LE BEATITUDINI EVANGELICHE (-3A-)

LE BEATITUDINI 3 A

[A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]

CAPO TERZO

Beati qui lugent: quoniam ipsi consolabuntur.

Beati i dolenti

I

SEGNO DI NOBILTÀ IL PIANTO

Chi sprezza il pianto, espressione d’un verace dolore, è inumano. Bisogna soffrire d’una grave deviazione del sentimento, per essere duro verso una creatura, che ha ragione di sparger le sue lacrime. Inaridisce il cuore di coloro che s’abbandonano ai godimenti della lussuria, a quelli dell’avarizia, alle fantasie dell’orgoglio. Costoro, nel bruciare incenso alle tre concupiscenze centrali incendiano il proprio cuore dinanzi ai tre idoli e diventano incapaci persino di pesare la gravità della loro condizione morale. La quale è desolazione e rovina. – Non vergogniamoci, pertanto, di saper piangere. Certo occorre una ragione proporzionata, che valga. Indice di fisica e anche morale debolezza è la lagrima per ogni piccolo contrasto, per ogni pena, per le puerili delusioni della vita. Nobile è soprattutto il pianto per i nostri falli. Son questi i dolori più consistenti, perché gli errori morali corrispondono ai maggiori danni, che ci colpiscono quaggiù. Hanno essi anche sicure risonanze nell’altra vita e noi siamo tenuti a premunircene. Adoriamo l’autore della nostra vita e della nostra rigenerazione. Pensiamo a quanto è costata la nostra formazione spirituale e alla devastazione provocata dal peccato. Ribellione contro Dio, l’anima invasa dal nemico e umiliata dalla schiavitù di satana. – Dove si voleva la liberazione dall’obbedienza al Signore vero della nostra esistenza, venne sostituita una soggezione oppressiva e umiliante. Bisogna piangere tanta rovina; pentirsi di siffatto errore. E provvedere ai mezzi per riacquistare la libertà dei figli di Dio. – Si tratta della nostra esistenza eterna. Come si può cercare appagamento di desideri illegittimi, sciogliendosi dalla docilità a Colui, che ci ha plasmato di sua mano, mettendoci in cuore felicità vera e non fallace? Fuori della linea di piena obbedienza a Lui non si trova che il fallimento. Né gioia né piacere. Piangiamo, dunque la perdita di tesori e di privilegi e, più dell’amicizia di Dio. Smarrita ogni garanzia di beni eterni, che cosa ci resta, se non di piangere sulla nostra spirituale desolazione?

DEL PRESENTE E DEL FUTURO

Nobile è allora il pianto. Lagrime da paragonare allora a quelle sparse da mille grandi anime, tornate alfine verso l’altare di Dio. Pianto che richiama quello stesso di Gesù davanti all’immane errore di Gerusalemme, la sua città; davanti alla tomba di Lazzaro, il suo amico. La morte d’una persona amata è bene una ragione di dolore nobile e degno d’ogni rispetto.

Di tutti i loro (degli uomini) traviamenti, scrisse Pascal, è certo quello (la mancanza di riflessione al fine della vita), che più li convince di follia e dove è più facile confonderli, alla tregua del senso comune e dei sentimenti naturali. Perché senza dubbio, il tempo di questa vita non è che un istante, lo stato della morte è eterno, qualunque possa essere la sua natura, e così tutte le azioni e i pensieri nostri devono prender vie differenti, secondo la natura di questa eternità; e per ciò è impossibile fare un passo giudizioso, altrimenti che regolandolo secondo la verità di questo punto, che dev’essere l’oggetto capitale dei nostri pensieri. Nulla di più evidente; perciò secondo i principi della ragione, la condotta degli uomini è affatto insensata se essi non prendono altra via. Da questo si giudichi la condotta di quelli che vivono senza pensare a quest’ultimo fine della vita, che si lasciano andare alle voghe e ai piaceri senza riflettere e senza inquietarsi e, quasi potessero annientare l’eternità cacciandone il pensiero, solo cercano la felicità del momento ». Davanti a tanto pericolo, l’uomo avveduto si preoccupa e si commuove, osserva come i più vivano distratti e decide secondo giudizio. Si gioca l’eternità. Questo pensiero nell’animo nobile si allarga con l’interesse dei prossimi, che vede smarrirsi nella leggerezza senza scusa. Sentire i falli altrui e gli altrui pericoli è segno di delicatezza e di fraternità. È prova dell’amore del prossimo e di Dio. – Ma ci sono anche i dolori preparati ogni giorno dalla vita. Quanti malati, quante infermità di persone su cui gravano responsabilità e che rappresentano dolori più vasti e pene senza numero di individui e di famiglie. Si pensi ai dolori causati dalla scostumatezza, che fa soffrire individui e gruppi sociali e costituisce la ragione di tribolazioni senza fine. Si pensi alle pene spirituali, alle preoccupazioni verso l’avvenire, alle sollecitudini per la riuscita dell’educazione dei figli, per il loro collocamento. E perché non si dovrebbe aver cuore per le sofferenze dei popoli infelici, perseguitati, umiliati, calunniati, oppressi? Il cuore del Cristiano non è insensibile per nessun male che affligga l’umanità. « Beati i dolenti, perché saranno consolati ».

PENA CHE CONSOLA

Il dolore che lacerò il cuore di Gesù Cristo fu un dolore vasto quanto il mondo; investiva l’umanità intera, soccorreva le lagrime di tutta la terra. Raggiungeva attraverso tutti i secoli tutti gli uomini. E il suo seguace si studia di ricopiare il suo esempio divino e di affinare la propria sensibilità per arrivare a soffrire con l’immenso spasimo, che contrista milioni di cuori di fratelli. Quanto profitto per essi! Dio ha modo di mitigare le sofferenze di uno per il merito dell’offerta dell’altro. Questa solidarietà torna gradita a Dio, poiché ne ha dato l’esempio lo stesso suo Figlio. Orbene, dobbiamo riconoscere, che, anche solo in questa partecipazione attiva al patire dei prossimi, c’è una vena di consolazione. « Dare è meglio che ricevere ». E quando si dà una sincera commozione, una schietta sofferenza, un sentimento intimo del cuore, una lagrima sia pure segreta; quando uno sa avvertire e immedesimarsi dell’altrui pena, nello sconforto che abbatte anime sorelle, siano pure sconosciute, lo spirito dell’uomo ben nato si riconcilia con il dovere dell’amore, sovente pretermesso, avverte in una intima serenità l’approvazione discreta della coscienza. – Che cosa intendeva san Paolo quando scriveva ai Romani: «Optaban enim ego ipse anathema esse a Christo prò fratribus meis ». (IX, 3) voleva dire, che tale era la fraterna dilezione per tutti i redenti da Cristo, da essere disposto a venir anche separato da lui, a patto di potere a Cristo portare i suoi compagni per mezzo dell’amore di lui. Paolo partecipava allo strazio spirituale di tanti figli di Dio e voleva esprimere questo alto sentimento. Non si peritò di usare un’iperbole quasi disperata; e noi restiamo dopo tanti secoli testimoni ammirati della sua passione fraterna.

II

QUELLI CHE SOFFRONO SONO NELL’ORDINE

NESSUN PESSIMISMO

Essi soli hanno della vita presente una giusta visione. Il dolore è la norma. Non occorre farsi prestare ragioni dai pessimisti. Leopardi non ha pianto sul dolore umano; ne ha abusato per maledire la natura e la vita. Ora non questo intende l’animo cristiano. Sappiamo come il mondo sia decaduto. Il peccato originale ci spiega il dolore di quaggiù. Ma non fu così in origine; né di questo stato, colpa ha il Creatore. Da Lui abbiamo invece soccorso e luce, il male venne dall’uomo, il quale scatenò le forze inferiori e si ribellò al divino amore, che da principio lo aveva accolto in un Paradiso. Dio piuttosto subì, ma non volle. Dio nell’istante stesso in cui applicò, accettandole, le conseguenze del male, lo circoscrisse e medicò con delicatezza materna. E affinché l’uomo non dovesse vivere sotto il giogo d’una inappellabile condanna, gli prospettò innanzi il panorama della redenzione del suo Figliolo. Nondimeno il dolore era entrato nel mondo e la vita umana aveva subito una sorta di inferiorità e anche la morte, prima ignorata e impensata. Il dolore dovrà essere la condizione normale della esistenza del re dell’universo. – Oggi, come ieri e come sarà sempre, si fanno avanti certi ingenui adoratori dell’antichità classica, che il Tommaseo dice « semplicetti », a blaterare che il Cristianesimo ha, insieme con la pazienza, inventato il dolore. E vi declamano la bellezza della vita oppure, come usano dire leziosamente, « vivere in bellezza ». Essi però dell’antichità non conoscono se non le favole. I gridi di spasimo non li han sentiti erompere fuori dalle cortine delle apparenze o dietro i paraventi dei versi dei poeti. « Virtutem posuere Dii sudore parandam — stabilirono gli Dei, che la virtù debba essere conquistata col sudore » (Esiodo); « duris urgens in rebus egestas — nelle dure vicende urge il bisogno » (Virgilio); « superando omnis fortuna ferendo est — qualsiasi avvenimento è da sopportare con lo sforzo » (ivi). – E tante altre grida dell’umanità, aggiunge il Tommaseo, che conosce il suo stato e non adula stoltamente se stessa. – Quelli che dipingono pertanto la vita come un banchetto, lo faranno forse in un periodo di fortuna e di benessere, e sono degli ingenui; se poi lo fanno di proposito, pur conoscendo la dura realtà d’ogni giorno, sono dei riprovevoli ingannatori.

È L’ORDINE DI NATURA

Ci sono sempre stati di costoro, ma la loro teoria non ha avuto presa. Neppure essi ne vissero, e il dolore li ha fatti rinsavire, sia pur tardi. Vi furono quei che vollero adorato l’uomo come un Dio impassibile; altri, più sinceri ma non più illuminati, han giudicato l’uomo impastato di bassezza e di indegnità. Gli uni vollero che l’uomo tenesse la fronte alta sino all’altezza del Creatore dell’universo, gli altri lo costrinsero ad abbassarla fino al piano del bruto. Soltanto la Religione cristiana seppe finalmente riconoscere la grandezza e la miseria nostra. Essa mostrò come sia necessario, per essere felice, di credere in Dio, che si deve amare; e poi insegnò) che l’essere separati da lui è la nostra sola e vera sciagura. A tutti però essa non nasconde la realtà del dolore; il quale, per altro, non è una sciagura, avendo esso un alto fine e rappresentando un merito. – Beati dunque quelli che piangono; poiché sono nell’ordine di natura e si trovano ormai sulla strada della conquista della loro vita. « In patientia vestra possidebitis animas vestras— nel vostro dolore verrete in possesso della vostra vita ». Il progredimento è possibile. Ma non può essere che in questa linea. Chi rifiuta la sua particola di sofferenza diventa inetto ad assolvere i suoi compiti; difetta della prima condizione per la riuscita. Ebbene vediamo come questa si raggiunga. Occorre almeno l’accettazione silenziosa della prova. Siano le difficoltà interiori od esterne, saper tacere e reprimere tutti i gesti suggeriti da una malinconia eccessiva od avvelenata. Il Cristiano non esce in invettive, non fa maldicenza, né minaccia vendette. Neppure lascia indovinare il dispetto trasandando il dovere o le persone, come misura di rappresaglia contro la prova patita. Sono dimostrazioni di umiliata impotenza, che fanno a pugni con lo spirito della rassegnazione al male inevitabile. Neppure è da consentirsi la ricerca di consolazioni illecite, per compensarsi del male dovuto accettare. Se poi ti senti invaso da pensieri, immaginazioni, ricordi, che ti rendono triste e allentano l’energia della resistenza, stornandoti dal dovere, spazza la tua fantasia, libera la mente e reagisci con decisione. Il Cristiano, che mira a santificare il suo dovere, se anche avverta qualche lagrima sul suo ciglio, si studia di elevare la sua stessa rassegnazione verso una dilatazione gioiosa dell’animo. Accetta con largo cuore tutte le prove lievi e dolorose. Giunge persino ad accogliere il dolore baciando la mano che glielo presenta. Non occorrono gesti spettacolosi, ma la benigna disposizione dell’animo e la volontà di lodare in ogni modo il Signore.

ACCETTAZIONE LIETA

Quanto attraente appare la sofferenza cristiana, nella sua forma di accettazione consapevole e lieta! Qui l’ignaro della forza del Vangelo incontra un argomento di meraviglia e di simpatia. Infatti ognuno vede il miracolo con gli occhi suoi. Non è a dire quanto satana paventi codesta energia divina resa visibile da una volontà illuminata. Ma il Signore protegge i suoi e li salva. Egli sta nascosto dietro il dolore e agisce senza scoprirsi. Mi sovviene l’esperienza del Cardinal Newman. Il grande convertito, che aveva commosso tutto il mondo anglosassone con i suoi studi religiosi e con il coraggio della sua conversione, allorché l’anima fu matura, ebbe poi sempre a soffrire. Una così profonda novità di vita non può effettuarsi senza tale scossa da lasciare imperitura la traccia di sé. Il suo dolore era calmo e dignitoso, sereno e imperturbabile. Dentro, nell’ambito della sua vita spirituale, aveva risonanze di mestizia non dovute alla volontà, ma alla realtà, al fatto. E ne analizzava la consistenza, talvolta; e indagava il modo come Dio agisce nel segreto delle coscienze. « Nel momento in cui Dio è in noi, noi non rileviamo la sua presenza, ma appena dopo, quando portiamo il nostro sguardo indietro, su questa grazia che è venuta a noi e che non è più lì, sotto gli occhi… Tale è la regola che Dio s’è imposta. Il silenzio e ilsegreto velano i suoi favori. Noi non scorgiamo questi nell’istante in cui vengono, ma soltanto più tardi con gli occhi della fede. Quale strana Provvidenza! Così costante, così efficace, così infallibile nel suo silenzio… Ecco ciò che confonde la potenza di satana. Egli non può discernere la grazia di Dio al suo passaggio. Nella sua follia di rivolta e di bestemmia, egli vorrebbe, si, incontrarla e combatterla. Non lo può. Né la sua astuzia, né la sua penetrazione servono. Il numero infinito dei suoi occhi non penetra la serena maestà di questo silenzio, la calma e imperturbabile santità che regna nella Provvidenza di Dio ». Per l’anima in pena è talvolta duro nascondersi nel presente; ma è tanto dolce questa visione aperta sul passato, che persiste e si mantiene presente. Dio è anche spirito consolatore. E se non ci dà il gusto della sua visione attuale, ce ne comunica la preziosa sostanza effettiva.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.