Cardinal H. E. Manning: LA CRISI ATTUALE DELLA SANTA SEDE (1)

-Henry Edward Manning

LA CRISI ATTUALE DELLA SANTA SEDE

 [annunciata dalle profezie]

-In 4 LETTURE-

LONDON: PRINTED BY LEVEY, ROBSON, AND FRANKLIN. Grent New Street and Fetter Lane.

– MCCCLXI –

Prefazione e lettera di presentazione:

LONDRA:

BURNS & LAMBERT, 17 & 18 PORTMAN STREET, e 63 PATERNOSTER ROW;

KNOWLES, NORFOLK ROAD, BAYSWATER.

MDCCCLXI.

PER IL REVERENDISSIMO

JOHN HENRY NEWMAN, D. D.

DELLA CONGREGAZIONE DI SAN FILIPPO NERI.

Mio caro Dr. Newman,

Circa tre anni fa, hai gentilmente unito il mio nome al tuo nella dedica del tuo ultimo volume de “I Sermoni”. Lascia ora che ti dia una prova di quanta gratitudine abbia nell’essere stato in qualche modo unito a te, chiedendoti di farmi unire indegnamente  il tuo nome con il mio ancora una volta in questa impresa. Ma, come sai, il nostro vecchio patto non si è mai sciolto. Tu sei stato così gentile da annoverarmi come tuo amico di quasi trent’anni; e questo mi dice che siamo entrambi giunti al momento della vita in cui gli uomini possono oramai guardare indietro e misurare il percorso che hanno compiuto. Questo non è piccola cosa, in una vita attiva piena di eventi e di lavoro svolto in oltre un quarto di secolo e per una generazione intera di uomini. Con pochissime eccezioni, tutti gli uomini che hanno avuto credito e potere quando è iniziata la nostra amicizia, sono oramai passati, ed una nuova generazione è nata ed è cresciuta fino alla virilità da quando è entrata nella vita. – Gli uomini sono sempre tentati di pensare ai tempi in cui hanno vissuto intensamente, estendendoli poi anche alle altre età. Ma, pur tenendo conto di questa comune infermità, penso che non dovremmo sbagliarci nel considerare come eccezionalmente grandi i trent’anni che, iniziati con l’emancipazione cattolica, abbracciano la restaurazione dell’Episcopato cattolico in Inghilterra, e terminano con il movimento anticristiano dell’Europa contro la Sovranità Temporale della Santa Sede. Posso aggiungere che per me e per te, in questo periodo, si è avuto un altro alto e singolare interesse per il movimento intellettuale che è sorto principalmente ad Oxford, e si è fatto poi sentire in tutto il nostro Paese fino ai nostri tempi. Tu sei stato un capofila in questo lavoro, ed io sono un testimone della sua crescita. Sei rimasto a lungo a Oxford, anche con tutte le sue infermità tanto note ad entrambi; ma io mi sono tenuto ad una certa distanza, e ho dovuto operare da solo. Tuttavia, a te devo un debito di gratitudine per l’aiuto intellettuale e per il lume di uno degli uomini più grandi del nostro tempo; è un debito di sincera gratitudine per me poterlo ora pubblicamente riconoscere, anche se non posso in alcun modo ripagarlo. Tra le molte cose che danno un vivido e grande interesse in questo momento, c’è lo sviluppo pronunciato ed esplicito, in entrambe le parti, dei due grandi movimenti intellettuali, al cui corso abbiamo noi assistito  così a lungo.  C’è stato un tempo in cui coloro che ora si contrappongono – cioè i Cattolici, e i razionalisti – erano apparentemente in stretta e perfetta identità di vedute. Ma sotto l’apparenza di un’opinione comune giaceva celato, anche allora, l’antagonismo essenziale di due princîpi, la cui divergenza è tanto ampia quanto tra le menti degli uomini ne possa intercorrere tra la Fede Divina o l’opinione umana. – Ogni anno poi ha confermato con prove luminose le ragioni che a te e a me elevavano le convinzioni dell’intelletto alla coscienza della Fede, rivelandoci l’unità divina e le peculiarità dell’unica Chiesa di Dio, mentre alcuni tra quelli che erano al nostro fianco, o erano seduti ai nostri piedi, sono stati risucchiati, come per un moto ondoso, nell’anglicanesimo, nel protestantesimo, nel latitudinarismo, nel deismo razionalistico. Invece il carattere divino e la sovranità della Chiesa Unica Cattolica e Romana, con le prerogative del Vicario del Verbo Incarnato, si sono manifestati a noi in un’ampiezza e con una maestà che comanda l’amorevole obbedienza dell’intelletto, del cuore, della volontà, e di tutte le potenze vitali; altri che un tempo pur le amavamo, sono arrivati a trovare la loro linea principale di ristabilimento dello stato delle cose, in una politica che, per me, è semplicemente il preludio dell’Anticristo. La politica in Italia dell’Inghilterra non ha altro nome. E sono meravigliato che il grande popolo francese, così sensibile alla preminenza inglese, così geloso dell’influenza inglese, e così giustamente sprezzante delle assurdità del protestantesimo inglese, sia stato spinto a realizzare una politica in odio alla Francia cattolica, superando tutte le speranze dell’Inghilterra protestante. Spogliare la Santa Sede della sua sovranità temporale, è stata fin dai tempi di Enrico VIII, la passione dell’Inghilterra protestante; ma essa non ha mai sognato di realizzare il suo progetto prediletto per mano della Francia cattolica. Questo è un risultato che va ben oltre le attese. Avevo appena scritto questa frase quando ho letto il dibattito alla Camera dei Comuni sulla politica estera del governo. Non credo che né tu, né io, potremo mai essere sospettati di apologia delle carceri napoletane, che sono pessime come le nostre, almeno fino a qualche anno fa; o della tortura a Napoli, ammesso che vi sia qualche briciolo di verità, cosa di cui io dubito più che mai. Tu ed io non abbiamo certo timore di passare per amanti del dispotismo, o dell’assolutismo, o anche di un governo repressivo. Ma pensiamo entrambi di giudicare uno spettacolo malinconico, quando vedremo il modo in cui alla camera dei Comuni hanno eliminato le disposizioni su questi argomenti dalle leggi che hanno creato l’Europa cristiana, e da tutto ciò che è prezioso nella Costituzione inglese, per approvare una politica sovversiva della società europea. Il diritto delle nazioni, il diritto pubblico, i trattati stabiliti ed il possesso legittimo, sono senza dubbio, per la moderna scuola degli statisti, un nulla e restano senza significato. Sono nondimeno queste le realtà che legano la società; e costituiscono le prove morali mediante le quali si deve provare la giustizia in una causa. La politica che li viola è immorale; il suo fine è l’illegalità pubblica, e il suo successo sarà la sua stessa punizione. Ora ho una convinzione ancor più profonda che questo movimento anticattolico, guidato e stimolato dall’Inghilterra, avrà il suo successo perfetto e regnerà per un tempo supremo; e poi, forse prima di essere nelle nostre tombe, tutti coloro che vi hanno partecipato, principi, uomini di stato e persone, saranno flagellati, mediante un conflitto universale, dalla rivoluzione, da una guerra europea, della quale il 1793 e le guerre del primo impero, sono un pallido preludio. Ciò che mi fa più vergognare ed allarmare, è vedere quegli uomini che una volta credevano in un ordine superiore delle politiche cristiane, propagare ora contro la Santa Sede, la dottrina della nazionalità, e la legittimità della rivoluzione che, se applicata all’Inghilterra, non riuscirebbe a smembrare l’impero solo perché sarebbe soffocata nel sangue. Sembra come se gli uomini abbiano perso la loro luce. In quale altro modo possiamo infatti spiegare la cecità che non riesce a vedere che il conflitto tra Francia ed Austria ha indebolito la società cattolica d’Europa, e ha dato alla politica protestante dell’Inghilterra e della Prussia un predominio estremamente pericoloso? Non passerà molto tempo prima che scoppi una guerra europea che esaurisca i poteri della società cristiana, sia dei protestanti che dei Cattolici, e darà un fatale predominio alla società anticristiana, o alla rivoluzione, che in ogni dove sta preparandosi per l’ultima battaglia, e per la sua supremazia. La società cattolica d’Europa si indebolisce, la società cristiana a sua volta, tra breve cederà. Poi arriverà il flagello! La convinzione che avverto è che si stia abbattendo una imminente grande tribolazione sul movimento anticattolico di Inghilterra, Francia e Italia, il che è reso ancora più sicuro dal fatto che il punto critico dell’intero conflitto, la chiave di volta del tutto, e l’ultimo successo che si prefigge di ottenere, è la detronizzazione del Vicario del nostro Redentore. « Il potere temporale del Papa – ci viene detto – è stato il grande ostacolo alla pace dell’Italia e dell’Europa ». È questo che distribuisce e ordina i due elementi: « Qui non mecum, contra me est » [chi non è con me, è contro di me]. Essi avranno il loro giorno, e il Vicario di Gesù Cristo attenderà il suo tempo! « Si moram fecerit, expecta illum;  quia veniens veniet, et non tardabit » [se farà ritardo, aspettalo; perché verrà e non tarderà]. Nel frattempo l’Inghilterra si sta preparando al suo sfaldamento. Essa ha guidato l’incredulità dell’Europa, e sarà divorata dai suoi stessi seguaci. La Riforma ha fatto il suo lavoro su di essa. Il protestantesimo, come la camicia di Nesso, aderisce alla carne dell’Inghilterra, e il suo giorno arriverà infine. Ci è stato detto che l’uomo ha ottantatré parassiti che vivono sulla sua carne. La Chiesa anglicana allo stesso modo offre un “pabulum” ad ogni eresia e porta nel suo sistema ciò che la Chiesa vivente di Dio espelle e caccia via. In questo momento, nella Chiesa anglicana istituita, esiste in uno stato formale il Sabellianesimo, il Pelagianesimo, il Nestorianesimo, il Calvinismo, il Luteranesimo, lo Zwinglianesimo, il Naturalismo e il Razionalismo. Passo sopra una moltitudine di altre eresie meno formali, e nomino solo queste perché hanno un’esistenza definita e attiva nell’Istituzione, e si riproducono da sole. È l’inimicizia intrinseca di questa congerie di eresie che dirige il potere politico dell’Inghilterra contro la Chiesa Cattolica e, soprattutto, contro la Santa Sede; è essa che dà all’Inghilterra la malinconica pessima preminenza della “terra più anticattolica”, e quindi della più anticristiana potenza del mondo. – Nelle pagine che seguono mi sono sforzato, in modo certamente insufficiente, data la complessità dell’argomento, di mostrare che ciò che sta avvenendo nei nostri tempi sia il preludio del periodo anticristiano dell’ultima detronizzazione della cristianità e della restaurazione della società senza Dio nel mondo. Ma, prima o poi, così deve avvenire: « … Il Figlio dell’uomo se ne va, come è scritto di Lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell’uomo se non fosse mai nato! ». (San Matt. XXVI, 24). Che Dio ci impedisca di condividere anche il silenzio nella persecuzione della sua Chiesa!

Credimi, mio caro Dr. Newman, con immutato affetto, tuo:

H. E. MANNING.

St. Mart’s, Bayswater,

Master 1861

LETTURA I

Sono ben consapevole del fatto che le verità e i principi della Rivelazione siano stati, per il comune consenso degli uomini pubblici, esclusi formalmente dalla sfera della politica, e che applicarli come prove agli eventi del mondo, sia considerata, in questi giorni, una debolezza mentale. Coloro che rifiutano la Rivelazione sono coerenti in tale giudizio; ma con quale coerenza essi professano di credere in una rivelazione del governo divino del mondo, e tuttavia acconsentono ad escluderlo dal campo della storia contemporanea, non posso dirlo. Sto quindi procedendo, prudens et videns, a scontrarmi con lo spirito popolare di questi tempi, ben sapendo di espormi al disprezzo o alla compassione di coloro che credono che il mondo sia governato solo dall’azione della volontà umana. A questo mi rassegno molto volentieri e senza turbamenti. La mia intenzione però, è quella di esaminare l’attuale relazione della Chiesa con le potenze civili del mondo alla luce di una profezia registrata da San Paolo, e di individuare alcuni princîpi di tipo pratico per la direzione di coloro che credono che la Volontà Divina sia presente anche negli eventi che stanno avvenendo davanti ai nostri occhi. Non sto per entrare nella esposizione dell’Apocalisse, o nel calcolo dell’anno della fine del mondo; questo lo lascio a coloro che sono chiamati a farlo. I punti che mi propongo invece di prendere in considerazione, sono pochi e pratici; ed il risultato che desidero raggiungere è un discernimento più chiaro di quali siano i princîpi cristiani, di ciò che è l’anticristo, e un apprezzamento più sicuro del carattere degli eventi dai quali la Chiesa e la Santa Sede sono attualmente provati. Paolo, scrivendo ai Tessalonicesi, dice: « … Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti dovrà avvenire l’apostasia e dovrà esser rivelato l’uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, venivo dicendo queste cose? E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione, che avverrà nella sua ora. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Solo allora sarà rivelato l’empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all’apparire della sua venuta, l’iniquo, la cui venuta avverrà nella potenza di satana, con ogni specie di portenti, di segni e prodigi menzogneri, e con ogni sorta di empio inganno per quelli che vanno in rovina perché non hanno accolto l’amore della verità per essere salvi. E per questo Dio invia loro un’operazione d’inganno perché essi credano alla menzogna e così siano condannati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all’iniquità. » (2 Thess. II. 3 – 11). –

Abbiamo qui dunque una profezia di quattro grandi fatti: – primo, di una rivolta, che precederà la seconda venuta del nostro Signore; – in secondo luogo, della manifestazione di colui che è chiamato « il malvagio »; – in terzo luogo, di un ostacolo, che limita la sua manifestazione; – e infine, del periodo del potere e della persecuzione di cui [il malvagio] sarà l’autore. Nel trattare questo argomento, non mi avventuro in esso con congetture personali, ma riporterò semplicemente ciò che trovo sia nei Padri della Chiesa, sia nei teologi che la Chiesa ha riconosciuto attendibili, e cioè: Bellarmino, Lessius, Malvenda, Viegas, Suarez, Ribera ed altri. –

In primo luogo, quindi, qual è la rivolta? Nell’originale si chiama ἀποστασία, “un’apostasia” e nella Vulgata, discordia o “fuoriuscita”. Ora una rivolta implica una separazione sediziosa da una data autorità ed una conseguente opposizione ad essa. Se riusciamo a trovare l’autorità, troveremo naturalmente anche la rivolta. Ora, ci sono nel mondo solo due “supreme Autorità”, quella civile e quella spirituale, e questa rivolta deve essere quindi o una sedizione o uno scisma. Inoltre, deve essere qualcosa che si svolga in un campo ampio, in proporzione ai termini ed agli eventi della predizione. – San Girolamo, con alcuni altri, interpreta questa rivolta come la ribellione delle nazioni o delle province contro l’Impero Romano. Dice: « Nisi venerit discessio …. ut omnes gentes quaæ Romano Imperio sujacent, recedant ab eis [se non viene la separazione … cosicché tutte le genti sottoposte all’Impero romano, si separano da esso] » (S. Hier. Ep. ad Algasiam).  Non è necessario esaminare questa interpretazione, in quanto gli eventi della storia cristiana la confutano: infatti si sono ribellati, ma non è apparsa nessuna manifestazione. Sembra che ci sia bisogno di poche prove che dimostrino che questa rivolta o apostasia sia una separazione, non dall’autorità civile, ma dall’ordine e dall’Autorità spirituale; i sacri Scrittori infatti ripetutamente parlano di una tale separazione spirituale; e in un punto San Paolo sembra espressamente dichiarare il significato di questa parola. Prevede a San Timoteo che nei giorni successivi, « τινὲς ἀποστήσονται ἀπὸ τῆς πίστεως (tines apostesontai apo tes pisteos)– alcuni partiranno o faranno apostasia dalla fede », [1 Tim. IV, 1] per cui sembra evidente che sia la stessa caduta spirituale ad essere significata dall’apostasia in questo luogo. L’Autorità, quindi, nei confronti della quale deve avvenire la rivolta, è quella del Regno di Dio sulla terra, profetizzato da Daniele, come il regno che il Dio del cielo dovrebbe istituire, dopo i quattro regni distrutti dalla “pietra staccata non per mano d’uomo”, e che diviene poi una grande montagna riempendo tutta la terra; o, in altre parole, l’unica e universale Chiesa fondata dal nostro Divin Signore e diffusa dai suoi Apostoli in tutto il mondo. In questo solo Regno soprannaturale fu depositato il vero e puro teismo, o la conoscenza di Dio, e la vera e unica Fede nel Dio incarnato, con le dottrine e le leggi della grazia. Questa, quindi, è l’Autorità verso cui è fatta la rivolta ed il distacco, e non è difficile comprenderne il carattere. Gli scrittori ispirati descrivono espressamente le sue note. La prima è lo scisma, come dice San Giovanni: « È l’ultima ora: e come tu hai sentito che l’Anticristo viene: anche ora ci sono molti Anticristi: per cui sappiamo che è l’ultima ora. Sono usciti da noi; ma non erano dei nostri. Perché se fossero stati dei nostri, senza dubbio sarebbero rimasti con noi. » (1 S. Giov. II, 18-19). –

La seconda nota è il rifiuto dell’ufficio e della presenza dello Spirito Santo. San Giuda dice: « tutto ciò che essi conoscono per mezzo dei sensi, (come animali senza ragione, questo serve a loro rovina (ψυχικοί (=psukikoi) – animale o uomini semplicemente razionali e naturali) » – « non avendo lo spirito » (S. Giud. 9). Ciò implica necessariamente il principio eretico dell’opinione umana in contrapposizione alla Fede divina; dello spirito privato come contrario alla voce infallibile dello Spirito Santo, che parla attraverso la Chiesa di Dio. – La terza nota è la negazione dell’Incarnazione. San Giovanni scrive: « Ogni spirito, che confessa che Gesù Cristo è venuto nella carne è di Dio: e ogni spirito che non riconosce Gesù (negando cioè il mistero dell’Incarnazione, o il vero Dio, o la vera umanità, o l’unità ipostatica della divinità della Persona del Figlio incarnato) « non è da Dio, e questo è l’Anticristo, di cui tu hai sentito che è venuto, e ora è già nel mondo » Ancora una volta dice: « … Molti seduttori sono apparsi nel mondo, che non confessano che Gesù Cristo è venuto nella carne: questi è il seduttore e l’anticristo (2 Giov., 7) – Questi, quindi, sono i segni con i quali la Chiesa debba riconoscere, dalle sue caratteristiche, la rivolta dell’anticristo, o l’apostasia, forse distinti. Vedremo ora se esse possono essersi già verificate nella storia del Cristianesimo o nella posizione attuale della Chiesa nel mondo. Il primo punto che dobbiamo notare è che sia San Paolo che San Giovanni, dicono che questa rivolta dell’anticristo sia come già iniziata ai loro giorni. San Paolo dice: « Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene » (2 Tess. II, 7); e in modo ancora più esplicito San Giovanni, nei luoghi sopra citati, dice: « Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo (1 S. Giov. IV, 3). – E ancora: « Figlioli, questa è l’ultima ora. Come avete udito che deve venire l’anticristo, di fatto ora molti anticristi sono apparsi. Da questo conosciamo che è l’ultima ora » (1 Giov. II, 18). – Dobbiamo guardare, quindi, agli inizi di questa rivolta iniziata nei tempi degli Apostoli. Lo spirito dell’Anticristo era già al lavoro non appena Cristo si fu manifestato al mondo. In una parola, quindi, si descrive il continuo lavorio dello spirito dell’eresia, che fin dall’inizio è stato parallelo alla Fede. È evidente che San Paolo e San Giovanni applicassero questi termini ai Nicolaiti, agli gnostici e simili. Le tre note dell’Anticristo: scisma, eresia, e la negazione dell’Incarnazione, erano manifesti in loro. Ugualmente esse sono applicabili ai Sabelliani, agli Ariani, ai Semiariani, ai Monofisiti, ai Monoteliti, agli Eutichiani, e all’eresia macedoniana. I princîpi sono identici; gli sviluppi vari, ma solo accidentali. E così, in tutti questi milleottocento anni, ogni successiva eresia ha generato uno scisma, ed ogni scisma ha generato l’eresia; tutti [eresie e scisma] allo stesso modo negano la Divina Voce dello Spirito Santo che parla continuamente attraverso la Chiesa; e tutti allo stesso modo sostituiscono l’opinione umana alla fede Divina; allo stesso modo tutti procedono, con alterno processo, ora un po’ più rapidamente, ora un po’ più lentamente, verso la negazione dell’Incarnazione del Figlio. Alcuni possono iniziare con questo fondamento fin dall’inizio, altri vi giungono con una trasmutazione lunga ed inattesa, come quella del protestantesimo sprofondato nel razionalismo; ma sono tutti identici come linea di principio, e sono identici anche nelle loro conseguenze estreme. Ogni epoca ha la sua eresia, infatti ogni articolo di fede negato inganna nella sua definizione, e il corso dell’eresia è graduale e periodico; varie sono materialmente le eresie, ma formalmente sono “unum”, sia in linea di principio che nell’azione; di modo che tutte le eresie fin dalla loro origine, non sono altro che lo sviluppo continuo e l’espansione del “mistero dell’iniquità” che era già all’opera fin dall’inizio. – Un altro fenomeno nella storia dell’eresia è il suo potere di organizzare e perpetuarsi, almeno fino a quando non si risolvesse in qualcosa di più sottile o in una forma più aggressiva: per esempio, l’arianesimo, che rivaleggiava con la Chiesa Cattolica di Costantinopoli, in Lombardia e nella Spagna; il Donatismo, che pareggiava con la Chiesa in Africa; il Nestorianismo, che ha superato per numero la Chiesa in Asia; il maomettanesimo, che ha punito e assorbito la maggior parte dei suoi antenati e ha stabilito, nell’Est e nel Sud, la più terribile potenza militare anticristiana che il mondo abbia mai visto; il protestantesimo, che si è organizzato come un ampio antagonismo politico nei confronti della Santa Sede, non solo al Nord ma, mediante la sua politica e la diplomazia, anche negli stessi Paesi Cattolici. A questo potere di espansione deve aggiungersi una certa morbosa e nociva riproducibilità. I fisiologi ci dicono che c’è una perfetta unità finale anche nelle innumerevoli malattie che assalgono il corpo; tuttavia, ogni malattia sembra generarsi e discendere da una propria corruzione e riproduzione fisiopatologica. Così è nella storia e nello sviluppo dell’eresia. Per restare ad esempio allo gnosticismo, all’arianesimo e, soprattutto, al protestantesimo, notiamo come tali eterodossie abbiano generato ciascuna una moltitudine di eresie subordinate ed affiliate. Ma è il protestantesimo che, soprattutto, mostra le tre note degli scrittori ispirati nella sua più grande ampiezza e con certa evidenza. Altre eresie si sono opposte a parti e a dettagli della Fede e della Chiesa cristiana; ma il protestantesimo, preso nel suo complesso storico, come siamo in grado di valutarlo oggi con una retrospezione di trecento anni, giungendo dalla religione di Lutero, Calvino e Cranmer, sviluppata nel Razionalismo e nel Panteismo dell’Inghilterra da una parte, e della Germania all’altra, è l’antagonista più formale, dettagliato ed ostinato del Cristianesimo. Non intendo dire che esso abbia ancora raggiunto il suo pieno sviluppo, perché vedremo che ci sono ragioni per credere che ci siano margini per un futuro ancora più oscuro; ed anche se « il mistero dell’iniquità è già in opera », nessun altro antagonista è andato così in profondità nel minare la fede del mondo cristiano. Non pretendo di scrivere un trattato sulla riproduttività del protestantesimo; ce n’è abbastanza però per fissare determinati fatti ovvii nella storia intellettuale degli ultimi trecento anni, e che cioè il socinismo, il razionalismo e il panteismo sono la progenie legittima delle eresie luterane e calviniste; e che l’Inghilterra protestante, la meno intellettuale e razionalmente la meno consistente tra i paesi protestanti, offra in questo momento un ricco pabulum per la comunicazione e la riproduzione di questi spiriti di errore. Tutto ciò che desidero sottolineare è questo, per usare una frase moderna: che il movimento dell’eresia è unico e lo stesso fin dall’inizio: che  gli gnostici erano i protestanti del loro tempo e i protestanti sono gli gnostici di oggi;  che il principio è sempre lo stesso, ma il corpo del movimento si è evoluto fino a maggiori proporzioni; i suoi successi si sono accumulati mentre il suo antagonismo verso la Chiesa Cattolica è rimasto immutabile ed essenziale. Ci sono due conseguenze o operazioni di questo movimento così strano e così pieno di importanza, in base alla sua relazione con la Chiesa, per cui non posso passarli oltre. La prima è lo sviluppo e il culto del principio della nazionalità, che è sempre stato trovato in combinazione con l’eresia. – Ora, l’Incarnazione ha abolito tutte le distinzioni nazionali all’interno della sfera della grazia, e la Chiesa ha assorbito tutte le Nazioni nella sua unità soprannaturale. Una fonte unica della giurisdizione spirituale e una voce divina, tenevano insieme le volontà e le azioni di una famiglia di Nazioni. Prima o poi, ogni eresia si è identificata con la Nazione in cui è sorta, ha vissuto con il supporto dei poteri civili, incarnando la rivendicazione dell’indipendenza nazionale. Questo movimento, che è la chiave del cosiddetto grande scisma d’Occidente, è anche il rationale della Riforma; e gli ultimi trecento anni hanno dato uno sviluppo ed un’intensità allo spirito di separatismo nazionale, di cui ancora non vediamo nulla più che dei preludi. Non ho bisogno di indicare come questo nazionalismo sia essenzialmente scismatico, o che debba essere visto non solo nella Riforma anglicana, ma nelle libertà gallicane e nelle contese del Portogallo in Europa e in India, per non citare altro. Ora ho sottolineato questa caratteristica dell’eresia perché essa verifica uno dei tre marchi sopra menzionati. Se l’eresia nell’Individuo dissolve l’unità dell’Incarnazione, l’eresia in una Nazione dissolve l’unità della Chiesa, che è costruita sull’Incarnazione. E in questo vediamo un significato più vero e più profondo delle parole di San Girolamo di quanto non lo avesse previsto neanche egli stesso. Non si tratta della rivolta delle nazioni dall’Impero Romano, ma l’apostasia delle Nazioni dal Regno di Dio, che fu eretto sulle sue rovine. – E questo processo di defezione nazionale, che è iniziato apertamente con la Riforma protestante, è in corso, come vedremo in seguito, anche in Nazioni ancora nominalmente cattoliche; e la Chiesa deve riprendere il suo carattere medievale di madre delle Nazioni, tornando di nuovo nella sua condizione primitiva di una società di membri sparsi tra i popoli e le città del mondo. – L’altro risultato di cui ho parlato come conseguenza della successiva opera dello spirito eretico, è la deificazione dell’umanità. Questo lo possiamo constatare in due forme distinte: nelle filosofie panteistica e positivista; o piuttosto nella religione del positivismo, l’ultima aberrazione di Comte. Sarebbe impossibile in questo luogo dare un resoconto adeguato di questi due sviluppi terminali dell’incredulità; per fare ciò ci sarebbe bisogno di un trattato. Sarà però abbastanza esprimere, in modo popolare, il profilo di queste due forme di empietà anticristiana. Prendo l’espressione del Panteismo della Germania da due dei suoi moderni espositori, nei quali si può dire che esso culmini. Ci è stato detto che « Prima del tempo in cui è iniziata la creazione, possiamo immaginare che una mente infinita, un’essenza infinita o un pensiero infinito (perché qui tutti questi sono un “uno”), ha riempito tutto lo spazio dell’universo. Questo, quindi, come l’auto-esistente Uno, deve essere l’unica realtà assoluta; tutto il resto non può che svilupparsi dell’unico essere originale ed eterno …. Questa essenza primaria non è … una sostanza infinita, che ha le due proprietà di estensione e di pensiero, ma un infinito che agisce, produce, si sviluppa da sé come mente, anima vivente del mondo. »  – « Se possiamo vedere tutte le cose come lo sviluppo del principio originale e assoluto della vita, della ragione o dell’essere, allora è evidente come al contrario possiamo individuare i segni dell’assoluto in ogni cosa esistente, e di conseguenza, possiamo indagarli nelle operazione delle nostre menti, come una particolare fase di una sua manifestazione. » – Nella filosofia pratica abbiamo tre movimenti: il primo è quello in cui l’intelligenza attiva si mostra operante all’interno di un circuito limitato, come in una singola mente. Questo è il principio dell’individualità, non come se l’intelligenza infinita fosse qualcosa di diverso dal finito, o come se ci fosse un’intelligenza infinita fuori e separata dal finito, ma è semplicemente l’assoluto in uno dei suoi momenti particolari; proprio come un pensiero individuale è solo un singolo momento di tutta la mente. Ogni motivo finito, quindi, non è che un pensiero della ragione infinita ed eterna. – Essendo così l’essenza assoluta ogni cosa, è veramente eliminata ogni differenza tra Dio e l’universo; e il Panteismo diventa completo, « come l’assoluto si è evoluto dalla sua forma più bassa alla più alta, secondo la legge o il ritmo del suo essere, il mondo intero, materiale e mentale, diventa un’enorme catena di necessità, a cui nessuna idea di creazione libera può essere applicata. » (Vedi: account of the German school, Schelling, Hegel, and  Hillebrand, in Morell’s History of Modern Philosophy, vol. II, pp. 126-147). – Ed ancora: « … La divinità è un processo che va avanti ma non è mai compiuto, anzi, la coscienza Divina è assolutamente “una” con la coscienza avanzata dell’umanità. La speranza dell’immortalità è vana, poiché la morte non è che il ritorno dell’individuo all’infinito (come l’ensof cabalista – ndr. -), e l’uomo è annientato, sebbene la Divinità vivrà eternamente. Ancora: « La divinità è il processo eterno di auto-sviluppo così come realizzato nell’uomo; la coscienza divina e umana procedono assolutamente insieme. » – « … La conoscenza di Dio e delle sue manifestazioni forma l’argomento della teologia speculativa. … Di queste manifestazioni ci sono tre grandi ambiti di osservazione: la natura, la mente e l’umanità. In natura vediamo l’idea divina nella sua espressione più bassa; nella mente, con i suoi poteri, le facoltà, i sentimenti morali, libertà, ecc., lo vediamo nella sua forma più alta e più perfetta; infine, nell’umanità vediamo Dio, non solo come Creatore e sostenitore, ma anche come padre e guida. » – « … L’anima è uno specchio perfetto dell’universo, e dobbiamo solo guardarlo con grande attenzione  per scoprire tutta la verità che è accessibile all’umanità. Ciò che sappiamo di Dio, quindi, può essere solo questo che ci è stato originariamente rivelato da Lui nella nostra mente ». (Ibid. pag. 225). – Ho citato questi estratti per mostrare come il sistema soggettivo del giudizio privato si risolva in un legame legittimo con il puro panteismo razionalistico. – Concluderò con poche parole sul “positivismo” di Comte, e  affinché non sembri che distorca o colori autonomamente questa forma di aberrazione, la citerò con le parole stesse dell’autore. In primo luogo, dunque, egli descrive la filosofia positiva come segue: « Dallo studio dello sviluppo dell’umana intelligenza, in tutte le direzioni e attraverso tutti i tempi, si scopre che essa nasce da una grande legge fondamentale, alla quale è necessariamente soggetta e che ha un solido fondamento di prove, sia nei fatti della nostra organizzazione, che nella nostra esperienza storica. La legge è questa: che ciascuna delle nostre idee principali, in ogni ramo della nostra conoscenza, passa successivamente attraverso tre diverse condizioni teoriche: la teologica o fittizia; la metafisica o astratta; e la scientifica o positiva. In altre parole, la mente umana per sua natura impiega nel suo progresso tre metodi di filosofare, il cui carattere è essenzialmente diverso e anche radicalmente opposto, vale a dire: il metodo teologico, il metafisico, e il positivo. Quindi sorgono tre filosofie, o sistemi generali di concezioni sull’aggregato dei fenomeni, ognuno dei quali esclude gli altri. Il primo è punto di partenza necessario per la comprensione umana, e il terzo è il suo fisso e definito stato. Il secondo è semplicemente uno stato di transizione. » – « … Nello stato teologico, la mente umana, cercando la natura essenziale degli esseri, la causa primo ed il fine (l’origine e lo scopo) di tutti gli effetti – insomma, la conoscenza assoluta – suppone che tutti i fenomeni siano il prodotto dall’azione immediata di esseri soprannaturali ». – « Nello stato metafisico, che è solo una modifica del primo, la mente suppone invece degli esseri soprannaturali, delle forze astratte, delle entità vere (cioè astrazioni personificate), inerenti a tutti gli esseri, e capaci di produrre tutti i fenomeni. Ciò che è chiamato la spiegazione dei fenomeni è, in questo stadio, un semplice riferimento di ogni cosa ad una propria entità. » – « … Nello stato finale, lo stato positivo, la mente ha dedotto dalla ricerca, dopo le nozioni assolute, l’origine e la destinazione dell’universo e le cause dei fenomeni, e si applica allo studio delle loro leggi, cioè le loro invariabili relazioni di successione e di somiglianza. Ragionamento e osservazione, debitamente combinati, sono i mezzi di questa conoscenza. Quel che si intende, quando parliamo di una spiegazione di fatti, è semplicemente l’istituzione di una connessione tra singoli fenomeni e alcuni fatti generali, il cui numero diminuisce continuamente con il progresso della scienza ». (Positive Philosophy, vol. I. c. 1.).  Da ciò si osserverà che la credenza in Dio è avvenuta durante il primo periodo “fittizio” della ragione umana. Tuttavia, dopo il completamento della sua filosofia, Comte percepisce la necessità di una religione. Ed infatti il suo “Catechismo della religione positiva”, così inizia: «Nel nome del passato e del futuro, i servitori dell’Umanità – sia il filosofo che i servitori pratici – si sono fatti avanti per reclamare come sia a loro dovuta la direzione generale di questo mondo. Loro oggetto è, nel lungo, costituire una vera Provvidenza in tutti gli ambiti, morale, intellettuale e materiale. » Di conseguenza essi escludono, una volta per sempre, dalla supremazia politica tutti i diversi servi di Dio – il Cattolico, il Protestante o il Deista – come contemporaneamente arretrati e causa di disturbo (Catechism of Positive Religion, Preface). – Ma nella misura in cui non ci possa essere religione senza adorazione, e adorazione senza Dio, poiché in tal sistema non c’è Dio, Comte aveva bisogno di trovare o creare una “divinità”. Ora, dal momento che non c’è Dio, non può esserci alcun essere più in alto dell’uomo, e nessun altro oggetto di culto più elevato dell’umanità. « … Gli esseri immaginari che la religione introdusse provvisoriamente per i suoi scopi furono in grado di ispirare vivacemente i sentimenti nell’uomo, sentimenti che divennero anche più potenti sotto il sistema meno elaborato del fittizio. L’immensa preparazione scientifica richiesta come introduzione al positivismo per lungo tempo sembrò privarlo di una così valida attitudine. Mentre l’iniziazione filosofica comprendeva solo l’ordine del mondo materiale, anzi, persino quando si era esteso all’ordine degli esseri viventi, esso poteva rilevare solo le leggi che erano indispensabili per la nostra azione, e non potrebbe fornirci alcun oggetto diretto per un affetto duraturo e costante. Questo non è più il caso dal completamento della nostra graduale preparazione con l’introduzione dello studio speciale sull’ordine dell’esistenza dell’uomo, sia come individuo che come società. Questo è l’ultimo passaggio del processo. Siamo ora in grado di condensare tutte le nostre concezioni positive nell’unica idea di un Essere immenso ed eterno, l’Umanità, destinato dalle leggi sociologiche al costante sviluppo sotto l’influenza preponderante delle necessità biologiche e cosmologiche. Questo è il vero grande Essere da cui tutti, siano essi individui o società, dipendono come dal primo motore della loro esistenza, e che diventa il centro dei nostri affetti; essi si appoggiano ad esso con un impulso spontaneo come il nostro pensiero e le nostre azioni. Questo Essere, per sua stessa idea, suggerisce immediatamente la sacra formula del Positivismo; « Amore come nostro principio, Ordine come nostra base, e Progresso come nostro fine ». La sua esistenza composita è sempre fondata sulla libera concorrenza di volontà indipendenti. Tutta la discordia tende a dissolvere quella esistenza che, per la sua stessa nozione, sancisce il costante predominio del cuore sull’intelletto, come unica base della nostra vera unità. – Quindi l’intero ordine delle cose d’ora in poi trova la sua espressione nell’essere di chi lo studia e di chi lo perfezionerà sempre. La lotta dell’Umanità contro le influenze combinate delle necessità che è obbligata ad obbedire, crescendo come fa in energia e successo, rende il cuore, non meno dell’intelletto, un oggetto di contemplazione migliore di quello capriccioso e negativo del suo precursore teologico, capriccioso proprio della forza della parola onnipotenza. Un tale Essere Supremo è più alla portata dei nostri sentimenti e delle nostre concezioni, poiché è identico per natura ai suoi servitori e allo stesso tempo è superiore a loro. » – « … Devi definire l’umanità come l’insieme degli esseri umani, passati, presenti e futuri. La parola “intero” indica chiaramente che non devi prendere tutti gli uomini, ma solo quelli che sono veramente capaci di assimilazione, in virtù di una vera cooperazione in quella parte che promuove il bene comune. Tutti sono necessariamente figli nati dall’Umanità, ma non tutti diventano suoi servi. Molti rimangono nello stato di parassitaggio, che, scusabile durante la loro educazione, diventa colpevole quando tale educazione sia completa. I periodi di anarchia portano avanti a sciami creature del genere, anzi, permettono loro persino di prosperare, sebbene siano, nella triste realtà, un aggravio sul vero Grande Essere. (Catechism of Positive Religion, pp. 63, 74). – Si osserverà che sia il Panteismo sia il Positivismo finiscano nella deificazione dell’uomo; sono di un egotismo sconfinato e rappresentano l’apoteosi dell’orgoglio umano. – Non mi dilungherò oltre su questo punto; ho dovuto menzionarlo solo perché dovrò fare riferimento ad esso nel prosieguo. Ora riassumo brevemente ciò che ho detto: – Noi vediamo che è predetto che, prima della manifestazione dell’ultimo grande antagonista di Dio e del Figlio suo incarnato, ci debba essere una rivolta e una caduta; abbiamo visto che l’Autorità verso la quale la rivolta debba essere fatta è manifestamente quella della Chiesa di Dio, e che sarà una rivolta recante le tre note di: scisma, eresia e diniego dell’Incarnazione; abbiamo visto anche che questo movimento anticristiano fosse già all’opera anche ai tempi degli Apostoli; che abbia operato sin da allora in molteplici forme e in tempi diversi, e con i più diversi e persino contraddittori sviluppi, ma che tuttavia sia sempre lo stesso identico in linea di principio e in antagonismo con l’Incarnazione e con la Chiesa. È evidente che questo movimento abbia accumulato i suoi risultati di età in età, e che in questo momento sia più maturo ed abbia una statura maggiore, un potere più grande e un antagonismo più formale verso la Chiesa e la Fede che mai. – Si è legato all’orgoglio dei governi, per via del nazionalismo, e degli individui dalla filosofia e, sotto le forme del protestantesimo, della civiltà, della laicità; ha organizzato un vasto potere anticattolico nell’est, nel nord e nell’ovest dell’Europa. Di fatto, cattolico ed anticattolico descrivono i due schieramenti. Temo di dover aggiungere, Cristiano ed anticristiano. E questo è uno dei miei scopi essenziali, nel trattare l’argomento; perché sono convinto che le moltitudini vengano portate via, non sapendo dove vanno, da un movimento essenzialmente opposto a tutte le loro migliori e più profonde convinzioni, perché non sono in grado di discernere il suo vero principio ed il suo carattere. Nell’attuale panorama dell’opinione popolare dell’Europa contro la Santa Sede ed il Vicario di Gesù Cristo, si può distinguere l’istinto dell’Anticristo. Le rivoluzioni in Italia, sostenute dallo spirito anticattolico del continente e dalla politica dell’Inghilterra, stanno adempiendo alle profezie e confermando la nostra Fede. Ma spero di mostrare tutto questo più pienamente più oltre. Sembra inevitabile l’inimicizia di tutte le Nazioni che sono separate dall’unità cattolica e sono penetrate dallo spirito della Riforma, cioè dallo spirito del “giudizio privato” in opposizione alla Voce Divina della Chiesa vivente e dall’incredulità che ha bandito la presenza eucaristica del Verbo Incarnato che dovrebbe essere concentrata sulla persona che è Vicario e Rappresentante di Gesù, e sul Corpo che è testimonianza, da sola, dell’Incarnazione, e di tutti i suoi misteri di verità e di grazia. Tale è l’unica Chiesa Cattolica e Romana, e tale è il Sommo Pontefice, il suo Capo visibile. Tali, nelle parole della Sacra Scrittura, sono i due misteri della pietà e dell’empietà. Tutte le cose stanno mettendo in luce ed in risalto i due poteri estremi che dividono i destini degli uomini. Il conflitto è un semplice antagonismo tra Cristo e l’Anticristo; i due schieramenti si stanno ordinando, gli uomini scelgono i loro princîpi … o forse gli eventi scelgono per loro; e stanno inconsapevolmente andando alla deriva seguendo correnti di cui non hanno consapevolezza alcuna. La teoria, secondo cui la politica e la Religione hanno delle sfere diverse, è un’illusione e una trappola. Perché la storia può essere veramente letta unicamente alla luce della Fede; e il presente può essere interpretato solo dalla luce della Rivelazione: poiché sopra le volontà umane che sono ora in conflitto, c’è una Volontà, sovrana e divina, che sta conducendo tutte le cose a compiere il proprio fine perfettamente.

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (-5B-)

BEATITUDINI EVANGELICHE

 [A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]

CAPO QUINTO

Beati misericordes: quoniam ipsi misericordiam consequentur.

Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia

III

VIRTÙ DI CHI CONOSCE IL CUORE UMANO

Il mondo è sempre piuttosto duro nel giudicare e trattare con chi è caduto nel male. Non ci rendiamo conto delle condizioni nelle quali sono cresciuti, della loro famiglia, dell’esempio che ivi ebbero nella loro fanciullezza e poi sempre. Neppure abbiamo notizia di quello che impararono quando tutto s’assorbe e si trasforma in elemento o di vita o di morte.

FAMIGLIA E SOCIETÀ’ SENZA DIO

Quanta miseria infesta certe famiglie, indegne dello stesso nome! Sono più covi e tane, che case di Cristiani. Vi regna piuttosto l’odio che l’amore. L’ira e l’invidia vi si respira, anziché la pace e la gioia della vita. Come può svolgersi un’anima? Né l’intelletto viene illuminato dalle verità della Fede; né il cuore scaldato dai principi della divina carità e dal desiderio della virtù. La virtù per tanti giovanetti è l’abilità di farla franca. Evitare con l’astuzia la sorveglianza della legge, questa è la qualità più pregiata. Sfuggire alle maglie della giustizia umana. Questo concetto della vita, come equilibrio tra il costume esterno e le proprie voglie disordinate, si conserva poi sempre; poiché vedono che molti cittadini onorati » lo tengono effettivamente, se non apertamente come guida e norma della loro riuscita. Povere esistenze prive d’ogni conforto, alle quali non giunge neppure l’ombra d’un gesto gentile, neppur l’eco d’una parola buona. Ignare del massimo patrimonio di vitale energia, che è la pietà religiosa, passano gli anni della giovinezza o annebbiati dallo spasso volgare o avvelenati da delusioni irritanti. Non sentono mai parola di Dio, se non per bestemmiarla;non conoscono i Sacramenti che han forse ricevuto da bambini, se non per un lontano e velato ricordo seducente; la Madonna di cui vedono le immagini dovunque, è per essi non il richiamo gentile e materno ma il termine di ingiurie innominabili per la bestialità battezzata; le virtù della purezza, della modestia, della carità, della mortificazione, sono ignote anche come vocaboli, come realtà esistenti. Miseria della vita di cui la responsabilità resta in gran parte della società effettivamente atea e tesa verso la contaminazione di tutti e di tutto. Siamo pertanto colpevoli in solido. E in solido dobbiamo renderne a Dio strettissimo conto. – Come dunque non essere misericordiosi, quando si conosca l’origine del male e la felicità per molti di cadérne vittime? Debole la natura, corrotta sovente la famiglia, la società colma di seduzioni maligne, i poveri che peccano quale responsabilità avranno al tribunale di Dio?

LA NOSTRA NOBILTÀ’

Vero è che sotto tutto codesto marasma sentiamo nell’uomo una grandezza e un alto destino. L’uomo è come un ricco decaduto; sotto i suoi cenci si avverte il tipo del nobile sangue, la linea distinta del volto, la delicatezza dell’indole. I suoi grandi desideri sono un «curo segno d’origine divina; la voce della coscienza, sempre vigile a suggerire il bene e a condannare il male, è voce che viene da più alto di lui; lo stesso bruciore del rimorso tradisce un fondo dello spirito, che si ribella alla schiavitù della terra. Non è forse vero, che le prime tentazioni turbano assai e che le prime cadute lasciano amara la bocca e il fiele in cuore? La stessa natura decaduta non ha cancellato la purità delle origini e insieme alla miseria presente sente ancora la sua congenita nobiltà. E poi v’è anche modo di leggere questa alta parola nella stessa vergogna delle passioni. Le quali esprimono, in fondo, il bisogno di possedere un oggetto eguale alla capacità del cuore umano. Sono pertanto, la manifestazione d’uno sforzo, che fallisce la sua direzione e batte una strada errata; ma lo scontento dice qualcosa. È sapienza conoscere così il nostro cuore e quello altrui. Da tale conoscenza acquista valore il sentimento di compassione e di misericordia. È questa sostanzialmente odio del male e amore del bene; salire alto verso il Cielo e discendere giù sino all’abisso. – Che cosa cerchiamo in Cielo, se non la luce di Dio, la sua bontà per noi, la volontà di salvezza che muove il suo cuore? Saliamo a Dio per attingervi il coraggio della virtù, le sue ragioni più pure, per sentire forte forte l’imperativo della coscienza — strato umano attraverso cui parla il Signore. È pertanto necessario questo incontro con Lui, per dire a noi medesimi: « Sta su d’animo, sei ancora buono e devi rimetterti in pace con te stesso per rappacificarti con Dio ». L a divina misericordia è benevola verso chi la seconda nella condotta della propria vita. Essa vi vede uno strumento docile delle sue effettuazioni nel mondo umano, un collaboratore intelligente e capace.

PENSIAMO Al PECCATORI

È evidente d’altronde, che con la salita alla sommità della scala verso il Giudice divino, occorre accoppiare la discesa verso l’abisso dove si trovano i caduti, per aiutarli nella fatica dell’uscire e del riprendersi in una vita rifatta in Dio. È questa un’opera di redenzione di alto valore ed apprezzata dal cuore del Signore, come una funzione ausiliatrice alla sua ed anche come lo sforzo di far meglio produrre la sua stessa Passione. Darle uno sviluppo nella effettiva applicazione agli smarriti, alle vittime dell’errore, della passione. La misericordia qui è la forma più evidentemente efficace dell’amore compassionante, che onora il Cristiano verace. « Siccome, diceva in un catechismo il santo Curato d’Ars, nulla affligge il cuore di Gesù quanto il vedere perdute, per un gran numero di persone, le sue sofferenze, gli sono bene accette le preghiere per la conversione dei peccatori. Son queste le suppliche più belle, perché i giusti possano perseverare, le anime del Purgatorio andare in Cielo, ma che sarà dei poveri peccatori, che non pregano mai, se qualcuno non prega per loro? « Alcuni esitano a convertirsi : un Pater e un’Ave basterebbero a deciderli. Quante anime potremo riportare al Signore con le preghiere! « La Santa Comunione e il Santo Sacrificio della Messa sono i due atti più efficaci per ottenere la conversione dei cuori. Vi sono pure le novene, soprattutto quelle che precedono le quattro grandi feste della Santa Vergine; spesso con queste funzioni si ricevono grazie, che non era stato possibile ottenere con altre preghiere, ma bisogna domandarle con il cuore puro. Quante belle anime ci sono, che ottengono tante conversioni con le loro preghiere! ». Infine, che cosa interpreta la nostra necessità spirituale meglio dell’esercizio della misericordia? Siamo in armonia con Dio, con noi medesimi, con il prossimo. Questo ambisce il soccorso in un affare di tale importanza; quello ha deciso che l’uomo debba collaborare alla propria salvazione; e noi intermediari siamo gli interpreti del diverso sentimento di ambedue. Anello di congiunzione fra il Cielo e la terra, entriamo, poveri ma volenterosi, nella funzione stessa del Redentore del mondo. Anche se la nostra persona val poco, la funzione è grande e onorevole. Noi allora ci sentiamo stimolati ed impegnati a servire il Signore con dignità e onore della nostra coscienza. Sentiamo cioè la vocazione all’esercizio della misericordia, per aiutare il Signore.

IV

L A MISERICORDIA ATTIRA MISERICORDIA COME SI AMA IL POVERO

L’animo, che sa commuoversi a pietà per il prossimo, sa compiere il sacrificio di piegarsi verso la sua debolezza e soccorrerla. A questo serve assai un cuore modesto. L’orgoglioso è troppo preoccupato di sé e dei suoi ambiziosi desideri, per avvertire il bisogno altrui. Gli pare, anzi, che il piegarsi verso gli altri sia una compromissione e una debolezza. Così è normale, che alla cura abituale dei poveri e dei deboli si consacrino i cuori umili e pii, i quali, sentendo l’amore di Dio, lo dimostrano praticamente sui prossimi, per onorare lui. – Quando Federico Ozanam sentì ben robusto quest’amore, si avvide del poco che gli dava per la sua gloria, notò che l’amare il prossimo lo avrebbe aiutato a dargli il tributo del suo cuore e, con altri amici del medesimo sentimento, pur essendo studenti alla Sorbona, si dedicò alle opere da cui nacquero le Conferenze di san Vincenzo. Il mondo presente appare ostentatamente orgoglioso delle sue opere sociali. Si pavoneggia delle molte effettuazioni a vantaggio dei poveri. Ma anche si avvede, che le necessità maggiori sfuggono alle sue attenzioni, non sa soccorrerle a dovere. Gli abbisogna l’aiuto della Religione e del suo unico spirito di carità. Questa sa fecondare gli animi con mezzi esclusivi. Insegna ad accostare il povero senza umiliarlo e dà senza condizioni. Il suo appoggio e le sue ragioni sono soltanto in Dio. Nell’intento di Ozanam l’aiuto materiale non deve scompagnarsi da quello spirituale; ma senza ombra di ostentazione. Soleva dire ai compagni, che anche nelle conversazioni coi poveri non si deve introdurre la Religione, se non al momento in cui essa viene naturalmente richiesta, o per consolare un’afflizione, che non ha alcun terreno conforto, o per spiegare alle menti oscurate dall’errore, come sia giusta e soccorrevole la Provvidenza. « Badiamo, che uno zelo impaziente, invece che fare dei Cristiani, non faccia degli ipocriti». Questa delicatezza è ben notata dai poveri. I quali stabiliscono dei confronti fra coloro che si dedicano per ufficio al loro soccorso; e sanno apprezzare la finezza di chi dà senza mirare a soddisfare la propria vanità, il proprio orgoglio, e neppure il senso soltanto umano della compassione, ma che vedono nel povero l’immagine di Dio da consolare e da purificare con l’amore disinteressato. Orbene questo si misura dall’offerta del tempo e della vita.

« Multum facit qui multum dilìgit — molto fa chi molto ama » dice l’Imitazione. E il solo amore del Signore dà il tono del disinteresse totale. La misericordia salva il misericordioso. Anche davanti a Dio. I poveri hanno certo il diritto d’essere aiutati, ma devono pure riconoscere, che non può bastare un proposito umano, un fine politico a spingere il benestante ad affondare le mani nei forzieri per toglierne da distribuire ai bisognosi. Il motivo umano servirà talvolta a stimolare alla donazione; ma il cuore è mosso soltanto dal pensiero di Dio e dal dovere della generosità in faccia al bisogno materiale altrui. Per altro vediamo bene come vivono gli avari.

GRANDE URGENZA DI OFFRIRSI

« Da queste parti c’era un avaro che s’ammalò… racconta san Giovanni Vianney. Al curato che andò a visitarlo disse: « Beviamo e parliamo della guerra signor curato ». — « Avete del vino dunque? » — « Andate in cantina e vedrete ». Era piena di barili di vino. Disse ancora: «Andate nel granaio». Era pieno di grano. « Ah! mio Dio, datemi ancora un anno di vita! » Ebbene no, morì e lasciò tutto quanto. Egli voleva mangiarsi tutte le provviste e non ne ebbe il tempo. Era disperato di dover morire e lasciare ad altri questi beni. Se fosse stato un buon Cristiano avrebbe considerato di nessun valore i suoi beni, poiché tutto proviene dalla terra ». La naturale accortezza suggerisce quello appunto che ci dice la Fede. Perché essere duri e insensibili verso i nostri compagni di viaggio poveri, mentre noi non siamo certi di poter godere neppure una parte dei nostri beni? Certa invece è la necessità di costoro. Clemente IX volle prender come stemma un pellicano, che alimenta i suoi piccini, e come motto: « Aliis non sibi clemens — clemente non verso di sé, ma verso gli altri ». E un altro Papa, sommo giurista, Innocenzo III, soleva dire ch’egli considerava la compassione superiore al diritto. Sopra tutte le autorità umane, Dio stesso si pronuncia per l’amore. Scrisse il Cardinale De Berulle nelle Grandezze di Gesù: « Così Dio incomprensibile si fa conoscere in questa umanità; Dio ineffabile, si fa udire nella voce del suo Figlio incarnato; Dio invisibile, si fa vedere nella carne che egli unì con la natura dell’eternità; e Dio che si fa sentire nella sua dolcezza, nella sua benignità e impone terrore nello splendore della sua grandezza, nella sua umanità… O meraviglia! O grandezza! » Sicché il trionfo è della sensibilità del cuore di Dio. Volete scorgere chiaramente come Dio si umiliò per potere amare la sua creatura umana? « La santa anima di N. S . Gesù Cristo scrisse il gesuita Lallemant non fu creata che per l’amore di noi; il suo sacro corpo non fu formato che per noi; la sua umanità non fu unita alla persona del Verbo, che per gli uomini.. Che cosa facciamo noi per Cristo?

L’ANIMA DELLA CARITÀ’

Noi siam fatti pure per amare. E l’amore non sta senza un soffio d’umiltà. « Non ti far giudice non competente di te medesimo, scrive in un’omelia san Basilio; né volere esaminarti, mettendo in conto alcuna cosa di buono, che ti sembri aver fatto, dimenticandoti a bella posta dei tuoi peccati, ovvero non insuperbire di ciò che hai fatto bene oggi, scusando poi le cose malfatte… Ma se mai il presente ti gonfia, riduciti alla memoria il passato e l’insensata gonfiezza si riumilierà. E quando vedrai peccare il prossimo, non considerare di lui questa cosa sola, ma ricordati insieme quante cose egli ha fatto e fa rettamente, e sovente troverai lui essere migliore di te, facendo la ricerca di tutte le sue azioni e non sentenziando solo rispetto a una parte ». – Se noi, insomma ci poniamo sempre di fronte ai nostri simili, verso i quali siamo tentati di sentire malamente, avremo tante ragioni di compatirli e di giudicarli meno colpevoli di quanto sembri, mentre sovente sono migliori di noi. – Sicché la misericordia è spesso un dovere di giustizia. « Perdona a noi come noi perdoniamo ai nostri debitori ». Ma anche per questo occorre tanto sentimento di umiltà, che ci tenga presente la indegnità nostra e il bisogno di una espiazione fervorosa e continua. In questa condizione morale sono abitualmente le anime più aperte alla grazia. Carlo Psichari, mentre era ai suoi primi esperimenti di vita religiosa nel secolo, espandeva il suo cuore così col Padre Clérissac, suo direttore spirituale: « È una adorabile scoperta ch’io faccio in questo momento, è una dolce e crudele riconoscenza, e non v’è ufficio (religioso) nel quale io non versi le lagrime abbondanti davanti al Maestro, che ho sì a lungo crocifisso e che la Francia stessa crocifigge ogni momento… Io ho potuto accostarmi ogni mattina alla Santa Mensa e l’ho fatto con coraggio, contando sulla misericordia di Nostro Signore, per ottenere il perdono delle mie debolezze, che mi rendono così indegno di ricevere il suo Corpo, e abbandonarmi del tutto a Lui in ogni cosa… Credo bene, che sia quando siamo abbattuti il momento di desiderare con più vivo amore l’Eucaristia; e, quanto a me, è in queste ore che mi volgo con maggior confidenza verso il Maestro al quale ormai io sono rivolto ». – Anime tanto ardenti e umili, così poco fiduciose di sé affatto abbandonate nel Signore, sono destinate ad attirare dal suo Cuore ogni delicatezza. Non danno esse tutto a Dio? Perché il Signore non si darà loro con quella generosità delicata, di cui offre esempio nella esperienza dei santi? La misura usata da Dio non è proporzionata al nostro merito, bensì alla sua ricchezza.

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (-5A-)

BEATITUDINI EVANGELICHE

[A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]

CAPO QUINTO (5A)

Beati misericordes: quoniam ipsi misericordiam consequentur.

Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia

I.

LA MISERICORDIA DOPO LA GIUSTIZIA

Poveri noi, se Iddio per il nostro giudizio usasse la sola misura della giustizia! Se Egli ci giudicasse soltanto in base ai comandamenti e alla carenza delle nostre opere buone e se la sua sentenza fosse formulata sotto la fredda luce del diritto e del dovere, come mai potremmo noi salvarci? È vero, che Cristo Giudice non sarà appena giusto, ma anche ispirato dalla misericordia.

L’ABUSO DELL’INDULGENZA

Ed ecco, che l’uomo trova anche in questa consolante verità il pretesto per secondare ogni mala tendenza. Siamo tanto frivoli, da raggiungere tutte le forme della ingratitudine. Dietro la affermazione « Dio è buono », anziché favorire una volontà tenace nell’obbedienza e nel sacrificio, deponiamo, come in un rifugio provvido, il proposito di indipendenza e di ribellione. Ma l’abuso del senso del perdono, oltre ad essere grave offesa al Signore, è un piano inclinato su cui si scivola verso ogni bassezza. Abusare della indulgenza di Dio è provocare la sua più severa condanna. – E quando fossimo tentati in questo senso, subito reagiamo mantenendoci nella ferma ubbidienza alla legge del Signore. Provocare la divina giustizia è stoltezza. – Dice l’Autore della Imitazione: « O miserabile e sciocco peccatore, che cosa risponderai a Dio consapevole di tutte le tue iniquità, mentre ora talvolta tremi davanti ad un uomo sdegnato? » (I, 24, I).

Ma la misericordia esiste. La misericordia vive ed agisce. È anzi la nostra garanzia di salvezza. Sopra di essa noi poggiamo tutta l’opera della Redenzione. Non è per merito di questo attributo divino, forse, che noi leggiamo e gustiamo la storia della nostra liberazione dalla schiavitù di satana? Storia tragica, ma soffusa di una ineffabile atmosfera di indulgenza. In essa noi abbiamo la prova e il documento della potenza di Dio, che salva ciò che era perduto nella oscurità della colpa e che redime ciò che era smarrito dietro la vanità della mondana leggerezza. E sappiamo, che questa potenza salvatrice non s’è esaurita nei secoli, ma piuttosto sviluppata e affermata in una ricchezza e varietà stupenda di applicazioni. « Della misericordia del Signore è piena la terra ». Ed « è per la tua misericordia se noi non siamo ridotti in frantumi ».

DIO NON E’ NOSTRO SERVITORE

Penso alle colpe dei singoli contro la Divinità. È una cosa orrenda, una enormità, che l’uomo, creatura fragile, da un incidente minimo distrutto, ardisca ribellarsi contro il suo Creatore. Chi lo penserebbe d’un uomo verso un altro uomo, a lui superiore? Lo può fare un pazzo. Deve essere più che pazzo il peccatore, che sfida la giustizia del Signore. Talvolta l’incredulità si nasconde dietro il peccato e ne è la causa segreta. È una vera provocazione della Divinità, fatta da un essere di nessuna consistenza e tutto e in tutto alla sua mercé. L’uomo intende invitare Dio a dimostrargli la sua presenza e potenza e lo fa in tono di sfida insana. Ho letto una dimostrazione evidente del modo come Dio osserva questa pretensiosa empietà. – « Due uomini stanno davanti a un angolo della camera, coperto da una tenda.

A dice a B: — Sotto quella tenda sta un uomo con un’arma carica. B sorride e risponde: — Io non ci credo; tu vuoi darmela ad intendere per spaventarmi. A : — Certo, ci sta. Allora B : — Io voglio mostrarti che non v’è dentro nessuno. Si ferma indietro alquanto, poi grida verso la tela: — Ehi, tu, se effettivamente vi sei nascosto, uccidimi! A è terrorizzato e aspetta il colpo mortale; ma nessuno si muove.

Ride B e dice: — Vedi ora, che non v’è nessuno dietro la tenda? Ambedue si dirigono verso l’angolo, sollevando la tela e davvero vedono un uomo con l’arma carica in mano. Stupore e terrore di B. Il quale chiede all’uomo: — Perché non hai sparato? Egli risponde: — Devo io farlo quando lo dici tu? Puoi tu impormi qualcosa? — Così, allorché il bestemmiatore sfida apertamente la divina giustizia e Dio non risponde, non è lecito affermare che Dio non esiste, ma soltanto: — Dio, in questo caso non si muove. – Altrimenti Dio sarebbe alla mercé del nostro capriccio e noi potremmo provocare miracoli. Ha forse Dio il dovere di manifestare prodigiosamente la sua esistenza, per far piacere al peccatore? Quando entreremo nell’eternità, sarà levato il velo e il negatore fatuo e presuntuoso si sentirà invaso da una sorpresa spaventosa. – La più elementare prudenza deve suggerire all’uomo di non provocare la divina giustizia. Anche perché la sua legge è l’espressione delle esigenze della  nostra natura, del bisogno insopprimibile di elevatezza, della volontà di pace. È vero, che ci sono i negatori ostinati e affatto irragionevoli, caparbi e chiusi ad ogni prospettiva di luce. Si tengono estranei alle sollecitudini dello spirito con un’attenzione, che ha del diabolico, tradiscono quasi la paura della verità. Ma sovente, sotto l’animo amareggiato, che non sia scettico di proposito, anche se persiste a lungo nelle negazioni, si scopre come queste siano piuttosto « amantium iræ », capaci di diventare salde affermazioni di fede e di attaccamento alla verità. – Il peccatore, ha scritto Giovanni Papini, è « sovente crisalide miracolosa di possibile santità ». L a giustizia infatti è quaggiù lenta e paziente. Dio è Padre e amoroso e generoso; nondimeno si deve rimanere prudenti, davanti al pericolo. « Si nolueris servire charitati, necesse est ut servias iniquitati (S. Agost., in Ps. XVIII, 15).

PROCESSO Al POPOLI

Occorre altresì pensare alla giustizia nei confronti delle colpe dei popoli. Il Signore li processa quaggiù; poiché nell’altra vita entrano i singoli, non le collettività. È una cosa ben dolorosa vedere gli innocenti puniti insieme e per colpa degli iniqui. Ma Dio ha modo e sa compensare lautamente quelli e farli risplendere come oggetti della sua benevolenza. Sono essi infatti gli assertori della sua volontà; li glorifica e premia per impegno e riconoscimento di giustizia. Oggi lo vediamo sotto gli occhi nostri il processo da Dio intentato contro i popoli. L’apostasia da lui ha raggiunto le estreme conseguenze. Delle lacerazioni fatte alla Chiesa nel secolo X e poi nel XVI, che fu la più gravida di deleterie conseguenze, oggi assistiamo ai risultati visibili in una tragica affermazione delle passioni a Dio ribelli. L’avarizia e la lussuria esaltate dalla superbia. Ecco l’umanità che cammina verso l’autodistruzione.

« E disse: Va’ e dirai a questo popolo: Gli orecchi per udire li avete, ma non volete capire; avete gli occhi per vedere, ma non volete intendere. Acceca il cuore a questo popolo e indura le sue orecchie e chiudigli gli occhi affinché non vegga co’ suoi occhi, né oda coi suoi orecchi e non comprenda col suo cuore e si converta e lo risani ». (Is., VI, 9-10). E non soltanto il popolo ebreo ebbe ad essere vittima dell’ira giusta di Dio. Ira la quale si esprime e si effettua secondo l’ordine delle volontà umane; poiché il male reca in sé il seme del suo proporzionato castigo. Talvolta questo si avvera con lentezza, ma non falla, se non intervenga una disposizione contraria di Dio medesimo. La giustizia deve essere in ogni caso soddisfatta. A noi non è dato di conoscere le proporzioni in cui egli sa inserirvi la sua misericordia; ma certo è che la sua giustizia deve essere placata per intero. Ed è piuttosto ragione di conforto che di timore; giacché la giustizia è un bene, è una virtù, che onora Dio, è una garanzia per tutti. E oltre a ciò è il segno della serietà e del rispetto che Dio ha per noi. Egli mantiene la parola data e dimostra in noi fiducia. Si interessa alla nostra condotta, promettendo e minacciando, ci guarda con occhio di padre e non ci abbandona alla nostra sorte, come estranei. Nella « fedeltà » di Dio troviamo la ragione della nostra dignità di uomini.

II

IMITARE LA DIVINA MISERICORDIA

Non ci spaventa la divina giustizia, ma ci tiene svegli e attenti all’orientamento della nostra volontà. Il timor santo di Dio ha questo fine appunto. Sappiamo d’altronde quanto grande sia la sua misericordia, la quale in Lui è la stessa virtù. Un’armonia inesprimibile per noi, ma effettiva e reale. L’armonia della vita divina, dell’amore sovrano, della pietà sconfinata. È deplorevole, che noi non sappiamo sempre con vivezza e ardore sentire tutto questo, che è Iddio, poiché la nostra esistenza sarebbe ancorata così saldamente, da affrontare qualunque contrasto per il bene con animo vittorioso. Sentite come il poeta salmista parla delle attenzioni di Dio nei riguardi dell’uomo. « Circumduxit eum et erudivit eum; et custodivit eum sicut pupillam oculi; gli fece la guida, lo ammaestrò, lo custodì come la pupilla dell’occhio suo; Sicut aquila tegit nidum suum et super pullos suos circumblanditur — come l’aquila che addestra al volo i suoi piccoli e vola sovressi: expandit pennas suas et accepit eos; et elevavit eos super scapulas suas — stese le sue al Signore! sollevò Israele, e lo portò sulle sue spalle » Duter., XXXII, 10-12). È la parola dello Spirito Santo attraverso la mente di un popolo ancora agli inizi delle espressioni dell’amore di Dio verso di lui. Ma noi allora, che cosa dovremmo dire? Non ci bastano i simboli dell’amore umano più appassionato e più alto. La nostra anima è fasciata dalla sua misericordiosa bontà. La nostra giornata è segnata da sempre nuove prove della sua attenta tenerezza per noi. Le vicende della vita nostra recano sempre più palesi impronte del suo amore per i criteri nostri impossibile. Le parole della Scrittura, che lo cantano ed esaltano, sono appena un tenue attestato della riconoscenza dell’uomo. Non dicono a noi più grandi cose; perché assuete e senza profonde risonanze nel nostro spirito. Le riputiamo con sentimento, come il meglio che ci sia suggerito, come il canto dei secoli, come il grido delle anime fedeli d’ogni tempo, come l’eco di milioni di cuori commossi e grati. Ma vorremmo ben altre voci levare verso i cieli e con commozioni mille volte più profonde.

LA NOSTRA MIOPIA

Sappiamo tuttavia, che la migliore riconoscenza non è questa delle lodi, sebbene quella delle opere in sincerità di spirito. Queste sono la prova dell’amore, soprattutto se importano sacrificio, rinunce, sforzi della pigra volontà. E poiché siamo sotto l’impressione della divina misericordia, dimostrare a Dio la decisione di usar questa virtù nei nostri rapporti con i fratelli, con gli altri suoi figli. Sicché dover nostro è di farci realizzatori di misericordia. Quando viene la Domenica in cui leggiamo nel Vangelo la storia del servo iniquo, il quale dopo d’aver ottenuto con lagrime bugiarde la remissione del suo grosso debito, si mostrò crudele verso un collega, che gli doveva poche lire, ci pare di non poter trovare dei riferimenti pratici nella nostra vita comune, ci sembra, che per incontrare tanta malvagità occorra cercare assai lontano. Non ci sfiora lo spirito Il dubbio d’essere tante volte duri e cattivi con chi ci vive accanto. Manchiamo di coerenza e di sincerità. Siamo facili e pronti a trovare perdonanza per noi; stentati e sofistici a scoprire in noi colpe e deficienze. Usiamo le lenti d’ingrandimento sulle magagne dei prossimi e abbiamo gli occhi miopi per noi. Siamo nel fondo dell’animo soddisfatti di non vedere in noi gravità da condannare, ma non egualmente generosi se le si rilevano nei vicini. Ci pare insomma, che il bene altrui ci faccia piccoli e l’altrui colpa invece ci esalti. L’angustia del nostro spirito si accentua in presenza della generosità del Signore. Eppure, se siamo sinceri verso di noi, dobbiamo pur riconoscere, che il dominio delle cattive tendenze è cosa non facile. L’uomo è fragile davanti alla tentazione. Sta in questo appunto l’argomento psicologico che prova la verità del dogma del peccato originale. Manca in noi l’equilibrio delle tendenze: da un lato un gran desiderio di bene, di virtù, di elevatezza, da un altro invece il peso di tante forze di seduzione verso il piacere disordinato, e perciò, illecito e peccaminoso. È vero, che la grazia di Dio è per noi di vigoroso soccorso. Si vince con essa e la volontà di bene ottiene il sopravvento. Grande conforto per tutti e prova della sovrana esistenza del Signore su noi e sulla nostra vita morale. Ma la constatazione ci deve far sempre più persuasi della nostra debolezza. Orbene, se siamo deboli noi, lo sono pure i nostri prossimi; e se noi riteniamo d’aver diritto a compatimento e ad indulgenza, altresì i vicini, che soffrono di quello scompenso intimo e umiliante. È chiaro, che la bontà dei santi verso chi si presenta loro come colpevole, sia abbondante e spesso sorprendente. Essi, i migliori indagatori di spiriti, le guide e i consiglieri di tante anime, gli sperimentatori della vita sotto le sue facce più disparate, sono sempre anche sconfinatamente indulgenti e compassionevoli. Essi mirano in tutto a incoraggiare, a seminare confidenza, a stimolare l’abbandono totale nel Signore.

LA COMPRENSIONE DEI SANTI

Leggiamo una pagina dei Catechismi del santo Curato d’Ars. « Se ci elogiano un amico senza rammentarci, ne siamo contrariati; c’indispettiamo anche nel vedere che altri sono più virtuosi di noi, perché, pensiamo, saranno maggiormente amati e onorati. Se vediamo qualcuno, convertito da poco tempo, fare progressi rapidi nella virtù e raggiungere alla svelta un alto grado di perfezione, ne soffriamo e sentendo lodarlo, diciamo con afflizione: — Oh! non è stato sempre così; era come gli altri, ha fatto questo e quell’altro. Differentemente è il Cristiano, figlioli miei; lo paragonano a una colomba, perché è privo di livore; ama tutti i buoni, perché son tali, i cattivi per compassione e perché vede in essi delle anime riscattate dal sangue di Gesù Cristo. Prega per i peccatori e dice a Nostro Signore: Mio Dio non permettete, che periscano queste povere anime. Così si giunge al Cielo, mentre coloro che hanno stima di se medesimi, perché fanno qualche pratica di pietà, ma che vivono sempre nell’odio, nella gelosia, si ritroveranno spogli nell’ultimo giorno. Dobbiamo odiare soltanto i demoni, il peccato e noi stessi. È necessario acquistare la carità di S. Agostino, che gioiva vedendo un’anima buona: « Almeno, diceva, eccone una che risarcisce Dio del mio poco amore ». – Il rancore verso gli altri è lontano le mille miglia dalla vita cristiana. La dottrina di Gesù è troppo diversa e anzi opposta. Se pensiamo, per giustificarci, al male ricevuto dal prossimo, dobbiamo piuttosto chiederci, se non abbiamo noi stessi meritato l’umiliazione, la critica, l’avversione, per altri peccati. Ora il Signore permette, che noi li scontiamo; ma non è lecito giustificare in nessun modo il rancore. Del resto, neppure alcuna forma di vendetta. Senza la carità si è in contrasto con Dio. In punto di morte avremo davanti tutti i nostri difetti e le mancanze di ogni natura e non sarà una impressione lusinghiera; ma se potremo sentire che ciò nonostante abbiamo coltivato la carità e siamo stati pronti a reprimere ogni risentimento, dimenticate le ingiurie, perdonate le offese, potremo essere tranquilli. Il Signore della carità ci userà misericordia.

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (-4B-)

LE BEATITUDINI 4B

[A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]

CAPO QUARTO (4B)

Beati qui esuriunt et sitiunt justitiam: quoniam ipsi saturabuntur.

Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia

III

COME VENGONO SAZIATE QUESTA FAME E QUESTA SETE

OMBRA E LUCE

Non è a dire, che nella esistenza presente noi dobbiamo rimanere del tutto ansiosi e torturati dalla fame e dalla sete di bene. Ciò che può esaurirci nella privazione può essere soltanto la indolenza della volontà; ma se questa è sveglia, possiamo, con l’aiuto di Dio, ritenerci in grado di appagare quanta fame o quanta sete per avventura ci arda. Vi sono certo i disgraziati, che non avvertono tale nostro bisogno. Costoro, distratti da altre inferiori avidità, sono destinati, come i malati d’inappetenza fisica, alla morte per inanizione, per esaurimento delle loro forze naturali. Si consumano senz’avvedersene. Vanno verso un disfacimento fatale, e non ne hanno la sensazione. Spiriti sviati dalle vanità, dalle passioni della superbia, dell’avarizia, della lussuria in tutte le varie forme, credono, o si illudono, di saziarsi e il loro organismo ha bisogno urgente di ben altro nutrimento. Che cosa li scuoterà da codesta apatia, dalla insensibilità e dalla disfatta? Solo un intervento misericordioso del divino Amore. – Il quale sa trovare nelle stesse esperienze del disordine o nelle sventure o nelle angosce intime, la forza del risveglio provvido da cui altre numerose anime sono uscite in una rinascita insperata. – Scrisse il P. De Grandmaison ad un’anima, che avvertiva appena l’intima urgenza di Dio, questa pagina delicata e luminosa. « Uno dei punti più importanti è quello di rassicurare la vostra giovine amica sul valore reale dei sentimenti e degli istinti d’ordine religioso, che essa prova. È veramente assai delicato discernere con sicurezza, nel complesso d’uno stato d’animo, ciò che viene da noi, ciò che viene da Dio, ciò che potrebbe venire dal demonio. Ma è assai più agevole vedere, che questa tendenza, possente e sentita, che aspira al bene, al riposo dello spirito, all’ordine, alla pace, è l’espressione chiara della nostra esigenza fondamentale, della nostra naturale e necessaria destinazione. Essa prende sovente anche per noi la forma d’un sentimento (poiché noi la avvertiamo soprattutto nei momenti in cui la nostra sensibilità è commossa o affamata), una cosa certamente grande, assolutamente ragionevole e di sovrana importanza. È l’appello di un essere intelligente alla Saggezza capace di illuminarlo, l’appello d’un essere morale alla Regola d’ogni retta azione e alla Potenza buona, che sia in grado di renderci possibile questa azione, l’appello di un essere di desiderio al Bene supremo: è il « motus naturalis crearæ ad Creatorem, » di cui parla san Tommaso. Il sentimento propriamente detto non è qui che lo stimolo svegliatore del nostro spirito e la guida sulla strada che mena a Dio ». (Lebreton – Le Pére L. De Gr., p. 360).

GUSTO DI DIO

Il Signore, per verità, arriva alle anime sovente per via di questo senso irresistibile di bisogno di Lui, velato dietro l’indecifrabile carenza di qualcosa, il brivido di una vicinanza misteriosa, il vuoto e il pericolo che esso rappresenta per lo spirito che necessita di un appoggio, di una protezione, di un punto fermo nell’agitazione di mille stimoli disorientanti nella visione della vita. – Il bisogno di Dio, il desiderio di Dio è una gran forza spirituale. È la provvida fame e sete, che guida, come l’istinto d’un cieco ai margini della strada, alla agognata e ineffabile pace. Non si tratta di sentimentalismo, ma di puro e casto sentimento, solido energetico da cui la vita dello spirito può sovente svegliarsi in forme concrete e saldissime. È la forza stessa di Dio, che agisce attraverso la nostra natura fragile, ma capace di secondare gli inviti d’un amore senza misura. Dalla ricerca spontanea di Dio, sotto la guida dello Spirito Santo, si arriva al gusto di Lui nel suo servizio. Qui occorre qualche dilucidazione. – Il citato Padre De Grandmaison, uno degli spiriti più fini e robusti, che la Compagnia di Gesù abbia donato all’attività della Chiesa in forme stupende di apostolato, dice ancora come debbasi intendere questo piacere di Dio. Questo gusto non è sempre inebriante e delizioso, ma è sempre puro e sostanziale. – Non bisogna considerare quello stato che si dice di « fede pura » come uno stato normale. Esso è piuttosto una prova eccezionale d’una vita spirituale fervente. Né si devono ambire soltanto le consolazioni sensibili, come fanno certe anime sempre ai primi passi, sempre bambine, instabili e un poco sensuali pur nell’ambito spirituale, né si deve considerare il soprannaturale come qualcosa di arido, di freddo per essenza. Il fatto è che anche questo contatto sovrannaturale presenta il suo piacere, il suo gusto purissimo di Dio e del suo servizio. E in ciò sta un poco la ricompensa accordata all’apostolo quaggiù (ivi, 322). « Così voi non siete più « vostri » come dice san Paolo, ed è la condizione necessaria, ma sufficiente, se la nostra intenzione è retta, per essere di Dio. Io vorrei, che voi gustiate questo, che voi ne sentiate la sicurezza, la solidità, la fecondità di ogni bene; questo è davvero praticare la lezione del vostro Signore, e imitare il suo esempio. Questo è collaborare alla sua opera e rendersi veramente graditi al suo cuore » (ivi, 323).

ALFIERI DELL’AMORE

L’apostolo, vale a dire il Cristiano integrale, sa trovare la via giusta per svegliare questo senso di Dio, dietro il mistero della vita, e coltivarlo secondo le norme suggerite dalle circostanze personali del soggetto; ma più conforme alle norme dell’amore di Dio e del prossimo. E quali soddisfazioni riserba il Signore ai suoi operai. – Un laico, di molto valore anche come Cristiano, Luigi Veuillot, il quale fu un prode delle» battaglie per Dio e per la verità religiosa, benché non senza accentuazioni e scontrosità, esamina il problema della conversione dei miscredenti. Egli riconosce, che noi siamo troppo facile vittima dello spirito di adattamento. « Noi dobbiamo aver cura di difenderci soprattutto contro questa tiepidezza, che ci fa, fuori di Chiesa, essere della gente onesta, ma non dei Cristiani. Volete voi predicare con frutto? Evitate tre cose: l’oscurità, l’enfasi e il rigorismo. In ogni tempo gli uomini furono presi dal cuore, più che dall’ingegno vivace ». – Il tono modesto e penetrante è già un argomento efficace, poiché dà la misura della intima tranquillità e della convinzione profonda. E le cose dette in quel tono sono necessariamente chiare e diffusive. Hanno con sé la presunzione della verità. Il cuore fa da lubrificante e con esso in azione, le idee camminano e conquistano le intelligenze. Il cuore fa i Santi più capiti dal pubblico e più seguiti. E le anime conquistate così sono poi riconoscenti per sempre. Il tesoro posseduto è tanto prezioso. Ma soprattutto siamo riconoscenti noi al Signore d’avere allargato il campo delle sue prede e assicurato al suo Regno qualche altro operaio di quelli consapevoli e decisi di mettersi essi pure all’utile fatica. – Quando l’apostolo si raccoglie in se medesimo per esaminare i risultati della sua offerta al Signore, sovente si sente mesto e umiliato. Tanto poco per un sacrificio così intero e generoso. Eppure egli ha prodotto e ha seminato. Le gocce del suo sudore sono cadute nel solco e hanno fecondato dei semi. « Semen ejus qui diligit Deum, non corrumpet » (Eccli, XLVII, 24). E il seme gettato nelle anime dei prossimi è pure una sorta di generazione, che Dio rispetta, non solo, ma moltiplica.

IV

L’ESPIAZIONE PLACA

Chissà perché noi abbiamo una così irresistibile ripugnanza per il dolore, mentre l’esperienza ce ne mostra ogni dì la potenza di vita. Dovremmo, dopo tanti secoli, esserne talmente convinti, da non lagnarcene più, come d’una cosa almeno inevitabile. Ci lagniamo seriamente del freddo o del caldo? Procuriamo di difendercene; ecco tutto.

REALTA’ DELL’ESPIAZIONE

Nondimeno il dolore, che ci accompagna e che tanto ci pesa, ha una sua funzione capitale nella vita dello spirito. Nella sofferenza si tempra il metallo del. la nostra giovinezza; nel dolore maturano i successi della nostra virilità; attraverso il male, sopportato con animo robusto, si raggiungono i beni consolanti e sereni della età matura, quando fa piacere l’osservare la durezza della strada percorsa e il segno della vittoria ci sorride intorno. Chi ambisce un risultato o un fine da raggiungere e chi ha posto una ragione a capo della propria esistenza, e per essa intende vivere, costui deve affrontare il dolore e superarlo da bravo. La giustizia è appunto la volontà di Dio su noi. – Il pianto è un dono divino, « che lava e discende alle radici dolenti e malate della vita ».  Ecco una bella definizione. Ma bisogna integrarla con il sale del soprannaturale, per cui le radici dolenti e malate, servono ad espiare il male commesso e che ha fatto ammalare e dolere la nostra vita. Se no, che cosa varrebbe mai essa? Infatti, perché il dolore umano avesse un pregio vero, occorse che il Signore Gesù si vestisse della carne di peccato e, attraverso le sofferenza, espiasse e lavasse la colpa. – Quante anime nei secoli cristiani hanno capito questa sovrana dottrina! Ce ne furono che lo vollero e lo gustarono sino alla feccia, per assomigliare al divino Redentore dell’umanità. – È facile blaterare di gioia. Bisognerebbe sopprimere i dolori morali, quelli fisici di tutte le misure e di tutti i tipi e poi sopprimere la morte che ne è il risultato o, a dir meglio, la cagione. Ma le ideologie più ottimiste, che han tentato di portare l’uomo ad uno stato di natura, conforme ai sogni dell’età dell’oro, non han potuto sopprimere le lagrime dal ciglio delle madri, non disseccare i cuori dei genitori e neppure indurire la sensibilità verso i prossimi sofferenti. Gli uomini si sono ribellati, a questa costruzione barbarica ed hanno voluto soffrire. Si è che dal Cristianesimo ebbero il succo vitale dell’amore divino, per santificare e mettere in valore le loro lagrime. Appresero a soffrire con Cristo e per Cristo. Sicché seppero persino godere del dolore più acre e lacerante, non certo per averlo soffocato, ma per averlo elevato al livello del dolore dell’Uomo dei dolori.

COME IL DOLORE SERVE

Santa Chantal perciò scrisse alle sue figliole espressioni di un altissimo tono morale, degne veramente della donna ch’essa fu. « Soffrire per Dio è il nutro nutrimento dell’amore in terra, come godere Iddio è l’alimento dell’amore in cielo ». « Soffrire è quasi il solo bene, che noi possiamo fare in questo mondo… un’oncia di pazienza val di più che una libbra d’azione ». « Infatti è più difficile soffrir bene, che operar bene; noi mescoliamo meno amor proprio, meno sollecitudine, meno umano nelle nostre sofferenze, che nei nostri lavori ». Questa ultima frase è di Augusto Saudreau, un autore spirituale, che ha ben studiato il pregio del sacrificio per la elevazione dell’anime. – E questo i nostri Santi sanno fare con l’anima in letizia. Ancora la Chantal scrisse, che « i figli d’Israele non poterono cantare a Babilonia, perché pensavano alla patria (lontana); ed io vorrei che noi cantassimo dappertutto ». – Noi abbiamo tanti doveri da sopportare e compiere. Dobbiamo espiare i nostri falli. Sono molti sempre e contano sulla bilancia della giustizia di Dio. Se vogliamo saziarci di giustizia, paghiamo per primo il debito personale con quella divina. – Soddisfatto il conto personale possiamo sentire il dovere di espiare per altri, che tengono un conto tale da soffocarli, per il suo peso. Antonietta de Geuser, la « consumata », sotto il torchio della sofferenza fisica e spirituale, scriveva: « Sono sempre più persuasa, essere volere di Dio, che io sia identificata a Gesù-Redentore e Crocifisso… Ma non mi arresto alla Croce… Il mio ringraziamento mi spinge fino al seno del Padre Celeste e in Lui riposo abitualmente… Non vedo che Lui… Lui solo è il mio Tutto… Egli è pienamente Dio perché in Lui trovo pure il Verbo e loSpirito Santo.

INCANTO DI OBLAZIONE

« È veramente la « vita nascosta in Dio con Cristo » di cui parla l’epistola del giorno in cui sono nata… « Nascosta in Dio »… Perché ogni cosa avviene nel seno del Padre e in piena unione con Lui… « Con Cristo »… perché se il Padre mi ha unita a sé così pienamente, l’ha fatto per poter poi continuare in me l’Opera della Redenzione e per trasformarmi in Cristo Crocifisso… Egli vuole che la mia vita sia come la Messa; una continuazione del Sacrificio della Croce… Per ciò Egli sospende per me, come ha fatto per Gesù, l’effetto di questa unione, che sarebbe di riempirmi l’anima di delizie; affinché io possa ancora patire in me per la gloria del « Padre Nostro ». Questa è una Croce ben pesante, ma è soprattutto la piena felicità, la piena pace, perché è l’unione piena e in conseguenza la pienezza di gloria per Lui… – Per me è il Cielo anticipato, Cielo doloroso, è vero, quanto più soffro, tanto più sono felice, perché mi sembra che ogni nuovo patimento gli procura un accrescimento di gloria e di contentezza ». Né è lecito porre in dubbio la sincerità di queste affermazioni di letizia. Non è questa una isolata nel cielo stellante della mistica cristiana. È una fra le più recenti manifestazioni di uno stato d’animo, che ci rivela per quale via le anime si vanno, anche quaggiù, saziando la fame e la sete di giustizia. Viene pertanto in noi, una acuta melanconia mentre dobbiamo essere testimoni di nuovi tentativi di misconoscere la potenza consolatrice, quindi profondamente umana, della Religione di Cristo. Una esperienza ben triste viene oggi imposta a parte dell’umanità. Ma la prova ridarà la vittoria a Colui, il quale, anziché una umiliazione, impose un altissimo colpo d’ala alla nostra coscienza, portandola così alto, che i più pesanti e terreni degli uomini, non sapendovi mantenere quota, vogliono tornare nelle paludi d’un tempo e, peggio, trascinarvi moltissimi con la violenza e contro la volontà. Però gli esperimenti umani passano e Cristo resta. – E intanto beati, se avete sempre più fame e sete di giustizia. Sarete saziati. Ve lo assicura il Signore. Le vostre anime ne saranno pasciute e rinvigorite. La pinguedine dello Spirito Santo vi arricchirà di attitudini al sacrificio per il Regno di Dio. Ne avrete tale abbondanza da esigere lo sbocco dell’apostolato verso quanti vi accostano nella vita di ogni giorno. Terrete, secondo un’espressione di santa Caterina da Siena, il vostro cuore in alto e splenderà come una lampada. Ed è certamente una bella promessa una vita spesa così.

V.

VOLGERE LO SGUARDO DEI GIOVANI VERSO LA GIUSTIZIA

SENSO SPONTANEO

Nei giovani è vivo il senso della giustizia. L’assorbono prima dal sentimento di Dio, dalla sua presenza, dalla conoscenza della sua legge, dal senso del premio e del castigo implicito in ogni parola, che si riferisca a Lui; poi dalla ragione, allorché agisce su gli avvenimenti della vita iniziale. Istintivamente anche il bimbo si lagna di una supposta ingiustizia della mamma. « A me no, a quello sì ». E bisogna secondare questo sentimento così conforme alla volontà di Dio in ogni cosa. Guai se dimostri minor desiderio di tenere in considerazione un simile senso! Sarebbe come spogliare di ogni giustificazione la legge del bene; vuotare di contenuto la stessa volontà del dovere, che guida l’educazione. Se il fanciullo s’avvede di certe astuzie, intese ad eludere il giusto, a sottrarre l’altrui, ad approfittare della roba non nostra, a mancare di onesto riconoscimento dell’altrui merito, ad acquistare benevolenza per vie traverse, è finita per l’educatore. Tutte le sue industrie saranno squalificate da certe risposte od osservazioni della coscienza immatura, ma sufficientemente perspicua, e quegli non avrà modo di sostenersi. – Pensi la mamma educatrice, che accendere bene questa fiamma ideale per le cose fatte a dovere, secondo il precetto e la legge, è garantirsi una continuità di condotta delicata nella disciplina e robusta nella solida convinzione delle alte finalità della vita d’ogni uomo. È la dignità umana che ne trae sostegno, autorità e vigore. Un appoggio insuperabile per la stessa parola della madre; un riferimento efficacissimo per le necessarie inibizioni o per i comandi, che in ogni età si impongono sovente. Un senso ben fermo della giustizia, rispettato e fecondato dall’esempio d’ogni momento, costituisce la roccia infrangibile d’appoggio per tutti i giorni della vita. A incoraggiamento del bene e a costrizione e arresto del male.

LA ISPIRATRICE  DELLE STUPENDE COSTRUZIONI

Che cosa ha alimentato le grandi anime dei filantropi Cristiani, degli amici dell’uomo colpito dalle miserie e dal bisogno? Quale fu l’intimo e segreto stimolo alle loro inaudite fatiche, ai loro fecondi lavori, alle intraprese audaci per cui divennero oggetto di meraviglia e furono celebrati e lo sono ogni giorno ancora? Uno spiccato senso della giustizia dovuta a Dio e agli uomini. La carità dello spirito ai deboli e agli ignari, la preparazione alla esistenza secondo le leggi divine. Leggo una pagina della vita della Ven. Madre Cabrini. « Francesca era donna di idee chiare e ferme, che poi metteva in atto con la tenacia paziente dei costruttori; tutto il suo immenso lavoro si può riportare, per l’ispirazione ai semplici pensieri della bambina provinciale e della maestrina di campagna. Anche per lei si avverò quella bella espressione di uno scrittore psicologo, secondo cui una grande vita non è che un pensiero della giovinezza messo in atto dalla maturità. La semplicità essenziale delle idee si univa, nella sua pratica indole, a una volontà diritta e virile, che non si smorzava per alcuna difficoltà. Ritraeva in questo del solido carattere della gente lombarda, popolo di dissodatori di terre e di fondatori d’industrie ». (Nello Viari). – Vedi, che il primo ideale di bene accesosi nella puerizia, attraverso la conoscenza di Dio buono e giusto con devoti e peccatori, si venne maturando in opere da stupire il mondo. Un governo con i suoi infiniti mezzi non sa organizzare tante iniziative di bene su quasi tutti i continenti e così saldamente compaginati, come seppe fare questa valida donna. Ma un grandissimo ideale di giustizia le scaldò il cuore, mentre gli uomini comuni ben altro hanno per il capo. – Quando Ignazio di Loyola ebbe fra le mani la Leggenda Aurea di Giacomo da Varazze, sentì il suo spirito svegliarsi, come allorché attaccava il nemico in battaglia. Esso « Non era orientato alla teologia; ma era aperto alla grandezza e sprezzante del mediocre » scrive Igino Giordani, l’ultimo suo biografo. Aveva dentro urgente il gusto delle cose giuste verso gli uomini, nasceva allora quello verso Dio. E sulla strada non si arrestava per difficoltà sopravvenute. Da questo gusto elevato e stimolato dalla grazia venne il fondatore della Compagnia, che da Gesù si chiamò per distinguersi dalle altre delle quali Ignazio aveva fatto sino allora parte valorosamente. Bisogna pensare al vantaggio d’un’anima giovanile, avvivata da un grande ideale. La vita non le si presenta innanzitutto come una occasione di godimento, ma come il tempo prezioso di attuazioni nobili, di sogni di virtù, di visioni di bene per i propri fratelli.

TUO FIGLIO SARA’ « QUALCUNO »

Le seduzioni mondane gli si attenuano davanti appena apparse; le illusioni del piacere gli si offuscano a contatto dello splendore del suo pensiero prediletto. Diventare buono, rinvigorire la volontà, attuare il bene dentro di sé per farsi tutto di un pezzo a servizio della giustizia, della virtù, del dolore umano. Fiamma di fuoco divino, vampa di amore del prossimo. La vita si presenta all’adolescente come cosa degna di essere virilmente vissuta. – È chiaro, che un giovane così formato saprà anche soffrire per una causa sì alta. Saprà tollerare i disagi, che importa la sua intima battaglia per la giustizia, la quale coincide con la bontà e il dovere morale; ma saprà altresì sopportare le difficoltà e le opposizioni, che egli stesso provocasse con la sua volontà decisa e attiva nell’attuazione del bene. Sarà « qualcuno » una forza, una volontà retta e proiettata verso le mete più alte della vita. Sarà un esempio, una bandiera, un simbolo. Nella misura della sua fedeltà all’ideale, da cui fu illuminata la sua giovinezza, risplenderà egli stesso e verrà ammirato da quanti alla giustizia tendono sinceramente. – È da ricordare in fine, che la vera giustizia deve essere animata dalla carità. Non mai usare d’una bilancia troppo rigida, trattandosi del prossimo non segnare ogni oscillazione. Chi agisse così non si rammenterebbe d’essere fallibile e fragile e bisognoso di molto compatimento sempre. Falli ne possiamo tutti commettere senza numero. Importa saper usare indulgenza. E ogni qualvolta interviene il pentimento e la volontà di riparazione del male commesso, usarne molta. – Una giustizia letterale e misurata senza una viva vena di pietà non è quella ispirata da Cristo. « Mendaces fìlii hominus in stateris — i figli degli uomini sono bugiardi con le loro bilance » Sal., XLI, 10). Si noti, che con la lampada ardente dell’ideale di giustizia, che vogliamo accendere e far divampare nelle anime giovanili, non si intende farne dei sognatori. V’è differenza tra il sognatore e lo spirito caldo di questi sogni corrispondenti al comandamento divino. Noi vogliamo, che la base naturale di questo sia amplificata e bruci di tale fiamma, da divenire energia di virtù. L’elemento istintivo della buona natura, quella che contaminata dal primo peccato, venga sviluppato nel suo senso migliore; poiché questo coincide con la divina volontà. È non tanto una forza lanciata verso l’irreale, ma una facoltà dello spirito aperto verso le cose sane e nobili. Questa apertura ci interessa affinché sia stimolo e alimento di virtù. L’età giovanile ne ha bisogno, ne è avida, e perciò è facilmente deviata da falsi miraggi. Per questo cerchiamo di nutrirla di saggezza evangelica e di avviarla verso le realtà che Dio fa brillare alla nostra mente e di cui ci fa avvampare tutto il cuore. Giovinezza cresciuta nel solco segnato da Colui il cui Cuore sognò il migliore sogno della storia: fare gli uomini capaci di perfezione.

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (-4A-)

LE BEATITUDINI 4 A

[A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]

CAPO QUARTO

Beati qui esuriunt et sitiunt justitiam: quoniam ipsi saturabuntur.

Beati quelli che hanno fame e setedi giustizia

         I

GIUSTIZIA È OBBEDIENZA ALLA LEGGE ETERNA

Il poeta Charles Péguy ha definito la santità con una genialità desta di lui in un poema dedicato « alla seconda virtù », che è la speranza. Egli dice, che ci sono due sorta di santi. « Ci sono quelli che vengono e che escono dai giusti; ci sono quelli che vengono generati dai peccatori. Ci sono due formazioni. I santi di Dio escono da due scuole, dalla scuola del giusto e dalla scuola del peccatore… Fortunatamente è sempre il Signore il maestro di scuola ». – C’è nei riguardi della santità anche un’altra fortuna. Ed è che tutti vi possono arrivare. I santi sono i soli eroi la cui opera sia durevole e insieme proporzionata alla capacità di ognuno. Non tutti sono in grado di essere Dante, Michelangelo, Verdi; ma ciascuno può essere… il curato d’Ars, se sa amare sino alla fine. E ciò costituisce una grande ragione di speranza. Dio ci aspetta per tutte le strade che conducono a Lui ed esige soltanto un po’ di bontà benevola e generosa. Una sorta di merito proporzionato a tutte le attitudini. Basta averne il sincero desiderio. E non occorre compiere prodigi per questa strada, basta fare le opere che il dovere ci impone giorno per giorno. Poiché è appunto il dovere indicato dalla condizione e dalla vocazione di ciascuno, l’indicazione divina della volontà superiore, e della santità. La giustizia è pertanto la santità commisurata al dovere di ognuno. Il santo, chiamato ad essere guida di molte anime, dovrà camminare per sentieri ripidi e faticosi; l’uomo comune andrà per la sua strada, or pianeggiante ed ora salente, ora liscia ed ora scabrosa, e giungerà alla sua meta senza grandi scosse e senza grandi meriti, ma giungerà a salvezza.

PROVVIDENZA DELLA LEGGE

Dio ha fissato nella sua legge eterna, che sta scritta nei nostri cuori e che trova una esplicazione nelle leggi della Chiesa dal lato spirituale e in quelle dello Stato come guida della vita civile, l’orientamento di ciascuno. Per tal modo rende agevole ai suoi la conformità alla sua volontà di salute. Nelle proporzioni più minute ognuno trova nei superiori prossimi le indicazioni particolari e gli stimoli opportuni, affinché la mèta venga raggiunta senza disperdimenti d’energia e di tempo. Le legge è provvidenza. Così che sarà bene per il Cristiano di amare la volontà di Dio e di compierla con quella attenzione, che rende gradito il sacrificio. Non sia essa considerata uno strumento di schiavitù, un mezzo di asservimento, la dura necessità del vivere associato; sebbene la saggia guida, l’ordinamento paterno, il sussidio di chi sa a chi ignora. Lo stimolo misurato e prudente eppure efficace, che fa la giornata serena, riducendo notevolmente le preoccupazioni di ciascuno ed eliminando il pericolo di innumerevoli attriti delle volontà singole. I santi sono i modelli espressi in realtà dalle voci della legge. Sono la legge fatta persona. Sono gli emblemi di Dio, le bandiere delle sue schiere. La santità è nella linea della virtù comune, ma accompagnata, con gli occhi rivolti al cielo, dalla fede e dalla carità. E noi tutti abbiamo un immenso interesse, che almeno alcuno dei nostri fratelli si elevi sopra di noi e venga proposto come a guardia dei nostri rapporti con l’Infinito. Ci sentiamo, non umiliati, ma appoggiati alla loro solidità granitica. Sono stimolo per il nostro intelletto e calore per la nostra fragile e tepida volontà. « Non est inventus similis illi — non è possibile trovare uno simile a lui » dice la Liturgia dei Santi tutti, giacché ogni Santo interpreta a modo suo qualcuno degli infiniti e stupendi aspetti del Cristo. E lo rende accostabile e imitabile. È questo infatti il primo passo da fare per convincere la nostra indolenza a seguire le vie del bene e salire per il sentiero arduo della bontà. La considerazione dei Santi, la conoscenza della vita loro splendente di luci affascinanti, sveglia il desiderio e stimola la volontà. A tutti piace la santità. Il racconto dei loro prodigi e delle loro opere ha sempre una visibile potenza d’attraimento. Rimane l’argomento più gradito alle folle dei semplici e alla curiosità intelligente dei colti. Chiunque si decida a leggere una vita di santo, scritta passabilmente, non sa più sospendere la gustosa fatica. Non si leggono così sovente come dovrebbe essere soprattutto per il pregiudizio iniziale. Tutti noi, piccoli uomini, amiamo la grandezza e lo splendore della vita e delle opere. E si corre ai loro sepolcri, per la sicurezza della loro protezione anche nell’altra sede del loro fervore.

LA VOCAZIONE ALLA SANTITÀ’

Gesù ci impose di essere perfetti, cioè santi, come il Padre che è nei Cieli. Egli sapeva di averci infuso, come Creatore, il bisogno della bontà e della santità nelle forme più integre e compiute. Per questo anche gli infelici che non sanno camminare per codeste strade alte e folgorate dal Sole della bellezza immortale, non sanno resistere a lungo, senza rodenti rimorsi nel fango della colpa. Ognuno viene a concludere in Dio la sua trista esperienza. Non hai mai ascoltato un furfante lodarsi di aver servito, da ragazzo, la santa Messa? E non è raro d’incontrare di codeste anime, smarrite per i meandri del vizio o della dissipazione peccaminosa, le quali ti snodano davanti agli occhi cento ricordi di contatti con la santità. E tutto ciò non senza una chiara e pungente nostalgia. Non son forse anche costoro creature di Dio e redenti dal Sangue di Cristo? Tutti dunque sentiamo la stima per la giustizia, tutti amiamo la santità. – Ma non tutti ne abbiamo fame e sete. Ammiriamo le gesta dei giusti, sognando d’essere da loro protetti, ma la nostra giornata striscia per i bassi sentieri della mediocrità, paurosa di sacrifici e di prove. Infatti sono molte le contraddizioni a cui il Santo viene sottoposto. Può bene affermarsi, che il grado di santità corrisponde a quello della sofferenza. Ogni gran Santo è un uomo del dolore. La loro offerta a Dio è così profumata di sacrificio. Sappiamo di santa Coletta, della beata Liduina, di santa Aldegonda, di altri molti, che passarono pressoché tutta la vita in un letto. Ma nessuno andò esente da dolori almeno spirituali, da sospetti, da persecuzioni. L’amore della santità porta a contrastare col mondo sotto le vesti più composte. Oh, i beati non hanno rubato la gloria celeste, sicuramente. Tutta la loro vita fu un calvario, verso il quale hanno portato la croce umiliante delle nostre miserie dei nostri peccati e delle loro stesse materiali fragilità. Queste gravano soprattutto sulla esistenza terrena dei Santi, poiché esse tradiscono la loro debolezza e il pericolo costante di cadere. Siccome poi amano tanto il Signore, la sola possibilità di abbandonarlo e di disertare per passare sotto gli stendardi del nemico li umilia. – Ma la riflessione ben presto volta questo sentimento in proposito della volontà di tener di continuo le armi spirituali in pugno, affinché la sorpresa non li colga. Lottare generosamente è la loro sorte. Se non che questo stato di guerra permanente non li stanca. Stancano forse le vittorie? Ed essi ben sanno che Cristo vittorioso combatte, con loro in loro. Sicché della loro fame e sete di giustizia essi fanno un rogo di gloria, una corona di bellezza, un serto di conforto. Beati dunque anche tra la fame e nella sete. Il Signore La Lacordaire in fin di vita esclamò: « O Signore se la mia spada s’è consumata, s’è consumata al vostro servizio! ».

II

LA PERFETTA GIUSTIZIA NON È DI QUESTO MONDO

SANTITÀ E MONDO

Gesù nell’ultimo discorso agli Apostoli dopo la Cena, disse che essi non erano del mondo « De mundo non sunt, sicut et ego non sum de mundo » (Joan., XVII, 16). Infatti la santità è cosa del Cielo. È un raggio di Dio posato in terra su alcune creature predilette. La santità eminente, che serve da documento a prova della divinità della Chiesa, è tanto rara, che desta stupore e agisce come molla di slancio per noi che apparteniamo alla folla grigia. È in aperto contrasto con i principi del mondo, si oppone alle sue massime, turba le sue agiatezze, le sue indulgenze, il suo programma di godimento di questa vita, poiché di là non ha occhio per vedere. – Infatti l’atmosfera del mondo è del tutto infetta, morbosa, appestata per il Santo. Sui suoi inizi egli fugge nella solitudine e si rafforza alla resistenza risoluta contro le seduzioni; si addestra a indagare le origini, le vie di diffusione, le arti segrete, le magie di sorpresa. Poi, se il Signore lo chiama, scende in lizza e affronta il mondo fieramente. Prima lo ha vinto dentro di sé, poi lo va sconfiggendo nei simili. I motivi della sua azione sono tutti in sintesi nell’amore di Dio e in quello del prossimo. Vince sempre, il Santo, la sua prova? In sé, non v’ha dubbio. Per duro che sia l’urto col male, egli vincerà. Almeno sino a non essere abbattuto. Molti Santi hanno dovuto lottare decenni prima di qualche successo. Sant’Alfonso De’ Liguori vide la sua prima fondazione missionaria sgretolarsi sotto i colpi dei suoi stessi amici e compagni. San Giovanni Bosco tollerò l’abbandono di alcuni giovani, che gli avevano fatto nascere in cuore molte lusinghiere speranze. San Francesco di Sales dovette mutare radicalmente l’Istituto delle sue religiose, per l’opposizione di chi aveva su codeste iniziative autorità. – Che cosa ci dicono le schiere dei martiri di tutte le età? La intolleranza del mondo per tutte le forme di santità. Quaggiù l’aria è dominata dalla violenza di satana. Pacifico non può essere lo spirito di chi ha fatto la sua volontà spada spezzata a servizio di Dio. Il mondo talvolta è indotto a denti stretti a lasciare una certa libertà al bene; ma, appena l’occasione gli si offra propizia, spezza i freni e si scaglia contro le manifestazioni di Dio per abbatterle e frantumarle. Se trovi una zona di pace, quella sarà tale per poco. Non si dice la Chiesa di quaggiù « militante »? Ora lo stato di guerra non è normale per nessuno. Il mondo perciò non è normale per la « fame e la sete della giustizia ». Se mai lo è per il demonio, il quale qui ha il suo gioco libero contro tale ambizione morale.

MALVAGIA MONDANITÀ’

Come abbia potuto scrivere l’Autore dell’Imitazione, che « ogni volta che andai fra gli uomini, tornai meno uomo » allora si capisce. E si ammette anche ciò che altri disse, che cioè, gli uomini nel frequentarsi si abbassano e che ogni associazione tra di essi non è che un compromesso. Sovente dobbiamo riconoscere, che il fiore e l’aroma di certe belle nature, che ammiriamo, svaniscono all’accostarsi le une le altre. Tommaseo, che d’esperienze n’ebbe, parlando della educazione, disse che « gli uomini sociabilissimi sono i più disamorati ». Ma questo non dice tutto. Vi sono troppe nefandità che non hanno nome e non si possono riferire senza destare la protesta della coscienza morale. San Giovanni ha ragione di dire: « mundus totus in maligno positus est » (I, V, 19). È tutto immerso nella cattiveria. È tutto opera del demonio. È la quintessenza della volontà del maligno. – Ma non deve essere così sempre. Chiaro è, che sino al termine della vita umana la zizzania allignerà nel suo campo quaggiù, ma bei covoni di sanissimo grano si potranno sempre maggiormente ammassare. La lotta persistente dovrà giungere a circoscrivere via via la potenza del male. Il bene troverà più aperta accoglienza e i figli della luce avranno modo di cantare, non dirò vittoria, ma qualche più risonante successo. I Santi sono sempre con noi. Devono anzi crescere di numero. La Redenzione di Gesù nostro Signore ha un compito ancora vasto da assolvere; anime ed anime ne avvertono la soave fragranza e l’efficacia intima, sovente senza averne una chiara idea. La grazia agisce con una sua penetrazione inosservabile, ma reale e noi, a volta a volta, ne riconosciamo il risultato. È una benedizione continua sul mondo delle anime, che assorbono e assimilano.

LA SANTITÀ’ SCIAMA LONTANO

Ma e noi, che cosa facciamo per un più largo influsso di Dio sull’umanità? Dobbiamo soltanto ammetter l’opera dei Santi e tenerci affatto in disparte? Nessun contributo siamo disposti a dare ad un’opera che appartiene a Dio nei risultati, ma che deve partire dagli uomini nella predisposizione di certi elementi e nella preparazione degli animi? – Santa Teresa del Bambin Gesù, pur chiusa nel suo chiostro di carmelitana, agognava di poter riuscire utile all’apostolato attivo di qualche sacerdote, mentre ella si dedicava a quello contemplativo. E le avvenne di essere scelta dalla superiora a rispondere alla lettera di un seminarista, il quale chiedeva di concedergli d’essere come fratello a qualcuna delle suore, per averne aiuto di preghiere e di sacrifici, quando sarebbe andato in missione. Essa esprime le sue impressioni. « Anch’io, nell’intimo del mio cuore, pensavo così, e poiché lo zelo d’una carmelitana deve abbracciare il mondo, spero ancora con la grazia di Dio, di essere utile a più di due missionari. Io prego per tutti, senza lasciare da parte i semplici sacerdoti, il cui ministero è talora difficile quanto quello degli apostoli che evangelizzano gli infedeli. Io voglio, insomma essere « figlia della Chiesa » come la nostra Madre Teresa, e pregare secondo tutte le intenzioni del Vicario di Gesù Cristo. Questo è il fine generale della mia vita ». – E poi continua a commentare la sua nuova missione in termini tanto generosi e con una viva intuizione dell’efficacia dell’aiuto da lei prestato alla fatica dei suoi nuovi fratelli. Non intendo trascurare nessuno « dei grandi interessi della Chiesa, che abbracciano l’universo, io così resto adesso particolarmente unita ai nuovi fratelli, che Gesù mi ha concesso. – Tutto ciò che mi appartiene, appartiene a ciascuno di loro, perché sento che Dio è troppo buono e troppo generoso per far delle divisioni; è tanto ricco, che dà senza misura ciò che gli chiedo, per quanto io non mi perda punto in lunghe enumerazioni ». – Questa pagina serena e cristallina pari a un mattino di primavera, ci dice come sia possibile servire la causa del bene anche rimanendo assente dalla battaglia esteriore. Sicché ognuno deve sentire il dovere, l’impegno di dare alla vittoria contro il demonio la propria collaborazione. – Innanzi tutto portiamo ad essa il peso diretto della personale virtù. Contendere per la conquista di quel grado di bontà, che il Signore ci chiama a conquistare, è già la vittoria d’un settore della vita del mondo. Questa non potrà rimanere circoscritta in noi. Si esprimerà nelle forme sociali e influirà beneficamente intorno. Un’anima, che sia appena in grazia, è come una stella in cielo; non tollera foschia intorno a sé. È un raggio di sole. E l’apostolato è già in atto. Apostolato per il quale ognuno possiede attitudini sufficienti. Ciascuno di noi ha il posto ben segnato. Pensate, che il demonio fallirebbe presto, se alcune migliaia di spiriti ferventi prendessero fra loro contatto per dargli aperta battaglia.

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (-3B-)

LE BEATITUDINI (3 B)

[A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]

CAPO TERZO

Beati qui lugent: quoniam ipsi consolabuntur.

Beati i dolenti

III

BEATI I DOLENTI PERCHÉ SARANNO CONSOLATI

PIANGERE CON GLI AFFLITTI

Quanta finezza di sentimento occorre allo spirito, che voglia prender parte al dolore che rode e logora fuori di sé i prossimi! Sa rilevare tutte le sfumature che il male presenta nella esistenza altrui. Una intuizione profonda, che raggiunge le fibre più delicate dei cuori. Una esperienza, che consente di capire ogni palpito dell’animo nel suo corpo. Una simpatia per la nostra misera natura, che assomiglia a quella del Signore Gesù. La sensibilità, che giunge fino a soffrire davanti al male del prossimo, è un dono della grazia e l’espressione della sua intera efficacia sulla nostra natura. L’invito di Paolo ai Romani di entrare nell’ambito della solidarietà umana, alla quale non erano educati, ha bene un valore in questo argomento.

« Gaudere cum gaudentibus, fiere cum flentibus— godere con chi è lieto, piangere con chi è nel dolore» (Rom., XII, 15) segna un bel passo avanti perla morale di costoro; e addita altresì alla loro volontàdi bene un punto alto del nuovo monte della perfezione.Mentre esso esige finezza la provoca e la sviluppa.Avranno forse i Romani opposto delle difficoltàall’Apostolo, per questo alto invito? Non sappiamo;ma certo la prospettiva era lontana dalla consuetudinedel loro mondo. Ma dove difetta la natura o laconsuetudine entra plasmatrice l’educazione. La Religione cristiana è interamente tesa all’affinamentodelle anime, alla compiutezza del loro sforzo verso lacompassione dei deboli, degli afflitti, delle vittime delmale. E non per mollezza, per fatua commozione, ma per aver letto giusto nella parola del Signore. La Religione sua infatti ci insegna efficacemente, che la vita non è lotta di interessi, ma gara di servigi, e talora vicendevole scambio di amarezze, le quali scompartite si fanno dolci, ma anche dolcezze, che partecipate diventano più gustose. Questo stato d’animo è frutto della generosità divina. Nessuno, che osservi solo dal lato umano la solidarietà del dolore, ne capirà mai qualcosa. Perché moltiplicare il patire? Non basta quello che c’è? E l’essere in molti a soffrire accosta forse all’ideale, che sarebbe la serenità e il benessere d’ognuno? « A chi tocca la tocca », ripetono taluni con irrisione. Quelli che soffrono, si dice pure, sono le retroguardie del mondo che cammina verso la piena gioia; sventurati coloro che rimangono indietro; ma noi non sappiamo che farci. È evidente, che la compassione è virtù cristiana. Esige pertanto una intima elaborazione del precetto della carità. I più sono sul versante della mondanità paganeggiante. Non conoscono i vocaboli atti a esprimere il patimento dei fratelli prossimi e lontani, noti e ignoti, buoni e cattivi. È dunque un privilegio partecipato da Dio a chi fa di meritarselo. È un fattore che prepara la nuova umanità foggiata secondo il Vangelo. Dono di Dio, che ci conferisce qualcosa dell’anima di Gesù suo Figlio, il quale si abbandonò alla passione e alla morte per noi — « prò nobis». Il modello di ogni reale e sentita solidarietà umana.

L’EROISMO DELLA COMPASSIONE

Nella famiglia cristiana non occorre predicarla. È un bisogno spontaneo e un dolce dovere dello spirito. La madre, che consuma le notti al capezzale del figlio o del marito, è documento quotidiano della efficacia dell’esempio di Cristo. Il padre, che fatica e rinuncia per il benessere della famiglia e vive appartato da distrazioni e da diporti, perché nulla manchi al desco e all’agiatezza della sua casa, è normale. Non abbisogna di descrizioni, né giova inculcarlo. Ci si stupisce davanti al contrario come contro la natura. È contro alla natura sublimata da Cristo nostro Signore. Poiché incontriamo tra le nostre file non solo la generosità, ma altresì l’eroismo della virtù. Non hai scoperto chi benedice le prove della vita, le fatiche e i dolori come un grande onore, come l’onore di ricevere sulle proprie spalle la Croce del Signore e di salirvi insieme con lui? Il dolore diventa dentro di essi una gioia. Ecco una consolazione, che Gesù ha promesso a chi piange. Una soddisfazione pronta, immediata, evidente e tangibile. « Iuxta est Dominus hiis qui tributati sunt corde— il Signore è vicino a coloro che sono tribolatiin cuore » (Sal., XXXIII, 19). Sai d’essere sotto gli occhi di Lui, che ti guardacon compiacimento, poiché accetti di salire sulla suaCroce a vivere con Lui. Lo Spirito Santo pensa a offrirticonsolazioni, che ti risuscitano con Cristo innovità di vita. I conforti che vengono direttamenteda Dio sono i più preziosi e rappresentano una concretapromessa di quell’altre consolazioni, che da Luinella eternità ci verranno deposte in cuore.A questo modo nella famiglia i genitori, che sentonola fatica e l’impegno gravoso dei figli, tesi consincera volontà verso la meta dei loro sogni, pregustanola gioia della riuscita. Gioia che si moltiplicanelle loro anime ansiose, se il bene e il sogno per cuii figli si vanno plasmando fiduciosi sia quello dellavirtù, del compiacimento di Dio, del possesso dellagrazia divina. Godimento appena iniziale e incipiente,ma già consistente e capace di appagare un cuoresollecito.Scrisse il Kempis nel Giardinetto di rose: « Tu nonsii migliore del Dio tuo, per te flagellato e deriso e,alla fine, dai maligni ucciso. L’uomo non sa quantosia egli buono e virtuoso, se non quando si trova vessatodalle contrarietà. Molti ha Cristo amatori e compagnidi mensa; ma pochi seguaci nell’astinenza ».

VIGILE REAZIONE

Si è che anche le consolazioni del Signore non sono per tutti; come non tutti sanno sentire il dolore umano. Il mondo è infestato dall’egoismo; il cuore degli uomini non avverte che il proprio utile, o ciò che tale ritiene; tutti siamo presi da questa forza travolgente e cieca e se non vi resistiamo con attenzione, ne restiamo vittime. È il dominio del male attraverso il gretto interesse personale e l’incomprensione ottusa del problema; poiché il male del prossimo non è mai senza influsso su di noi medesimi. Sicché solo la sensibilità cristiana del dolore altrui può via via temperare il male di ciascuno e sollevare tutti dalla oppressione. L’egoismo priva delle divine consolazioni; e spinge alla caccia disperata dell’appagamento immediato e inferiore degli appetiti bestiali. Infatti le tre concupiscenze svegliano una avidità che non rispetta neppure i membri della medesima famiglia. Se pertanto vogliamo arrivare alla consolazione di Dio quaggiù e poi con pienezza nell’altra vita, procuriamoci la condizione assolutamente esagita: la larghezza del cuore, la capacità di sentire il vasto dolore della vita nostra e altrui, la delicatezza per cui sappiamo piangere sui nostri falli e su quelli che addolorano il nostro fratello. « Beati quelli che piangono ». Privilegio la capacità di sentire il dolore e privilegio il contorto offerto da Dio. Sicché la tua vita, o Cristiano fedele, ottiene compensi impensati. Ci sono santi i quali si dichiarano sopraffatti da tanta generosità del Signore. « Quam magna multitudo dulce dinis tuæ Domine— come è grande, Signore, la della tua dolcezza! » (Sal., XXX, 20). Per tal modo Dio è sempre presente nelle vicende nostre, e come padre indulgente; e compensa con lautezza la docilità delle sue creature.

IV

ADDESTRARE I GIOVINETTI ALLE VOLONTARIE RINUNCE

E’ TRISTE LA VITA DELL’UOMO

Il dolore è una realtà inesorabile della vita. Chi non vi pensa e non vi si prepara è condannato a rivelazioni tardive, ma tremende. Come mai un genitore od un educatore potrà pensare di preparare il giovinetto o l’adolescente fuori d’ogni contatto volontario con questo fatale elemento della esistenza umana di quaggiù? Non è tuttavia raro di incontrare chi dica: « Avranno già molto da soffrire, che non è bene imporre loro rinunce prima che l’ora scocchi ». Unragionamento simile può essere tollerato in chi non abbia responsabilità d’educatore e di guida sulla strada della esistenza. Ognuno è libero di evitare un dolore inutile e di battere la strada meno disagiata. Se tu devi addestrare un inesperto ad affrontare una lotta di qualunque natura, ti curi di studiare le condizioni nelle quali essa dovrà svolgersi e di preparare il soggetto a tutte quelle condizioni di clima, di nutrimento, di sforzi, per averlo destro e pronto e vittorioso al momento opportuno. Che cosa diremmo se un capo di spedizione polare facesse partire la propria carovana come se dovesse andare all’Equatore, o viceversa? La nostra vita è evidentemente intessuta di difficoltà, di resistenza, di dure prove, di pazienti attese, di rinunce senza fine, di sorprese e di delusioni. Occorre pertanto saper disporre l’animo dei giovani così da trovarlo sereno e consapevole ad ogni contingenza. Chi agisce in tal modo si dimostra ispirato da un vero amore del suo discepolo. È un maestro preveggente. Una guida illuminata. E le difficoltà volontariamente e liberamente affrontate, anche prima della prova, non sono un atto crudele, bensì una precauzione accorta e fatta di amorose sollecitudini.

DOVERE DI MORTIFICAZIONE

Questo campo di volontaria abnegazione è aperto davanti a chiunque nella cura del corpo e nelle attenzioni dello spirito. Scrive il Cardinal Bona: « Quanto basta perché il corpo sia sano, tanto, e non più, gli darai. Questo è il tenore di vita ragionevole e salutare, al quale devi attenerti. Il corpo si ha da trattare rigidamente anzi che no, sicché non si faccia repugnante ai voleri dell’animo. È necessario concedergli quello di che abbisogna, ma non servirgli. Abbia cibo per sedare la fame, bevanda per estinguer la sete, vestimenta per ripararsi dal freddo, casa per garantirsi dalle ingiurie del tempo. Se ti propongono tali altre cose, le quali servono di puro ornamento, soffermati, impallidisci, e temi; che vi stanno apparecchiate insidie per l’anima ». – Tale rigida concezione della vita deve essere guida della madre consapevole e saggia. Abbia cura essa di infondere nell’adolescente la convinzione, che non siamo nati per essere schiavi del proprio corpo; il quale è appena uno strumento della volontà e dello spirito, ma tale strumento, che mira, se gli riesce, d’essere tiranno dell’animo e arbitro della nostra vita. D’altra parte, come fare senza il corpo? Perciò usiamone con l’occhio vigile, sicché non si sottragga al dominio nostro e ci umili nella soggezione a lui. Nota, che i sensi sono dell’anima le finestre. Non lasciarli aperti troppo verso terra; siano mantenuti intatti e vigorosi di fronte alle contaminazioni possibili. Nello stesso fanciullo venga istillato il dovere di rispettare il proprio corpo per le funzioni intese dalla natura. Sappia che esso risorgerà. Su questo piano si ingaggia e si avvia il combattimento spirituale, che dovrà durare tutta la vita. Mutano le forme, le condizioni, le circostanze degli assalti da parte della materia, ma la vigilanza e la decisione di resistere deve accompagnare il giovane per sempre. Si noti, che non soltanto occorre educare alla vittoria sopra gli stimoli della carne, ma altresì su quelli disordinati, che vengano dallo spirito. Anche qui necessita la vigilanza. L’orgoglio, in tutte le sue manifestazioni, è peccato dello spirito. Sovente è la causa di altri disordini del senso; poiché Dio non aiuta il superbo e lo lascia scivolare in basso, come castigo della intima ribellione alla Legge. La vittoria sull’orgoglio apparisce anche più difficile. Certi genitori non se ne avvedono per tempo; ne sono piuttosto lusingati dapprima e non di rado lo fomentano e se ne trovano lì per lì ammirati. Risposte spavalde, gesti sprezzanti, atteggiamenti prepotenti non allarmano sempre e subito le persone che amano senza cure spirituali e luce di Fede religiosa. Non vedono esse se non l’esplicazione di energie, alle quali occorre dare la via aperta, far largo. Così, pensano essi, potranno fare la loro posizione senza timidezze sciocche. Piace insomma nel piccolo la forma truculenta, che pare rivelare chissà quali straordinarie qualità d’ingegno e di carattere.

DOLOROSE SORPRESE

Ma codesti genitori, i quali si guardano bene dall’ammonire e, e occorre, dall’umiliare il piccolo tiranno, si avvedono poi tardi, che mentre fuori con i compagni quello deve rintuzzare dentro di sé l’impulso superbioso, con essi, al contrario, è libero e si abbandona allo sfogo dell’intemperante considerazione del proprio valore. In casa non ha trovato opposizione. Codesti genitori sono poi molto sorpresi e rattristati; ma forse non saranno più a tempo per provvedere energicamente e con profitto. In ogni zona della vita, del corpo e dello spirito, chi non sa rinunciare a qualcosa di lecito, non saprà evitare tutto ciò che è illecito. Per aver saputo da ragazzo privarsi d’un giocattolo, il giovane e poi l’uomo maturo sapranno voltare le spalle a soddisfazioni peccaminose e disonoranti. – La vita nostra si avvia per la strada che noi scegliamo. Se questa è fatta di appagamenti, come pretendere poi che gli incontri subdoli del male vengano superati e vinti da una volontà inesperta di rinunce? Il giovane deve crescere nella consapevolezza del dominio da esercitare sui cattivi istinti. Non è da dimenticare, che questa battaglia ha da essere condotta con i sussidi spirituali della Religione. Nessuno sosterrà lotte, se non riconosca di avere sopra di sé, buono e benevolo, un Padre che lo guardi e lo segua. Se Dio è sentito così e osservato come giusto giudice dei buoni e dei ribelli, eserciterà un influsso sommamente efficace sui pericoli nei quali l’uomo incorre ogni dì. Dio però è anche provvidente e ci somministra aiuti, attraverso i sacramenti della Religione, che sono i carismi sovrannaturali. Grazie d’ogni sorta ci vengono elargite dalla sua generosità ogni momento. Sono le più valide forze e i migliori conforti da noi desiderabili. Il fattore sovrannaturale ha una funzione somma nella formazione del carattere e quindi anche nella capacità di sopportazione dei disagi inevitabili alla intima battaglia. I sacramenti esercitano sui giovani un influsso di capitale rilievo. Sono i veicoli della forza, dell’amore, della compassione. In primo luogo rappresentano lo stimolo alle alte aspirazioni. La Grazia di Dio, come avvalora l’impegno nella sopportazione del dolore, sostiene l’animo nei momenti di sfiducia per le sconfitte possibili. Rianima, solleva, rinvigorisce. Essa ci dà modo di trarre dalle umiliazioni il coraggio delle sofferenze avvenire per quella vittoria, che Dio non lascia mancare alle buone e semplici e fedeli volontà.

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (-3A-)

LE BEATITUDINI 3 A

[A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]

CAPO TERZO

Beati qui lugent: quoniam ipsi consolabuntur.

Beati i dolenti

I

SEGNO DI NOBILTÀ IL PIANTO

Chi sprezza il pianto, espressione d’un verace dolore, è inumano. Bisogna soffrire d’una grave deviazione del sentimento, per essere duro verso una creatura, che ha ragione di sparger le sue lacrime. Inaridisce il cuore di coloro che s’abbandonano ai godimenti della lussuria, a quelli dell’avarizia, alle fantasie dell’orgoglio. Costoro, nel bruciare incenso alle tre concupiscenze centrali incendiano il proprio cuore dinanzi ai tre idoli e diventano incapaci persino di pesare la gravità della loro condizione morale. La quale è desolazione e rovina. – Non vergogniamoci, pertanto, di saper piangere. Certo occorre una ragione proporzionata, che valga. Indice di fisica e anche morale debolezza è la lagrima per ogni piccolo contrasto, per ogni pena, per le puerili delusioni della vita. Nobile è soprattutto il pianto per i nostri falli. Son questi i dolori più consistenti, perché gli errori morali corrispondono ai maggiori danni, che ci colpiscono quaggiù. Hanno essi anche sicure risonanze nell’altra vita e noi siamo tenuti a premunircene. Adoriamo l’autore della nostra vita e della nostra rigenerazione. Pensiamo a quanto è costata la nostra formazione spirituale e alla devastazione provocata dal peccato. Ribellione contro Dio, l’anima invasa dal nemico e umiliata dalla schiavitù di satana. – Dove si voleva la liberazione dall’obbedienza al Signore vero della nostra esistenza, venne sostituita una soggezione oppressiva e umiliante. Bisogna piangere tanta rovina; pentirsi di siffatto errore. E provvedere ai mezzi per riacquistare la libertà dei figli di Dio. – Si tratta della nostra esistenza eterna. Come si può cercare appagamento di desideri illegittimi, sciogliendosi dalla docilità a Colui, che ci ha plasmato di sua mano, mettendoci in cuore felicità vera e non fallace? Fuori della linea di piena obbedienza a Lui non si trova che il fallimento. Né gioia né piacere. Piangiamo, dunque la perdita di tesori e di privilegi e, più dell’amicizia di Dio. Smarrita ogni garanzia di beni eterni, che cosa ci resta, se non di piangere sulla nostra spirituale desolazione?

DEL PRESENTE E DEL FUTURO

Nobile è allora il pianto. Lagrime da paragonare allora a quelle sparse da mille grandi anime, tornate alfine verso l’altare di Dio. Pianto che richiama quello stesso di Gesù davanti all’immane errore di Gerusalemme, la sua città; davanti alla tomba di Lazzaro, il suo amico. La morte d’una persona amata è bene una ragione di dolore nobile e degno d’ogni rispetto.

Di tutti i loro (degli uomini) traviamenti, scrisse Pascal, è certo quello (la mancanza di riflessione al fine della vita), che più li convince di follia e dove è più facile confonderli, alla tregua del senso comune e dei sentimenti naturali. Perché senza dubbio, il tempo di questa vita non è che un istante, lo stato della morte è eterno, qualunque possa essere la sua natura, e così tutte le azioni e i pensieri nostri devono prender vie differenti, secondo la natura di questa eternità; e per ciò è impossibile fare un passo giudizioso, altrimenti che regolandolo secondo la verità di questo punto, che dev’essere l’oggetto capitale dei nostri pensieri. Nulla di più evidente; perciò secondo i principi della ragione, la condotta degli uomini è affatto insensata se essi non prendono altra via. Da questo si giudichi la condotta di quelli che vivono senza pensare a quest’ultimo fine della vita, che si lasciano andare alle voghe e ai piaceri senza riflettere e senza inquietarsi e, quasi potessero annientare l’eternità cacciandone il pensiero, solo cercano la felicità del momento ». Davanti a tanto pericolo, l’uomo avveduto si preoccupa e si commuove, osserva come i più vivano distratti e decide secondo giudizio. Si gioca l’eternità. Questo pensiero nell’animo nobile si allarga con l’interesse dei prossimi, che vede smarrirsi nella leggerezza senza scusa. Sentire i falli altrui e gli altrui pericoli è segno di delicatezza e di fraternità. È prova dell’amore del prossimo e di Dio. – Ma ci sono anche i dolori preparati ogni giorno dalla vita. Quanti malati, quante infermità di persone su cui gravano responsabilità e che rappresentano dolori più vasti e pene senza numero di individui e di famiglie. Si pensi ai dolori causati dalla scostumatezza, che fa soffrire individui e gruppi sociali e costituisce la ragione di tribolazioni senza fine. Si pensi alle pene spirituali, alle preoccupazioni verso l’avvenire, alle sollecitudini per la riuscita dell’educazione dei figli, per il loro collocamento. E perché non si dovrebbe aver cuore per le sofferenze dei popoli infelici, perseguitati, umiliati, calunniati, oppressi? Il cuore del Cristiano non è insensibile per nessun male che affligga l’umanità. « Beati i dolenti, perché saranno consolati ».

PENA CHE CONSOLA

Il dolore che lacerò il cuore di Gesù Cristo fu un dolore vasto quanto il mondo; investiva l’umanità intera, soccorreva le lagrime di tutta la terra. Raggiungeva attraverso tutti i secoli tutti gli uomini. E il suo seguace si studia di ricopiare il suo esempio divino e di affinare la propria sensibilità per arrivare a soffrire con l’immenso spasimo, che contrista milioni di cuori di fratelli. Quanto profitto per essi! Dio ha modo di mitigare le sofferenze di uno per il merito dell’offerta dell’altro. Questa solidarietà torna gradita a Dio, poiché ne ha dato l’esempio lo stesso suo Figlio. Orbene, dobbiamo riconoscere, che, anche solo in questa partecipazione attiva al patire dei prossimi, c’è una vena di consolazione. « Dare è meglio che ricevere ». E quando si dà una sincera commozione, una schietta sofferenza, un sentimento intimo del cuore, una lagrima sia pure segreta; quando uno sa avvertire e immedesimarsi dell’altrui pena, nello sconforto che abbatte anime sorelle, siano pure sconosciute, lo spirito dell’uomo ben nato si riconcilia con il dovere dell’amore, sovente pretermesso, avverte in una intima serenità l’approvazione discreta della coscienza. – Che cosa intendeva san Paolo quando scriveva ai Romani: «Optaban enim ego ipse anathema esse a Christo prò fratribus meis ». (IX, 3) voleva dire, che tale era la fraterna dilezione per tutti i redenti da Cristo, da essere disposto a venir anche separato da lui, a patto di potere a Cristo portare i suoi compagni per mezzo dell’amore di lui. Paolo partecipava allo strazio spirituale di tanti figli di Dio e voleva esprimere questo alto sentimento. Non si peritò di usare un’iperbole quasi disperata; e noi restiamo dopo tanti secoli testimoni ammirati della sua passione fraterna.

II

QUELLI CHE SOFFRONO SONO NELL’ORDINE

NESSUN PESSIMISMO

Essi soli hanno della vita presente una giusta visione. Il dolore è la norma. Non occorre farsi prestare ragioni dai pessimisti. Leopardi non ha pianto sul dolore umano; ne ha abusato per maledire la natura e la vita. Ora non questo intende l’animo cristiano. Sappiamo come il mondo sia decaduto. Il peccato originale ci spiega il dolore di quaggiù. Ma non fu così in origine; né di questo stato, colpa ha il Creatore. Da Lui abbiamo invece soccorso e luce, il male venne dall’uomo, il quale scatenò le forze inferiori e si ribellò al divino amore, che da principio lo aveva accolto in un Paradiso. Dio piuttosto subì, ma non volle. Dio nell’istante stesso in cui applicò, accettandole, le conseguenze del male, lo circoscrisse e medicò con delicatezza materna. E affinché l’uomo non dovesse vivere sotto il giogo d’una inappellabile condanna, gli prospettò innanzi il panorama della redenzione del suo Figliolo. Nondimeno il dolore era entrato nel mondo e la vita umana aveva subito una sorta di inferiorità e anche la morte, prima ignorata e impensata. Il dolore dovrà essere la condizione normale della esistenza del re dell’universo. – Oggi, come ieri e come sarà sempre, si fanno avanti certi ingenui adoratori dell’antichità classica, che il Tommaseo dice « semplicetti », a blaterare che il Cristianesimo ha, insieme con la pazienza, inventato il dolore. E vi declamano la bellezza della vita oppure, come usano dire leziosamente, « vivere in bellezza ». Essi però dell’antichità non conoscono se non le favole. I gridi di spasimo non li han sentiti erompere fuori dalle cortine delle apparenze o dietro i paraventi dei versi dei poeti. « Virtutem posuere Dii sudore parandam — stabilirono gli Dei, che la virtù debba essere conquistata col sudore » (Esiodo); « duris urgens in rebus egestas — nelle dure vicende urge il bisogno » (Virgilio); « superando omnis fortuna ferendo est — qualsiasi avvenimento è da sopportare con lo sforzo » (ivi). – E tante altre grida dell’umanità, aggiunge il Tommaseo, che conosce il suo stato e non adula stoltamente se stessa. – Quelli che dipingono pertanto la vita come un banchetto, lo faranno forse in un periodo di fortuna e di benessere, e sono degli ingenui; se poi lo fanno di proposito, pur conoscendo la dura realtà d’ogni giorno, sono dei riprovevoli ingannatori.

È L’ORDINE DI NATURA

Ci sono sempre stati di costoro, ma la loro teoria non ha avuto presa. Neppure essi ne vissero, e il dolore li ha fatti rinsavire, sia pur tardi. Vi furono quei che vollero adorato l’uomo come un Dio impassibile; altri, più sinceri ma non più illuminati, han giudicato l’uomo impastato di bassezza e di indegnità. Gli uni vollero che l’uomo tenesse la fronte alta sino all’altezza del Creatore dell’universo, gli altri lo costrinsero ad abbassarla fino al piano del bruto. Soltanto la Religione cristiana seppe finalmente riconoscere la grandezza e la miseria nostra. Essa mostrò come sia necessario, per essere felice, di credere in Dio, che si deve amare; e poi insegnò) che l’essere separati da lui è la nostra sola e vera sciagura. A tutti però essa non nasconde la realtà del dolore; il quale, per altro, non è una sciagura, avendo esso un alto fine e rappresentando un merito. – Beati dunque quelli che piangono; poiché sono nell’ordine di natura e si trovano ormai sulla strada della conquista della loro vita. « In patientia vestra possidebitis animas vestras— nel vostro dolore verrete in possesso della vostra vita ». Il progredimento è possibile. Ma non può essere che in questa linea. Chi rifiuta la sua particola di sofferenza diventa inetto ad assolvere i suoi compiti; difetta della prima condizione per la riuscita. Ebbene vediamo come questa si raggiunga. Occorre almeno l’accettazione silenziosa della prova. Siano le difficoltà interiori od esterne, saper tacere e reprimere tutti i gesti suggeriti da una malinconia eccessiva od avvelenata. Il Cristiano non esce in invettive, non fa maldicenza, né minaccia vendette. Neppure lascia indovinare il dispetto trasandando il dovere o le persone, come misura di rappresaglia contro la prova patita. Sono dimostrazioni di umiliata impotenza, che fanno a pugni con lo spirito della rassegnazione al male inevitabile. Neppure è da consentirsi la ricerca di consolazioni illecite, per compensarsi del male dovuto accettare. Se poi ti senti invaso da pensieri, immaginazioni, ricordi, che ti rendono triste e allentano l’energia della resistenza, stornandoti dal dovere, spazza la tua fantasia, libera la mente e reagisci con decisione. Il Cristiano, che mira a santificare il suo dovere, se anche avverta qualche lagrima sul suo ciglio, si studia di elevare la sua stessa rassegnazione verso una dilatazione gioiosa dell’animo. Accetta con largo cuore tutte le prove lievi e dolorose. Giunge persino ad accogliere il dolore baciando la mano che glielo presenta. Non occorrono gesti spettacolosi, ma la benigna disposizione dell’animo e la volontà di lodare in ogni modo il Signore.

ACCETTAZIONE LIETA

Quanto attraente appare la sofferenza cristiana, nella sua forma di accettazione consapevole e lieta! Qui l’ignaro della forza del Vangelo incontra un argomento di meraviglia e di simpatia. Infatti ognuno vede il miracolo con gli occhi suoi. Non è a dire quanto satana paventi codesta energia divina resa visibile da una volontà illuminata. Ma il Signore protegge i suoi e li salva. Egli sta nascosto dietro il dolore e agisce senza scoprirsi. Mi sovviene l’esperienza del Cardinal Newman. Il grande convertito, che aveva commosso tutto il mondo anglosassone con i suoi studi religiosi e con il coraggio della sua conversione, allorché l’anima fu matura, ebbe poi sempre a soffrire. Una così profonda novità di vita non può effettuarsi senza tale scossa da lasciare imperitura la traccia di sé. Il suo dolore era calmo e dignitoso, sereno e imperturbabile. Dentro, nell’ambito della sua vita spirituale, aveva risonanze di mestizia non dovute alla volontà, ma alla realtà, al fatto. E ne analizzava la consistenza, talvolta; e indagava il modo come Dio agisce nel segreto delle coscienze. « Nel momento in cui Dio è in noi, noi non rileviamo la sua presenza, ma appena dopo, quando portiamo il nostro sguardo indietro, su questa grazia che è venuta a noi e che non è più lì, sotto gli occhi… Tale è la regola che Dio s’è imposta. Il silenzio e ilsegreto velano i suoi favori. Noi non scorgiamo questi nell’istante in cui vengono, ma soltanto più tardi con gli occhi della fede. Quale strana Provvidenza! Così costante, così efficace, così infallibile nel suo silenzio… Ecco ciò che confonde la potenza di satana. Egli non può discernere la grazia di Dio al suo passaggio. Nella sua follia di rivolta e di bestemmia, egli vorrebbe, si, incontrarla e combatterla. Non lo può. Né la sua astuzia, né la sua penetrazione servono. Il numero infinito dei suoi occhi non penetra la serena maestà di questo silenzio, la calma e imperturbabile santità che regna nella Provvidenza di Dio ». Per l’anima in pena è talvolta duro nascondersi nel presente; ma è tanto dolce questa visione aperta sul passato, che persiste e si mantiene presente. Dio è anche spirito consolatore. E se non ci dà il gusto della sua visione attuale, ce ne comunica la preziosa sostanza effettiva.

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (-2B-)

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (2B)

[A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]

CAPO SECONDO

“Beati mites: quoniam ipsi possidebunt terram”

[Beati i miti perché possederanno la terra]

III

I MANSUETI AMANO ANCH’ESSI LA GIUSTIZIA

NASCE IL TRIBUNALE

La mitezza è una virtù che piace a tutti. Rappresenta la figura dell’Agnello divino, che toglie i peccati dal mondo con il suo silenzioso sacrificio. Ci dà l’idea della infinita bontà del Signore e della sua tolleranza per i difetti degli uomini e per le loro stoltezze. L’amabilità è tutta dono della mitezza. Ma noi sappiamo, che nel mondo umano ci sono malvage tendenze e cattiverie gravi e che sovente i deboli ne sono vittime. L’assenza dei buoni vigorosi a difesa dei deboli, sarebbe dar campo libero ai prepotenti. Orbene se il Signore volle cadere vittima di questi lo fece per creare una società nella quale un nuovo equilibrio fosse possibile sulla base della bontà e della giustizia. Per questo Gesù disse anche di « essere venuto a portare non la pace, ma la spada ». La mitezza non deve escludere lo sforzo verso l’attuazione di ogni possibile giustizia. Ecco dunque la compiutezza della virtù cristiana. Nel conflitto, rese vane tutte le altre accortezze, il mite sa che è lecito e doveroso usare i mezzi della difesa somministrati dalla umana giustizia. Il diritto è la formula della esistenza progressiva. È dovere aderirvi. Esso ha rappresentato un passo avanti nello sviluppo della vita associata della prima umanità. Per familiare ed umile che paresse quel tribunale, raccolto sotto un bell’albero fronzuto, per umile che fosse quel modo di ascoltare e di sentenziare, era un grande progresso di fronte alla giustizia sommaria amministrata da ciascuno secondo le proprie voglie personali. Ma anche ora, che essa viene verso noi in larghi paludamenti solenni, può recare con sé grosse e vergognose magagne, di contenuto e di sostanza. Non è forse cosa umana? – Perciò ciascuno faccia esperimento dell’indulgenza, prima di brandire codesta fallibile arma. Il mansueto compatisce l’errore fin che la misura lo sopporta e tollera fino che la speranza d’un componimento sussiste. In seguito,- fa agire il senso del diritto, che è difesa naturale dell’uomo.

GIUSTO GIUDIZIO

Gli stoici han ragionato diversamente. È « proprio dell’uomo amare anche i nemici che lo percuotono. Questo farai, se ti ricorderai, che essi son tuoi congiunti, e che errano per ignoranza e contro la loro volontà; che tra poco sarete morti, tu e loro; e soprattutto che essi non ti hanno arrecato alcun danno, poiché non hanno reso peggiore, di quel che fosse prima, la tua parte sovrana ». Non sono però accettabili codeste affermazioni. Sono troppo lontane dalla realtà. Ogni giorno se ne constata il fallimento; e spesso proprio anche in coloro i quali accettano il comandamento dell’amore, ma da Dio e dalla sua legge. La violenza dell’odio si scatena in mille forme a dimostrare, che lo stoico non attingeva alla conoscenza dell’uomo, ma piuttosto ad un ideale ben discosto dalla realtà. In Cristo solo la legge dell’amore ebbe una consistenza, poiché fu avvalorata da un divino esempio e da una vocazione, che portò l’uomo ad un piano tanto più alto e sicuro. Aggiungi, che Cristo imponendo questa legge conferì all’uomo anche la capacità di osservarla, con l’ausilio della sua grazia. Oltre tutto è errato il tono stesso del precetto stoico del perdono assoluto. Legifera per gente, che ritiene di aver ben poco da vivere e che presto tutta quanta, di qualunque indole sia, indulgente e generosa o prepotente e trista presto sarà unita nella distruzione. Tutti con la morte son destinati a confondersi nel nulla universale. A che scopo allora rivendicare la giustizia? Ma il Cristiano sa di essere immortale e che ogni suo atto è destinato ad elevare l’umanità verso una meta che non vien raggiunta quaggiù, ma nella vita migliore. Ed è appunto con la vittoria data alla giustizia, che il regno di Dio si dilata e si afferma. Se non sapesse reagire alla violenza per mezzo delle vie della normale giustizia, il Cristiano non si salverebbe dalla taccia di viltà. Ecco con quale garbo e causticità una grande mistica benedettina, sant’Ildegarda, fa ragionare l’anima pusillanime. – « Io non agirò contro alcuno per paura di trovarmi abbandonata e senza aiuto. Poiché, se agissi contro qualcuno, perderei i miei beni e i miei amici. Io presterò onore ai grandi e ai ricchi; quanto ai santi e ai poveri io non me ne curerò, poiché qual servizio mi possono essi rendere? Mi propongo d’essere pacifico con ognuno, per timore di perire vittima; giacché se io mi batto con qualcuno, questi mi colpirebbe forse a sua volta; e i colpi da me inferiti mi verrebbero restituiti con usura. Sicché fin quando io sarò tra gli uomini, rimarrò con tutti in pace; facciano bene o facciano male, io conserverò il silenzio. A me serve meglio qualche volta mentire, che non dire la verità; vale più conquistare che perdere, e fuggire i potenti, che non combattere contro di essi. Sovente infatti coloro che proclamano la verità perdono i loro beni e quelli che combattono si fanno ammazzare ». (Liber vitæ.., I , 9). – Questa deliziosa pagina psicologica è ben atta a svegliare il senso della dignità, propria del Cristiano, vale a dire del seguace d’un Maestro crocifisso per la verità. Con ciò si è ben lontani dall’incoraggiare lo spirito di contesa, di litigio, di alterco. Questo è difforme dalla verità e cerca piuttosto la soddisfazione di un gusto corrotto, a servizio dell’amore proprio, che è espressione dell’orgoglio.

VERSO LA CARITÀ’

Né la mitezza viene offesa dalla reazione legittima contro il male. Poiché il Cristiano vi reca un animo nuovo e tutto suo. Non mira a perseguitare il peccatore, ma il peccato. Distinzione niente affatto sofistica, ma perfettamente chiara e giustificata. C’è una dignità calma e mansueta, che ci consente di ricorrere alla giustizia umana, che appunto si va a cercare in tribunale. Sant’Ambrogio, che fu magistrato prima di recar l’infula del Vescovo, ci offerse quest’esempio di cristiano equilibrio. Una vergine di Verona, Indicia, accusata presso il Vescovo Siagrio, si trovò condannata ingiustamente. Essa appellò ad Ambrogio. Egli raccolse un concilio di Vescovi, invitò quanti potevano dargli luce sull’accusata, discusse con tutta ponderazione, poiché si trattava di un fatto troppo grave perché fosse trattato leggermente; e infine emise sentenza d’assoluzione. Rimproverò poi Siagrio del modo superficiale con cui aveva giudicato. Anche altre volte egli fu costretto ad emettere sentenza. Ma non volle mai che la sentenza chiudesse la possibilità alla resipiscenza del colpevole. Simmaco al contrario per una vestale infedele chiede ai magistrati di applicare l’antica punizione e la seppelliscano viva. A Studio, che chiede ad Ambrogio se sia lecito pronunciare delle condanne a morte, il Vescovo risponde che è nel suo giusto diritto, se adopera la spada e fa versare del sangue, ma gli consiglia l’indulgenza. Se osserviamo i rapporti fra i coniugi sotto questa luce, appare tanto chiaro il valore della virtù di mitezza. Che cosa sarebbe la casa qualora in essa non vibrasse lo spirito di indulgenza, di compatimento vicendevole e di soavità? L a famiglia fallirebbe al suo scopo; l’educazione sarebbe un fine irraggiungibile in un’atmosfera di risentimento, di rancore e di intolleranza. – La mansuetudine è virtù individuale, non virtù di governo, e diventa debolezza che offende la giustizia, quando non sa sostenere il diritto altrui. Non è pertanto il mansueto estraneo all’amore del giusto, ma vi aderisce con più carità e schiettezza Le impazienze e le acerbità dell’iracondia non lo colpiscono: e arriva a ristabilire l’ordine contro i ribelli con animo scevro fin dall’ombra del veleno. – Il Cristianesimo, che non misconosce la natura umana e le sue fragilità, avvalora tutte le sue buone qualità e le potenzia con il soccorso divino della grazia. L’uomo così sa aver la forza per sopportare il male e santificare la tolleranza verso le ingiustizie sicché queste non lo danneggino, spingendolo all’odio, ma gli giovino arricchendolo di meriti. –  Si noti infine che questi meriti non sono utili soltanto per l’altra vita – che è già molto – ma immediatamente per questa, nella quale il mite rimane saldo ai princîpi del bene, contro tutte le provocazioni. Sa che, sovente passato l’atto dell’ira, la bontà ha il sopravvento e la vittoria.

IV.

IL MITE CONQUISTA I CUORI

PIACE IL MANSUETO

Don Bosco è tra i modelli contemporanei della mitezza cristiana ed appare altresì il documento, che prova il fascino diffuso fra gli uomini di questa virtù. È troppo chiaro. La bontà perdonante ed indulgente è la immagine di Dio. I suoi Santi ne sono perciò esemplari attraverso tutti i secoli. Dio, che ci ha creato, ha voluto dimostrarci in mille modi la sua indulgenza e la sua comprensione della nostra fragilità. Il Cristiano vede in Gesù la forma umana della bontà divina e, leggendo il Vangelo, si convince della bellezza di questa virtù. Noi siamo tutti attirati dai gesti, dalle parole, dall’opere degli spiriti miti. Sentiamo, che è una qualità della quale si abbellisce tanto l’uomo e lo rende attraente e caro. I ragazzi si lasciavano attrarre dai modi di san Filippo Neri, perché sentivano in lui, non soltanto la bontà che compatisce, ma la grazia e il sacrificio che giova e migliora coloro sui quali come tesoro si versa. Anche san Giovanni Bosco piaceva ai giovani perché era dolce e soave, ma anche perché, dietro questo atteggiamento della persona, v’era la bontà capace di offrire la propria fatica, il tempo, il cuore e l’intelligenza ad essi. Una vita sacrificata. È questo il massimo grado dell’amicizia; e distingue appunto alcuni santi, per l’efficacia della loro opera a salvezza della gioventù di tutti i secoli cristiani. – Nella famiglia osserviamo, che la mitezza fa le madri educatrici. Esse riescono ad avvincersi tutta l’anima dei figli a conquistarne i segreti, i pensieri, i sogni. I figlioli, pur vedendo nella madre qualcosa di veramente sacro e rispettabile, sanno di accostare un essere che li ama, che soffre a loro profitto, che li avvolge in un manto di benigno affetto e non li abbandona a sé medesimi. Sanno di potersi ad essa appoggiare serenamente e con sicurezza. Mamme, che non indulgono ai difetti, né dissimulano la caparbietà, le prepotenze, le doppiezze, la ipocrisia; ma che correggono con parola misurata, con gesto amabile, con cuore che sa il dolore del male più che la reazione acerba dell’ira, la vendetta contro l’inganno subito, la nervosità frivola. La madre, che dimostra. di sapersi reprimere, di assaporare dentro di sé il dolore, di raccogliersi nella propria sofferta delusione, davanti alla ribellione del figlio discolo, che limita la protesta a qualche parola benigna, a qualche silenzio mesto, tiene ancora soggiogato il male insidioso, che avvelena la sua creatura e la domina ancora con speranza di riuscita.

È GRADITO

Ognuno sente, che quella è la virtù bella e gradita, gentile e magica, contro la quale nulla può vincere, se non altrettanta virtù. E dove gli uomini comuni, ambiscono sovente attorno a sé i loro simili, umiliati e curvi sotto la minaccia e ne spremono gli omaggi con imperiosità e violenza; il mite è onorato dall’affetto e dalla venerazione di ognuno, a dispetto della sua modestia. Gesù veniva applaudito dalla folla, che era affascinata dalla sua parola e dai suoi gesti; ma Egli scompariva e si rifugiava lontano, per evitare codesti segni di ammirazione. I Santi rivolgono a Dio la gloria esterna dei loro prodigi di bontà. I miti non si inalberano per l’affetto che conquistano, ma ringraziano Dio che li aiuta e propongono di proseguire per il meglio. – La mansuetudine piace anche per la dignità onde è vestita. Di fronte alla volgarità dell’iracondo, in cui si deformano le stesse note di umanità, e apparisce una belva sfrenata, il decoro dignitoso del mite ha una sua avvenenza, che attrae. La nostra natura ne sente il pregio e lo onora ovunque lo incontri. Ma questa virtù ha origini lontane e lontane ne sono le sue sorgenti alimentatrici. E suppone tutto un tirocinio spirituale ed ascetico con un lavoro tenace. – Occorre innanzi tutto essere dolci nei pensieri. Non è forse frequente il caso, che ci si senta contrariati anche soltanto dall’immagine d’una persona sgradita? Nell’animo deve già fermentare la mitezza e i giudizi e i sentimenti hanno da essere nutriti di benevolenza. Vengono da questo le parole che mitigano le situazioni e pongono ostacolo allo scoppio degli impeti d’ira. Anche l’atteggiamento del volto deve conformarsi a questo stato d’animo, teso verso la serenità e la pace. – Maria Sticco asserisce, che la « cristiana mitezza » del Pellico e il suo sentimento religioso han giovato alla sua arte, in quanto gli han fatto evitare gli aspetti impoetici della poesia patriottica: declamazione, satira, invettive, polemiche. Il silenzio sulle questioni politiche, come su particolari o troppo minuti o troppo repugnanti, la fraternità del dolore, con i nemici, che cristianamente non sono più tali, han messo a nudo il contenuto umano perenne del racconto (Le mie Prigioni), sollevandolo in una sfera superiore alle contingenze. E poco più giù : « Era stato lui, con la sua cristiana mitezza, a far comprendere la necessità dell’indipendenza di una nazione che dava tali vittime ».

CONSIGLI AD UNA MADRE

Fénelon dà consigli ad una madre. « Studiatevi di farle gustare Dio; non permettete che la vostra figliola lo riguardi come un giudice potente e inesorabile, che sta sempre a occhi aperti per censurarci e contrariarci in ogni occasione; fatele vedere come è dolce, come si adatta ai nostri bisogni e ha pietà per le nostre debolezze; familiarizzatela con Lui come con un padre terreno e benigno ». Tutta la mitezza del grande Vescovo è sintetizzata in queste poche righe; dove Dio è conosciuto come padre colmo di soavità. – Ma Fénelon è discepolo di san Francesco di Sales in questo metodo di direzione spirituale. E il santo fondatore e guida di innumerevoli anime, avide di perfezione spirituale, ha toccato il vertice della mansuetudine là dove si confonde con una tenerezza più che materna. Le sue lettere sono riboccanti di espressioni d’amabilità, anche se scrive, come accade più sovente, a donne e a giovani nel secolo o in convento. Egli si è dichiarato « il più affettuoso degli uomini ». Alla vigilia della sua morte ha scritto: « Non v’è al mondo anima che ami più cordialmente, teneramente e, per dirlo con semplicità, più amorosamente di me; poiché piacque a Dio di plasmare così il mio cuore ». Dichiarava, che è necessario usare di questo amore per condurre diritto le anime a Dio. Vero è, che non è possibile nell’uomo comune imitarlo per codesta strada. Occorrerebbe possedere un’anima come la sua e una volontà equilibrata e padrona di sé a tutta prova. – Nondimeno, questa affettuosità ancora oggi conduce a san Francesco spiriti assetati di purezza e di mitezza, ansiosi di conoscere Dio. I miti, forniti della grazia di Cristo, non avvincono a sé coloro che vanno ad essi attratti dal tono della loro soavità, ma li dirigono a Dio, centro e sorgente dell’amore ineffabile. – Come mai tanti desiderosi di amare e disgustati dall’illusorio sentimento umano, inatto a soddisfarci, ignorano il cuore, che s’è definito « dolce e mite » ?  Basta studiare alcuni dei suoi santi, per avvertire la ricchezza sconfinata dell’amore di Cristo. Ecco: è il sogno mio; come è il sogno di un numero grande di anime; eppure le ali non reggono allo sforzo. Ci aiuti lui. Ci sostenga lui.

V

LA MITEZZA COME ELEMENTO DI EDUCAZIONE

IL GIOVINE E LA MITEZZA

Che cosa occorre per attirare i giovani e che cosa per allontanarli? La mansuetudine è il vincolo che lega i piccoli; come l’irascibilità, la ruvidezza chiude l’animo e allontana. Con i piccoli queste norme raggiungono il massimo risultato. Essi, per la loro delicatezza e inesperienza, risentono ancor meglio l’effetto dell’uno e dell’altro contegno, reagiscono con prontezza, seguono l’istinto della naturale difesa e dell’attrazione, come mezzo di vita o di morte. Fosse la mamma dura e repulsiva, pronta agli scatti e agli impeti dell’ira, neppure essa vincerebbe la reazione naturale del figliolo. Il quale senza quasi indugio, si chiuderebbe in se stesso e si scosterebbe da lei, dalla quale pure ebbe il sangue e la vita. Così, con maggiore immediatezza, accade con gli educatori. Nessuno ha mai preso mosche con l’aceto, direbbe san Francesco di Sales. E l’esperienza degli stessi santi, i quali hanno sempre a loro disposizione anche capacità non comuni, insegna che il mezzo migliore per attirare i giovani è la bontà mansueta e indulgente. Qualcuno, ai nostri lumi di luna, potrebbe eccepire nel senso, che la mitezza prepara, anziché cittadini atti alla guerra, giovani molli e inerti, incapaci di un gesto deciso e virile; la mitezza fa delle pecore, invece che dei leoni; è una virtù deleteria pedagogicamente; inclina alla rassegnazione, e non alla reazione violenta, quella che occorre in questi tempi di massimi sforzi della Patria. La mansuetudine potrà essere virtù utile tra la gente separata dalla vita reale e che lavori nell’ambito del chiostro, alla scoperta delle esperienze mistiche. Questa obiezione ha il suo valore. Bisogna riconoscere, che l’animo incline alla mitezza non seconda gli impulsi dell’ira e della vendetta. Ma è pur vero, che l’uomo mite non è meno pronto al dovere, qualunque sia, allorché la sua voce lo chiami e gli imponga l’azione. Forse, che furono tutti violenti e iracondi gli uomini di guerra? Basta leggere Plutarco. I grandi condottieri sono, al contrario, piuttosto spiriti calmi e calcolatori, atti a riflettere e a prendere decisioni posate e pensate. La psicologia del guerriero appare anzi più inchinevole alla serenità, che non all’agitazione travolgente. Le decisioni impulsive sono sempre un grave rischio, non tenendo esse conto di tutti gli elementi e non dominando i moti primi dell’animo in effervescenza. Sia dunque la madre il primo esempio di mansuetudine; per aprire l’animo del ragazzo. Il quale la seguirà poi volentieri su per il sentiero di questa virtù sempre cara ed avvincente.

VIOLENZA E DOMINIO DI SÉ

Vorrei aggiungere, che è appunto l’animo solitamente padrone di sé e piegato volontariamente verso la indulgenza, che, davanti alla ingiustizia constatata, più risoluto si inalbera e reagisce; è fra costoro, di solito calmi, la maggiore violenza della protesta contro il male. È per questo, che bisogna riconoscere che la mansuetudine neppure incoraggia la prepotenza altrui. Perché colui che intende di non piegarsi agli impulsi ciechi e improvvisi, dovrebbe spirare altezzosità? Egli rivela anzi un equilibrio di umori e di carattere, per cui, non alla prepotenza, ma induce al rispetto i vicini. È una forza; è una volontà assai più considerabile, che non il violento furioso e l’impulsivo inetto. Questi sono come la schiuma del vino; i miti ne sono il vigore e la sostanza. L’eroe ama la moderazione e non si abbandona alle espressioni banali del dire e dell’agire. Né spende la sua forza per il capriccio; sa che la vita costa e vale. E sa pure, che la energia viene dall’aderire alla volontà superiore. Ubbidirò a Dio, disse Abramo; egli è che fornirà il fuoco ed il sacrificio ». Se volete, pertanto educare figli robusti alla Patria, per tutti gli eventi, non svegliate nel loro animo le passioni, ma coltivate le virtù. La mitezza è virtù sovrana, che coincide con la forza, ma quella che sa persistere e durare sino alla vittoria. Essa come è preziosa per l’educatore nella scuola, è sommamente utile alla madre nella casa. Se il ragazzo è normale e accetta gli ammonimenti dati con tono modesto e cordiale, lo sviluppo del carattere avverrà sicuramente e con esito del tutto soddisfacente. La madre non esce dal solco del suo armonico gesto di maternità costante. Se al contrario il figliolo è irrequieto e non si piega facilmente al consiglio sereno, ma scalpita e si impazienta, si inalbera e si eccita al minimo accenno di urto, allora la mamma non si smarrisca, ma usi del suo abituale tono modesto e affettuoso e lo accentui piuttosto, per smorzare e ammansare il figlio. Gli faccia notare, che essa non si perde d’animo né si intimidisce per quel suo fare altero. Dovrà egli mutare, non essa. E sarà costretto a cedere, mentre lei rimarrà nel possesso di sé serena e fidente. Davanti ad un recalcitrante e tenace neppure allora rinunci la madre al suo tono mansueto. Le ostentazioni di ribellione non la smuovano dal suo contegno deciso. Neppure le irriverenze o le ingiurie la intimidiscano. Sia forte nella sua ragionevolezza e non le verrà meno il buon risultato. Il cuore finisce per sopraffare. La sua maternità resistente e costante avrà la sua rivincita sullo strepito della violenza. Non si può fare la guerra da soli. Ed egli si trova disarmato dalla calma della mamma. Che cosa facevano i giudici dei Cristiani, i quali non accennavano a rinunciare alla loro libertà di adorazione? Dovevano cedere essi e rimandare il giudizio ad altro giorno, per non confessarsi sconfitti.

VINCE IN BONO MALUM

La condizione della mamma, che non riesce a smuovere il figlio dalla cattiva strada, è fra le più tragiche. È tutto il cuore di fronte a tutta la insensibilità; è tutto il sacrificio in faccia all’egoismo avido. Ma non importa. Viene il momento della stanchezza della capricciosità che resiste all’amore. Allora quella si avvede di avere faticato invano, di avere contristato senza risultato. Si umilia. Chiede perdono. Promette riparazione. Diviene conquista dell’amore. – Ma anche il giovane preso dalla educazione alla mansuetudine si fa rapidamente virile e padrone di sé e degli altri. La dolcezza dei modi è rivelazione di un animo lavorato dalla grazia e dalla saggezza divina. Esprime un costume interiore casto e ispirato alla conoscenza del cuore umano. Diviene compassionevole e indulgente; forza di bene e stimolo ai prossimi, che ne subiscono l’amorevole influsso. Come è dell’esperienza comune, che il governo dei volgari saliti in potere non è dei più amabili, così quello degli spiriti nobili o nobilitati dalla educazione di finezza cristiana è, comunque fermo e autorevole, sempre più comprensivo e delicato verso i docili e disciplinati. Lo Schmidlind narra, che nel 1120 andò tra i Pomerani a predicare un Vescovo spagnolo Bernardo, il quale con evangelica semplicità prese a comunicare la verità cristiana; ma non incontrò che derisione. Il suo portamento umile e dimesso, la sua povertà, non piacquero e fu espulso. Si diceva da quei barbari: « Il Signore del mondo non può aver scelto per suo inviato un mendicante ». Ma non è a dire, che il sacrificio di Lui sia stato sterile. Verranno altri e raccoglieranno sul campo i frutti maturi del sudore e delle lacrime. Sicché la vittoria definitiva è sempre della mitezza ispirata dalla fede e dalla pietà cristiana.

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (-2A-)

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (2A)

[A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]

CAPO SECONDO

“Beati mites: quoniam ipsi possidebunt terram”

[Beati i miti perché possederanno la terra]

I.

I FASTI DELL’IRACONDIA

L’opposto della mitezza è l’iracondia. È questa una passione d’una singolare efficacia di male. Essa pervertì l’uomo da principio in Caino e lo va sempre sospingendo alla dissoluzione. Forza tutte le condizioni della vita. La sua nascita è dovuta all’orgoglio, che trascina con sé le potenze dello spirito e le travolge nella esasperazione. L’iracondia è appunto una dominante espressione dell’orgoglio. Essa in vero non ha tale potere da affascinare, perché appare troppo repulsiva e fa piuttosto paura. Inamida anche i più validi e in ogni caso desta repugnanza. Il collerico con la sua stessa figura, rosso, congestionato, irragionevole, trasfigurato da una violenta contrazione dei muscoli, senza controllo sulle parole, travolto come un fuscello da una corrente impetuosa, appare come in balìa d’una furia infernale. Se pensi a Saulle eccitato contro il giovine Davide, mentre gli si avventa contro e tenta di configgerlo alla parete, hai una idea della terribile irragionevolezza dell’iracondo e delle conseguenze indeprecabili di un suo gesto. „ È uno stato d’aberrazione. L’uomo si vela, e lascia in azione, fuor dell’occhio della ragione gli impulsi più ciechi e impetuosi della bestia. Penso ad Erode, dopo d’aver rilevato l’accortezza con cui i Magi lo elusero. Come sarebbero tornati da lui, mentre avevano letto nel suo occhio il sinistro intento della sua malvagità? Anziché recarsi a riferirgli della reale esistenza del Bambino dalla maestà divina nelle semplici e comune apparenze, tornarono « per aliam viam in regionem suam ». È il suo atteggiamento un fenomeno di oscura bestialità. Un bambino avrebbe forse potuto aver modo di danneggiarlo, mentre egli era già tanto avanti negli anni? Nondimeno l’iroso orgoglio lo ha così sospinto ad un gesto estremamente crudele. Divenne nei secoli l’emblema della crudeltà insana. L’iracondia falsa la visione della vita e dei suoi sviluppi. Presenta alla sua vittima lineamenti assurdi, possibilità impensabili, concretezze irreali. Le sue determinazioni rivestono qualcosa di inumano e di infernale. Infatti sovente egli si abbatte in una crisi d’incapacità tormentosa e disperata. Piange, bestemmia, fa bava alla bocca, si percuote il capo, agita in alto i pugni stretti a maledire. Pare voglia scagliarsi verso un potere superiore, contro cui non ha armi sufficienti. Gli si presentano le cose e le persone come nemiche, come forze insidiose e minaccianti. Anziché studiare le circostanze con intendimento sereno, per risolvere che cosa sia da fare, si lascia trasportare dall’impeto della passione e dal dispetto. Ogni disastrosa risoluzione è dunque possibile.

CONDIZIONE PIETOSA

Non sarà mai « beato » l’iracondo. Rodersi dentro, come avvelenato da una vena di tossico insopprimibile, è il suo destino. Se non intervenga un fattore nuovo ed efficace a sedare, a placare, a comunicare al « paziente » il senso della realtà. Perciò è necessario, che accanto al soggetto dell’ira si trovi una persona amabile e serena, che col contegno, con la parca e rada parola, con lo sguardo dolce e comprensivo si faccia interprete dei sentimenti di umanità e di ragione, che paiono in lui offuscati dalla effervescenza di umori maligni. « Sol non occidat super iracundiam vestram — il sole non scenda all’occidente sulla vostra iracondia » (Ephes., IV, 26) scrisse San Paolo. Voleva dire di aprirle le valvole dello spirito, perché subito sfumi e dilegui. E l’avvelenamento venga evitato. Si chiuda ogni giornata in un gesto di largo perdono e nel riconoscimento della propria fragilità. Questo umile atto smorza rapidamente l’esaltazione dell’ira e versa olio di pace nello spirito. A che cosa può servire l’odio di cui l’irascibilità è sorgente? Forse potenzia la facoltà dell’animo? Forse accresce il sentimento del valore personale? O conferisce un tono di serietà e di forza all’individuo? Né l’iracondia né l’odio giovano in nessuna misura e in nessun senso. Abbiamo già visto come essa falsi la visione vera della vita. Ne accentua anzi le asperità e i disagi. Fa da lente d’ingrandimento di tutte le più piccole beghe tra vicini e tra lontani. È un elemento corrosivo dei rapporti sociali e familiari. Quando tra coniugi entra, gli spiriti si inacerbiscono e si scontrano sovente nella intolleranza reciproca. Non si crede più alla sincerità delia buona parola, del servigio amorevole. Tutto viene interpretato in senso avverso. Il sospetto tenace vigila a contraffare le apparenze della maggiore semplicità e a trasformarle in ipocrita doppiezza. Le facoltà dell’animo anziché potenziarsi, attraverso l’iracondia piuttosto si deformano e si caricano d’acredine. Un campo invaso dalla gragnuola, è diventato l’animo; un terreno minato da mine sotterranee ad alta potenza; un ambiente infestato da esalazioni micidiali. L’iracondo ha smarrito ogni potere di dominio, ogni capacità sedativa sulle proprie facoltà, avendone perduto il controllo.

MENTECATTO

Neanche può accrescere il valore intimo della persona. Se durante lo scoppio dell’ira può accadere, che la coscienza esaltata si creda corroborata e irrobustita dal gesto violento e dalla parola acre e aggressiva, è cosa che dura brevemente; presto avverte la debolezza della sua posizione morale in faccia a chi lo ha sorpreso in codesto atteggiamento. Chi è così eccitato non è un forte, ma appunto per debolezza trovasi privo di poteri inibitori, di valida vigilanza su di sé, di consapevolezza e di sufficiente luce circa la sua condizione. È un vero deficiente, un mutilato delle facoltà spirituali. Nessun potenziamento quindi della personalità. Ed è infine falso e illusorio il ritenersi forte, perché s’è molto violentemente alzata la voce. Piuttosto diremo, che questa è la strada dello svalutamento d’ogni concetto di forza. Né il rispetto dei prossimi può persistere. Un individuo privo di vigilanza su di sé riesce sommamente pericoloso. Ognuno lo guarda con timore e lo accosta con estrema prudenza, ogni qualvolta gli sia imposto di farlo. Più si è lontano dai violenti, meglio si sta. Ogni sorpresa è possibile e si sente da lungi il pericolo, come quello del tuono, che brontola a distanza prima di scatenarsi nell’uragano. Nella famiglia l’ira è proprio l’uragano, che annulla ogni vitalità dello spirito. Ho sentito una bambina pregare il Signore Gesù, per invocare di poter vivere senza litigi in casa. La piccola era dilaniata dal continuo abbaiare dell’ira dell’uno contro l’altro genitore. E parlava con tale accoramento da commuovere. L’uomo non sa tollerar nessuna deficienza nel suo conforto; la donna, anziché impegnarsi ad attendere meglio al dovere della casa e alla conquista dell’anima di lui, troppo pronta sempre al cicaleggio, alla critica, riprende l’alterco, esasperando di continuo il marito, il quale avrebbe bisogno invece di silenzio rispettoso e paziente. L’attrito di due corpi duri provoca l’accensione della scintilla. « Vere stultum interfecit iracundia » (Giob., V, 2). Infatti estingue intorno la vita, le opere, il pensiero. Crea lo squilibrio tra le facoltà e nei rapporti con gli uomini. Odioso e solitario. Un reprobo già quaggiù.

II.

LE RADICI MORALI DELL’IRASCIBILITÀ

LA NOBILTÀ DEL CRISTIANO

È chiaro, che una sorgente dell’ira sia nel temperamento sortito da natura. Temperamenti sanguigni sono portati alla insofferenza delle contradizioni. Ma quando questo diventa con gli anni consapevole inclinazione, è dovere di ognuno di opporsi a contrastarne l’avanzata. – Essa è uno stato d’animo avverso al comandamento di Dio e alle esigenze della vita morale e sociale. Occorre sentire fortemente il diritto dei prossimi al rispetto. Ciascuno deve riconoscere al suo vicino la naturale dignità e quella stima, proporzionata alla umana natura e al carattere di cristiano, nobilitato dai doni carismatici. – Questa dignità dobbiamo onorarla in noi stessi, per apprezzarla negli altri. Quanto più ne avvertiamo nella nostra vita spirituale il pregio, tanto meglio abituiamo il sentimento a scorgerne il valore nei nostri simili. Ed è, per verità, una elevazione grande. Siamo fratelli di Cristo, siamo vocati alla eredità del cielo, siamo incaricati di missione di bene fra i prossimi di quaggiù. Abbiamo in noi la « grazia », che ci dà il passo libero verso la intimità con Dio, nella sua stessa vita di mistero. – Siamo membri riconosciuti e dotati del Corpo mistico del Signore. Circola nel nostro spirito una linfa soprannaturale di santità. Ogni azione compiuta in tale stato è azione dell’uomo e di Dio, ci mette in contatto più diritto con Lui e ci fa collaboratori della sua redenzione quotidiana fra i nostri prossimi. Come sottovalutare in noi tale patrimonio di beni e di compiti sarebbe segno di imperdonabile incomprensione; così lo spregiarlo nei nostri vicini è cecità e colpa. L’iracondo alimenta in sé questo disprezzo e lo fa norma di condotta. Ma l’esperienza ci dice pure ogni giorno quanto sia errata questa concezione della vita sociale. Superato l’attimo dell’accecamento, subito lo spirito, appena vigile e osservatore, avverte l’errore di valutazione e sovente la virtù del prossimo umiliato raggia e si impone. Forse questi difetterà di prontezza del reagire e si chiuderà in un riserbo dignitoso. Forse non vorrà prendere una risoluzione, e lascerà che la passione sbolla e il giusto giudizio subentri. Forse reagirà con la misura di chi è consapevole della debolezza umana e compatirà quella colpa. Se poi la sua reazione fosse dura, più che virtuosa, sovente l’orgoglio dell’iracondo s’impennerebbe sino alla violenza brutale; in tal caso la responsabilità appare palese essendo vera provocazione. Comunque si risolva l’urto, la inferiorità del colpevole è visibile in forme umilianti a lui stesso, e voglia Dio, che questa constatazione lo porti a decidere risolutamente di rivedere la propria posizione morale per correggerla e migliorare nel senso della cristiana mitezza.

DOVERI DI RICONOSCERLA

Ma anche la buona volontà sovente incontra intimi ostacoli; trova l’opposizione nella suscettibilità acuta, sensibile sino alla esasperazione. Ci sono nature, che al minimo urto balzano come belve ferite. Non sanno tollerare né un rimprovero, né una calma osservazione, né l’ombra di un dissenso. Educati male, contentati in ogni capriccio, secondati in tutti i desideri, in casa, da una famiglia che li adorava, non sanno poi vivere in società, dove questa idolatria non c’è. La sensibilità deve durare sforzi notevoli ad attutirsi. La buona volontà non basta; occorre correggere la stessa concezione della vita e metterla a punto con la realtà del suo valore. Occorre rifarsi al senso di fraternità cristiana, che l’educazione della famiglia ha forse lasciato un po’ in penombra, come di mediocre peso. Soltanto quando uno pensa e guarda al fratello con questo sentimento, è in grado di reprimere e di dominare gli impulsi dell’intolleranza iraconda. Quando Gesù Signore inculcò agli uomini il concetto della divina paternità e del legame, che vincola ogni uomo come fratello d’una unica immensa famiglia, offerse loro e a tutta l’umanità avvenire l’ancora di salvezza contro le insidie della barbarie. In vero osserviamo nella storia come i periodi di maggior progredimento civile sono quelli che coincidono con lo sviluppo di codesto concetto cristiano. E i popoli, che per orgoglio e per istinto indomato, si lasciano trascinare alla ammirazione del mondo umano antecedente a Cristo, impongono alla umana società un vero e palese regredimento. Ritorna l’« homo homini lupus ».

AMARCI

Se non che i compiti della nostra esistenza sono diversi. Una famiglia in cui si elevi la lite a metodo abituale e riconosciuto di convivenza non potrà produrre gran che. Se il litigio s’aggrava in lotta, sia pure soltanto nei tribunali, allora tutt’altro che produrre, consumerà la sua sostanza, il suo tempo, il suo pensare, le riserve di energia, con la distruzione del più ampio patrimonio. Del pari deve dirsi di una nazione. Le grandi opere di pensiero, le opere d’arte  immortali, i vari periodi di scoperta e di creazione, non sono quelli dei rivolgimenti sociali e delle devastazioni guerresche. L’uomo per creare abbisogna di tranquillità d’animo, di serenità di spirito. Deve poter guardare avanti a sé con sicurezza del suo domani. Non fummo creati da Dio per angustiarci. Né in casa, né nella vita sociale. Tutti abbiamo doni da mettere a profitto dei nostri simili; tutti abbiamo bisogno di altri. Ciascuno deve dare e ha diritto di ricevere. La vita è congegnata così, che la solidarietà domini e guidi pensieri ed azioni. Le colpe degli uni o degli altri non servono da pretesto per spezzare i vincoli di questa provvida legge. Gli uomini hanno via via creato i tribunali per evitare i conflitti intestini; e le nazioni devono pure piegarsi al giudizio del giusto esame. La civiltà viene pertanto costruendosi sulla concordia; la quale ha un aiuto sommamente valido nella concezione della cristiana fraternità; questa poi nella virtù della mitezza, cara al Signore, che venne a vivere fra noi come uno di noi. – Marco Aurelio ha basato su altri principi le sue conclusioni, che mirano ad esaltare la medesima virtù rivelata da Cristo. « Lo sdegno che si dipinge sul tuo volto è cosa contro natura; e, se vi ritorna spesso, è causa che se ne alteri la bellezza, e che questa alfine si estingua del tutto. Da ciò appunto io mi sforzo a concludere, che l’ira è contro ragione; poiché, se si perde la coscienza della propria colpa, a che vivere ancora? » (VII, 24). – Si può riacquistarla per mezzo della accentuazione della luce divina, rivelata appunto per sovvenire alla nostra incapacità. Si riconosca la colpa, non soltanto per sensibilità diretta, ma altresì per la evidente indicazione morale della regola del Signore. « Non iràsceris »; e allora la bellezza torna sul volto e nella vita.

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (-1B-)

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (1B)

[A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]

CAPO PRIMO

Beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum cœlorum

[Beati i poveri di spirito perché di essi è il Regno dei Cieli]

II

LIBERI SONO I POVERI COME GLI UCCELLI

Anche qui « poveri » sono, non quelli che si trovano sprovvisti di beni, ma tutti coloro i quali, se privi si tengono esenti da invidie, se provvisti si tengono indipendenti e sciolti da ogni oggetto terreno e sono del tutto pronti a disfarsene come la Provvidenza mostri di volere. Veramente liberi sono questi poveri. Essi non subiscono nessuna soggezione da parte di codesti averi. Non fanno loro gola. Non li attirano. Non ne sognano. Neppure allorché essi abbiano nell’animo di condurre a termine opere di utilità del prossimo e occorra il denaro. Si trovano in una condizione di piena indipendenza dalle cose esterne. Ne sanno usare e sanno farne a meno. Sciolti come uccelli, volano su cose e vicende, e nessun vischio le avvince. Neppure ne subiscono alcun fascino, poiché ne hanno visto e conoscono con l’utilità anche il peso e il disagio. Il loro cuore è esente dall’intorpidimento, che le preoccupazioni materiali inducono persino negli spiriti più agili. Certamente non gustano questa benedetta libertà quelli che, essendo privi dei mezzi di fortuna agognati, si tormentano della loro sorte. Né hanno nulla della gelosia con cui altri guardano le altrui comodità e ricchezze. Neppure assomigliano a chi, per una volontà di rinuncia orgogliosa, vede la tavola imbandita e s’allontana dichiarando la propria superiorità: subendone la cupidigia. La libertà evangelica, più che di rinuncia, sa di conquista. San Francesco non ebbe gesti di disprezzo, non tolse via lo sguardo con dispetto dal sottile fascino del possesso ma volò verso la sua indipendenza lieto, del tutto agile, di fronte ai legami di una soggezione fastidiosa e seccante. Non è questo lo stato dell’uomo comune, di certo. L’esempio di alcuni Santi non è per tutti. Esso nondimeno ha un alto valore di monito e di richiamo. Ci dice chiaro come siano saggi soltanto coloro che sanno mirare all’intimo delle cose, e a possedere questo piuttosto che l’esterno. La proprietà esterna disturba pensieri e determinazioni; l’interna, vale a dire il possesso di noi medesimi, ci porta verso il vasto cielo della libertà dello spirito.

LA LIBERTA’

Occorre fare un’osservazione. La rinuncia di San Francesco e di chiunque lo imiti, sia pure nella comune vita di famiglia, e non abbandonando nessuno dei suoi impegni, raggiunge questa interiore proprietà e libertà. Non ha il fine di arrivare ad altro possesso di maggior prezzo. Ecco un uomo, che si spoglia delle sue vesti, si getta nel fiume per trarne un oggetto prezioso. Un altro impiega in un rischio tutta la sua sostanza, nella speranza che gli serva a guadagnare assai più di quello che sacrifica rinunciandovi. Costoro non hanno rapporto con la disposizione d’animo, che intendo presentare. Questa intende semplicemente disfarsi d’un impaccio. Se mai chi vuole vivere il consiglio evangelico ha di mira la conquista della vita eterna con un passo più spedito e con un risultato più sicuro. Ma anche in tale caso intende dirigersi con assoluto distacco e per amore di esso. Egli è convinto così di provvedere al proprio interesse e consapevole del valore della conquista raggiunta con la libertà dello spirito. E lo vorrebbe altresì nella ipotesi che la sua risoluzione non gli servisse per il fine supremo, soltanto per il pregio con cui esso gli si presenta. Un padre o una madre di famiglia può apprezzare questo stato d’animo e anche viverne. Non sembri assurdo. Procuri di dare al suo lavoro, per le comuni necessità, il valore di un mezzo imprescindibile e giusto; tenga lungi dal cuore l’avida brama d’una prosperità, la quale in sé è inceppante, cagione di noie e tale da dissipare lo spirito al di là d’ogni sollecitudine sana e atta a facilitare il raggiungimento dei fini della vita. «È certo, che la sola virtù è il sommo bene, scrive sant’Ambrogio, e essa sola è bastevole al frutto della vita beata. La felicità non si consegue con i beni esteriori o del corpo, ma con la sola virtù, mediante la quale s’acquista la vita eterna. Poiché la vita beata è il frutto delle cose presenti e la vita eterna è la speranza delle future. « Nondimeno molti pensano impossibile la vita beata in questo corpo infermo e tanto fragile, nel quale bisogna affannarsi, dolersi, piangere, sopportar malattie. Ma io non dico che la vita beata consiste in una certa allegrezza del corpo e non nell’altezza della sapienza, nella soavità della coscienza e nella altezza della virtù. Infatti felicità è non star con le passioni, ma vincerle e non lasciarsi sopraffare dalla perturbazione del dolore temporale ». (De Off., II, 5). Ed ecco una bella pagina di Ozanam sul concetto di povertà nel Cristianesimo e nel paganesimo: « Nei tempi antichi i poveri erano stati cacciati sotto i piedi; il genio antico li guardava come colpiti dalla riprovazione divina. Ancora ai tempi di sant’Ambrogio i pagani e i cattivi Cristiani solevano dire: Non ci diamo pensiero di far elemosina a persone che Dio ha maledette, poiché le lascia nella penuria e nell’indigenza. Conveniva cominciare con l’onorare la povertà, il che fece dandole il primo posto in chiesa e nelle comunità dei Cristiani. Lo dice san Giovanni Crisostomo: — Come le fonti sono disposte in vicinanza dei luoghi di preghiera per l’abluzione delle mani, che dobbiamo tendere al cielo, così i poveri furono dai nostri predecessori collocati vicino alla porta delle chiese per purificare le nostre mani con la beneficenza, prima d’innalzarle al Signore. — I poveri, più che rispettati erano ritenuti necessari. Ed ecco la gran parola, spesso incompresa e più spesso bestemmiata: — Ci saranno sempre poveri. — Non fu detto che ci saranno sempre ricchi, ma che era necessario che ci fossero sempre poveri, e, in mancanza di povertà forzata, ci fosse la povertà volontaria; che ci fossero istituti nei quali ciascuno facesse volontaria abnegazione della proprietà personale. Ecco come la povertà veniva prendendo il posto che era segnato nell’economia divina; essa diventava il perno della società dei Cristiani ».

LO SBOCCO DELL’AMORE

Sicché è si lecito affermare, che la elemosina, che ora vien quasi malfamata da chi ignora i l cuore umano e gli umani bisogni, non è tanto un dovere, quanto il diritto del Cristiano. Poiché questi è ben lungi dall’umiliare i poveri con i controlli, le inchieste burocratiche, le lunghe attese ufficiali, ma dà senza orgoglio per amore di Dio ein penitenza dei propri peccati. Ci fu un tempo quando si parlava di Gesù Signore e di san Francesco come di due epigoni del comunismo. Ma l’equivoco appariva chiaro a chiunque fosse Cristiano informato. Questa dottrina era un mezzo per appropriarsi dei beni terreni, non per liberarsene. Era la risultante d’una avidità, che passava i confini del puro lamento per la ingiustizia e arrivava a odiare chi n’era esente e a tentare la strada di sostituirlo nel godimento di beni non guadagnati legittimamente. Gesù invece predicò il contrario. Disse : « Non vincolate i vostri desideri a codeste cose passeggere e ingannatrici; non permettete che un quadrato di terra o una borsa d’oro vi assorba talmente il pensiero da non concedervi pace; siate liberi da tutto ciò, conquistate la vita eterna ». – Chi ha responsabilità di famiglia o comunque è tenuto a vivere non nella solitudine, ma in società, deve curare i mezzi di sussistenza di sé edei suoi, ma nondimeno non deve tendere con ansia tutte le sue facoltà verso il possesso di ciò che non corrisponde ai profondi e veri bisogni della vita umana. Gli avidi sono degni di commiserazione e non meritevoli d’invidia. Bisogna predicare ai poveri effettivi, che spezzino anche i l vincolo spirituale verso gli averi e facciano sì, che la loro libertà sia pienamente raggiunta. Bisogna ricordare ai ricchi di diventare poveri in spirito, di acquistare lo spirito della povertà. Così una madre di famiglia è in grado di far balenare alla coscienza dei suoi figli la bellezza del consiglio evangelico, senza timore di sospingerli alla trascuratezza dei loro futuri doveri di lavoro e di responsabilità. Per soddisfare ai doveri comuni della vita, non occorre la schiavitù, né la soggezione alla materia. Tutto è possibile provvedere con piena libertà e indipendenza di spirito. È la condizione di tanta tranquillità e di tanta pace. I figli saranno ben grati per averne conosciuta la bellezza e la via d’arrivo e canteranno le lodi dei loro cari per tutta l a vita, poiché avrebbero battuto il torturante sentiero dell’avidità e invece per loro merito han potuto salire quello libero e solare che conduce alla libertà e al vero benessere.

III

LE GARANZIE DELL’INDIGENTE IL RICCO LADRO

Rifletti alle preoccupazioni del ricco del Vangelo, Egli, prevedendo un raccolto assai abbondante, s’avvide di non avere abbastanza capacità di granai e di cantine. Non soltanto non si trovava soddisfatto d’aver molta merce da gettare in mercato, ma intendeva conservarla più che gli riuscisse, per cavarne un utile più alto allorché il bisogno del pubblico fosse maggiormente cresciuto. Pensa e ripensa, decide di abbattere e ricostruire con criteri più previdenti. L’avarizia, senza che s’avverta, giunge persino a corrompere il giudizio e induce all’ingiustizia. Si ricordi Aman, che voleva impossessarsi della vigna di Nabot. Ne ha una vera passione: e alla ripulsa rispettosa del legittimo proprietario si sente venir meno dalla rabbia. Non mangia, non dorme. Finché la moglie suggerisce l’astuzia che doveva coprire il furto. Anche nelle minori vicende della giornata l’avidità tende a misconoscere la giustizia e a giustificare la frode, commettendo il male contro il diritto del prossimo. In un ufficio, maneggiando le minuscole cose che servono, l’avarizia acceca e sospinge alla sottrazione dell’altrui. L’istinto di appropriarsi della roba d’altri riesce a stimolare ad indelicatezze puerili, ma che sono sintomo di una vera corruzione del criterio del giusto e dell’ingiusto. Chi è povero in spirito sorride ad ogni forma di tentazione d’avarizia, poiché, non ha presa su lui, né può allentare il gusto della libertà di cui gode. Sente il valore della serenità che gli viene da questa indipendenza dalla concupiscenza del possesso, né intende rinunciarvi. Sa che ogni avere è dolore, che ogni possesso è decesso. San Paolo dice l’avarizia, « simulacrorum servitus — schiavitù degli idoli » (Col., III, 5). E di forma speciale. La maggiore battaglia del Signore fu contro l’avarizia dei capi del popolo; il tema principe dei sermoni popolari di San Francesco fu il distacco dalla passione della roba; i Santi senza distinzione offrono al mondo l’esempio della libertà assoluta dell’animo, pur maneggiando sovente molti beni. È proprio chiaro che la santità si tiene in una posizione opposta a quella dell’uomo preoccupato di ammassare. E poiché essi sono anche gli esemplari della letizia e dello spirito sorridente dobbiamo dedurne, che l’avarizia generalmente opprima e soffochi il cuore dell’uomo. È pertanto una passione riprovevole anche per una considerazione esclusivamente umana.

LOTTE SENZA FINE

Non è per causa degli averi, forse, che accadono i maggiori urti fra individui e fra i popoli? Quando un individuo comincia a riflettere, che il suo vicino ha questo e quest’altro e che egli ne è privo, studia il modo come entrarne in possesso lui pure; considera le diverse possibilità; pesa i vari sforzi, che offrono qualche speranza; si decide infine ad affrontare anche quelli meno leciti o del tutto ingiusti. Entra in lui come una suggestione, e vede ogni cosa sotto il prisma di quel sogno, di quello stimolo, di quella passione. Finché si persuade di poterla legittimamente soddisfare. Né è detto, che decisa la questione, tutto sia pacificato. Nell’altro permane il senso dell’umiliazione edella disdetta. Bisogna pensare alla rivincita. Per tal modo vi son famiglie che si fan divorare dalla pubblica amministrazione della giustizia ogni avere. È al contrario chiarissimo, che la intelligenza, la parsimonia, la tenacia del lavoro conducono al benessere assai meglio e con maggiore vantaggio. Soprattutto con onore e vera gloria. La Provvidenza ha distribuito i beni di natura con prodigalità, ma anche con criteri tali da indurre gli uomini a riconoscere una certa interdipendenza fra loro. Chi difetta d’un genere lo potrà trovare presso altri dietro lo scambio di ciò che possiede. Non è forse provvido anche questo bisogno, che tutti urge gli uni verso gli altri, affinché tutti sentano il dovere di ricorrere ai propri simili senza odio, senza avidità?

COMPOSTEZZA DI DESIDERI

I doni di Dio vengono per tal modo valutati secondo verità. Come non riconoscere la volontà del Signore, che vuole l’armonia fra tutti eil rispetto dei particolari diritti? Dio tutela il carattere dell’individuo edel popolo. Lo favorisce ebenedice. L’uomo che esce, per sola cupidigia, dall’ordine fissato dalla natura e che ambisce di valicare le linee di confine segnate dalle capacità congenite, sovente si trova privo delle energie, delle luci, degli accorgimenti necessari alla riuscita. È quindi la povertà in spirito la condizione più propria per arrivare alle mete naturali. Le quali tendono sempre ad elevarsi, ma nell’armonia delle circostanze e delle condizioni. Qui sta il privilegio delle coscienze ordinate e degli spiriti prudenti. E vivono « beati », vale a dire sereni e placati dentro se stessi. Le loro intraprese si svolgono senza le gravi scosse dell’ambizione, senza i contrasti della gelosia. Non turbano la boria d’alcuno. Hanno un tono così spontaneo e schietto, che — a meno di temperamenti malvagi — lavorano circondati dal riconoscimento o almeno dal rispetto. Come non assalgono alcuno, così da nessuno vengono assaliti. E filano tranquilli per la loro ascesa, guadagnando tempo e lavorando in pace, con tanto maggiore successo. – Don Bosco ebbe in alto grado la povertà in spirito eppure fu assai tormentato e turbato nello svolgimento della sua mirabile attività. Ma questo non veniva da invidia o gelosia; si temeva da spiriti miopi per i riflessi politici della sua azione popolare giovanile. Infatti non mancarono le dimostrazioni della violenza politica di chi vedeva nel santo sacerdote una minaccia contro le istituzioni. Ma la sua condizione spirituale, che lo teneva in una perfetta libertà di movimento, costituiva la sua forza; sicché o in un verso o nell’altro egli trovò modo di perseverare o di vincere.  Nessun vincolo o peso lo costrinse a tener in conto gli interessi materiali. La libertà lo fece agile e gli diede la vittoria. Ha verificato in pieno la povertà e s’è conquistato « il Regno de’ cieli » sin da quaggiù. Quale efficacia di bene nell’ambito stesso della Gerarchia ecclesiastica! La sua santità fu riconosciuta ancor vivo e la sua abilità nel condurre gli affari fu messa a profitto dalla fiducia dei Papi.

IV

I GODIMENTI DEI POVERI DI SPIRITO

BENI SCONOSCIUTI

Nella rinuncia, che è base della vita ascetica, sta un merito indubbio. È intanto una dimostrazione ben chiara dell’amore di Colui per il quale la rinuncia vien concepita e fatta. Se la morte è il medesimo segno di amore, l’accettazione d’una astinenza per amore è una prova sicura di esso. Quando si parla di rinuncia occorre tener presente che in essa vengono comprese tutte le cose le quali alla vita esteriore ci legano e ce ne fanno schiavi. Si considera « ricco » nel senso del Vangelo anche colui che ambisce gli onori, la vanità, i titoli onorifici e i primi posti. – È una umiliazione vedere gli uomini d’ogni grado e classe affannarsi per fregiarsi di segni convenzionali e di dati colori alle vesti, per cui la esistenza loro assomiglia ad una « fiera delle vanità ». È vero, che si intende onorare il grado non la persona… Ma che bella opportunità per la mamma avveduta, di far rilevare il poco conto da fare di codeste forme di angusta visione. Esse di solito nella realtà sono in proporzione inversa del merito. Sta bene: lo spirito di distacco, che agli inizi può essere frutto di superamento della naturale inclinazione alle cose di quaggiù, in seguito diventa senso di sollievo e di liberazione; sicché non pesa la rinuncia, ma soddisfa e piace la agilità e levità che rappresentano un vero godimento dell’animo. In tali condizioni non si avverte nessun sacrificio, ma si entra nel vestibolo della piena libertà dei figli di Dio. Il quale poi riconosce l’amore e premia. E il premio nella linea stessa della volontà del fedele è un accostarsi tranquillo e calmo alla realtà sostanziale della vita. Lo spirito libero di seduzioni inferiori riacquista una giovinezza nuova nella sensibilità e nel gusto. Vede la stessa natura con occhio puro e la interpreta. L’occhio che suggeriva al divino Maestro quelle similitudini pregne di bellezza e di significazione. Nella sua visione della natura era la freschezza dell’occhio vergine, che scorge l’opera del Signore, il dono all’umanità, il simbolo delle cose del Cielo. I prati ondeggianti delle colline di Galilea gli servivano come tappeti per la folla avida della sua parola; i laghi erano il quadro pieno di leggiadria delle sue ammonizioni e dei suoi significativi prodigi; i campi lavorati gli suggerivano cento brevi racconti di padroni e di servi, di coloni e di disoccupati, di fedeli agricoltori e di ignavi pronti a sfruttare chi offrisse loro il modo di provvedersi senza travaglio la vita. E le messi dicevano al suo animo tante cose dell’anima, del lavoro spirituale, del raccolto al termine della esistenza di quaggiù; suggerivano la proporzione con cui produce una volontà bene saldata al dovere e decisa di raggiungere il massimo profitto dalla fatica e dal sacrificio per Dio. Gli uccelli dell’aria gli suggerivano l’immagine del ladro dell’anima, ma anche quella della rapidità della vita presente e della cura con cui dobbiamo procurarci i beni, che hanno valore nell’altra.

CANTI DI LETIZIA

I Santi, che vissero nelle forme più prossime a quelle del Signore Gesù, ebbero essi pure questa verginità di visione e seppero esprimerla e viverla. San Francesco sta al primo posto. Ma anche l’aria della sua prima comunità dovette avere questo profumo di spontaneità e di godimento dei doni naturali di Dio. Che cosa dice l’Inno alle creature? Da quale atmosfera spirituale esso è sbocciato, se non da questa vista giusta delle semplici e caste bellezze di cui il Signore ha arricchito la sua opera fisica a servizio dell’uomo? Ciascuna di queste espressioni della sua bontà deve cantare le lodi del Creatore. E Francesco ne dice l’invito. Laudato si, mi Signore. Ogni opera di lui ha una voce, ha un profumo, un suono con cui viene esaltato l’essere da cui ebbe origine. Una simile concezione della esistenza terrena non nasce certo da una dilezione interessata e da un padrone cupido; ma soltanto dalla intuizione immediata e delicata della funzione delle cose, che Dio ci mise paternamente intorno. E sono, si noti, i beni di tutti. Quanto più un Cristiano è spoglio di beni personali, a cui dedicare le proprie attenzioni esclusive e gelose, e meglio sa penetrare il valore di esse, come offerta di Dio alla sua povertà e al suo diritto di godere. – Da questa visione della natura vengono i migliori « Fioretti ». Dove il gusto dell’uva che viene incoraggiato nel bisognoso di cura e il pasto di pane e di acqua attinta alla sorgente viva, accanto alla quale stanno seduti giocondamente Francesco e Masseo, sono i documenti d’una letizia mai gustata dagli schiavi della gola, quali sono comunemente coloro che possiedono. « E vedendo San Francesco, che li pezzi del pane di frate Masseo erano più belli e più grandi che li suoi, fece grandissima allegrezza e disse così — O frate Masseo, noi non siamo degni di così gran tesoro; e ripetendo queste parole più volte, rispose frate Masseo: — Padre come si può chiamare tesoro dove è tanta povertà e mancamento di quelle cose che bisognano? Qui non è tovaglia, né coltello, né tagliere, né scodelle, né mensa, né fanti, né fancelle. — Disse San Francesco — E questo è quello che io reputo grande tesoro, ove non è cosa veruna apparecchiata per industria umana; ma ciò che ci è, si è apparecchiata dalla provvidenza divina, siccome si vede manifestamente nel pane accattato, nella mensa della pietra così bella e nella fonte così chiara; e però io voglio che preghiamo Iddio, che il tesoro della santa povertà così nobile, il quale ha per servitore Iddio, ci faccia amare con tutto il cuore ». Questa pagina dei « Fioretti » è davvero efficace. Il piacere di cui parlammo dianzi vi è espresso in forme plastiche e con parole splendenti. È come un ritornare del gusto allo stato primitivo. Èun rinverdire della sensibilità alle sue esperienze più ingenue, è superare le abitudini esigenti della saturazione e quindi arrivare alla semplicità primitiva e schietta.

ECCO IL PIACERE

La capacità d’ammirare è segno d’intelligenza e di valore morale. Più l’animo si sveglia alle scintille di bellezza e di bontà, distribuite da Dio nelle sue creature, più gli dimostra di non subire l’influsso delle gelosie e delle invidie, che fanno piccolo il cuore. Chi è del tutto sano dal lato morale ha uno spirito che possiamo dire ecumenico, universale. È degno delle compiacenze divine e segna un alto livello di nobiltà del sentimento. Questa attitudine è opposta allo stato d’animo angusto di colui che, avendo goduta la terra, è ormai nauseato e stanco e nessuna cosa piùlo allieta. Così son certi ragazzi viziati dai genitori senza criterio educativo, che tutto hanno concesso e ad ogni richiesta hanno ceduto. Per questo motivo il povero, colui che non fu secondato, ma contrariato nella sua giovinezza e lungo tutta la sua strada brutta e deserta, se mantiene la castità dei desideri, arriva a quella ingenuità e purità, che consentono le più intime gioie dello spirito. Nella famiglia cristiana il culto della semplicità dei desideri educa e prepara il tono giusto della vita. I figli imparano a dominare le voglie disordinate e ad amare i modesti piaceri della virtù. Sono questi che rendono l’esistenza amabile e serena e che mantengono all’uomo il tono consapevole dei beni di Dio. Gustano la passeggiata tra il verde, apprezzano la conversazione ilare, amano la lettura onesta, si allietano all’osservazione d’un panorama luminoso, ricercano il gioco senza complicazione e lo scherzo innocente, tributano la lode senza accentuazioni adulatorie, fanno sacrificio per il lavoro normale e per il dovere che corrisponde alla propria condizione. Tutto questo complesso di cose che respirano la pace, che danno la serenità, che incoraggiano nei giorni grigi, che rasserenano nelle ore del dolore e stimolano a perseverare fiduciosi sulla propria strada, mostra la bontà del Signore e consola delle pene inevitabili. «Beati» si dicono pertanto costoro i quali hanno scoperto, sotto la cenere delle miserie e delle deviazioni morali, il fuoco sacro, che scalda gli spiriti sacri a Dio.

V.

LO SPIRITO DI POVERTÀ COME FATTORE EDUCATIVO

VASTO RAGGIO D’AZIONE

Ad osservare queste stupende espressioni del Divino Salvatore, qualcuno può sentirsi indotto a concludere, che non vi siano lì motivi veramente utili alla formazione spirituale dei figlioli in famiglia e dei discepoli nella scuola. E per verità la forma ostentatamente paradossale le fa apparire più atte a svegliare uno stato di esaltazione mistica che non a indicare una strada piana e possibile alla totalità degli uomini. – Ma l’apparenza non corrisponde alla realtà. Tutte le difficoltà opposte all’applicazione delle « beatitudini » sono agevolmente eliminate da osservazioni perspicue e definitive. La parola del Signore non è divisibile. Ci sono i comandamenti e i consigli è vero, ma questa distinzione di graduatoria è ben lungi dal rappresentare differenza di sostanza nel suo insegnamento. Nessun esoterismo nelle sue parole. Tutti i suoi seguaci sono tenuti a conoscere tutta la sua dottrina e ad osservarla. Tutti, si deve intendere, secondo le proprie vocazioni e condizioni. Ma veniamo alle difficoltà. Si dice che lo spirito di povertà e di distacco sta bene in quegli individui, i quali, lasciato il mondo, vivono nella solitudine o sotto una regola che a tutto provvede. Ed è una obiezione, che ha un suo motivo solo apparente di giustezza. È principalmente per coloro che fuggono anche il precetto; ma, se questo è inteso nella sua compiutezza e nello splendore della sua forma a tutti viene imposto, sia pure in misura diminuita e in forme, se mai, interiori. Poiché l’attacco è schiavitù; e i seguaci di Cristo sono figli della libertà, alla quale Egli li ha generati. L’attacco è prostituzione dell’uomo alla materia, mentre Cristo ha sollevato l’uomo alle promesse eterne per una vita soprannaturale. L’attacco è sorgente di mali stimoli e incitamenti al peccato, siano essi il piacere, l’orgoglio, l’avarizia, mentre noi siamo chiamati al superamento di codeste passioni, madri di rovina e di disperazione.

MAGGIOR RENDIMENTO

Come può l’uomo, svincolato dall’amore al denaro, amare il lavoro sino a farlo oggetto di tutti i desideri e termine di ogni sforzo? Questa obiezione contiene due difficoltà, da noi considerate a parte. Che il distacco spirituale dall’oro renda indolente l’uomo e diminuisca il suo rendimento sul lavoro, non è vero. Dal lato spirituale il Cristiano — ed è in esso che noi osserviamo il fenomeno — sa di dover lavorare e produrre per la volontà di Dio. Il lavoro è dovere. Ha annesso è vero il piacere del guadagno e del benessere, che lo fa utile e immediatamente efficace sulla vita; e sta bene. Dio ci accarezza sempre così: un dovere e un piacere, perché gli è ben nota la nostra fragilità. In questo piacere, poi, non v’è nulla di riprovevole. È nella legge della vita, che noi si debba lavorare per provvederci quanto occorre alla esistenza fisica e spirituale. Un ragionamento come questo appare chiaro anche al ragazzo, al quale la madre o l’educatrice si volge. Lavora, perché Dio vuole così. Da principio il lavoro ebbe un senso di condanna e di castigo del peccato; ma quando il Verbo di Dio si fece uomo e lavorò fra noi, da allora il lavoro assunse il significato di un gradito dovere, per mezzo del quale, pur guadagnandoci la vita, secondiamo quell’esempio preclaro e stimoliamo le naturali abitudini, producendo e somministrando ai prossimi i frutti dell’ingegno e della forza ricevuti dal Creatore. Quest’altra è una soddisfazione, che sospinge la volontà e la fa alacre e preziosa a tutta la compagine umana. – Volontà di Dio e utile dell’uomo. Sono due ordini di stimoli i quali non esigono affatto l’avidità, ma piuttosto la superano. Ai giovanetti è facile inculcare il lavoro per codesti fini superiori. Ma è anche agevole mostrarlo come fonte di un guadagno ben prezioso per la vita dello spirito. Il servizio del corpo e delle necessità materiali appare chiaro. Ma quello compiuto a servizio delle necessità del cuore, che sente lo stimolo verso il soccorso del prossimo, ha alcune sue radici nella buona educazione e la favorisce. Non è forse di comune uso, la carità al povero incontrato per la strada? Non è questo un efficace modo di sviluppo del sentimento e una rappresentazione concreta delle capacità di ognuno a sovvenire l’indigente, il disgraziato, il fratello colpito da una sventura che esiga soccorso in denaro? Perché non rivelare ai piccoli le condizioni lagrimevoli e commoventi di certi compagni di scuola, che non sono circondati dalle carezze della Provvidenza e non trovano intorno a sé la solidarietà di aiuto e la simpatia, che medica le ferite e raddolcisce gli spasimi? Un cuore giovanile indirizzato su questa via non fallirà nella sua esperienza e saprà trovare dentro di sé gli efficaci sostegni concessi dalla stessa natura il di delle non desiderabili sorprese, che lo studio, il lavoro, le vicende della famiglia, i contatti con i compagni, e lo svegliarsi improvviso di sentimenti in contrasto, sono in grado di provocare.

NASCE L’UOMO D’AZIONE BENEFICA

Vi sono istituzioni da sostenere, iniziative provvide da appoggiare con l’azione e i mezzi di fortuna. Se il giovine sa di possedere secondo il principio evangelico, e di essere perciò depositario di beni, che devono essere considerati come propri del povero, non ne abuserà per il capriccio personale, ma saprà studiarne una destinazione, che apparisca degna di un depositario consapevole e sensibile alla voce dell’alto e della retta e cristiana coscienza. Nel lavoro e nel guadagno i giovani trovano uno stimolo valido, un appoggio chiaro e nobile, un incitamento diuturno ed elevante. Sanno di entrare per tal modo dentro un congegno la cui forza motrice nasce nel cuore stesso di Dio e avvertono nella fatica e nei suoi frutti un sapore divino. Strumenti di Dio Padre sentono di diventare così volontà destinate a potenziare le intenzioni di misericordia del Signore. Le madri e le educatrici non troveranno difficile indugiare dentro questo solco di bontà e scaldarvi i germi di bellezza per la vita avvenire dei loro cari. Dilatare i loro cuori nel respiro d’una generosità attiva e vasta, è creare in essi una tendenza aderente al precetto divino e spegnere i fomiti della passione. Splendono i cuori materni nella visione della generosità dei loro piccoli e sono incoraggiati dalla pronta risposta dell’istintivo entusiasmo di essi per la virtù, che apparisce frutto della diretta azione, del sacrificio pronto, della rinuncia risoluta. – « Beati i poveri in spirito ». Da codesta povertà non è a dire quanta ricchezza potrà emanare, quale generosità sgorgare. Ed esse, le buone mamme cristiane, ne saranno il primo oggetto. Beate esse, perché avranno usato della loro autorità secondo il comandamento divino; beate per avere sotto gli occhi, commosse e colme di intimo gaudio, l’espressione vivente della fatica e del sacrificio compiuto. Ma quella dei figli sarà una « beatitudine » ineffabile e perenne, poiché tutta la vita e nell’aldilà essi benediranno l’opera saggia della madre, dalla quale hanno imparato ad essere liberi e sciolti da vincoli terreni di passioni e di ansie, per raggiungere una condizione tanto sicura dal lato materiale quanto onorevole da quello dello spirito. L’agire infatti secondo la volontà di Dio è operare con vasto cuore ad attuare il comandamento della indipendenza, della libertà, della collaborazione all’azione della sua Provvidenza paterna.