscete che il Signore ha detto di Giovanni: « Egli era
una lampada ardente e lucente. » (Joan. V, 35). E Giovanni che dice? «
È Lui che battezza. » È dunque là ciò che trasporta di gioia i Santi, è là ciò
che trasporta di gioia i Sacerdoti, e tutto ciò che di buono vi è in essi, non
viene da loro, bensì da Colui che ha il potere di battezzare (S.
Agost.). – Nulla di più naturale è che applicare questa profezia al
santo precursore del Messia, poiché egli fu, secondo la parola stessa del
Messia, « una lampada ardente e brillante, » a preparare le vie del Messia, che
era il vero Cristo di Dio. (S. Girol.). – Questo Re non era un
re sconosciuto e nascosto: è Lui che ha annunziato la legge, Lui che i profeti
hanno predetto, Lui che Giovanni – il predicatore della penitenza – ha mostrato
ogni profezia che ha il Cristo per oggetto, è una lampada che fa brillare la
carità della scienza nel mezzo della notte della nostra ignoranza, che confonde
gli increduli e gli empi con la luce della scienza, ed insegna nel Figlio unico
la Gloria e la maestà paterna. Questa lampada è pronta affinché la notte
dell’ignoranza non impedisca di conoscerla. I suoi nemici saranno coperti dalla
confusione, perché essi vedranno il Figlio dell’uomo nella maestà del Padre, e
saranno rivestiti, non della salvezza, ma dalla confusione, resuscitando in un
corpo terreno e ignominioso (S. Hilar.). – In tutti i secoli, i
nemici di Gesù-Cristo, in mezzo anche ai trionfi apparenti contro di Lui, sono
stati coperti di confusione; coloro che resistono lo saranno infallibilmente
nel tempo. – La santificazione di Dio fiorisce nel Cristo. Nessun uomo la
reclami per sé, perché è il Cristo che santifica; la Potenza di santificazione
di Dio è in Lui solo (S. Agost.). Nessuno deve pretendere
di entrare senza di Lui nelle vie della santità, e nessuno deve disperare di
giungere alla santità, se mette la sua fiducia in Gesù-Cristo.
Oggi 13 maggio 2020, anniversario dell’apparizione della Vergine Santissima a Fatima, onoriamo questo evento con un regalo preziosissimo che vogliamo condividere con tutti i nostri lettori. La Vergine non ci ha raccomandato altro che la recita del Rosario, e questa raccomandazione è ancora più opportuna oggi che le forze dell’anticristo, con i suoi adepti, ed in particolare la “sinagoga di satana” (sette, logge, razionalismo ateo, falsa chiesa dell’uomo, partiti “laici”, conventicole e sacrileghe chiesiuole varie) stanno sferrando un attacco formidabile contro i fedeli di Cristo e la sua “vera” Chiesa. La Vergine ha promesso che “… alla fine il mio Cuore Immacolato trionferà“, ribadendo quanto già l’Altissimo aveva rivelato fin dai primordi: ” et IPSA conteret caput tuum“. Il regalo al quale si alludeva, è un libro particolare sul Santo Rosario, di p. E. Hugon, domenicano francese autore di opere spirituali meravigliose quanto mai oggi indispensabili. Lo abbiamo diviso in tre parti, per una migliore visualizzazione, ma lo pubblichiamo in rete tutto intero in questa data memorabile, che cade quest’anno in un momento storico particolarmente drammatico.
IL ROSARIO ELA SANTITÀ
del R. P.
EDOUARD HUGON
DEI FRATELLI PREDICATORI
P . LETHÌELLEUX – 30, RUE
CASSETTE -PARIS FRANCE
APPROVAZIONE:
Abbiamo letto, per ordine del
Reverendissimo P. Provinciale, un’opera del R. P. Edouard Hugon con questo
titolo: “Il Rosario e la santità”.
È uno studio serio nella sua
brevità, con belle e alte idee dottrinali, ed una descrizione interessante e
quasi nuova nelle ricchezze delle grazie racchiuse nel Rosario. Le anime pie e
gli stessi Predicatori lo leggeranno con utilità e vi troveranno un ampio
nutrimento.
Poitiers, 19 luglio 1900.
Fr. Denys MÉZARD dei Fr.
Predicatori
Fr. Henri DESQUEYROJS dei Fr.
Predicatori
IMPRIMATUR
Fr. Joseph-Amb. LABORÉ
Prov. provincias Occit. Lugdunensis
IMPRIMATUR
Parisiis, die 9 Augusti 1900
E. THOMAS Vic. gén.
PREMESSA
VEDUTA D’INSIEME SULLE GRANDEZZE
DEL ROSARIO
Il profeta Isaia ci invita a far
conoscere al popolo le invenzioni di Dio.
“Notas facite in populis adinventiones ejus”
(Is. XII, 4).
Le invenzioni di Dio! Il linguaggio
umano a volte è impotente nel celebrare i capolavori del genio, ma quando si
tratta di invenzioni divine, l’entusiasmo rimane muto, una spada fredda scende
fino all’anima: si ammira e si tace! Tra queste invenzioni ce ne sono tre
ineffabili: l’Incarnazione, la Maternità Divina, l’Eucaristia. L’uomo-Dio, la
Madre di Dio, il Santissimo Sacramento: davanti a queste tre meraviglie,
l’intelligenza annientata non può che gridare: Silenzio! Qui c’è il
divino! Dopo le invenzioni di Dio, ci sono le invenzioni di Maria. Sono
tutte sublimi, perché sono invenzioni d’amore; sono innumerevoli, perché si
estendono a tutti i tempi e a tutti i Paesi. Tra queste, una delle più
eccellenti è sicuramente il Rosario. Fu consegnato al mondo intero dall’Ordine
di San Domenico e dalla Francia e, non appena si riseppe, il XIII secolo fu in
grado di risuonare l’osanna di un futuro radioso. C’è nell’istituzione del Rosario
più che un’opera di genio, troviamo quella saggezza soprannaturale che i
teologi ammirano nell’istituzione dei Sacramenti. – Lungi da noi l’equiparare
il Rosario ai Sacramenti, ma qui c’è permesso di costatare a tal soggetto, più
di un’analogia sorprendente. I Sacramenti sono in perfetta armonia con la
natura umana, che è nel contempo sensibile e spirituale. Volere applicare
l’uomo ad atti puramente intellettuali significherebbe svezzarlo – per così
dire – da un latte indispensabile alla sua felicità. La sua Religione e il suo
culto hanno bisogno di nutrimento esterno; i suoi Sacramenti devono, come lui,
essere composti da un’anima e da un corpo. I Sacramenti hanno un corpo, perché
sono segni sensibili; hanno un’anima, perché contengono l’invisibile virtù
dell’Altissimo. Si pronunciano poche parole: e subito il “segno” è invaso dalla
maestà divina; Dio passa nei Sacramenti, poiché vi passa la grazia, e nello
stesso tempo in cui la grazia ha toccato l’anima, l’anima ha toccato Dio. Allo
stesso modo la vera preghiera è quella che abbraccia l’uomo interamente. Ora il
Rosario ha un’anima ed un corpo: il corpo è la preghiera vocale; l’anima è il
pensiero del mistero, è la virtù celeste che ne scaturisce. Come i Sacramenti,
il Rosario ha la sua materia e la sua forma; per il suo lato sensibile
rappresenta la Santa Umanità del Salvatore, e parla alla nostra natura
corporea; per la sua virtù invisibile ed i suoi misteri sublimi rappresenta la
divinità di Cristo, e parla alla nostra natura superiore, attraverso la quale
noi giungiamo all’angelo e a Dio. – Nei Sacramenti il segno sensibile e
la virtù delle parole formano un insieme unico, come in Cristo la natura umana
e la natura divina sono unite in una sola Persona; la preghiera vocale del
Rosario ed il pensiero del mistero formano un insieme indivisibile. Separare la
forma dalla materia significa distruggere il Sacramento; separare il mistero
dalla recitazione, significa distruggere l’essenza del Rosario. I Sacramenti
sono come il prolungamento e la continuazione dell’Incarnazione; sono, per così
dire, delle reliquie di Nostro Signore. Nei Sacramenti Gesù passa a benedire e
salvare; fa uscire, come in passato, quella virtù che guarisce: « Virtus
de illo exibat et sanabat omnes » (Luc. VI, 19). Anche nel Rosario c’è
Gesù che passa. Nell’enunciare ogni mistero, potremmo dire: il Figlio di Davide
passerà. « … Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me. » I Sacramenti
sono i simboli esteriori che distinguono i Cristiani dagli infedeli; il Rosario
è la devozione distintiva dei veri Cattolici. I Sacramenti sono il legame dolce
e forte che unisce i figli del Cristo; partecipando agli stessi Sacramenti, i
fedeli mostrano di condividere la stessa fede, la stessa speranza, lo stesso
amore; attraverso il Rosario i Cavalieri di Maria si uniscono da ogni angolo
della terra e confondono le loro voci nello stesso amore e nella stessa
speranza. Il Rosario è come lo stendardo che Dio innalza sulle nazioni per
raccoglierle dai quattro angoli dell’universo. « Elevabit signum in
nationibus… et… colliget a quatuor plagis terræ » (Is., XI,
12). – Sarebbe facile continuare questo parallelo tra i Sacramenti,
un’invenzione di Gesù, e il Rosario, un’invenzione di Maria. Lo riassumiamo in
poche parole: l’uomo ha bisogno del sensibile; i Sacramenti e il Rosario sono i
segni che elevano l’anima alle altezze da cui contempla gli orizzonti celesti,
Dio, l’eternità. L’uomo vuole essere nutrito dallo spirituale; i Sacramenti ed
il Rosario aiutano a comprenderlo. L’uomo ha sete dell’infinito; i Sacramenti e
il Rosario gli danno Dio. Ma questo è solo un punto di vista pratico; la
portata del Rosario è in qualche modo illimitata. – L’uomo tocca il tempo
attraverso il suo corpo e le sue fragilità; con le vette della sua anima, per
il suo destino soprannaturale, tocca l’eternità. Bene! il Rosario è abbastanza
vasto da abbracciare il tempo e la stessa eternità. Esso racchiude in sé tutti
i tempi, poiché contiene quegli insondabili misteri che sono il punto centrale
di tutti i secoli. e la cui realizzazione costituisce ciò che San Paolo
chiama “la pienezza dei tempi”, plenitudo temporis (Gal. IV, 4.)
Esso abbraccia l’eternità. Infatti il Rosario inizia in cielo e nella
l’eternità con il mistero dell’Incarnazione, finisce in cielo e nella eternità
con i misteri dell’Ascensione di Gesù e dell’Incoronazione di Maria. Lo
iniziamo sul cuore dell’adorabile Trinità, lo terminiamo sul cuore della Beata
Vergine. Dal cielo al cielo, dall’eternità all’eternità, queste sono le distese
del Rosario. Proprio per questo il Rosario è la sintesi di tutto il
Cristianesimo. Il dogma intero si riduce al Rosario. Il trattato sulle Persone
divine e quello dell’Incarnazione noi li incontriamo nel primo mistero;
abbiamo già toccato il trattato sui Sacramenti; quanto al trattato dell’Eucaristia,
tutti sanno che il Rosario è, come il Santo Sacramento e la Santa Messa, il
memoriale della vita, della passione, della morte e della Resurrezione di
Nostro Signore. Il trattato dei Novissimi è contenuto in modo sorprendente e
pratico nei Misteri Gloriosi. Il Rosario, quindi, è la teologia, ma la teologia
che prega, che adora, che dice attraverso ciascuno dei suoi dogmi: Gloria al
Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. La morale, che si occupa dei peccati e
delle virtù, si riduce alla nostra grande devozione. L’infinita malizia del
peccato mortale si apprezza solo quando vediamo, nei Misteri Dolorosi, la
giustizia divina che si riversa sul Cristo innocente, esigendo da Lui quel
terribile riscatto della croce, e quando sentiamo Gesù gridare sotto il peso
dei nostri crimini: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”
Ciascuno dei misteri è una sublime lezione di virtù; non c’è solo eroismo in
questi esempi: essi sono le vette più alte della vita mistica. Così il Rosario
è la morale che prega, che piange, che espia, che ascende all’eroismo, dicendo
a Cristo: « Redemisti nos Deo in sanguine tuo, et fecisti nos Deo nostro
regnum et sacerdotes » (Apoc. V, 9, 10.). Nel Rosario è riassunta la
storia, poiché questa devozione contiene Colui che è la prima e l’ultima parola
di tutti gli eventi, Colui la cui figura radiosa domina entrambi i versanti
della storia: l’Antico Testamento e il Nuovo. Ancora una volta, il Rosario è la
storia che prega, che porta tutte le nazioni a Cristo, dicendo: Tu sei l’Alfa e
l’Omega, l’inizio e la fine. La questione sociale stessa è risolta dal Rosario,
come dimostra eloquentemente Leone XIII. (Nell’enciclica del 1893 sul Rosario).
Perché le nazioni hanno tremato, perché questi tremori che disturbano la pace
delle società? Ci sono tre cause per questo, dice il Sommo Pontefice. La prima
è l’avversione per la vita umile e laboriosa, e il rimedio a questo male si
trova nei misteri gioiosi. Il secondo è l’orrore di tutto ciò che ci
provoca sofferenza, e il rimedio a questo male si trova nei Misteri dolorosi;
il terzo è l’oblio dei beni futuri, oggetto della nostra speranza, e il rimedio
a questo male si trova nei Misteri gloriosi. Sì, ancora una volta, il Rosario è
la questione sociale risolta da quel grido trionfante: Christus vincit,
Christus regnat, Christus imperat! – Si vede, quindi, che meravigliosa
flessibilità abbia il Rosario: si adatta a tutti i soggetti, a tutti i tempi, a
tutte le persone. Per la sua parte materiale e per il lato esterno dei suoi
misteri, è alla portata di tutte le intelligenze, diventa il Salterio
dell’ignorante; per le sue profondità divine, è la “Summa” inesauribile del
teologo. È, quindi, la grande sintesi del Cristianesimo; tutto è compreso tra
l’inizio e la fine del Rosario, così come tutti i tempi sono compresi tra le
due sponde dell’eternità. – Sarebbe interessante confrontare il Rosario e la
Summa di San Tommaso, il Rosario e i templi cristiani del Medioevo. Tutti e tre
sono, ognuno a suo modo, la sintesi del Cristianesimo; tutti e tre sono una
poesia in cui si dispiegano le meraviglie del piano divino; tutti e tre sono il
grandioso piedistallo che eleva l’anima all’infinito; tutti e tre sono un
monumento che ha sfidato i secoli, tutti e tre sono animati dallo stesso
respiro divino. Nella Summa, nell’antica cattedrale, nel Rosario, l’anima vive
un benessere indefinibile; si sente più vicina alla sua terra natale, è più
vicina al cielo, è più vicina a Dio. Infine, tutti e tre sono orientati verso
lo stesso Cristo: Gesù domina la Summa di San Tommaso, Gesù domina la
cattedrale gotica, Gesù domina il Rosario: tripla sintesi, triplo insegnamento,
triplo canto d’amore e di gratitudine allo stesso Dio Salvatore. I primi due
sono opera del genio, ma il Rosario è più di un’invenzione del genio: è sapienza
soprannaturale; in una parola, è l’invenzione di Maria. I dettagli di questa
vasta sintesi dovrebbero essere studiati nei particolari, ma qui possiamo solo
darne una panoramica generale; ci stiamo avvicinando a questo studio solo dalle
sue vette, vogliamo semplicemente mostrare, in una visione d’insieme, come il
Rosario sia la sintesi di tutte le opere di Dio. L’opera di Dio si può
riassumere in due parole: creazione e salvezza. Creare e salvare, creare mondi
e fare scelte, è qui che si incontrano tutte le meraviglie del reale e
dell’ideale. Dopo aver realizzato questi due capolavori, Dio può riposare. Si
riposò dopo sei giorni, non perché la sua onnipotenza fosse stanca, ma per
contemplare quanto il suo lavoro fosse bello. Et vidit Deus quod esset
bonum (Gen.I). Ahimè, per l’opera della salvezza il Gigante
dell’eternità deve essersi in qualche modo stancato, deve aver camminato a
lungo si è seduto come sopraffatto dalla stanchezza. Quærens me sedisti
lassus. Fare un eletto, e anche solo rendere grazia a un’anima, è
un’opera ancora più grande, in un certo senso – secondo Sant’Agostino e
San Tommaso – della creazione del cielo e della terra. Vogliamo mostrare come
questa grande meraviglia di grazia e di santità sia riassunta nel Rosario.
Questa devozione ci rivela l’Autore della santità, i modelli della santità, e
ci insegna la pratica della santità. L’autore della santità è Gesù; ma per
avere la conoscenza dell’Uomo-Dio, dobbiamo studiarne il Cuore, l’Anima e la
divinità, ed è il Rosario che ci dà questa rivelazione. I modelli di santità
sono, dopo Gesù, Maria e San Giuseppe, che hanno collaborato all’opera della
redenzione, ed è il Rosario che ci fa apprezzare il loro vero ruolo. La pratica
della santità abbraccia tutta la perfezione cristiana, dalla carità comune alla
carità eroica, ed è il Rosario che ci avvia a tutti questi gradi di vita
spirituale.
Il nostro lavoro sarà quindi diviso in
tre parti:
1° Il Rosario e l’autore della santità:
Gesù.
2. Il Rosario e i modelli della santità:
Maria e Giuseppe.
3. Il Rosario e la pratica della
santità.
Non ci occupiamo qui del lato canonico o
storico del Rosario; molte opere eccellenti hanno esaminato questi argomenti.
Né si tratta qui di uno studio dottrinale approfondito; noi esponiamo solo
alcune considerazioni teologiche e pie che possono essere utili alle anime
interiori, e da un punto di vista abbastanza speciale da non duplicare altre
opere apparse sul Rosario. Abbiamo voluto, secondo il desiderio e
nell’interesse di alcune persone, che ogni capitolo, pur essendo legato agli
altri da un legame logico, fosse completo in sé e costituisse una sorta di
meditazione indipendentemente da ciò che segue e da ciò che precede. Questo
spiega e giustifica alcune ripetizioni che ci siamo permessi in alcuni punti.
Possano queste umili pagine far conoscere e amare meglio la Vergine del Rosario
e il suo divin Figlio divino!
PARTE PRIMA
IL ROSARIO E L’AUTORE DELLA
SANTITÀ GESÙ, IL SUO CUORE, LA SUA ANIMA, LA SUA DIVINITÀ
CAPITOLO PRIMO
IL ROSARIO ED IL SACRO CUORE DI
GESÙ
Dio, che è perfezione infinita, purezza,
la stessa santità, bellezza sempre antica e sempre nuova, ha comunicato agli
esseri creati, senza perdere di ciò che è in sé medesimo, nemmeno i tratti più
accentuati dei suoi attributi divini. Noi, ai quali è stato dato di contemplare
e ammirare nelle creature questi riflessi delle perfezioni del loro Autore,
notiamo in esse due tipi di bellezza: la bellezza del “grazioso”, la bellezza
del sublime. La bellezza del grazioso è la luce, sono i fiori e tutte quelle
cose che incantano e deliziano il nostro spirito; la bellezza del “sublime” è
il vasto oceano, sono le gigantesche montagne, è l’immensità del cielo. Ma in
nessun luogo il “grazioso” è così mirabile come nel cuore umano, nel cuore del
bambino, nel cuore della vergine, nel cuore dell’amico devoto. La poesia più
dolce e soave è quella del cuore. Allo stesso modo, l’abisso e il sublime
dell’oceano è stato spesso paragonato all’abisso e al sublime del cuore. Cos’è
più insondabile, l’oceano o il nostro cuore? Non possiamo noi quindi nominare
il sublime senza nominare il cuore dell’uomo, e soprattutto il cuore delle
madri e il cuore dei Santi. Ora, nel formare il cuore del primo uomo, Dio aveva
un esemplare, guardava ad un ideale, pensava al Cuore del suo Cristo, secondo
la parola di Tertulliano: Christus cogitabatur homo futurus. Ah!
è molto dolce ricordare che Dio, nel giorno della nostra creazione, abbia preso
a modello il Cuore di suo Figlio! Così, per avere la sintesi delle meraviglie
del nostro mondo, dobbiamo conoscere il cuore umano, e per avere l’ideale del
cuore umano, dobbiamo entrare nel profondo del Sacro Cuore di Gesù. Se vogliamo
ammirare il “grazioso” con tutto il suo fascino, dobbiamo quindi contemplare il
divino Cuore di Nostro Signore: è scritto di Lui: Speciosus forma præ
filiis hominum, diffusa est gratia in labiis fuis (Tu sei il più bello
dei figli degli uomini, la grazia è riversata sulle tue labbra – Ps. XLIV, 3).
Se vogliamo ammirare il “sublime” in tutta la sua bellezza, per capire, come
dice San Paolo, qualcosa della sublimità e della profondità, quæ sit
sublimitas et profundum (Ephes. III, 18), che è in Gesù Cristo,
dobbiamo ancora penetrare nel suo adorabile Cuore. Ora il Rosario ci rivela,
nei suoi Misteri, la grazia e il sublime del Sacro Cuore di Gesù. – Considerare
il Sacro Cuore in modo astratto e come separato dalla Persona di Cristo è una
grave illusione che la teologia riprova. Il Rosario è la vera rivelazione del
Sacro Cuore, perché considera il Sacro Cuore nel Tutto divino da cui è inseparabile.
Ce lo fa vedere nelle circostanze in cui questo Cuore batte veramente, lo
mostra vivo e agente nei tempi e nei luoghi in cui questo Cuore ha veramente
agito e vissuto, con tutti i sentimenti che lo hanno fatto agitare: i suoi
sentimenti verso il Padre, verso gli uomini, verso se stesso. Nei primi
Misteri, c’è il Cuore pieno di tenerezza e di gioia; nei Misteri dolorosi, c’è
il Cuore inebriato d’amore, ebbro d’amarezza; nei Misteri gloriosi, c’è il
Cuore sempre inebriato d’amore, ma fremente nel suo trionfo. Nei Misteri
Gioiosi c’è la bellezza del grazioso; nei Misteri Dolorosi e Gloriosi c’è la
bellezza del sublime. Abbiamo detto che il grazioso è particolarmente
ammirevole nel cuore del bambino. Dopo il nostro Battesimo, nostro padre e
nostra madre, contemplandoci amorevolmente nella nostra culla, hanno detto in
un dolce trasporto: Rallegriamoci, un bambino ci è nato, un uomo è stato dato
al mondo. Natus est homo in mundum (Jov. XVI, 21). La Famiglia
celeste affacciata ancor più teneramente a questa stessa culla ha detto di noi:
ci è nato un Dio, rallegriamoci, ci è nato un Dio! La grazia ci aveva reso
delle divinità, e il giovane cuore che cominciava a battere era già il tempio
della Trinità; gli Angeli, come diceva il poeta, contemplavano la loro immagine
in quella culla. Ma cosa sono tutti questi incanti davanti alla mangiatoia di
Betlemme, davanti al Cuore del Bambino – Dio? « La grazia, la bontà di Dio
nostro Salvatore, è apparsa a tutti gli uomini » dice San Paolo. Nulla di più
commovente, ingenuo, dolce, gentile, più grazioso di questi eventi radiosi
della notte di Natale: il canto degli Angeli, la visita dei pastori, in una
parola questa culla divina che deve salvare il mondo. Vorremmo vedere tutte
queste scene che incorniciano il presepe di Gesù in un dipinto … ma questo
quadro già esiste: è il Rosario. Il Mistero della Natività è il dipinto
principale, gli altri sono raggruppati intorno ad esso come quadri secondari. È
veramente lì che il Cuore di Gesù Bambino si rivela con tutte le sue grazie: Apparuit
gratia Dei Salvatoris nostri (Tit. II, 11) Solo il linguaggio della
poesia è in grado di esprimere questi deliziosi incanti, e per questo lasciamo
parlare Sant’Alfonso di Liguori, che li ha cantati in un’atmosfera di grande
suggestione. « I cieli sospesero la loro dolce armonia quando Maria ha cantato
per addormentare Gesù. Con la sua voce divina, la Vergine di bellezza, più
luminosa di una stella, disse così: « Figlio mio, mio Dio, carissimo mio
tesoro, tu dormi, e io muoio d’amore per la tua bellezza ». Nel sonno, o mio
Dio, non guardar tua madre, ma l’aria che respiri è fuoco per me. I tuoi occhi
chiusi mi penetrano con i loro tratti; … cosa sarà di me quando li aprirai! Le
tue guance rosee deliziano il mio cuore. O Dio, la mia anima muore per te. Le
tue belle labbra attirano i miei baci, perdona, o caro, io non ne posso più. »
Ella tace e, premendo l’amato Bambino sul suo seno, pone un bacio sul suo viso.
Ma il Bambino si sveglia, e con i suoi bellissimi occhi pieni d’amore guarda la
Mamma sua. O Dio, per la madre, questi occhi, questi sguardi, quel tratto
d’amore che ferisce e attraversa il suo cuore! « E tu, anima mia, così
dura, non languisci a tua volta, vedendo Maria languire di tenerezza per Gesù?
Bellezze divine, vi ho amato tardi; ma d’ora in poi brucerò per voi senza fine.
Il Figlio e la Madre, la Madre con il Figlio, la rosa con il giglio, avranno
tutto il mio amore per sempre. » (InDom GUÉRANGER. Année liturgique, temps
de Noël, tom. I, 27 janvier). – La bellezza del “grazioso” si rivela poi
nel cuore delle vergini, di cui ogni sospiro è per Dio, la prima bellezza, la
prima vergine. Ma il tipo immacolato di tutto ciò che è verginale è sicuramente
il Cuore di Gesù. Gesù, Dio vergine, Figlio di una Madre vergine, sposo di una
Chiesa vergine, che bellezza! Le anime sante lo hanno capito bene, rapite da
questo puro ideale, essi immoleranno il loro cuore sul seno casto di Gesù e
assaporeranno le austere delizie della carità vicino a Lui. Per il vostro
fascino, per la vostra bellezza, o divina Sposa delle Vergini! specie tua
et pulchritudine tua, regnate su tutti gli uomini! Finalmente la
bellezza del “grazioso” si manifesta nel cuore dell’amico. Amiecus
fidelis medicamentum vitæ, dice lo Spirito Santo (Eccli. VI, 16).
L’amico fedele è il balsamo della nostra vita, sorride alle nostre gioie,
risponde alle nostre grida, asciuga le nostre lacrime. Ora, questo amico sempre
fedele, che rimane quando tutto passa, che sorride quando piangiamo, è il Dio
del Rosario. L’amicizia vuol dei pari. Nei primi Misteri del Rosario, Dio si fa
nostro pari prendendo la nostra natura, e ci fa suoi pari dandoci la sua: è
infatti il cuore dolce dell’amico che sentiamo battere in ogni mistero. Quando
Gesù sorride ai pastori e ai Magi, quando istruisce i dotti ed i semplici,
quando lascia cadere dalle sue labbra questa parola balsamica: « Venite a me, o
sofferenti e afflitti, Io vi consolerò! ». Noi sentiamo la dolce voce di un
amico, sentiamo il Cuore amorevole e devoto di Colui « che si diletta a stare
con i figli degli uomini ». Non insistiamo più su questo lato “grazioso” del
Sacro Cuore; la pia contemplazione dei Misteri del Rosario ci farà gustare e
assaporare il suo fascino meglio di qualsiasi parola. – Dobbiamo ora
considerare nel Sacro Cuore di Gesù la bellezza del “sublime” e dell’eroismo.
Quando appare l’eroismo, la natura è come sopraffatta: sentiamo che Dio è lì.
In tutti i giusti ci sono semi di eroismo, sono i doni dello Spirito Santo.
Appena se ne presenta l’occasione, queste “energie” soprannaturali cominciano a
muoversi, l’eroismo nasce spontaneamente, come il fiore dal suo seme: è il
sublime che passa. Ecco perché il cuore materno sale così rapidamente al
sublime, perché la vita dei santi è come intessuto dell’eroismo. I teologi
insegnano che tutte le virtù sono state trovate unite in Gesù Cristo fin dal
momento del suo concepimento; esse sono state portate al grado più completo,
che è il grado eroico, e qui l’eroismo è divino. Queste virtù perfette che
adornano la sua anima sono in qualche modo straripate dal suo Cuore sul mondo
per manifestarsi a noi. Possiamo affermare, quindi, che Egli abbia vissuto una
vita costante di eroismo, in ognuno dei suoi Misteri, nel presepe come sulla
croce. È però nei Misteri dolorosi che il sublime ci appare più chiaro. Esiste
al mondo una scena così misteriosa, così profondamente dolorosa, così grandiosa
come l’agonia di Gesù? Raccogliete l’angoscia più struggente, l’amarezza più
crudele, i sacrifici più dolorosi, la devozione più ammirevole che ha fatto
battere il cuore umano: avrete tesori di eroismo, avrete un oceano di
afflizioni. Avrete capito cos’è l’agonia dell’uomo, ma non avrete ancora capito
cos’è l’agonia del Cuore di un Dio. È una scena ineffabile: si tace e si piange
quando si considera un Dio in agonia. Ciò che rende questo mistero così sublime
è l’amore sacrificato. – Gesù vedeva prima di tutto che sarebbe stato il grande
incompreso, il grande disprezzato, il grande perseguitato; sentiva già la voce
dei popoli che gli riecheggiava questa dolorosa eco: l’amore non è amato,
l’amore è odiato! Tuttavia, il Cuore di Gesù ha gridato più forte degli
oltraggi empi e sacrileghi degli uomini e dei demoni ai quali si è consegnato.
Le lacrime gridano, ma soprattutto è l’amore che grida: Clamant lacrymæ,
sed super omnia clamat amor! Nella Flagellazione, nella Coronazione di
spine, nella salita della croce, c’è lo stesso eroismo. Nel Pretorio, nelle
strade di Gerusalemme, sulla via del Calvario, sentiamo le grida della folla,
gli insulti dei carnefici, ma soprattutto sentiamo la voce del Sacro Cuore, la
voce dell’amore e del sangue, la voce del sublime: Clamant lacrymæ,
clamant vulnera, sed super omnia clamat amor! Le tue lacrime gridano,
le tue ferite gridano, o Gesù; ma soprattutto è il tuo amore che grida. –
Finalmente Dio e la morte si incontrano sul Golgota: Dio e la morte! Che
spettacolo solenne e terribile! Dio e la morte, che incontro! Ed è Dio che
vuole essere lo sconfitto. Ma la morte, che pensava di essere trionfante, non
fa che dare a Gesù solo un nome più bello: Dio è l’amore onnipotente, l’amore
creatore; ora ha un nome nuovo: è l’amore vittima! La Crocifissione di Gesù è
la perfezione del sublime, poiché è la perfezione dell’amore nella perfezione
del sacrificio. Qualche goccia di sangue rimaneva nel Cuore del Crocifisso. Ah!
Bisogna che sia tutto versato.. Soldato, vieni ad aprire questo cuore. Et
continuo exivit sanguis et aqua (Giov. XIX, 34). Il costato è aperto, e
ne fuoriescono sangue ed acqua. Questa volta non c’è più nulla da dare,
l’immolazione è totale: è infatti la perfezione dell’amore nella perfezione del
sacrificio dell’Uomo-Dio. Così, il sublime è in tutta la Passione di Gesù,
sublime divino di cui è impossibile all’uomo ed ad ogni intelligenza creata
misurare l’altezza. – Nel mistero della Risurrezione, sono di nuovo Dio e la
morte che si incontrano, ma questa volta è Dio il vincitore. Eroico nel
lasciarsi spezzare dalla morte, il Cuore di Gesù è ancora una volta sublime nel
trionfare sulla morte e sull’inferno per comunicarci la sua vita soprannaturale.
Gli ultimi Misteri finiscono in cielo: è il sublime della gloria, il sublime
dell’eternità. Qui siamo soprattutto nell’infinito, nel divino: è meglio tacere
davanti a questo infinito di cui si dice: « Quelle cose che occhio non
vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo » (1 Cor. II,
9). Ecco in qual modo ammirevole, tutte le bellezze del “grazioso” e del
“sublime” sono riassunte nel Cuore di Gesù, e quindi nel Rosario, che ne è la
rivelazione. C’è una duplice ragione dunque per contemplare e onorare questo
Cuore divino, attraverso la meditazione del Santo Rosario, per ottenere da
esso, per intercessione della Madre Immacolata, l’abbondanza delle grazie
divine di cui è fonte e pienezza.
CAPITOLO SECONDO
IL ROSARIO E L’ANIMA DI GESÙ
Siamo nel Cuore di Gesù, penetriamo
oltre: oltre agli abissi del cuore ci sono gli abissi dell’anima, scendiamo
ancora: oltre gli abissi dell’anima ci sono gli abissi della divinità. Il
Rosario ci fa così andare di profondità in profondità: dalle profondità e dagli
abissi del cuore alle profondità e agli abissi dell’anima; dalle profondità e
dagli abissi dell’anima alle profondità e agli abissi della divinità. – Ci sia
permesso dapprima di entrare per qualche istante nell’anima santa del Nostro
Salvatore. Essa è il capolavoro in cui Dio ha riunito tutte le perfezioni del
mondo umano ed angelico. Le ricchezze di questi due mondi si possono riassumere
così: scienza o verità, santità o grazia. Il regno degli spiriti è un regno di
luce; la scienza è un sole illuminato in cima alle intelligenze; la verità è lo
splendore che corona queste cime radiose. ciò che è incomparabilmente più bella
della scienza, è una volontà, è una natura trasfigurata in quella di Dio.
Questa trasfigurazione è la santità; ciò che la produce è la grazia. Sopra il
sole della scienza splende negli Angeli e nell’anima giusta, il sole della
grazia. Così, grazia e verità sono il tesoro comune dei due mondi
intellettuali. Sarà facile per noi mostrare che la scienza e la grazia di Gesù
Cristo sorpassano la scienza e la grazia degli Angeli e degli uomini insieme.
Le perfezioni di questi due mondi sono così unite in Gesù; il cielo umano e
quello angelico si riflettono pienamente nell’anima adorabile del Salvatore: Plenum
gratiæ et veritatis (Giov. I, 14) è pieno di grazia e di verità.
Cercheremo di studiare, anche se in modo sommario, la scienza e la grazia di
Nostro Signore. San Paolo afferma che tutti i tesori della sapienza e della
scienza sono nascosti nel Cristo: In quo sunt omnes thesauri sapientiæ et
scientiæ absconditi (Col. II, 3). – Tutta la scienza dell’umanità,
tutta la conoscenza dei Cherubini e dei Serafini condensata in un’unica mente
formerebbe certamente un ricco e vasto tesoro, ma sarebbe opportuno sondarlo;
sarebbe forse un oceano, non sarebbe l’abisso senza limiti. In Gesù Cristo è
impossibile raggiungere il fondo; come in un abisso, nuove profondità seguono
incessantemente quelle già esplorate, così nella scienza del Verbo incarnato,
gli abissi che cerchiamo di sondare sempre e senza fine seguono altre
profondità recondite: Absconditi! Questi tesori sono nascosti,
sarà impossibile scoprirli nella loro interezza. Senza menzionare la scienza
divina, che è infinita, ci sono in Gesù Cristo tre tipi di scienza: la scienza
della bellezza, la scienza infusa e la scienza sperimentale. Fin dal primo
momento della sua creazione, l’anima di Gesù ha avuto gli occhi aperti
sull’infinito, ha contemplato Dio faccia a faccia e si è inebriata di questo
torrente di delizie la cui fonte è l’eternità. Poiché tutta la gloria deriva da
Cristo, Egli doveva avere prima di tutto ciò che dà agli altri. Ha quindi
goduto della gloria fin dal momento del suo concepimento. In virtù della sua
scienza beatifica, l’anima del Verbo conosce il passato, il presente e l’avvenire.
Padrone assoluto della terra e del cielo, non deve ignorare nulla di ciò che
accade nel suo impero; Giudice dei vivi e dei morti, deve conoscere tutto ciò
che sarà sottoposto al suo tribunale: ognuna delle nostre azioni, i nostri
pensieri più intimi, i movimenti più segreti del nostro cuore. Tutto ciò che è,
tutto ciò che è stato, tutto ciò che sarà è presente ai suoi occhi. – La
meditazione del Rosario ci ricorderà tutto questo. Nel Mistero
dell’Annunciazione, per esempio, Gesù Cristo già mi conosceva, pensava a me,
leggeva nella mia mente tutte le mie parole. Conosceva in anticipo tutta la mia
ingratitudine, eppure mi amava, mi ha offerto il suo Cuore, e mi ha chiamato
dolcemente per nome. È dolce da parte mia aggiungere che conosceva le mie adorazioni,
i miei affetti, i miei desideri, mi vedeva arruolato nel grande esercito del
Rosario, conosceva l’atto d’amore che avrei compiuto per Lui in questo momento
nel recitare questa decina, e mi ha ringraziato in anticipo. Lo stesso vale per
gli altri Misteri. Allora, dunque, meditando il Rosario, entreremo nell’anima
di Gesù, ci ricorderemo che essa sa tutto quello che le diremo; ha visto quello
che abbiamo fatto prima della nostra preghiera, vede come preghiamo in
quest’ora, sa cosa faremo dopo il nostro Rosario. Ci sforzeremo allora durante
il Rosario di raccoglierci, con il massimo rispetto ed amore e, dopo la nostra
recita, di non fare nulla che possa offendere il suo sguardo. Ricorderemo anche
che stiamo parlando con un’anima beata che può e vuole darci la felicità
eterna. Gli diremo in ogni Mistero: « O anima santa del mio Salvatore,
per le vostre gioie, per le vostre sofferenze, per i vostri trionfi, portateci
alla visione beatifica, perché possiamo unirci completamente a Voi, come la
fiamma si unisce alla fiamma, come l’amore si unisce all’amore! » In
secondo luogo, nell’anima di Cristo c’è una scienza infusa, alla maniera della
conoscenza angelica. Gli uomini sono obbligati a mendicare la loro conoscenza
dal mondo esterno; la verità è davvero la manna del nostro spirito, ma dobbiamo
raccoglierla a poco a poco e con il duro lavoro nei vasti campi della
creazione. Per gli Angeli non è così: la manna è caduta direttamente nelle loro
intelligenze; dal mattino della loro creazione, Dio ha impresso in loro delle
idee potenti con le quali conoscono l’intero universo. Cristo, Re degli Angeli,
non poteva mancare di una perfezione che arricchisce i suoi sudditi. Anche la
sua anima aveva, fin dal mattino della sua creazione, una scienza infusa
incomparabilmente più estesa della scienza angelica. Gli Angeli, con le loro
idee innate, conoscono tutte le cose della natura, ma non conoscono né i
decreti della volontà divina, né il futuro, né i segreti del cuore. L’anima del
Verbo conosce, mediante la sua scienza infusa, tutto ciò che appartiene al dono
della sapienza o della profezia, il passato, il presente, l’avvenire, i segreti
dei cuori; in una parola, la sua scienza infusa, in relazione alle cose create,
è tanto universale quanto la sua scienza beatifica. Il Rosario, nello stesso
momento in cui ci introduce nel santuario di quest’anima beata, ci fa
partecipare, in qualche modo, alla sua scienza infusa. Ci avvia verso quei
grandi Misteri che gli Angeli hanno conosciuto solo poco a poco: pochi istanti
ci insegnano più verità soprannaturali di quelle rivelate agli Angeli nei
lunghi secoli che hanno preceduto l’Incarnazione. Tutte le rivelazioni, tutte
le profezie dell’Antico Testamento sono contenute nel Rosario, come nella loro
realizzazione: la recita di alcune decine ci fa ripassare tutto l’insieme
dell’ordine soprannaturale. Le anime privilegiate, che penetrano più a fondo in
questa meditazione, a volte ricevono vere comunicazioni celestiali; a forza di
entrare nell’anima di Cristo, sono illuminate dalla sua chiarezza e ne
conoscono i segreti. La scienza infusa non è un fatto raro negli annali della
santità; molti Santi l’hanno attinta dalla meditazione dei Misteri del Rosario.
– Non tutti noi possiamo pretendere questi straordinari favori; ma tutti noi,
dal momento in cui uniamo la nostra anima all’anima del Salvatore, abbiamo il
diritto di sperare in grazie di illuminazione per meglio comprendere le verità
che meditiamo: da quest’anima divina scaturiranno sulla nostra intelligenza dei
bagliori soprannaturali che illumineranno le profondità di questi misteri. La
nostra fede sarà più illuminata dopo la recita della nostra cara preghiera, e
in questo modo il Rosario sarà stato una vera partecipazione alla scienza
infusa di Cristo. – Infine, c’è in Nostro Signore la scienza acquisita o
sperimentale. Le sue due sapienze superiori non hanno spento l’attività
naturale del suo spirito. Da un punto di vista puramente umano, Gesù Cristo era
il più grande di tutti i geni: tutto ciò che c’è di fecondo e creativo nelle
anime dei poeti, di puro e ideale nelle anime degli artisti, di nobile e
generoso nelle anime degli oratori, era unito nella sua anima. Egli è il più
perfetto rappresentante dell’umanità; altri geni rispetto a Lui non sono
neppure ciò che un bambino è davanti ad un gigante, ciò che un oscuro pianeta è
rispetto al sole. Il suo spirito penetrante andava direttamente in fondo alle
cose, con un solo sguardo coglieva tutta la verità. Egli ha raccolto senza
fatica dai campi della creazione questa conoscenza sperimentale che a noi costa
tanto lavoro. Solo attraverso la sua scienza acquisita, Egli ha conosciuto
tutte le verità a cui la ragione possa elevarsi, sondava tutti i segreti della
natura, vedeva in anticipo tutte le meravigliose invenzioni di cui l’uomo è
capace. Era Egli stesso il suo maestro; dottore degli Angeli e degli uomini,
non doveva imparare nulla da nessuno. La sua scienza beatifica e la sua scienza
infusa sono rimaste invariabili, perché erano complete fin dal primo momento;
ma c’è stato un vero progresso nella sua scienza sperimentale. Secondo San
Tommaso, queste parole del Vangelo devono essere prese alla lettera: « Gesù è
progredito in sapienza e in età. » (Luc. II, 52). La sua intelligenza si è
sviluppata continuamente fino al giorno in cui si è riposato nella perfezione.
Ora, Nostro Signore ha acquisito questa conoscenza attraverso ognuno dei suoi
atti e nei principali eventi della sua vita, che i Misteri Gioiosi ci
ricordano. La meditazione del Rosario ci mette quindi in contatto con essa, ed
è quindi naturale che Gesù, il nostro Dottore, ci comunichi un aiuto abbondante
per aiutarci ad acquisire anche la scienza umana necessaria al nostro
stato. Se la nostra vocazione ci impone lo studio, troveremo un potente
ausilio nel Salterio di Maria. Recitiamo qualche Ave Maria, entriamo nel
profondo di Cristo, il nostro lavoro sarà molto dolce, molto fruttuoso; come
Gesù, avanzeremo rapidamente nella scienza e nella saggezza. Fu nel Rosario che
dei geni celebri cercarono l’ispirazione. Basti citare qui Michelangelo e
Joseph Haydn. Si conservano ancora due grandi rosari di Michelangelo che hanno
un aspetto molto consunto. Quanto a Joseph Haydn, conosciamo la sua famosa
testimonianza: « Quando la composizione non va più bene, cammino avanti e
indietro nella mia stanza, con il mio Rosario in mano, recito qualche Ave Maria,
e allora mi ritornano di nuovo le idee in mente ». Benedetto lo studio
così inteso, benedetti i momenti trascorsi vicino all’anima adorabile di Colui
che fa geni e santi!
CAPITOLO TERZO
IL ROSARIO E L’ANIMA DI GESÙ – SUA GRAZIA
Siamo stati iniziati dal Rosario alla
triplice scienza del Verbo incarnato, ma per avere la rivelazione completa
della sua anima, dobbiamo considerare in essa la pienezza della grazia. Plenum
gratiæ. È la grazia, soprattutto, che fa la bellezza degli esseri. Un
Santo disse: Se vedessimo un’anima in stato di grazia, moriremmo di ammirazione
e di gioia, e, secondo San Tommaso, rendere la grazia ad un peccatore è
un’opera più grande, in un certo senso, di quanto non lo sia la Creazione del
cielo e della terra. (S. Th. Ia IIæ, q. 113, art. IX). Descrivere le bellezze
della grazia è dunque descrivere gli splendori dell’anima di Gesù, ed è
addirittura impossibile sospettare i tesori di quest’anima adorabile, se non si
conosce il pregio della grazia. Per questo cercheremo di descrivere a grandi
linee le meraviglie che la grazia ha operato nell’anima del Salvatore;
mostreremo poi come la grazia di Cristo ci venga comunicata attraverso il
Rosario. – La grazia è un dono celeste che ci rende esseri
soprannaturali, che ci rende in qualche modo divinità, che fa abitare Dio in
noi. – Prima di tutto, allarga gli stretti confini della nostra natura, ci
eleva al di sopra dell’umanità e persino al di sopra della natura angelica. Se
gli Angeli non avessero la grazia, sarebbero sotto di noi, e in cielo i Santi
che avessero avuto più grazia degli Angeli, saranno posti più in alto. Anche se
Dio creasse esseri più perfetti dei Serafini, dovremmo comunque gridare: Più in
alto! Più in alto! Questo non è il soprannaturale. – Il soprannaturale ci mette
al livello di Dio, è una seconda natura che si aggiunge alla prima. Nell’ordine
naturale abbiamo prima di tutto un’anima: nell’ordine soprannaturale c’è anche
un’anima. La grazia – dice sant’Agostino – è l’anima della nostra anima.
Nell’ordine naturale abbiamo delle facoltà: l’intelligenza, la volontà, i
sensi; nell’ordine soprannaturale abbiamo le virtù infuse come facoltà. Queste
sono prima di tutto le virtù teologali, che affondano le loro radici in Dio; le
virtù cardinali con le loro innumerevoli ramificazioni; più in alto i doni
dello Spirito Santo, che sono come i semi dell’eroismo. E non è tutto. Il
soprannaturale ci dà nuove operazioni: le virtù e i doni sono coronati dai
dodici frutti dello Spirito Santo, e da quelle che vengono chiamate le
beatitudini evangeliche. Tale è, In poche parole, questo meraviglioso insieme
del soprannaturale: alla base la grazia, poi le virtù infuse, più in alto i
sette doni, più in alto ancora i dodici frutti dello Spirito Santo, alla
sommità le beatitudini evangeliche. – Ma non abbiamo ancora detto nulla;
la grazia ci rende divinità. Ego dixi: dii estis! (Ps. LXXXI, 6).
Se avessimo uno sguardo abbastanza potente, vedremmo nell’anima del giusto i
tratti divini e, per così dire, la figura stessa di Dio. La Grazia, secondo
l’espressione dei Santi Padri, è lo specchio luminoso in cui Dio si contempla e
si riconosce. Ora, Dio può riconoscere se stesso se non solo in un dio. Sì, se
siamo lo specchio del Signore, dobbiamo riflettere in noi i tratti del volto
divino. Nel salutare l’anima in stato di grazia, salutiamo la figura di Dio! Divinæ
consortes naturæ, dice San Pietro. (II Piet. I, 4) La grazia ci
rende partecipi della natura divina. Quando immergiamo l’oro nella fornace, pur
mantenendo le sue proprietà, esso diventa fuoco, assume il colore, il calore,
la luce del fuoco. La grazia ci immerge nell’Essere divino, e l’uomo, senza
perdere la sua natura, è tutto penetrato da Dio: egli è fiamma come Dio, è
amore come Dio, pensa in Dio, agisce in Dio. I re sono orgogliosi del loro
sangue; c’è in tutti i giusti un sangue reale, un sangue divino, che discende
da Gesù Cristo in noi, così come la vite comunica la sua influenza e la sua
vita all’ultima tralcio. Gli eroi dell’antichità pagana volevano spacciarsi per
figli di un dio. Queste erano delle favole sacrileghe; per noi invece è una
realtà. La nostra genealogia è veramente celeste, possiamo dire con San Paolo: Genus
sumus Dei siamo della razza di Dio (Act.XVII, 28, 29). Questa è
la nostra particella di nobiltà, e abbiamo il diritto di esserne orgogliosi!
Infine, la grazia ci dona la persona stessa di Dio. Questo è il dolce mistero
che i teologi chiamano la dimora della Trinità in noi. – La Grazia
consacra la nostra anima con la sua invisibile unzione e ne fa un tempio dove
Dio si diletta. Vos estis templum Dei vivi, dice San Paolo, (II
Cor. VI, 16) e San Bernardo osserva che le cerimonie del Battesimo assomigliano
molto alle cerimonie di consacrazione di una chiesa. Ma un tempio, una chiesa,
è fatto perché Dio vi abiti. Bene – dicono le tre Persone – entreremo in
quest’anima, e vi porremo la nostra dimora. Ad eum veniemus et mansionem
apud eum faciemus (Giov. XIV, 23). La Trinità è dunque tanto presente
nell’anima dei giusti quanto Gesù Cristo è presente nelle nostre chiese. – Come
il calice dell’altare contiene veramente il sangue di Gesù, così le nostre
anime contengono veramente lo Spirito Santo. Calice dell’altare, calice
dell’anima santa, in entrambi vi abita un Dio! La dimora della Trinità è la
presenza dell’amico con l’amico, dello sposo con la sposa. Se abbiamo delle
prove, non è necessario andare molto lontano per trovare un Consolatore: basta
entrare nella nostra anima; le tre Persone sono lì per sorridere alle nostre
lacrime, per asciugare le nostre lacrime. Trasfigurano la nostra intelligenza,
ci fanno vedere tutte le cose con le luci e i colori dell’eternità, così che in
tutte le vicende di questo mondo vediamo la via di Dio, e diciamo con la
Scrittura: Ecce Dominus transit! Ecco il Signore che passa! (III
Re, XIX, 11). Esse trasfigurano la nostra volontà, ci fanno trovare in tutto
ciò che ci accade un sapore divino; le prove e la morte stessa diventano una
bevanda da assaporare con ebbrezza. Gustare mortem. In fine esse
trasfigurano il nostro corpo. C’è, infatti, nei corpi dei Santi una bellezza
segreta, uno splendore nascosto, che talvolta si rivela nell’ora della morte.
Anche nella tomba, una sorta di maestà divina proteggerà la nostra polvere;
anche nella corruzione, ci sarà nelle nostre membra come un’iscrizione
invisibile, che dirà: Rispetta questa polvere, è un immortale che si assopisce,
queste membra un tempo erano il tempio della Trinità, sono sacre per la
risurrezione. – Parlando di grazia, non abbiamo lasciato Nostro Signore,
perché è in Lui che la grazia ha esaurito tutti i suoi tesori. Tutte queste
meraviglie soprannaturali, che abbiamo cercato di descrivere, si trovano in Lui
ad un livello supremo. Fin dal primo momento della sua creazione, la sua anima
benedetta è stata inondata da tutti i torrenti di grazia. Più ci si avvicina a
una sorgente, più si partecipa all’abbondanza dei suoi corsi d’acqua; più ci si
avvicina ad un focolare, più si sentono gli effetti del suo calore e della sua
luce. La sorgente, l’oceano di grazia, la casa, il sole dell’amore, è la
divinità. Ma è possibile essere più vicini a Dio di quanto lo fosse l’anima di
Nostro Signore? La divinità e quest’anima santa si abbracciano in una stretta
ineffabile, così stretta da diventare una sola persona. Toccando così l’oceano
di grazia, quest’anima ne è stata inondata, l’oceano si è riversato in essa e
ha riempito tutte le sue profondità. Plenum gratiæ. È la pienezza
che trabocca; è impossibile aggiungervi qualcosa. Cosa si può aggiungere
all’abisso quando l’abisso è riempito? Sotto l’influenza di questa grazia,
tutte le virtù sbocciano nell’anima del Verbo, tutte portano quel fiore
squisito, che è l’eroismo. Le virtù che appartengono allo stato di imperfezione
non hanno posto in questo giardino; ma tutte le altre virtù, le virtù naturali,
le virtù infuse, i doni e i frutti dello Spirito Santo, la potenza dei
miracoli, il dono della profezia: in una parola, tutto ciò che è di più
incantevole nell’ordine soprannaturale vi fiorisce come in una terra vergine
fecondata dal sole dell’eternità. Tutto ciò che Dio ha fatto di bello nella
natura e nella grazia, lo ha raccolto nell’anima di suo Figlio. Ah, qui è il
caso di dire: se noi vedessimo l’anima di Gesù, cadremmo in un’estasi di
ammirazione, di ebbrezza e di amore. Dio ci riserva questa estasi per
l’eternità, ma il Rosario ce ne può dare un assaggio ora e comunicarci la
grazia di Cristo. Per avere la rivelazione di un’anima, è ovviamente necessario
studiarla nelle circostanze in cui essa si manifesta, negli eventi in cui si
riflette la sua interiorità. In quali circostanze l’interno di Gesù è meglio
riflesso che nei Misteri del Rosario? Cresceva nella grazia – dice il
Vangelo – cioè la sua grazia lasciava apparire all’esterno i suoi meravigliosi
effetti; in ciascuno dei Misteri essa irradiava attraverso il velo di una carne
trasparente. Basta vedere Gesù che agisce, che parla, che insegna, per
intravedere qualche lampo di questa grazia nascosta. Ebbene, nella meditazione
intima del Rosario, l’anima di Cristo passa davanti a noi, la sua grazia
risplende ancora attraverso la corteccia del Mistero; essa viene a noi; noi la
penetriamo. Sì, il Rosario è la rivelazione vivente dell’anima di Cristo e dei
suoi tesori divini. – C’è di più. Vogliamo soprattutto mostrare che il Rosario
ci applica anche la grazia di Nostro Signore. La grazia che il Cristo ha
ricevuto lo ha reso capo spirituale dell’umanità e lo ha reso capace di
meritare per noi. Non c’è bene soprannaturale che non derivi da questa causa
principale. Gesù è il grande serbatoio da cui tutti gli uomini debbano attingere
per essere salvati; è il vasto oceano di grazia. Ne attingiamo incessantemente,
e l’abisso profondo è sempre pieno. Ma l’Umanità del Verbo ci ha guadagnato la
grazia attraverso ciascuno dei Misteri. Vediamo allora che, meditando il
Rosario, siamo in contatto con la fonte da cui proviene la salvezza: si
stabilisce una comunicazione tra Cristo e noi, la vita divina scaturisce nelle
nostre anime con un flusso dirompente. Inoltre, secondo un santo Dottore, ogni
Mistero è come il seno fecondo da cui sgorga il latte della grazia; recitando
le decine, noi succhiamo, per così dire, il latte del cielo. – Indubbiamente,
qui è necessario fare attenzione a non esagerare. Non vogliamo far credere che
il Rosario ci applichi direttamente la grazia santificante, alla maniera di un
Sacramento; tale efficacia non appartiene né al Rosario né a nessun’altra
devozione. Sarebbe un errore pretendere che la recitazione sia sufficiente di
per sé a darci un aumento di grazia; ma non c’è alcuna illusione nel credere
che, per il fatto stesso di essere pietosamente uniti ai Misteri che hanno
portato la nostra salvezza, da questa meditazione scaturiranno le grazie
attuali. Secondo il Vangelo, bastava toccare le vesti del Salvatore per
essere guariti. Ogni Mistero del Rosario non è forse come una frangia del manto
divino? Appena iniziamo le Ave Maria, tocchiamo, per così dire, la frangia
divina: non abbiamo il diritto di sperare che qualche virtù ne venga per
guarirci? Virtus de illo exibat et sanabat omnes. (Luc. VI, 19).
Il Mistero che ha espiato l’orgoglio ci darà un aiuto speciale per praticare
l’umiltà; il Mistero che ha espiato il vizio impuro avrà una speciale efficacia
nell’applicarci la castità, e così anche gli altri Misteri. Nostro Signore è
come un grande sole, che illumina ogni uomo che viene in questo mondo; il
Rosario ci espone alla sua luce ed al suo calore. Assistiamo al sorgere di
questo sole di giustizia nei Misteri dell’Annunciazione e della Natività; lo
contempliamo nella sua luce di mezzodì, in tutto il suo splendore, meditando
sui Misteri gloriosi. Il suo calore si irradia su di noi; noi ne riflettiamo lo
splendore. La nostra anima è riscaldata dal fuoco stesso della divinità; siamo
fiamme come Dio, amore come Dio. Oh, se sapessimo come approfittare della
nostra preziosa devozione, quanto velocemente avanzeremmo nelle vie spirituali!
È nel Rosario che le grandi anime dell’Ordine di San Domenico hanno trovato il
segreto della loro santità così amabile e fecondo. Il nostro Confratello
Marie-Raphaël Meysson, di pia e dolce memoria, chiamava il Rosario un segreto
di santità. Nascosto nell’anima adorabile del suo Dio, beveva dalla fonte della
grazia, ne attingeva un po’ di quell’eroismo che ci stacca dalla terra,
assaporava un po’ di quell’ebbrezza ineffabile che è un anticipo del cielo.
Possiamo noi, come privilegiati del Signore, scendere ogni giorno nell’anima
del nostro Diletto, alle fonti della salvezza e della felicità! Il nemico non
potrà mai violare questo asilo, e le tempeste dell’inferno, che scuotono così
violentemente le anime mondane, non giungeranno mai a queste profondità
luminose dove regna la perpetua serenità.
CAPITOLO QUARTO
IL ROSARIO E LA DIVINITÀ DI GESÙ
Vivere nell’anima del Verbo, è vivere
lontano della regione delle tempeste, su un Tabor sempre sereno, su una cima
vicino al Cielo dei cieli. Lo splendore di quest’anima si riflette nella
nostra, noi camminiamo nella luce di Cristo: questo è la via illuminativa.
Ma la vita mistica non si ferma qui: toccare Dio, unirsi a Dio, perdersi in
Dio, ecco il fine della santità e della felicità; per questo l’ultima fase
della perfezione è la vita unitiva attraverso la quale l’anima si nasconde in
Dio. San Paolo ha riassunto tutta questa vita spirituale in un famoso testo: Vita
vestra est abscondita cum Christo in Deo (Col. III, 3). La nostra
vita è nascosta nell’anima del Cristo, cum Christo, questa è la
via illuminativa; in Deo, siamo nascosti con Cristo nel profondo
della divinità, questa è la via unitiva. Il Rosario, che ci ha aperto la
via illuminativa, introducendoci nell’anima del nostro Salvatore, ci inizierà
ai segreti della via unitiva, facendoci penetrare nell’interno stesso della
divinità. L’Apostolo San Giovanni ricordava con un lieve tremito che le sue
mani avevano toccato il Verbo di vita: Quod manus nostræ contrectaverunt
de Verbo vitæ. (I Giov. I, 1). – Nel Rosario abbiamo una felicità
simile; tocchiamo quell’Uomo il cui nome è miele per le nostre labbra, una
melodia per le nostre orecchie, una soavità per i nostri cuori, Cristo Gesù, Homo
Christus Jesus. Ora, in quest’Uomo, non c’è parte che non sia penetrata
nella sua interezza dalla divinità. L’Unione ipostatica è quell’unzione
ineffabile che ha consacrato il Cristo; tutto l’olio della divinità si è
riversato nell’umanità del Verbo, l’ha inondata, l’ha compenetrata: Unxit
te Deus (Ps. XLIV). Sì, o Gesù, la divinità ti ha unto interamente,
l’unzione della gioia ha consacrato tutte le parti della tua umanità; il tuo
Cuore ha ricevuto l’unzione divina, la tua anima l’ha ricevuta, tutto il tuo
essere l’ha ricevuta: Unxit te Deus oleo lœtitiæ. L’olio
misterioso è così penetrato ogni azione di Nostro Signore; quando questo Cuore
sospira, è un Dio che sospira; quando quest’anima trema, è un Dio che trema.
Per andare alla divinità, quindi, non è necessario lasciare il Rosario, basta
contemplare l’intero Mistero, così come ci viene presentato, la persona che
agisce, l’azione che si compie. La persona è il Verbo eterno; l’azione è
teandriaca, cioè divina e umana, ed è tutta profumata dall’unzione gioiosa
della divinità. È qui che si può dire veramente: Dio! Ecco Dio! La divinità è
lì nel Rosario, Essa è lì che agisce, che anima, che profuma tutto il Mistero.
Non fermiamoci dunque alla corteccia, andiamo al midollo: la corteccia è
l’evento esterno, il midollo è l’interno di Gesù, il suo cuore, la sua anima,
la sua divinità. Così siamo arrivati a Dio. Oh, rifugiamoci per qualche momento
in questi adorabili abissi, e forse avremo una piccola parte in quell’unzione
di gioia che ha fatto di Gesù il più bello dei figli degli uomini. Il Rosario
ci ha introdotto nel santuario della divinità, e molto di più, ci farà sondare
le profondità di Dio. Cosa c’è di così sorprendente? I Misteri del Rosario ci
sono rivelati da quello Spirito onnipotente che, secondo San Paolo, sonda tutte
le profondità, anche quelle di Dio: Nobis autem revelavit Deus per
Spiritum Sanctum; Spiritus enim omnia scrutatur, etiam profunda Dei (I
Cor. II, 10). Le profondità di Dio sono, prima di tutto, la vita intima di Dio
in se stesso, è la Famiglia eterna, l’adorabile Trinità, la prima delle
Vergini, come parla San Gregorio di Nazianzo, la prima bellezza e il primo
amore: tre Persone divine che si tengono in un abbraccio eterno e che si
rimandano l’una all’altra la parola che viene pronunciata e mai sempre
ripetuta: Amore, amore, amore! E questo triplice abbraccio non è che un solo
abbraccio, e questo triplice amore è che un solo amore. E Hi tres unum
sunt. (1 Giov. V, 7). Ecco le profondità di Dio! Ebbene, in ogni
Mistero troviamo la Famiglia divina; le tre Persone sono lì in virtù di questa
legge ineffabile che le incatena l’una all’altra; solo il Verbo riveste la
nostra carne inferma, ma tutte e tre cooperano all’Incarnazione e alla
Redenzione. Nel primo Mistero hanno di nuovo consiglio, ripetono la parola
creativa: « Ricostruiamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza ». Quando la
grande opera è compiuta, quando vedono questa vergine Umanità, tutta raggiante,
tutta immacolata, uscire dalle loro mani, dicono, ma questa volta senza ironia:
« Ecce Adam quasi unus ex nobis factus est. Ecco, l’uomo è
diventato come uno di noi ». (Gen. III, 22) – Infine, quando contemplano questa
innocente Umanità attaccata alla croce, pronunciano la formula del perdono: «
Ora non colpiremo più l’uomo come abbiamo fatto ». Non igitur ultra
percutiam omnem animant viventem sicut feci (Gen. VIII, 21). Siamo
entrati nella vita intima e nei consigli della Trinità: continuiamo a sondare
gli abissi divini. Le profondità di Dio sono ancora la sua misericordia e la
sua giustizia. Come possiamo conciliare questi due attributi: la vendetta
infinita del Signore contro il peccato e la sua infinita bontà per il
peccatore? Il Rosario ci dà la chiave di questo mistero: basta guardare la
croce della seconda serie, dove misericordia e giustizia si danno un bacio
eterno. A volte la giustizia degli uomini si indebolisce indignata di fronte
alla preghiera ipocrita o alle lacrime; qui la giustizia non si indebolisce
mai, anche quando Dio perdona, è giustizia, perché Gesù ha soddisfatto per il
colpevole. Amore infinito, soddisfazione infinita, questo è ciò che Dio ha
scritto sulla croce con il sangue di suo Figlio. Oh sì, la misericordia e la
giustizia possono essere abbracciate su questo trono di sangue. Ed anche noi
andiamo alla croce per abbracciare la divinità! Le profondità di Dio sono
ancora i misteri della predestinazione e della gloria. Il Rosario non solleva i
veli che coprono questi abissi; almeno getta una luce consolante su questa
oscurità. Ci dà un’idea di questa predestinazione mostrandoci Gesù, il modello
di tutti i predestinati; ci insegna che dobbiamo conformarci a questo ideale
celeste: quos prædestinavit conformes fieri imaginis Filii sui
(Rom. VIII, 29); ci fa anche intravedere alcuni raggi di gloria nei misteri
trionfanti della Risurrezione e dell’Ascensione. Le profondità di Dio sono
l’eternità. L’eternità! ma è già cominciata in noi. Il Rosario ha lo stesso
potere della Fede, perché il Rosario è la sintesi della Fede in tutta la sua
sostanza. Ora, la Fede – dice San Bernardo – ha un grembo abbastanza grande da
contenere l’eternità stessa. Attraverso la Fede e il Rosario il futuro esiste
già nel presente: i beni che ci aspettiamo riposano nella nostra mente come su
un fondamento incrollabile; la Fede è il fondamento immutabile che porta le
nostre immutabili speranze: Sperandarum substantia rerum (Heb.
III, 14). San Paolo ha altre parole ancora più energiche: La fede, dice, è il
principio di Dio: Initium substantiæ ejus (Heb. III, 14).
Attraverso la fede e il Rosario c’è nel Cristiano il seme di un Dio, il seme e
l’inizio dell’eternità. Ma soprattutto il Rosario ci fa toccare l’eternità,
perché il Dio-Uomo che adoriamo in ogni Mistero è, secondo l’espressione di
Santa Caterina da Siena, come un ponte tra il tempo e l’eternità; tocca entrambe
le rive: le rive del finito attraverso la sua natura umana, le rive eterne
attraverso la sua Persona e la sua natura divina. Quando inizieremo la recita,
ci uniremo all’Uomo-Dio, ci lasceremo trasportare sugli abissi di questo ponte
dell’infinito e, prima di finire la nostra preghiera, avremo raggiunto
impercettibilmente l’altra riva, che è la riva dell’eternità. Ecco allora tutte
le profondità di Dio esplorate nel Rosario: la vita intima della Famiglia
celeste, la misericordia e la giustizia divina, i misteri della predestinazione
e della gloria, gli abissi dell’eternità, i segreti dell’infinito. Chi è
chiamato ad una vita di unione, potrebbe quindi trovare nel Rosario risorse
inestimabili, perché il Rosario è la forma più sublime di contemplazione, la più
sicura, la più facile. – La più sublime, poiché ci getta nelle profondità
dell’infinito: lasciate che queste anime si immergano incessantemente in questa
meditazione, non esauriscono mai le loro ricchezze; c’è sempre qualche nuovo
abisso da sondare. È impossibile andare più lontano della divinità, per questo
è impossibile andare più lontano e più in alto della meditazione del Rosario. È
la più sicura. Ci si illuderebbe nel considerare la divinità in una sorta di
vita astratta e come se fosse relegata in una sfera estranea all’uomo; il
Rosario ci mostra la vera vita di Dio, le sue vere effusioni con l’umanità:
Dio, che mette le sue delizie ad abitare in mezzo a noi, a dialogare con i
figli degli uomini. È la più semplice e facile. Il nostro modo naturale di
intendere è quello di passare dal sensibile allo spirituale; gli esseri
visibili sono come il piedistallo da cui l’anima si slancia verso l’infinito.
Nella contemplazione del Rosario, l’Umanità del Verbo è il piedistallo visibile
che ci eleva alla divinità invisibile. Non c’è bisogno di una penosa
contenzione di spirito; si passa dal Cristo visibile al Cristo Dio, in modo
fluido e impercettibile. Per Christum hominem ad Christum Deum. Mentre
abbracciamo il Figlio di Maria, abbracciamo Dio stesso, gridiamo in dolce
estasi: Quanto è buono, quanto è buono il nostro Dio! quam bonus Israel
Deus! (Ps. LXXII, 1). Noi stiamo solo toccando queste bellezze, le
anime pie sapranno come completare questo studio e assaporare queste delizie.
Esse capiranno anche che il Rosario risponde alle esigenze di tutti. Ci sono
quelli per i quali il puro invisibile non ha alcuna attrattiva; anche quando si
rivolgono a Dio, la loro pietà ha bisogno di incontrare un cuore di carne come
il loro, un cuore che palpita e trasale: questi troveranno nel Rosario il Cuore
di Gesù. Ce ne sono altri la cui vigorosa intelligenza è focalizzata sulle
bellezze spirituali, il cui sguardo potente è fatto per contemplare il cielo
degli spiriti: questi troveranno nel Rosario l’anima di Gesù. Altri scivolano
sulle ali di Dio verso le più alte vette della contemplazione, il loro sguardo
è capace di guardare il Cielo dei cieli: troveranno nel Rosario la divinità di
Gesù. Il Sacro Cuore per i proficienti, l’anima del Verbo per i più avanzati,
la divinità per i perfetti. Tuttavia, questi tre stati non devono essere
completamente separati: anche i principianti devono andare all’anima e alla
divinità di Gesù, e il perfetto non deve mai lasciare quell’anima o quel Cuore.
Il cuore, l’anima e la divinità sono tre dimore che dobbiamo abitare
contemporaneamente: tria tabernacula (Marc. IX, 4). Oh, come sono
deliziose queste tre dimore! È un inizio di paradiso, sono tre tabernacoli
eterni: è la santità. La morte non ci allontanerà da questa triplice dimora, ma
ci permetterà, al contrario, di abitare più perfettamente nel cuore,
nell’anima, nella divinità del nostro Amato. Videbimus, laudabimus,
amabimus. Vedremo questo Diletto, lo loderemo, lo ameremo: visione
senza nuvole, lode senza interruzione, amore senza condivisione e senza
fallimento, questa è la potente trilogia della felicità! La iniziamo qui sulla
terra nel Rosario, andremo a finirlo, con l’ultimo Mistero glorioso, sul Cuore
di Maria. Con te, o Maria, abiteremo nei tre tabernacoli eterni, il cuore,
l’anima e la divinità del tuo Figlio; con te vivremo la sua vita, ameremo con
il suo amore. Videbimus, laudabimus, amabimus.
La pratica quotidiana
di questa devozione nel gruppo familiare, padre, madre e figli, servirà a
creare maggiore armonia nella famiglia e porterà ad una maggiore pace e serenità.
Aumenterà ulteriormente la pietà ed un maggiore sviluppo spirituale, oltre a
far discendere la benedizione di Dio e la cura vigile della Madonna su tutti
coloro che partecipano alla sua recita quotidiana.
E’ oltretutto semplice
da recitare, e l’ora più conveniente perché tutta la famiglia possa essere
presente è la sera, probabilmente subito dopo cena. Ogni membro può alternarsi
nel condurre le preghiere.
Si
inizia con:
V. Deus ✠ in adjutórium meum inténde.
R. Dómine, ad
adjuvándum me festína.
1. Dapprima si dice il Credo degli Apostoli tenendo il crocifisso della corona tra le dita. Il conduttore dice: “Credo in Deum …”, poi tutti si uniscono al Credo.
2.
Colui che conduce dice la prima metà del Pater sul grano grande della corona
e la prima parte dell’Ave Maria sui tre grani piccoli,
seguite dal GloriaPatri, mentre gli altri recitano la
seconda parte di queste preghiere.
3. Chi conduce poi annuncia: il nome del Primo dei Cinque Misteri Gaudiosi (o Dolorosi, o Gloriosi).
4.
Poi, nell’ordine, viene detto il Pater Noster sul grano grande e l’Ave
Maria sui grani piccoli, con il Gloria alla fine di ogni decina.
Nota:
la Madonna di Fatima il 13 giugno 1917 disse alla veggente Lucia: Dopo il
Gloria Patri di ogni decina, tu dirai:
O Gesù perdonate le nostre colpe, preservateci
dal fuoco dell’inferno, portate in cielo tutte le anime, specialmente le più
bisognose della vostra misericordia
5.
Si concludere l’ultima decina con la Salve Regina. Infine l’oremus.
6. Si può aggiungere la litania.
MISTERI DEL ROSARIO
Misteri
gaudiosi
(lunedì,
giovedì)
1 – Nel primo mistero gaudioso si contempla l’annunciazione dell’Angelo a Maria SS.
2 – Nel secondo mistero gaudioso si contempla la visita di Maria Vergine a santa Elisabetta.
3 – Nel terzo mistero gaudioso si contempla la nascita di Gesù Bambino nella grotta di Betlemme.
4 – Nel quarto mistero gaudioso si contempla la presentazione di Gesù Bambino al tempio e la purificazione di Maria SS.
5
– Nel quinto mistero gaudioso si contempla ladisputa
del fanciullo Gesù con i dottori.
Misteri
dolorosi
(martedì,
venerdì)
1 – Nel primo mistero doloroso si contempla l’agonia e il sudor di sangue di nostro Signor Gesù Cristo nell’orto.
2 – Nel secondo mistero doloroso si contempla la flagellazione del nostro Signor Gesù Cristo alla colonna.
3 – Nel terzo mistero doloroso si contempla l’incoronazione di spine di nostro Signore Gesù Cristo.
4 – Nel quarto mistero doloroso si contempla la condanna a morte di Gesù e la sua salita alCalvario, portando la croce.
5 – Nel quinto mistero doloroso si contempla la crocifissione, la morte e la sepoltura di nostro Signore Gesù Cristo.
Misteri
gloriosi
(mercoledì,
sabato, domenica)
1 – Nel primo mistero glorioso si contempla la risurrezione di nostro Signor Gesù Cristo.
2 – Nel secondo mistero glorioso si contempla l’ascensione di nostro Signor Gesù Cristo al cielo.
3 – Nel terzo mistero glorioso si contempla la discesa dello Spirito Santo sopra gli Apostoli con Maria santissima congregati nel cenacolo.
4 – Nel quarto mistero glorioso si contempla la beata dormizione e la gloriosa Assunzione di Maria Santissima in cielo.
5 – Nel quinto mistero glorioso si contempla l’incoronazione in cielo di Maria santissima ela
gloria di tutti gli Angeli e i Santi.
Frutti
e grazie dei misteri (del Monfort)
Secondo il metodo di S. Luigi Maria Grignon di Montfort per ogni decina del Rosario si può chiedere una grazia particolare cioè un frutto per la nostra anima legato alla contemplazione di tale mistero.
Su
ogni decina dopo aver annunciato il mistero si dice:
“Chiediamo
per questo mistero la grazia di…”
Gaudiosi:
1
– Profonda umiltà.
2
– Carità verso il
nostro prossimo.
3
– Distacco dai beni del mondo.
4
– La virtù della
purezza.
5
– La vera sapienza
(fare la volontà di Dio).
Dolorosi:
1
– Contrizione dei
nostri peccati.
2
– Mortificazione dei nostri sensi.
3
– Disprezzo del mondo.
4
– Pazienza nelle
tribolazioni.
5 – La conversione dei peccatori, la perseveranza dei giusti, e il sollievo delle anime del purgatorio.
Gloriosi:
1
– Amor di Dio ed il
fervore.
2
– Ardente desiderio del
cielo.
3 – Far scendere lo Spirito Santo nelle nostre anime.
4
– Vera e tenera
devozione a Maria.
5
– L a Perseveranza
finale e la corona di Gloria
Le
preghiere del Santo Rosario
IL SEGNO DELLA CROCE
In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
IL
CREDO APOSTOLICO
Credo
in Deum, Patrem omnipoténtem, Creatórem cæli et terræ.
Et in Jesum Christum, Fílium ejus únicum, Dóminum nostrum: qui concéptus est de
Spíritu Sancto, natus ex María Vírgine, passus sub Póntio Piláto, crucifíxus,
mórtuus, et sepúltus: descéndit ad ínferos; tértia die resurréxit a mórtuis;
ascéndit ad cælos; sedet ad déxteram Dei Patris omnipoténtis: inde ventúrus est
judicáre vivos et mórtuos.
Credo in Spíritum Sanctum, sanctam Ecclésiam cathólicam, Sanctórum communiónem,
remissiónem peccatórum, carnis resurrectiónem, vitam ætérnam. Amen.
PATER NOSTER
Pater
noster, qui es in cælis, sanctificétur nomen tuum: advéniat regnum tuum: fiat
volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis
hódie: et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus
nostris: et ne nos indúcas in tentatiónem: sed líbera nos a malo. Amen.
AVE MARIA
Ave
María, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus
fructus ventris tui Jesus. Sancta María, Mater Dei, ora pro
nobis peccatóribus, nunc et in hora mortis nostræ. Amen.
GLORIA PATRI
V.
Glória Patri, et Fílio, * et Spirítui Sancto.
R. Sicut erat in princípio, et
nunc, et semper, * et in sǽcula sæculórum. Amen.
SALVE REGINA
Salve, Regína, mater misericórdiæ; vita, dulcédo et spes nóstra, salve. Ad te clamámus éxsules fílii Hevæ. Ad te suspirámus geméntes et flentes In hac lacrimárum valle. Eja ergo, advocáta nostra, illos tuos misericórdes óculos ad nos convérte. Et Jesum, benedíctum fructum ventris tui, nobis post hoc exsílium osténde. O clemens, o pia, o dulcis Virgo María.
OREMUS
Deus, cujus Unigenitus, per vitam, mortem, et resurrectionemsuam, nobis salutis œternæ præmia comparavit, concede, quæsumus: ut hæc misteria sanctissimo beatæ Mariæ Virginis Rosario recólentes, et imitemur quod continent, etquod
promittunt assequamur. Per eundem Dominum, etc.
LITANIE LAURETANE
KYRIE, eléison.
Christe, eléison.
Kyrie eleison.
Christe, audi nos.
Christe, exàudi nos.
Pater de cælis, Deus,
miserere
nobis.
Fili, Redémptor mundi, Deus,
miserere
nobis
Spiritus Sancte, Deus,
miserere nobis.
Sancta Trinitas, unus Deus,
Miserere nobis.
Sancta Maria,
ora pro nobis
Sancta Dei Genitrix,
ora …
Sancta Virgo virginum,
ora …
Mater Christi, ora …
Mater divinæ gràtiæ,
ora …
Mater purissima, ora …
Mater castissima, ora …
Mater inviolata, ora …
Mater intemerata, ora …
Mater amàbilis, ora …
Mater admiràbilis, ora …
Mater boni consilii,
ora …
Mater Creatóris, ora …
Mater Salvatóris, ora …
Virgo prudentissima,
ora …
Virgo veneranda, ora …
Virgo prædicànda, ora …
Virgo potens, ora …
Virgo clemens, ora …
Virgo fidélis, ora …
Spéculum iustitiæ, ora …
Sedes sapiéntiæ, ora …
Causa nostræ lætitiæ,
ora …
Vas spirituale, ora …
Vas honoràbile, ora …
Vas insigne devotiónis,
ora …
Rosa mystica, ora …
Turris Davidica, ora.
Turris ebùrnea, ora …
Domus àurea, ora …
Fcederis arca, ora …
Iànua cæli, ora …
Stella matutina, ora …
Salus infirmórum, ora …
Refùgium peccatórum,
ora …
Consolàtrix
afflictórum, ora …
Auxilium Christianórum,
ora …
Regina Angelórum, ora …
Regina Patriarchàrum,
ora …
Regina Prophetàrum, ora
…
Regina Apostolórum,
ora.
Regina Màrtyrum, ora …
Regina Confessórum, ora
…
Regina Virginum, ora …
Regina Sanctórum omnium,
ora …
Regina sine labe
originali concépta, ora …
Regina in cælum assùmpta,
ora …
Regina sacratissimi
Rosàrii, ora …
Regina pacis, ora …
Agnus Dei, qui tollis
peccata mundi,
parce nobis, Dòmine.
Agnus Dei, qui tollis
peccata mundi,
exàudi nos, Dòmine.
Agnus Dei, qui tollis
peccata mundi,
miserére nobis.
f. Ora
prò nobis, sancta Dei Génetrix.
R:. Ut digni efficiàmur
promissiónibus Christi. –
Orèmus.
Oratio
CONCÈDE nos fàmulos
tuos, quæsumus, Dòmine Deus, perpètua mentis et córporis sanitàte gaudére: et,
gloriósa beatæ Mariæ semper Virginis intercessióne, a præsénti liberàri tristitia,
et ætérna pérfrui lætitia.
IL ROSARIO E LA
VERGINE SANTISSIMA: MARIA MODELLO
DELLA PREDESTINAZIONE
Dopo aver studiato, dal punto di vista
del Rosario, il Cuore, l’Anima, la Divinità di Gesù ed aver assaporato le
delizie soprannaturali alla loro fonte, è giusto e dolce considerare la Regina
del Santo Rosario stessa. Gesù Cristo, prima di morire, ci ha lasciato un
doppio testamento: la sua Eucaristia e sua Madre. Maria e l’Eucaristia! A
questi due nomi il Sacerdote freme, perché gli rivelano il segreto delle sue
più dolci gioie; la vergine freme, perché gli ricordano la fonte da cui
attingerà le dolci ed austere delizie della sua verginità; la morente freme,
perché gli promettono speranza; la peccatrice freme, perché gli promettono il
perdono. Anche per noi, pronunciare questi due Nomi è una gioia. Maria e
l’Eucaristia sono il testamento di un moribondo, poiché Gesù ci ha dato la sua
Eucaristia alla vigilia della sua morte, e ci ha dato sua Madre poco prima di
esalare l’ultimo respiro. Tutto ciò che rimane dei morti è prezioso per noi;
l’oggetto più piccolo ha un valore inestimabile, dal momento che è stato
consacrato dalla maestà del trapasso, e sembra che non abbiamo più nulla da
aggiungere quando diciamo: « Questo è il dono di un moribondo! » Cosa sarà
allora quando questo moribondo è un Dio? Oh, allora l’emozione è all’apice, il
cuore è rimescolato fin nelle più intime profondità. Bene! Maria e l’Eucaristia
sono il testamento di un moribondo che è un Dio! Non ci sarà mai un testamento
più augusto di questo. Ah! L’umanità non si è sbagliata; ha avuto per Maria e
per l’Eucaristia quell’amore appassionato che si ha per i doni dei moribondi,
ha iscritto questo doppio testamento negli annali del cuore, e sappiamo che
tali annali non invecchiano mai. No, mai l’amore di Maria potrà essere
strappato dal cuore dei Cristiani: finché i cuori batteranno, Maria sarà amata.
La devozione alla Santa Vergine è quindi fondamentale e indistruttibile nel
Cristianesimo. Il Rosario è la vera forma di questa devozione. Innanzitutto, il
Rosario ha il più alto potere di invocazione alla Santa Vergine; noi siamo come
il bambino che con le sue ripetute grida obbliga la madre a rispondergli.
Cominciamo una “Ave” ed è già un richiamo potente; lo ripetiamo fino a dieci
volte per renderlo ancora più eloquente, e quando la decina è finita,
ricominciamo di nuovo il grido d’amore; fino a centocinquanta volte questo
grido va sempre più ingrandendosi; è diventato quindi la voce sublime che
penetra il cielo. In secondo luogo, il Rosario ci fa dare alla Vergine il vero
posto che Ella occupa nel piano divino. Nel Rosario andiamo a Dio attraverso
Maria, facciamo tutto attraverso Maria, ci aspettiamo tutto da Maria, come se
la salvezza ci venisse da Lei. Questo è infatti il ruolo di Maria nell’Incarnazione;
è, nel vero senso, causa della nostra salvezza. Per apprezzare pienamente il
ruolo di Maria nel Rosario, dobbiamo mostrare qual sia il ruolo di Maria nella
grande questione della salvezza dei Cristiani. Nella salvezza ci sono tre cose
capitali: la predestinazione, la grazia e la morte. Per formare un eletto, prima di tutto ci deve essere la
scelta divina che, da tutta l’eternità, lo separi dalla massa impura dei
reprobi; poi ci deve essere la grazia che lo santifica nel tempo, e infine una
morte pia che coroni la grazia e metta il sigillo alla predestinazione. Ora,
Maria ha un ruolo importante in queste tre fasi della salvezza: Ella è il
modello della nostra predestinazione, è il canale della grazia, è la patrona
della buona morte. Sapremo quindi abbastanza sul ruolo di Maria nel Rosario e
sul suo ruolo nell’opera di salvezza, dopo aver sviluppato questi tre pensieri:
Maria, modello di predestinazione; Maria, canale di grazia; Maria, patrona
della buona morte. La predestinazione
è l’eterna preparazione alla salvezza; è l’atto misericordioso con cui, da tutta
l’eternità, Dio ci ha amato gratuitamente, ci ha scelto liberamente, ci ha
indirizzato in modo sicuro e infallibile verso la gloria benedetta. La
predestinazione ci ha resi scelti, degli eletti e prediletti. Una persona
predestinata è quindi una persona amata. Ma nello scegliere il suo amato, Dio
aveva un modello, guardava ad un ideale, cioè al suo Prediletto per eccellenza,
Cristo-Gesù. Per questo Cristo è chiamato lo stampo di tutti i predestinati.
San Tommaso ci insegna una bella e profonda dottrina su questo tema. (III P., q. III, art. VIII). Quando un
capolavoro è stato danneggiato, l’artista, per ripararlo, lo riporta all’ideale
primitivo, e lo rimette nello stampo da cui proveniva; in questo modo lo stesso
stampo viene utilizzato per riformare l’opera e per ripararla. L’uomo, capolavoro
divino, era stato deformato dal diavolo; Dio, per ripararlo, lo ha rimesso nel
suo stampo. Questo esemplare, questo eterno ideale degli esseri, è il Verbo
divino; esso è servito a formarci, e servirà pure a ripararci. Dio ha voluto
restaurarci con il Verbo suo, ecco perché il Verbo si è fatto carne. Quindi la
salvezza può esserci solo in Cristo; per entrare in cielo dobbiamo somigliare
al nostro ideale eterno, e la predestinazione consiste nel renderci conformi all’immagine
del Figlio di Dio. « Prædestinavit conformes fieri imaginis Filii
sui » (Rom. VIII, 29). Ogni eletto porta i lineamenti, la figura del
Cristo; Gesù è lo stampo del predestinato. Ora non possiamo non trasalire nel
ricordare le parole di sant’Agostino: « … Lo stampo di Cristo è Maria. » C’è,
infatti, una somiglianza ineffabile tra il corpo di Gesù e il corpo di Maria,
tra l’anima di Gesù e l’anima di Maria, tra la predestinazione di Gesù e la
predestinazione di Maria. Lo stesso atto divino che decretò l’Incarnazione,
decretò l’esistenza della Beata Vergine; Dio contemplò originariamente nello
stesso dipinto, la figura del suo Cristo e la figura di Maria, ed è vero il
dire che Maria è fatta a somiglianza di Gesù, e che Gesù a sua volta è fatto a
somiglianza di Maria. Sant’Agostino l’ha detto bene: « Formam Dei »: Maria è lo
stampo di Cristo, lo stampo di Dio. Poiché il Padre Eterno ha voluto formare il
suo primo Eletto, il Capo di tutti i suoi predestinati, solo attraverso la
Vergine Santissima, anche tutti gli altri Santi devono essere gettati in questo
stampo verginale, e quando ne fuoriescono sono Cristiani, prediletti, eletti.
Così come Dio ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine di suo Figlio,
così ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine di Maria. « Prædestinavit
conformi fieri ». Che pensiero dolce! Noi dunque siamo fatti a
somiglianza di Maria! Dio, nel crearci, ha preso Maria come modello! C’è in noi
qualcosa dei lineamenti di Maria, della sua figura, della sua bellezza! In
qualsiasi grado Dio ci abbia posto, o nel mondo, o nella regalità del
sacerdozio, o sulle altezze sublimi della vita religiosa, tutti noi siamo stati
formati sul modello della Madre nostra. Predestinando i coniugi cristiani, le
madri cristiane, Dio guardava a Maria; predestinando le vergini, le suore, Dio
guardava a Maria; predestinando i sacerdoti, Dio guardava a Maria. E prima di
tutto, quando Dio ha formato i cuori degli sposi cristiani, ha preso Maria a
modello; ha voluto mettere negli affetti della famiglia un po’ dell’amore casto
con cui Maria amava San Giuseppe. Allo stesso modo, il cuore di Maria è
l’ideale secondo il quale Dio ha concepito questo capolavoro che è il cuore
materno. Sì, madri cristiane, quando Dio vi ha predestinate, ha preso Maria
come modello. Se l’amore di tutte le madri fosse raccolto, sarebbe un tesoro di
eroismo, ma non ancora il Cuore di Maria: tutti questi amori, tutte queste
gesta eroiche raccolte, sarebbero solo una debole immagine dell’amore e
dell’eroismo della Madre di Dio. Ah! Lasciate che le madri si sforzino sempre
più di essere sublimi: più sono eroiche, più si avvicineranno al loro ideale
celeste, perché sono predestinate a diventare conformi all’immagine di Maria!
Quando Dio predestinava le vergini, guardava a Maria. La prima delle vergini è
l’adorabile Trinità; per predestinare la Vergine Maria, quindi, la Trinità
guardava a se stessa; ma per predestinare le altre vergini, prende il suo
modello da Maria. La Chiesa tratta le sue vergini, le sue monache, con il
massimo rispetto: come se non bastasse la sola virtù per consacrare una
vergine, la Chiesa prescrive una cerimonia solenne per benedire la sposa di
Cristo; ha, per lo stato della vergine, quei riguardi che osserva per il calice
dell’altare; ha consacrato la suora come ha consacrato il calice. Ma Dio tratta
le vergini con ancora più rispetto: le consacra, mettendo in loro qualcosa di
radioso e di angelico, la cui vista eleva i loro cuori al cielo; in una parola,
vuole che siano quaggiù l’immagine di Maria, la rappresentazione di Maria.
Queste vergini andranno dunque in tutto il mondo con a guardia la loro purezza,
e i popoli si leveranno davanti a loro come prima di una dolce apparizione di
Maria. Questa casta e immacolata generazione è ancora numerosa; ha mani per
guarire tutte le ferite, per guarire tutte le miserie, un linguaggio per
istruire ogni ignoranza e per ammorbidire l’amarezza di ogni falsa speranza. O
vergini, siate fiere della vostra sorte: voi siete state formate sul modello di
Maria, siete predestinate a riflettere la sua immagine nel tempo e
nell’eternità! Infine, quando Dio ha predestinato i Sacerdoti, ha guardato a Maria.
Ci sono analogie sorprendenti tra Maria e il Sacerdote. Entrambi sono posti tra
Dio e gli uomini, entrambi sono mediatori: Maria è corredentrice, il Sacerdote
è corredentore; in virtù del suo sacro Ministero redime le anime, risuscita i
morti donando la grazia attraverso i Sacramenti. Maria e il Sacerdote sono
vergini, ed entrambi possono dire a Gesù, anche se in modo molto diverso, le
stesse parole: « Filius meus es tu, ego hodie genui te ». Tu sei mio Figlio,
oggi ti ho generato. Il sacerdote dà a Gesù, attraverso la Consacrazione, una
vera nascita, cioè quell’esistenza sacramentale e misteriosa che Cristo ha sui
nostri altari. O gioia divina, o inesprimibile dolcezza! Maria e il Sacerdote
si incontrano nella stessa felicità, nella stessa parola: Filius meus es tu: O
Gesù, tu sei il mio Dio e mio Figlio! Maria e il Sacerdote generano anche Gesù
nelle anime: Maria usa il Sacerdote per dare vita al peccatore, e il Sacerdote
ha bisogno di Maria per agire efficacemente. La nostra vocazione è quindi
simile a quella di Maria. Grazie, o Dio, per averci formato sul modello di tua
Madre, e per averci predestinato a diventare come Lei! Prædestinavit conformes fieri.
Questo è il ruolo della Beata Vergine nella predestinazione: mariti, vergini,
Sacerdoti, tutti sono gettati in questo stampo immacolato. Ma la
predestinazione eterna si realizza nel tempo con la libera collaborazione
dell’uomo; l’ideale divino deve realizzarsi in noi con i nostri sforzi; la
nostra anima è il quadro in cui dobbiamo dipingere in noi stessi, con l’aiuto
di Dio, le fattezze di Maria, Ora, per riprodurre fedelmente un modello,
dobbiamo averlo costantemente sotto i nostri occhi. Ebbene, nel Rosario Maria
si pone, per così dire, davanti a noi: ognuno dei suoi tratti ci viene rivelato
da ciascuno dei Misteri. Sarebbe facile applicare qui ciò che abbiamo detto sul
Cuore e l’Anima di Gesù; sì, il Cuore e l’Anima di Maria si manifestano nella
sua interezza nei Misteri con tutti i loro tesori e la inesprimibile bellezza.
In questo modo è facile per noi realizzare l’ideale della nostra
predestinazione: praticando la virtù del Mistero lavoriamo sul quadro divino,
ripercorrendo in noi stessi una delle caratteristiche del nostro modello.
Sarebbe una buona idea dedicare ogni settimana a dipingere nella nostra anima
ciascuna delle virtù ricordate nel Rosario: una settimana per riprodurre in noi
l’umiltà di Maria, un’altra settimana, la sua carità e così via. Se una
settimana non bastasse, usiamo mesi e anni, ma
sia la nostra preoccupazione quella di trasfigurare noi stessi nel
nostro modello. E una volta che uno dei tratti di Maria sia stato inciso, non
lasciamo che venga cancellato dalla nostra negligenza; lasciamo che rimanga
incessantemente nella nostra anima e che sia sempre in grado di contemplare
dentro di noi la figura amata della Madre nostra.
CAPITOLO
SECONDO
IL ROSARIO E LA VERGINE SANTISSIMA: MARIA MADRE DELLA GRAZIA
Abbiamo visto come il Rosario ci renda
conformi al bellissimo ideale della nostra predestinazione: l’Immacolata Madre
di Gesù. La predestinazione si realizza nella nostra anima attraverso l’opera della grazia, per cui dobbiamo
ora esaminare quale sia il ruolo della Beata Vergine in relazione alla grazia.
Poiché la grazia è una partecipazione della natura divina, un flusso della sua
vita feconda, solo Dio può produrla, perché solo Lui può comunicarci la sua
natura e la sua vita. Gesù Cristo, come Dio, è l’Autore della grazia allo
stesso modo di suo Padre; come Dio e come l’uomo, è la causa meritoria e
principale di tutti i beni spirituali. Inoltre, la sua adorabile Umanità ha
ancora tutti i giorni un’efficacia intima e misteriosa, essa è lo strumento che
Dio usa per la produzione quotidiana della grazia. Il Vangelo ci dice che da
Nostro Signore è uscita una virtù per guarire i corpi; dalla Sua Umanità esce
anche una potente virtù per guarire le anime, per riversare in esse il dono che
santifica. L’Umanità del Verbo è l’atmosfera balsamica dove si formano le gocce
della rugiada divina. Se Gesù Cristo è l’unico serbatoio delle acque fertili
della salvezza, Maria ne è il canale che le fa arrivare a noi; non è Ella la
sorgente, perché Ella stessa ha ricevuto tutto da suo Figlio, ma noi dobbiamo
passare attraverso di Lei per arrivare alla sorgente; Ella stessa non produce
la grazia, perché la grazia è una partecipazione di Dio, ma è la distributrice
delle grazie; le onde divine del vasto Oceano che è Cristo, seguono per
giungere fino a noi, il fiume verginale che è Maria. Da qui le famose parole di
San Bernardo: « Nulla gratia venit de cœlo ad terram nisi transeat per manus Mariæ
». Nessuna grazia viene dal cielo sulla terra senza essere passata per le mani
di Maria (Serm. De acqueducto). Padri e Dottori non hanno abbastanza
espressioni per inculcare questa verità. Essi chiamano Maria il serbatoio di
tutti i beni, promptuarium omnium honorum, il tesoriere di tutte le grazie,
il tesoriere di Gesù Cristo. E prima di loro l’Arcangelo Gabriele aveva detto
tutto in una sola parola: « Gratia plena » piena di grazia. È
piena di grazia per se stessa, è piena di grazia per noi. Plena sibi, superplena nobis.
San Tommaso (Commentario sull’Ave Maria e Commentario su S.
Giovanni, cap. I, lect. X) distingue in questo senso una triplice
pienezza di grazia. In primo luogo, plenitudo sufficientiæ, la pienezza
della sufficienza, comune a tutti i Santi; cioè tutti gli eletti hanno
un’abbondanza di grazia sufficiente a far loro osservare la legge divina ed a
condurli inesorabilmente alla beatitudine eterna. – In secondo luogo, plenitudo
excellentiæ, la pienezza dell’eccellenza. Questa appartiene solo a Gesù
Cristo: è la pienezza della sorgente, la pienezza dell’abisso senza limiti; è
da essa che tutti ci siamo arricchiti. Da plenitudine ejus nos omnes accepimus
(Giov. I, 16). – Al terzo posto, plenitudo redundantiæ, la pienezza
della sovrabbondanza. Questa appartiene solo alla Santa Vergine: la sua grazia
è così grande che trabocca come un serbatoio stracolmo e si riversa su tutta
l’umanità. Maria è piena di grazia per se stessa, sovrabbonda di grazia per
noi. Plena
sibi, superplena nobis. Possiamo dire di Lei come di suo Figlio, anche
se in senso diverso: « De plenitudine ejus nos omnes accepimus.
» Siamo stati tutti arricchiti dalla sua pienezza. – C’è un triplice valore nelle grazie della
Beata Vergine: valore meritorio, valore soddisfattorio, valore impetratorio. I
suoi meriti, secondo molti santi Dottori, superano quelli di tutti gli Angeli e
gli uomini insieme; la soddisfazione e l’impetrazione vanno di pari passo con
il merito. Possiamo vedere da questo che i tesori spirituali della nostra
augusta Madre raggiungono in ampiezza e profondità proporzioni che la nostra
intelligenza non può misurare. C’è da meravigliarsi che trabocchino e si
riversino sulle nostre anime? Plenitudo redundantiæ. I suoi tesori
soddisfattori sono interamente per noi: essendo Ella libera da ogni minima
contaminazione, non ha mai avuto bisogno delle sue soddisfazioni; queste sono
quindi cadute nel dominio della Chiesa, che ce le distribuisce attraverso le
indulgenze. I suoi meriti non sono applicati direttamente a noi, perché sono di
sua inalienabile proprietà. Tuttavia, possiamo dire che Maria è una causa di
grazia meritoria. Non ha potuto ottenere la salvezza per noi come giustizia,
come ha fatto Gesù Cristo; ma ha potuto meritare per noi questo merito di
convenienza (de congruo), questo diritto di amicizia che ha tanto potere sul
cuore di Dio. È soprattutto a titolo di impetrazione che Maria è la
distributrice delle grazie; tutti i beni celesti passano attraverso le sue
mani, cioè vengono a noi per mezzo della sua intercessione. Così intese, le
parole di San Bernardo non sono una pia esagerazione, ma esprimono una bella
verità che è dolce approfondire. – È necessario qui ricordare quella sublime
dottrina che San Paolo ha così magnificamente esposto (Ephes. IV, 16). « La
Chiesa è un Corpo mistico di cui Gesù Cristo è il Capo; come nel corpo umano,
anche nella Chiesa ci sono nervi potenti che tengono insieme le membra, ed è
l’Autorità spirituale; ci sono poi vasi che alimentano la vita, cioè i
Sacramenti; infine, c’è la vita stessa, c’è il sangue che ne sostiene la
giovinezza e la bellezza. Questa vita, questo sangue della Chiesa, è la grazia.
Tutto questo movimento, tutte queste energie scendono dalla testa agli arti.
Nel corpo umano c’è una parte che unisce il capo al resto del corpo; nella
Chiesa, Cristo è il capo, Maria è l’intermediaria che unisce il capo alle
membra: Maria, collum Ecclesiæ. Maria è il collo mistico del Corpo
divino che è la Chiesa. Come i movimenti e le energie del capo raggiungono il
resto del corpo solo dopo essere passati attraverso “questa colonna
mobile” che li collega tra loro, così la vita di Cristo raggiunge i fedeli
solo attraverso Maria, l’organo soprannaturale che collega il Capo mistico alle
membra del suo Corpo. Da Cristo la grazia scende nella Beata Vergine, da Maria
scende nella nostra anima, e da lì risale nell’eternità da dove è venuta. La
grazia, così come l’acqua e il sangue, vuole elevarsi all’altezza della sua
fonte: la fonte della grazia è l’eternità, la grazia fa parte della vita
eterna, deve quindi rimandare nell’eternità i suoi misteriosi riflessi, secondo
le parole di Nostro Signore: « Fiet in eo fons aquæ satientis in vitam
æternam » (Giov. IV, 14). Essa risale nell’eternità così come ne è
discesa: dall’anima fedele risale attraverso Maria, da Maria passa in Cristo,
attraverso Cristo raggiunge di nuovo l’eternità. Attraverso Maria c’è nella
Chiesa una corrente soprannaturale che scende e sale a sua volta; c’è tra cielo
e terra come un flusso e riflusso perpetuo: è il flusso che rinvia il flusso,
l’amore che restituisce l’amore. I meriti e i tesori di Gesù ci vengono
trasmessi attraverso il Cuore di Maria; i nostri meriti e il nostro amore
raggiungono Gesù attraverso il Cuore di sua Madre. Il tuo Cuore Immacolato, o
Vergine Benedetta, è il dolce incontro tra Dio e l’uomo, il fiume misterioso
che unisce le rive del tempo a quelle dell’eternità. – Le onde di questa grazia hanno alzato la
loro voce, una voce sublime, una voce più ammirevole di quella delle grandi
acque, più ammirevole di quella dell’Oceano, e questa voce sembra gridare ad
eco eterni: Maria, Mater gratiæ, Maria, Madre della Grazia! Possiamo noi
unire l’armonia del nostro cuore a questa armonia per lodare Dio! Questa,
quindi, è la parte di Maria nell’economia della salvezza. E il Rosario è un
ottimo modo per attingere a questo canale di grazia. Come i tesori di Gesù
Cristo ci sono applicati attraverso i Sacramenti, così, mantenendo le
proporzioni e accantonando ogni esagerazione, i tesori di Maria ci vengono
trasmessi attraverso il Rosario. Dove sono infatti i meriti e le soddisfazioni
della Beata Vergine? Il Rosario non è forse la storia della sua vita? È nei
Misteri che ha moltiplicato le sue soddisfazioni e i suoi meriti quasi
all’infinito. Lo stesso vale per il suo potere di impetrazione: quando
intercede per noi, quando comanda a suo Figlio di ascoltarci, ci fa capire il
ruolo che ha dovuto svolgere nella triplice serie dei Misteri. Così la
meditazione della nostra bella preghiera ci mette in contatto con la fonte da
cui Maria ha attinto le sue ricchezze spirituali; come abbiamo detto, parlando
dell’anima di Gesù, il Rosario ci fa toccare l’anima e la grazia della Beata
Vergine; lampi di luce, colpi di fuoco scaturiscono da quell’anima sulla
nostra. Quando recitiamo l’Ave quando diciamo alla nostra Madre: gratia
plena, non solo le rinnoviamo il profumo delle sue prime gioie, ma
soprattutto le ricordiamo il ruolo che ha nell’affare della salvezza,
nell’economia della grazia, e i titoli che può far valere davanti a Dio in
nostro favore. Meditare sui Misteri significa tenere la nostra anima unita alla
sua, il nostro cuore in uno col suo Cuore; significa dissetarci alla stessa
fonte alla quale Ella si è dissetata; significa unire la nostra voce alla voce
del tempo e dell’eternità per dirle: Maria, Mater gratiæ! O Maria! O
Madre della Grazia, ricordati dei tuoi figli! Maria risponde riversando su di noi
nuovi favori e rivolgendoci questa parola: Chi mi trova ha trovato la vita, e
attingerà la salvezza dalle fonti del Signore! (Prov. VIII, 35).
TERZO
CAPITOLO
IL ROSARIO E LA
VERGINE SANTISSIMA: MARIA PATRONA DELLA BUONA MORTE
Ci sono, nel destino del Cristiano, tre
giorni grandiosi che hanno la loro solenne risonanza nell’eternità: quello del
Battesimo, quello della prima Comunione e quello della morte. Il giorno del
Battesimo è il primo dei nostri giorni belli, quando Dio si impadronisce di
noi, quando ci segna con il suo dito ed il suo sigillo, e ci incorona re per
l’eternità. La Prima Comunione è una festa per il cielo e per la terra. È
indubbiamente un momento bellissimo in cui il bambino può baciare il padre e la
madre da lungo tempo assenti, ma è incomparabilmente più dolce l’ora in cui il
bambino abbraccia il suo Dio per la prima volta. Ora, è attraverso la prima
Comunione che diamo a Gesù il nostro primo bacio nell’Eucaristia. Ma il giorno
della morte è il più solenne dei tre: è il trionfo o la più terribile
disperazione; è il giorno che ci trasfigura per sempre, che suggella la nostra
beata predestinazione, o che consuma il più terribile dei disastri. Questi tre
giorni sono posti sotto la benedizione di Maria; Ella ci ha sorriso nella
nostra culla, ci ha praticamente tenuto in braccio al momento del Battesimo: ci
ha benedetto nella Prima Comunione, ci ha condotto Ella stessa al banchetto di
suo Figlio; ma soprattutto ci ha benedetto e ci ha sorriso nel giorno della
morte. Poiché questo è il più terribile dei tre, se l’è riservato per Lei in
modo speciale. La Sacra Scrittura chiama la morte “Il giorno del Signore”, dies
Domini; possiamo chiamarlo allo stesso modo: il giorno di Maria. È
necessario che sia così. Il peccatore morente è posto tra tre cupe visioni: la
cupe visione del passato sono i peccati che ha commesso; la cupe visione del
futuro sono le fiamme vendicative che lo attendono; la cupa visione del
presente è la Giustizia divina, dalla quale non può sfuggire. Il giudizio
inizia sul letto dell’agonia, ed è opinione dei teologi che il luogo della
morte sia il luogo stesso del Giudizio. Ah! se il giorno della morte fosse solo
il giorno della Giustizia, troppo spesso sarebbe un giorno di terrore. Ma è
anche il giorno di Maria, e proprio per questo è il giorno della misericordia e
della gioia. Di fronte alle tre cupe visioni, Maria pone tre visioni
consolanti, tre visioni ineffabilmente dolci: la dolce visione del passato è la
benedizione di Maria dal Battesimo all’ultimo momento della vita; la dolce
visione del futuro è il regno eterno dove Maria trionfa con il suo amato; la
dolce visione del presente è la misericordia divina, la protezione, spesso
anche l’apparizione, il sorriso di Maria. Ovunque si rivolga il moribondo, se è
un servo di Maria, è consolato. Se si volge verso il passato, trova la bontà di
Maria; se verso il futuro, il regno di Maria; se verso il presente, la
benedizione, il sorriso di Maria. O pii figli della Regina del Cielo, non
dobbiamo temere la morte, perché è il giorno di Maria! La nostra augusta Madre
è per molti versi protettrice della morte, ma soprattutto in due modi: in primo
luogo perché ci prepara contro le sorprese della morte, e in secondo luogo
perché ci assiste in modo speciale nel nostro doloroso passaggio. Ci prepara
contro le sorprese: Unire la morte allo stato di grazia è un grande favore che
non possiamo meritare. Solo può unire la morte allo stato di grazia, Colui che
è il padrone assoluto della grazia e della morte, cioè Dio stesso. La morte del
giusto è quindi un favore del cielo, è l’effetto di una predestinazione
speciale: l’amore di Dio ci ha dato la nascita, l’amore di Dio ci fa morire. Lo
stesso atto che ci ha chiamati alla gloria ci chiama a morire in questo o in
quell’istante. Ecco un bambino che è appena stato battezzato; per un incidente
imprevisto cade dalle mani che lo portavano e muore nella caduta. Questo caso
ci sembra fortuito, eppure è nell’intenzione di Dio una grazia di scelta:
richiedeva una speciale provvidenza, in una parola, una predestinazione. Per
ottenere ai suoi figli questo dono della perseveranza, Maria ha infinite
delicatezze che ci sfuggono: morire un anno prima, un mese prima, una settimana
prima, un giorno prima, un istante prima, è a volte un favore inestimabile che
ci procura a nostra insaputa. Sceglie cioè Ella il momento in cui siamo in uno
stato di grazia. Dio colpisce, per così dire a caso, i reprobi, che sono il
legno morto destinato alle fiamme eterne; ma per i servi di Maria, che sono il
legno profumato del giardino delle delizie, Egli osserva le stagioni, secondo
l’espressione di un autore pio. La morte può essere improvvisa, ma non li
sorprende; un presagio segreto, una specie di voce interiore li aveva
avvertiti. Anche quando la morte sembra imprevista, ci si rende conto che,
negli ultimi tempi, queste anime erano più ferventi, più raccolte, più unite a
Nostro Signore. – In secondo luogo, Maria aiuta i suoi servi in modo speciale
al momento del terribile passaggio. Assistendo sul Calvario alla morte del Capo
dei Predestinati, acquisì il privilegio, secondo Sant’Alfonso, di assistere
tutti gli altri predestinati all’ora della morte. Come Dio ha voluto che il suo
Cristo fosse formato da Maria e che morisse sotto gli occhi di Maria, così Dio
desidera che tutti gli altri suoi “Cristi” siano formati da Maria e che Maria
riceva il loro ultimo respiro. È un momento solenne l’ultimo momento di un
predestinato: una sorta di stupore coglie i presenti, si sente che Dio e la
morte sono lì, si ammira e si tace. Ma ahimè, c’è più di Dio e della morte, c’è
anche il diavolo e i suoi satelliti. satana fa sforzi disperati, sa che gli
resta poco tempo, si precipita come un gigante sull’uomo morente, vorrebbe
afferrarlo in una stretta potente. Silenzio! … Maria è là! Con uno sguardo Ella
ha fulminato il gigante infernale, è più terribile di un esercito schierato in
battaglia; « se Ella è per noi, chi sarà contro di noi? » dice sant’Antonino. Si
Maria pro nobis, quis contra nos? I santi – ci assicura Sant’Alfonso –
hanno visto Maria venire a sedersi accanto al letto funebre dei suoi servi,
asciugando il sudore dell’agonia con le sue mani divine, o rinfrescandoli
contro l’ardore della febbre. Ella è lì per far loro assaporare la morte. Sì,
grazie alla Beata Vergine, la morte diventa una bevanda da assaporare con
piacere. Gustare mortem. Gustare la morte. A volte sentiamo persino le
anime gridare, come il pio Suarez o come una santa suora domenicana: « Oh, non
sapevo ancora che fosse così dolce morire… » Maria mette i suoi figli a
dormire dolcemente, come una tenera madre, e i suoi cari muoiono nel bacio del
Signore, assaporando sia l’ebbrezza di quel bacio che l’ebbrezza della morte. Gustare
mortem! Quando Santa Chiara era nei suoi ultimi istanti, Maria si
avvicinò a lei con una truppa di vergini; baciò con dolcezza la serafica
morente, le diede il bacio della pace e, nel frattempo, le altre vergini che
accompagnavano la Regina del Cielo si disposero intorno a quel letto trionfale
e lo coprirono con un lenzuolo dorato. Nell’Ordine di San Domenico, la Salve
Regina viene cantata vicino al letto del moribondo, e più di una volta, durante
il canto di questa bella antifona, abbiamo visto i religiosi sorridere
improvvisamente e poi addormentarsi dolcemente nel Signore, come cullati dalla
mano di Maria. Non sappiamo che tipo di morte il Signore abbia in serbo per
noi, ma se rimarremo servi di Maria fino alla fine, siamo certi che la nostra
ora suprema sarà consolante; qualunque sia l’amarezza della morte, Maria saprà
farcela assaporare. Sì, gusteremo la morte come una deliziosa bevanda preparata
dalla mano della Madre nostra, e il nostro ultimo giorno sarà un bel giorno,
perché sarà il giorno di Maria. – Queste considerazioni non ci hanno
allontanato dal Rosario, perché è nei Misteri che Maria ha iniziato il suo
ufficio di patrona della morte, ed è attraverso il Rosario che lo continua ogni
giorno. Dapprima Ella ha consolato gli ultimi momenti del suo glorioso sposo,
San Giuseppe; poi, nel decimo Mistero, la vediamo assistere il Re dei
Prescelti. Il Maestro della vita, certo, non aveva bisogno di aiuto per morire;
tuttavia, voleva che la presenza della sua tenera Madre addolcisse per Lui
l’amarezza del suo crudele sacrificio. Il Rosario ci ricorda la più ineffabile
delle morti: la morte di Giuseppe, la morte di Gesù, la morte di Maria. Il
Mistero dell’Agonia ci dà la forza divina per trionfare nella lotta suprema;
nella Crocifissione, nell’Assunzione, il Re e la Regina degli Eletti
santificano la nostra morte con la loro stessa morte; uniamo le nostre
disposizioni a quelle di questi divini morenti, attingiamo, dal loro passaggio,
le grazie per addolcire le nostre. È in una scuola di questo tipo che si impara
a morire. Inoltre, quando arriva la morte, il cavaliere del Rosario la guarda
in faccia, come un operaio che ben conosce il suo mestiere. Sì, chi ha meditato
bene la Crocifissione e l’Assunzione conosce il mestiere aspro e soave della
morte. Non dimentichiamoci in questi due Misteri di chiedere il dono della
perseveranza, orientiamo la nostra intenzione verso questo grande fine. La
Crocifissione e l’Assunzione sono per eccellenza i misteri della buona morte.
Possiamo anche affermare che c’è in ogni Mistero e anche in ogni Ave
Maria una grazia di pia e santa morte. Dicendo a Maria: Pregate
per noi ora e nell’ora della nostra morte, le chiediamo un appuntamento
pubblico e solenne per l’ultimo istante. Oh! Maria sarà fedele a questo
appuntamento con l’agonia, verrà a consolare gli associati della sua Guardia
d’Onore, e se necessario, a portare loro la grazia del perdono. Si conosce
questo tratto della vita di San Domenico, attestata da diversi autori degni di
fede: una giovane, su indicazione del Santo, era entrata nella Confraternita
del Rosario. Poco dopo muore di morte violenta e il suo corpo viene gettato in
un pozzo. Avendo conosciuto questa tragica notizia, Domenico corse al pozzo e
chiamò ad alta voce la sfortunata donna: ella ne uscì viva, si confessò in
lacrime e visse per altri due giorni. Il Santo le chiese cosa le fosse successo
dopo la morte. – « Sarei stato infallibilmente dannata, ma i meriti del Rosario
mi hanno ottenuto la grazia della perfetta contrizione ». Questo episodio,
anche se messo in dubbio, benché possa essere solo una parabola, ci aiuta a
capire come Maria, attraverso il Rosario, eserciti il suo ufficio di patrona
della buona morte. Così le glorie di Maria e le glorie del Rosario sembrano
inseparabili. – Tre parole, abbiamo detto, riassumono tutta la salvezza:
predestinazione, grazia, morte; tre parole riassumono il ruolo della Beata
Vergine: Modello di predestinazione, Causa di grazia, Patrona della buona
morte; tre parole riassumono il ruolo del Rosario: esso ci fa realizzare il
modello della nostra predestinazione, ci comunica le grazie della Beata Vergine,
ci ottiene la perseveranza ed un felice trapasso. È vero, quindi, che il Rosario ci fa dare a
Maria il suo vero posto nel disegno di Dio, e quindi è una devozione
fondamentale nel Cristianesimo e un mezzo di santità, qualunque cosa abbiano
potuto dire i novatori del XVI secolo e i razionalisti degli ultimi tempi.
QUARTO
CAPITOLO
IL ROSARIO E SAN GIUSEPPE
Lo Spirito Santo ha voluto che tre nomi fossero scritti insieme sulla prima pagina del Vangelo, e su quella pagina la Chiesa spesso fa cantare i suoi ministri all’altare: Cum esset desponsata mater Jesu, Maria, Joseph. C’è qui una vera delicatezza divina: finché esisterà il Vangelo, questi tre nomi saranno inseparabili; fino alla fine dei tempi la Chiesa avrà la dolce parola ripetuta sull’altare: Mater Jesu, Maria, Joseph – Giuseppe, Gesù, Maria! Dio ha scritto questi tre nomi nel suo libro della vita per significare che dobbiamo iscriverli tutti e tre nel nostro cuore e unirli nel nostro affetto. Né li separeremo nella meditazione del Rosario: il ricordo di Giuseppe è indissolubilmente unito nei Misteri a quello di Gesù e di Maria. Il Rosario, che ci hanno rivelato Maria e suo Figlio, ci rivelerà anche lo sposo di Maria. Possiamo anche dire che il Rosario è la vera storia di San Giuseppe, perché ci fa conoscere: 1° il ruolo del glorioso Patriarca in relazione all’Incarnazione e alla Redenzione; 2° il suo ruolo in relazione alla Chiesa. È su questo doppio punto di vista che mediteremo piamente. Una Trinità vergine aveva creato il mondo, una Trinità vergine aveva la missione di salvarlo. È dolce per noi invocare la Trinità vergine che ci ha creato all’inizio delle nostre azioni: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo: la Trinità vergine alla quale è stata affidata la missione redentrice, abbiamo imparato ad amarla fin dalla culla; pronunciare il suo nome è una gioia: Gesù, Maria, Giuseppe. Gesù fa parte di questa Trinità della salvezza, perché è il Redentore, Maria ne fa parte perché è la Madre del Redentore, Giuseppe ne fa parte perché ha un rapporto ineffabile con Gesù e con Maria. Tutti e tre sono vergini, tutti e tre sono associati in una vita comune di sofferenze comuni, e si può applicare ad esse, anche se in un altro senso, ciò che si dice della Trinità del cielo: et hi tres unum sunt, questi tre sono una sola. Giuseppe appartiene a Gesù e Maria per sacri legami, ha un vero e proprio diritto su di loro; Gesù e Maria sono in qualche modo di sua proprietà. La sposa appartiene allo sposo: c’è una donazione totale tra l’uno e l’altro, e più l’unione è spirituale, più è forte e più perfetta è la donazione. L’unione di Maria con Giuseppe è tutta spirituale: è una verginità che sposa un’altra verginità. L’unione è quindi perfetta; la donazione è totale: Maria appartiene completamente a Giuseppe. E proprio per questo Gesù diventa proprietà dello sposo di Maria. È facile dimostrarlo con un ingegnoso confronto preso in prestito da San Francesco di Sales. Se una colomba dovesse far cadere un frutto in un giardino, l’albero che nascerà da questo frutto apparterrà senza dubbio al padrone del giardino. Ora Maria è il giardino di San Giuseppe, un giardino sigillato e balsamico per i fiori di verginità. Lo Spirito Santo vi fa cadere dentro un frutto divino; questo frutto diventa il grande albero che ha guarito e ha protetto tutta l’umanità. Poiché il giardino appartiene a Giuseppe, l’albero nato da questo giardino, cioè il Bambino Gesù, appartiene anche a lui. Come sei ricco, o benedetto Patriarca! I più bei capolavori della creazione, le due meraviglie della grazia vi appartengono. – Per produrre Maria e Gesù, Dio doveva scuotere il cielo e la terra, secondo la parola del profeta: Commovebo cœlum et terram (Agg. II, 7). L’eternità è stata in qualche modo commossa per realizzare questa meraviglia che si chiama negotium sæculorum, il grande affare dei secoli. E dopo che Dio ha così scosso l’universo, dopo aver dato alla luce questi due capolavori, non ha voluto tenerli per sé, li ha affidati a Giuseppe. La cosa più bella che il Signore ha fatto è sua. Quando guarda Gesù e Maria, può dire loro la stessa cosa: “Voi siete miei, mi appartenete”: ed entrambi gli rispondono: “Sì, sono tua proprietà, tuus sum ego“. Per essere degno di possedere i due tesori più preziosi del Signore, Giuseppe doveva ricevere una grazia supereminente che lo portasse fino alle estreme sommità dell’eroica santità. San Giovanni Crisostomo, riecheggiando la Tradizione, ci assicura che Giuseppe è stato purificato prima della sua nascita dalla contaminazione originaria. Più tardi, il contatto quotidiano con il Verbo Incarnato ha portato nella sua anima insondabili tesori di grazia. – Ricordiamo qui un principio di San Tommaso che abbiamo invocato più volte. Più siamo vicini ad una sorgente, più partecipiamo all’abbondanza delle sue acque. Ma dopo Maria, chi era più vicino all’umanità del Verbo, di Giuseppe? Quando teneva Gesù tra le braccia, quando gli dava un bacio ineffabile, non beveva dalla fonte della santità? L’Umanità di Cristo, oceano di grazia, ha versato le sue onde nell’anima di Giuseppe, l’ha riempita, l’ha fatta traboccare. Ci sono tre abissi nell’Incarnazione: la grazia di Gesù, la grazia di Maria, la grazia di Giuseppe. Tutti e tre sono insondabili, tutti e tre li conosceremo bene solo nell’estasi dell’eternità. Inoltre, la presenza di Maria sarebbe stata sufficiente a santificare suo marito. Prendiamo in prestito un altro paragone da San Francesco di Sales. Supponiamo che uno specchio che riceva raggi del sole direttamente, e che un altro specchio sia posto di fronte ad esso; anche se quest’ultimo riceve questi raggi solo per riverbero, li riflette perfettamente. Maria è lo specchio che riceve direttamente i raggi del sole della giustizia. Giuseppe è lo specchio che riceve i raggi di Maria. Così, lo splendore di Cristo e lo splendore della Beata Vergine si rifletteranno sulla sua anima per rendere tutto luminoso. Tale è l’incomparabile santità di San Giuseppe. È così che egli appartiene al Redentore e alla Madre del Redentore, come è associato a loro nell’opera di salvezza, come è parte della vergine e redentrice Trinità di Nazareth. Ma questo ruolo di Giuseppe nell’Incarnazione, sposo di Maria, padre di Gesù, ci viene mirabilmente rivelato nei Misteri Gioiosi: l’Annunciazione e la Visitazione ci fanno conoscere soprattutto lo sposo di Maria; la Natività, la Purificazione, il Ritrovamento nel Tempio, ci mostrano soprattutto il padre adottivo di Gesù. Le grazie e i sentimenti interiori della sua anima si irradiano attraverso questi Misteri, e questa pia meditazione ci introduce alla storia intima del Beato Patriarca. Infatti, tutta la storia della sua anima è riassunta in sette dolori e sette gioie, e la prima parte del Rosario è il resoconto vivente di questo dramma interiore di sofferenza e di gioia. I Misteri Gioiosi sono come la superficie limpida su cui si riflette il cielo sereno dell’anima di Giuseppe. Ma il ricordo del Santo Patriarca è forse assente dai Misteri Dolorosi? Dopo aver assistito, nella Crocifissione, alla morte del Salvatore, accompagniamo la sua anima nella discesa nel Limbo. Poi, dolce visione, scena incomparabile, l’anima di Gesù e l’anima di Giuseppe si incontrano! C’è qui un momento unico nella storia della felicità. San Tommaso insegna che Nostro Signore, scendendo nel Limbo, ha concesso alle anime sante la visione beatifica. Noi possiamo immaginare quel momento ineffabile in cui, per la prima volta, le anime hanno visto Dio faccia a faccia! Siamo testimoni di queste prime ebbrezze di San Giuseppe, ci congratuliamo con lui, gli diciamo con tenerezza: « Godete! Godete! Ubriacatevi al torrente della voluttà del Signore, e ottenete per noi con le vostre preghiere di bere un giorno dalla vostra stessa sorgente ». – Ci stiamo avvicinando ai Misteri gloriosi, qui ritroveremo nuovamente il nostro amato protettore. Egli fu, senza dubbio, uno dei privilegiati che scortarono l’anima di Cristo il mattino della Risurrezione; il trionfo di Gesù divenne così pure il trionfo di Giuseppe. Il giorno dell’Ascensione, il Padre adottivo ascende con il Figlio, e quando Nostro Signore si sedette sul suo trono eterno per esercitare alla destra dell’Onnipotente il potere del Re e l’ufficio di Giudice, fece sedere accanto a Lui Giuseppe, affidando la cura della sua Chiesa a colui che aveva protetto la sua infanzia. Nel felicitarci con il Salvatore per il trionfante ingresso nel suo regno, ci congratuliamo pure con Giuseppe per essere stato associato all’impero. Più tardi, quando celebreremo le glorie della Beata Vergine negli Ultimi Misteri, sarà dolce per noi pensare allo stesso tempo alle glorie del venerato Patriarca; Maria ci sarà grata per aver unito nella stessa meditazione i trionfi del suo sposo con i suoi stessi trionfi. Pregando la Regina della Chiesa, offriremo il nostro omaggio al patrono e protettore della Chiesa. In questo modo, i Misteri gloriosi ci riveleranno il ruolo di San Giuseppe in relazione alla Chiesa Cattolica. – La Chiesa è stata istituita per perpetuare l’Incarnazione attraverso i secoli; l’Incarnazione e la Chiesa sono il culmine della storia mondiale; la Chiesa è la necessaria estensione dell’Incarnazione; la famiglia cristiana è la continuazione della famiglia di Nazareth. Giuseppe deve quindi avere nella Chiesa un ruolo analogo a quello che gli è stato affidato nell’Incarnazione; deve continuare la missione di tutela che ha esercitato nei confronti della famiglia cristiana: guardiano e protettore della Sacra Famiglia, sarà il guardiano e il protettore del Cristianesimo. La Chiesa ha riconosciuto solennemente questo ruolo del Santo Patriarca nei suoi confronti. È giusto ricordare qui che un religioso domenicano, p. Lataste, aveva offerto la sua vita perché San Giuseppe fosse dichiarato patrono della Chiesa; il sacrificio fu accettato, il religioso morì vittima della sua generosità, ma subito dopo apparve il decreto di Pio IX che proclamava San Giuseppe patrono della Chiesa universale. Abbiamo recentemente celebrato il Giubileo d’argento di questo benedetto patrocinio, e questo giorno è stato veramente una festa del cuore per tutti i fedeli. – Il ruolo di S. Giuseppe nella Chiesa è quindi quello di esserne il Patrono universale: egli è cioè intercessoreper tutte le grazie, patrono di tutte le condizioni. Conosciamo le famose parole di santa Teresa: « L’Altissimo dà una grazia sola ad altri Santi per aiutarci in questo o in quel bisogno, ma il glorioso San Giuseppe, lo so per esperienza, estende il suo potere a tutte ». Abbiamo mostrato come tutti i beni spirituali vengano a noi attraverso Gesù e Maria: Gesù, la fonte delle grazie, Maria, il canale che ce le trasmette. Giuseppe ha un diritto di proprietà su di loro: i legami una volta formatisi sulla terra, non sono stati distrutti, ma piuttosto consacrati in cielo. In paradiso, come a Nazareth, può dire alla moglie e al figlio: « Tu mi appartieni, sei di mia proprietà », ed entrambi gli ripetono la risposta di un tempo: « Tuus sum ego ». Sì, sono tuo. Egli potrebbe quindi comandarli, ma Gesù e Maria non aspettano i suoi ordini; essi prevengono i suoi desideri, e tutti i favori che egli cerca per i suoi privilegiati gli vengono concessi. Per il potere che ha sul cuore del Re e della Regina del Cielo, Giuseppe può essere chiamato il “ministro dei tesori spirituali”, l’amministratore delle finanze divine: le grazie temporali, le grazie dell’eternità, egli ne è l’ammirabile distributore. Abbiamo bisogno di un aiuto temporale? Andiamo da Giuseppe. Una comunità di suore, in America, aveva richiesto una considerevole somma di denaro per un’istituzione a favore dei poveri; una suora aveva composto, in onore di San Giuseppe, un commovente inno che gli anziani cantavano ogni giorno dopo la preghiera serale. Prima della fine della novena, un benefattore ha inviato un’offerta generosa; i poveri hanno continuato a ripetere il loro inno di fiducia; il Santo è stato così gentile da concedere il doppio dell’importo richiesto. Vogliamo la soluzione a una questione difficile? Rivolgiamoci a colui che è il sostenitore delle cause disperate. Una famiglia cristiana fu minacciata da un processo ingiusto; mentre facevano una novena a San Giuseppe, l’avversario si offrì di fermare il processo e di pagare le spese. Ma soprattutto il nostro potente intercessore è lieto di concedere i favori spirituali, le grazie della salvezza. Quante madri cristiane sono venute davanti al suo altare per ringraziarlo della conversione di un figlio o di un marito! Tra tutti i favori, ce n’è uno che si può chiamare la grazia delle grazie; la grazia della perseveranza e della buona morte. Sarò salvato? Sarò dannato? Non c’è domanda più spaventosa di questa; la risposta è ancora più spaventosa: non lo so! Ma Giuseppe, che ha dato la sua anima tra le braccia di Gesù e di Maria, può promettere ai suoi servi una risposta di vita. È stato spesso citato che San Vincenzo Ferrier diceva: Un pio mercante invitava ogni anno tre poveri alla sua tavola in onore della famiglia di Nazareth. Nei suoi ultimi momenti. Gesù, Maria e Giuseppe sono andati da lui, sorridendo e chiamandolo: « Ci hai ricevuto ogni anno nella tua casa; oggi noi ti riceviamo nella nostra ». Se solo potessimo sentire un simile invito alla nostra agonia! Ah! ma almeno, non manchiamo di chiedere al nostro devoto protettore il dono inestimabile della perseveranza. – San Giuseppe è quindi un intercessore per tutte le grazie. È anche il patrono per tutte le condizioni. Patrono dell’infanzia, perché ha protetto il Bambino Gesù sotto il suo manto paterno; patrono delle famiglie cristiane, perché era il capo della famiglia più augusta che sia mai esistita. Egli è in modo speciale il patrono dei lavoratori. Era della stirpe reale di Davide, ma non è in questa veste che è rimasto caro alla pietà dei fedeli; porta nella storia un nome più modesto e venerato: il carpentiere di Nazareth. È il Santo patrono delle vergini: vergine lui stesso, sposo di una Madre Vergine, padre adottivo di un Dio vergine, ha certamente il diritto di essere il custode della verginità. Egli è il Santo patrono delle anime sacerdotali; sia Giuseppe che il Sacerdote hanno avuto la missione di portare Gesù agli uomini, di difenderlo dalle persecuzioni; ad entrambi è stato dato il diritto di godere dell’intimità del buon Maestro, di vivere e morire sul suo cuore. È il Santo patrono degli afflitti, di tutti coloro che piangono, di tutti coloro che soffrono: nei suoi sette dolori e nelle sue sette angosce ha assaporato l’amaro sapore del sacrificio. È il Santo patrono degli esiliati: ha imparato nelle vie dell’Egitto quanto sia duro non poter alzare lo sguardo verso il cielo della sua patria. Non c’è condizione, non c’è stato che non possa trovare in lui un modello, un protettore, un amico; è il Patrono di tutti i Cristiani, perché è il Patrono universale della Chiesa. Questo è, in un semplice e tenue profilo, il ruolo che Gesù Cristo ha affidato al suo padre putativo il giorno dell’Ascensione; ecco come la considerazione di questo mistero può diventare una vera e propria meditazione su San Giuseppe. Leone XIII ha capito bene che c’è un rapporto necessario tra il Rosario e il capo della Sacra Famiglia. Per questo decretò che in tutta la Chiesa, durante il mese del Rosario, che Giuseppe sarebbe stato invocato dopo la sua Immacolata Sposa. Non separiamo ciò che Dio ha unito: d’ora in poi nella recita delle Ave Maria associamo nella nostra meditazione e amiamo la Madre di Gesù, Maria, con Giuseppe, suo sposo: Mater Jesu Maria, Joseph.
Dio vuole che siamo santi come Lui. La nostra vocazione – dice l’Apostolo – non è l’impurità, la sozzura, ma la vita immacolata. Il Cristiano è una persona consacrata. C’è, infatti, una consacrazione universale che si estende su tutta la nostra esistenza, c’è come una rete divina che ci abbraccia tutti insieme, perché siamo preservati dal contagio del tempo e perché rimaniamo sempre e ovunque una cosa del Signore. Guardate cosa fa la Chiesa per santificarci. Quando arriviamo in questo mondo, Essa ci riceve tra le sue braccia, ci segna e ci consacra: è Essa che si impossessa di noi. Fa delle misteriose unzioni su di noi, ci versa un po’ d’acqua sulla testa: siamo santi! – Nell’ora della nostra suprema agonia, Essa viene ancora a imprimere sulle nostre membra il sigillo della salvezza; fa un’ultima unzione, ci benedice un’ultima volta: siamo consacrati fino alla morte … benedirà persino la nostra polvere nella tomba; le nostre spoglie conserveranno così una sorta di maestà anche nella corruzione; e Dio si ricorderà che siamo stati consacrati per la risurrezione della gloria. – Ma la Chiesa benedice i suoi figli in modo speciale, quando devono scegliere uno stato di vita. Benedice le sue vergini, affinché il profumo della castità sia più gradevole e il cuore immolato sia una vittima più pura; benedice i suoi monaci, affinché la regalità della vita religiosa non pesi troppo sulla loro testa. E i suoi Sacerdoti?! Quando viene il giorno, « … li mette a terra nelle sue basiliche, versa su di essi una parola e una goccia d’olio »; eccoli santi: ora possono andare in tutto il mondo sotto la protezione della loro consacrazione. Venite anche voi, sposi cristiani: la Chiesa vi consacrerà; benedirà le vostre mani, affinché la vostra alleanza sia più duratura e più stretta; benedirà il vostro cuore, riversandovi un po’ dell’amore fedele con cui Cristo custodisce la sua Chiesa. Questa è la nostra prima santità: la consacrazione, che segna tutti i Cristiani, a qualunque stato appartengano, e scrive sulla loro fronte questo motto che molti, ahimè! rispettano così poco: « Sanctum Domino! Tu sei cosa sacra del Signore! » – Eppure questa è solo una santità esteriore. La santità propriamente detta è una partecipazione all’Essere stesso di Dio, uno stato dell’anima che ci unisce intimamente al Signore facendoci vivere con la sua vita, amando con il suo amore. Un santo è uno che può dire: « Non sono più io che vivo, è Gesù che vive in me ». Cercheremo di mostrare come il Rosario ci comunichi questa santità che è la vita stessa di Dio. Gli organi vitali sono la testa e il cuore. Anche nella Chiesa troviamo una testa da cui discendono energie soprannaturali ed un cuore che è l’organo della “circolazione divina”: la testa è Gesù Cristo, il cuore è lo Spirito Santo. – « Nella testa – dice san Tommaso – ci sono tre cose da notare: l’ordine o il posto che occupa, la perfezione di cui gode, la potenza che esercita. Il suo posto: perché la testa è la prima parte dell’uomo, che inizia dall’alto; la sua perfezione: perché nella testa tutti i sensi, sia interni che esterni, sono uniti, mentre un unico senso – il tatto – è diffuso agli altri membri; la sua potenza, infine: perché l’energia e il movimento degli altri membri e la direzione dei loro atti procedono dalla testa, per la virtù motrice che risiede in essa. – Questo triplice ruolo si addice a Cristo nell’ordine spirituale. Egli ha il primo rango, è più vicino a Dio, la sua grazia è più alta di quella degli altri uomini, poiché questi hanno ricevuto la grazia solo in relazione a Lui. In secondo luogo, Egli ha la perfezione, perché possiede la pienezza di tutte le grazie, secondo le parole di San Giovanni (I, 14): « Lo abbiamo visto pieno di grazia e di verità. » Infine, Egli ha il potere di comunicare la grazia a tutti i membri della Chiesa, secondo le parole dello stesso evangelista: “Siamo stati tutti arricchiti dalla sua pienezza” ». (S. Th. III. P, q. VIII, art. I) – Questo ruolo di capo appartiene a Cristo, per la sua umanità visibile. Il ruolo del cuore, invece, è interiore e nascosto; si adatta quindi bene allo Spirito Santo, il cui funzionamento è segreto e misterioso. Il divino Paraclito esercita un’influenza invisibile ma irresistibile nella Chiesa; ne conserva il calore, la vita, la bellezza e la perpetua giovinezza; la consola e la rafforza. È il fiume impetuoso che rende la città di Dio fertile e gioiosa; in una parola, è il cuore misterioso ma onnipotente che lancia la vita e la grazia all’altezza della loro sorgente, che è l’eternità. – Questa è l’economia della vita soprannaturale, questa è la condizione della santità: per avere la salvezza, per avanzare nella perfezione, bisogna essere uniti nella testa e nel cuore, a Cristo e allo Spirito Santo. – Ora, la meditazione del Rosario non è che una dolce unione con l’uno e con l’altro. Dal primo all’ultimo mistero, tocchiamo l’adorabile Persona di Cristo Gesù; è ancora Lui che passa, è ancora la sua vita, sono le sue azioni che sono davanti a noi con la loro infinita virtù, e possiamo ancora penetrare nella sua anima e nella sua divinità. La nostra testa divina ci imprime il suo movimento; la vita trabocca in noi in una fretta impetuosa, e possiamo dire e sentire che abbiamo un’anima viva: Factus est homo in animam viventem (Gen. II, 7). In ogni mistero ci sorprende pure l’azione dello Spirito Santo; è Lui che fa concepire la Vergine Immacolata coprendola con la sua ombra; è Lui che fa trasalire Giovanni Battista, che trasforma Elisabetta e Zaccaria; è Lui che dirige tutta la trama della Passione e che ancora anima tutta la serie dei misteri gloriosi. – Lo Spirito Santo è veramente la virtù, l’agente, il cuore di ogni mistero. Se sapremo entrare nell’interno di questa devozione, l’adorabile Paraclito diventerà, per così dire, il nostro cuore e ci comunicherà dei battiti abbastanza forti da far scorrere il sangue della nostra anima nell’eternità. – È quindi verissimo che il Rosario ci unisce al Capo e al Cuore della Chiesa. Vivere con Cristo, sussultare ed amare con lo Spirito Santo, o dolci e ineffabili momenti di questa meditazione! Quando siamo con il Figlio ed il Paraclito, siamo anche con il Padre. Eccoci dunque nel grembo amoroso della Trinità, alle sorgenti stesse della vita, dell’amore, della santità e della felicità!
CAPITOLO
SECONDO
IL ROSARIO E LA SANTITÀ COMUNE
Per far apprezzare meglio questa
influenza del Rosario sulla vita spirituale, considereremo i tre gradi di
santità, che sono: la santità comune, la santità perfetta, la santità eroica. La santità comune consiste nello stato di
grazia e nell’osservanza dei precetti; è quella veste nuziale, quella carità
primaria senza la quale non si ha accesso alla festa del Padre di famiglia. Per
arrivare a questo primo grado di vita spirituale, non è necessario compiere azioni
straordinarie, e nemmeno molte azioni. Il Rosario ci offre esempi alla portata
di tutti. Gesù Cristo, l’ideale di ogni santità, durante la sua vita a Nazareth
ha fatto solo azioni semplici e disadorne; Maria e Giuseppe, che sono alla
ricerca di Gesù, i nostri modelli infallibili, hanno condotto una vita molto
oscura; le piccole azioni ne costituiscono il tessuto divino. La santità,
quindi, non consiste nello straordinario. Poiché la condizione comune
dell’umanità può essere riassunta in due parole: lavoro e sofferenza,
santificare se stessi è saper lavorare e soffrire. Ora il Rosario è la vera
scuola del lavoro e della sofferenza. I Misteri Gioiosi ci portano all’interno
di Nazareth, e lì cosa troviamo? L’officina, il padrone e l’operaio. Ci sono
qui profondità insondabili. Il Figlio, nato dal Padre negli splendori
dell’eternità, non ha voluto regnare su un trono o abitare in un palazzo, ma
diventare operaio e farsi chiamare operaio. Gli ebrei dicevano di lui: « Non è
forse figlio di un operaio? » (Matt. XIII, 5) – Non è forse un operaio il
figlio di Maria? Nonne hic est faber filius Mariæ – (Marc. VI, 3). Sì, era un
lavoratore, il nostro adorabile Salvatore, che si guadagnava il pane con il
sudore della fronte. Se l’operaio cristiano sapesse capire queste grandi
lezioni, potrebbe dire ai grandi uomini di questo mondo: Non invidio la tua
condizione, perché Dio non ha voluto rassomigliarti, ma si è fatto piccolo
operaio come me!…. Se l’operaio e il suo capo mantenessero il dolce rapporto
che univa Gesù e Giuseppe, il problema sociale sarebbe presto risolto e la
felicità potrebbe tornare a visitare tante case desolate. Gesù, Maria e
Giuseppe, non è questa la trinità della felicità? Se gli insegnamenti del
Rosario fossero messi in pratica, tutte le officine assomiglierebbero a quella
di Nazareth: la Trinità della felicità entrerebbe in ogni famiglia, ed il mondo
potrebbe cantare il ritorno dell’età dell’oro, perché sarebbe il regno della
santità. I Misteri Dolorosi ci insegneranno a santificare la sofferenza. Non si
ha il coraggio di lamentarsi quando si è compreso il suo Rosario. Sei esausto
per la stanchezza, il sudore ti inonda il viso. Avete mai voi, come Gesù
Cristo, sudato sangue? Il vostro corpo è prostrato dal dolore: ma è mai stato
martoriato da un’atroce fustigazione? La vostra testa è devastata da
preoccupazioni: è stata mai incoronata con un diadema sanguinante? Le spine vi
hanno lacerato la fronte? I vostri occhi sono stati riempiti di sangue come
quelli di Gesù? Le spalle sono piegate sotto pesanti fardelli: sono state mai arate
dalla pesante croce del Golgotha? Le mani e i piedi si sono stancati per il
lavoro; ma sono stati trafitti da quei terribili chiodi che lacerano le carni
ed i nervi? La tua anima è inebriata di angoscia; è mai scesa in quell’abisso
di terrore che strappava a Nostro Signore quel grido di angoscia: « Dio mio,
Dio mio, perché mi hai abbandonato? » Oh no, chi capisce il suo Rosario non ha
la forza di lamentarsi. Ma c’è chi ripete: Se almeno le mie sofferenze fossero
meritate! E Nostro Signore aveva forse meritato la sua agonia, la sua fustigazione,
la sua crocifissione? Noi non siamo mai così felici se non quando soffriamo
senza averlo meritato. La prova meritata è una punizione; l’altra è una grazia
di scelta: è la visita e il sorriso di Dio. Non sappiamo cosa stiamo facendo
respingendo la Croce. C’è nella sofferenza -dicono i santi Dottori – un
triplice potere: di espiazione, di impetrazione e di santificazione. – Potere
di espiazione: Niente purifica l’anima come il dolore soprannaturale accettato,
e questo è un modo molto efficace di fare del nostro purgatorio in questo
mondo. Voi allora che piangete, voi le cui mani sono ferite dal duro lavoro e
la cui anima è angosciata a morte, gioite! Siete sul Calvario, siete più vicini
al cielo; siete sulla Croce, siete più vicini a Dio! – Potere
dell’impetrazione: Dio non può rifiutare nulla a un’anima che gli dice: Io ti
do dei miei, perché tu mi dia dei tuoi; ti do le mie sofferenze, perché tu mi
dia la tua grazia. – Potere di santificazione: La sofferenza cristiana ci
distacca e ci eleva, ci rende partecipi della bellezza del divino Crocifisso, e
non c’è nulla di più incantevole qui sulla terra di un’anima trasfigurata dal
sacrificio. È così che vediamo il dolore nella Scuola del Rosario. Lo
assaporiamo come la bevanda del Cielo, perché troviamo Gesù in fondo a quel
calice, e diciamo con il Salmista: Oh, quanto è bello il calice dell’amore in
cui la nostra anima è inebriata! Calix meus inebrians quam prœlarus est1
(Sal. XXII,5). In questo modo, e grazie al Rosario, è facile per tutti
santificarsi; basta unirsi al Salvatore e innestare ogni nostra azione su
ciascuno dei suoi Misteri. Noi sperimentiamo il dolore fisico? … innestiamolo
sulla Flagellazione e sulle inenarrabili sofferenze del Verbo fatto carne. È
una pena morale? … innestiamolo sull’Agonia e sulla Coronazione di spine, che
ci ricordano soprattutto i dolori morali del nostro Salvatore. È un atto di
pazienza? … innestiamolo sul Portamento della Croce e sull’ineffabile pazienza
dell’Agnello divino. È una preghiera: uniamoci al suo spirito di preghiera. Il
nostro dovere è lo studio?: innestiamo tutto questo sulla scienza infinita della
Sapienza Incarnata che si rivela tra i dottori, nel Mistero del Ritrovamento
nel Tempio. Figli di Maria, cavalieri della sua Guardia d’Onore, il Regno di
Dio è veramente in mezzo a voi; la santità è alla vostra portata, e senza
ricorrere ad azioni straordinarie, o addirittura a molte azioni, potrete
trovare il segreto della perfezione nel vostro Rosario. Uomini di dolore e di
lavoro, pensate ai Misteri gioiosi, pensate di essere gli operai dell’eternità,
unitevi all’Operaio di Nazareth, e ditegli: O Gesù, che siete stato operaio
come noi, alleggerite un po’ il nostro fardello! Uomini di studio, operai del
pensiero, perché non alzate un attimo lo sguardo al cielo? Gli occhi
dell’anima, infatti, come quelli del corpo, hanno bisogno del cielo per vedere:
gli occhi del corpo riposano nel cielo visibile; gli occhi dell’anima hanno
bisogno del Cielo dei cieli, cioè di quell’adorabile Trinità che invochiamo nel
Rosario. Oh! siate certi che lo spirito e il corpo avranno trovato riposo in
questa breve invocazione: « Padre nostro, che sei nei cieli, ti offro la mia
stanchezza! » Quando il sudore del lavoro o il sudore dell’angoscia ti inonda
il viso, perché non dici al buon Maestro: « O Gesù, io mescolo questo mio
sudore con il sudore misto a sangue che il vostro amore versò nell’Orto degli
Ulivi! » Se lavorate in questo modo, la vostra giornata sarà veramente fruttuosa,
e potrete dire la sera: I covoni che abbiamo raccolto per il cielo sono più
ricchi e più belli dei raccolti nei nostri campi, o dei nostri covoni
letterari. Se dovete ricevere la visita austera della sofferenza, se più
lacrime che sorrisi devono essere colti sul vostro viso, allora entrate nello
spirito dei Misteri Dolorosi, dicendo: Dio del Gethsemani e del Golgota, io
mescolo il sangue della mia anima con il vostro sangue, le mie lacrime con le
lacrime preziose che Voi avete versate, quando avete pronunciato quelle potenti
grida che hanno salvato il mondo!
Infine, se non avete né lavoro né dolore da condividere, se la fortuna
vi circonda la testa con quell’aureola di un giorno, avete bisogno soprattutto
del Rosario, perché siete esposti a lasciarvi accecare. Viaggiatori
dell’eternità, non indugiate sulle rive del tempo! I Misteri gloriosi
eleveranno i vostri pensieri verso la regione delle grandi e supreme realtà. Il
primo Mistero, che ci ricorda il trionfo del Salvatore, ci fa assistere in
anticipo alla risurrezione generale, a quel giorno solenne e terribile in cui
l’Angelo del Signore griderà sulle rovine del mondo: Tempus non erit amplius!
(Apoc. X, 6). « Tutto è finito, non c’è più tempo! » San Girolamo, nel profondo
del suo deserto, credeva di aver sentito l’ultima tromba: Morti, sorgete,
venite al giudizio! La meditazione del Rosario avrà lo stesso effetto salutare
su di noi. Passando per le nostre grandi città, non fermeremo i nostri cuori su
queste vanità, diremo con i Santi: Verrà il giorno in cui questa possente
città, ora così viva, così inebriata dalla sua voluttà, giacerà nel silenzio e
nella morte! Niente più movimento nelle piazze pubbliche; niente più
viaggiatori frettolosi o strade affollate; niente più clamorosi canti di festa;
è cessato per sempre il rumore degli affari! Non c’è più tempo, non c’è più
tempo! Non riposiamoci dunque su queste sabbie mobili: viaggiatori
dell’eternità, non soffermiamoci sulle rive del tempo! Appoggiamoci sul
Rosario, come su un’ancora immutabile, fissata in alto e che giunge fino Dio.
La devozione intesa in questo modo santificherà la ricchezza e la felicità,
così come ha santificato il lavoro e la sofferenza. Il Rosario metterà così
un’aureola su tutti le fronti. Sulla fronte di chi lavora l’aureola di Nazareth;
sulla fronte degli afflitti l’aureola del Golgota; e ai raggi ingannevoli della
gloria mondana verrà a contrapporsi l’aureola futura della visione beatifica e
della resurrezione trionfante.
CAPITOLO
TERZO
IL ROSARIO E LA SANTITÀ PERFETTA
Al di sopra della carità comune, necessaria a tutti coloro che vogliono entrare nel regno dei cieli, c’è una carità più nobile, che non è ancora l’ultimo vertice della vita spirituale, ma che può già essere chiamata la perfezione dell’amore nella perfezione del sacrificio; è la santità dello stato religioso. Gesù Cristo, prima di ascendere al cielo, ha istituito nella sua Chiesa una doppia scuola ufficiale, incaricata di riprodurre, una il suo ruolo di santificatore, l’altra la sua santità personale. Il primo è il Sacerdozio, il secondo è lo stato religioso. Entrambi devono durare fino alla fine dei tempi. Perpetuare nei secoli la missione di santificatore che appartiene a Cristo è il vostro sublime destino, o Sacerdoti! Riprodurre la sua santità personale è il vostro augusto dovere, o religiosi! In virtù della loro professione, le anime consacrate si impegnano ad esprimere in se stesse l’ideale celeste. È necessario che Dio Padre possa riconoscere in essi il suo Figlio, e che Maria possa dire, guardandoli, « Ecco com’era il mio Gesù; questi sono infatti i suoi tratti amati: è infatti la sua dolcezza, la sua carità, la sua umiltà, il suo spirito di rinuncia ». Ma per raggiungere questo tipo immacolato, dovranno lavorare incessantemente per la loro santificazione; e anche dopo lunghi sforzi, non saranno ancora in grado di dire: è sufficiente! Ci sarà sempre nel profondo del loro cuore una voce potente che grida loro: più in alto! Più in alto! Il tuo modello è la perfezione infinita; il quadro della tua anima non è ancora completo; l’immagine non è abbastanza somigliante; devi sempre aggiungerci qualcosa, apportare sempre qualche nuovo ritocco per avvicinarti all’incantevole ideale. Per questo la vita religiosa deve essere una marcia perpetua verso la perfezione. E in cosa dovrebbe consistere questa perfezione? Quando leggiamo la storia dei grandi religiosi, vediamo che hanno pagato il tributo dell’eroismo alla Chiesa, così come i martiri hanno pagato il tributo del sangue. La professione ha creato nell’anima una sete ardente di ideale e un’aspirazione all’eroismo, e più di una volta l’obbedienza ha dato vita al sublime. La santità, però, che è normalmente richiesta ai religiosi, non è una carità eroica: è una carità intermedia, al di sotto dell’eroismo, al di sopra della carità comune; consiste nell’eliminare tutti gli ostacoli che possano frapporsi all’atto dell’amore divino. È una specie di carità perfetta, o, come abbiamo detto, è la perfezione dell’amore nella perfezione del sacrificio. Nostro Signore ci ha amati con il sacrificio; a Lui rispondiamo con la morte ed il sacrificio: la morte ed il sacrificio dell’ambizione e dei beni terreni: è la povertà; la morte e il sacrificio della carne e dei sensi: è la castità; la morte e il sacrificio della volontà: è l’obbedienza. Quando lo spirito ed il cuore sono immolati, quando la volontà, quel grande dominio che rimane anche ai più poveri di questo mondo, è stato abbandonato, si dice l’ultima parola: è la perfezione dell’amore in quella del sacrificio. Un’anima religiosa interamente fedele ai suoi tre voti avrebbe già quella perfetta carità che è vicina all’eroismo. Ma per essere fedele, gli basta evitare il peccato mortale? Senza dubbio, finché non cade in una colpa grave, è ancora, in un certo senso, nello stato di perfezione; tuttavia, la voce divina che grida in lei: “Sii perfetta! Sii perfetta! Sali più in alto!” esige di più, cioè un odio radicale per il peccato veniale. Concedersi a questo peccato significa ferire Nostro Signore nella pupilla dell’occhio, anche se non si vuole ucciderlo. È davvero la perfezione dell’amore e del sacrificio contrariare in questo modo al buon Maestro in ciò che gli è di più sensibile? È evidente, quindi, che il desiderio vero della santità debba andare di pari passo con l’odio per il peccato veniale. Ogni progresso nella perfezione è un trionfo su di esso, e ogni volta che si commette uno di questi difetti volontari, si scade di un passo: non si rimane più su quelle altezze radiose dove planano i veri religiosi. Ogni anima preoccupata della sua perfezione deve avere la ferma e decisa volontà di evitare ogni peccato veniale deliberato, intenzionale. Diciamo intenzionale, perché molte colpe sfuggiranno immancabilmente alla nostra debolezza, ed infatti la Chiesa insegna che è impossibile, senza un privilegio distinto come quello concesso a Maria, evitare ogni peccato veniale per tutta la vita. Inoltre, noi non facciamo voto di essere perfetti, ma solo di lavorare per diventarlo. Non si commette ipocrisia né si mente se si hanno ancora difetti nello stato religioso: sarebbe ipocrisia e menzogna se si perdesse il desiderio di una vita perfetta, e se si dicesse in modo pienamente ponderato: rinuncio alla perfezione d’ora in poi. Questa, insomma, è la santità religiosa: la perfezione dell’amore nella perfezione del sacrificio, che presuppone l’osservanza fedele dei tre voti e richiede un odio profondo per ogni peccato veniale deliberato. Per camminare, senza mai fallire, verso queste vette divine, bisogna essere uniti a Gesù e tenerlo per mano. Il Salvatore, infatti, è il Gigante dell’eternità: se sapremo afferrare la sua possente mano, saremo trasportati senza problemi, e correremo con Lui in questa regale carriera. Exultavit ut gigas ad currendam viam (Psal. XVIII, 6). Il Rosario ci dà questo mezzo per raggiungerlo. Gesù nel Rosario è veramente il nostro modello, la nostra via e la nostra vita. Il nostro modello, perché ci si rivela nei Misteri come il perfetto religioso del Padre celeste; la nostra via, perché ci tende la mano, la mano che indica l’eternità, che sostiene e porta; la nostra vita, perché da questi Misteri sgorgano potenti grazie per farci osservare i nostri voti. Sono considerazioni facili, che sarà piacevole per noi approfondire. Nostro Signore, nel Rosario, è il religioso per eccellenza dell’Eterno Padre. Un religioso è un uomo interamente legato a Dio. La parola religione deriva, infatti, da religare, che significa « legare una seconda volta ». Siamo già legati a Dio dal legame indissolubile della creazione e della conservazione, senza il quale non potremmo sopravvivere un attimo. A questo legame fisico e necessario, noi aggiungiamo un legame morale e volontario. Dio è nostro Principio, siamo legati a Lui dal vincolo dell’adorazione; Dio è il nostro sovrano Padrone, siamo incatenati a Lui dalla sottomissione e dall’obbedienza; Dio è il nostro fine supremo, ci uniamo a Lui con il vincolo dell’amore. Questa dolce catena che ci lega al nostro Principio, al Signore nostro e al nostro fine è la Religione. Tutti coloro che servono Dio – dice San Tommaso – possono in questo senso ampio essere chiamati religiosi; ma questo nome è riservato agli uomini che dedicano tutta la loro esistenza al servizio divino, liberandosi totalmente delle questioni mondane. I loro tre voti completano il loro attaccamento a Dio. La povertà li lega a Dio, Principio di ogni vero bene, la castità al Dio vergine, il Principio di tutto ciò che è puro e bello, e l’obbedienza al Dio Re, il Principio di ogni libertà. Così, in ogni caso, il religioso è l’uomo legato al Signore. Nella triplice serie del Rosario, ammiriamo in Gesù Cristo questa dipendenza assoluta dal Padre suo. Nel testimoniare, attraverso il primo Mistero, la sua partenza dall’eternità e la sua Incarnazione, vediamo l’adorabile Salvatore mettersi alle dipendenze di Dio e diventare, in un certo senso, il suo stesso uomo-servitore. « Eccomi qui – disse – per fare la tua volontà, Ecce venio ut faciam, Deus, volontatem tuam » (Hebr. X, 9), e quando sta per tornare alla sua eternità da cui è sceso, avrà la stessa parola: Fiat voluntas tua. Questo è ciò che ha dominato la sua esistenza quaggiù. Quando si separa da Maria e da Giuseppe e si ritira in mezzo ai dottori della legge, è per occuparsi degli affari del Padre; se passa la notte in ardente preghiera, è per essere interamente al servizio di Colui che lo ha mandato. Trascorrerà tutto il suo tempo consumando il lavoro affidatogli, e potrà dire a fine carriera: Opus consummavi quod dedisti mihi ut faciam (Giov. XVII, 4). Egli è, quindi, in tutto e ovunque il religioso perfetto del Padre suo, l’uomo interamente consacrato e legato a Dio. Oh, che dolce meditazione è considerare nei Misteri Gesù interamente dipendente, Gesù religioso, Gesù povero, Gesù vergine, Gesù ubbidiente! – Povertà! La praticò fino all’eroismo: fu povero alla nascita e per tutta la vita, non avendo un posto dove poggiare la testa; povero sul suo Calvario, dove vide i soldati che dividevano tra loro le sue ultime vesti; ancora più povero nella sua Eucaristia, dove si spoglia dell’aspetto stesso della sua umanità e si copre di una veste molto fragile, molto inferma, le specie sacramentali. La castità! È il Dio vergine, Figlio di una Madre vergine, Sposo di una Chiesa vergine; ha voluto che il suo corpo riposasse solo sulla pietra di un sepolcro vergine, e rimane ancora nel Santissimo Sacramento il grano puro degli eletti, il vino che fa germogliare i vergini. – L’obbedienza! Egli ha avuto per essa un amore appassionato: è l’obbedienza che lo fa nascere, vivere e morire, che lo incatena nell’Eucaristia e lo consegna impotente nelle mani sacrileghe degli apostati. Così, in tutti i Misteri, Nostro Signore è il modello dei religiosi, ai quali può dire: « Vi ho dato un esempio, affinché facciate come ho fatto io ». Egli non si accontenta di mostrarci la via; Egli stesso è la nostra via; Egli stesso è la nostra vita, cioè i Misteri del Rosario hanno una potente efficacia nel comunicarci le grazie del nostro stato. I nostri voti sono una sfida solenne alle tre grandi concupiscenze che condividono l’impero del mondo. Ora, il nostro Salvatore ha sconfitto questa triplice forza dello spirito del male con la sua vita, passione e resurrezione, per vitam, mortem e resurrectionem suam, che ci viene ricordata nelle tre serie dei Misteri. Non si è mai sottomesso a queste maledette concupiscenze, le ha vinte per il nostro bene: così ha espiato i vizi che nascono in noi da questa triplice radice, e ci ha guadagnato le grazie della virtù contraria. Meditare il Rosario, quindi, è assistere alla vittoria del Salvatore sulle tre concupiscenze; siamo, in questi Misteri, di fronte ad un vizio schiacciato e ad una virtù trionfante. L’anima religiosa che sa entrare nell’interno del Rosario può facilmente ottenere, grazie al contatto con il Verbo incarnato, delle grazie concrete per domare la stessa concupiscenza e praticare la stessa virtù. Unendoci al povero Gesù nei suoi vari Misteri, troveremo aiuto per superare la concupiscenza degli occhi; il nostro contatto con il vergine Gesù ci farà trionfare sulla concupiscenza della carne; e la nostra umile obbedienza, innestata sulla sua, distruggerà l’orgoglio della vita. In questo modo, la pratica dei voti diventa facile, e le tentazioni contrarie vengono messe da parte. Ma abbiamo visto che la perfezione religiosa, non contenta di un facile trionfo sul peccato mortale, deve avere per ogni colpa veniale un odio perenne che nulla può attenuare. Le grazie del Rosario vanno così lontano. Esse si estendono non solo a quelle grandi lotte in cui la vita dell’anima è in pericolo, ma anche alle lotte quotidiane tra rinuncia e tiepidezza, tra il desiderio di perfezione e l’attaccamento alle passioni della natura. Il Rosario, infatti, ci mette in comunicazione con l’impeccabile Religioso che è stato perfetto fin dal primo momento. In virtù del nostro contatto con Lui, dobbiamo ricevere qualcosa della sua perfezione; e le grazie che scaturiscono da una fonte così pura devono far nascere in noi squisite prelibatezze come quelle del Sacro Cuore. Queste prelibatezze consistono nel dimenticare se stessi per gli interessi dell’Amato, nel temere soprattutto di offenderlo anche nelle cose leggere, e, staccandoci impercettibilmente da noi stessi e dal creato, ispirano in noi dolci e forti attrattive per il servizio divino ed una vita piena di fervore. Queste sono le grazie di scelta che scaturiranno dai Misteri, tali sono i meravigliosi effetti che il Rosario può avere sull’anima religiosa che ne sa approfittare. Ma dobbiamo essere molto vigili: se non sappiamo come afferrare la mano di Gesù, quando passerà, rimarremo lontani da Lui. Il Gigante dell’eternità sta camminando molto velocemente: sarà impossibile raggiungerlo, e rimarremo soli su questo arduo sentiero dove è così facile scoraggiarsi e tornare indietro. Allora forse incontreremo Maria. Anche Ella passa attraverso il Rosario per dare una mano ai religiosi, perché in questi Misteri praticava la povertà, la castità, l’obbedienza, con una squisita perfezione che escludeva l’ombra stessa del peccato veniale. Se sapremo unirci a Lei nella meditazione del suo salterio celeste, l’augusto Distributrice di grazie ci darà un aiuto energico per imitare la sua perfezione, il suo amore per Dio e il suo odio per il peccato. Con l’aiuto di Maria, cercheremo di raggiungere Gesù, e forse il buon Maestro, alla voce di sua Madre, si degnerà di voltarsi verso di noi; e allora potremo camminare senza ostacoli sulla strada dell’eternità, tra Cristo e Maria. Oh! se le anime religiose sapessero come capire e praticare il loro Rosario, come sarebbe facile per loro il cammino verso la perfezione! Sarebbero, in un certo senso, portati dalla mano di Gesù e dalla mano di Maria, cioè dalle grazie che ci vengono da entrambi, e potrebbero ripetere le parole di Fra Marie-Raphaël: « Ho trovato nel Rosario il mio segreto della santità ».
CAPITOLO
QUARTO
IL ROSARIO E LA SANTITÀ EROICA
Il grado di carità richiesto dallo Stato
religioso costituisce già una sorta di santità perfetta. Tuttavia, la fecondità
della Chiesa non si ferma qui. La natura ha esaurito tutte le sue energie, la
grazia stessa è all’apice; improvvisamente supera se stessa, il finito sembra
scomparire, il divino solo si mostra; abbiamo nominato l’eroismo. È una sorta di “cuscinetto” tra l’umano e il
divino, o meglio, è il divino che trasforma l’uomo. È l’eroismo – dice San
Tommaso – che rende divini certi uomini. Secundum quam dicuntur aliqui, divini viri. (S.
Th. la IIæ, q. 58, art. I, ad 1.). Questo è l’ultimo grado di santità.
Quando questi giganti della perfezione attraversano il mondo, questa si innalza
davanti ad essi come una manifestazione di Dio. L’eroismo! Tutta la vita della
Chiesa ne è intessuta, dai primi Martiri ai Missionari moderni. Dodici milioni
di martiri! È qui che la santità ha veramente trionfato: il paganesimo e
l’inferno hanno mietuto vittime, la Chiesa ha mietuto eroismo. I secoli che
seguirono hanno rimandato i loro echi a questa grande voce dei primi secoli.
Essere eroici è saper rompere la natura e sacrificare tutto l’amore a quello di
Gesù. Tutte le età hanno visto questo prodigio. C’è prima di tutto l’amore
filiale, fatto di rispetto, di tenerezza e di pio timore. È stato immolato a
Cristo: il bambino strappato dalle braccia dei suoi genitori per seguire il Dio
perseguitato, e spesso per volare verso il tormento e la morte. Ah! senza
dubbio la lacerazione è stata crudele e la ferita cruenta: quanto è costato resistere
alle carezze di un padre e vedere cadere le lacrime di una madre! Ma l’amore
del Salvatore era più dolce e più forte, faceva degli eroi. C’è anche l’amore
materno, che sale così rapidamente al sublime, che vive di sacrificio e
devozione, che è più duro di un diamante e più dolce della tenerezza. Eppure le
madri hanno generosamente immolato un affetto che era nelle loro stesse
viscere. Vedete questa martire nel luogo del suo tormento; il suo bambino viene
portato vicino a lei per essere martirizzato. La povera madre gli mette la mano
sul cuore per esortarlo ad essere forte, culla il suo dolore nella sua fede e
nel suo amore, e dice a suo figlio: « O figlio mio, l’amore che ti porto è più
forte di me. Bene allora, perché io ti amo e tu mi ami, ti offro a Gesù per
farti soffrire… Oh, per pietà, figlio mio, vieni a morire! » Dopo di ciò il
suo bambino cammina con gioia verso la morte, e in questo doppio sacrificio
trova ancora dolce il Signore! Infine, c’è l’amore coniugale, che di due vite
ne fa una sola e la cui gloria consiste nella casta fecondità. E i coniugi a
loro volta hanno sacrificato i loro affetti. Sant’Alessio, Sant’Elzéaro e Santa
Delfina, Sant’Enrico e Santa Gunégonda, Sant’Edoardo e Sant’Edith, hanno
immolato i loro cuori sul cuore verginale di Gesù; hanno riservato la fronte
per una corona immacolata, e per loro è sbocciata la rosa dell’Eden. Sì,
dall’inizio della Chiesa fino ai giorni nostri, abbiamo visto di quegli
innamorati che erano appassionati del Crocifisso; quando non avevano più nulla
da dare, prendevano il loro sangue puro ed eloquente nelle loro mani e lo
offrivano a Dio, dicendo: O mio diletto, sia questo il linguaggio del nostro
amore! Non ci è rimasto nulla, ma quando l’amore ha dato tutto, dà il sangue.
Bene, ecco il sangue! E tutti quegli amici della croce e tutte quelle eroiche
vergini hanno ripetuto più e più volte l’inno trionfale di Sant’Agnese martire:
Amo
Christum! Io amo Cristo! Questo è l’eroismo. Non possiamo parlare qui
degli altri suoi prodigi a riguardo del nostro prossimo – È stato l’eroismo che
ha suscitato la grande anima di San Paolo quando ha voluto essere “anatema” per
i suoi fratelli; è stato l’eroismo che ha ispirato l’apostolo degli infelici,
San Vincenzo de’ Paoli, quando, mostrando alle signore di Parigi i bambini
abbandonati, ha gridato: « Vedete ora se volete abbandonarli. Smettete di
essere le loro madri e diventate i loro giudici! La loro vita e la loro morte
sono nelle vostre mani: io prenderò i voti e i suffragi. È ora di fermarli e
vedere se non si vuole più avere pietà di loro!… ». L’eroismo ha dato origine
ad un amore appassionato per i nemici, ha fatto sì che i Santi baciassero la
mano insanguinata degli assassini della loro famiglia; ha fatto dire al Beato
Grignon de Montfort: « O mio Dio, prendi il mio sangue, ma perdona i
miei nemici! » L’eroismo è ancora vivo oggi, sarebbe facile citare nomi e fatti
eloquenti, e quante pagine brucianti ci fornirebbero questa storia d’amore!
Durerà finché ci sarà miseria da alleviare, amore da dare e sangue da spargere
sulla terra. Noi stessi, che sappiamo essere così imperfetti ed indegni di
essere fratelli dei santi, non dobbiamo dimenticare che ogni Cristiano, in
certe circostanze, può essere chiamato all’eroismo. Il Battesimo, creando in
noi nobili aspirazioni, ci ha imposto gravi doveri, e ci possono essere lotte
così grandi e terribili nella nostra esistenza che, poiché la virtù ordinaria
non è più sufficiente, avremo bisogno di energie di ordine superiore: è allora
che entra in gioco l’eroismo. I giusti non vengono colti alla sprovvista in
queste circostanze straordinarie; i loro cuori sono pronti per queste grandi
lotte. C’è, infatti, in ogni anima in stato di grazia, il sangue degli eroi, o
meglio, il sangue divino che vuole elevarsi all’altezza della sua fonte; c’è un
seme fertile da cui nasce il sublime. Questi semi di eroismo sono i Sette Doni
dello Spirito Santo. Secondo San Tommaso, i Doni non differiscono in realtà
dalla virtù eroica: sono come un seme il cui eroismo è il fiore, o come una
lira il cui eroismo è il suono. In alcune anime il seme, anche se vivo, non
raggiunge mai il suo fiore; la lira, anche se sonora, può restare sempre
silenziosa; ma tutti hanno almeno il potere di sbocciare o di vibrare. Basta un
raggio di sole per far maturare il fiore, o basta un tocco leggero per far
risuonare la lira: questo raggio, questo tocco, è l’impulso dello Spirito Santo
che improvvisamente ci afferra e ci conduce al sublime. L’umiltà non deve
nasconderci questa bella dottrina; per quanto spregevoli possiamo essere, la
nostra anima può, sotto le dita dell’Artista supremo, rendere suoni divini. Ed
è il Rosario che ci inizierà a questa scienza, come andremo a spiegare. I
teologi insegnano che tutte le virtù si trovano nell’anima del Verbo allo stato
perfetto ed in grado eroico. Nostro Signore ha vissuto costantemente del
sublime, cosicché la storia della sua vita è diventata la storia dell’eroismo.
Ma la storia di Gesù è il Rosario: l’eroismo ha quindi penetrato e profumato
tutta la serie dei Misteri. È lì che i doni dello Spirito Santo, il seme fecondo
nascosto nell’anima di Nostro Signore, hanno prodotto il loro fiore, e la lira
celeste ci ha fatto sentire quei suoni meravigliosi che deliziano il genere
umano. Da quel momento in poi, basta meditare sul Rosario per contemplare la
virtù al suo apogeo, e tutti coloro che sono predestinati all’eroismo sono così
predestinati a diventare conformi al Dio che si rivela nei Misteri. È proprio a
questa scuola che si sono formati i Santi. Un giovane cavaliere, Giovanni
Gualberto, circondato da una grande scorta, stava per punire l’assassino del
fratello; l’assassino indifeso, impossibilitato ad evitare la spada
vendicativa, stese le braccia a forma di croce, appellandosi al mistero della
Crocifissione; era il Venerdì Santo. Un tale ricordo fu in grado di far germogliare
l’eroismo. Giovanni Gualberto non si accontentò di perdonare il suo nemico, ma
da quel momento lo prese come suo fratello. Entrando in chiesa, vede il
crocifisso chinare il capo verso di lui per ringraziarlo. Questo è ciò che il
pensiero di un Mistero aveva già fatto prima dell’istituzione del Rosario; sarà
lo stesso per gli altri. I Misteri, infatti, non sono solo esempi di eroismo,
ma possiedono ancora una particolare efficacia nel farci praticare ciò che
insegnano. Non è inutile ricordare qui ciò che abbiamo detto più di una volta:
la nostra unione con l’anima del Verbo ci dispone a ricevere grazie che ci
renderanno simili ad esso, ed il nostro pio contatto con l’eroismo del
Salvatore meriterà dei soccorsi attuali per essere eroici come Lui. Queste grazie
di scelta sono il raggio di sole che fa nascere e maturare il fiore contenuto
solo come un germe nella nostra anima, ed il fremito che fa vibrare la lira del
sublime, prima silenziosa. È allora che il soffio divino rapisce le nostre
anime e le conduce al suo grado; non conosciamo più, almeno per qualche
istante, le imperfezioni del passato, e sembra che la parola della Scrittura si
sia per noi attuata: anche Saulo è diventato profeta. Così, senza uscire dal
Rosario, si può raggiungere l’apogeo della santità. L’eroismo non è un fatto
raro negli annali dei Cavalieri di Maria e i nostri lettori ricordano come li
ha ispirati i tre Fratelli Predicatori, apostoli del Rosario, che si sono
dimostrati così sublimi nel naufragio de “La Borgogne”. E non è tutto. Se
l’eroismo è una virtù divina, avrà bisogno di un linguaggio divino. Bene, Dio
darà agli eroi della santità una grande voce, che è il miracolo. La vera Chiesa
ha sempre dato vita a dei taumaturghi: i miracoli sono stati come fulmini e
tuoni in mezzo ai quali è stata promulgata la nuova legge. Erano più numerosi
nei primi secoli, quando la voce del paganesimo dominava quella della verità;
ma sono necessari in ogni epoca per manifestare la santità della Chiesa e per
convertire le anime. Ci sono sempre degli infedeli. Ahimè, in mezzo ad una
società inondata dalle luci del Vangelo, sentiamo ogni giorno l’incredulità che
suscita insolenti proteste contro Cristo e la sua Chiesa. Il Dio potente e
misericordioso ha voluto coprire questi clamori con la voce del miracolo. Ogni
anno a Lourdes, per non dire da un capo all’altro dell’universo, il miracolo
risuona come un tuono, e a volte le orecchie più ribelli sono costrette a
sentirlo. No, il miracolo non abbandona la Chiesa. Gesù Cristo, inoltre,
l’aveva promesso, perché aveva detto in modo universale a tutti gli uomini e a
tutti i tempi: « Chi crede nel mio Nome farà i prodigi che faccio Io, e ne farà
di più grandi ancora. Questa parola ha avuto un solenne compimento. In tutte le
epoche la Chiesa ha posto dei Santi sugli altari. Ora ha preteso da tutti
l’omaggio del miracolo, e nell’esame dei fatti si è dimostrata perfino
eccessivamente severa. Tuttavia, i Santi sono saliti sugli altari, pagando il
tributo miracoloso dopo la loro morte, così come avevano pagato il tributo
dell’eroismo durante la loro vita. Non ripugna assolutamente che i malvagi
siano profeti e taumaturghi, ma, come regola generale, il miracolo è la
testimonianza suprema della santità, soprattutto della santità eroica. Ecco
perché, quando sentiamo questa grande voce, più ammirevole e più potente di
quella dei fiumi e dei mari, gridiamo: Credo sanctam Ecclesiam, credo nella
santità della Chiesa! Il Rosario, che
insegna e ispira eroismo, è fecondo anche nei miracoli. Conosciamo questa
parola di Pio IX: «Tra tutte le devozioni approvate dalla Chiesa, nessuna è
stata onorata dal cielo con tanti miracoli come il Rosario ». Una circostanza
davvero notevole è che la Vergine dei miracoli, Nostra Signora di Lourdes, è
anche la Vergine del Rosario, la Vergine che presenta il Rosario al popolo come
segno di speranza. I miracoli del Rosario hanno avuto un impatto sociale
davvero immenso, ed offrono questo carattere speciale, che sono stati dei
trionfi definitivi per la Chiesa, annientando per sempre il potere del male. Il
Rosario incontra gli Albigesi: fin dal primo colpo è una vittoria completa.
Questo fatto è particolarmente degno di nota. Le grandi eresie non sono mai
state sconfitte in un colpo solo; ognuna di esse è stata sufficiente a
coinvolgere diverse generazioni, e molti secoli dopo la morte dei loro autori
hanno ancora dato vita a tempeste e temporali. L’errore albigese, al contrario,
scomparve in un colpo solo, anche se fu difeso da una potente setta che aveva
per sé tutto ciò che c’era di grande e attraente nel mondo. L’apparizione del
Rosario l’aveva colpita come un fulmine: San Domenico, in vita, la vide ferita
a morte senza speranza di risurrezione, e poco dopo, sulle rovine di questa eresia
impura, la Francia e la Chiesa salutarono l’alba di un futuro radioso. Qualche
secolo dopo il Rosario incontrò l’islamismo nel Golfo di Lepanto; gli infedeli
videro nell’aria la terribile Madre di Dio come un esercito schierato in
battaglia, animando i Cristiani nella loro lotta. Anche in questo caso è stata
ottenuta una vittoria definitiva. L’impero di Maometto non si è mai ripreso da
questa sconfitta; da allora ha vegetato nell’impotenza senza mai tornare ai suoi
giorni gloriosi di un tempo. Infine il Rosario ha incontrato l’orgogliosa
Riforma all’assedio di La Rochelle. Vittoria definitiva! Da quel giorno in poi
il prestigio del protestantesimo è stato rovinato per sempre in Francia. Questi
sono i grandi miracoli storici del Rosario. Non cercheremo di richiamarne altri
qui. Miracoli di protezione, miracoli di guarigione, miracoli di conversione,
sono, per così dire, eventi quotidiani; e le riviste del Rosario hanno spesso
l’opportunità di pubblicare alcuni di questi tratti meravigliosi. Il nostro
scopo era quello di mostrare solo di sfuggita che il miracolo e l’eroismo sono
uniti nel Rosario, come lo sono nella vita dei Santi. Il Rosario dimostra così
la santità della vera Chiesa. Infatti, sebbene questi miracoli siano dovuti
alla Madre di Dio, essi sono fatti nella Chiesa e per la Chiesa, e servono a
far risplendere in Essa quell’aureola luminosa che la distingue da tutte le
sette e che si chiama nota di santità. Credo sanctam Ecclesiam. – Ora
sappiamo come il Rosario, ben compreso, ci possa avviare a tutti i gradi della
vita perfetta: ci resta da chiedere a Maria la grazia di realizzare alcuni di
questi insegnamenti, nella convinzione che, se otterremo questa conoscenza
pratica del Rosario, avremo conquistato la scienza dei Santi.
Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (5)
[chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]
SECONDA PARTE
MEZZI GENERALI
DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE
Capitolo II.
LA REDENZIONE
Ostacoli del
piano divino della divinizzazione degli uomini.
Noi conosciamo già il piano che Dio ha concepito da tutta l’eternità in relazione agli uomini. Li ha destinati ad essere uniti in questo modo con legami più stretti di quelle risultanti dalla sua creazione e dalla sua natura. Egli vuole che siano figli suoi, che ereditino la sua felicità nell’eternità e che la meritino, vivendo la nostra vita sulla terra. Per realizzare questo piano, ci ha mandato il Figlio suo, lo ha reso nostro fratello rivestendolo della nostra natura umana, e così ci ha dato il potere di essere coeredi, ricevendo la comunicazione della vita divina. La vita divina è già in tutta la sua pienezza nel seno dell’umanità, perché il Cuore di Gesù è il cuore di un figlio di Adamo. Ma questo non basta: la vita divina non deve rimanere chiusa nella sorgente. Deve fluire da essa ed estendersi alle estremità del grande corpo che deve animare. Ma qui si sono presentate delle difficoltà, apparentemente insormontabili, a Colui che ha intrapreso la grande opera della nostra rigenerazione. – Se l’uomo fosse rimasto innocente, niente sarebbe stato più dolce e glorioso del compito del Mediatore Divino. Sarebbe venuto agli uomini, pronti con la pratica di tutte le virtù, ad ascoltare il suo insegnamento ed a riceverne i benefici. Vedendolo apparire in tutto lo splendore della sua bellezza e in tutta la vita del suo amore, gli uomini sarebbero corsi ai suoi piedi proclamandolo loro Re, o meglio, sarebbero stati attratti dal suo Cuore, riconoscendosi come figli suoi. E da Lui avrebbero attinto con gioia le acque della grazia che salgono fino alla vita eterna. Ma questo non accadde, e la missione del Verbo Incarnato sulla terra, invece di glorie e di consolazioni, non gli portò altro che ignominia e amarezza. Perché? Perché gli uomini giacciono per i loro peccati in uno stato di morte. Invece di rimanere innocenti, essi erano diventati colpevoli. Per migliaia di anni non hanno fatto altro che ammassare cumuli di crimini sulla strada che avrebbe dovuto condurli a Dio: essi avevano aumentato, con le loro mostruose iniquità, il debito impagabile che il primo peccato aveva accumulato per loro nei confronti della giustizia eterna. – Prima di comunicare loro la sua vita divina, di distribuire le sue grazie, di renderli eredi della felicità celeste, era opportuno che il Verbo incarnato saldasse i loro immensi debiti, espiasse i loro crimini e distruggesse la loro morte. Perché la grande opera della divinizzazione dell’umanità non doveva essere solo opera di misericordia. – Tutti gli attributi dovevano contribuire ad essa in egual misura ed avere in essa pari gloria. La giustizia, offesa dal peccato, doveva essere soddisfatta pienamente, mentre la bontà avrebbe mostrato tutta la sua magnificenza nel riabilitare il peccatore. Era giusto che quest’opera contenesse sia il più gratuito di tutti i benefici, che la più alta di tutte le soddisfazioni; che fosse per l’uomo un dono soprannaturale e allo stesso tempo un merito che aveva dolorosamente conquistato; che lo conducesse ad una felicità infinitamente superiore a tutte le esigenze della sua natura, eppure con tutto il rigore riservato alle sue fatiche e alle sue lotte. – Così l’opera della redenzione è stata presentata al Cuore di Gesù dal momento in cui è uscito dalle mani di Dio. Prima di esaminare come lo abbia realizzato, cerchiamo di capirne le difficoltà.
Il primo ostacolo è la morte causata dal peccato originale.
Prima di tutto vediamo in cosa consista la morte del peccato, che il Cuore di Gesù ha dovuto distruggere prima di comunicare la sua vita. Come ci sono due tipi di peccato, l’originale e il presente, così ci sono due tipi di morte, molto diversi tra loro, ma entrambi naturalmente indistruttibili. – Il peccato originale consiste nella privazione della vita soprannaturale che Dio aveva dato ad Adamo per trasmetterla a tutti gli uomini, ma dei quali egli ha privato se stesso e tutti noi a causa della sua trasgressione. Quella vita non ci era più dovuta, e così Dio ha potuto, senza ingiustizia, privarci di essa, quando il nostro primo padre si è rifiutato di soddisfare alle condizioni secondo le quali doveva esserci trasmessa. La privazione di quella vita è veramente la morte; perché cos’è la morte se non la privazione della vita? Gli elementi materiali di cui è composto un cadavere potrebbero benissimo non farne parte; e, non avendo mai posseduto la vita umana, non sarebbero stati capaci di morire. Ma, avendo goduto una volta della vita, non possono esserne privati senza morire. È lo stesso con l’umanità: se non avesse mai avuto in eredità una vita soprannaturale, l’assenza di quella vita non sarebbe più una morte. Ma era stata data all’inizio e tutti i suoi membri erano destinati a goderne e a comunicarsela. Esausti alla fonte, i piani misericordiosi del Creatore erano sconvolti da colui che doveva essere il suo primo collaboratore. L’umanità è veramente morta. Tutti i nuovi membri che vi sono nati, privati di quella vita divina, sono morti fin dalla nascita. Prima di permettere che la vita sia loro restituita dal Divin Mediatore, la giustizia suprema esige che la trasgressione di cui sono stati privati, sia rigorosamente espiata. Il primo dovere imposto al Cuore di Gesù è dunque quello di riparare la ribellione del nostro primo padre e di rimuovere l’ostacolo che esisteva affinché la grazia soprannaturale si riversasse nelle anime dei suoi figli.
Il secondo
ostacolo è la morte che provoca il peccato attuale.
Gli uomini avevano aggiunto a questa
prima morte, la morte del peccato vero e proprio, la cui responsabilità pesava
solo su di essi. E questo secondo peccato non è stato solo uno, come il primo:
si era moltiplicato dall’inizio dei secoli, e doveva moltiplicarsi, fino alla
fine, nella proporzione più mostruosa. Quello che Adamo ha fatto una volta,
tutti i suoi figli lo fanno per conto proprio, e nella maggior parte di loro,
non per una volta, ma per migliaia di volte. Essi si ribellano all’autorità di
Dio, violano la sua Legge, disprezzano le sue promesse e le sue minacce allo
stesso modo, lordano la sua nobile natura con le più vergognose turpitudini.
Chi potrà contare il numero delle loro trasgressioni, crudeltà e bassezze,
davanti alle quali l’istinto della natura rifugge e con cui gli uomini si sono
macchiati fin dall’inizio del mondo? Non si tratta qui della semplice
privazione di una qualità soprannaturale: si tratta di una degradazione
positiva e colpevole della dignità naturale, di una deliberata prostituzione di
un’anima razionale. Anche questo secondo peccato merita una punizione
incomparabilmente più dolorosa della prima. Il peccato originale è punito dalla
giustizia divina, nell’anima che non ha altre macchie, con la sola pena del
danno, cioè con la privazione della gloria soprannaturale. E questa privazione
della gloria non provoca alcun dolore reale all’anima che non ha mai posseduto
la grazia soprannaturale, anche se era destinata ad avere il coronamento della
gloria. – La morte causata dal peccato originale può essere paragonata
all’albero privato della vita, dal quale non ci si può aspettare alcun frutto
ma che, tuttavia, conserva ancora una certa bellezza e può servire a scopi
eccellenti. La morte del peccato reale è invece il marciume della tomba, che
non lascia né vigore né forma, ma lo rende oggetto di orrore e di infezione per
tutti gli esseri viventi.
Difficoltà di
questi due ostacoli
Questi due peccati hanno in comune il
fatto che sono naturalmente irreparabili. Entrambi hanno anche la capacità di
togliere all’uomo la vita soprannaturale. Come si potrebbe recuperare allora questa
vita liberamente perduta? Quale creatura è abbastanza ricca da poter offrire a
Dio una moneta il cui prezzo sia paragonabile a quello di questa vita? Se essa è
davvero la vita di Dio comunicata alla creatura, non è evidente che tutto ciò
che la creatura possa dare in compenso a Dio sarà di un valore infinitamente
inferiore? – D’altra parte, ogni peccato oltraggia Dio. È la negazione dei suoi
attributi, il disprezzo della sua autorità e dignità, la violazione dei suoi
diritti essenziali di sovranità e del fine ultimo. E chi non sa che l’oltraggio
è più grande in funzione della dignità della persona offesa, mentre l’onore si
misura con la dignità di chi lo fa? Qui abbiamo una Persona offesa la cui
dignità è infinita, mentre l’offensore, portato fuori dal nulla proprio da
Colui che ha oltraggiato, è ad una distanza infinitamente inferiore da Lui.
Come potrebbe un tale vile essere in grado di rimediare ad una così alta Maestà
dall’insulto inflitto? Tutti gli omaggi che gli rende sarebbero relazionati
alla sua dignità, che è nulla. Allo stesso tempo, la gloria da restituire a Dio
è infinita, come Dio stesso. Nulla è più chiaro: la creatura, per quanto nobile
possa essere, è assolutamente incapace di offrire una degna riparazione per il
peccato. – Per poter offrire alla giustizia divina una rigorosa soddisfazione,
essa – la creatura – dovrebbe essere infinita, cioè Dio stesso. Ma, proprio per
questo, sarebbe incapace di espiare il peccato, perché dovrebbe soffrire. E
come può soffrire Dio, Egli che è l’Essere infinitamente felice? Ora, è
impossibile concepire il dolore in un Essere infinitamente felice come Dio;
sarebbe come immaginare un cerchio quadrato, due nozioni contraddittorie che si
escludono a vicenda.
Il terzo
ostacolo è l’incapacitàdella vittima in
ordine all’espiazione.
Per espiare il peccato, bisogna essere
innocenti. Poiché in un criminale le sue sofferenze sono punizioni e i castighi
sono inferiori alla colpa con cui ha oltraggiato mortalmente Dio,
conseguentemente egli non si potrebbe presentare come espiatore. La
misericordia può vedere un motivo di indulgenza, in considerazione
dell’impotenza dell’infortunato. Ma la giustizia e la santità non sono
certamente obbligate ad accettarlo come compenso sufficiente della gloria che
ha rubato al suo Creatore. Questi attributi non saranno soddisfatti finché una
vittima del tutto pura non venga immolata in espiazione delle iniquità. E se
una tale vittima viene trovata, se si sacrifica volontariamente, se agli occhi
di Dio la sua offerta ha un valore sovrabbondante, la soddisfazione però non
sarà rigorosa. Perché una delle condizioni di una rigorosa soddisfazione è che
sia offerta da chi si è reso colpevole del reato. – Quindi, da un lato, se la
vittima è colpevole, è incapace di espiare il suo crimine a causa della sua
indegnità; se è innocente, è tuttavia incapace a causa della sua stessa
innocenza.
L’amore del
Cuore di Gesù per gli uominiha eliminato gli
ostacoliche sembravano
insormontabili.
Tuttavia, essi – gli uomini –
raggiungeranno la salvezza, perché non ci sono ostacoli insormontabili
all’amore del Cuore di Gesù. Nel momento stesso dell’Incarnazione, all’intelligenza
dell’Uomo-Dio si è rivelata la missione. In quel momento, il Suo Cuore, con un
immenso sforzo d’amore, ha rimosso tutti gli ostacoli, ha fatto sparire tutte
le impossibilità e ha realizzato ciò che sembrava irraggiungibile. Sì, il Cuore
di Gesù ha fatto questa meraviglia, il suo amore e … solo il suo amore. Non
solo l’amore che come Figlio di Dio gli appartiene e che gli è comune con il
Padre, ma anche il suo amore umano, un amore che gli appartiene come Figlio
dell’uomo e per il quale – fin dal primo momento della sua Incarnazione – ha
cominciato ad amare gli uomini colpevoli come dei fratelli. Spontaneamente, fin
dal primo palpito che ha fatto sentire il Cuore di Gesù, Egli ha intrapreso
l’opera molto difficile della nostra redenzione. Da quel momento in poi, l’ha
portata a termine. Queste sono le condizioni della nostra redenzione, come sono
state presentate al Cuore di Gesù nel momento in cui il Cuore Divino si è
formato nel grembo della Beata Vergine Maria. Non c’è nessuna di esse che non
sia sembrata assolutamente irraggiungibile all’intelligenza angelica, così come
alla ragione umana. Bisognava trovare uniti in un unico e medesimo essere: il
potere di espiare, che è proprio della creatura, ed una dignità infinita, che è
propria solo del Creatore. – Per riscattare la vita divina che aveva perduto,
l’uomo doveva poter offrire a Dio un riscatto di valore uguale a quello della
sua vita; ed era assolutamente necessario che la vittima immolata per riparare
le iniquità del mondo, fosse al tempo stesso completamente monda da quelle
iniquità e realmente responsabile di ciascuna di esse; che fosse accusata di
quei crimini in modo tale che la giustizia divina potesse punirli
affliggendoli, e sufficientemente esente da ogni macchia, affinché la punizione
soddisfacesse pienamente la santità divina. Tutto questo non aumenterà davvero delle
difficoltà insormontabili? E come troverà il Cuore di Gesù nel suo amore, il
potere di superarle? Ce lo dirà San Paolo. – Questo incomparabile Apostolo, che
ha con San Giovanni il privilegio di far penetrare più profondamente di ogni
altro, le intime profondità del Cuore di Gesù, ci fa vedere, in un brano dei
Salmi, l’espressione dei sentimenti che hanno animato il Cuore Divino fin dal
primo momento della sua esistenza. Dopo aver dimostrato, nel capitolo X della
sua Lettera agli Ebrei, l’insufficienza di tutte le antiche vittime per il
riscatto delle nostre anime, aggiunge: « Anche il Salvatore, quando entrò nel
mondo, disse al Padre suo: « Non hai voluto un sacrificio o un’offerta, ma mi
hai dato un corpo; gli olocausti offerti per il peccato non li hai graditi.
Allora ho detto: “Ecco io vengo; all’inizio del libro è scritto di me di
fare la tua volontà, o Dio” » (Eb. X, 5-7).
Momento
dell’offerta di Cristoe attitudine per
espiare i nostri crimini.
Qui c’è l’atto dell’offerta che ha
salvato il mondo. San Paolo ci fa conoscere il luogo e il momento in cui esso è
stato solennemente pronunciato: nel grembo di Maria, in quel santuario
purissimo, vero Sancta Sanctorum, nel momento stesso dell’Incarnazione. In quel
momento il Verbo di Dio è entrato nel mondo. – Prima era nel mondo, come Dio,
ma non vi era entrato. L’ha riempito e l’ha doppiato con la sua immensità,
senza farne parte in alcun modo. Dal momento in cui è diventato uomo ha
cominciato ad appartenere alla creazione, è entrato veramente nel mondo. Fu
allora che l’Agnello di Dio abbracciò l’opera della nostra rigenerazione; fu
allora che cominciò ad immolare se stesso per la nostra salvezza. – Egli ha
capito fin da quel primo momento che gli era stato dato un corpo per compensare
l’inadeguatezza di tutte le antiche vittime. Egli vedeva in sé stesso le
condizioni che, al di fuori di Lui, erano irraggiungibili. Infatti, la santa
Umanità del Salvatore riconcilia tutti gli estremi in sé. Anche se creato e
finito in sé, Egli possiede, in virtù della sua unione ipostatica con la
Persona del Figlio di Dio, una dignità infinita. È capace di soffrire e,
quindi, può essere immolato per l’espiazione del peccato. D’altra parte, Egli
può dare alla sua immolazione un valore pari a quello dei beni celesti che
abbiamo perso. Appartiene all’umanità colpevole per la sua origine, che lo
rende la carne della nostra carne e ossa delle nostre ossa. Ma, d’altra parte,
essa riceve una santità infinita, sia dalla Persona del Verbo, che è ad essa
ipostaticamente unita, sia dalla Persona dello Spirito Santo, che gli è stata
data dal Verbo, e vi risiede come nel suo tempio. Non manca nulla alla vittima,
perché possa rimediare all’insufficienza degli antichi sacrifici, distruggere
la morte e riportarci in vita. Niente, tranne il suo libero consenso, perché la
sua immolazione non deve essere forzata, bensì spontanea. Se è determinata,
tutto è pronto per l’olocausto. L’altare si alza, il cielo è in attesa, la
terra sospira per questa espiazione, che è sempre più urgente ogni giorno di
più. Le condizioni sono chiaramente proposte dalla giustizia divina; tutti gli
strumenti di tortura sono posti davanti alla vittima: i disagi, le privazioni,
le persecuzioni, l’ingratitudine, i tradimenti, i flagelli, gli sputi, i dolori, la croce, i chiodi, la
corona di spine, il fiele e l’aceto, l’agonia, la morte, tutta l’immensa
moltitudine di torture che lacereranno il corpo e l’anima del Verbo Incarnato.
Si tratta di passare attraverso tutti i dolori in previsione di quelli che gli
si propongono. Sta a Lui consumare già nel Suo Cuore l’olocausto che poi si
riprodurrà successivamente nel Suo corpo. – Il suo amore ha già il coltello
onde iniziare, con la vita stessa del Salvatore, la lunga morte che finirà poi
sulla croce. Il suo libero consenso sarà il colpo fatale, con il quale si
imporrà tutte le punizioni meritate dalle nostre iniquità. Ma cosa speriamo?
Quel colpo è già stato inferto: appena l’anima santa del Salvatore ha saputo del
sacrificio che gli veniva richiesto, il suo Cuore lo ha consumato: « Allora ho
detto: eccomi! ». Quindi, senza indugiare, quello fu il suo primo atto. Nello
stesso tempo che, con l’ardore dell’amore più filiale, si è unito a Dio, anche
il Cuore Divino si è unito a noi, si è identificato con noi. Né il numero né
l’orrore dei nostri crimini lo hanno fatto arrendere. Non solo la sua
misericordia non vedeva in essi un motivo per abbandonarci alla riprovazione,
ma anzi ne traeva motivo incoraggiante per immolarsi a nostra salvezza.
L’amore per gli
uominiha spinto il
Cuore di Gesùad immolarsi per
la nostra salvezza
Come spiegare una donazione così
completa, una immolazione così spontanea e assoluta di un Cuore infinitamente
santo a favore di esseri infinitamente colpevoli? Solo una spiegazione può dare
ragione a questo mistero; è quella di San Paolo, quando dice: « Mi ha amato e
ha dato se stesso per me ». Ci ha amato, … dice tutto. Se questa parola
contiene in sé un grande mistero, essa chiarisce anche tutti gli altri misteri.
Cosa non fa l’amore ardente anche nel cuore debole di una creatura? Ma se si
impossessa del Cuore di un Dio, qual meraviglia, per quanto grande possa
sembrare, può motivare il nostro stupore? C’è però qualcosa qui che può
sembrarci strana, anche se è un amore sconfinato. Che il Cuore di Gesù non si
sia fermato di fronte alle pene alle quali l’espiazione dei nostri peccati lo
ha condannato, lo si comprende. Ma, tra le condizioni impostegli, ce n’era una
che doveva sembrare incomparabilmente la più dura: la necessità di appropriarsi
delle nostre colpe! Sappiamo, e il Cuore Divino lo ha capito molto meglio di
noi, che l’espiazione che Egli era determinato ad offrire per noi non poteva
essere rigorosa se non nella misura in cui veniva offerta dal colpevole stesso.
Se chi fa ammenda non ha nulla a che fare con chi ha commesso il reato, c’è da
parte sua un atto di sacrificio, e da parte di chi accetta l’espiazione, un
atto di bontà motivato dallo stesso motivo. – Però così in nessun modo
interviene la giustizia. Essa deve tuttavia intervenire nella redenzione
dell’uomo, altrimenti tutti gli attributi divini non sarebbero glorificati allo
stesso modo. Di conseguenza la nostra vittima deve veramente caricarsi delle
nostre iniquità, così che Dio debba poter vedere in essa i nostri crimini, così
da poterli punire in Lui. Se il Verbo incarnato vuole soddisfare rigorosamente
per i nostri peccati, deve Egli stesso farsi peccato, secondo l’espressione
energica di San Paolo. Senza questo, possiamo essere perdonati, ma non redenti.
– Tra le condizioni della nostra rigenerazione c’era quella che sarebbe sembrata
come la più dolorosa al Cuore di Gesù. Le sofferenze, la morte, per quanto
ripugnanti fossero per un Uomo-Dio, non dovevano spaventarlo. Ma chi può
immaginare la ripugnanza che il Cuore di Gesù, così puro, così amante per la
sua bontà, così aborrente la minima colpa, ha dovuto provare quando gli è stato
chiesto di appropriarsi dei nostri crimini, per comparire davanti alla divina
santità di Dio suo Padre, oppresso da tutte le iniquità del mondo, come se le
avesse realmente commesse Egli stesso? – Se qualcosa avesse potuto far recedere
dal suo proposito il Cuore di Gesù, sarebbe stato sicuramente questa orrenda
necessità. Eppure, Egli non recede! Accetta con il peso dei nostri dolori anche
quello dei nostri crimini, senza paragone molto più schiaccianti. E questo, non
in figura ma in verità: Egli ha veramente fatto sue le nostre malattie, e ha
assunto i nostri dolori, dice Isaia. I commentatori più autorevoli applicano
queste parole alle malattie morali della nostra anima, ai nostri peccati e
anche ai nostri dolori fisici e corporali. – Questo è il doppio fardello che ha
pesato sul Cuore di Gesù fin dal suo primo battito. Così si è compiuta anche
l’altra parola del Profeta: « Dio pose in Lui tutte le nostre iniquità. » San
Paolo non ha fatto altro che ripetere quegli oracoli, quando ha detto: « Dio si
è ha fatto per noi peccato, Egli che non conosceva peccato, affinché fosse una
cosa sola con la giustizia di Dio ». La imputazione reale delle iniquità degli
uomini all’Uomo-Dio, principio anche dell’altrettanto vera attribuzione della
santità dell’Uomo-Dio agli uomini peccatori, è la parte più misteriosa della
nostra redenzione. È impossibile, tuttavia, dubitarne a motivo delle
testimonianze che abbiamo appena citato, e di molte altre che sarebbe stato
facile aggiungere.
Essere capo
dell’umanità, è un’altra
ragione per cui Cristo si è rivestito
dei nostri peccati.
Questo mistero si spiega con un altro mistero. Poiché il Verbo incarnato voleva essere il Capo dell’umanità e rendere tutti gli uomini veri membri del suo Corpo mistico, gli era necessario conoscere le malattie di quei membri, per comunicare loro i propri meriti. È possibile che un corpo vivo soffra in un membro senza che il capo non senta la ripercussione del dolore? Se la nostra incorporazione in Gesù Cristo non è una semplice figura retorica, ma una vera realtà, la trasfusione dei nostri crimini nel Santissimo Cuore di Gesù non può essere una semplice figura, bensì una realtà tanto vera quanto dolorosa per Lui. – Come possiamo dubitare che l’accettazione dei nostri crimini, il cui peso ha cominciato a schiacciare il Cuore di Gesù fin dal primo momento della sua vita, sia stata per Lui la causa di una passione incomparabilmente più insopportabile di quella che ha vissuto sul Calvario? La vera passione del suo Cuore è quella che Egli chiamava nella Scrittura la “Sua amarezza più amara”, e rispetto alla quale i tormenti fisici erano per Lui un vero sollievo. Si vede anche che la sua passione corporea non produce in Lui altro che un desiderio ardente: « Devo essere battezzato con un battesimo di sangue – dice parlando del sangue che doveva versare nel Pretorio – e come sono in angoscia, fino alla morte! » Sospira per queste torture come un uomo malato, consumato da una malattia dolorosa, sospira per il ferro salutare che ha da curarlo. – Ma quando, per bocca dei Profeti, esprime i sentimenti causati dal peso dei nostri crimini, fa sentire i sospiri più dolorosi: « Mio Dio, mio Dio – grida – perché mi hai abbandonato? La voce dei miei peccati mi toglie la salvezza ». E non è questo il calice che, nell’agonia del Giardino degli Ulivi, prega il Padre di portar via? Se le sue angustie fossero state causate dalla paura del tormento, il sentimento attuale di esse, avrebbe suscitato in Lui sospiri molto più acuti. Ma no, sotto il flagello dei carnefici non fu possibile ascoltare un solo lamento, mentre nel Getsemani volle manifestare la sua vera passione, quella che aveva nascosto nel profondo del suo Cuore per trentatré anni. Sul Calvario il suo amore lo aiuterà a combattere contro il dolore; nell’Orto degli Ulivi il suo amore rende più vivo il suo dolore e più doloroso il sentimento dei nostri peccati. Se ciò che dovrebbe sostenerlo lo travolge, come può non soccombere? Ci dimentichiamo troppo di questa passione del Cuore di Gesù. Non lo ringraziamo abbastanza per questa dimostrazione d’amore per noi, in cui fa di se stesso un peccatore al nostro posto. Se ci pensassimo più spesso, la nostra riconoscenza per il Salvatore sarebbe molto più viva. Si comprenderebbe meglio il significato delle parole di San Paolo: « Mi ha amato e si è sacrificato per me ». Non avrei mai creduto possibile che un Dio potesse amare le sue creature fino all’eccesso, rendersi in qualche modo nemico, abbattere su di sé i colpi della propria giustizia, farsi peccatore per comunicare la sua santità ai peccatori, conciliare così le esigenze della giustizia con quella della misericordia, fare della nostra rigenerazione l’opera di un amore incomparabilmente più generoso e più libero che se ci fosse stato concesso il perdono senza alcuna condizione, e allo stesso tempo compiere un’opera soddisfattoria, senza paragoni più rigorosa di quella che l’intero genere umano avrebbe potuto offrire se fosse stata immersa nelle fiamme dell’inferno per tutta l’eternità. « Era giusto – dice San Paolo – che Colui al quale tutte le cose sono destinate, avendo portato alla gloria molti figli, si compiacesse della passione del loro Autore. Quando eravamo morti per il peccato, Egli ci ha dato la vita insieme a Lui, perdonandoci tutti i nostri peccati, annullando il decreto che era contro di noi, che ci era contrario, che ha cancellato il documento scritto del nostro debito, inchiodandolo alla croce » (Hebr. II, 10 – Col. II, 13-14). – Sì, solo l’amore di un Dio può fare tali meraviglie. Ma chi non amerebbe un amore del genere? Chi potrebbe essere indifferente a un sacrificio così immeritato? Chi contesterà al Cuore di Gesù i diritti che il suo Sacrificio gli ha dato sul cuore di tutti gli uomini? Chi non rimpiangerà l’ingratitudine di un così gran numero di anime redente dal Divin Salvatore, e chi oserà allontanarsi ostinatamente da Lui? Chi non sospira per la venuta del Suo regno e non lavora con tutte le sue forze per affrettarla? … e che non ripeterà con San Paolo: « Colui che non ama il Salvatore Gesù, che è l’immagine del Dio invisibile, il primogenito di ogni creatura, sia anatema; perché in Lui sono state create tutte le cose in cielo e in terra, le visibili e le invisibili, i troni, le dominazioni, i principati, le potenze: tutte le cose sono state create da Lui e in Lui, ed Egli è prima di tutte le cose, e da Lui tutte le cose sussistono in Lui. Ed Egli è il Capo del corpo della Chiesa, è principio, il primogenito dai morti: così che Egli ha il primato in tutte le cose. Perché in Lui ha voluto far abitare tutte le cose. Perché in Lui ha voluto far abitare ogni pienezza e riconciliare tutte le cose attraverso di Lui, facendo la pace con il sangue della Sua croce, con ciò che è sulla terra e come con ciò che è nei cieli. »
ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉSET MÉDITÉS
A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES
SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.
[I Salmi
tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e
delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli
oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]
Par M. l’Abbé
J.-M. PÉRONNE,
CHANOINE
TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et
d’Éloquence sacrée.
[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di
Scrittura santa e sacra Eloquenza]
TOME TROISIÈME (III)
PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR
13, RUE
DELAMMIE, 1878
IMPRIM.
Soissons, le 18
août 1878.
f ODON, Evêque de Soissons et Laon.
Salmo 130
Canticum
graduum David.
[1] Domine, non est exaltatum cor meum,
neque elati sunt oculi mei, neque ambulavi in magnis, neque in mirabilibus super me.
[2] Si non humiliter sentiebam, sed exaltavi animam meam; sicut ablactatus est super matre sua, ita retributio in anima mea.
[3] Speret Israel in Domino, ex hoc nunc et usque in sæculum.
[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.
Vol. XI
Venezia, Girol.
Tasso ed. MDCCCXXXI]
SALMO CXXX.
Davide, accusato spesso di superbia e di ambizione di regno, loda la sua umiltà e modestia, non per vanto, ma per animare il popolo col suo esempio a non confidare che in Dio, del cui solo aiuto è frutto prezioso l’umiltà.
Cantico dei gradi.
1.
Signore, non si è insuperbito il mio cuore, ed alti non portai gli occhi miei. Né
aspirai a cose grandi, né a cose meravigliose sopra la mia capacità.
2.
Se io (dando luogo al fasto dell’anima mia) non ebbi bassi sentimenti. Quali
son quei d’un fanciullo, divezzato di fresco, verso sua madre: così sia data a
me la mercede.
3.
Nel Signore spéri Israele, da questo punto e pei secoli.
Sommario analitico
Per giustificarsi dal rimprovero di
orgoglio che gli si faceva alla corte del re Saul ed anche nella sua famiglia,
ed anche a nome del suo popolo, David dichiara che non si è inorgoglito dei
successi che doveva a Dio solo, (2).
(1) L’ultimo versetto è forse anche la risposta di un coro o un’aggiunta
fatta, nel tempo della cattività, all’opera primaria di Davide, secondo
l’opinione che considera Davide l’autore di questa composizione,
(2) Questo salmo pare avere Davide come autore; d’altra parte, l’arditezza e
l’oscurità dello stile, dice M. Le Hir, attestano la sua antichità.
I. Allontana da lui tutte le caratteristiche
dell’orgoglio:
1° Il rigonfiamento del cuore; egli non
ha desiderato i vani onori e non si è chiuso in sentimenti di vana gloria;
2° La fierezza dello sguardo; egli non
si è elevato con arroganza attribuendosi una gloria che non gli è dovuta;
3 °
L’ambizione; egli rigetta ogni desiderio di ambizione per le grandezze;
4 ° La
presunzione nelle imprese (1).
II. – Egli si sottomette al castigo più rigoroso, cioè alla privazione di
ogni consolazione, se non segue le vie dell’umiltà (2).
III.-
Egli eccita, e con lui il popolo Fedele a sperare in Dio sin da ora e sempre (3).
Spiegazioni e
considerazioni
I. — 1
ff. 1. – Un gran numero
di orgogliosi, lo sono interiormente; essi hanno una grande stima di se stessi,
ma affettano esternamente umiltà; un gran numero di altri esprimono nel loro
sguardo altero e sdegnoso tutto ciò che c’è di sprezzante verso i loro simili
nel fondo del cuore, pieno di iattanza e di gonfiore. (Bellarm.) – Il Re-Profeta
ci indica qui tutti i gradi dell’orgoglio, gonfiore del cuore: « Signore, il
mio cuore non è rigonfio, » ecco l’orgoglio attaccato alla sua sorgente: « Ed i
miei occhi non si sono alzati, » ecco l’ostentazione ed il fasto represso. Ah,
Signore, io non ho avuto questo disdegno che mi ha impedito di gettare gli
occhi sui mortali troppo rampanti, e che fa dire all’anima arrogante: « Non ci
sono che io sulla terra … » (Bossuet, Or. f. de Mar. Th. et Serm. sur
l’Ambit.) – « Perché il Vostro spirito si gonfia contro Dio, perché il
Vostro cuore concepisce così alti sentimenti di se stesso, e perché lo
smarrimento dei vostri occhi testimonia l’orgoglio dei vostri pensieri? » (Giob.
XV, 12). L’orgoglio ha sempre il suo principio nel cuore, la fierezza
dello sguardo ne è ordinariamente l’annuncio; ma talvolta l’orgoglioso sa
prendere un atteggiamento modesto, e talvolta anche l’uomo più umile ha la
sventura di sembrare fiero affin di dargli l’occasione di umiliarsi di un
difetto che la natura ha messo in lui e per il quale il cuore non ha parte. – «
Io non cammino nei vasti pensieri né nelle meraviglie che mi si presentano. »
Egli combatte qui gli eccessi di orgoglio ed i disegni passionali che
concepisce. L’orgoglio che monta sempre, dopo aver portato le sue pretese a ciò
che la grandezza umana ha di più solido e di meno proibito, spinge i suoi
disegni fino alla stravaganza, e si abbandona temerariamente ai progetti
insensati, come faceva questo re superbo (degna figura dell’angelo ribelle)
quando diceva in cuor suo: « Io mi eleverò sopra le nuvole, poserò il mio trono
sugli astri, e sarò simile all’Altissimo (Isai. XIV, 13, 14). Io non mi perdo,
dice Davide, in tali eccessi, ed ecco l’orgoglio disprezzato nelle sue follie (Bossuet,
ibid.) – Quanto è da temere
soprattutto: l’elevazione che risulta dall’abbondanza della grazia! Che nessuno
dunque si inorgoglisca dei doni di Dio, ma piuttosto ciascuno conservi l’umiltà
e faccia ciò che è scritto: « Più siete grandi e più dovete umiliarvi in ogni
cosa, e troverete grazia davanti a Dio. » (Eccli. III, 20). Quanto bisogna
temere l’orgoglio che risulterebbe dai doni di Dio! Benché l’Apostolo san Paolo
da persecutore fosse divenuto predicatore, egli ottenne tuttavia, in tutti i
suoi lavori apostolici, una grazia più abbondante degli altri Apostoli, e con
questo Dio volle mostrare che ciò che dà, appartiene a Lui, e non appartiene
all’uomo … Egli ha dunque ricevuto la grazia più eccellente. Le lettere
dell’Apostolo san Paolo nella Chiesa, hanno più spazio di quelle degli altri
Apostoli. In effetti gli uni non hanno scritto, ma si sono limitati
all’insegnamento della parola; gli altri hanno scritto, ma non hanno scritto né
tanto come s. Paolo, né sotto l’ispirazione di una grazia così abbondante.
Avendo dunque ricevuto tali grazie, avendo meritato che Dio gli facesse sì
grandi doni, cosa ha detto in una delle sue lettere? « E per timore che la
grandezza delle rivelazioni non mi elevi, Egli mi ha messo una spina nella
carne, un angelo di satana, per schiaffeggiarmi. » (II Cor. XII, 7). Cosa
vuol dire con ciò? Per paura che non si erga orgogliosamente come un giovane,
egli è schiaffeggiato come un bambino. E da chi? Da un angelo di satana (S.
Agost.) – Quanti uomini si vantano di aver fatto o di poter fare delle
cose più grandi e stupefacenti che verità non lo permetta? Chi si lusinga di
successi straordinari, che credono di eseguire dei capolavori, e che non
contano che su se stessi per riuscire nei loro progetti! Quanti altri si fanno
serie illusioni, immaginano di potersi compiere delle opera al di sopra delle
loro forze e si ergono sopra un sagrato ben al di sopra del loro potere e delle
loro opere! (Bellarm. Berthier). – Il
Profeta, non contento di aver dichiarato a Dio che sonda i cuori, che aveva
sempre avuto in orrore ogni orgoglio, si condanna ad essere private delle
dolcezze della contemplazione delle cose divine, o dei favori della liberalità
dell’Altissimo, se si lasciasse trasportare dall’orgoglio. Così come il bambino
svezzato prima del tempo resta triste e gemente sul seno o sulle ginocchia di
sua madre, perché lo si è privato di questo latte sì dolce alle sue labbra e
delle delizie della sua età, così anche la mia anima sia privata della dolcezza
della consolazione divina, le … mie delizie preferite, le mie uniche delizie.
La grandezza dei castighi ai quali il Profeta si vota, non sarebbe stato apprezzato
che da coloro che, ripiti del medesimo spirito, hanno gustato quanto il Signore
sia dolce. (Bellarm.). – Dio, in effetti, priva le anime orgogliose del
latte della sua grazia, della dolcezza del suo amore, e non rimpiazza i suoi
favori con altri. Quando l’uomo si eleva, si abbandona alla stima di se stesso,
si perde nel fumo delle sue idee, Dio non si comunica a lui; Egli pertanto non
spande più in lui l’unzione della sua parola divina; I tocchi segreti che Egli
ancora dà, non fanno più impressione su di lui, e sono tratti passeggeri che
non lasciano trace (Berthier). – La conclusione di questo salmo indica lo scopo che
si è proposto Davide facendo l’elogio della sua umiltà. – Quest’uomo veramente
umile non ha potuto avere l’intenzione di esaltare la sua virtù, ma ha voluto
insegnare al popolo di Israele, quanto poco debbano presumere di sé, e quale
immensa fiducia debbano avere in Dio (Bellarm.) – « … Fin nei secoli, »
cioè finché non giungiamo all’eternità, sperando nel Signore nostro Dio, perché
al di là di questo termine la speranza non avrà più luogo ed avrà fine, perché
allora noi gioiremo di tutto ciò che avremo sperato (S. Agost.).
La Nova Impendet
è una lettera enciclica che il Sommo Pontefice Pio XI, scrisse in un momento
tragico per la storia dell’Europa e dell’umanità in generale, per le condizioni
economiche che si erano deteriorate in modo estremo per le note vicende della
cosiddetta crisi economica del ’29. In particolare il Santo Padre ha a cuore le
condizioni di grande difficoltà vissute dai soggetti più deboli della
popolazione, soprattutto i bambini. Il Pontefice deplora tra l’altro la corsa
agli armamenti di Nazioni che vivevano in grandi ristrettezze economiche, ove
non c’erano soldi per il pane, ma ce n’erano in abbondanza quando si trattava
di acquistare o produrre armi ed ordigni da guerra « … e quindi non
ultimo coefficiente della straordinaria crisi presente è senza dubbio la corsa
sfrenata agli armamenti, … ». Passa poi alle esortazioni ad agire per i suoi
Vescovi e per i Cristiani animandoli ad una carità ardente. Arriva poi il
decisivo invito alla preghiera ed all’azione spirituale « … ma poiché tutti gli
sforzi umani non bastano all’intento senza l’aiuto divino, innalziamo tutti
fervide preci al Datore di ogni bene perché nella Sua infinita misericordia
abbrevi il periodo della tribolazione, e anche a nome dei fratelli che soffrono
ripetiamo più che mai intensa la preghiera che Gesù stesso Ci ha insegnato: Dacci
oggi il nostro pane quotidiano ».
Oggi che viviamo per altri versi condizioni di vita ancor più drammatiche con
imposizioni restrittive di ogni libertà, seppure la più elementare, e
sicuramente prodromiche a crisi economiche di analoga o forse maggior portata,
le parole del Pontefice, Papa Ratti, quasi un secolo dopo, sono più che mai
attuali e da rimeditare con attenzione visto che le Autorità spirituali legittime
sono impedite nelle loro funzioni usurpate da una accozzaglia di loschi falsi
prelati, marrani, apostati e sodomiti, diretti emissari dell’anticristo e dei
poteri infernali che hanno oggi assunto il controllo di tutte le attività
umane, imponendo la “corona” luciferina a dominio delle genti sottomesse con il
terrore, la violenza mediatica e militare. È vero che tutto questo, per i veri
Cattolici è un periodo di grazia immensa nell’acquisizione di meriti per l’eterna
gloria: per la pazienza, l’ubbidienza a personaggi ignoranti, protervi, animati
da una volontà a compiere il male per il solo gusto del male, la preghiera più
intensa e la meditazione dottrinale e spirituale, ma ancora una volta, quello che
più fa male è vedere la sofferenza di tante creature inermi, soprattutto i bambini,
sacrificati al moloch dei satanisti di stato, dei media, dei poteri finanziari
occulti (ma non troppo) avidi e senza scrupoli … ma prima o poi moriranno anch’essi,
senza portare con sé un solo centesimo di quanto rubato, nessun trofeo
onorifico, nessun oggetto d’oro o tecnologico o da guerra e … si troveranno come
Giudice inflessibile quel Cristo che essi hanno combattuto, offeso, vilipeso,
schernito, perseguitato nei suoi fedeli … e là sarà pianto e stridor di denti
nei secoli dei secoli, senza potersi rifugiare in logge, contrologge, conventicole,
presso amici potenti, nei palazzi del potere politico o nei templi usurpati ai
Cristiani.
NOVA IMPENDET
LETTERA
ENCICLICA
DEL SOMMO
PONTEFICE PIO XI AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA, SULLA CRISI ECONOMICA DEL 1929
Venerabili Fratelli, salute e Apostolica
Benedizione.
Un nuovo flagello minaccia e in gran
parte già colpisce il gregge a Noi affidato, e più duramente la porzione più
tenera e più affettuosamente amata, cioè l’infanzia, gli umili, i lavoratori
meno abbienti e i proletari. Parliamo della grave angustia e della crisi
finanziaria che incombe sui popoli e porta in tutti i paesi ad un continuo e
pauroso incremento della disoccupazione. Vediamo infatti costretti alla inerzia
e poi ridotti all’indigenza anche estrema, con le loro famiglie, tanta
moltitudine di onesti e volenterosi operai, di null’altro più desiderosi che di
guadagnare onoratamente col sudore della fronte, giusta il mandato divino, il
pane quotidiano che invocano ogni giorno dal Signore. I loro gemiti commuovono
il Nostro cuore paterno e Ci fanno ripetere, con la medesima tenerezza di
commiserazione, la parola uscita già dal Cuore amatissimo del Divino Maestro
sopra la folla languente di fame: «Ho compassione di questa folla »[1]. Ma più appassionata si rivolge
la Nostra commiserazione alla immensa moltitudine di bambini, le vittime
più innocenti di queste tristissime condizioni di cose; implorano pane, « ma
non c’era chi ne desse loro »[2], e nello
squallore della miseria sono condannati a vedere sfiorire quella gioia e quel
sorriso che la loro anima ingenua cerca inconsciamente intorno a sé. – Ed ora si avvicina l’inverno, e con esso
tutto il seguito delle sofferenze e privazioni che la gelida stagione porta ai
poveri ed alla tenera infanzia specialmente, per cui è da temersi che venga
aggravandosi la piaga della disoccupazione che sopra abbiamo deprecato; in modo
che non provvedendosi alla indigenza di tante misere famiglie e dei loro bimbi
abbandonati, esse siano — che Dio non voglia! — sospinte all’esasperazione. – A
tutto ciò pensa con trepidazione il Nostro cuore di Padre, e pertanto come già
fecero in simili occasioni i Nostri predecessori ed ancora ultimamente il
Nostro immediato Predecessore Benedetto XV di s.m., alziamo la nostra voce e
indirizziamo il Nostro appello a quanti hanno sensi di fede e di amore
cristiano: l‘appello quasi
ad una crociata di carità e di soccorso. La quale, mentre provvederà a
sfamare i corpi, darà insieme conforto ed aiuto alle anime; farà in esse rinascere
la serena fiducia, allontanandone quei tristi pensieri che la miseria suole
infondere negli animi. Spegnerà le fiamme degli odi e delle passioni che
dividono, per suscitarvi e mantenervi quelle dell’amore e della concordia, e il
più stretto e più nobile vincolo della pace e prosperità individuale e sociale.
– È dunque una crociata di pietà e di
amore e senza dubbio anche di sacrificio quella a cui tutti richiamiamo, quali
figli di uno stesso Padre, membri di una medesima grande famiglia che è la
famiglia stessa di Dio, tutti partecipi quindi, come i fratelli di una stessa
famiglia, sia della prosperità e della gioia, come dell’avversità e del dolore
che colpiscono i nostri fratelli. A
questa crociata richiamiamo tutti come ad un sacro dovere inerente a quel
precetto tutto proprio della legge evangelica e da Gesù proclamato come
precetto suo massimo e primo fra tutti i precetti, anzi compendio e sintesi di
tutti gli altri, il precetto della carità che tanto inculcò a simile proposito
e ripetutamente, quasi tessera del suo pontificato in quei giorni di odi e di
guerra implacabili il Nostro carissimo Predecessore. Ora Noi additiamo questo soavissimo precetto,
non solo come dovere supremo e comprensivo di tutta la legge cristiana, ma
altresì quale atto e sublime ideale, proposto in modo più speciale alle anime
più generose e più aperte ai sensi della gentilezza e della perfezione
evangelica. Né crediamo dovervi
insistere con molte parole, tanto appare evidente che questa sola generosità di
cuori, questo solo fervore di anime cristiane col loro impeto santo di
dedizione e di sacrificio per la salvezza dei fratelli e segnatamente dei più
compassionevoli e bisognosi, com’è lo stuolo innocente dei bambini, riusciranno
a superare, nello sforzo della concordia unanime, le più gravi difficoltà
dell’ora presente. E poiché da una parte effetto della rivalità dei popoli,
dall’altra causa di enormi dispendi, sottratti alla pubblica agiatezza, e
quindi non ultimo coefficiente della straordinaria crisi presente è senza dubbio
la corsa sfrenata agli armamenti, non possiamo astenerCi dal rinnovare la
provvida ammonizione Nostra [3] e dello stesso
Nostro Predecessore, dolenti che non sia stata finora ascoltata ed esortiamo
insieme Voi tutti, Venerabili Fratelli, perché con tutti i mezzi a vostra
disposizione di predicazione e di stampa vi adoperiate a illuminare le menti e
ad aprire i cuori secondo i più sicuri dettami della retta ragione, e molto più
ancora della legge cristiana. – Ci
arride la speranza che ciascuno di Voi possa essere il punto di riferimento
della carità e della generosità dei propri fedeli, ed insieme il centro delle
distribuzioni dei soccorsi da loro offerti. Se in qualche diocesi si trovasse
più opportuno, non vediamo difficoltà che facciate capo ai rispettivi
Metropoliti oppure a qualche Istituzione caritativa di provata efficienza e di
vostra fiducia. – Già vi abbiamo
esortato ad usare tutti i mezzi per voi disponibili, la preghiera, la
predicazione, la stampa, ma vogliamo essere i primi a rivolgerCi anche ai
vostri fedeli, per pregarli « in visceribus Christi », a rispondere con
generosa carità al vostro appello, fin d’ora facendo tutto quello che voi
verrete mettendo nei cuori, dopo averli portati a conoscenza di questa Nostra
lettera enciclica. – Ma poiché tutti gli sforzi umani
non bastano all’intento senza l’aiuto divino, innalziamo tutti fervide preci al
Datore di ogni bene perché nella Sua infinita misericordia abbrevi il periodo
della tribolazione, e anche a nome dei fratelli che soffrono ripetiamo più che
mai intensa la preghiera che Gesù stesso Ci ha insegnato: «Dacci oggi il
nostro pane quotidiano ». – Ricordino
tutti, a loro incitamento e conforto, che il Redentore riterrà come fatto a se
stesso quel che noi avremo fatto per i suoi poveri, e che, secondo un’altra sua
consolante parola, aver cura dei bambini per amor suo è come aver cura della sua
stessa persona. – La festa infine che
oggi la Chiesa celebra Ci fa ricordare, quasi a conclusione delle Nostre esortazioni,
le commoventi parole di Gesù che dopo aver, secondo la frase di San Giovanni
Crisostomo, innalzato mura inespugnabili a tutela delle anime dei bambini,
soggiungeva: «Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli poiché
vi dico che i loro Angeli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli
» . – E saranno questi Angeli che nel
Cielo presenteranno al Signore gli atti di carità compiuti da cuori generosi
verso i bambini, ed essi pure otterranno, a tutti coloro che avranno preso a
cuore una causa così santa, le più copiose benedizioni. – Inoltre, avvicinandosi ormai l’annuale festa
di Gesù Cristo Re, il cui regno e la cui pace abbiamo auspicato fin dagli inizi
del Nostro Pontificato, Ci sembra grandemente opportuno che in preparazione di
essa si tengano nelle varie chiese parrocchiali solenni tridui per implorare da
Dio pensieri di pace e i suoi doni. In auspicio dei quali impartiamo a voi,
Venerabili Fratelli, e a tutti coloro che corrisponderanno al Nostro paterno
appello l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma,
presso San Pietro, il 2 ottobre, festa dei Santi Angeli Custodi, dell’anno
1931, decimo del Nostro Pontificato.
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
Semidoppio. –
Paramenti bianchi.
La liturgia di questo giorno esalta la giustizia di Dio (Intr., Vang.) che si manifesta col trionfo di Gesù e l’invio dello Spirito Santo. « La destra del Signore ha operato grandi cose risuscitando Cristo da morte » (All.) e facendolo salire al cielo nel giorno dell’Ascensione. È bene per noi che Gesù lasci la terra, poiché dal cielo Egli manderà alla sua Chiesa lo Spirito di verità (Vang.), per eccellenza, che viene dal Padre dei lumi (Ep.). Lo Spirito Santo ci insegnerà ogni verità (Vang., Off., Secr.), esso « ci annunzierà » quello che Gesù gli dirà e noi saremo salvi se ascolteremo questa parola di vita (Ep.). Lo Spirito Santo ci dirà le meraviglie che Dio ha operate per il Figlio (Intr., Off.) e questa testimonianza della splendida giustizia resa a Nostro Signore consolerà le anime nostre e ci sarà di sostegno in mezzo alle persecuzioni. Siccome, secondo quanto dice S. Giacomo, «la prova della nostra fede produce la pazienza e questa bandisce l’incostanza e rende le opere perfette », noi imiteremo in tal modo la pazienza del nostro Dio « e del Padre nostro », nel quale « non vi è né variazione né cambiamento » (Ep.), e « i nostri cuori saranno allora là dove si trovano le vere gioie » (Or.). Lo Spirito Santo convincerà inoltre satana e il mondo del peccato che hanno immesso mettendo a morte Gesù (Vang., Comm.) e continuando a perseguitarlo nella sua Chiesa.
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps CXVII: 1-2
Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja.
[Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]
Salvávit sibi déxtera ejus: et bráchium sanctum ejus.
[Gli diedero la vittoria la sua destra e il suo santo braccio.]
Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja.
[Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]
Oratio
Orémus.
Deus, qui fidélium mentes uníus
éfficis voluntátis: da pópulis tuis id amáre quod praecipis, id desideráre quod
promíttis; ut inter mundánas varietátes ibi nostra fixa sint corda, ubi vera
sunt gáudia.
[O Dio, che rendi di un sol volere gli animi dei fedeli: concedi ai tuoi popoli di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti; affinché, in mezzo al fluttuare delle umane vicende, i nostri cuori siano fissi laddove sono le vere gioie.]
“Caríssimi: Omne datum óptimum, et omne donum perféctum desúrsum est, descéndens a Patre lúminum, apud quem non est transmutátio nec vicissitúdinis obumbrátio. Voluntárie enim génuit nos verbo veritátis, ut simus inítium áliquod creatúræ ejus. Scitis, fratres mei dilectíssimi. Sit autem omnis homo velox ad audiéndum: tardus autem ad loquéndum et tardus ad iram. Ira enim viri justítiam Dei non operátur. Propter quod abjiciéntes omnem immundítiam et abundántiam malítiæ, in mansuetúdine suscípite ínsitum verbum, quod potest salváre ánimas vestras.”
OMELIA I
[A. Castellazzi: Alla
Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]
LA MANSUETUDINE
“Carissimi: Ogni grazia eccellente e ogni dono perfetto vien dall’alto
dal Padre dei lumi, nel quale non è variazione, né ombra di mutamento. Egli ci
ha generati per mezzo della parola di verità, ché siamo quali primizie delle
sue creature. Voi lo sapete, fratelli miei dilettissimi. Che ogni uomo sia
pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all’ira: poiché l’ira dell’uomo non
opera ciò che è giusto davanti a Dio. Perciò rigettando ogni sozzura e sovrabbondanza
di malizia, accogliete docilmente la parola inserita in voi, la quale può
salvare le anime vostre”. (Giac. 1, 17-21).
L’Apostolo S. Giacomo, detto il Minore, era venuto a conoscere che tra
i Cristiani convertiti dal Giudaismo e disseminati fuori della Palestina
serpeggiavano gravi errori, nell’interpretazione della dottrina loro insegnata,
specialmente rispetto alla necessità delle buone opere. Inoltre, in mezzo alle
tribolazioni cui andavano soggetti, c’era pericolo che riuscissero a farsi strada
le vecchie abitudini. Per premunire contro l’errore questi suoi connazionali
dispersi, e per richiamarli a una vita più austera, S. Giacomo scrive loro una
lettera. In essa si insiste sulla necessità che alla fede vadano congiunte le
buone opere. Si danno, poi, varie norme, perché tanto nella vita privata,
quanto nelle relazioni sociali siano guidati da uno spirito veramente
cristiano; e vengono confortati nelle loro tribolazioni. L’Epistola è tolta dal
cap. 1 di questa lettera. Da Dio deriva ogni bene. Da Lui abbiamo avuto il dono
inestimabile della vita della grazia, per mezzo della predicazione del Vangelo,
parola di verità. Questa parola di verità ciascuno deve accogliere con
prontezza, con semplicità, con spirito di mansuetudine. Parliamo appunto quest’oggi
della mansuetudine, la quale
1. È l’opposto del falso zelo,
2. Non ha a che fare con l’ignavia.
3. È un apostolato efficace.
1.
Che
ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento al parlare, lento all’ira. Nelle dispute e nelle discussioni è molto
facile l’accalorarsi, il risentirsi e, infine, l’ira. Coloro, ai quali si
rivolge S. Giacomo, potevano dire che, trattandosi di discussioni sulla parola
di Dio ad essi predicata, la loro ira era frutto di zelo. Non è difficile
osservare che la loro ira, invece di edificare, distruggeva, perché contrariava
le eventuali buone disposizioni dell’altra parte. Nessuna cosa è più
raccomandabile dello zelo. Basterebbe ricordare la consolantissima promessa che
leggiamo, un po’ più avanti, nella lettera di S. Giacomo: « Fratelli miei, se
alcuno di voi abbia deviato dalla verità, e un altrove lo riconduce, sappia che
egli ha ricondotto un peccatore dall’errore della sua via salverà l’anima sua
dalla morte, e coprirà la moltitudine dei suoi peccati » (Giac. V, 20.). Ma non
è encomiabile uno zelo incomposto, a base di sentimenti e di invettive fuori di
luogo. Noi ammiriamo la grandezza dello zelo di S. Paolo. Restiamo come
sbalorditi, considerando quanto egli ha operato per la gloria di Dio e per la
salvezza delle anime. Sentiamo, però, da lui stesso di che sorta era il suo
zelo: «Mi son fatto debole coi deboli: mi faccio tutto a tutti, per fare a ogni
costo alcuni salvi» (1 Cor. IX, 22). Non vuol imporsi senza necessità; non fa
valere, senza bisogno, la sua superiorità, ma si adatta a tutti, pur di poter
trarre anime a Dio. Anche il medico, quando può ottenere la guarigione con
mezzi blandi, non ricorre ai mezzi forti. Questi li riserva per il caso di
inutilità degli altri mezzi. Gesù ci ha detto tutta la grandezza del suo zelo in
quelle parole: «Sono venuto a portar fuoco sulla terra, e che cosa desidero, se
non che si accenda?» (Luc. XII, 49). Ma il suo zelo si esercita nella più
perfetta mansuetudine. Il Profeta, parlando di Lui, aveva detto: «Egli non
griderà e non sarà accettator di persone, né si udrà di fuori la sua voce. Egli
non spezzerà la canna fessa, e non spegnerà il lucignolo che fuma…» (Is. XLII,
2-3). Ed infatti, egli mostra sempre e in tutto una mansuetudine inarrivabile.
Con grande pazienza e carità avvicina i deboli, i vacillanti, e ravviva in loro
la vita dello spirito, che sta per spegnersi. La sua mansuetudine risalta nelle
contraddizioni, nelle derisioni, nelle contumelie, nelle insolenze, nelle
minacce, nell’abbandono, nella negazione, nel tradimento. « Egli maledetto, non
rispondeva con maledizioni, e, maltrattato, non minacciava ». Per non sbagliare
quando esercitiamo lo zelo facciamoci questa domanda: Come farebbe Gesù Cristo,
se fosse al mio posto?
2.
S. Giacomo dà la ragione del perché l’uomo deve lasciarsi dominare non dall’ira, ma dallo spirito di mansuetudine: poiché l’ira dell’uomo non opera ciò che è giusto davanti a Dio. Chi si lascia prendere dall’ira non può operare virtuosamente; anzi si metterebbe nella circostanza di trasgredire su molti punti la legge di Dio. Con l’animo tranquillo e sereno, invece, si è nella miglior disposizione per accogliere la parola di Dio, farla fruttificare e progredire così, di virtù in virtù. Stiamo attenti, però, a non scambiare la mansuetudine con l’ignavia, pericolo molto facile e assai comune, «Bisogna far attenzione — osserva in proposito il Crisostomo — che uno, avendo un vizio, non creda di possedere una virtù… che cosa è dunque la mansuetudine, che cosa è l’ignavia? Quando tacciamo, invece di prender le difese, se altri sono maltrattati, è ignavia; quando, al contrario, essendo maltrattati noi, sopportiamo, è mansuetudine » (In Act. Ap. Hom. 48, 3). Quando p. e. si commette il male alla nostra presenza, e noi, intervenendo, potremmo impedirlo, il tacere non è mansuetudine, ma ignavia. Un bel tacer non fu mai scritto, diciamo per scusarci. Verissimo; ma a suo tempo e a suo luogo, non qui. Quando i genitori, i superiori, i padroni chiudono gli occhi sulle mancanze dei figli e dei dipendenti; non cercano di porre un freno al loro malfare, non sono dei mansueti, ma dei cani muti. E spesso, la loro creduta mansuetudine è una vera cooperazione al male degli altri. La scusa non manca mai. Io ho un cuore troppo buono, ho un carattere mite. Ci sono di quelli che hanno un carattere austero e pensano di dover trattare con austerità: io, invece, preferisco vivere e lasciar vivere. Scuse che, ridotte al loro vero valore, vogliono dire: Non voglio noie; ho paura a fare il mio dovere; ci tengo ai privilegi del mio stato, ma non ne voglio i pesi. Costoro scambiano un atto di debolezza con una virtù che richiede dell’eroismo. «La mansuetudine — dice ancora il Crisostomo — è indizio di grande fortezza; essa richiede un animo generoso e virile». Di fatti, si tratta di vincere noi stessi, cosa assai più difficile che vincere gli altri. I genitori non devono provocare i figli all’ira, trattandoli con durezza o con soverchio rigore; sarebbe uno sbaglio. Ma sarebbe uno sbaglio ancor peggiore non ammonirli, e, quando è il caso, non castigarli. I superiori devono trattare con benevolenza i loro dipendenti e soggetti; ma quando si tratta di preservare i buoni dal contagio e dallo scandalo, è santo e lodevole il rigore, è giusta la punizione. Nessuno oserebbe condannare il pastore che percuote il lupo per salvare le pecore. Quando si tratta di por fine all’ingiustizia degli uni, e di mettere al riparo dai soprusi gli altri, nessun superiore sarà criticato, se prende delle misure severe; e, nessuno potrebbe, ragionevolmente, fargli appunto di mancanza di mansuetudine. L’Apostolo che era tanto mansueto da poter dire: « Maledetti, noi benediciamo; perseguitati, sopportiamo: ingiuriati, supplichiamo» (1 Cor. IV, 12-13); quando a Corinto un Cristiano dà un gravissimo scandalo pubblico, non solo, per mezzo della scomunica, separa il peccatore dalla Chiesa; ma lo sottopone al dominio di satana, perché lo tormenti nel corpo con malattie e dolori, che servano ad indurlo al pentimento. Gesù Cristo, che si presenta a noi come modello di mansuetudine; non ha mancato di usare parole roventi contro gli scandalosi, contro i Farisei, contro i profanatori del tempio. In certi casi è nostro dovere usare del rigore, e allora, «beato chi sa unire insieme la severità e la mansuetudine» (S. Ambrogio. Epist. 74, 10).
3.
Accogliete
docilmente la parola inserita in voi, la quale può salvare le anime vostre. Come la superbia è di ostacolo a ricevere con
frutto la parola di Dio, similmente, come abbiamo già osservato, la mansuetudine
è condizione favorevole ad accoglierla e a farla fruttificare. Ora vogliamo far
notare che non solo la mansuetudine cristiana è ottima disposizione ad
accogliere e a far fruttificare per la vita eterna la parola di Dio in noi; ma
è un’ottima condizione a farla ricevere con frutto dagli altri. Generalmente,
l’uomo che non si inquieta per un affronto, che non si scoraggia per una
ripulsa, che non si turba per un’ingiuria, esercita molta forza sopra i suoi
oppositori. Se è costante, riesce a vincerli e a dominarli. E questo avviene
nel mondo, dove il comportamento mansueto è effetto di temperamento, più spesso
di calcolo, non raramente di propositi malvagi. Più efficace deve,
necessariamente, riuscire un contegno mansueto, quando è ispirato dalla fede.
Chi è assuefatto a dominare il proprio cuore con la vittoria sulle passioni,
trova la via a dominare il cuore degli altri. Gli Apostoli, cresciuti alla
scuola di Gesù Cristo, compivano la missione loro affidata tra numerosi
contrasti e difficoltà; ma senza che si potesse scorgere in essi un’ombra di
amarezza, di risentimento, di collera. I loro successori, che vanno a portar la
luce del Vangelo tra le nazioni che vivono nell’ignoranza e nell’errore,
cominciano a guadagnar gli animi, magari dopo anni e anni, quando hanno dato
una prova costante del loro animo mite e mansueto. Accolti male, osservati con
diffidenza, importunati, angariati in mille modi, si mostrano sempre uguali a
se stessi. Non parole aspre, non inquietudini, non ripicchi. A questo modo si
comincia a vincere la diffidenza degli abitanti e le loro prevenzioni, e si
finisce con edificarli mediante l’esercizio delle altre virtù. Allora la via
delle conversioni è aperta. Gesù Cristo ha detto: «Beati i mansueti, perché
essi possederanno la terra (Matt. V, 4). I banditori del Vangelo son riusciti a
farlo trionfare in tutte le parti della terra, con l’arma della mansuetudine.
Anche nella nostra vita quotidiana, nel piccolo cerchio dei parenti, degli
amici, dei compagni, in circostanze diverse, possiamo esercitare un apostolato
salutare con un contegno mansueto. Un giovanotto si reca un giorno, a Milano,
dalla Venerabile Maddalena di Canossa a chiederle, con minacce, ove si trovava
una giovane, che, per sfuggire alle sue insidie, si era rifugiata presso la
santa fondatrice. Maddalena risponde che dal suo labbro non l’avrebbe saputo
mai. Allora il giovanotto, estratta una pistola, l’accosta alle tempia di
Maddalena. Ma essa, con tranquillo sorriso, gli disse: «Oh, povero giovane!
Quanto mi fate pietà!… Orsù, date a me quell’arma, ed io ne farò assai miglior
uso». Il giovane, commosso e meravigliato della calma imperturbabile della
Madre, piega il capo e le consegna l’arma, e s’avvia confuso alla porta.
Maddalena lo accompagna, e gli dà una medaglietta d’argento come pegno di
gratitudine per la visita che le aveva fatto. Qualche tempo dopo, un
rispettabile Sacerdote viene dalla Madre a raccontarle il pentimento del
giovane. La fondatrice le consegna l’arma pregandolo di appenderla a un
Santuario dell’Addolorata (L’angelo di Canossa. Pavia 1922, p. 60-62). Proprio
vero che « nulla è più forte della mansuetudine » (S. Giov. Crisostomo. In Gen.
Hom. 58, 5). Quante volte abbiamo lasciato passare la circostanza di far del
bene a qualche anima con la nostra dolcezza, e forse di ricondurla a Dio! Quel
che non abbiam fatto per il passato, lo faremo per l’avvenire. Vogliamo usare
del rigore? Usiamolo con noi. «Poiché, che cosa v’ha di più giusto, che
ciascuno si adiri dei propri peccati, anziché dei peccati degli altri?» (S.
Agostino. En. in Ps. IV, 7).
[La destra del Signore operò grandi cose: la destra del Signore mi ha esaltato. Allelúia.]
Rom VI: 9 Christus resúrgens ex mórtuis jam non móritur: mors illi ultra non dominábitur. Allelúja.
[Cristo, risorto da morte, non muore più: la morte non ha più potere su di Lui. Allelúia]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joannes XVI: 5-14
In illo témpore: Dixit Jesus discípulis
suis: Vado ad eum, qui misit me: et nemo ex vobis intérrogat me: Quo vadis? Sed quia hæc locútus sum vobis, tristítia implévit cor
vestrum. Sed ego veritátem dico vobis: expédit vobis, ut ego vadam: si enim non
abíero, Paráclitus non véniet ad vos: si autem abíero, mittam eum ad vos. Et
cum vénerit ille, árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício. De
peccáto quidem, quia non credidérunt in me: de justítia vero, quia ad Patrem
vado, et jam non vidébitis me: de judício autem, quia princeps hujus mundi jam
judicátus est. Adhuc multa hábeo vobis dícere: sed non potéstis
portáre modo. Cum autem vénerit ille Spíritus veritátis, docébit vos omnem
veritátem. Non enim loquétur a semetípso: sed quæcúmque áudiet, loquétur, et
quæ ventúra sunt, annuntiábit vobis. Ille me clarificábit: quia de meo accípiet
et annuntiábit vobis.
“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Ora vo a Colui che mi ha
mandato; e nissun di voi mi domanda: Dove vai tu? Ma perché vi ho dette queste
cose, la tristezza ha ripieno il vostro cuore. Ma io vi dico il vero: È spediente
per voi che io men vada: perché, se io non me ne vo, non verrà a voi il
Paracleto; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò. E venuto ch’egli sia,
sarà convinto il mondo riguardo al peccato, riguardo alla giustizia, perché io
vo al Padre, e già non mi vedrete: riguardo al giudizio poi, perché il principe
di questo mondo è già stato giudicato. Molte cose ho ancora da dirvi: ma non ne
siete capaci adesso. Ma venuto che sia quello Spirito di verità, v’insegnerà
tutte le verità: imperocché non vi parlerà da se stesso, ma dirà tutto quello
che avrà udito, e vi annunzierà quello che ha da essere. Egli mi glorificherà,
perché riceverà del mio, e ve lo annunzierà. Tutto quello che ha il Padre, è
mio. Per questo ho detto che egli riceverà del mio, e ve lo annunzierà” (Jo.
XVI, 5-15).
Omelia II
[M. J. Billot,
Discorsi parrocchiali, II ediz. S. Cioffi ed. Napoli, 1840 – impr. ]
Sulla falsa
coscienza.
“Cum venerit Spiritus veritatis, docebit vosomnem veritatem”. Jo. XVI.
Benché Gesù-Cristo nel corso di sua vita mortale e dopo la sua risurrezione avesse istruiti gli Apostoli nelle verità del regno di Dio, nulladimeno non erano ancora forniti di tutti quei lumi che loro erano necessari per fondare quella religione, che per comando del loro divin maestro annunziare dovevano a tutte le nazioni. Attaccati troppo sensibilmente alla corporea presenza di Gesù-Cristo, erano pieni ancora d’idee troppo materiali, e solo imperfettamente conoscevano i misteri che loro erano rivelati; onde era espediente, come disse loro Gesù-Cristo, che Egli si separasse da essi, affinché fossero più atti a ricevere lo Spirito Santo, che doveva perfezionare la loro fede. Egli è ben vero che Gesù-Cristo poteva da se stesso dar loro tutti i lumi e la forza necessaria per la grande opera della conversione del mondo; ma voleva lasciare allo Spirito Santo la perfezione di quest’opera, e nondimeno n’era sempre Egli fautore, giacché a suo nome era mandato lo Spirito Santo, che doveva insegnare agli uomini tutte le verità di cui abbisognavano. – E perciò, sceso che fu lo Spirito Santo sopra gli Apostoli, essi furono dalla più viva luce illuminati, e tutte le verità conobbero che al mondo tutto dovevano predicare: animati da una forza veramente divina, ebbero il coraggio di confermare queste verità a costo ancora della lor vita. – Predicarono difatti gli Apostoli quelle verità che loro lo Spirito Santo aveva insegnate, e purgarono il mondo dagli errori, ne sbandirono l’idolatria e ne riformarono i costumi. Invece della menzogna e della corruzione che regnavano sulla terra, fondarono una religione tutta santa, una morale tutta pura e un culto tutto divino. Noi abbiamo ricevuto, fratelli miei, per mezzo degli Apostoli questa santa Religione, questa pura dottrina; ma se la religione si è tra di noi serbata illesa, quanto mai si è depravata questa morale nel cuor degli uomini! Ora l’unica cagione di questo disordine si è la falsa coscienza che si fecero e si fanno gli uomini circa le verità della morale. – Lo Spirito Santo ha insegnato ed insegna tuttora la strada della verità; ma gli uomini accecati dalle passioni chiudono gli occhi a questa verità e la sottopongono al loro falso giudizio, alle loro inclinazioni perverse; e preferiscono le tenebre d’una falsa coscienza, di cui debbo oggi scoprirvi i principi, e i rimedi additarvi per rettificarla. Dio voglia che lo Spirito Santo, sorgente d’ogni verità, riformi oggi queste coscienze sregolate, false e perverse. – Quali sono dunque i principi di una falsa coscienza? questione importantissima. Io la tratterò nel primo punto. Quali ne sono i rimedi? Istruzione necessaria! Io ve la darò nel secondo punto.
I. Punto. V’è una strada, dice lo Spirito Santo, che all’uomo sembra diritta, ma conduce alla morte. Est viaquæ videtur homini recta, et novissimaeius ducunt ad mortem (Prov. XVI). Qual è, fratelli miei, questa strada? Ella è la falsa coscienza, cioè la coscienza che non è secondo Dio, che non è conforme alla legge di Dio: imperciocché la coscienza, che è la scienza del cuore, al dire di s. Tommaso, è un lume interno che ci addita il bene da praticare ed il male che dobbiamo fuggire in quella tale circostanza, in quella tale occasione in cui ci troviamo. Questa coscienza è come un’applicazione che ognun fa a se stesso della legge di Dio, per sapere ciò che da questa divina legge è vietato o ciò che è permesso. – Quest’applicazione deve dunque essere giusta e fatta con discernimento e prudenza: imperciocché se la coscienza prende il falso per vero e ci insegna cose diverse da quelle che sono dalla legge di Dio prescritte, allora seguendosi il dettame di questa sregolata coscienza, ci scostiamo dalla regola principale, alla quale dobbiamo uniformare tutte le nostre azioni, che è la volontà di Dio. Quindi ne viene in conseguenza che quantunque non sia lecito di operare contro la propria coscienza, perché ciò che non è secondo la coscienza è peccato, come dice s. Paolo, quod non est ex fide, peccatum est (Rom. XIV), non si può nulladimeno seguitare ogni sorta di coscienza, perché vi sono coscienze false, coscienze perverse, che rendono viziose quelle azioni che da esse procedono. Queste sono guide cieche, le quali menano al precipizio coloro che da esse si lascian condurre. Di questa falsa coscienza appunto convien che io vi faccia conoscere i principi, affinché ne possiate schivare i pericoli e gli scogli. – Ora, gli ordinari principi della falsa coscienza sono l’errore, le passioni e l’usanza: errore di spirito, passioni del cuore, usanza del mondo, ecco ciò che pervertisce la maggior parte degli uomini. Egli è ben vero che, qualunque precauzione l’uomo prenda per conformare le sue azioni alla legge di Dio, può cadere in qualche errore di coscienza che gli faccia prendere il falso per vero; siccome l’uomo non è infallibile nel suo ragionare, può talvolta ingannarsi e credere permessa una cosa che difatti è vietata: ma se egli è mosso da buona volontà, se è pura e retta la sua intenzione, se prende tutte le precauzioni che la prudenza gli detta per bene operare, non essendo volontario il suo errore, non gli sarà ascritto a peccato. Questo è un principio certo e sicuro e ben valevole a recare consolazione a quelle persone d’inquieta e scrupolosa coscienza che desidererebbero di accertarsi con prove evidenti della rettitudine delle loro azioni e del buon stato dell’anima loro: esse s’inquietano e si tormentano senza necessità a fare inutili ricerche, le quali ad altro non servono che a sviarli dalla strada della salute. Imparino queste persone dal grande Apostolo ad essere sagge con sobrietà, che per questo basta avere una certezza morale della bontà d’un’azione, cioè di operare per un motivo valevole a determinare una persona prudente: io le rimando agli avvisi d’un saggio e prudente direttore, al quale debbono, per tutto ciò che riguarda la salute, un’intera sommissione. – Ma se si trovano persone di coscienza scrupolosa, delle quali si debbono raddolcir le pene, molte più sono quelle ne hanno una coscienza rilassata, a cui si deve incuter timore: coscienza larga che proviene da un errore in cui si cade volontariamente, da ignoranza e da falsi principi che ciascun si forma a suo piacere e secondo le sue inclinazioni perverse: larga e falsa coscienza ch’è in certa maniera cagione sì dei disordini che regnano nel mondo come della depravazione del cuore dell’uomo. – Si trovano peccatori, per dir vero, che offendono Dio per pura malizia e contro tutti i lumi e rimorsi della loro coscienza; che altro motivo non hanno del loro peccato, fuorché il piacere che provano nel contentare le loro passioni; che non dissimulano a se stessi né altrui i propri delitti; che se li rimproverano eziandio; in una parola, che peccano con tutta la conoscenza e pienezza di volontà che costituisce la malizia del peccato. Ma in quanto maggior numero sono coloro i quali per mezzo di una falsa coscienza si fanno lecite molte cose che veramente non lo sono, e trasgrediscono in mille occasioni la legge del Signore, sotto vani pretesti che una mal fidata coscienza non lascia mai di loro suggerire! Imperciocché pochi sono quei peccatori che non cerchino di difendere i loro disordini con qualche ragione che calmi i rimorsi della coscienza: essi non vorrebbero andare direttamente contro la volontà di Dio, ma vogliono affettatamente ignorarla per fare con maggiore tranquillità ciò che ella proibisce: non vogliono instruirsi sui loro doveri, perché non vogliono adempierli: Noluit intelligere, ut bene ageret (Ps. XXXV). Tali sono coloro che non intervengono alle istruzioni o che non vogliono applicare a se stessi le verità che vi ascoltano. – Altri confessano bensì esservi la legge obbligatoria, ne sono informati, ma vi portano mille modificazioni per esentarsene, le danno false interpretazioni, cercano di raddolcirla per poter essere tranquilli nelle loro prevaricazioni, ricorrono a certi princìpi sui quali si credono bene appoggiati per operare diversamente da ciò che viene dalla legge permesso; vorrebbero ubbidire a Dio, ma non vorrebbero contrariare le loro passioni. Quindi ne viene ch’essi non vogliono dilucidare certi dubbi ben fondati, per tema di dover adempiere una obbligazione che sarebbe contraria alla loro libertà, o fare qualche restituzione che l’incomoderebbe. In questi dubbi si determinano piuttosto a favore della libertà che della legge, e ciò spesso per sì deboli ragioni che ad esse non si affiderebbero in ogni altro affare che la salute non riguardasse, mentre chiudono gli occhi alle forti ragioni d’un sentimento ch’è più sicuro e migliore. E perciò vanno in cerca eziandio di facili direttori e benigni, che in pregiudizio della legge divina decidono sempre a favore delle passioni. Imperciocché si è la coscienza, fratelli miei, che genera tanti errori in materia di morale, nella stessa guisa che ella è degli errori circa la fede sorgente e cagione. Alcuno non cercherebbe tanto ad ingannarsi, ad accecarsi con falsi ragionamenti, se il cuore non fosse dalla passione predominato. Ma tosto che la passione viene ad impadronirsi del cuore, si decide sempre a favore di essa; si reputa giusto e ragionevole tutto ciò che le piace, dice s. Agostino: allora è forza che la retta coscienza ceda alla passione, non v’ha ragione, non v’ha pretesto che non si trovi per autorizzare i vizi e premunirsi contro le minacce della legge. Che cosa fece trovar pretesti ai Giudei per condannar Gesù Cristo, se non la passione? Una pretesa trasgressione della legge di Mosè di cui l’accusavano, ecco ciò che gli autorizzava a domandar la sua morte: ma la sola passione dirigeva le loro azioni. Così veggiam tutto il giorno che la passione dell’invidia e della vendetta sotto l’apparenza di zelo cerca di rovinare un nemico; perché 1’uomo facilmente si persuade di non cercar che la gloria di Dio nel castigare l’altrui colpa, mentre a perdere il colpevole unicamente rimira. Evvi alcuno appassionato per i piaceri? Egli risguarda come innocenti tutti quelli a cui si dà in preda. Quindi troppo indulgente verso di sé medesimo, per tema d’incomodarsi non si fa scrupolo della vita molle e voluttuosa che mena. Quindi trasgredisce di leggere le leggi della Chiesa, dalle quali si crede immune; per un minimo pretesto si dispensa dal digiuno, non osserva l’astinenza della quaresima per non logorare la sua sanità, mentre fa tante altre cose ben più valevoli ad alterarla. Similmente se la passione giunge a predominare nel cuore, quante false coscienze non produce ella mai? Ella acceca l’avaro a tale che il suo smisurato affetto ai beni di questo mondo vien da lui trattato per accorta prudenza e saggio prevedimento dell’avvenire. Oh quanti ricchi sono insensibili alla miseria de’ poveri; perché, dalla falsa coscienza ingannati, si persuadono essere tutto allo stato loro necessario quanto posseggono. A questa insensibilità va non di rado compagna l’ingiustizia: imperciocché spesso si usurpano i beni del vicino; e perché questi non è in istato di supplire alle spese d’una ingiusta lite e di difendersi, una forzata convenzione viene creduta un legittimo titolo per impadronirsi degli averi del povero, della vedova e del pupillo. Quanti usurpatori dell’altrui si credono dall’obbligo esenti della restituzione, perché questa, per quanto vogliono immaginarsi impoverirebbe la casa, ne sconcerterebbe gli affari e macchierebbe l’onore. Altro falso pretesto d’una sregolata coscienza. – Oh quanti si accecano in questo punto e non vogliono vedere i torti che fanno altrui! Essi sono ingegnosi a palliare con mendicati pretesti le loro usure, le loro ingiustizie, mentre hanno occhi perspicacissimi per vedere i torti che ricevono, e nel difendere i propri diritti sono diligentissimi. Ma di tal fatta è il disordine di cui è cagione una falsa coscienza che agevolmente ciò perdona l’uomo a se stesso che in altri non sa tollerare: vede una pagliuzza nell’occhio altrui, e nel proprio una trave non sente. Donde proviene questo disordine? Dalla passione che appicca l’uomo a tal segno che lecito crede tutto ciò ch’è conforme ai suoi desideri. Ma quanto maggiori sono i falli in cui ci fa cadere la falsa coscienza quando è dal costume sostenuta! Noi siamo obbligati a vivere nel mondo, e perciò dobbiamo conformarci alle usanze del mondo: la società vuol che si eviti ogni singolarità, e perché non potremo noi fare ciò che gli altri fanno? Non sono essi al par di noi interessati nell’affare della salute? Essi temono di perdere l’anima loro e hanno desiderio di salvarla egualmente che noi: possiamo dunque vivere con essi senza timore. Noi veggiamo non poche persone di regolata vita ed irreprensibile che si conformano all’usanza: e non sarebbe ella un’ardita imprudenza il condannarle? E perché dunque non potremo imitarle? Tali sono, fratelli miei, le perniciose massime che l’usanza somministra alla falsa coscienza e sulle quali questa s’appoggia. Da questi perversi principi nascono per la maggior parte gli abusi che regnar vediamo fra i Cristiani. Perciò è che non si fanno scrupolo di passare il tempo nell’ozio, nel giuoco, negli spettacoli, nei divertimenti, perché a tanti altri li vedono fare. Perciò regna la sontuosità nei banchetti, il lusso nel vestire, nelle mode l’immodestia e negli arredi la magnificenza: ciò tutto è necessario, dicono essi, per sostenere con decoro il proprio grado: tale è la costumanza, il mondo lo vuole, e ridicolo sarebbe altamente riputato chi diversamente operasse. E finalmente ci comanda forse Iddio che noi ci facciamo schernire dal mondo e ci rendiamo l’oggetto dei motteggi e delle risa altrui? L’umana società, che da Dio è stata stabilita, ha le sue regole che noi dobbiamo seguitare; dunque non è cosa biasimevole il conformarvisi, e possiamo in sicura coscienza vivere come gli altri, purché gli eccessi e i disordini si evitino ai quali si abbandonano coloro che vivono senza religione; purché non facciamo torto ad alcuno e ci serviamo onestamente di ciò che possediamo, che si richiede di più? Egli sarebbe impossibile a salvarsi nelle condizioni del mondo se si dovesse menar vita da’ solitari e lontani dalle adunanze, passarla nella mortificazione e nella preghiera. Iddio comanda forse cose impossibili? A che dunque renderci impraticabile e troppo stretta la via del cielo con l’imporci un giogo che portare non possiamo? Così ragiona la falsa coscienza di molti che credono in sicuro la loro salute, affidati a qualche virtù morale da essi praticata e ad una vita esente bensì da vizi enormi cui la ragione riprova, ma priva di quelle buone opere che sono dalla religione prescritte. Falsi principi, ch’io spero di distruggere nel secondo punto, ove i rimedi additerò per riformare la coscienza. Altre persone si trovano che fanno, per dir vero, certe opere di divozione dalla maggior parte degli uomini non praticate; che sono scrupolosamente diligenti nella recita di certe preci e nell’osservanza di certi esercizi di pietà ordinati dalle regole della compagnia a cui sono ascritti; ma che alcuna cura non mettono per riformare il loro cuore: somiglianti ai farisei, che si stimavano persone molto dabbene perché osservavano esteriormente certe cerimonie dalla legge prescritte, mentre avevano il cuore d’ogni vizio ripieno e d’ogni iniquità. Questi Cristiani si credono di avere un sicuro diritto al cielo a cagione di queste pratiche di divozione che loro vanno a genio, mentre nutriscono in sé l’odio contro del prossimo e lasciano in pungenti motteggi trascorrere la lingua ed in atroci calunnie. Sperano di salvarsi con qualche limosina, mentre non vogliono svellere dal cuore l’oggetto della loro passione. Altri di propria capricciosa scelta in qualche cosa si mortificheranno, ed allorché ciò vien dalla Chiesa ordinato trascureranno di farlo. Altri celebrano feste di divozione e profanano quelle che sono comandate. False coscienze che menano alla perdizione coloro che vogliono seguirle: e per riformarle si dovranno mettere in pratica i rimedi che ora sono per insegnarvi.
II. Punto. Giacché l’errore, le passioni, il costume sono i principi della falsa coscienza, oppongasi il lume di una coscienza retta e bene istruita; alle passioni un sincero desiderio di piacere a Dio e di osservare la sua santa legge; al costume, l’esempio delle persone dabbene e dei santi. Ecco le regole che debbono dirigere la coscienza, e i rimedi che adoperar si debbono per le coscienze erronee. Rinnovate la vostra attenzione. – La coscienza è, per dir così, l’occhio dell’anima nostra, perché ci fa vedere il bene che dobbiamo fare e il male che dobbiamo fuggire. Se l’occhio del corpo è puro, dice Gesù-Cristo, tutto il corpo sarà illuminato; ma se l’occhio è tenebroso, tale eziandio sarà il corpo. Convien dunque, o fratelli, per evitare gli errori d’una falsa coscienza, cercare la luce che diriga i vostri passi nella via della salute. Bisogna che, secondo l’avviso dello Spirito Santo, ad ogni vostra azione preceda la verità e il consiglio della prudenza: Ante omnia opera tua verbumverax præcedat te, et omnem actumconsilium stabile (Eccli. XXXVII). Ciò chiedere dobbiamo a Dio ad esempio del reale profeta. Additatemi, Signore, quali sono le vostre vie ed insegnatemi a fare la vostra volontà: Vias tuas demonstramihi, et semitas tuas edoce me (Ps. XLIV). Il timore ch’io ho d’ingannarmi nella strada che debbo tenere mi fa ricorrere a Voi: degnatevi, o Signore, di essere la mia guida, affinché io cammini sicuro in mezzo a’ pericoli che mi circondano: Cum ignoremus quid ageredebeamus, hoc solum habemus residui, ut oculos nostros dirigamus ad te(2 Par. XX). Dopo di esservi indirizzati, fratelli miei, al padre dei lumi, dal quale ci viene ogni dono perfetto, come dice l’Apostolo san Giacomo, voi dovete consultare la vostra fede, consultare il Vangelo. Imperciocché queste sono le regole che debbono dirigere la vostra coscienza. Che vi dice la fede? Che vi dice il Vangelo? Sovvengavi delle sue massime in ogni occasione in cui si tratta di deliberare su di ciò che avrete a fare. Seguitando, queste regole, siete sicuri di non errare, di non confondere il vero col falso, il bene col male. Una coscienza erronea vi dice, per esempio, che sotto certi pretesti voi potete conversare con quella persona a voi utile e cara, che per altro è a voi occasione di peccato, ma il Vangelo vi dice che sebbene l’occasione di peccato vi fosse cara egualmente e vantaggiosa che l’occhio, il piede, la mano, bisogna cavare questo occhio, recidere il piede e la mano affinché a voi non sia cagione di scandalo; la passione dell’interesse vi dice che potete accumular beni con certi mezzi che vi sembrano leciti, ma che sono dalla legge vietati: per reprimere questa cupidigia, riflettete a ciò che dice il Vangelo sui beni del mondo, sull’amor delle ricchezze: Beati i poveri: beati pauperes (Matt. V). Guai ai ricchi, perché sono nella via della perdizione: Væ vobis divitibus (Luc. VI). La passione della vendetta vi dice, che il vostro onore esige che voi prendiate soddisfazione dell’insulto che un nemico vi ha fatto: ma ben diversamente vi parla il Vangelo, il quale vi dice che convien perdonare e rendere ben per male. Chi dovete voi ascoltare? chi dovete seguire? Se voi andate dietro la passione, questa cieca scorta vi condurrà al precipizio ma se voi seguitate il Vangelo, se consultate la legge di Dio, questa luce dirigerà i vostri passi e vi condurrà al porto di salute. Questa era la guida che il reale profeta aveva scelta, e alla quale faceva ricorso per dissipare i suoi dubbi e la sue incertezze, per essere sicuro della rettitudine delle sue operazioni: Lucerna pedibus meis verbumtuum, et lumen semitis meis (Psal. CXVIII). Seguite fedelmente questa guida e non ve ne dipartite giammai. A tal fine è necessario che voi le sacrifichiate i lumi del vostro intelletto e, diffidando di voi medesimi, non vi appoggiate sulla vostra prudenza: ne imitaris prudentiætuæ (Prov. III) Corre rischia di errare chi non ha altra guida che se stesso; perché nella propria causa facilmente si accieca, ed ognun naturalmente pensa e ragiona secondo la propria inclinazione. Ora i nostri desideri, le nostre passioni portar ci sogliono più sovente al male che al bene. Egli è dunque necessario di aver ricorso ad una scorta più sicura del nostro intendimento. La fede, il Vangelo, ecco le fiaccole che debbono illuminarci e che abbiamo a seguire. Siccome noi possiamo ingannarci, eziandio nell’applicare a noi stessi le massime che questa fede c’insegna, ella è cosi ben fatta consultare persone sagge e istruite nelle vie del Signore, animate dallo spirito di Dio, che non cerchino che la gloria di Lui e la salute delle anime, e non cercar direttori, che lusinghino le passioni, e mettano le coscienze in una falsa tranquillità funesta, i quali, secondo il linguaggio della Scrittura, mettono cuscini sotto i gomiti del peccatore, conducendolo per la via larga che va a finire nella perdizione. – Non vi fidate, fratelli miei, a questi falsi profeti, non cercate, per condurvi nella via della salute, quelle persone che accomodandosi alle vostre perverse inclinazioni, vi danno le decisioni secondo i vostri desideri e i vostri interessi. Ma cercate quelle che abbiano il coraggio di dirvi la verità e non vi lusinghino nei vostri vizi e vi parlino schiettamente. Se la loro dottrina non sarà per qualche tempo secondo il vostro gusto, un giorno sarete loro obbligati d’avervi condotto per una strada sicura. Aprite loro il vostro interno con tutta schiettezza e senza punto dissimulare: qualunque fallo abbiate commesso, dichiaratelo ingenuamente al vostro direttore ordinario; e non cangiate ad ogni tratto, come certe persone che passano la vita nel cercare una guida e non sanno a quale attenersi, perché loro non riesce d’incontrar direttori che, accomodandosi ai loro sentimenti, siano di lor genio. Allorché ne avrete trovato uno di cui abbiate sperimentati salutevoli gli avvisi, seguitelo fedelmente, ubbiditegli puntualmente, perché risguardar lo dovete come un inviato da Dio che vi manifesta la di Lui volontà. – Prese che abbiate tutte queste precauzione per formar la vostra coscienza secondo le massime delle fede e della prudenza, attendete seriamente a praticar il bene ch’essa vi detterà per vostra salute; imperciocché nella buona volontà principalmente e nell’osservanza della legge di Dio consiste la buona coscienza. Può bensì l’intelletto cadere nell’errore, ma se questo non è volontario, Iddio non lo ascriverà a peccato: per lo contrario vi è sempre colpa se è perversa la volontà, per quanto di belle cognizioni sia arricchita la mente. Fate dunque una ferma risoluzione e sincera di osservare la legge di Dio e sacrificarla tutti i vostri interessi e piaceri: e se sarete in queste disposizioni, conformerete la coscienza alla legge di Dio, non già la legge di Dio alla vostra coscienza: voi vi asterrete, secondo l’avviso dell’Apostolo, da tutto ciò che avrà la menoma apparenza di male: Ab omni specie mali abslinete vos (1 Thesshal.V.). Voi terrete sempre il partito della legge di Dio contro la vostra libertà nelle cose che dubiterete se lecite siano oppur vietate. Giacché io ho motivo di credere (direte tra voi medesimi) che Dio proibisce quest’azione, voglio piuttosto tralasciarla che espormi al pericolo di trasgredir la sua legge e mettere in rischio la mia salute. Imperciocché non dovete voi, fratelli miei, tenere la stessa prudente condotta sull’affare della salute che tenete per la sanità del corpo e negli affari terreni? Ora, di due mezzi che adoperar potete pel buon esito d’un affare, de’ quali uno è certo e l’altro dubbioso, non preferite voi il sicuro all’incerto? Di due rimedi che vi sono offerti per guarirvi da una malattia, uno dei quali sapete che vi darà la sanità, e l’altro per avventura la morte, siete voi forse irresoluti nel prendere piuttosto il primo che il secondo? E non dovrete voi nella stessa maniera nell’affare dell’eternità prendere il più sicuro partito? Imperciocché si può egli mai prendere troppe precauzioni quando si tratta d’una eterna felicità o di una eterna miseria? Nulla satis magnasecuritas ubi periclitatur æternitas. Ah quanto è valevole il pensiero dell’eternità a farci risolvere a favor della legge di Dio piuttosto che delle passioni! Avvi forse alcun piacere che non si debba sacrificare quando si considera che questo piacere, questo interesse ci sarà cagione di eterni tormenti? Fortificatevi, fratelli miei, con questo pensiero quando le passioni si troveranno in contrasto con la legge di Dio, quando si tratterà di risolvere mentre sarete in dubbio se sia lecito un’azione o proibita. Operate come se subito dopo doveste morire, come se doveste allora allora comparire al giudizio di Dio. Ah! Come vorreste allora aver fatto? Como vorreste esservi diportati? Operate adesso e diportatevi come vorreste in quel punto aver fatto, e tutti i vani barlumi d’una falsa coscienza svaniranno: prenderete certamente il partito sicuro; ubbidirete a Dio, farete la sua santa volontà, eviterete l’ombra stessa del peccato. Lungi dall’usurpare o ritenere l’altrui direte come Zaccheo, che se si trova in vostre mani qualche cosa che non vi appartenga, volete restituire il quadruplo: Si quemdefraudavi, reddo quadruplum (Luc. XIX). Lungi dal frequentar quella persona ch’è cagione di vostra rovina, non le darete nemmeno uno sguardo. invece di quella vita molle e priva di buone opere della quale non vi fate scrupolo alcuno, abbraccerete la penitenza, la mortificazione, gli esercizi della vita cristiana: invece di andar dietro al torrente del costume su cui tanto temerariamente vi appoggiavate per calmare i rimorsi della coscienza, imiterete le persone dabbene e prenderete i santi per modello della vostra condotta; imperciocché questo è il rimedio di cui dovete servirvi per preservarvi dalla contagione delle usanze del mondo. Infatti se l’usanza conduce alla rilassatezza, perché si crede di poter fare senza scrupolo ciò che gli altri fanno, i buoni esempi ravvivano il fervore, facendoci vedere ciò che è d’uopo di fare. Ora mirate, fratelli miei, ciò che han fatto i santi, e le virtù che hanno praticato. Erano essi forse di voi più interessati a far il bene che fecero? E non dovete voi egualmente temere se fate il male da cui si guardarono? Voi sperate la stessa ricompensa e dovete prendere le stesse precauzioni per meritarla: avete a temere gli stessi castighi e dovete usar la stessa diligenza per evitarli. Essi camminarono per la stretta via perché sapevano essere quella che Gesù Cristo additò per giungere al cielo. Prender non vollero la strada spaziosa perché alla perdizione conduce. Guardatevi dunque di entrar in questa via, ma scegliete la stretta, come fu scelta da loro, e non vi crediate di poter fare certe azioni sul fallace pretesto che gli altri le fanno. Non allegate l’usanza per vostra difesa, ma conchiudete piuttosto non doversi fare appunto perché gli altri le fanno e perché tale è l’usanza: e vivete come il piccol numero perché il più piccolo numero sarà quel degli eletti. – Prendete ad imitare quelle anime sante e fervorose che fuggono con diligenza tutto ciò che può offendere la delicatezza della loro coscienza, che si allontanano dalle compagnie pericolose, dai giuochi, dagli spettacoli, che sono assidue alle preghiere, agli esercizi di divozione, caritatevoli verso il prossimo, esemplari nei loro discorsi, sobri, casti, modesti, mortificati e riserbati in tutta la loro condotta. Ecco le regole di coscienza che si possono seguire senza timore, e non già i perniciosi esempi di quelle persone rilassate che vivono secondo l’usanza e non sanno che cosa sia preghiera, frequenza di sacramenti, santificazione delle feste, licenziosi nei loro discorsi, che altro non cercano fuorché i piaceri, i divertimenti del mondo, e si conformano alle sue massime ed alle sue usanze. Ricordatevi che il mondo è stato riprovato da Gesù Cristo. Dunque il mondo e le sue usanze non sono una regola buona a seguire, ma quelle a cui dovete attenervi si è il Vangelo, si è l’esempio di Gesù-Cristo e dei Santi. Seguendo queste regole, sarete sicuri di non errare, e la vostra coscienza formata su tali esemplari sarà per voi una sorgente di consolazione e di gaudio il più puro e verace che si possa provar sulla terra. Quantunque afflitti dalle malattie o da sinistri accidenti, sarete felici, anche in mezzo alle disgrazie, se la vostra coscienza è ben regolata e tranquilla, se vi dice che siete in istato di grazia ed amico di Dio. – Non v’ha piacer sulla terra che possa paragonarsi a quello che ci dà una buona coscienza; egli è un paradiso anticipato che portiamo con noi. Per lo contrario una coscienza sregolata è una specie d’inferno che si prova vivendo. Qualunque bene possegga, di qualunque piacere gioisca d’altra parte non sarà mai contento colui la cui coscienza è in stato cattivo: ella è un carnefice che dappertutto lo segue per tormentarlo: Non fugit se ipsam malaconscientia (s. Aug.). Egli ha bel fare per allontanarne i rimproveri, calmarne i rimorsi, essa glieli fa sentire in ogni luogo; in ogni luogo ella dice al peccatore: ah sciagurato! tu sei in stato di dannazione se la morte ti coglie, eccoti perduto per sempre. – Fortunato ancora il peccatore che ascolta i rimorsi della coscienza, che non è insensibile alla sua voce, la quale lo stimola ad uscir dallo stato di peccato. Considerate in che stato siete al presente e ascoltate ciò che la coscienza vi dice. Se ella vi fa qualche rimprovero, calmatela quanto prima riconciliandovi con Dio mediante una penitenza sincera: s’ella è tranquilla, conservatevi in questo stato e operate sempre secondo che vi sarà dalla pura e retta coscienza ispirato.
Pratiche. Per render pura
e retta la vostra coscienza, in ogni vostra azione sovvengavi di questa
massima: non si può prendere troppa precauzione allorché si tratta
dell’eternità: nulla satis magna securitas ubi periclitatur æternitas.
Operate come vorreste aver fatto al punto di morte. Esaminate spesso e principalmente
prima di confessarvi, esaminate se la vostra vita è conforme a quella che mena
la maggior parte degli uomini: voi dovete temere se pensate, parlate ed operate
come la maggior parte, e infallibilmente perirete col maggior numero se non vi
separate da essi. Attenetevi alla legge di Dio, alle massime del Vangelo; all’esempio
dei santi, perché queste sono le vie che vi condurranno al regno dei cieli.
Così sia.
Jubiláte Deo, univérsa terra, psalmum dícite nómini ejus: veníte et
audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ
meæ, allelúja.
[Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: venite e ascoltate, tutti voi che temete Iddio, e vi narrerò quanto il Signore ha fatto all’anima mia, allelúia.]
Secreta
Deus, qui nos, per hujus sacrificii
veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes effecísti: præsta,
quaesumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus
assequámur.
[O Dio, che per mezzo degli scambi venerandi di questo sacrificio ci rendesti partecipi dell’unica somma divinità: concedici, Te ne preghiamo, che come conosciamo la tua verità, così la conseguiamo mediante una buona condotta.]
Si risponde alle accuse date alla
provvidenzaper la ineguale distribuzione de’ beni,
massimamentedonati agli empi.
I. Gli occhi, i
quali sporgono in fuori, non però sono abili a veder più degli altri, ma
solamente a restar più degli altri, offesi dal fumo (Aristot. problem. sect. 31.
n. 6). Che vale dunque agli intelletti presuntuosi l’uscire tanto dai termini,
per mirare ciò che non è concesso a guardi mortali? Il frutto del loro ardire
sarà rimaner sopraffatti dalla caligine di quei divini consigli, che, se si
contenessero in umiltà, sarebbero bensì loro di ammirazione, ma non di
scandalo. Dovrebbe dunque uno di essi piuttosto dir con Salviano (De gubern.
1.3) in questo proposito: Homo sum non
intelligo: secretum Dei investigarenon audeo: e pure
all’incontro, quanto più vuoti di senno, tanto più queruli, dove non giungono
ad investigar con la mente debole, giungono ad insultar con la lingua
bestemmiatrice. Chieggo io frattanto: può il governo di questo mondo andar
meglio di ciò che vada, o non può andar meglio? Se non può andar meglio, di che
dunque si dolgono gli ateisti? Se può andar meglio, dunque v’è chi può fare che
vada meglio. E tale è la medesima provvidenza da lor negata. Che se ella v’è,
basta questo. Non è follia da giumento stimar possibile ch’ella lasci di fare in
tempo veruno ciò che va fatto? An usque
adeo desipiendum est, uthomo videat melius aliquid fieri debuisse, et
hoc Deum vidisse non putet? (S. Aug. I . 1. c. 14. contr. adv. leg.)
Oh quanto più frutterebbe a tanti uomini temerari l’accusare sé d’ignoranti, che
Dio d’iniquo! Ma perché non credano che ciò si dica a sfuggir la difficoltà,
seguano pure a sfogarsi.
II. Ciò che agli ateisti cagiona maggior travaglio in tal governo, non può riputarsi certamente che siano i disordini delle colpe, mentre essi appunto sono quei che gli accrescono più d’ogni altro: è la distribuzione de’ beni. Vorrebbero eglino, che questa fòsse in man loro, sicché la provvidenza, quasi minore, dovesse aver per tutore il lor senno nell’ eseguirla. Ma ciò non può mai succedere. Però dacché non han forze da rendere a sé soggetta la provvidenza, si volgono ad accusarla spargendo con espressa sollevazione, tra ‘l volgo credulo, che troppo male ella amministri l’entrate del nostro mondo, mentre, quanto prodiga ella è nel donarle agli empi, altrettanto avara è nel concederle ai giusti. Ed è possibile, dicono essi, che vi sia provvidenza se alla fine, come la calamita, fra tanti metalli nobili, non si sceglie a sollevare altro da terra, che il ferro vile, così dia gode per lo più d’innalzare chi meno il merita? Che se pure da lei vengan talvolta i meritevoli ancora rimeritati, tosto si scorge, ch’ella operò di capriccio, non di consiglio: mentre appena fa loro un dono che lor ritoglie; e più incostante del medesimo mare nei suoi flussi e riflussi non sorba legge, lasciando nel meglio aride quelle spiagge che allora allora aveva pigliate a inebriare con larghi flutti. E noi vogliamo poi credere, che sia più che qualche cieca podestà, casuale quella che amministra sì male le sorti umane, senza distinguere nelle rimunerazioni benefiche le opere virtuose dalle viziose, sicché o nulla vi sia ch’ella doni al merito, o nulla che pentita non gli ritolga? S’intitoli provvidenza quanto a lei piace: non è provvidenza, è fortuna.
I.
lII. Se ivi sono i
sogni più strani, dove sono gli umori più sconcertati, non è meraviglia, che gli
ateisti vaneggino in simil guisa. Ma compatiamoli, e facciamo prova, se ci
riesca con amorevole purga cambiar loro i sogni in dottrine.
IV. Fate però ragione, che il governo della provvidenza sia simile ad una tessitura di arazzo: Telam, quam orditus est super omnesnationes(Is. XXV. 7). Per lavorarlo, conviene in primo luogo, che alcune fila vadano rette e formino l’orditura, altre a traverso, e formino il pieno : alcune sian tinte col sangue della porpora, altre col sugo di guado: alcune si giacciano in fondo a formar gli orli dell’opera, altre sian collocate nel più vistoso a formarne il campo. Così conviene in prima, che alcuni tra gli uomini siano ricchi, altri poveri: altri superiori, altri sudditi: altri nobili, altri plebei: altrimenti l’opera non solo non avrebbe vaghezza alcuna, ma né anche potrebbe aver compimento.
V. Non avrebbe
vaghezza, porche non avrebbe la debita varietà: e al più sarebbe una Tela
rozza, non un arazzo ingegnoso. La limitazione delle creature è quel
poverissimo fondo su cui Dio ricama il più bello che abbiano i suoi lavori,
cioè la diversità delle cose e l’inegualità. Imperocché non potendo veruna creatura
capire in sé, come limitata, tutte quelle perfezioni che Dio vuole dimostrare
operando, convenne di necessità ch’Egli le ripartisse in più nature tra loro
varie, e non di rado anche opposte, affinché contenessero tutte insieme quel
che ciascuna da sé non poteva accogliere, posta l’angustia del vaso. Cosi, perché
una semplice corda non è capace di dimostrar nel liuto tutta l’armonia che sa
dargli la mano musica, se ne aggiungono molte, quale più sottile, quale più
grossa, quale più tesa, quale più lenta, che poi, toccate diversamente dall’arte,
fanno quel concerto bello che incanta le nostre orecchie.
VI. Dissi poi, che. senza questa ineguaglianza di alto e di basso, di abbondanza e di bisogno, non poteva nemmeno sussistere il governo dell’uman genere, ne compirsi. Perocché fingete che vadano esuli dalla città tutti i poveri, tutti i plebei, quale inimico le recò mai tanta desolazione in un attimo, quanta le recherebbe un tal bando? Che se in riguardo a quei che vanno, sarebbe esilio; in riguardo a quei che rimangono senza loro, sarebbe morte. Chi lavorerebbe in quel mezzo tempo la terra? Chi le darebbe quasi ad usura quel seme, che poscia moltiplicato a tanti doppi mantiene la vita agli uomini di ogni stato? Che sarebbe delle arti, sì delle liberali, sì delle meccaniche, le quali tutte o nacquero dalla necessità o vengono allevate dalla speranza? Non vedete voi che la copia e l’inopia sono quelle due braccia che stringono amichevolmente il genere umano in perpetua corrispondenza, e che mantengono in lui la vita civile? Il bisogno di educazione nella fanciullezza stringe i figliuoli ai padri, e il bisogno di sostentazione nella vecchiaia stringe i padri ai figliuoli. Il povero ha bisogno della mano del ricco per essere sollevato, il ricco ha bisogno delle braccia del povero per esser servito. Il bisogno di governo soggetta i popoli al sovrano, e il bisogno di assistenza soggetta il sovrano stesso ai suoi popoli; sicché, a dir breve, possiamo concludere con le dotte parole di un Agostino, che la necessità vicendevole è la genitrice di tutte le azioni umane: Omnium actionum humanarummater est necessitas (S. Aug. in Ps. 81).
VII. Pertanto ciò che ci manca al mantenimento più agiato di noi medesimi, non è materia di accusa della Provvidenza, è materia di ammirazione, massimamente che Dio nella distribuzione de’ beni terreni ha fatto come un accorto padre, il quale dovendo al fìgliuol maggiore lasciare il maiorasco, per decoro e per durevolezza della famiglia, lo stringe nel testamento ad alimentare i suoi fratelli minori; e da che lo fa possessore di tutto il fondo, l’obbliga insieme a partirne i frutti tra quei che ebbero comune con esso lui, come il sangue illustre e la nascita, così l’amor fraterno e la cura. L’arte quasi unica dell’agricoltura consiste singolarmente a disseccare i terreni troppo umidi, e inumettare i più asciutti. E questo è ciò che richiede la Provvidenza: che chi abbonda di facoltà, ne faccia parte a chi è scarso. Ma l’avarizia, come è una sete, non della natura, ma della febbre, così non si spegne mai: onde si persuade, che crescano in lei le necessità a proporzione del crescere che in lei fanno le brame accese. E ciò fa che i poveri divengano troppo queruli, quasi non soccorsi abbastanza; e i ricchi troppo tenaci quasi non pieni; pervertendo l’ordine dei disegni divini per mero vizio. Ma frattanto ci parrà giusto rifondere nella Provvidenza i nostri difetti, e rivoltare in biasimo del legislatore quelle trasgressioni medesime ch’Egli vieta con le sue leggi?
II.
VIII. Vero, direte voi : sono necessari ipoveri e i ricchi, inobili ed iplebei, i sovrani ed i sudditi; né senza tal varietà avrebbe il mondo la sua vaghezza presente, né la sua vita. Ma questa risposta non solve il
nodo, lo salda. Per qual ragione non ha collocata Iddio l’abbondanza in mano
de’ buoni, e non ne ha privati al tutto i cattivi? Perché il vizio naviga
sempre col vento in poppa, e la virtù non può mai spiegare le vele: tante son le
procelle che l’assaliscono? Non è ciò un giuocare che a nostro costo fa Dio su
gli avvenimenti mortali, piuttosto che un governarli?
IX. Ah temerità di
coloro che rimirando il volto della Provvidenza negli ondeggiamenti delle umane
vicende, lo credono mostruoso! Primieramente mi si dica ove leggasi, che i
buoni siano stati sempre depressi, e icattivi sempre esaltati? Prenda
pure in mano le istorie chi vuol chiarirsi di questa orrenda calunnia che dassi
al vero. E perché gli aspetti dei luminari maggiori sono più agevoli ad osservarsi,
miri quanto di raro sia succeduto, che i principi più segnalati nella pietà non
fossero parimente i più segnalati nella prosperità del governo, e che i più
malvagi non fossero similmente i più malavventurati. Quando Roma, dopo aver
levata ai popoli stranieri la libertà, non dubitò di levarla ancora a se
stessa, ebbe a tollerare una lunga fila di Cesari sì scorretti, che potevano
più veramente chiamarsi bestie coronate, che Cesari. Or chi non sa, di numero così
grande, quanto pochi furono quei che terminarono tranquillamente i lor giorni?
Anzi tutti o quasi tutti caddero vittime per mano di sudditi risentiti o di soldati
ribelli. Ciò che può fare ampia fede ai privati ancora, quanto sia falso, che
l’empietà sia comunemente felice, la pietà misera.
X. Dissi
comunemente; perché questo è un tratto fino altresì della Provvidenza: né
sempre accompagnar la pena alla colpa su questa terra, né sempre disgiungerla.
Se Dio punisse ogni colpevole in vita, noi di leggieri trascorreremmo a stimar,
che la sua giustizia non avesse altro tribunale più formidabile da vendicare le
ingiurie che a lei facciamo, né altri tormenti più feroci di questi: onde ella verrebbe
a rendersi disprezzevole nell’atto stesso di voler farsi apprezzare. Dall’altro
lato se Dio mai non pagasse in contanti le sfrenatezze degli uomini con
l’esempio di qualche castigo visibile, gli uomini potrebbero sospettare, ch’Egli
non distinguesse nell’amor suo la virtù dal vizio, ma che li trattasse del
pari. Pertanto convenne mescolare un modo con l’altro, per adeguare le provvisioni
al bisogno. Tanto più, che questo tenore medesimo di governo, il quale riserba
il più del premio e della pena a quel tempo che non ha fine, serve meravigliosamente
a farci calpestare i beni caduchi com’essi meritano. Apparteneva alla Provvidenza
insegnare agli uomini la virtù, ch’è l’unica via per cui si giunge alla vera beatitudine.
Ora il maggiore ostacolo a chi cammina per questa via sono gl’inviti che ad ogni
passo gli fanno i beni terreni per arrestarlo. E però con qual mezzo potevasi
dimostrare più apertamente la vanità di sì fatti beni che con accomunarli anche
agli empi ? Poteva mai caderci in pensiero, che questo fosse il pane preparato
ai figliuoli, mentre a tutto pasto il vediamo gettare ai cani? Troppo era naturale
argomentare, che quello che da Dio si concede ancora ai bestemmiatori del suo gran
nome, agli spergiuri, ai sacrileghi, non era la mercede da lui destinata a
rimeritare gli ossequi de’ suoi diletti. Questi anni addietro, essendosi in
Vittemberga introdotta una moda nuova e dispiacevole al principe, che fece egli?
la diede ad usare al boia; e con tale atto le tolse tosto ogni seguito ed ogni stima.
Un’arte somigliantissima di governo ha la provvidenza. Per toglierci
l’affezione ai beni manchevoli della terra, gl’infanta con guarnirne ancora i ribaldi:
Nullo modo magis potest Deus concupita
traducere, dice Seneca (De prov. c. 5), quam si illa ad turpissimos defert,ab optimis abigit.
XI. Aggiungete che
i ribaldi medesimi hanno bene spesso ne’ loro costumi tal cosa che sia lodevole,
non trovandosi quassù così facilmente scelleraggine tutta pura, com’è giù tra i
diavoli e tra i dannati. La vipera non è già velenosa in ogni sua parte, anzi
col tossico ha tanto accompagnato di sanativo, che può tenere un posto
onorevolissimo nella composizione de’ medicamenti. Quel ricco che voi vorreste subito
in fondo, perché rapisce l’altrui sostanza, forse somministra cortese a più di un
bisognoso il suo patrocinio. Quel lascivo sa perdonare alla fama del prossimo,
se non sa perdonare alla pudicizia. Quel linguacciuto sa rattemperarsi dalle
bestemmie nell’ira, se non sa raffrenarsi dalle mormorazioni. Taluno tradì la
fede all’amico, ma insieme fu fedelissimo alla consorte: come appunto
raccontasi che i romani fra tante loro rapine amarono la fortezza, i goti
l’onestà, i vandali la religione, gli unni il rigore, i turchi l’ubbidienza ai
loro sovrani. E così fate ragione che se è difficile ritrovare infermo sì
disperato, che fra ì suoi molti cattivi indizi di morte, non ne tramischi alcun
buono: non è meno d’incile ritrovare iniquo sì discolo. Ora appartiene a Dio
non lasciar senza premio verun’azione che in qualunque modo sia retta. E però
come superficiale è la virtù di costoro, così guiderdonasi con una felicità
parimente, che non ha fondo, qual è quella di questa vita. E con ciò viene la
provvidenza di vantaggio a manifestare quanto ella si compiaccia della virtù, mentre
l’ama insino dipinta.
Xll. Finalmente fingete un empio tanto penetrato dalla malvagità, che non dia luogo a virtù, neppure apparente; non è necessario, ch’egli però vada esente dal provare gli effetti della divina clemenza con qualche temporale prosperità. Ad un ladrone condannato al patibolo, non consente ogni ragion che si porga qualche ristoro prima di mandarlo alla morte? Come però abbiamo a sdegnarci che un tal costume sia praticato dalla clemenza divina: sicché a quel reo. che è già destinato ad ardere senza fine i n un rogo eterno, concedasi per lo spazio di pochi dì antecedenti qualche sollievo? Andate ora e invidiate quei reprobi, perché godono. Non è ciò maggiore stoltezza che invidiare la cena del giustiziato? Quel pesce che guizza così lieto per l’onde, ha l’amo già nello viscere sì inoltrato che non vi vuole altro più, se non che il pescatore tiri a sé di colpo la canna per ìstrappargliele. E in tale stato può mai quel pesce meritarsi il bel titolo di felice?
XIII. Tanto più che
gli empi con lo loro passioni, con le invidie, con le inimicizie, con le
alterezze s’infettano quel poco stesso di bene che loro viene concesso da Dio:
ad imitazione di quei mastini che non sanno godersi in pace tra loro ciò che
loro vieri dato in cibo; ma digrignano i denti e si feriscono insieme alla
disperata. Se non che i malvagi fanno ancora di peggio; mentre rivolgono la loro
perversità contra se medesimi, e fanno in pezzi il lor cuore; onde vedete che
loro tanto manca quel bene che hanno, quanto quel che non hanno. Il lince non
ingrassa mai, perché mentre si pasce in un prato, tien gli occhi all’altro, e
si strugge per ansietà di mettere quanto vi è nel suo ventre solo.
XIV. Ma checché
siasi di ciò, chi negli avvenimenti umani teme di vertigine faccia come chi
passa un torbido torrente, e non vuol cadere. Non fissi gli occhi nelle acque
che vengono giù rovinose dalla montagna; li fissi alla riva stabile che lo
attende di là dall’acque. Non miri ciò che scorre col tempo, miri ciò che dura
per tutta l’eternità: e con questa misura retta, e non col palmo di una
felicità transitoria, che è sì calante, rinvenga i beni che sono comuni agli
empi, e rinvenga i mali che sono comuni ai giusti. Questa è l’altra opposizione
che fanno gli uomini di corto senno alla Provvidenza, volendo misurarle audaci le
mani, per dare a credere, ch’ella ne abbia una più lunga dell’altra, come già
le aveva Artaserse. Se non che di tale opposizione mi serbo a discorrere da per
sé nel seguente capo per minor tedio.