LA “CHIESA IN ESILIO” NELLA PROFEZIA SUI PAPI DI SAN MALACHIA

LA CHIESA IN ESILIO NELLA PROFEZIA SUI PAPI DI SAN MALACHIA

 [P.S.D.]

 San Malachia di Armagh

 Malachia O’Morgair, in gaelico irlandese Maelmhaedhoc O’Morgair, in medio gaelico irlandese Máel Máedóc Ua Morgair  (Armagh, 1095, – Abbazia di Clairvaux, 2 novembre 1148), è stato un abate e arcivescovo cattolico irlandese, titolare dell’arcidiocesi di Armagh; egli fu proclamato santo da Papa Clemente III il 6 luglio 1190.

Con buona pace dei suoi detrattori ed in genere di coloro che, ricorrendo ad una semplificazione esasperata, adattano le cose a ciò che fa ad essi più comodo, San Malachia ci ha lasciato un’opera a dir poco straordinaria, un’elencazione che, con precisione sorprendente, individua i Pontefici suoi contemporanei e quelli che sarebbero seguiti a questi, in un rigore cronologico che lascia stupiti. – Egli ha infatti scritto la Profezia sui Papi, un elenco di tutti i Pontefici della Chiesa Cattolica che, a partire da Celestino II (eletto nel 1142), si snoda descrivendo tutti coloro che, uno dopo l’altro, si sarebbero avvicendati sul soglio petrino. – La “Profezia sui Papi” consiste nella successione di 112 brevi frasi in latino in qualche modo associate a tutti coloro che, uno dopo l’altro, sarebbero stati considerati i successori di Pietro, senza far riferimento alla loro effettiva validità come Papi regolarmente eletti, alla loro eventuale decadenza in quanto macchiatisi di eresia o ancora alla loro impostura in quanto risultati i papi eletti nel corso di Conclavi irregolari.

E’ bene partire da queste considerazioni per avere piena consapevolezza del fatto che nell’elenco di San Malachia si ritrovano Papi ed antipapi, dei quali la storia avrebbe poi rivelato l’eresia, senza che sia sempre rinvenibile, nella Profezia sui Papi di San Malachia, una chiara indicazione del loro essere estranei alla Chiesa cattolica e, in quanto tali, antipapi.

Seguendo i motti di San Malachia, il presente lavoro parte dal Conclave del 1958 per proseguire lungo la cronologia ben esposta nella Profezia sui Papi diramandosi in due filoni: quello dalla gerarchia apparente e quello della Gerarchia reale, che, ad un esame più approfondito di quello che comunemente viene fatto, sembrerebbero essere state entrambe esposte nella Profezia. Ma, mentre la prima è evidente, la seconda sembra essere, anche nella Profezia sui Papi, quasi occultata, nascosta; esattamente come la “Chiesa eclissata”, che sta forse vivendo in questi tempi gli ultimi anni del suo esilio.

Nella tabella che segue è riportata, nelle colonne indicate con il numero (1), la reale successione dei Papi successivi a Pio XII; in quelle indicate con il numero (2) è riportata la cronologia delle successioni “papali” così come questa ci è stata indicata.

         1 2
Data Evento “Motto” di San Malachia con relativa numerazione Evento Motto” di San Malachia con relativa numerazione
9 ottobre 1958 Morte di S.S. Pio XII 106 “Pastor Angelicus
25 ottobre 1958 Indizione del Conclave per la designazione del successore di Pio XII
26 ottobre 1958 Un Papa è stato eletto”. Elezione di Giuseppe Siri, Papa della Chiesa eclissata, in esilio, il quale assunse il nome di Gregorio XVII 107 “Pastor et nauta Svolgimento del conclave per la designazione del successore di Pio XII
28 ottobre 1958 “elezione” di A. Roncalli quale primo “papa” della pseudo-chiesa conciliare 107Pastor et nauta
21 giugno 1963 Conferma dell’elezione di S.S. Gregorio XVII al soglio pontificio 107 “Pastor et nauta “elezione” di G. B. Montini quale secondo “papa” della pseudo-chiesa conciliare 108Flos florum
26 agosto 1978 “elezione” di A. Luciani quale terzo “papa” della pseudo-chiesa conciliare 109De medietate lunæ
14-16 ottobre 1978 Conferma dell’elezione di S.S. Gregorio XVII al soglio pontificio 107 “Pastor et nauta “elezione” di K. Wojtyla quale quarto “papa” della pseudo-chiesa conciliare 110De labore solis
2 maggio 1989 Morte a Genova di S.S. Gregorio XVII in esilio
3 giugno 1990 Indizione del Conclave segreto per la nomina del successore di S.S. Gregorio XVII
3 maggio 1991 Elezione di S.S. Gregorio XVIII, Papa della Chiesa eclissata, in esilio Petrus romanus
2005 “elezione” di J. A. Ratzinger quale quinto “papa” della pseudo-chiesa conciliare 111 “De gloria olivæ
2013 “elezione” di J. M. Bergoglio “sesto” papa della pseudo-chiesa conciliare  

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Tabella 1: gli eventi succedutisi nella “vera” Chiesa (1) e nella pseudo-chiesa conciliare (2) a partire dall’ottobre 1958.

 Analizzando i motti di San Malachia ed interfacciandoli con gli eventi effettivamente avvenuti e con altri motti dello stesso San Malachia, si delinea un quadro molto interessante, di cui l’Arcivescovo irlandese sembra aver voluto lasciare una traccia “nascosta”, che fosse possibile verificare solo dopo il succedersi degli eventi. In tal modo, alla luce di una chiave di lettura che dà modo di fornire un’interpretazione esaustiva, emergono particolari che, in un primo momento invisibili e apparentemente non uniti da correlazione, forniscono ulteriori elementi una volta appaiati e messi in condizione di fornire indicazioni più precise.

S.S. Pio XII

106 S.S. Pio XII,Pastor angelicus

L’ultimo Papa del secolo scorso per il quale c’è concordanza fra la gerarchia della Chiesa e la pseudo-gerarchia “apparente” è Pio XII, indicato da San Malachia con il motto “Pastor angelicus” preceduto dal numero progressivo 106.

 S.S. Gregorio XVII

107 – S.S. Gregorio XVII, “Pastor et nauta”

Questo motto è il successivo di quello con cui San Malachia individua il Pastor Angelicus che fu Pio XII, nato Eugenio Pacelli. – Per la seconda volta in due motti consecutivi San Malachia ripete la parola Pastor, “pastore”. Emblematicamente, San Malachia userà il verbo “pascere”, dal quale deriva il termine “pastor” poco più avanti, nel motto relativo all’ultimo Pontefice, quello non preceduto da alcun numero, di cui si dirà dopo; ora, poiché il Pastore è colui che pasce le pecore, San Malachia ha voluto quindi indicare una correlazione esclusiva, una continuità diretta che inizia dal Pontefice da lui indicato al numero 107 e che lungo un filo nascosto ed invisibile giunge all’ultimo dei Pontefici della sua serie, a quel Petrus Romanus di cui si dirà in fine di questo lavoro.

Una cosa che si evidenzia nel leggere il motto n° 107 è la congiunzione “et”. – Oltre che in questo, San Malachia ha usato questa congiunzione nei motti relativi ad altri quattro Pontefici: quelli indicati ai numeri 56, 57, 81 e 98. Per ognuno di questi motti la congiunzione indica due attribuzioni diverse della stessa persona, come brevemente indicato di seguito [Con la premessa che è evidentemente arduo affermare che sia sufficiente la semplice presenza di questa congiunzione per indicare una correlazione fra i vari motti riportati in tabella, invito a rilevare alcuni particolari interessanti. Fra questi, i motti n° 56 e 57, relativi ad un Pio (II) e ad un Paolo (II), esattamente come i nomi assunti da coloro i quali hanno rispettivamente preceduto (S.S. Pio XII) e seguito (G. B. Montini) Roncalli sul soglio pontificio della Chiesa prima e poi della pseudo-chiesa “apparente”. – I motti 81, 98 e 107, che sono riferiti a Papi regnanti dopo la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, al quale si accennerà appena più avanti, mettono in relazione, volta per volta: due vegetali, due animali, due esseri umani. – Circa il simbolismo dei vari animali citati, caratterizzati da corna (capra) o palchi (cervo), dallo “strisciare sul proprio ventre e mangiare polvere per tutti i giorni della vita”, o ancora dall’essere cani (empi) o (super)predatori, lascio al lettore lo spunto per trovare gli innumerevoli agganci.]

n° progr. Motto Papa Spiegazione del motto
56 De capra et albergo Pio II (1458-1464) Enea Silvio Piccolomini fu segretario dei Cardinali Capranica e Albergatti.
57 De cervo et leone Paolo II (1464-1471) Pietro Barbo era stato Cardinale di San Marco Evangelista (che ha per simbolo un leone alato) e Commendatario della Chiesa di Cervia.
81 Lilium et rosa Urbano VIII (1623-1644) Lo stemma di Maffeo Barberini era animato da api che volano su gigli e rose.
98 Canis et coluber Leone XII (1823-1829)

 

Annibale della Genga fu definito dai suoi collaboratori fedele alla causa della Chiesa come il cane ed allo stesso tempo prudente nei suoi attacchi come un serpente.
107 Pastor et nauta Gregorio XVII Vedasi appresso
“Giovanni XXIII” Vedasi appresso

Tabella 2 – Motti di San Malachia in cui compare la congiunzione “et”.

 A differenza che nei primi tre motti, i n° 56, 57 e 81, in cui la congiunzione “et” è riferita a due elementi diversi che sono in possesso (reale o figurato) della persona cui si riferisce il motto, nel n° 98 essa si riferisce a due elementi chiaramente allegorici che rappresentano simbolismi a cui la persona stessa viene associata; si tratta, in tutti i casi, di elementi estranei alla persona stessa, essendo attributi che si limitano ad indicarla. – Nel motto 107, invece, la congiunzione “et” separa quelli che appaiono essere due mestieri (o compiti, o missioni che dir si voglia) della persona: pastore e marinaio. Se evidentemente nessun essere umano può essere nella realtà una capra, un cervo, un leone, un cane o un colubro, egli può ben essere “pastore e marinaio”. Ora, un pastore potrebbe in teoria essere evidentemente anche un marinaio: in questo caso si tratterebbe della stessa persona, per cui la congiunzione “et” si riferisce alle due attività diverse che farebbero capo alla stessa persona. – Oppure potrebbe trattarsi di due persone diverse, delle quali una fa il pastore e l’altra il marinaio. Ma … c’è forse, ancora, una possibilità. – Da un punto di vista religioso, è evidente che pastore (di anime) [1] e marinaio, o forse meglio pescatore (di uomini) [2], potrebbero essere la stessa persona.

[1]“In partic., guida spirituale: pd’anime, il sacerdote; e assol., il p., il parroco e più spesso il vescovo: Se ’l pastor di Cosenza, che alla caccia Di me fu messo … (Dante); ma anche, in genere, chi esercita la missione sacerdotale: Quello da Cui abbiam la dottrina e l’esempio, ad imitazione di Cui ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a esercitare l’ufizio, mise forse per condizione d’aver salva la vita? (Manzoni: sono parole del cardinal Federigo a don Abbondio); sommo o supremo p., o pdei p., o pdella Chiesa, il Papa; il Buon p., figura largamente diffusa nell’antica iconografia cristiana come immagine di Cristo, ispirata forse dalla parabola evangelica del buon pastore, pronto a lasciare il gregge per ritrovare la pecorella smarrita. Nelle chiese protestanti, il ministro del culto. “ (da Treccani, Vocabolario online http://www.treccani.it/vocabolario/pastore/).

[2]Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini»

Viceversa, in senso materiale, si tratta di due mestieri così differenti che è impossibile che chi sappia fare bene uno sappia fare anche bene l’altro. Chi dovesse dichiarare di essere contemporaneamente pastore e pescatore sarebbe un bugiardo, in quanto potrebbe essere l’uno o potrebbe essere l’altro (non entrambi) o, nella peggiore delle ipotesi, né l’uno né l’altro: un impostore, quindi. – Pertanto, il motto di San Malachia potrebbe lasciar suggerire che esso sia riferito:  – ad un vero Papa nel caso in cui questi, in possesso del mandato divino, sia possessore di entrambe le prerogative; – oppure potrebbe suggerire, nel caso materiale di un papa nominato tale ma non legittimamente eletto, che si tratti di un impostore.

Quindi, il motto di San Malachia lascia aperte possibilità diverse agli estremi delle quali troviamo, da una parte, un pastore di anime e pescatore di uomini e, dall’altra, nella migliore delle ipotesi un millantatore. – E forse il motto vuole indicare entrambi, come quella congiunzione “et”, al di là dell’attribuzione di caratteristiche diverse, potrebbe suggerire.

Pastor et nauta, pastore (di anime) e marinaio 1° – Le analogie con il pontificato di Giuseppe Siri, che, eletto canonicamente nel corso del conclave del 1958, divenne Papa con il nome di Gregorio XVII, sono sorprendenti. – Giuseppe Siri fu Arcivescovo di Genova (pastor), una delle città marinare (et nauta). Le analogie potrebbero fermarsi qua, risultando abbastanza tenui, ma ce n’è una a dir poco sorprendente che fa di Giuseppe Siri il naturale destinatario del motto n° 107 di San Malachia. – Giuseppe Siri nacque infatti a Genova il 20 maggio 1906, esattamente 4 secoli dopo la morte dell’altrettanto genovese Cristoforo Colombo, il marinaio per eccellenza che certo non ha alcun bisogno di presentazione, morto a Valladolid il 20 maggio 1506.

“pastore e marinaio” 2° – Per il “papa” della pseudo-chiesa conciliare cui viene comunemente attribuito questo motto di San Malachia, le analogie si limitano alla prima riportata per Giuseppe Siri, essendo stato il Roncalli  arcivescovo di Venezia; davvero un po’ poco, il che renderebbe conto alla vaghezza di cui alcuni recenti detrattori dell’opera “Profezia sui papi” accusano qua e là lo stesso Malachia.

Eloquente immagine di S.S. Gregorio XVII tra il cardinale che, alla sua destra (sinistra per chi guarda), tiene un dito davanti alla bocca ed il cardinale Roncalli che, alla sua sinistra (destra per chi guarda), tiene la mano al centro del petto.

Si potrebbe aggiungere che al Roncalli andrebbe ascritta anche l’opera di traghettatore della Chiesa fino a farle raggiungere approdi molto lontani dai suoi porti di sempre, ma questo, lungi dal fare di lui un marinaio, ne farebbe un semplice traghettatore, non dissimile da quel Caronte che traghettava le anime sull’Acheronte nell’Ade, gli inferi pagani.

108 – “Flos florum”

 S.S. Gregorio XVII e, di bianco vestito , il “patacca” G.B. Montini

Nel corso del conclave avvenuto nel 1963, alcune fonti affermano che si sarebbe verificata una riconferma – peraltro inutile – del Papa eletto nel corso del Conclave precedente, di pari passo alla conferma degli eventi che già avevano portato all’ “impedimento” forzato al Papato dopo la rituale accettazione.

lo stemma di “flos florum”

In merito al “papa” conciliare incaricato, che, indicato con il motto di “flos florum”, ha risposto al nome di G. B. Montini, non si ritiene qui né utile né opportuno soffermarsi con una parola di più; il motto è qui incardinato sullo stemma ‘papale’ del suddetto, stemma che pare non essere una sua ideazione originale, bensì la copiatura pedissequa dello stemma della città natale di questo, ossia Concesio, che riporta gli stessi tre gigli. – Un importante richiamo al fiore del giglio si troverà poco più avanti a proposito del motto n° 110.

109 – “De medietate lunæ”

 Nel 1978, l’anno dei due “falsi” conclavi, un primo conclave portò all’elezione di Albino Luciani, il quale restò in carica 33 giorni con il nome di “Giovanni Paolo I”, cui è associato il motto n° 109 che recita “De medietate lunæ”. – Il mese lunare ha una durata media di 28 giorni, molto prossima a quella della durata dello pseudo-pontificato di Luciani. – Inoltre, Luciani proveniva da Canale d’Agordo, in provincia di Belluno, città veneta il cui suffisso (Bell-luno) ricorda molto il nome “luna”. – Lo stesso nome, Albino, indica un chiarore che nel linguaggio comune si accorda più con i “chiari di luna” che con la luce abbagliante del sole: a questo avrebbe pensato il suo successore nel prosieguo conciliare. Molto simile al nome Albino il termine “albedo lunare”, che indica il chiarore diafano tipico della luna.

 A. Luciani riceve la stola da G. B. Montini

Il paragone scelto da San Malachia per indicare Albino Luciani fa ricorso a questo astro che brilla di luce riflessa, come di luce riflessa era brillato Albino da cardinale in quanto futuro falso-papa, quando, nel corso di un suo viaggio a Venezia, G. B. Montini gli aveva fatto indossare la propria stola papale – forse ad indicarlo come suo successore designato -. Come di luce riflessa aveva deciso di brillare questo strano finto ”papa”, che aveva scelto come nome da papa i nomi dei due “papi” precedenti, con l’aggiunta per di più di un numero ordinale nella consapevolezza che sarebbe stato seguito da un secondo. Cosa che in effetti sarebbe avvenuta in brevissimo tempo.

110 – “De labore solis”

 

S.S. Gregorio XVII e, bianco-vestito, K. Wojtyla.

Dopo la luna, San Malachia indicò il sole, dotato questo di luce propria, nel motto che fa ricorso al lavoro di questo astro che sorge da oriente. – Come da oriente veniva Wojtyla, a suo tempo indicato come “arcivescovo di Cracovia”, per il quale fu preparato in Vaticano un posto che sarebbe durato dall’ottobre del 1978 fino al mese di aprile del 2005. – Ma le similitudini con il sole non si fermano a quella appena indicata. Il 18 maggio 1920, nello stesso giorno in cui nacque Karol Wojtyla, ci fu un’eclissi parziale di sole nell’emisfero australe, da dove sarebbe giunto, ad occupare il suo stesso posto, quel Bergoglio da lui stesso “creato” cardinale il 21 febbraio 2001. – L’8 aprile 2005, appena sei giorni dopo la sua morte, avvenne un’altra eclissi di sole, stavolta totale.

 Ra, il dio egizio del sole che governava ogni parte del mondo: il cielo, la terra e l’oltretomba.

Fra le altre cose, Wojtyla ha lasciato i “misteri” che, come i raggi solari, egli stesso chiamò “misteri luminosi”; detti “misteri” si aggiungono ai Misteri Gaudiosi, ai Misteri Dolorosi e ai Misteri Gloriosi del Rosario, modificando profondamente la struttura dello stesso e rendendone impropria la dicitura “Salterio”, fino a prima di Wojtyla del tutto analoga. – Siamo ben lontani, come si vede, dal tenue albedo lunare del, forse sprovveduto, Albino: l’aggiunta apportata da Wojtyla, un vero e proprio stravolgimento, scardina il concetto stesso del Rosario che, sognato da San Domenico da Guzman, al quale apparve la Madonna che recava una corona fatta da 150 rose (le Ave Marie) e 15 gigli (i Pater Noster), aveva un canone prestabilito che, come tante altre cose, all’uomo non sarebbe stato dato di modificare. Fra i molti motivi per cui le “Ave Maria” del Rosario devono essere 150, il Beato Alano della Rupe scrisse i seguenti:

RAGIONE MISTICA: Nella Sacra Bibbia, molte volte si riscontra il numero 150: sia nelle misure nella costruzione dell’Arca, del Tabernacolo di Mosè e del Tempio di Salomone, sia nel calcolo e nella forma del Nuovo Tempio, che Dio rivelò in visione ad Ezechiele. E se questo numero 150 si ritrova nel Rosario, tale numero possiede anche la sacralità biblica delle antiche figure. Così, nel Rosario di Gesù e di Maria, il numero 150, prefigurato dal Salterio di Davide, viene ora confermato nella sua verità.” (da: Beato Alano della Rupe – IL SALTERIO DI GESU’ E MARIA”)

111 – “De gloria olivæ”

 Lo stemma dello Stato di Israele, rappresentato da una menorah affiancata da due ramoscelli d’olivo

La gloria a cui si riferisce San Malachia, correlata a J. A. Ratzinger, non è quella dell’albero di olivo, le cui radici superficiali e molto estese in ampiezza sono ben assestate nel terreno anche arido dal quale riescono a ricavare l’acqua anche nel corso delle stagioni più aride; non è l’albero maestoso il cui tronco contorto e a volte straordinariamente imponente dà un’eccezionale sensazione di stabilità; non è la pianta dall’eccezionale longevità che riesce a sopravvivere quasi indefinitamente riuscendo a passare attraverso svariati millenni. – No, niente di tutto questo: la gloria a cui si riferisce San Malachia non è la gloria dell’albero di olivo: è la gloria “della” oliva, il prodotto principale dell’albero, un prodotto tutto sommato effimero che, se non raccolto e debitamente conservato, si esaurisce nel giro dei pochi mesi che vanno dall’autunno della produzione fino all’inverno, senza riuscire a giungere incorrotto all’estate e nemmeno alla primavera successiva all’emissione.

 De gloria olivæ (J. A. Ratzinger) con, ben visibile sulla mitra, la stella di David!

L’associazione con l’oliva risiede con ogni probabilità non tanto nel fatto che, come asseriscono i più, gli Olivetani siano una branca dei Benedettini (il sacerdote Ratzinger, consacrato non-vescovo secondo il rito blasfemo “rinnovato” del Novus Ordo, e “creato” non-cardinale dal Montini [in quanto falsa autorità], una volta eletto “papa”, ha scelto il nome di Benedetto XVI), ma più verosimilmente nel fatto che nello stemma di Israele due rametti di olivo, quelli che recano le olive, fiancheggiano la menorah. – E con Ratzinger, di ascendenze ebraiche, la gloria di Israele è giunta per mezzo delle molteplici affermazioni che quest’uomo ha fatto su suoi libri, in merito alla permanenza dell’Antica Alleanza fra l’uomo e Dio (in realtà infranta dal Peccato), alla “non necessità per gli Ebrei di passare attraverso la Chiesa per salvarsi”; si è manifestata nel suo copricapo papale con la stella a sei punte; ha visto la sua apoteosi nell’eliminazione anche dall’effigie papale del triregno che segna l’alleanza fra l’uomo e Dio.

  Stemma “non-papa” Benedetto XVI

L’effigie non-papale di J. A. Ratzinger

 L’effigie pseudo-papale di J. A. Ratzinger è caratterizzata da un complesso simbolismo di non immediata comprensione. – Vi si notano la presenza dal moro di Frisinga, dell’orso, della conchiglia; brilla per la sua assenza la tiara, che rappresentava l’unione fra l’uomo e Dio, che un infausto dì il Montini (“Flos florum”: da un fiore ha origine l’oliva…..) alienò materialmente, ma che continuò a permanere nelle effigi di A. Luciani e di K. Wojtyla. In Ratzinger invece la tiara viene eliminata definitivamente anche dalla rappresentazione anti-papale.

Il kazaro Adam Weishaupt, fondatore degli “Illuminati di Baviera”

La conchiglia riprende l’ “annuncio” di Adam Weishaupt, fondatore degli Illuminati di Baviera, il quale ebbe a dire che gli “Illuminati” si sarebbero infiltrati nella Chiesa ad avrebbero scavato dall’interno fino a quando non l’avessero ridotta ad una conchiglia vuota, un simulacro visibile dall’esterno ma privo di ogni santità (si parla, non è forse neanche il caso di specificarlo, della pseudo-chiesa apparente, non della Vera Chiesa di Cristo). –

Duomo “terremotato” di San Benedetto a Norcia, icona perfetta della chiesa-conchiglia effigiata sullo stemma del sedicente Benedetto XVI

E, come se si fosse fino ad allora restati in attesa del segnale convenuto, è stato nel corso dell’era ratzingeriana che è venuto fuori il sig. Bergoglio, che, ordinato non-sacerdote” secondo i riti del “novus ordo” e parimenti non-consacrato “vescovo”, è un perfetto semplice laico secondo i canoni della Chiesa di N. S. Gesù Cristo.

Di questo personaggio non compare infatti traccia alcuna nella Profezia sui papi di San Malachia.

PETRUS ROMANUS

 Davanti all’ultimo Pontefice le parole di San Malachia da Armagh si fanno grandiose, imponenti e tremende, come non può che essere quando ci si riferisce a qualcuno che è destinato ad essere artefice o testimone di accadimenti di immensa portata.

In persecutione extrema Sanctae Romanæ Ecclesia sedebit Petrus Romanus, qui pascet oves in multis tribulationibus; quibus transactis, civitas septicollis diruetur, et Judex tremendus iudicabit populum suum. Finis” [“Nella persecuzione estrema della Santa Chiesa Romana siederà Pietro il Romano, che pascerà il gregge fra molte tribolazioni; passate queste, la città dai sette colli sarà distrutta e il tremendo Giudice giudicherà il suo popolo. Fine.”]

C’è qui ben poco da aggiungere che non sia stato già detto dall’autore della Profezia dei Papi: ogni allegoria cede qui il posto alla chiara realtà, per la quale non c’è alcun bisogno di chiarimenti o di ipotesi. – Qualche parola si può però dire a proposito di Petrus Romanus, di questo ultimo Pontefice che appare privo del riferimento progressivo che ha contrassegnato prima di lui tutti gli altri Papi, nessuno escluso. – Ci si può chiedere per quale motivo egli non sia stato indicato dalla numerazione, cosa che potrebbe apparire priva di logica, essendo Petrus Romanus l’ultimo dei pontefici elencati da San Malachia ed essendo pertanto con ogni logica posteriore a tutti quelli già indicati con un numero che ne precede il relativo motto: per quale motivo la numerazione è stata sospesa proprio in corrispondenza dell’ultimo Papa?

– Una spiegazione plausibile, del tutto in linea con la situazione di fatto presente nella Chiesa, è la seguente: il numero di Petrus Romanus non è stato indicato non già perché non fosse nota la sua collocazione cronologica (la datazione precisa) o temporale (il suo posto nella successione papale), ma perché, come si è detto all’inizio, San Malachia non ha fatto alcuna distinzione fra Papi legittimi ed illegittimi e pertanto, una volta attribuita una numerazione omnicomprensiva che comprende sia chi è al suo posto che, progressivamente, chi è dove non dovrebbe essere, in periodo di due “Chiese” [una falsa ed una autentica] distinte e separate l’inserimento di un Pontefice che fa parte di un’altra successione temporaneamente oscurata (eclissata) creerebbe motivo di confusione, che richiederebbe precisazioni ulteriori le quali, in periodi di Chiesa eclissata, non potrebbero sussistere, pena l’esplicitazione di ciò che la Chiesa in esilio sta vivendo e pertanto la divulgazione dello stato di fatto.

– Quella stessa confusione di cui si è qui parlato a proposito di “Pastor et nauta”, nel cui motto è insita la parola Pastor – di derivazione dal latino pastor, da pascère: pascolare – sembra qui lasciare un’altra traccia della sua presenza. E, in un’accezione che qui ricompare e che potrebbe indicare una consequenzialità diretta fra i due, segue un filo logico che parte da quel Pastor et nauta che qui è stato indicato con il numero 1, cioè Giuseppe Siri, Gregorio XVII, il Papa in esilio, e che conduce direttamente a Petrus Romanus, Gregorio XVIII, scavalcando in silenzio tutti coloro che sono stati rappresentati dai motti dal n° 107 (per quel che si riferisce al “traghettatore”) al n° 111.

– “In persecutione extrema” indica chiaramente che la persecuzione cui la Chiesa di Cristo è soggetta, benché percepibile dappertutto in maniera sempre meno velata, raggiungerà il suo culmine nel corso del Pontificato dell’attuale Pontefice, che perdura già da oltre 26 anni.

Per ultimo, il nome, Petrus Romanus, indica che sarebbe il nuovo Pietro, quello che, fedele alla dettato della Chiesa, ricostituirebbe la Sancta Romana Ecclesia secondo lo schema che le è proprio e che nessun uomo può modificare, più bella e Santa che mai.

Gesù disse a Simon Pietro: “Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? Egli gli rispose: “Sì, Signore, tu sai che io ti amo”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Di nuovo gli domandò: “Simone di Giovanni, mi ami tu ?”. Gli rispose: “Sì, Signore, tu sai che io ti amo.” Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Per la terza volta gli chiese: “Simone di Giovanni, mi ami tu ?” Pietro s’attristò perché gli aveva detto per la terza volta: “Mi ami tu ?”. Ed esclamò: “Signore, tu sai ogni cosa, tu sai che io ti amo”. Gli disse (Gesù): “Pasci le mie pecore. In verità, in verità ti dico: quando tu eri più giovane ti cingevi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, tenderai le mani e un altro ti cingerà e ti porterà dove non vorrai”. Disse questo per indicare con quale morte avrebbe reso gloria a Dio. E detto ciò, gli soggiunse: “Seguimi”.

San Pietro

Tu es Petrus, et super hanc petram ædificabo Ecclesiam meam.

Et portæ inferi non prævalebunt adversus eam.

 

 

 

 

 

 

 

 

29 giugno: SS. PIETRO E PAOLO

Omelia di S. S. GREGORIO XVII – 1975

La solennità odierna è dedicata al ricordo e all’intercessione dei Santi Pietro e Paolo. C’è diversità tra i due. Gli antichi calendari, almeno dal secolo IV, hanno posto nello stesso giorno la passione di S. Pietro e di S. Paolo. Per questo motivo, e forse anche per risparmiare un giorno di festa, li hanno messi insieme, ma non è la stessa cosa, sia chiaro! Pertanto mi limito a parlare questa mattina di Pietro; avrò altre occasioni per parlare di Paolo. – Perché tutta la Chiesa è invitata a fare festa, solennità anzi, nel giorno del martirio di S. Pietro? Il martirio di Pietro fu illustre perché fu doloroso. Fu protratto; non fu ucciso d’un colpo ma crocifisso; dovette attender la morte fra dolori lancinanti, mirabilmente sopportati. Ma non è questa la ragione per cui si fa solennità oggi. La ragione sta in quelle parole (Mt XVI, 13-19) che avete sentito leggere ora dal diacono e che sono state rivolte da Cristo a Pietro e a tutti i suoi successori, perché Gesù non aveva davanti soltanto l’arco di vita di Pietro, ma l’arco di vita dell’umanità. Le parole erano queste: “Tu sei Pietro e su questa pietra edifico la mia Chiesa e le potenze dell’inferno non prevarranno mai contro di essa; e do a te le chiavi del Regno dei Cieli, e quello che avrai stabilito in terra è stabilito in Cielo, e quello che avrai sciolto in terra sarà sciolto in Cielo” (Mt XVI, 18-19). Non esiste nella storia dell’umanità un’arditezza che abbia avuto il coraggio di far dare un simile potere ad un uomo. Ma, lasciando ora la questione dell’unicità di questo discorso, esso porta alla ragione per cui esiste la solennità di S. Pietro. Per questo motivo: egli rappresenta il capo del Regno di Dio visibile in terra, il capo di quello che conduce la storia del mondo e che decide della salvezza eterna di tutte le singole anime, appartengano sia al corpo sia all’anima della Chiesa, dato che è di fede la necessità assoluta di appartenervi per entrare nel Regno dei Cieli. E questo il motivo! – Nel discorso fatto da Gesù a Pietro ci sono alcune parole sulle quali attiro la vostra attenzione. Gesù ha nominato la “Sua Chiesa” (Mt XVI, 18). Quel possessivo “sua/mia” è commovente, ma aggiunge subito, ed è forte: “e le potenze dell’inferno non prevarranno mai contro di essa” (ibid.). E necessario leggere un po’ più a fondo queste parole. Qui Gesù dà evidentemente l’impegno divino di un’assistenza perché mai prevalgano le forze avverse, che, siano di questo mondo, siano dell’altro, vengono tutte giustamente dette potenze infernali (gloria a quelli che vi si ascrivono, gloria! Infernali!). Però qui c’è la sentenza: finite, tutte! Vediamo in particolare a che cosa ha garantito l’indefettibilità con queste parole Nostro Signore. Ha garantito l’indefettibilità alla Sua Chiesa, cioè alla costituzione gerarchica della Chiesa, che è fatta di Sommo Pontefice, di Vescovi, di ministri e di fedeli, in posizione diversa, con responsabilità diverse e con dignità diversa, con capacità uguale per tutti rispetto al merito che vale nel Regno dei Cieli. A questa struttura ha garantito l’indefettibilità. Guai a chi la tocca! Guai, perché c’è la promessa divina su questo. Ma per che cosa era costituita questa società giuridica, gerarchica, visibile? Era costituita per portare con sé delle grandi cose, che in una celebre parabola del cap. XIII di Matteo (v. 44) Gesù chiama il “tesoro del Regno”. E su questo tesoro che scende la garanzia divina dell’indefettibilità. Attenti bene! La verità. Elevati ad esser figli di Dio, con l’ingresso del Verbo incarnato nel mondo gli uomini dovevano conoscere qualche cosa di più, e per questo c’è una Rivelazione. È verità. La verità di Dio è come Dio, non è soggetta né a mutazioni né a evoluzioni; sono soggetti a mutazione gli uomini, che possono passare dall’ignoranza incompleta ad una passabile acquisizione di nozioni, dalla stupidità colpevole – e questa veramente dilaga – alla umile accettazione dell’unica verità di Dio. Sono gli uomini che possono cambiare, che si trovano in diversa posizione. Come tutti gli scolari imparano la stessa grammatica, ma c’è chi piglia dieci e c’è chi piglia zero; e chi ha preso dieci ha meritato dieci e chi piglia zero ha meritato zero, ma la grammatica non cambia! È su questo che cade la promessa d’indefettibilità: sul deposito della dottrina. Guai a chi la tocca; finisce male! Non basta. Tutta l’azione sacramentale e scarificale con tutto il suo contorno, che non sto a descrivere, commessa alla Chiesa: su questo cade la promessa di indefettibilità. E attenti bene: tutti i Sacramenti e il Sacrificio sono caratterizzati dal fatto che hanno un effetto, che generalmente – salvo casi straordinari, come accadeva nei primi secoli, meglio nel I secolo per la Cresima – ne hanno risultanze esterne, e per volontà e designazione di Cristo stesso vengono resi noti ai fedeli attraverso elementi esterni capaci di significarli. – È così che le apparenze del pane e del vino qualificano la certa presenza reale sacramentale di Gesù Cristo nell’Eucaristia. E così che l’unzione crismale sulla fronte del cresimando accerta la discesa dello Spirito Santo e l’incisione di quel carattere crismale, che accompagnerà l’anima per sempre. Ossia, su questa realtà che deve esser continuamente tradotta con segni esterni adeguati scende la indefettibilità della Chiesa, avvertimento a coloro che vogliono lasciare le realtà soprannaturali senza segni esterni. Questa è irragionevolezza! Irragionevolezza che confina con qualche cosa di peggio dell’irragionevolezza, perché la necessità di tradurre agli uomini quello che essi non possono vedere con gli occhi del corpo mediante elementi accolti dalla natura e dall’arte degli uomini è affermata da Gesù Cristo stesso. Su questo modo sacramentale e sacrificale, che rappresenta tutto un mondo, scende la promessa di indefettibilità della Chiesa. E mi fermo qui. – Ora mi rivolgo a voi, prossimi sacerdoti e prossimi diaconi. Questa indefettibilità seguirà anche voi. Badate: non voi come voi, i vostri difetti, le vostre dimenticanze, ma seguirà quella parte del vostro ministero che voi farete degnamente, legittimamente, secondo gli ordinamenti della Chiesa, in nome e per autorità e come vicari di Cristo. Seguirà anche voi, e seguirvi indica tante cose, che non possiamo ora analizzare. Per voi, che siete, che sarete portatori della Grazia di Dio per le opere che compirete, il bene che farete – siatene certi – sarà sempre molto più grande e più lontano di quello che voi non crediate. Andrà sempre lontano, perché, fatto nell’ambito del ministero ricevuto con l’Ordine, nell’ambito della legittimità, con l’osservanza della legge della Chiesa, gode di tutti i carismi che sono conseguenze dell’indefettibilità della Chiesa. Quando vedrete niente, chiudete pure gli occhi e dentro di voi pensate a quali latitudini arriverà la vostra opera. Sarà necessario che viviate di fede per vedere ogni giorno, ogni momento, fin dove arriverà la vostra mano, la vostra benedizione, la vostra consacrazione, i vostri atti di ministero, e soltanto con la vostra fede capirete che l’onda da voi suscitata si propaga si direbbe all’infinito, come accade quando si getta un sassolino in un lago, le onde si propagano fintanto che c’è acqua e non si ristanno prima. Abbiate questa fede e uscite da questa Ordinazione, che sarà ora celebrata, con questa fede che sorregga, che vi dia una visione più giusta di quello che accade intorno a voi, che vi dia la pazienza di attendere, l’umiltà di perdonare ed anche la gioia di vedere, avendo chiuso gli occhi alla realtà umana. Questo consegno a voi, perché non si diparta mai dalla vostra anima!

[I grassetti sono redazionali]

IL TRIPLICE AFFIDAMENTO DELLA CHIESA AL BEATO PIETRO

[da I SERMONI di S. Antonio da Padova]

 «Pasci i miei agnelli» (Gv XXI,15-16). Fa’ attenzione al fatto che per ben tre volte è detto: «pasci», e neppure una volta «tosa» «mungi». Se ami me per me stesso, e non te per te stesso, «pasci i miei agnelli» in quanto miei, non come fossero tuoi. Ricerca in essi la mia gloria e non la tua, il mio interesse e non il tuo, perché l’amore verso Dio si prova con l’amore verso il prossimo. Guai a colui che non pasce neppure una volta e poi invece tosa e munge tre o quattro volte. A costui «il re di Sodoma», cioè i il diavolo, «dice: Dammi anime, tutto il resto prendilo per te» (Gen XIV, 21), tieni cioè per te la lana e il latte, la pelle e le carni, le decime e le primizie. A un tale pastore, anzi lupo, che pasce se stesso, il Signore minaccia: «Guai al pastore, simulacro di pastore, che abbandona il gregge: una spada sta sopra il suo braccio e sul suo occhio destro; tutto il suo braccio si inaridirà e il suo occhio destro resterà accecato» (Zc XI,17). – Il pastore che abbandona il gregge affidatogli, è nella Chiesa ìl simulacro di pastore, come Dagon, posto presso l’Arca del Signore (cf. IRe V, 2); era un idolo, un simulacro: aveva cioè l’apparenza di un dio, ma non la realtà.Perché dunque occupa quel posto? Costui è veramente un idolo, un dio falso, perché ha gli occhi rivolti alle vanità del mondo, e non vede le miserie dei poveri; ha gli orecchi attenti alle adulazioni dei suoi ruffiani e non sente i lamenti e le grida dei poveri; tiene le narici sulle boccettine dei profumi, come una donna, ma non sente il profumo del cielo e il fetore della geenna; adopera le mani per accumulare ricchezze e non per accarezzare le cicatrici delle ferite di Cristo; usa i piedi per correre a rinforzare le sue difese e riscuotere i tributi, e non per andare a predicare la parola del Signore; e nella sua gola non c’è il canto di lode né la voce della confessione. Quale rapporto ci può essere tra la chiesa di Cristo e questo idolo marcio? «Cos’ha a che fare la paglia con il grano?» (Ger XXIII,28). «Quale intesa ci può mai essere tra Cristo e Beliar?» (2Cor VI,15). – Tutto il braccio di quest’idolo s’inaridirà per opera della spada del giudizio divino, perché non possa più fare il bene. E il suo occhio destro, cioè la conoscenza della verità, si oscurerà, perché non possa più distinguere la via della giustizia né per sé, né per gli altri. E questi due castighi, provocati dai loro peccati, si abbattono oggi su quei pastori della Chiesa che sono privi del valore delle opere buone e non hanno la conoscenza della verità. E allora, ahimè, il lupo, cioè il diavolo, disperde il gregge (cf. Gv X,12), e il predone, cioè l’eretico, lo rapisce. Invece il buon pastore, che ha dato la vita per il suo gregge (cf. Gv X,15), di esso sempre sollecito, avendolo a sì caro prezzo, lo affida a Pietro dicendo: «Pasci i miei agnelli ». Pascili con la parola della sacra predicazione, con l’aiuto della preghiera fervorosa e con l’esempio della santa vita. – E fa’ attenzione: per due volte gli raccomanda gli agnelli, che sono più delicati e deboli, e una volta sola le pecore. E qui è da capire che coloro che nella Chiesa sono più delicati e più deboli devono essere assistiti e sostenuti con maggiori attenzioni, sia spirituali che materiali. Dice l’Apostolo: «Confortate i pusillanimi e sostenete i deboli» (lTs V,14). Dice infatti la Genesi: Dio prese Adamo, cioè il prelato, e lo pose nel giardino delle delizie, vale a dire nella Chiesa perché la coltivasse con le opere di misericordia verso i suoi fedeli e la custodisse (cf. Gen II,15) con la predicazione della parola, e insieme con i fedeli meritasse di raggiungere il premio del regno. Amen.

 

Preghiere per il Papa alla Messa.

Orazione

“Deus, omnium fidelium pastore et rector, famulum tuum Gregorium, quem pastorem Ecclesiæ tuæ præesse voluisti, propitius respice: da ei, quæsumus, verbo et exemplo, quibus præest, proficere; ut ad vitam, una cum grege sebe credito, pervenit sempiternam. Per Dominum …”

[O Dio, pastore e capo di tutti i fedeli, volgi benevolmente lo sguardo sul tuo servo Gregorio che hai preposto alla tua Chiesa; da’ a lui di giovare con la parola e con l’esempio ai suoi sudditi e di poter giungere, insieme al gregge affidatogli, alla vita eterna. Per nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio …]

Secreta

“Oblatis, quæsumus, Domine, placare muneribus: et famulum tuum Gregorium, quem Pastorem Ecclesiæ tuæ præesse voluisti, assidua protectione guberna. Per…”. [ Lasciati placare o Signore, dai doni che ti presentiamo, e guida con incessante aiuto il tuo servo Gregorio che hai messo a capo della Chiesa. Per nostro Signore Gesù Cristo, …]

Dopocomunione

“Hæc nos, quæsumus, Domine, divini sacramenti perceptio protegat: et famulum tuum Gregorium, quem pastorem Ecclesiæ tuæ præesse voluisti; una cum commisso sibi grege, salvet semper, et muniat. Per Dominum …”

[Ci protegga o Signore, il sacramento divino che abbiamo ricevuto; mantenga incolume e fortifichi sempre, insieme al gregge affidatogli, il tuo servo Gregorio che hai messo a capo della tua Chiesa. Per nostro Signore …].

Si raccomanda di recitare anche i Salmi sul nome PETRUS [Salmi sul nome PETRUS, exsurgatdeus.org]

 

SAN GIOVANNI BATTISTA

Omelia di S. S. GREGORIO XVII (1976)

Cappella di S. Giovanni Battista a Genova, cattedrale S. Lorenzo.

“La solennità odierna e il brano del Vangelo (Lc. 1, 57-66.80) che avete ora sentito leggere ci riportano alla nascita di San Giovanni Battista, unico tra i Santi del quale si celebri la nascita. E la ragione è questa: che era un predestinato fin dal momento della sua creazione e che aveva già al momento della nascita tutto il contorno di manifestazioni soprannaturali che tale lo indicavano, tanto che si diceva, come riferisce il Vangelo di Luca, nelle montagne di Giudea: “Ma chi sarà mai questo fanciullo?” (Lc I 66) Questa nascita è circondata da segni soprannaturali, ma – ed è l’oggetto del mio parlare oggi – ha una caratteristica: é punteggiato dai due più grandi cantici del Nuovo Testamento, il “Magnificat” e il “Benedictus”. – Cominciamo dal primo. Il “Magnificat” (Lc 1, 46-55) è noto a tutti, la parola risuona nelle orecchie di tutti. E il cantico sciolto della Vergine Madre del Signore. Dove? Sulla porta della casa di Ain Karim, dove sarebbe nato S. Giovanni Battista e dove la Vergine Madre del Signore andava a servire per tre mesi, cioè fintanto che non è nato lui, la sua vecchia parente Elisabetta, che aspettava Giovanni il Battista. Il “Magnificat” fu il primo atto compiuto dalla Vergine mentre andava a servire la madre del nascituro. E il nascituro se ne accorse, perché – cosa che non accade agli altri, lo riferisce il Vangelo di Luca – all’udire la voce di Maria esultò nel grembo della madre. Sapeva che quel cantico era collegato con lui, con la sua missione e inquadrava la sua figura di uomo che entrava in questo mondo con una strada ben segnata e divinamente disegnata. Ora, che cosa disse Maria nel “Magnificat”? Esaltò il Signore per la misericordia, esaltò fedeltà di Dio nel mantenere le promesse fatte ai padri e allo stesso Abramo, annunciò che sarebbero stati riempiti di bene gli umili e gli affamati e sarebbero stati cacciati giù dai troni i superbi. Annunciò in quel modo poetico, proprio della lingua in cui la Vergine cantava, che in questo mondo ci sarebbe stata una giustizia, non certo inclusa nei cicli delle nostre stagioni; ma c’è! Nessuna si creda di farla e alla Divina Provvidenza e alla legge di Dio. O prima o poi il ciclo della giustizia si chiude, e questo è uno dei segni evidenti, tangibili e qualificati per noi per intendere la presenza di una giusta Provvidenza nel mondo. E questo è un ammonimento. Più tardi lo stesso Giovanni Battista avrebbe ripreso il motivo nei discorsi tenuti al Giordano e che un po” ci sono riferiti da tutti e quattro gli Evangelisti, dicendo a tutti: “Osservate bene la giustizia voi capi del popolo, voi soldati” (cfr. Lc III, 10-14). Ricordò a tutti che se la giustizia non l’avessero fatti loro, l’avrebbe fatta un Altro. E il momento di ricordare questa legge della storia. Quando la giustizia non la fanno gli uomini, la fa Iddio! E molte cose che accadono a questo mondo non portano sopra, come se fossero delle bottiglie, un’etichetta per indicare che sono il frutto di un’eterna giustizia, ma lo sono. – L’altro cantico; il “Benedictus” (Lc. I, 68-79). Quando il padre che, essendo stato incredulo prima all’annuncio dell’Angelo, era stato punito con l’incapacità di parlare, era muto; quando il padre, dopo lui nato e richiesto di dire che nome voleva dare – i parenti lo volevano chiamare Zaccaria; tale era in nome del padre -, prese una tavoletta e scrisse sopra: ” I l suo nome è Giovanni” (Lc. 1, 63), (anche la madre aveva detto questo), in quel momento, compiuto il suo dovere, si sciolse la lingua di Zaccaria e cantò pieno di Spirito Santo il “Benedictus”, l’altro cantico grande del Nuovo Testamento. Lo cantò dinanzi alla culla del fanciullo al quale imponeva il nome determinato da Dio. E che cosa disse nel suo cantico Zaccaria? Rese grazie a Dio, annunciò la missione di quel fanciullo, che era di illuminare e portare la luce dove erano le tenebre, ma soprattutto cantò la fedeltà di Dio alle promesse e cantò la sicurezza che dava alla vita degli uomini la fedeltà di Dio alle Sue promesse. “Sine timore” (Lc. 1, 74), “senza timore liberati” possiamo cantare a Lui l’inno di grazie. Cantò la fedeltà di Dio. E l’unico veramente fedele; gli altri quand’anche vogliono esser fedeli, sono soggetti alla sonnolenza, al sonno, alla dimenticanza e ai diversi sbalordimenti dalle diverse cause e dalle diverse qualifiche. Anche volendolo, non riescono tutti a mantenere tutte le loro promesse. Dio solo è fedele, e il cantico della fedeltà, cominciato all’inizio del Nuovo Testamento, è cantato dinnanzi alla culla di questo bambino e proclamato lì. – Ecco con quale appannaggio entra nel mondo Giovanni Battista. Ecco con quali certezze entra nel mondo Giovanni Battista. Possiamo esser tranquilli di Dio, certo! Perché? Perché la Grazia di Dio all’interno degli uomini può operare cose meravigliose che annullino tutto quello che gli avvenimenti iniqui possono di perverso combinare all’intorno dell’uomo. Dio all’interno può sempre pareggiare quello che all’esterno la libertà umana tollera si pareggi. [Il colore rosso è redazionale].

CORPUS DOMINI : Messa – LAUDA SION, Letture ed Omelia di S. S. GREGORIO XVII

Messa

Lectio

Léctio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios 1 Cor XI:23-29

Fratres: Ego enim accépi a Dómino quod et trádidi vobis, quóniam Dóminus Jesus, in qua nocte tradebátur, accépit panem, et grátias agens fregit, et dixit: Accípite, et manducáte: hoc est corpus meum, quod pro vobis tradétur: hoc fácite in meam commemoratiónem. Simíliter ei cálicem, postquam cenávit, dicens: Hic calix novum Testaméntum est in meo sánguine. Hoc fácite, quotiescúmque bibétis, in meam commemoratiónem. Quotiescúmque enim manducábitis panem hunc et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat. Itaque quicúmque manducáverit panem hunc vel bíberit cálicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini. Probet autem seípsum homo: et sic de pane illo e dat et de calice bibat. Qui enim mánducat et bibit indígne, judícium sibi mánducat et bibit: non dijúdicans corpus Dómini.”

[Fratelli: Io stesso ho appreso dal Signore quello che ho insegnato a voi: il Signore Gesú, nella stessa notte nella quale veniva tradito: prese il pane, e rendendo grazie, lo spezzò e disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che sarà immolato per voi: fate questo in memoria di me. Similmente, dopo cena, prese il calice, dicendo: Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, tutte le volte che ne berrete, fate questo in memoria di me. Infatti, tutte le volte che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore fino a quando Egli verrà. Chiunque perciò avrà mangiato questo pane e bevuto questo calice indegnamente, sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore. Dunque, l’uomo esamini sé stesso e poi mangi di quel pane e beva di quel calice: chi infatti mangia e beve indegnamente, mangia e beve la sua condanna, non riconoscendo il corpo del Signore.]

Sequentia [Thomæ de Aquino]

Lauda, Sion, Salvatórem,

lauda ducem et pastórem

in hymnis et cánticis.

Quantum potes, tantum aude:

quia major omni laude,

nec laudáre súfficis.

Laudis thema speciális,

panis vivus et vitális

hódie propónitur.

Quem in sacræ mensa cenæ

turbæ fratrum duodénæ

datum non ambígitur.

Sit laus plena, sit sonóra,

sit jucúnda, sit decóra

mentis jubilátio.

Dies enim sollémnis agitur,

in qua mensæ prima recólitur

hujus institútio.

In hac mensa novi Regis,

novum Pascha novæ legis

Phase vetus términat.

Vetustátem nóvitas,

umbram fugat véritas,

noctem lux elíminat.

Quod in coena Christus gessit,

faciéndum hoc expréssit

in sui memóriam.

Docti sacris institútis,

panem, vinum in salútis

consecrámus hóstiam.

Dogma datur Christiánis,

quod in carnem transit panis

et vinum in sánguinem.

Quod non capis, quod non vides,

animosa fírmat fides,

præter rerum órdinem.

Sub divérsis speciébus,

signis tantum, et non rebus,

latent res exímiæ.

Caro cibus, sanguis potus:

manet tamen Christus totus

sub utráque spécie.

A suménte non concísus,

non confráctus, non divísus:

ínteger accípitur.

Sumit unus, sumunt mille:

quantum isti, tantum ille:

nec sumptus consúmitur.

Sumunt boni, sumunt mali

sorte tamen inæquáli,

vitæ vel intéritus.

Mors est malis, vita bonis:

vide, paris sumptiónis

quam sit dispar éxitus.

Fracto demum sacraménto,

ne vacílles, sed meménto,

tantum esse sub fragménto,

quantum toto tégitur.

Nulla rei fit scissúra:

signi tantum fit fractúra:

qua nec status nec statúra

signáti minúitur.

Ecce panis Angelórum,

factus cibus viatórum:

vere panis filiórum,

non mitténdus cánibus.

In figúris præsignátur,

cum Isaac immolátur:

agnus paschæ deputátur:

datur manna pátribus.

Bone pastor, panis vere,

Jesu, nostri miserére:

tu nos pasce, nos tuére:

tu nos bona fac vidére

in terra vivéntium.

Tu, qui cuncta scis et vales:

qui nos pascis hic mortáles:

tuos ibi commensáles,

coherédes et sodáles

fac sanctórum cívium. Amen. Allelúja.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangéli secúndum Joánnem.

R. Gloria tibi, Domine! – Joann VI:51-59

“In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Ego sum panis vivus, qui de cælo descendi. Si quis manducaverit ex hoc pane, vivet in aeternum : et panis quem ego dabo, caro mea est pro mundi vita. Litigabant ergo Judaei ad invicem, dicentes: Quomodo potest hic nobis carnem suam dare ad manducandum? Dixit ergo eis Jesus: Amen, amen dico vobis : nisi manducaveritis carnem Filii hominis, et biberitis ejus sanguinem, non habebitis vitam in vobis. Qui manducat meam carnem, et bibit meum sanguinem, habet vitam aeternam : et ego resuscitabo eum in novissimo die. Caro mea vere est cibus et sanguis meus vere est potus. Qui mandúcat meam carnem e bibit meum sánguinem, in me manet et ego in illo. Sicu misit me vivens Pater, et ego vivo propter Patrem: et qu mandúcat me, et ipse vivet propter me. Hic est panis, qu de coelo descéndit. Non sicu manducavérunt patres vestri manna, et mórtui sunt. Qui manducat hunc panem, vivet in ætérnum. [In quel tempo: Gesú disse alle turbe dei Giudei: Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.[ Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.]

Omelia di

S. S. GREGORIO XVII (1975)

Avete sentito leggere un tratto (Gv VI, 51-58) di quello che è accaduto a Cafarnao un anno prima dell’istituzione dell’Eucaristia, quando Gesù cioè tenne il celebre e lungo discorso sull’Eucaristia. Il tratto che avete sentito leggere vi ha presentato la difficoltà degli uditori ad accettare una simile verità. Gli uditori avevano questo torto: non si ricordavano che poco prima Gesù aveva moltiplicato i pani e i pesci, dimostrando con questo di essere padrone tanto della sostanza che della quantità e di poterne disporre da Creatore a Suo piacimento. Questo era il loro torto. In questo torto non sarebbe caduto Pietro, – questo non l’abbiamo lettolo -, che terminò l’incidente, non comprendendo nulla anche lui, ma dicendo a Gesù: “Signore, da chi andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv VI, 68). – Pur avendo torto, c’era un motivo d’interrogazione, non di contestazione, e il motivo d’interrogazione era questo: “Ma, Signore, come mai ti metti sotto apparenze così semplici come quelle di un pane, di una ostia, niente di più umile, di più comune, Signore?”. La domanda, non la contestazione, la domanda poteva essere ragionevole. In noi la stessa domanda, che potrebbe essere ragionevole, fa questo effetto purtroppo, e io sono qui a protestare fortemente contro questo effetto: che, non interpretando l’umiltà con la quale Dio si manifesta a noi e la delicatezza suprema, noi usiamo il massimo di irriverenza verso la Santissima Eucaristia, il massimo. E io sono qui a protestare con tutta l’anima contro questo. Non con voi che siete qui, cari, ma potrebbe essere che anche voi abbiate bisogno di sentire questa protesta. In altri termini, l’umiltà e la delicatezza divina nel trattare con noi uomini ci fa da dimenticare la maestà di Dio, perché nell’Eucaristia è presente Gesù Cristo Dio. E pertanto accanto all’umiltà e alla delicatezza della manifestazione e del sacro segno va ricordata la Maestà divina per trarre tutte le conseguenze. – Perché questa umiltà divina? E tutto uno stile di Dio che meriterebbe un lungo e interessantissimo discorso, perché è una delle linee principali della Provvidenza Divina nel trattare con gli uomini. Dio ci parla continuamente attraverso la creazione: il sole che sorge, l’alba rosata, la primavera che esplode, l’estate che matura, l’autunno che dà i suoi frutti, l’inverno che dà il suo raccoglimento e, per via dei contrasti, fa amare quello che è caldo, tutto, ma dolcemente, parla del Creatore. Non si arriva di conseguenza del Creatore se non si mette un’attenzione volontaria, libera, e Dio è delicato proprio per lasciare a noi il merito di questa iniziativa, di questo non primo, ma secondo passo (il primo lo fa sempre la Grazia Sua all’interno di noi), il merito di questo secondo passo. Dio non vuole con impressioni cogenti, violente, diminuire il valore del nostro atto libero e del nostro merito: questa è la ragione. Ho detto che meriterebbe un ben lungo discorso, e forse in altre occasioni lo faremo. Ma mi importa proseguire nel tema che propongo a voi questa mattina. – Sì, l’Eucaristia si presenta dolcissimamente umile, cosa comune all’esterno, segno che non viola nessuno dei limiti della nostra debolezza, ma c’è la maestà di Dio lì e dobbiamo rispettarla! La maestà: che cos’è? E una parola che è nella testa degli uomini generalmente confusa da un’idea di grandezza, di impotenza da parte nostra, di superiorità e basta, un’idea che sconvolge, che noi ricordiamo unicamente per darla alle cose che riteniamo massime in questo mondo, ma è difficile che se ne abbia una idea precisa. Ora, la maestà è quella qualità per cui Dio si alza all’infinito sopra delle Sue creature; questa è la maestà. Noi abbiamo degli elementi per parlarne, certamente, ma sempre come quando si parte da una riva e si cerca di solcare un mare che va all’infinito. Noi vediamo il sole, le altre stelle, le vediamo – in genere non le guardiamo, almeno per quanto mi consta -, però, se si osservano, si sente una grandezza tale, la grandezza dataci dall’idea di spazio, e l’idea di spazio lancia verso l’immenso. Noi siamo oppressi dal rotare degli anni, dei giorni, dei mesi, delle ore, del tempo; la storia in fondo dà questa impressione, è la prima che essa dà: che tutto quanto passa, che tutto quanto incalza, che tutto quanto ha fretta e tutto quanto lascia nella polvere, nel silenzio e, quaggiù, nella morte; ma il tempo è la sponda dalla quale si parte per avere l’idea dell’eternità. Le cose a noi sembrano mirabili, grandi; i colori si prestano, le forme, tutte le forme si prestano a questo, congegnando così l’impressione esterna della bellezza della quale è ripieno il mondo: e tutto questo costituisce una sponda che ci spinge un’altra volta sul mare infinito, quello dell’eterna bellezza. – Quando tuona il fulmine, quando il terremoto scuote, quando l’alluvione irrompe, noi abbiamo impressioni orribili e orrende, ma sentiamo la grandezza: sono le piccole rivelazioni della presenza di Dio; qualche volta sono anche un castigo, ma sono delle rivelazioni con le quali Dio, non presentando un elemento cogente all’intelligenza, perché deve rimanere libera, ma al sentimento esterno, a quel sentimento fisico che hanno anche gli animali, comune con noi, che è di fuga – e noi lo chiamiamo anche spavento -: ed è una sponda anche questa dalla quale si può partire come per un mare immenso per vedere di quanto Iddio stia al di sopra di noi. Fratelli miei, potrei continuare, ma il tempo limimitato. Dio ci dà gli elementi per la maestà, ce la richiama. – Parliamo di noi che la dimentichiamo. Quando io vedo gente che contesta d’inchinarsi davanti al Santissimo Sacramento, mi chiedo fino a che punto sia decaduta la potenza intellettuale e logica degli uomini, fino a che punto! Quando io devo constatare che bisogna proteggere il culto alla Santissima Eucaristia anche contro coloro che lo dovrebbero promuovere, piangerei. Ma siamo diventati così ciechi, siamo diventati così poveri di spirito nel senso deteriore, da non ricordarci di intendere almeno qualche volta in vita questo supremo richiamo che ci viene da tutto il creato? Se questa cattedrale crollasse e desse a noi, schiacciandoci, un segno della potenza che ha la forza di gravità o dell’attrazione della terra, sarebbe piccola e futile cosa davanti all’onnipotenza di Dio: ma abbiamo bisogno che ci cadano le cattedrali sulla testa per capire che dobbiamo adorare Colui che si degna di stare nei piccoli, umili tabernacoli – che spesso cerchiamo di rendere più spogli e miserabili -, che si degna di restare per amore nostro? A questo punto mi par di sentire una voce che dice: “Ma il senso della maestà ci opprime”. E credete che sia un male? Non è affatto un male! Se dobbiamo essere anche e fortemente richiamati al più elementare senso di giustizia verso Chi ci ha creato e redento, ben venga. Però non è questa la risposta. – Ho detto che Dio si manifesta a noi in modo umile e dolce per amore. L’Eucaristia è un atto d’amore di Dio, che ha voluto scegliere il pane e il segno della manducazione, dell’assimilazione, che è la forma più grande con la quale una creatura si può inverare nell’altra, per indicare fino a che punto Dio vuole essere unito a noi e noi uniti a Lui. E per amore! – E concludo col dire che l’amore, quando è tale, è un amore adorazione alla maestà di Dio. E non c’è da scomporsi; la logica va perfettamente a posto: in Dio, perfezione eterna ed assoluta, amore e maestà si identificano. Se s’identificano in Lui, non c’è affatto difficoltà che l’atto di adorazione in noi sia amore e l’atto di amore sia adorazione.

 

 

 

OMELIA DI PENTECOSTE DI S.S. GREGORIO XVII

 

OMELIA DI PENTECOSTE DI S.S. GREGORIO XVII

[che gli a-cattolici eretici e scismatici si ostinano a chiamare Cardinal G. Siri]

PENTECOSTE – S. Messa (1979)

Il testo evangelico (Gv XX, 19-23), che ci riporta al giorno stesso della Risurrezione del Signore, narra un’anticipazione della Pentecoste: parla di una prima diretta effusione dello Spirito Santo sugli Apostoli per dare ad essi il potere di rimettere i peccati. Ma il vero oggetto di questa, che è tra le massime solennità della Chiesa, la Pentecoste, è narrato nella prima lettura tolta dal 2° capitolo degli Atti degli Apostoli (vv. 1-11). Quello è l’oggetto, e su quello io invito voi a convergere le vostre riflessioni. – Il fatto della Pentecoste è grandioso, solenne, stupendo; riecheggia, ma in forma più dolce, la grande manifestazione del Sinai accaduta molti secoli prima per la promulgazione del Decalogo (cfr. Es XIX). Questa seconda promulgazione di tutto l’operato di Cristo, già ormai compiuto, ha un carattere più dolce, più amabile, adattandosi al tenore che la Provvidenza ha assunto nel Nuovo Testamento. Ora nel fatto della Pentecoste, oggetto della riflessione in questo giorno, bisogna distinguere alcune cose. La prima è il fatto esterno: il vento impetuoso che ha scosso le fondamenta della città; le fiammelle ardenti scese sul capo dei singoli che erano nel Cenacolo, fatto grandioso; la presenza, anzi la presidenza – e voglio sottolinearlo – della Santissima Vergine, perché nel Cenacolo c’era Maria. Ad Ella non erano state date le chiavi di Pietro, ma stava al di sopra delle chiavi di Pietro ed era Ella, la Madre del Signore, in ragione della dignità e della Venerabilità del suo ufficio, a tenere almeno nell’onore la presidenza di quella piccola assemblea degnata di un tanto fatto divino, che riecheggiava l’antico Sinai. Ma di questo parlerò stasera dopo i vespri, non ora. – C’è una seconda cosa: la vera Pentecoste. Perché la vera effusione dello Spirito Santo non è stata né il vento, né le fiammelle, né il chiarore, niente; questo era semplicemente un involucro esterno per accompagnare ad uomini che capiscono tutte soltanto attraverso le cose materiali, accompagnare a loro e lasciare un’adeguata impressione l’effusione interna dello Spirito Santo. La vera Pentecoste non si vedeva. E la vera Pentecoste, quella alla quale sono partecipi tutti i fedeli fino alla fine del mondo, non si vedrà, se non in casi straordinari, mai. Ora, anche in questa Pentecoste interiore c’è da fare una distinzione, cioè quello che è stato dato agli Apostoli allora e che è dato anche a noi nel Battesimo, nella Cresima, in tutti i Sacramenti e in tutti gli atti soprannaturali che noi compiamo, e quello, invece, che è state caratteristico per gli Apostoli. Bisogna distinguere: anche noi entriamo nella Pentecoste, ma non come loro. Vediamo prima quello in cui entriamo anche noi nella Pentecoste. Essi avevano la Grazia divina, cioè quella dignità soprannaturale che rende quanto è possibile la creatura partecipe della stessa natura divina, che è radice per cui gli atti fatti in state di Grazia hanno tutti un valore eterno, oltre che soprannaturale: quella dignità per cui si diventa figli adottivi di Dio, non più soltanto servitori; quella dignità che innalza ontologicamente, obbiettivamente – non è cavalierato che sta tutto nella medaglia appesa sul petto-, è intima, interiore e tocca le sorgenti dell’essere e della vita, per cui siamo, vivendo in questo mondo, appartenenti ad un ordine e ad una famiglia divina. Quello l’avevano e l’abbiamo anche noi, se siamo in Grazia di Dio; vorrei sperare che in questa chiesa, in questo momento, non ci fosse nessuno che sia in disgrazia del Signore, perché avrei paura che qualche cosa venisse giù. Ma non è qui solo: c’era e c’è in noi quell’intervento continuo soprannaturale che si chiama Grazia attuale, per prevenire, accompagnare, dando luce, forza e costanza. Tutti gli atti buoni, che noi compiamo e che possono essere valevoli, anche indirettamente, all’eterna salute e al merito che avremo nella gloria di Dio, l’ebbero loro e li abbiamo noi. I doni dello Spirito Santo, che sono quell’intervento divino che appresta l’anima, la allena ad aprirsi alla Grazia di Dio comunque essa venga data e in qualunque misura essa venga data, l’ebbero loro, li abbiano noi. – Ricordiamocene qualche volta, non fosse altro per portare rispetto a quel tanto di divino che è in noi, al quale pensiamo così poco, al quale pensando forse troveremmo la forza di evadere dalle strettoie degli avvenimenti che ci sono imposti dalla cattiveria del mondo. – Ma veniamo a quello che era proprio degli Apostoli. Ecco, mi sforzerò di descriverlo come so, per deduzione, perché è grande e sfugge in se stesso alla nostra penetrazione; ci è chiaro negli effetti. Gli Apostoli ebbero intera e perfetta la carica apostolica per convertire il mondo. Vi prego di misurare questa carica: prima dubitosi, paurosi, facili a suggestioni in un senso e nell’altro; immediatamente campioni che affrontano tutti nel giorno stesso i capi del popolo, e parlano a tutto il popolo, non hanno più paura né delle beffe – e gliene hanno fatte quel giorno e di grosse – né di insulti né di interpretazioni né di minacce. Niente da quel giorno e poi sempre. Tutta la lettura degli Atti degli Apostoli, libro meraviglioso della luminosità divina della Chiesa, mostra quest’atteggiamento ben alieno dalla paura, dal complesso di timidità, con un coraggio immenso che ha affrontato tutto. Badate bene: hanno affrontato un mondo che era marcio e hanno incominciato ad affrontarlo nel Medio Oriente, che era la culla di tutto il marciume, senza paura, a fronte alta, soli, poveri, niente in mano per potersi cambiare gli abiti e mangiare; questo hanno percorso il mondo, e tutto quello che vediamo di cristiano oggi è stato loro, è la conseguenza di quello che hanno fatto loro. Non lo dico io, l’Apostolo lo dice: sono il fondamento loro e restano il fondamento. Se pensiamo che questi uomini per questa carica spirituale non solo hanno affrontato tutto, ma hanno abbandonato tutto – meno uno, Giovanni, è da credere che tutti avessero famiglia -: il paese, la loro lingua, le loro usanze! Hanno affrontato tutto, e i due più coraggiosi di tutti hanno affrontato Roma. La carica che ebbe Pietro in quel giorno non lo fece restare a porre la sua sede primaziale di tutto l’universo in Antiochia, che sarebbe stata comoda e abbastanza vicina tanto all’Oriente che all’Occidente. No, la carica lo ha portato a portare la sede in Roma, dove stava sedendo un mostro imperiale che si chiamava Nerone, sapendo che là l’avrebbero ucciso. Questa carica! Noi possiamo entrare nei meandri del nostro spirito e parlare del sentimento che deve essere stato investito da tutto, di tutto quello che emerge dal nostro subcosciente che raccoglie dal passa e quasi antevede il futuro, di tutti i meandri della psicologia: là dentro è entrato questo Spirito divino. Non so dirvi di più di questa carica. So dirvi solo quello che è successo dopo, e da quello che è successo dopo si misura la carica del momento. – Ci sono tante anime che nella loro Pentecoste una certa carica, non come quella, ma una certa carica la ricevono e, se la ricevono, se la tengano nell’umiltà e nel silenzio. Si ricordino che a presiedere il giorno della Pentecoste c’era la Vergine Madre del Signore, che, appena diventata tale, per prima cosa partì e andò servire sua cugina, vecchia e in procinto di dare alla 1uce Giovanni Battista, le cui reliquie stanno là. Ha cominciata così la Madre di Dio, che ha presieduto il giorno della Pentecoste, e si è ritirata nel silenzio, protetta dall’usbergo dell’Apostolo vergine Giovanni. L’ha seguito, e quello ha piegato la sua vita all’incarico avuto da Cristo in Croce di conservarla nel silenzio; e nel silenzio del mondo se ne è andata per lasciare il posto ai cori angelici. Non dimentichiamo: nella gloria della Pentecoste, al sommo di quella stupenda piccola assemblea, sta la Vergine Madre del Signore. Ma i1 Magnificat l’ha cantato lei una volta, ora per Lei lo cantiamo noi.

“Pio XII ha detto che dovevo succedergli” – Papa Gregorio XVII

 

“Pio XII ha detto che dovevo succedergli” – Papa Gregorio XVII – Il Papa “vero” legittimo!

Nel 1938 Papa Pio XI si esprimeva dicendo: “Se il Papa muore oggi, domani se ne avrà un altro, perché la Chiesa continua. Sarebbe una tragedia molto più grande invece, se morisse il cardinale Pacelli, perché ce n’è uno solo. Io prego ogni giorno: certo Dio può inviare un altro uomo da uno dei nostri seminari, ma ad oggi, c’è solo lui in questo mondo.” Dopo la morte di Pio XI, il Cardinale Pacelli infatti diventerà Papa Pio XII, e nel 1953, anche lui avrebbe approvato un uomo da elevare al Papato, di 46 anni, Giuseppe Siri, l’arcivescovo di Genova. Quando Pio XII nominò cardinale G. Siri, nel porgli il cappello rosso in testa, un reporter presente ebbe a sottolineare: “questo è un momento storico, il Papa incorona il prossimo Papa.” In effetti, Siri ha scritto nel suo diario personale ora pubblicato: “Pio XII mi ha detto che devo succedergli, egli sta preparando per me lo stesso percorso che Pio XI aveva preparato per lui.”

Il “papa” falso, l’agente massonico (33° liv.): A. Roncalli.

“Questo piano (per installare un falso papa) è stato rivelato anche in una lettera del cardinale Tisserant, il 12 marzo 1970, quando ha fatto allusione appunto alla elezione ‘pianificata’ di ‘papa’ Giovanni XXIII: “L’elezione dell’attuale Sommo Pontefice è stata fatta in fretta. L’elezione di Jean XXIII, venne discussa in numerose riunioni”.

“Nessuno può essere in grado di dare informazioni sul processo dopo il conclave. È stata imposta una segretezza più stretta che mai! E’ assolutamente ridicolo dire che OGNI CARDINALE POTEVA ESSERE ELETTO. I miei migliori saluti. (Fotocopia della lettera pubblicata sul libro di F. Bellegrandi: Nichita Roncalli – p. 30)…

“In un’altra lettera, il cardinale Tisserant ha detto ad un abate docente di diritto canonico che l’elezione di Giovanni XXIII era illegittima perché è stato voluta e “preparata” da forze aliene ALLO SPIRITO SANTO “. (‘Vita’ 18 Settembre, 1977, p. 4: ‘Le profezie sui papi nell’elenco di San Malachia’, de “Il Minutante”- [ ‘Profezie sui papi di Malachia di Armagh’]”(Fonte del testo è: L’Eglise Eclipse par Les Amis du Christ Roi de France 1997)

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Il Papa Prigioniero Gregorio XVII segnala il colpo massonico!

“Siri ha detto che dovevamo pregare per i conclavi futuri, di modo che coloro che volessero partecipare possano essere veramente liberi da ogni tipo di condizionamento o di influenza, non solo in termini etnici o politici, ma anche sociale. Bisogna pregare perché non ci sia alcuna manipolazione da parte di alcuna setta”. [FFr. Raimondo Spiazzi, “Il Cardinale Giuseppe Siri”, Bologna: Studio Dominicani, 1990. (Nota: La citazione dal libro di Spiazzi è stato tratta dall’articolo della rivista “30 Giorni”, “infiltrati Sì …?”, Novembre 1991, pag. 55.) sua Santità, sempre sotto sorveglianza, parlando di come mantenere l’integrità delle decisioni nei “futuri conclavi” … cosa che chiaramente implica che in quelli “passati” [dal 1958 al 1978 –ndr.- ] il VERO LEGITTIMO RISULTATO del Conclave (che lo aveva reso Vicario di Cristo con il nome di GREGORIO XVII) sia stato manipolato satanicamente (cioè falsificato) dalla setta massonica … che aveva installato con successo il “fratello” 33° Roncalli (il sedicente “nuovo” Giovanni XXIII), per accelerare il loro suo obiettivo secolare della distruzione totale della Chiesa cattolica.

Quando gli usurpatori del Vaticano hanno scoperto che si parlava del vero Papa …

“Nella settimana che seguì la pubblicazione di questo articolo (” Il Papa: poteva essere il cardinale Siri”, luglio 1986 – v. nel blog, “quattro articoli”), Monsieur de Franquerie ricevette due telefonate da Roma, a dimostrazione che in Vaticano era stata letta anche questa piccola recensione altamente confidenziale. L’interlocutore voleva sapere se l’articolo fosse attendibile, della qual cosa, Monsieur Franquerie diede loro conferma.

 

L’articolo venne poi tradotto in inglese, tedesco, spagnolo, italiano e distribuito in tutto il mondo ….”(L’Eglise Eclipsée da Les Amis de Christ-Roi, Edizioni Delacroix, 1997 Parigi)

Tutti i veri cattolici devono una quantità incredibile di grazie al marchese de la Franquerie ed ai suoi illustri colleghi, per la loro provvidenziale intervista fatta al “cardinale Siri” (in realtà Papa Gregorio XVII) il 18 maggio, 1985 . Quell’incontro provvidenziale ha spianato infatti la strada per l’odierna Campagna di restauro del vero Pontificato [PRC] – il cui unico obiettivo è quello di ripristinare visibilmente il degno successore di Papa Gregorio XVII, Papa Gregorio XVIII, sul suo legittimo trono.

* Il Marchese de La Franquerie era un realista francese. Nel 1926 venne nominato redattore capo della rivista approvata della Chiesa, la Rassegna Internazionale di società segrete [RISS]. Venne nominato ciambellano di Sua Santità, Papa Pio XII, ed era un noto esperto di Massoneria … per questo era molto rispettato, e anche temuto, da vari prelati del suo tempo. Sono state queste “qualità” che gli permisero di ottenere l’accesso al Papa in ostaggio, a Genova, e di ottenerne udienza quel fatidico giorno di maggio. Di questo storico 18 maggio 1985, esiste la registrazione fatta da uno dei testimoni oculari presenti, signor Luis-Hubert Remy.

E’ importante notare che Papa Gregorio XVII, in incontri clandestini con esponenti del Clero cattolico tradizionale nel giugno 1988, avrebbe inoltre rivelato di essere stato eletto Papa, di avere accettato l’incarico, evendo scelto il nome di Gregorio XVII durante il Conclave del 26 ottobre 1958, e che i suoi carcerieri, fiancheggiatori massonici, avrebbero potuto ucciderlo in qualsiasi momento. (Ed infatti meno di undici mesi dopo questi segreti incontri del giugno 1988, Gregorio XVII, in seguito a “misteriosi” malanni, morì nell’arco di poche settimane, il 2 maggio 1989.). [TCWblog]

VEGLIA PASQUALE: LE PROFEZIE ED UN’OMELIA DI S. S. GREGORIO XVII (1973)

-I Profezia-

Genesi I, 1-31 e II, 1-2

“In princípio creavit Deus cœlum et terram. Terra autem erat inánis et vácua, et ténebræ erant super fáciem abýssi: et Spíritus Dei ferebátur super aquas. Dixítque Deus: Fiat lux. Et facta est lux. Et vidit Deus lucem, quod esset bona: et divísit lucem a ténebris. Appellavítque lucem Diem, et ténebras Noctem: factúmque est véspere et mane, dies unus. Dixit quoque Deus: Fiat firmaméntum in médio aquárum: et dívidat aquas ab aquis. Et fecit Deus firmaméntum, divisítque aquas, quæ erant sub firmaménto,ab his, quæ erant super firmaméntum. Et factum est ita. Vocavítque Deus firmaméntum, Cœlum: et factum est véspere et mane, dies secúndus. Dixit vero Deus: Congregéntur aquæ, quæ sub cœlo sunt, in locum unum: et appáreat árida. Et factum est ita. Et vocávit Deus áridam, Terram: congregationésque aquárum appellávit Maria. Et vidit Deus, quod esset bonum. Et ait: Gérminet terra herbam viréntem et faciéntem semen, et lignum pomíferum fáciens fructum juxta genus suum, cujus semen in semetípso sit super terram. Et factum est ita. Et prótulit terra herbam viréntem et faciéntem semen juxta genus suum, lignúmque fáciens fructum, et habens unumquódque seméntem secúndum spéciem suam. Et vidit Deus, quod esset bonum. Et factum est véspere et mane, dies tértius. Dixit autem Deus: Fiant luminária in firmaménto cœli, et dívidant diem ac noctem, et sint in signa et témpora et dies et annos: ut lúceant in firmaménto cœli, et illúminent terram. Et factum est ita. Fecítque Deus duo luminária magna: lumináre majus, ut præésset diéi: et lumináre minus, ut præésset nocti: et stellas. Et pósuit eas in firmaménto cœli, ut lucérent super terram, et præéssent diéi ac nocti, et divíderent lucem ac ténebras. Et vidit Deus, quod esset bonum. Et factum est véspere et mane, dies quartus. Dixit etiam Deus: Prodúcant aquæ réptile ánimæ vivéntis, et volátile super terram sub firmaménto cæli. Creavítque Deus cete grándia, et omnem ánimam vivéntem atque motábilem, quam prodúxerant aquæ in spécies suas, et omne volátile secúndum genus suum. Et vidit Deus, quod esset bonum. Benedixítque eis, dicens: Créscite et multiplicámini, et repléte aquas maris: avésque multiplicéntur super terram. Et factum est véspere et mane, dies quintus. Dixit quoque Deus: Prodúcat terra ánimam vivéntem in génere suo: juménta et reptília, et béstias terræ secúndum spécies suas. Factúmque est ita. Et fecit Deus béstias terræ juxta spécies suas, et juménta, et omne réptile terræ in génere suo. Et vidit Deus, quod esset bonum, et ait: Faciámus hóminem ad imáginem et similitúdinem nostram: et præsit píscibus maris et volatílibus cœli, et béstiis universæque terræ, omníque réptili, quod movétur in terra. Et creávit Deus hóminem ad imáginem suam: ad imáginem Dei creávit illum, másculum et féminam creávit eos. Benedixítque illis Deus, et ait: Créscite et multiplicámini, et repléte terram, et subjícite eam, et dominámini píscibus maris et volatílibus cœli, et univérsis animántibus, quæ movéntur super terram. Dixítque Deus: Ecce, dedi vobis omnem herbam afferéntem semen super terram, et univérsa ligna, quæ habent in semetípsis seméntem géneris sui, ut sint vobis in escam: et cunctis animántibus terræ, omníque vólucri cœli, et univérsis, quæ movéntur in terra, et in quibus est ánima vivens, ut hábeant ad vescéndum. Et factum est ita. Vidítque Deus cuncta, quæ fécerat: et erant valde bona. Et factum est véspere et mane, dies sextus. Igitur perfécti sunt cœli et terra, et omnis ornátus eórum. Complevítque Deus die séptimo opus suum, quod fécerat: et requiévit die séptimo ab univérso ópere, quod patrárat.”

[In principio Dio creò il cielo e la terra. Or la terra era solitudine e caos, e le tenebre coprivano la faccia dell’abisso, ma lo Spirito di Dio si librava sopra le acque. Allora Dio disse: «Sia la luce». E luce fu. E Dio vide che la luce era buona, e separò la luce dalle tenebre. E diede il nome di Giorno alla luce e di Notte alle tenebre. Così si fece sera e poi mattina: primo giorno. Poi Dio disse: «Ci sia uno strato in mezzo alle acque, e separi le acque dalle acque». E Dio fece lo strato, e separò le acque che erano sotto da quelle che erano sopra lo strato. E così fu. E Dio chiamò Cielo lo strato. Intanto si fece sera e poi mattina: secondo giorno. Poi Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo si radunino in un solo luogo, e appaia l’asciutto». E così fu. E Dio chiamò Terra l’asciutto, e Mare l’ammasso delle acque. E Dio vide che ciò era ben fatto. Quindi disse: «Produca la terra erba verdeggiante che faccia seme, e piante fruttifere che diano frutto secondo la loro specie ed abbiano in se stesse la propria semenza sopra la terra». E così fu. E la terra produsse verdura, erba che fa seme della sua specie, e piante che danno frutto ed hanno ciascuna la semenza secondo la propria specie. E Dio vide che ciò era ben fatto. Intanto si fece sera e poi mattino: terzo giorno. Dio disse ancora: «Vi siano dei luminari nella volta del cielo per distinguere il giorno dalla notte e siano segni dei tempi, dei giorni e degli anni, e risplendano nel firmamento del cielo per far luce sulla terra». E così fu. E Dio fece i due grandi luminari: il luminare maggiore, affinché presiedesse al giorno: il luminare minore, affinché presiedesse alla notte; e fece pure le stelle. E le mise nella volta del cielo, perché dessero luce alla terra e regolassero il giorno e la notte, e separassero la luce dalle tenebre. E Dio vide che ciò era ben fatto. Intanto si fece sera e poi mattino: quarto giorno. Disse poi Dio: «Brulichino le acque di animali e gli uccelli volino sopra la terra, sotto la volta del cielo». E Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli animali viventi striscianti, di cui si popolarono le acque, secondo le loro specie, ed ogni volatile secondo la sua specie. E Dio vide che ciò era ben fatto. E li benedisse, dicendo: «Crescete e moltiplicatevi, e popolate le acque del mare, e si moltiplichino gli uccelli sopra la terra». E intanto si fece sera e poi mattino: quinto giorno. Disse ancora Dio: «Produca la terra animali viventi secondo la loro specie, animali domestici, e rettili e bestie selvatiche della terra, secondo la loro specie». E così fu. E Dio fece le fiere terrestri, secondo la loro specie, e gli animali domestici, e tutti i rettili della terra, secondo la loro specie. E Dio vide che ciò era ben fatto. Poi Dio disse: «Facciamo l’Uomo a nostra immagine e somiglianza, che domini i pesci del mare, i volatili del cielo, le bestie, e tutta la terra, e tutti i rettili che strisciano sopra la terra». Dio creò l’uomo a sua immagine, lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina. E Dio li benedì dicendo: «Crescete e moltiplicatevi, e riempite la terra e rendetevela soggetta, e dominate sui pesci del mare, e sui volatili del cielo, e sopra tutti gli animali che si muovono sulla terra». E Dio disse: «Ecco io vi do tutte le erbe che fanno seme sulla terra e tutte le piante che hanno in se stesse semenza della loro specie, perché servano di cibo a voi; e a tutti gli animali della terra, e a tutti gli uccelli del cielo e a quanto si muove sulla terra ed ha in sé anima vivente, affinché abbiano da mangiare». E così fu. E Dio vide tutte le cose che aveva fatte; ed esse erano molto buone. Intanto si fece sera e poi mattino: sesto giorno. Così furono compiuti i cieli e la terra e tutto il loro assetto. E Dio nel settimo giorno finì l’opera che aveva fatta e nel settimo giorno si riposò da tutte le opere che aveva compiute.]

-II Profezia-

Gen V;VI; VII; VIII

“Noë vero cum quingentórum esset annórum, génuit Sem, Cham et Japheth. Cumque cœpíssent hómines multiplicári super terram et fílias procreássent, vidéntes fílii Dei fílias hóminum, quod essent pulchræ, accepérunt sibi uxóres ex ómnibus, quas elégerant. Dixítque Deus: Non permanébit spíritus meus in hómine in ætérnum,quia caro est: erúntque dies illíus centum vigínti annórum. Gigántes autem erant super terram in diébus illis. Postquam enim ingréssi sunt fílii Dei ad fílias hóminum illæque genuérunt, isti sunt poténtes a sæculo viri famósi. Videns autem Deus, quod multa malítia hóminum esset in terra, et cuncta cogitátio cordis inténta esset ad malum omni témpore, pænítuit eum, quod hóminem fecísset in terra. Et tactus dolóre cordis intrínsecus: Delébo, inquit, hóminem, quem creávi, a fácie terræ, ab hómine usque ad animántia, a réptili usque ad vólucres cœli; pænitet enim me fecísse eos. Noë vero invénit grátiam coram Dómino. Hæ sunt generatiónes Noë: Noë vir justus atque perféctus fuit in generatiónibus suis, cum Deo ambulávit. Et génuit tres fílios, Sem, Cham et Japheth. Corrúpta est autem terra coram Deo et repléta est iniquitáte. Cumque vidísset Deus terram esse corrúptam , dixit ad Noë: Finis univérsæ carnis venit coram me: repléta est terra iniquitáte a fácie eórum, et ego dispérdam eos cum terra. Fac tibi arcam de lignis lævigátis: mansiúnculas in arca fácies, et bitúmine línies intrínsecus et extrínsecus. Et sic fácies eam: Trecentórum cubitórum erit longitúdo arcæ, quinquagínta cubitórum latitúdo, et trigínta cubilórum altitúdo illíus. Fenéstram in arca fácies, et in cúbito consummábis summitátem ejus: óstium autem arcæ pones ex látere: deórsum cenácula et trístega fácies in ea. Ecce, ego addúcam aquas dilúvii super terram, ut interfíciam omnem carnem, in qua spíritus vitæ est subter cœlum. Univérsa, quæ in terra sunt, consuméntur. Ponámque fœdus meum tecum: et ingrédiens arcam tu et fílii tui, uxor tua et uxóres filiórum tuórum tecum. Et ex cunctis animántibus univérsæ carnis bina indúces in arcam, ut vivant tecum: masculíni sexus et feminíni. De volúcribus juxta genus suum, et de juméntis in génere suo, et ex omni réptili terræ secúndum genus suum: bina de ómnibus ingrediántur tecum, ut possint vívere. Tolles ígitur tecum ex ómnibus escis, quæ mandi possunt, et comportábis apud te: et erunt tam tibi quam illis in cibum. Fecit ígitur Noë ómnia, quæ præcéperat illi Deus. Erátque sexcentórum annórum, quando dilúvii aquæ inundavérunt super terram. Rupti sunt omnes fontes abýssi magnæ, et cataráctæ cœli apértæ sunt: et facta est plúvia super terram quadragínta diébus et quadragínta nóctibus. In artículo diei illíus ingréssus est Noë, et Sem et Cham et Japheth, fílii ejus, uxor illíus et tres uxóres filiórum ejus cum eis in arcam: ipsi, et omne ánimal secúndum genus suum, univérsaque juménta in génere suo, et omne, quod movétur super terram in génere suo, cunctúmque volátile secúndum genus suum. Porro arca ferebátur super aquas. Et aquæ prævaluérunt nimis super terram: opertíque sunt omnes montes excélsi sub univérso cœlo. Quíndecim cúbitis áltior fuit aqua super montes, quos operúerat. Consúmptaque est omnis caro, quæ movebátur super terram, vólucrum, animántium, bestiárum, omniúmque reptílium, quæ reptant super terram. Remánsit autem solus Noë, et qui cum eo erant in arca. Obtinuerúntque aquæ terram centum quinquagínta diébus. Recordátus autem Deus Noë, cunctorúmque animántium et ómnium jumentórum, quæ erant cum eo in arca, addúxit spíritum super terram, et imminútæ sunt aquæ. Et clausi sunt fontes abýssi et cataráctæ cœli: et prohíbitæ sunt plúviæ de cœlo. Reversæque sunt aquæ de terra eúntes et redeúntes: et cœpérunt mínui post centum quinquagínta dies. Cumque transíssent quadragínta dies, apériens Nœ fenéstram arcæ, quam fécerat, dimísit corvum, qui egrediebátur, et non revertebátur, donec siccaréntur aquæ super terram. Emísit quoque colúmbam post eum, ut vidéret, si jam cessássent aquæ super fáciem terræ. Quæ cum non invenísset, ubi requiésceret pes ejus, revérsa est ad eum in arcam: aquæ enim erant super univérsam terram: extendítque manum et apprehénsam íntulit in arcam. Exspectátis autem ultra septem diébus áliis, rursum dimisit colúmbam ex arca. At illa venit ad eum ad vésperam, portans ramum olívæ viréntibus fóliis in ore suo. Intelléxit ergo Noë, quod cessássent aquæ super terram. Exspectavítque nihilminus septem álios dies: et emísit colúmbam, quæ non est revérsa ultra ad eum. Locútus est autem Deus ad Noë, dicens: Egrédere de arca, tu et uxor tua, fílii tui et uxóres filiórum tuórum tecum. Cuncta animántia, quæ sunt apud te, ex omni carne, tam in volatílibus quam in béstiis et univérsis reptílibus, quæ reptant super terram, educ tecum, et ingredímini super terram: créscite et multiplicámini super eam. Egréssus est ergo Noë et fílii ejus, uxor illíus et uxóres filiórum ejus cum eo. Sed et ómnia animántia, juménta et reptília, quæ reptant super terram, secúndum genus suum, egréssa sunt de arca. Ædificávit autem Noë altáre Dómino: et tollens de cunctis pecóribus et volúcribus mundis, óbtulit holocáusta super altáre. Odoratúsque est Dóminus odórem suavitátis.”

[Noè, essendo in età di cinquecento anni, generò Sem, Cam e Jafet. E avendo principiato gli uomini a moltiplicarsi sopra la terra e avendo procreato delle figliuole, vedendo i figliuoli di Dio la bellezza delle figliuole degli uomini presero per loro mogli quelle che più di tutte loro piacevano. E disse il Signore : Non rimarrà il mio spirito per sempre nell’uomo, perché egli è carne e i suoi giorni saranno solamente di cento veti anni. In quel tempo vi erano sopra la terra dei giganti: poiché, dopo che si accostarono i figliuoli di Dio alle figliuole degli uomini, esse generarono, e ne vennero questi uomini, forti e robusti, famosi nei secoli. — Vedendo dunque Dio quanto grande era la malizia degli uomini sopra la terra, e tutti i pensieri del loro cuore erano continuamente intesi al mal fare, si pentì d’aver fatto l’uomo. E preso come da un intimo strazio a! cuore: Sterminerò, disse egli, l’uomo da me creato dalla faccia della terra, dall’uomo sino agli animali, dai rettili fino agli uccelli dell’aria; poiché mi pento di averli fatti. — Ma Noè trovò grazia dinanzi al Signore. Questa è la Ascendenza di Noè. Noè fu uomo giusto e perfetto nei suoi, tempi, e camminò con Dio. E generò tre figliuoli: Sem, Cam e Jafet. Ma era corrotta la terra davanti a Dio e ripiena d’iniquità. E avendo veduto Dio come la terra era corrotta, poiché ogni uomo era corrotto nella sua maniera di vivere sulla terra, disse a Noè: Nei miei decreti è imminente la fine di tutti gli uomini; la terra è ripiena d’iniquità per opera loro, e io li sterminerò insieme con la terra. Tu costruirai un’arca con legni lavorati; tu farai delle piccole stanze nell’arca e la invernicerai di bitume di dentro e di fuori. E in questo modo la farai: la lunghezza dell’arca sarà di trecento cubiti, di cinquanta cubiti la larghezza e di trenta l’altezza. Farai una finestra nell’arca e il tetto dell’arca lo farai che vada alzandosi fino ad un cubito. La porta poi dell’arca la farai da un lato; vi farai un piano in fondo, un secondo piano e un terzo piano. Ecco che io manderò le acque del diluvio sopra la terra ad uccidere tutti gli animali che hanno spirito di vita sotto il cielo: tutto quello che è sopra la terra andrà in perdizione. Ma io farò un patto con te ed entrerai nell’arca tu, e i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli. E di tutti gli animali d’ogni specie, ne farai entrare nell’arca una coppia, un maschio e una femmina, affinché si salvino con te. Degli uccelli secondo la specie e delle bestie di ogni specie, e di tutti i rettili della terra secondo la loro specie, due entreranno nell’arca con te, affinché possano conservarsi. Prenderai dunque con te di tutte quelle cose che si possono mangiare, e le porterai in questa tua casa e serviranno a te e a loro di cibo. Fece dunque Noè tutto quello che gli aveva comandato il Signore. Ed. egli era in età di seicento anni allorché le acque del diluvio inondarono la terra. Si squarciarono allora tutte le sorgenti del grande abisso, e le cateratte del cielo si aprirono: e piovve sopra la terra per quaranta giorni e quaranta notti. In quello stesso giorno entrò Noè e Sem, Cam e Jafet suoi figliuoli, la moglie di lui e le tre mogli dei suoi figliuoli con essi nell’arca: essi e tutti gli animali secondo la loro specie, e tutto quello che si muove sopra la terra secondo la loro specie. Ora l’arca galleggiava sopra le acque. E le acque ingrossarono fuor di misura sopra la terra: e rimasero coperti tutti i monti più alti sotto il cielo, Quindici cubiti si alzò l’acqua sopra i monti che aveva ricoperti. E restò consunta ogni carne che ha moto sopra la terra, gli uccelli, gli animali; le bestie e tutti i rettili che strisciano sopra la terra: e rimase solo Noè e quelli che con lui erano nell’arca. Le acque occuparono la terra per centocinquanta giorni, ma ricordandosi il Signore di Noè e di tutti gli animali e di tutte le bestie che erano con essi nell’arca, mandò il vento sulla terra, e si abbassarono le acque. E furono chiuse le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo, e si arrestarono le piogge dal cielo. E si ritirarono le acque dalla terra andando e venendo: e cominciarono a scemare dopo centocinquanta giorni. E passati quaranta giorni, Noè, aperta la finestra che egli aveva fatta nell’arca, mandò fuori il corvo, il quale uscì e non tornò fino a tanto che le acque non s’asciugarono sulla terra. Mandò ancora dopo di esso la colomba per vedere se fossero sparite le acque sopra la faccia della terra. Ma la colomba, non avendo trovato ove posare il suo piede tornò a lui nell’arca: poiché le acque erano per tutta la terra: egli stese la mano e presala, la mise dentro l’arca. E avendo aspettato altri sette giorni, di nuovo mandò la colomba fuori dell’arca; ed ella tornò a lui alla sera portando in bocca un ramo d’olivo con verdi foglie. Comprese allora Noè che erano cessate le acque sopra la terra e aspettò non di meno altri sette giorni e rimandò la colomba, la quale non tornò più a lui. E parlò Dio a Noè dicendo: Esci dall’arca tu e tua moglie, i figli tuoi e le mogli dei tuoi figli con te. Tutti gli animali che sono presso di te d’ogni specie, sia di volatili sia di bestie o di rettili striscianti sulla terra, conducili con te; rientrate sulla terra: crescete e moltiplicatevi. E Noè usci coi figliuoli e sua moglie e le mogli dei suoi figli con lui. E tutti, con gli animali e le bestie e i rettili che strisciano sulla terra secondo la loro specie, uscirono dall’arca. E Noè edificò un altare al Signore e, presi tutti gli animali e uccelli mondi, ne offrì in olocausto sopra l’altare. E il Signore gradì il soave odore.]

-III Profezia-

Gen. XXII, 1-19

“In diébus illis: Tentávit Deus Abraham, et dixit ad eum: Abraham, Abraham. At ille respóndit: Adsum. Ait illi: Tolle fílium tuum unigénitum, quem diligis, Isaac, et vade in terram visiónis: atque ibi ófferes eum in holocáustum super unum móntium, quem monstrávero tibi. Igitur Abraham de nocte consúrgens, stravit ásinum suum: ducens secum duos júvenes et Isaac, fílium suum. Cumque concidísset ligna in holocáustum, ábiit ad locum, quem præcéperat ei Deus. Die autem tértio,elevátis óculis, vidit locum procul: dixítque ad púeros suos: Exspectáte hic cum ásino: ego et puer illuc usque properántes, postquam adoravérimus, revertémur ad vos. Tulit quoque ligna holocáusti, et impósuit super Isaac, fílium suum: ipse vero portábat in mánibus ignem et gládium. Cumque duo pérgerent simul, dixit Isaac patri suo: Pater mi. At ille respóndit: Quid vis, fili? Ecce, inquit, ignis et ligna: ubi est víctima holocáusti? Dixit autem Abraham: Deus providébit sibi víctimam holocáusti, fili mi. Pergébant ergo páriter: et venérunt ad locum, quem osténderat ei Deus, in quo ædificávit altáre et désuper ligna compósuit: cumque alligásset Isaac, fílium suum, pósuit eum in altare super struem lignórum. Extendítque manum et arrípuit gládium, ut immoláret fílium suum. Et ecce, Angelus Dómini de cœlo clamávit, dicens: Abraham, Abraham. Qui respóndit: Adsum. Dixítque ei: Non exténdas manum tuam super púerum neque fácias illi quidquam: nunc cognóvi, quod times Deum, et non pepercísti unigénito fílio tuo propter me. Levávit Abraham óculos suos, vidítque post tergum aríetem inter vepres hæréntem córnibus, quem assúmens óbtulit holocáustum pro fílio. Appellavítque nomen loci illíus, Dóminus videt. Unde usque hódie dícitur: In monte Dóminus vidébit. Vocávit autem Angelus Dómini Abraham secúndo de cœlo, dicens: Per memetípsum jurávi, dicit Dóminus: quia fecísti hanc rem, et non pepercísti fílio tuo unigénito propter me: benedícam tibi, et multiplicábo semen tuum sicut stellas cœli et velut arénam, quæ est in lítore maris: possidébit semen tuum portas inimicórum suórum, et benedicéntur in sémine tuo omnes gentes terræ, quia obœdísti voci meæ. Revérsus est Abraham ad púeros suos, abierúntque Bersabée simul, et habitávit ibi.”

[In quei giorni Dio provò Abramo e gli disse: Abramo, Abramo. Ed egli rispose: Eccomi. E Dio gli disse: Prendi il tuo figlio unigenito, il diletto Isacco, e va nella terra della visione e ivi lo offrirai in olocausto sopra uno dei monti che io ti indicherò. Abramo, dunque, mentre era ancora notte alzatosi, preparò il suo asino e prese con se due servi e Isacco suo figliuolo: e tagliate le legna per l’olocausto, s’incamminò verso il luogo assegnatogli da Dio. E il terzo giorno, alzati gli occhi, vide il luogo da lungi e disse ai suoi servi: aspettate qui con l’asino: io e il fanciullo andremo fin là con prestezza; e, come avremo fatto adorazione, torneremo da voi. Prese anche la legna per l’olocausto e la pose addosso a Isacco suo figliuolo: egli poi portava colle sue mani il fuoco e il coltello. E mentre tutti e due camminavano insieme, disse Isacco a suo padre: Padre mio. E quegli rispose: Che vuoi figliuolo? Ecco, disse quegli, il fuoco e la legna: dov’è la vittima dell’olocausto ? E Abramo soggiunse: Dio ci provvederà la vittima per l’olocausto, figliuolo mio. Andavano dunque innanzi assieme. E giunti al luogo mostrato a lui da Dio, edificò un altare e sopra vi accomodò la legna, e avendo legato Isacco, suo figlio, lo collocò sull’altare, sopra il mucchio della legna.. E stese la mano, e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma ecco l’Angelo del Signore dal cielo gridò, dicendo: Abramo, Abramo. E questi rispose: Eccomi. E quegli a lui disse: Non stendere le tue mani sopra il .fanciullo e non fare a lui male alcuno; adesso ho conosciuto che tu temi Iddio e non hai risparmiato il figliuolo tuo unigenito per me. Alzò Abramo gli occhi e vide dietro a se un ariete che si dimenava tra i pruni e presolo per le corna, lo tolse e lo offerse in olocausto invece del figlio, e a quel luogo pose nome: il Signore vede! Donde fin a quest’oggi si dice: Sul monte il Signore provvederà. Per la seconda volta l’Angelo del Signore chiamò Abramo dal cielo dicendo: Per me medesimo ho giurato, dice il Signore: giacche hai fatto una tal cosa e non hai perdonato al tuo figlio unigenito per me, io ti benedirò e moltiplicherò la tua stirpe come le stelle del cielo e come l’arena che è sul lido del mare; s’impadronirà la tua stirpe delle porte dei suoi nemici; e nella tua discendenza benedette saranno tutte le nazioni della terra, perché hai ubbidito alla mia voce. Tornò Abramo dai suoi servi: e se ne andarono insieme a Bersabea, ove egli abitò.]

-PROFEZIA IV-

Exod. XIV 24-31 e XV, 1-2

“In diébus illis: Factum est in vigília matutina, et ecce, respíciens Dóminus super castra Ægyptiórum per colúmnam ignis et nubis, interfécit exércitum eórum: et subvértit rotas cúrruum, ferebantúrque in profúndum. Dixérunt ergo Ægýptii: Fugiámus Israélem: Dóminus enim pugnat pro eis contra nos. Et ait Dóminus ad Móysen: Exténde manum tuam super mare, ut revertántur aquæ ad Ægýptios super currus et équites eórum. Cumque extendísset Moyses manum contra mare, revérsum est primo dilúculo ad priórem locum: fugientibúsque Ægýptiis occurrérunt aquæ, et invólvit eos Dóminus in médiis flúctibus. Reversæque sunt aquæ, et operuérunt currus, et équites cuncti exércitus Pharaónis, qui sequéntes ingréssi fúerant mare: nec unus quidem supérfuit ex eis. Fílii autem Israël perrexérunt per médium sicci maris, et aquæ eis erant quasi pro muro a dextris et a sinístris: liberavítque Dóminus in die illa Israël de manu Ægyptiórum. Et vidérunt Ægýptios mórtuos super litus maris, et manum magnam, quam exercúerat Dóminus contra eos: timuítque pópulus Dóminum, et credidérunt Dómino et Moysi, servo ejus. Tunc cécinit Moyses et fílii Israël carmen hoc Dómino, et dixérunt: Cantémus Dómino: glorióse enim honorificátus est: equum et ascensórem projécit in mare: adjútor et protéctor factus est mihi in salútem,

Hic Deus meus, et honorificábo eum: Deus patris mei, et exaltábo eum.

Dóminus cónterens bella: Dóminus nomen est illi.”

[In quei giorni, era già la vigilia del mattino, e il Signore da una nuvola di fuoco guardò verso il campo degli Egiziani e lo scompigliò. Fece rovesciare le ruote dei cocchi, che erano trascinati nel profondo. Dissero allora gli Egiziani: «Fuggiamo Israele, perché il Signore combatte per loro contro di noi!». E il Signore disse a Mosè: «Stendi la tua mano sopra il mare, affinché le acque si rovescino sugli Egiziani, sopra i loro cocchi e i loro cavalieri». E avendo Mosè stesa la mano verso il mare, sul far della mattina, il mare tornò al suo posto di prima, e le acque piombarono addosso agli Egiziani che fuggivano: così il Signore li travolse in mezzo ai flutti. E le acque, ritornando, coprirono i cocchi e i cavalieri di tutto l’esercito del Faraone, che per inseguire erano entrati nel mare: né un solo di loro scampò. Ma i figli d’Israele camminarono sull’asciutto nel mezzo del mare, e le acque erano per loro come un muro a destra e a sinistra. Così in quel giorno il Signore liberò Israele dalle mani degli Egiziani. E gli Israeliti videro sul lido del mare gli Egiziani morti e la grande potenza che il Signore aveva dispiegato contro di essi. E il popolo temé il Signore e credettero al Signore e a Mosè, suo servo. E allora Mosè cantò coi figli d’Israele questo cantico al Signore, dicendo: Cantiamo al Signore perché si è maestosamente glorificato; ha precipitato in mare cavallo e cavaliere. Il Signore è la mia forza ed il mio cantico; V. Egli è il mio Dio e lo glorificherò; il Dio di mio padre e Lo esalterò. V. Il Signore debella le guerre: il suo nome è l’Onnipotente.]

-Profezia V-

Isai. LIV, 17 e LV, 1-11

“Hæc est heréditas servórum Dómini: et justítia eórum apud me, dicit Dóminus. Omnes sitiéntes, veníte ad aquas: et qui non habétis argéntum, properáte, émite et comédite: veníte, émite absque argénto et absque ulla commutatióne vinum et lac. Quare appénditis argéntum non in pánibus, et labórem vestrum non in saturitáte? Audíte audiéntes me, et comédite bonum, et delectábitur in crassitúdine ánima vestra. Inclináte aurem vestram, et veníte ad me: audíte, et vivet ánima vestra, et fériam vobíscum pactum sempitérnum, misericórdias David fidéles. Ecce, testem pópulis dedi eum, ducem ac præceptórem géntibus. Ecce, gentem, quam nesciébas, vocábis: et gentes, quæ te non cognovérunt, ad te current propter Dóminum, Deum tuum, et sanctum Israël, quia glorificávit te. Quærite Dóminum, dum inveníri potest: invocáte eum, dum prope est. Derelínquat ímpius viam suam et vir iníquus cogitatiónes suas, et revertátur ad Dóminum, et miserébitur ejus, et ad Deum nostrum: quóniam multus est ad ignoscéndum. Non enim cogitatiónes meæ cogitatiónes vestræ: neque viæ vestræ viæ meæ, dicit Dóminus. Quia sicut exaltántur cœli a terra, sic exaltátæ sunt viæ meæ a viis vestris, et cogitatiónes meæ a cogitatiónibus vestris. Et quómodo descéndit imber et nix de cœlo, et illuc ultra non revértitur, sed inébriat terram, et infúndit eam, et germináre eam facit, et dat semen serénti et panem comedénti: sic erit verbum meum, quod egrediátur de ore meo: non revertátur ad me vácuum, sed fáciet, quæcúmque volui, et prosperábitur in his, ad quæ misi illud: dicit Dóminus omnípotens.”

[Questa è l’eredità dei servi del Signore, e la loro giustizia è affidata a me, dice il Signore. Voi tutti che avete sete venite alle acque; e voi che non avete argento fate presto, comprate e mangiate venite, comprate senza argento e senz’altra permuta, del vino e del latte; per qual motivo spendete voi il vostro argento in cose che non sono pane e la vostra fatica in ciò che non vi sazia? Con docilità ascoltatemi e cibatevi di buon cibo; l’anima vostra si delizierà nel sostanzioso, nutrimento. Porgete l’orecchio vostro e venite a me: Udite, e vivrà l’anima vostra, ed io stabilirò con voi un patto eterno, l’adempimento delle misericordie assicurate a David. Ecco che ho dato lui per testimoniare ai Popoli, condottiero e maestro delle nazioni. Ecco che quel popolo che tu non riconoscevi, tu lo chiamerai; le genti che non ti conoscevano, a te correranno per amor del Signore Dio tuo, e del santo d’Israele, perché ti ha glorificato. Cercate il Signore mentre lo si può trovare: invocatelo mentre egli è vicino. Abbandoni l’empio, la via sua, e l’iniquo i suoi maligni progetti, e ritorni al Signore, il quale avrà misericordia di lui; al nostro Dio, che è largo nel perdonare. Poiché i pensieri miei non sono i pensieri vostri, ne le vie vostre son le vie mie, dice il Signore. Poiché di quanto il cielo sovrasta alla terra, tanto sovrastano le mie vie alle vostre e i miei pensieri ai pensieri vostri. E come scende la pioggia e la neve dal cielo e lassù non ritorna, ma inebria la terra e la bagna e la fa germogliare affinché dia il seme da seminare e il pane da mangiare; così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: essa non tornerà a me senza frutto, ma opererà tutto quello che io voglio, e felicemente adempirà quelle cose per le quali io l’ho mandata: così dice il Signore onnipotente.]

 

-Profezia VI-

Baruch III, 9-38

Audi, Israël, mandata vitæ: áuribus pércipe, ut scias prudéntiam. Quid est, Israël, quod in terra inimicórum es? Inveterásti in terra aliéna, coinquinátus es cum mórtuis: deputátus es cum descendéntibus in inférnum. Dereliquísti fontem sapiéntiæ. Nam si in via Dei ambulásses, habitásses útique in pace sempitérna. Disce, ubi sit prudéntia, ubi sit virtus, ubi sit intelléctus: ut scias simul, ubi sit longitúrnitas vitæ et victus, ubi sit lumen oculórum et pax. Quis invénit locum ejus? et quis intrávit in thesáuros ejus? Ubi sunt príncipes géntium, et qui dominántur super béstias, quæ sunt super terram? qui in ávibus cœli ludunt, qui argéntum thesaurízant et aurum, in quo confídunt hómines, et non est finis acquisitiónis eórum? qui argéntum fábricant, et sollíciti sunt, nec est invéntio óperum illórum? Extermináti sunt, et ad ínferos descendérunt, et álii loco eórum surrexérunt. Júvenes vidérunt lumen, et habitavérunt super terram: viam autem disciplínæ ignoravérunt, neque intellexérunt sémitas ejus, neque fílii eórum suscepérunt eam, a fácie ipsórum longe facta est: non est audíta in terra Chánaan, neque visa est in Theman. Fílii quoque Agar, qui exquírunt prudéntiam, quæ de terra est, negotiatóres Merrhæ et Theman, et fabulatóres, et exquisitóres prudéntiæ et intellegéntias: viam autem sapiéntiæ nesciérunt, neque commemoráti sunt sémitas ejus. O Israël, quam magna est domus Dei et ingens locus possessiónis ejus! Magnus est et non habet finem: excélsus et imménsus. Ibi fuérunt gigántes nomináti illi, qui ab inítio fuérunt, statúra magna, sciéntes bellum. Non hos elegit Dóminus, neque viam disciplínæ invenérunt: proptérea periérunt. Et quóniam non habuérunt sapiéntiam, interiérunt propter suam insipiéntiam. Quis ascéndit in cœlum, et accépit eam et edúxit eam de núbibus? Quis transfretávit mare, et invénit illam? et áttulit illam super aurum eléctum? Non est, qui possit scire vias ejus neque qui exquírat sémitas ejus: sed qui scit univérsa, novit eam et adinvénit eam prudéntia sua: qui præparávit terram in ætérno témpore, et replévit eam pecúdibus et quadrupédibus: qui emíttit lumen, et vadit: et vocávit illud, et obædit illi in tremore. Stellæ autem dedérunt lumen in custódiis suis, et lætátæ sunt: vocátæ sunt, et dixérunt: Adsumus: et luxérunt ei cum jucunditáte, qui fecit illas. Hic est Deus noster, et non æstimábitur álius advérsus eum. Hic adinvénit omnem viam disciplínæ, et trádidit illam Jacob púero suo et Israël dilécto suo. Post hæc in terris visus est, et cum homínibus conversátus est.

[Ascolta, o Israele, i comandamenti di vita; porgi le orecchie ad imparare la prudenza: quale è la ragione, o Israele, per la quale tu sei in terra nemica? Tu invecchi in paese straniero, sei contaminato tra i morti, sei stato contuso con quelli che scendono nella fossa. Infatti tu abbandonasti la fonte della sapienza. Poiché se tu avessi camminato per la via di Dio, saresti vissuto in una pace eterna. Impara dove sia la prudenza, dove sia la fortezza, dove sia l’intelligenza; affinché sappia a un tempo dove sia la lunghezza della vita e il nutrimento, dove sia il lume degli occhi e la pace. Chi trovò la sede di essa? E chi penetrò nei tesori di lei? Dove sono i principi delle nazioni e coloro che dominano sopra le bestie della terra? Coloro che coi volatili del cielo scherzano; coloro che tesoreggiano argento ed oro, in cui confidano gli uomini, né mai finiscono di procacciarsene? coloro che lavorano l’argento, e gran pensiero se ne danno e non hanno termine le opere loro? Furono sterminati e discesero negli abissi e a loro altri succedettero. Questi, giovani, videro la luce e abitarono sopra la terra, ma la via della disciplina non conobbero e non ne compresero la direzione, né i loro figli l’abbracciarono; essa andò lungi da essi, di lei non si udì più parola nella terra di Canaan, non fu veduta in Theman. I figli ancora di Agar, che cercano la prudenza che viene dalla terra, e i negozianti di Merrha e di Theman e i favoleggiatori e gli scopritori della prudenza e della intelligenza, non conobbero la via della sapienza; né fecero tesoro dei suoi ammaestramenti. O Israele, quanto grande è la casa di Dio, e quanto grande è il luogo del suo dominio! Grande egli è e non ha termine: eccelso e immenso. Ivi furono quei giganti famosi che da principio furono di statura grande, maestri di guerra. Non scelse questi il Signore, né questi trovarono la via della disciplina; per questo perirono. E perché non ebbero la sapienza, perirono per la loro stoltezza. Chi salì al cielo e ne fece acquisto, e chi la trasse dalle nubi? Chi varcò il mare e la trovò e la portò a preferenza dell’oro più fino? Non è chi possa conoscere le vie di lei, né chi comprenda i suoi sentieri. Colui che sa tutto la conosce e la discoprì con la sua prudenza; colui che fondò la terra per l’eternità e la riempì di animali e di quadrupedi, colui che manda la luce ed essa va, la chiama ed essa ubbidisce a lui con tremore. Le stelle diffusero dai loro posti il loro lume, e ne furono liete: chiamate, dissero : Eccoci, e risplenderono con gioia per lui che le creò. Questi è il Dio nostro e nessun altro può essere messo in paragone con lui, questi fu l’inventore della via della disciplina e la insegno a Giacobbe suo servo, e ad Israele suo diletto. Dopo tali cose egli fu visto sopra la terra, e con gli uomini ha conversato.]

-Profezia VII-

Ezech. XXXVII, 1-15

“In diébus illis: Facta est super me manus Dómini, et edúxit me in spíritu Dómini: et dimísit me in médio campi, qui erat plenus óssibus: et circumdúxit me per ea in gyro: erant autem multa valde super fáciem campi síccaque veheménter. Et dixit ad me: Fili hóminis, putásne vivent ossa ista? Et dixi: Dómine Deus, tu nosti. Et dixit ad me: Vaticináre de óssibus istis: et dices eis: Ossa árida, audíte verbum Dómini. Hæc dicit Dóminus Deus óssibus his: Ecce, ego intromíttam in vos spíritum, et vivétis. Et dabo super vos nervos, et succréscere fáciam super vos carnes, et superexténdam in vobis cutem: et dabo vobis spíritum, et vivétis, et sciétis, quia ego Dóminus. Et prophetávi, sicut præcéperat mihi: factus est autem sónitus prophetánte me, et ecce commótio: et accessérunt ossa ad ossa, unumquódque ad junctúram suam. Et vidi, et ecce, super ea nervi et carnes ascendérunt: et exténta est in eis cutis désuper, et spíritum non habébant. Et dixit ad me: Vaticináre ad spíritum, vaticináre, fili hóminis, et dices ad spíritum: Hæc dicit Dóminus Deus: A quátuor ventis veni, spíritus, et insúffla super interféctos istos, et revivíscant. Et prophetávi, sicut præcéperat mihi: et ingréssus est in ea spíritus, et vixérunt: steterúntque super pedes suos exércitus grandis nimis valde. Et dixit ad me: Fili hóminis, ossa hæc univérsa, domus Israël est: ipsi dicunt: Aruérunt ossa nostra, et périit spes nostra, et abscíssi sumus. Proptérea vaticináre, et dices ad eos: Hæc dicit Dóminus Deus: Ecce, ego apériam túmulos vestros, et edúcam vos de sepúlcris vestris, pópulus meus: et indúcam vos in terram Israël. Et sciétis, quia ego Dóminus, cum aperúero sepúlcra vestra et edúxero vos de túmulis vestris, pópule meus: et dédero spíritum meum in vobis, et vixéritis, et requiéscere vos fáciam super humum vestram: dicit Dóminus omnípotens”.

[In quei giorni la mano del Signore fu sopra di me: e lo spirito del Signore mi trasse fuori e mi posò in mezzo ad un campo che era pieno di ossa e mi fece girare intorno ad esso: esse poi erano in gran quantità sulla faccia del campo e molto inaridite: e disse a me: Figlio dell’uomo, pensi tu che possano riavere vita queste ossa? Ed io dissi: Signore Dio, tu lo sai. Ed egli disse a me: Profetizza sopra queste ossa e dirai loro: Ossa aride, udite la parola del Signore: queste cose dice il Signore Dio a queste ossa. Ecco che io infonderò in voi lo spirito e avrete la vita. E farò risalire su di voi i nervi e ricrescere sopra di voi le carni, e sopra di voi stenderò la pelle e darò a voi lo spirito, e vivrete e conoscerete che io sono il Signore. E profetai come egli mi aveva ordinato e mentre io profetavo, si udì uno strepito, ed ecco un brulichio: e si accostarono ossa ad ossa, ciascuna alla propria giuntura. E mirai, ed ecco sopra di esse i nervi e le carni vennero e si distese sopra di loro la pelle; ma non avevano spirito. Allora mi disse: Profetizza allo spirito, profetizza. figlio dell’uomo e dirai allo spirito: queste cose dice il Signore Iddio: Dai quattro venti vieni, o spirito, e soffia sopra questi morti ed essi rivivranno. E profetai come egli mi aveva comandato ed entrò in quelli lo spirito e riebbero la vita e stettero sui piedi loro, un esercito grande fuor di misura. Ed egli disse a me: Figlio dell’uomo, tutte queste ossa sono figli di Israele: essi dicono: Aride sono le ossa nostre, ed è perita la nostra speranza, e noi siamo troncati: per questo tu profetizza e dirai loro: queste cose dice il Signore: Ecco che io aprirò le vostre tombe e vi trarrò fuori dai vostri sepolcri, popolo mio, e vi condurrò nella terra d’Israele. E conoscerete che io sono il Signore allorquando avrò aperto i vostri sepolcri e vi avrò tratti dai sepolcri vostri, popolo mio, ed avrò infuso il mio spirito in voi, e vivrete, e vi avrò dato riposo nella terra vostra, dice il Signore, onnipotente.]

-Profezia VIII-

Isai. IV, 1-6

“Apprehéndent septem mulíeres virum unum in die illa, dicéntes: Panem nostrum comedémus et vestiméntis nostris operiémur: tantúmmodo invocétur nomen tuum super nos, aufer oppróbrium nostrum. In die illa erit germen Dómini in magnificéntia et glória, et fructus terræ súblimis, et exsultátio his, qui salváti fúerint de Israël. Et erit: Omnis, qui relíctus fúerit in Sion et resíduus in Jerúsalem, sanctus vocábitur, omnis, qui scriptus est in vita in Jerúsalem. Si ablúerit Dóminus sordes filiárum Sion, et sánguinem Jerúsalem láverit de médio ejus, in spíritu judícii et spíritu ardóris. Et creábit Dóminus super omnem locum montis Sion, et ubi invocátus est, nubem per diem, et fumum et splendórem ignis flammántis in nocte: super omnem enim glóriam protéctio. Et tabernáculum erit in umbráculum diéi ab æstu, et in securitátem et absconsiónem a túrbine et a plúvi”a.

[Sette donne si disputeranno un sol uomo in quel giorno dicendo: Noi mangeremo il nostro pane, del nostro ci vestiremo; solamente dacci il tuo nome, togli la nostra confusione. In quel giorno il «Germoglio del Signore sarà in magnificenza e gloria, e il «Frutto della terra» sarà il sublime vanto e la gioia dei salvati d’Israele. Tutti quelli restati in Sion, quelli rimasti in Gerusalemme, saranno chiamati santi, tutti quelli inscritti per la vita saranno in Gerusalemme . Quando il Signore avrà lavata dalle macchie la figlia di Sion, e Gerusalemme dal sangue che è in mezzo ad essa con lo spirito di giustizia e lo spirito di fuoco, il Signore allora creerà sopra tutto il monte di Sion, e dovunque sarà invocato, una nuvola di fumo durante il giorno, e lo splendore del fuoco fiammante nella notte, e sopra tutta la sua Gloria vi sarà protezione. Il Santuario farà ombra per il calore del giorno, e di difesa contro la bufera e la pioggia.]

-Profezia IX-

Es. XII, 1-11

“In diébus illis: Dixit Dóminus ad Móysen et Aaron in terra Ægýpti: Mensis iste vobis princípium ménsium: primus erit in ménsibus anni. Loquímini ad univérsum cœtum filiórum Israël, et dícite eis: Décima die mensis hujus tollat unusquísque agnum per famílias et domos suas. Sin autem minor est númerus, ut suffícere possit ad vescéndum agnum, assúmet vicínum suum, qui junctus est dómui suæ, juxta númerum animárum, quæ suffícere possunt ad esum agni. Erit autem agnus absque mácula, másculus, annículus: juxta quem ritum tollétis et hædum. Et servábitis eum usque ad quartam décimam diem mensis hujus: immolabítque eum univérsa multitúdo filiórum Israël ad vésperam. Et sument de sánguine ejus, ac ponent super utrúmque postem et in superlimináribus domórum, in quibus cómedent illum. Et edent carnes nocte illa assas igni, et ázymos panes cum lactúcis agréstibus. Non comedétis ex eo crudum quid nec coctum aqua, sed tantum assum igni: caput cum pédibus ejus et intestínis vorábitis. Nec remanébit quidquam ex eo usque mane. Si quid resíduum fúerit, igne comburétis. Sic autem comedétis illum: Renes vestros accingétis, et calceaménta habébitis in pédibus, tenéntes báculos in mánibus, et comedétis festinánter: est enim Phase Dómini”.

[In quei giorni disse il Signore a Mosè ed Aronne nella terra di Egitto: questo mese sarà per voi il principio dei mesi, il primo dei mesi dell’anno. Parlate a tutta l’adunanza dei figliuoli d’Israele, e dite loro: Il decimo giorno di questo mese, prenda ciascuno un agnello per famiglia e per casa. Che se il numero delle, persone è insufficiente per mangiare tutto l’agnello, inviterà, il suo vicino di casa, in modo che si abbia il numero sufficiente per consumare l’agnello. Questo poi sarà senza macchia , maschio, di un anno; e con lo stesso rito prenderete anche un capretto. E serberete l’agnello fino al giorno quattordicesimo di questo mese; e tutta la moltitudine dei figliuoli d’Israele lo immolerà alla sera. E prenderanno del sangue suo e lo metteranno su ambedue gli stipiti della porta e sull’architrave della porta delle case nelle quali lo mangeranno. E quella notte mangeranno quelle carni, arrostite al fuoco, con pani azzimi e lattughe selvatiche. Di esso non mangerete niente di crudo, o cotto nell’acqua, ma soltanto arrostito col fuoco; mangerete anche il capo, i piedi e le interiora. Niente di esso deve avanzare per il mattino; se qualche cosa ne avanzasse lo brucerete nel fuoco. E lo mangerete in questo modo; avrete i fianchi cinti, le scarpe ai piedi, e i bastoni in mano, e mangerete alla svelta perché è la Phase (il passaggio) del Signore.]

-Profezia X-

Jon. III, 1-10

“In diébus illis: Factum est verbum Dómini ad Jonam Prophétam secúndo, dicens: Surge, et vade in Níniven civitátem magnam: et prædica in ea prædicatiónem, quam ego loquor ad te. Et surréxit Jonas, et ábiit in Níniven juxta verbum Dómini. Et Nínive erat cívitas magna itínere trium diérum. Et cœpit Jonas introíre in civitátem itínere diéi uníus: et clamávit et dixit: Adhuc quadragínta dies, et Nínive subvertétur. Et credidérunt viri Ninivítæ in Deum: et prædicavérunt jejúnium, et vestíti sunt saccis a majóre usque ad minórem. Et pervénit verbum ad regem Nínive: et surréxit de sólio suo, et abjécit vestiméntum suum a se, et indútus est sacco, et sedit in cínere. Et clamávit et dixit in Nínive ex ore regis et príncipum ejus, dicens: Hómines et juménta et boves et pécora non gustent quidquam: nec pascántur, et aquam non bibant. Et operiántur saccis hómines et juménta, et clament ad Dóminum in fortitúdine, et convertatur vir a via sua mala, et ab iniquitáte, quæ est in mánibus eórum. Quis scit, si convertátur et ignóscat Deus: et revertátur a furóre iræ suæ, et non períbimus? Et vidit Deus ópera eórum, quia convérsi sunt de via sua mala: et misértus est pópulo suo, Dóminus, Deus noster”.

[In quei giorni il Signore per la seconda volta parlò a Giona profeta e disse: Alzati e va a Ninive città grande, e predica ivi quello che io dico a te. E si mosse Giona e andò a Ninive secondo l’ordine del Signore. Or Ninive era una città grande che aveva tre giornate di cammino. E Giona incominciò a percorrere la città per il cammino di un giorno e gridava e diceva: Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta. E i Niniviti credettero a Dio; e intimarono il digiuno e si vestirono di sacco tanto i grandi quanto i piccoli. E fu portata la nuova al re di Ninive: ed egli si levò dal suo trono e gettò via le sue vesti e si vestì di sacco e si assise sopra la cenere. E pubblicò e intimò in Ninive quest’ordine del re e dei suoi principi: Uomini e bestie, bovi e pecore non mangino niente, non vadano al pascolo, e acqua non bevano. E si coprano di sacco gli uomini e gli animali, e gridino verso il Signore con tutta la loro forza e si converta ciascuno dalla sua cattiva vita e dalle sue opere inique. Chi sa che Dio non si rivolga a noi e ci perdoni: e calmi il furore dell’ira sua, e così non ci faccia perire. E Dio vide le opere loro e come si erano convertiti dalla loro mala vita, ed ebbe misericordia del suo popolo il Signore Dio nostro.]

-Profezia XI-

Deut. XXXI, 22-30

“In diébus illis: Scripsit Móyses canticum, et dócuit fílios Israël. Præcepítque Dóminus Josue, fílio Nun, et ait: Confortáre, et esto robústus: tu enim introdúces fílios Israël in terram, quam pollícitus sum, et ego ero tecum. Postquam ergo scripsit Móyses verba legis hujus in volúmine, atque complévit: præcépit Levítis, qui portábant arcam fœderis Dómini, dicens: Tóllite librum istum, et pónite eum in látere arcæ fœderis Dómini, Dei vestri: ut sit ibi contra te in testimónium. Ego enim scio contentiónem tuam et cérvicem tuam duríssimam. Adhuc vivénte me et ingrediénte vobíscum, semper contentióse egístis contra Dóminum: quanto magis, cum mórtuus fúero? Congregáte ad me omnes majóres natu per tribus vestras, atque doctóres, et loquar audiéntibus eis sermónes istos, et invocábo contra eos cœlum et terram. Novi enim, quod post mortem meam iníque agétis et declinábitis cito de via, quam præcépi vobis: et occúrrent vobis mala in extrémo témpore, quando fecéritis malum in conspéctu Dómini, ut irritétis eum per ópera mánuum vestrárum. Locútus est ergo Móyses, audiénte univérso cœtu Israël, verba cárminis hujus, et ad finem usque complévit.”

[In quei giorni Mosè scrisse un cantico e lo insegnò ai figli di Israele. E il Signore diede i suoi ordini a Giosuè figlio di Nun e gli disse: «Fatti coraggio e sii forte: tu introdurrai i figli d’Israele nella terra che ho loro promessa, io poi sarò con te». Or quando Mosè ebbe finito di scrivere le parole di questa legge in un libro, diede ordine ai leviti, che portavano l’arca del patto del Signore: «Prendete questo libro e mettetelo in un lato dell’arca del patto del Signore Dio vostro, che vi rimanga come testimonio contro di te, ; perché ben conosco la tua ostinazione e la tua durezza di testa. Se, mentre sono ancor vivo e cammino con voi, siete stati sempre ribelli contro il Signore; quanto più dopo la mia morte! Radunate presso di me tutti gli anziani di ciascuna delle vostre tribù, e i vostri prefetti, che pronunzierò dinanzi a loro queste parole, chiamando a testimonio contro di loro il cielo e la terra. Poiché so bene che dopo la mia morte agirete iniquamente, uscendo ben presto dalla strada che vi ho prescritta; e vi cadranno addosso i mali negli ultimi tempi, allorché avrete fatto il male nel cospetto del Signore, provocandolo a sdegno colle opere vostre». Mosè quindi pronunciò e recitò sino alla fine le parole di questo cantico mentre tutto Israele stava ad ascoltarlo.]

-Profezia XII-

Dan. III, 1-24

“In diébus illis: Nabuchodónosor rex fecit státuam áuream, altitúdine cubitórum sexagínta, latitúdine cubitórum sex, et státuit eam in campo Dura provínciæ Babylónis. Itaque Nabuchodónosor rex misit ad congregándos sátrapas, magistrátus, et júdices, duces, et tyránnos, et præféctos, omnésque príncipes regiónum, ut convenírent ad dedicatiónem státuæ, quam eréxerat Nabuchodónosor rex. Tunc congregáti sunt sátrapæ, magistrátus, et júdices, duces, et tyránni, et optimátes, qui erant in potestátibus constitúti, et univérsi príncipes regiónum, ut convenírent ad dedicatiónem státuæ, quam eréxerat Nabuchodónosor rex. Stabant autem in conspéctu státuæ, quam posúerat Nabuchodónosor rex, et præco clamábat valénter: Vobis dícitur populis, tríbubus et linguis: In hora, qua audiéritis sónitum tubæ, et fístulæ, et cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, et univérsi géneris musicórum, cadéntes adoráte státuam áuream, quam constítuit Nabuchodónosor rex. Si quis autem non prostrátus adoráverit, eádem hora mittétur in fornácem ignis ardéntis. Post hæc ígitur statim ut audiérunt omnes pópuli sónitum tubæ, fístulæ, et cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, et omnis géneris musicórum, cadéntes omnes pópuli, tribus et linguæ adoravérunt státuam auream, quam constitúerat Nabuchodónosor rex. Statímque in ipso témpore accedéntes viri Chaldæi accusavérunt Judæos, dixerúntque Nabuchodónosor regi: Rex, in ætérnum vive: tu, rex, posuísti decrétum, ut omnis homo, qui audiérit sónitum tubæ, fístulæ, et cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, et univérsi géneris musicórum, prostérnat se et adóret státuam áuream: si quis autem non prócidens adoráverit, mittátur in fornácem ignis ardéntis. Sunt ergo viri Judæi, quos constituísti super ópera regiónis Babylónis, Sidrach, Misach et Abdénago: viri isti contempsérunt, rex, decrétum tuum: deos tuos non colunt, et státuam áuream, quam erexísti, non adórant. Tunc Nabuchodónosor in furóre et in ira præcépit, ut adduceréntur Sidrach, Misach et Abdénago: qui conféstim addúcti sunt in conspéctu regis. Pronuntiánsque Nabuchodónosor rex, ait eis: Veréne, Sidrach, Misach et Abdénago, deos meos non cólitis, et státuam áuream, quam constítui, non adorátis? Nunc ergo si estis parati, quacúmque hora audieritis sonitum tubæ, fístulæ, cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, omnísque géneris musicórum, prostérnite vos et adoráte státuam, quam feci: quod si non adoravéritis, eadem hora mittémini in fornácem ignis ardéntis; et quis est Deus, qui erípiet vos de manu mea? Respondéntes Sidrach, Misach et Abdénago, dixérunt regi Nabuchodónosor: Non opórtet nos de hac re respóndere tibi. Ecce enim, Deus noster, quem cólimus, potest erípere nos de camíno ignis ardéntis, et de mánibus tuis, o rex, liberáre. Quod si nolúerit, notum sit tibi; rex, quia deos tuos non cólimus et státuam áuream, quam erexísti, non adorámus. Tunc Nabuchodónosor replétus est furóre, et aspéctus faciéi illíus immutátus est super Sidrach, Misach et Abdénago, et præcépit, ut succenderétur fornax séptuplum, quam succéndi consuéverat. Et viris fortíssimis de exércitu suo jussit, ut, ligátis pédibus Sidrach, Misach et Abdénago, mítterent eos in fornácem ignis ardéntis. Et conféstim viri illi vincti, cum braccis suis et tiáris et calceaméntis et véstibus, missi sunt in médium fornácis ignis ardéntis: nam jússio regis urgébat: fornax autem succénsa erat nimis. Porro viros illos, qui míserant Sidrach, Misach et Abdénago, interfécit flamma ignis. Viri autem hi tres, id est, Sidrach, Misach et Abdénago, cecidérunt in médio camíno ignis ardéntis colligáti. Et ambulábant in médio flammæ laudántes Deum, et benedicéntes Dómino”.

[In quei giorni il re Nabuchodonosor fece una statua d’oro alta sessanta cubiti, larga sei cubiti e la fece alzare nella campagna di Dura, provincia di Babilonia. E così il Re Nabuchodonosor mandò a radunare i satrapi e i magistrati e i giudici e i capitani e i dinasti e i prefetti e tutti i governatori delle Provincie affinché tutti insieme andassero alla dedicazione della statua alzata dal re Nabuchodonosor. Allora si radunarono i satrapi e i magistrati e i giudici e i capitani, e i dinasti, e i grandi che erano costituiti in dignità, e tutti i governatori delle Provincie per andare tutti insieme alla dedicazione della statua, eretta da Nabuchodonosor. E stavano in faccia alla statua alzata dal re Nabuchodonosor: e l’araldo gridava ad alta voce: A voi si ordina, popoli tribù e lingue che nel punto stesso in cui udirete il suono della tromba e del flauto, della cetra, della zampogna, del saltero, del timpano è di ogni sorta di strumenti musicali, prostrati adoriate la statua d’oro eretta dal re Nabuchodonosor. Se alcuno non si prostra e adora, nello stesso momento sarà gettato in una fornace di fuoco ardente. Poco dopo, dunque, appena che i popoli tutti udirono il suono della tromba, del flauto, della cetra, della zampogna, del saltero, del timpano e di ogni genere di strumenti musicali, tutti senza distinzione di tribù e di lingua prostrati, adorarono la statua d’oro alzata dal re Nabuchodonosor. Subito, in quel punto stesso andarono alcuni uomini Caldei ad accusare i giudei e dissero al re Nabuchodonosor: Vivi, o re, in eterno; tu, o re, hai fatto un decreto che qualunque uomo che avesse udito il suono della tromba, del flauto, della cetra, della zampogna, del saltero, del timpano e di ogni sorta di strumenti musicali si prostrasse e adorasse la statua d’oro: che se alcuno non si prostrasse e adorasse, fosse gettato in una fornace di fuoco ardente. Vi son dunque tre uomini giudei i quali tu hai deputati sopra affari della provincia di Babilonia: Sidrach, Misach e gli Abdenago; questi uomini han dispregiato, o re, il tuo decreto: ai tuoi dei non rendono culto, non adorano la statua d’oro, alzata da te. Allora Nabuchodonosor pieno di furore e d’ira, ordinò che gli fossero condotti Sidrach, Misach e Abdenago; i quali furono condotti al cospetto del re. E parlò Nabuchodonosor re, e disse: È vero, o Sidrach. Misach e Abdenago, che voi non rendete culto ai miei dei e non adorate la statua d’oro che io ho eretta? Ora dunque se voi siete a ciò disposti, in quel momento in cui udirete il suono della tromba, del flauto, della cetra, della zampogna, del salterio, del timpano, e ogni genere di strumenti musicali, prostratevi e adorate la statua che io ho fatta che se non l’adorerete in quel punto stesso sarete gettati in una fornace di fuoco ardente: e quale è il Dio che vi sottrarrà al mio potere? Risposero Sidrach, Misach e Abdenago e dissero al re Nabuchodonosor: Non è necessario che noi ti diamo risposta. Perché certamente il Dio nostro che noi adoriamo, può liberarci dalla fornace di fuoco ardente e sottrarci al tuo patere, o re. Ma se anche non lo volesse fare, sappi, o re, che non rendiamo culto ai tuoi dei e non adoriamo la statua d’oro da te eretta. Allora Nabuchodonosor entrò in furore, e la sua faccia cambiò di colore verso Sidrach, Misach e Abdenago, e comandò che si accendesse il fuoco nella fornace sette volte più dell’usato. E ad uomini fortissimi del suo esercito diede ordine che legassero i piedi di Sidrach, Misach e Abdenago, e li gettassero nella fornace di fuoco ardente. E tosto, questi tre uomini legati nei piedi, avendo, i loro calzoni e tiare e i loro calzari e le loro vesti, furono gettati in mezzo alla fornace di fuoco ardente: poiché il comando del re non ammetteva indugi, e la fornace era accesa straordinariamente. Ma la fiamma di, improvviso incenerì coloro che vi avevano gettato Sidrach, Misach e Abdenago: mentre questi tre e cioè Sidrach, Misach e Abdenago caddero legati nel mezzo della fornace ardente. E camminavano in mezzo alle fiamme lodando Dio e benedicendo il Signore.]

OMELIA

di S. S. Gregorio XVII (G. Siri) – (1973)

Dal fuoco si è tratta la scintilla per accendere il cereo pasquale e tutti gli altri ceri. Perché questo? Per indicare che Cristo è luce. Ma questa luce sfavillò pienamente il giorno della Risurrezione e sfavillò perché portava la Risurrezione con sé il documento, la prova per la certezza; la verità non sfavilla se non è certa. La grande certezza di Cristo fu raggiunta per gli altri – la certezza obiettiva, dico – nel momento della Risurrezione, e allora fu luce, quale luce! Allora fu certo che Lui era il Figlio di Dio perché era Signore della vita e della morte, il limite sul quale gli uomini non arrivano. Fu luce perché allora si capì l’amore che Dio ha per le Sue creature. Fu luce perché allora fu certa l’elevazione dell’uomo all’ordine soprannaturale, il Suo intervento nelle anime, lasciando libera la volontà dell’uomo e trattandola e sostenendola con la grazia Sua. Fu luce perché allora si seppe che questa vita dalle apparenze così misere aveva un traguardo eterno: la stessa vita divina. La luce materiale che è stata accesa era ed è soltanto un piccolo, umile simbolo della luce di certezza che si accende nelle nostre anime. – Poi abbiamo sentito leggere tratti della Sacra Scrittura, e così è riapparsa la storia del mondo nelle sue grandi tappe. Anzitutto la creazione. Abbiamo sentito il canto di Mose, il canto lirico dal fondo storico del primo capitolo del Genesi (1, 1-2, 2), il canto che Mose in forma lirica – e questo è necessario tener presente per leggere con chiarezza quel testo – compose per inculcare al popolo suo la prima legge dell’Antico Testamento, la legge del riposo festivo, perché il settimo giorno deve essere dedicato a Dio; non una mezz’ora, un giorno! Quest’obbligo, scritto nella prima pagina della Sacra Scrittura, resta legato alla creazione del mondo, alla ragione per cui noi sussistiamo. Tutte le cose proclamano quello che la creazione esige: che si adori Dio. Poi abbiamo sentito un secondo momento, il momento in cui la storia incomincia a prendere forma e a snodarsi con chiarezza verso Cristo. Abbiamo sentito leggere di Abramo (Gen. XXII, 1-18). Con Abramo la storia si concreta in una linea che mira a Cristo, linea meravigliosa, tutta intessuta di soprannaturale, illuminata dallo spirito profetico. Ma questa storia inizia con un preannunzio del futuro: ad Abramo è chiesto il sacrifìcio del figlio; quando con la volontà egli l’ha fatto, l’angelo l’ha fermato, ma quando Cristo è andato in croce nessun angelo ha fermato gli eventi. Allora era profezia e promessa; sulla Croce si ebbe la magnificenza di questa fedeltà divina alle promesse fatte agli uomini. Poi abbiamo sentito leggere del passaggio del Mar Rosso (Es. XIV e XV, 1), altro punto fondamentale della storia umana, perché in questo punto prese definitivamente forma la storia che camminava verso Cristo. E la prese a questo modo: il mare si aprì ed il popolo camminò tra le due muraglia d’acqua, che si sarebbero dopo del popolo rovesciate sugli Egiziani per mandarli a morte. Così la storia prese forma. Abbiamo sentito poi parlare di questa salvezza attraverso la bocca di Ezechiele (XXXVI, 16-17a. 18-28). – E, finalmente, abbiamo sentito l’epistola (Rm VI, 3-11) e poi il Vangelo (Mc XVI, 1-8): la Resurrezione. La Risurrezione è l’epilogo di questa storia. – Davanti a questo epilogo noi ci chiediamo questo: in che misura la Risurrezione di Cristo si trasferisce a noi? Siamo qui solo per godere di una gloria altrui? No, siamo qui perché la Risurrezione di Cristo si trasferisce anche a noi. Vediamo con che gradi, vediamo in che modi, vediamo con quali traguardi. Si trasferisce a noi quando siamo battezzati, perché allora dall’anima è tolto il seme della morte, il peccato d’origine. Si trasferisce a noi quando noi volontariamente deponiamo il peccato grande e piccolo dall’anima. Il peccato non lo potremo trasferire da noi; lo possiamo trasferire soltanto per la Redenzione che ha avuto la sua manifestazione finale nella Risurrezione di Cristo. E allora attraverso la penitenza, che richiama sempre il Sacramento della Penitenza, risorgiamo dal peccato nel quale eravamo sepolti. E poi questa Risurrezione potrà con la Grazia di Dio camminare con la nostra libertà, portata anche sulle ali del nostro libero volere verso traguardi infiniti, continuando fino all’ultimo dei giorni, l’ultimo, dico, per ciascheduno di noi. E poi l’abito da lavoro sarà deposto, l’abito da lavoro ritornerà alla terra, rientrerà nel cerchio delle cose, in attesa che la Risurrezione di Cristo si trasferisca a noi in modo completo, e questo sarà l’ultimo giorno. Quando l’ifinita ed eterna scienza divina troverà quello che è appartenuto al nostro corpo, ce lo restituirà, restituirà il corpo all’anima e l’anima al corpo nella risurrezione finale. E allora completamente la Risurrezione di Cristo sarà trasferita a noi. – Per il momento siamo a mezza strada di questa grande storia, di cui in questa notte e solo in questa notte vengono riassunti gli elementi fondamentali, le grandi e vere svolte. Siamo a mezza strada, fratelli, e dico che siamo a mezza strada sia per rievocare la certezza della nostra risurrezione finale, ma anche per dire che nella mezza strada che ci rimane possiamo perdere tutto. Che questo non accada! Che per nessuno di noi e per nessuno di quelli che non sono qui possa accadere questo! Preghiamo. Così sia.

 

 

 

Don MINO – segretario di Giuseppe Siri (S.S. Gregorio XVII)

 

 

GIUSEPPE CARD. SIRI

Arcivescovo di Genova

[futuro GREGORIO XVII]

Don Mino

(Mons. Bartolomeo Pesce)

Profilo

Ai Suoi genitori

LO STUDENTE

Don Mino era nato il 5 febbraio 1921 da Giovanni Pesce e da Elvira Mazza a Genova in Via Casaregis 18. Egli avrebbe portato fino alla fine il senso della saggezza pacata di suo padre e la educazione e finezza di sua madre. L’attaccamento ai suoi genitori fu esemplare, senza stornarlo dal suo dovere di sacerdote. Due anni prima della sua morte, un giorno a Villa Campostano, nel giardino restammo soli. Ne approfittai per fare un certo discorso, su un argomento che mi preoccupava da tempo. Volevo studiare per lui una sistemazione, che gli fosse stata congrua. Mi disse: “Non si preoccupi; vede, io non potrei sopportare la morte di mio padre o di mia madre. Del resto sento che morirò giovane”. Visse sempre del ricordo dei suoi nonni paterni e materni con una devozione commovente. Ebbe profondità e finezza di sentimento – tutta sua – verso gli zii e le zie. Il ceppo della famiglia era a Molare presso Ovada; egli non vi era nato, ma quella era la sua patria. Negli ultimi anni volle si comperasse un terreno nel Cimitero, per trovarsi tutti uniti dopo la morte. Credo però che il tono e il tipo di questo amore per il natìo loco si potrà capire quando la sua figura sarà più completamente delineata. – La sua storia comincio a narrarla da un giorno d’Ottobre quando io cominciai la mia missione di Insegnante di religione al Regio Liceo Doria nel 1937. Don Mino apparteneva alla terza B, che occupava al secondo piano l’aula a destra in fondo al corridoio prospiciente la Questura. Rivedo tutti i miei scolari d’allora e li rivedo al loro posto. Mino occupava la seconda fila da sinistra, il secondo banco a destra, che condivideva con Biagio Petraroli. – Feci il primo appello, adagio come era consuetudine, per stamparmi bene in testa nomi e fisionomie in modo da poter ritenere subito tutti, chiamarli senza alcun bisogno di registri o di piante dell’aula. Cominciai la scuola. Prima della fine avevo una certa idea degli scolari, ma tra questi ne notai uno, attentissimo con due occhi benevoli e penetranti che esprimevano un immenso desiderio di imparare quanto insegnavo. Era Mino Pesce. Quello sguardo era tale, che capii subito esserci qualcosa di non comune. Col tempo seppi che era benvoluto da tutti, che la sua casa era facilmente il ritrovo di compagni, che andavano a studiare con lui in gruppo nutrito. Come ero stato solito fare nelle scuole, nelle quali avevo prima insegnato, diedi inizio al “Focolare”, per curare meglio fuori della scuola l’anima di quei ragazzi. Corrispondevano in modo commovente. Il luogo di incontro era la mia camera in Seminario, nel corridoio dei Superiori, immediatamente prima della Tribuna della Cappella. Sapevo che i ragazzi hanno una immensa sete di verità e di giustizia, di ideali. Il focolare visse sempre per quella grande sete. Sapevano che eravamo in Seminario, che bisognava rispettare il silenzio. Arrivavano al sabato nel pomeriggio, camminavano in punta di piedi, perché bisognava passare davanti alla porta del Rettore. Nella mia camera ci stavamo assiepati in più di trenta, seduti su tutti i mobili in qualche modo senza alcun chiasso. Per anni sono venuti e non hanno mai disturbato nessuno, tanto che io non ebbi mai rimproveri o proibizioni. Dopo che si era tra loro fondata una specie di Società di san Vincenzo de Paoli, si faceva la raccolta e io conservo ancora la busta di panno azzurro che serviva a deporvi i denari. L’anima di questo focolare era don Mino. – Sui suoi compagni aveva un prestigio singolare che non venne mai meno. Il segreto di questo prestigio era la chiarezza del suo contegno, la finezza della sua educazione, l’equilibrio dell’anima sua, la prontezza a fare quello che potesse essere utile agli altri. La sua fu la classe che ricorderò di più: una parte arrivò senza spinte alla Comunione quotidiana, che comportava naturalmente il sacrificio di una molto sollecita levata. I più facevano la Comunione festiva. Ancora oggi il ricordo di quella classe non abbandona quelli che vi appartennero. – I professori erano persone per bene: due – che non sono più – sono particolarmente ricordati: il Prof. Savelli di filosofia e la Signora Settignani di matematica e fisica. Il primo era ammirato per la sua dirittura e per la forza educativa che sapeva infondere nel suo insegnamento. Aveva la statura da grande professore universitario e lo sarebbe certamente stato se si fosse piegato alla moda politica del tempo. Gli fui amico, lui frequentava per anni i Corsi di Villa Maria, nella onesta ricerca della Fede. Durante la guerra, mi pare nel 1942, verso l’estate mi giunse da lui, da Ancona, una cartolina in cui mi annunciava che si era confessato e comunicato. Era quello che attendevo: dopo un mese era morto. Pensando al Prof. Savelli ho sempre pensato essere impossibile che un uomo veramente onesto e desideroso della giustizia non arrivi alla Fede. Quest’uomo ebbe una influenza fondamentale sulla onestà di don Mino: egli lo venerò sempre e spesso di lui si parlava insieme. – La seconda era una donna unica: nubile splendida insegnante, severa, costituiva il terrore delle reclute del Liceo. Il terrore si tramutava presto in rispetto e in serietà di studio. Eppure era una santa donna: viveva leggendo le opere di Santa Teresa. A me veniva a chiedere notizia della salute di questo o quello; temeva che qualcuno patisse per mancanza di mezzi e non voleva mostrare a nessuno che aveva il cuore buono. Più di una volta sono stato strumento della sua carità accuratamente nascosta. Dava un tono a tutta la scuola. Anche questa insegnante ebbe una notevole influenza sulla formazione di don Mino. Fu da studente che lui rivelò la singolarissima capacità di fondere gli animi, di amalgamarli. Lui forse non se ne accorgeva, ma era la sua personalità buona ad imporsi. – Studiava con profondità ed allargava notevolmente la sfera di quello che imparava a scuola. Era un lettore formidabile specialmente nel settore letterario e filosofico. Alcuni compagni facevano con lui un gruppo speciale, che non si accontentava dello studio scolastico. È facile che in studenti così fatti venga a preponderare la cultura nozionistica ed altrettanta coscienza di sapere tutto. Non direi che questo possa pensarsi di quel gruppo, ora che esiste la controprova data nella vita. Per don Mino non fu certamente così. Io l’aiutavo, ma certamente egli si costruì un casellario logico mentale, nel quale le nozioni trovavano giusta collocazione per una costruzione più legata ed una sintesi più alta. Di questo dovrò parlare ancora. Nella lettura aveva il gusto delle opere che restano ed appunto perché restano si chiamano “classici”. Lo attraevano profondamente le grandi idee e le grandi sintesi. Prima ancora che in lui si manifestassero chiari i segni di una vocazione al sacerdozio, la struttura era fatta. È difficile che gli studenti si facciano delle strutture portanti ed evitino la più antipatica delle presunzioni. – Naturalmente tutto questo si perfezionò col tempo allorché entrò in Seminario e quando cominciò egli stesso l’insegnamento. Tutte le mattine era puntuale nel coretto di Santa Zita, ove io celebravo la Santa Messa alle otto.

Dopo, la scuola.

Ho sempre creduto per esperienza alla efficacia dei ritiri minimi. Li volevo in un ambiente monastico, perché avevo osservato che erano incomparabili aiuti, la consuetudine dei monaci, la divina liturgia, il canto corale, i pasti presi in silenzio insieme alla comunità. Quasi sempre i ritiri minimi, nel tempo al quale mi riferisco, si tenevano per i miei alunni alla Abbazia benedettina di San Nicolò del Boschetto. Più tardi ci si trasferiva a Sant’Andrea di Cornigliano. Le vere tappe della formazione e della vocazione di don Mino sono stati questi ritiri. Li predicavo io, facevo fare l’esame di coscienza, partecipavamo al Coro. Si finiva verso sera, prima o dopo a seconda dei casi, ma in modo che non si annoiassero mai e partissero coll’animo contento, disposti a ritornare. – Alla domenica e alle feste era sempre fedelissimo al canto dei Vespri all’Apostolato Liturgico. Viveva ancora mons. Moglia e tutti noi eravamo attratti nell’alone di quell’uomo incomparabile ed indimenticabile. Mancavamo solo quando si andava ad occuparci dei poveri nel Ricovero municipale di Borzoli. Là ci dividevamo per visitare e portare soccorsi alle diverse famiglie. Poi insieme scendevamo a piedi attraverso Coronata a Cornigliano. Erano ben più contenti che se si fossero divertiti e lo dicevano chiaro. – Le vacanze hanno una loro importanza nella breve storia che narro. Mettevo insieme un gruppetto di amici di diversa età (il più anziano, il caro signor Stefano Parodi, aveva quasi settant’anni) sceglievo la località alpina, organizzavo tutto, gite comprese e si partiva. Diversi alunni cominciarono ad unirsi a noi: il gruppo era il più eterogeneo che si potesse immaginare, preti, laici, vecchi e giovani, eppure ancora oggi ripenso con nostalgia al signor Stefano Parodi il più arguto e sereno, singolarmente saggio. Queste vacanze nella amabile mista compagnia, mi permettevano di curare meglio dal punto di vista spirituale e intellettuale il gruppetto degli studenti. Di questo gruppetto Mino era il capo ed anche il più interessato. Fu in queste vacanze che egli con una singolare tenacia, mise a punto la costruzione filosofica e lo fece in modo tale da poterne essere poi maestro a molti altri e da poter dare una particolare e forse unica caratteristica alla sua scuola d’Arte in Seminario. – Afferrava, assimilava, godeva della certezza conquistata e la sapeva comunicare ad altri. Quando si trattava di entrare in Seminario per la Teologia ed egli doveva subire l’esame integrativo di filosofia, feci per lui un riassunto della Metafisica, che in seguito credo sia servito a molti altri. Le nostre campagne oscillavano dal Trentino a Courmayeur, ma la più frequentata restò la colonia P. Semeria a Courmayeur diretta allora dall’indimenticabile Padre Cossio, Barnabita. Non dimenticherò mai più un circolo di studio tenuto in un prato di Dolonne, sullo sfondo delle Gr. Jorasses e nel quale tutti arrivarono a capire l’ammirevole contenuto dello a. 3, c. 3 della parte prima della Somma di San Tommaso. – Don Mino era uno studente al tutto singolare. Era bibliofilo, amante delle nozioni, ma molto più dell’approfondimento razionale sistematico. Obbligava con le sue interrogazioni a mettere a fuoco le questioni, senza mai sbandare. Intellettualmente egli avrebbe portato fino alla fine la fisionomia limpida e sicura del sapere, che lo avrebbe caratterizzato fra tutti. In questo tempo con alcuni indivisibili amici frequentava le migliori manifestazioni d’arte e di cultura che erano allora a Genova ed ho assistito più volte alle nutrite discussioni, che questi ragazzi seri sapevano condurre con competenza e sagacia, dopo quelle manifestazioni. – Oggi occupano tutti il loro posto nella società, ma sono certo che bene spesso ritornano a quei tempi bellissimi, anche se in una cornice di fatti che dovevano ineluttabilmente portare alla seconda guerra mondiale.

LA VOCAZIONE

Non tardai molto a capire che la spiritualità di Mino prendeva un certo indirizzo, scartava passatempi, sceglieva ambienti congeniali ad un certo tipo di vita. Io non parlai mai di quello che mi pareva intuire. Egli era felice di venire nelle solennità a fare il chierichetto all’Istituto Giosuè Signori per ragazze deficienti e abbandonate. Mi occupavo di quell’Istituto in rappresentanza dell’Arcivescovo ed ogni festa vi celebravo io una Santa Messa alle 6,30 del mattino. Penso alle Messe di Natale, che lasciarono a lui un ricordo per tutta la vita. La sua maturazione spirituale limpida e generosa era evidente. Cercò molte volte di incominciare un discorso, che doveva portare a parlare di vocazione. Io feci mostra di non capire. Fu solo all’inizio della terza liceale che egli mi fece il discorso chiaro, al quale non potevo sfuggire. Ci voleva del tempo, bisognava pregare. Intanto la maturazione cresceva, lo spirito di preghiera e soprattutto, di meditazione. Gli dissi che gli avrei comunicata la decisione a Pentecoste. Venisse con me all’Opera Giosuè Signori. Io cantai la Messa. Dopo la Messa, in sacristia gli diedi la risposta: poteva andare avanti nella via del sacerdozio. Era raggiante. Da molto tempo la sua vita sarebbe stata esemplare per il migliore seminarista, da quel giorno, come se avesse dato addio al mondo, la sua vita si affinò e raggiunse una virtù al tutto singolare. Io non ebbi mai ombra di dubbio sulla sua riuscita. Così a Ottobre di quel 1940 entrò nel Seminario Maggiore. I suoi Genitori non lo ostacolarono, pur sentendo il colpo di un inopinato cambiamento di rotta, che poteva sconvolgere i loro piani. Essi erano della sua levatura. Lui sarebbe stato per loro come per la sorella di una devozione unica, che diventò più splendente ancora col passare degli anni. Essi ritrovarono sempre in lui con una chiarezza pura il loro bambino d’un tempo. Ebbe appena, si può dire, la gioia di vederli sistemati a Pegli e quella casa porta in tutto l’impronta del suo gusto. Più tardi i suoi nipoti avrebbero avuto in lui uno zio indimenticabile, proprio per la levatura spirituale. – Mi sono chiesto molte volte quali potessero essere le lontane cause di quella vocazione, che come tutte le vere vocazioni, viene da Dio. Ma egli parlò sempre soprattutto del suo nonno paterno: lo ammirava, l’esempio di lui gli era guida, le sue massime luce. Probabilmente il merito dei padri aveva la sua parte in tutta questa vicenda. Così cominciò con entusiasmo lo studio della Teologia. La assimilò come ho visto accadere a pochi. Non sfarfallò mai nella gustosa e facile bibliografia. Approfondiva tutto e talvolta colle debite licenze faceva excursus più ampi della scuola. Egli vagliò veramente tutto il pensiero moderno alla luce della teologia, raggiungendo una meravigliosa precisione in tutto, quella che lo avrebbe reso ammirato e carissimo tra i suoi futuri alunni del Doria. – Lo ebbi alunno in primo anno per la sola Eloquenza, poi per tutto il corso della Teologia Speciale. Visse la Teologia come una contemplazione continua e come la luce per capire e misurare qualunque altra cosa. Raggiunse una sicurezza che gli permetteva di conoscere senza esitazioni o danno qualunque manifestazione del pensiero moderno. Il cammino della sua vocazione fu un cammino luminoso e sereno.

LO STATO DI SALUTE

Questo costituisce una componente veramente principale della Sua vita. Da ragazzo ebbe qualche indisposizione, ma in sostanza era un ragazzo normale e resistente. Fanciullo di poco più che dieci anni, passò diverse vacanze a Cortina d’Ampezzo. Là, da solo, girò tutte le montagne. Al sentirgli narrare le sue prodezze e la resistenza dimostrata, pareva incredibile non gli fosse successo qualcosa di grave. Egli poteva parlare di tutta la conca Ampezzana con una famigliarità che stupiva. Fu durante la guerra, mentre egli studiava teologia, che cominciò ad apparire quell’esaurimento che avrebbe costituito il merito segreto di tutta la rimanente esistenza. Nel 1942 dopo i gravi bombardamenti a tappeto del 22 e 23 Ottobre il Seminario, non colpito ma danneggiato e divenuto ormai pericoloso, fu chiuso. Poco dopo venne riaperto nei locali allora del Maremonti a Ruta, località che pareva dare una notevole sicurezza in ordine alle possibili operazioni belliche. Là, anche perché l’alimentazione era di guerra, la salute di Mino manifestò quell’abbassamento, dal quale non si sarebbe sostanzialmente rialzato. Fu visitato da un medico estero che gli trovò almeno una dozzina di malattie. La verità era nell’esaurimento nervoso. Il suo sistema neuro vegetativo era in malo arnese e fu il protagonista di una lunghissima passione, sia pure con alti e bassi. Aveva tutti i sintomi, tanto che, a chi non fosse stato edotto, lo avrebbe ritenuto affetto da chi sa quali malanni, mentre il malanno era uno. Tuttavia poté proseguire con una certa regolarità ed arrivò così sereno come sempre e felice alla sacra ordinazione che gli fu conferita nel Santuario dell’Acquasanta il 3 Giugno 1944. Io ero vescovo da un mese; lo chiesi come segretario al card. Boetto, che benevolmente me lo accordò subito. – Due anni dopo, diventato io Arcivescovo, condivise con me le fatiche. Era stremato, tanto che dopo una non lunga permanenza mia in Svizzera a titolo di riposo, decisi di lasciarlo lassù, perché pareva che l’aria e le terapie dessero per lui migliori speranze. Ma anche là i progressi furono insignificanti o assenti del tutto. Da amici di Lucerna venne consigliato di ricorrere ad un Naturarzt dell’Appenzel. Si trattava di un Signore distinto, abitante a Waldstatt, un grazioso villaggio poco distante da Appenzel. Io non sono in grado di giudicare dei metodi seguiti dal Signore di Waldstatt, però Mino seguendo le sue indicazioni riuscì a raggiungere un passabile tenore di vita. Quel bravo uomo lo prediligeva ed egli finché visse, disse di dovere la vita al Naturarzt. Vi sarebbe ritornato poi anche quando questo Signore non esercitava più e ricordo che una volta trovandoci in Svizzera andammo insieme a Waldstatt. Dopo quattordici mesi ritornò in Italia, non perfettamente guarito, ma tale da avere una vita abbastanza normale, anche se sempre più o meno sofferente. – Cominciò una vita, nella quale, pur dimostrando una singolare resistenza, facilmente doveva fare della notte giorno e viceversa con dolori e disturbi di tutti i generi che assiduamente gli tenevano compagnia. Aveva i disturbi più strani, che celava quanto poteva anche a noi di casa. La sua sensibilità gli donò una sofferenza anche per le più piccole cose. Egli celava. Tra l’altro aveva i cinque sensi incredibilmente sviluppati, sentiva e percepiva tutto. Questa situazione di ipersensibilità generale gli rendeva greve quello di cui noi neppure ci accorgevamo. I rumori erano i suoi nemici. Si trovava così esposto a tutti i malanni, che affioravano secondo le stagioni. Di influenze con febbre ne faceva almeno quattro all’anno e quasi mai duravano solo due o tre giorni. Aveva delle prostrazioni che lo facevano privo di forze ed era frequente per lui andare vicino al collasso. La penultima influenza la prese a principio del 1969, fu lunga e se ne liberò in modo soddisfacente con una cura di vaccini. Non c’è merito ad essere sofferente, se manca una accettazione ed una virtù. Egli, nonostante questo, continuava a lavorare e, non solo rappresentava per nulla un aggravio della serenità familiare, ma ne era la luce. La pazienza, la serenità, il sorriso erano lo schermo dei suoi dolori. Questa accettazione del suo stato, assolutamente semplice e senza pose, questa serenità comunicativa a tutti, fatta di Fede e di coscienza, costituisce l’aspetto più grande della sua figura morale. – Bisogna farsi un’idea di quello che lo affliggeva. Per anni ed anni quasi mai mangiò a tavola, tale era la debolezza che lo prendeva. Il pranzo o la cena gli era servita stando lui su una sedia a sdraio per essere in nostra compagnia. E questa era sempre piacevole. Molte volte era costretto a consumare i pasti a letto. Molte notti erano bianche. La ragione di questa debolezza? Si prodigava per tutti e per tutto; anche quando non stava bene, continuava a ricevere, a trattare pratiche. Egli era assolutamente incapace di sbrigare le persone. Doveva servirle tutte fino all’esaurimento; quando era fuori per scuola o per altri motivi facilmente al suo rientro trovava gente che lo aspettava per qualche motivo. Egli, anche sentendosi mancare, senza dare alcun segno di peso o fastidio, ascoltava tutti. Così quando rincasava, non era neppure in grado di mangiare e, spesso doveva attendere sul letto che gli ritornassero le forze. Il sabato era una giornata campale. Nel pomeriggio riceveva nei locali della Segreteria: ascoltava, confessava, consigliava ed erano alunni suoi recenti e lontani, professionisti … Quando rincasava noi eravamo spesso a tavola da un pezzo. – Quando i suoi nervi non reggevano, era per lui un supplizio trattare cogli altri; eppure continuava a ricevere. Il suo ufficio d’arte sacra (egli ne era il titolare) potrebbe raccontare molte cose su questo punto. Parlava poco dei suoi guai; se lo faceva era per rispondere alle nostre affettuose domande o riderci sopra. E quando in casa, tutti, (notare la parola ”tutti”) avevamo qualcosa andavamo da lui. Era il pacificatore di tutte le dure esperienze e di tutte le ansietà. Si rianimava veramente solo in montagna, in alto. Dopo che abbiamo presa l’abitudine di passare le nostre magre vacanze sulle pendici della Bisalta in quel di Peveragno, facilmente di buon mattino, all’alba, partiva per esplorare, cercare sentieri, strade che permettessero le gite oltre i duemila metri. Egli conosceva perfettamente, le valli alpine della provincia di Cuneo e noi abbiamo compiuti degli itinerari noti a pochi, ma scoperti da lui. La sua abitudine contemplativa lo metteva in comunione con tutto: molti animali, piante, fiori. Era felice, allora. E scopriva un’altra caratteristica della sua anima: quella di portare tutto in alto. Nei quattordici mesi in cui tra il 1947-48 restò in Svizzera dove trovò la sua relativa salute, egli conobbe tutto di quel mondo alpino, spesso meraviglioso. Ed imparò anche perfettamente il dialetto tedesco di quei monti. Quella esperienza svizzera deve essere stata assai dura per Lui, ma egli si guardò bene dal metterci a parte delle sue sofferenze: per lui andava sempre bene. I suoi amici svizzeri da allora non l’hanno mai più dimenticato. – Dalla Svizzera ritornò definitivamente sul finire della estate 1948. Nel 1953 ritenni necessario cooptare nella nostra famiglia Arcivescovile un altro giovane sacerdote (don Giacomo Barabino, ndr) che tutti conoscono e stimano. Ma per don Mino questa fu solo la occasione di riempire con altri impegni di pazienza e di carità il tempo che veniva da altri supplito nel lavoro di Segretario. Tempo non ne perse mai. Tutto questo durò, l’ho già detto, per ventotto anni! Il suo peso fu in parte notevole dovuto ai dolori morali. Egli soffriva del male altrui, soffriva dei difetti altrui, partecipava in modo singolare a tutti i dolori che hanno accompagnato il mio ministero (qui, si potrebbe percepire una eco del dramma interiore dell’Arcivescovo, ndr). Questi furono molti e non tanto a causa del Governo della Diocesi, e per le vicende della Chiesa e dell’Italia, per le quali non poteva lasciarmi insensibile la mia appartenenza al Senato della Chiesa stessa. Egli, anche se io non parlavo, indovinava le ombre nei miei occhi e silenziosamente soffriva con me. Soffriva per tutti e spesso era il solo che riusciva ad addolcire l’amarezza di tutti. Lo stato del suo sistema neuro vegetativo faceva rimbalzare nella sua anima paziente i più insignificanti episodi. Alcuni aspetti delle sue sofferenze, per lo più a me nascoste, gli venivano dall’adempimento di taluni suoi doveri … La insonnia aveva il potere di moltiplicargli tutto. Eppure pregava e taceva. Sui suoi guai aveva la capacità di scherzare. Forse lo faceva perché temeva essi pesassero su di noi.

IL SACERDOZIO

Dopo essere stato ordinato all’Acquasanta dal Cardinale Boetto, il giorno appresso 4 Giugno 1944 cantò la Sua prima Messa nella chiesa parrocchiale di Molare. Vi andai e tenni io il discorso. Ricordo che all’inizio della mia predica sentimmo passare con fracasso sulle nostre teste la formazione di bombardieri che, andavano a bombardare Torino. Verso la fine ripassò ancora sulle nostre teste per andare a bombardare Genova nella zona della bassa Polcevera. Era una giornata di eccidio, che a Molare passò serena e luminosa. Io ritornai quel giorno stesso e dovetti lasciare il mio bagaglio a Borzoli, perché oltre era interrotta la linea e, a piedi, me ne andai a Certosa a constatare i disastri, poi a Genova. Egli rimase qualche tempo in famiglia, anche perché un mese dopo dovetti scomparire perché mi si voleva, per lo meno, portare in campo di concentramento. – Don Mino il suo sacerdozio lo realizzò nell’Arcivescovado. Per capire l’anima di questa esistenza sacerdotale bisogna considerare la Sua Messa. La sentiva talmente, vi si addentrava con tale profondità da consumarvi le forze, tanto che molte volte non riusciva celebrare e doveva accontentarsi della sola Comunione. La meditazione e la preghiera duravano, negli intervalli possibili, tutto il giorno. Una volta ad una Superiora che gli riferiva dell’atteggiamento critico di un sacerdote, rispose semplicemente: “Non c’è altro che da pregare”. Questo era il suo atteggiamento costante, che spiega in lui altre cose. Le questioni ecclesiastiche e pastorali specialmente dopo che assunse la difficile Delegazione Arcivescovile per la Università, le risolveva sempre pregando. Era facile a qualunque ora trovarlo nella Cappella dell’Arcivescovado, seduto, colla testa appoggiata sul banco del coro, del tutto immerso nella orazione. Ed a fondamento di quello che faceva come sacerdote metteva la offerta delle sue sofferenze fisiche e morali. Questo mi parve, almeno, di capirlo per quanto egli fosse su questo argomento, estremamente riservato. Preghiera e sofferenza avvolsero il suo sacerdozio e gli diedero le caratteristiche, delle quali dirò appresso. – I suoi contatti con altri, anche quando avevano la apparenza di contatti culturali, d’ufficio, occasionali – ed era sempre di una comunicativa per nulla pesante – avevano uno scopo sacerdotale. Quante sono le persone che per aver avuto a qualunque titolo un contatto con lui hanno riflettuto, hanno trovata una via, hanno cessato di essere anticlericali …? Non saprei dirlo, perché sono molti e lo deduco dai frammentari accenni che arrivano a me. Tutti quelli che non solo lo hanno accostato, ma lo hanno frequentato, sono diventati migliori. Tutto quello che fece, lo fece da sacerdote. – Egli, don Mino, non ebbe mai impegno di parrocchia: né il suo ufficio, né la sua salute glielo avrebbero permesso. Lavorava moltissimo, sorprendeva anzi per la strana resistenza al lavoro; ma il diagramma delle sue forze non combaciava in genere con gli orari. Il suo sacerdozio lo esercitò anzitutto come segretario mio. Non si trattava di un impegno burocratico, come addetto di un sia pure importante ufficio; per lui tutto era un atto ministeriale. Quanto compiva era sempre un atto di Fede e taluni tratti lo davano chiaramente a vedere. L’Arcivescovo lo vedeva coll’occhio della Fede: fino all’ultimo e nonostante le mie reiterate proteste si alzava rispettosamente in piedi ovunque io entrassi. Mai prese confidenza, quella almeno che fa perdere la riverenza. Ogni suo gesto era educatissimo e fine; il contegno diceva chiaro che egli serviva il Signore, non un uomo. – La segreteria di un Vescovo è sempre un posto pericoloso e questo è tanto vero che spesso i segretari, scomparso il Superiore, finiscono ai margini di tutto. La ragione è che per forza di cose possono trovarsi immischiati nei rapporti tra il Vescovo e gli altri, possono venire sollecitati o creduti in modo inopportuno, devono spesso meditare per lasciare fuori questione il loro Superiore. È insomma un ufficio per il quale occorre virtù e saggezza. Don Mino era la discrezione personificata. Nei tanti anni, nei quali mi fu accanto, mai mi rivolse una domanda per sapere quello che avrei fatto, deciso chi avrei nominato o dei segreti di Curia. Queste cose le sapeva dagli altri. Circondava e tutelava la Autorità con una educazione perfetta, con una finezza e delicatezza esimie, con chiunque trattasse egli sapeva che doveva usare tale umanità e tale cortesia (anche con chi non la usava per lui) da trarne prestigio al Superiore. Era il riserbo in persona: mai si permise di dire agli altri quello che veniva a conoscere per ragioni di ufficio. Tutto questo testimoniava non solo di un controllo continuo, ma – come ho già detto – di un movente soprannaturale. Al suo tatto si debbono molte buone figure fatte dalla Autorità. Sapeva trattare con tutti con bontà e decoro e molti Personaggi si sono rallegrati con me per avere un tale segretario. C’erano i viaggi. – Taluni li dovetti compiere all’estero come Legato Pontificio. Il ruolo del segretario per gli alti contatti che si dovevano avere, diventava allora di una singolare importanza. Fu proprio in occasione della mia prima Legazione Pontificia in Spagna che venne nominato Cameriere Segreto di Sua Santità ed ebbe il titolo di “Monsignore”. Egli riusciva perfetto diplomatico, non solo per lo straordinario possesso delle lingue, ma per la affabilità, la cortesia e la intelligenza. In tale qualità mi accompagnò in Spagna e due volte in Belgio. Fu ammirato anche perché in situazioni simili è estremamente facile compiere dei passi falsi. Dopo la mia assunzione al Cardinalato (12 Gennaio 1953) compresi che dovevo prendere contatto e cognizione diretta degli ambienti internazionali. Cominciai una serie di viaggi attraverso i paesi cattolici d’Europa ed attraverso i Paesi di diaspora cattolica. Era preziosissimo don Mino. Egli possedeva perfettamente, parlando speditamente e scrivendo il Francese, l’Inglese, il Tedesco più il dialetto Svizzero. Ero pertanto libero da tutte le noie del viaggio e mi riuscì sempre di mantenere l’incognito ben necessario a chi va per osservare e studiare. La cosa strana era che quando compivamo tali viaggi, sia perché erano quasi sempre al nord ovest o al nord dell’Europa (e a lui il clima continentale o nordico era favorevole), sia per la eccitazione nervosa delle nuove cose da imparare, stava benissimo e poteva, alternandosi con un altro nostro collaboratore (Barabino? ndr), condurre per lunghi tratti la macchina. Io per lui non avevo il fastidio di compitare lingue e di provvedere. Lui mi faceva trovare tutto fatto. Per i sondaggi in ambienti culturali, lui era il compagno ideale. Per le opere d’arte era un vero maestro, data la sua straordinaria competenza in materia. In Inghilterra qualcuno mi chiese perché io avevo con me un segretario inglese; lui! Risposi che era genovese come me, solo parlava la lingua con tale correttezza da far credere che fosse nato a Londra. Bisogna dire che egli aveva una singolare abilità di parlare le lingue estere col più fedele accento dei diversi Paesi. – Questi viaggi con lui li potevo organizzare in modo razionale: molti mesi prima studiavamo tutto quello che poteva sapersi sulla storia, sulla geografia, sulla letteratura, sul diritto del Paese da visitare. L’incognito ci ha sempre protetto a meraviglia se eccettuiamo uno o due casi nei quali fummo in imbarazzo. Un giorno venni riconosciuto da un sacerdote italiano mentre ce ne andavamo con padre Ferrari alla Camera dei Lords a Londra. Me la cavai con una battuta e tutto finì lì. Certo sarebbe stato imbarazzante un cardinale alla Camera dei Lords. – Per don Mino accompagnare me ad acquistare le notizie od informazioni utili al mio ufficio, era sempre un atto sacerdotale. Il nunzio a Vienna del quale fummo ripetutamente ospiti, il genovese Monsignor Dellepiane, era entusiasta del mio Segretario. Anche l’Uditore (agente diplomatico facente parte della Nunziatura ndr); che, diventato a sua volta Delegato Apostolico in Indonesia, precedette di parecchi anni nella tomba don Mino. Come segretario, nel trattare cogli altri, era di una signorilità mai smentita. Credo che molta carità fatta da lui sia nota solo a Dio. Quando nel 1953 venne con noi don Giacomo Barabino (prima volta che lo nomina esplicitamente, peraltro con evidente scarso entusiasmo), per aiutarci e per sostituire don Mino nell’accompagnarmi e nei contatti ordinari, tutto rimase sereno, direi luminoso: la casa arcivescovile fu una vera famiglia. Fino al 1966 il faro della casa restò mio Padre, della cui virtù scriverò a parte; egli amò i miei segretari come figli e ne era riamato. Dopo cena, salvo i frequenti casi nei quali dovevo uscire per ragioni pastorali o dovevo ricevere gente, si stava qualche tempo tutti insieme e quello era l’unico momento di riposo che ci si concedeva dopo le dure e lunghe giornate di lavoro. Le ombre che facilmente sorgevano dai casi della giornata in quel momento, tra tanta serenità si dissipavano. Credo che sia difficile dire che cosa sia stata questa famiglia la quale comprendeva, allo stesso modo, me, mio padre, i collaboratori, chi stava in cucina, chi guidava la macchina. La carità e la serenità giuliva del mio segretario, unita alla singolare presenza di mio padre, (di Barabino non scrive nulla di particolare) hanno creato uno stile, che anche dopo i vuoti tristissimi dura, come se niente fosse accaduto. – L’altro campo della attività sacerdotale di don Mino era la scuola. La fece per molti anni in una o due sezioni, coll’insegnamento della religione al Doria. Negli ultimi anni la lasciò perché troppo onerosa per la sua salute e dati gli altri impegni; fino alla morte invece tenne la cattedra di Arte in Seminario, per la (facoltà di) Teologia. – Per la scuola al Doria, trascrivo qui, quello che scrive uno dei suoi alunni ben certo che interpreta il pensiero di quanti lo ebbero maestro. “Era amico, grandissimo e vero amico e – ciò che più conta – non solo verso le persone che gli volevano bene, applicando così alla lettera l’insegnamento evangelico. Ascoltava tutti, confortava tutti, incoraggiava tutti a guardare con fiducia il giorno seguente. A fondamento di questa sua grande disponibilità verso gli uomini, c’era la sua Fede piena illimitata, illuminata da un pensiero chiarissimo. Essa lo univa a Dio e gli permetteva di vedere negli uomini null’altro che creature Sue, bisognose di comprensione, desiderose di umanità di dignità di verità. Credeva nei suoi studenti liceali, universitari e di tutti esaltava le doti, gli aspetti positivi, mettendo sempre in secondo piano debolezze, mancanze ed altro”. E ancora: “Durante i giorni, che ho vissuto con lui sulle montagne … imparavo sempre cose nuove; mi rendevo conto che ogni minuto trascorso con don Mino era una lezione a livello della Grazia … Per don Mino, animo finissimo, non esisteva il bello fine a se stesso, ma bellezza, armonia, ordine, sintonia, purezza erano doni di Dio a disposizione degli uomini per loro sollievo ed elevazione”. – Ed ancora un ricordo della montagna cuneese: “Partiti da San Giacomo dal sentiero che si stacca dietro la casa di caccia e conduce ai due “gias Colomb”, di qua salimmo per il lago del “Vei del Buc”. Sotto un temporale con tuoni, fulmini e grandine, arrivammo al lago. Entrammo ad asciugarci in un ricovero di pastori, dove c’era un po’ di fuoco, gli levai gli scarponi inzuppati, lo guardai: era felice, con gli occhi radiosi più del solito. In quel momento, per essere arrivato fin lassù, doveva aver capito che poteva dare ancora molto di se stesso …” – Un antico scolaro di don Mino scrive: “ È stato l’unico insegnante del Liceo, che mi abbia lasciato un’impronta. Le doti, che in classe venivano messe più in luce erano la sua serenità, la sua umiltà e la sua scienza. Non ho mai visto Monsignore perdere anche per un solo istante il suo equilibrio; era fermo nei suoi propositi, ma sapeva anche ascoltare e comprendere noi giovani alunni come se avesse potuto scrutare fino in fondo nel nostro animo … Andava sempre al fondo agli argomenti da trattare, ma ci dava la impressione di aver raggiunto noi le conclusioni che ci porgeva. Ci stupiva la sua capacità di assimilare le questioni più disparate e di porgerci risposte chiare e brevi che non lasciavano ombra di dubbio. Aveva una grande erudizione ed una ancor maggiore capacità di far vivere le cose che ci diceva. Ma forse per una dote si distingueva da tutti gli altri …: era l’unico veramente rispettato ed amato, che con la sua stessa presenza ci imponeva una rigida disciplina. – È stato lui il primo insegnante che mi abbia portato ad amare lo studio ed apprendere con umiltà … Era un vero e proprio maestro, colui che trascina con la propria personalità e che non può essere dimenticato da chi lo abbia conosciuto, perché ci ha dato un esempio concreto di quanto si possa e si debba fare”; conosco molti altri compagni suoi ed alunni suoi, che dicono queste cose. Il segreto della scuola? Credo che fosse la sua anima, abitualmente unita a Dio, spoglia di ogni umano interesse e la luminosità interiore che riusciva a mantenere nonostante la prova del dolore e della debolezza continua. Certo in scuola conta l’ingegno e lui l’ebbe, come poche volte ho trovato nella mia vita; si trattava di una intelligenza apertissima, pacata, sicura, nata per la sintesi. I suoi giudizi in materia di pensiero mi hanno spesso meravigliato per la intuizione e per l’equilibrio. Tuttavia questa intelligenza non era sola. Ho trovato pochi uomini, che avessero una cultura varia ed universale come la sua. Non si esibiva mai, ma sosteneva sempre con personaggi di alta cultura una conversazione degna, ferma, illuminante. Quelli che hanno partecipato alle tavole rotonde, guidate da lui, in materia di arte, di scienza e di pensiero lo sapevano bene. Ma la cosa più grande per lui, quella che gli altri intuivano, era che lui insegnava per amore, quello di Dio. Senza una visione della costante altezza di sacrificio e di intenzione dell’anima sua è impossibile spiegare la sua scuola di religione. E le basi messe da lui, in genere resistono. Tutti vedevano che questo giovane sacerdote non aveva nemici, antipatici, avversari. Non che non ne abbia avuti, ma tutto cadeva e svaniva dinanzi alla serenità virtuosa dell’anima sua. – C’era la scuola di arte in teologia. La fece per lunghi anni. Ne fu il fondatore ed ancor oggi non è stato sostituito. Egli aveva in arte una competenza, una cultura ed un discernimento che lo fecero stimare da quanti professionisti ed artisti ebbero a fare con lui nell’ufficio curiale di arte. Per l’arte aveva una predisposizione marcatissima e congeniale. La sua sensibilità estrema gli faceva cogliere con semplicità e naturalezza quello che a molti sfuggiva. Insegnare il criterio, infondere il gusto, svegliare le recondite affinità col bello che gli alunni portavano in sé, gli era facile e quasi immediato. – A questo punto devo soffermarmi, perché una parte non indifferente del suo studio in materia era sul problema filosofico, connesso con l’arte, sulla estetica, sulla teoria del bello. La sua biblioteca d’arte testimonia fin dove sia andato a scovare opere di penetrazione, di valutazione critica, di teoria generale. Egli non poteva concepire l’arte separata dalla filosofia e vedeva nella carenza di obbiettivi principi filosofici le colpe, anche in buona fede di molti artisti alla moda. Sotto questo aspetto la sua cultura, favorita dal pieno possesso delle lingue estere, fu tale che io non ne ho conosciuto una di pari valore. Ho insistito per molti anni perché raccogliesse tutta la fondamentale teoria dell’arte e del gusto in un volume. La sua modestia lo rese sempre attento a non mettersi in mostra ed oggi ci rimane solo la speranza di poter reperire e sistemare le sue carte in modo da stampare, almeno, le sue lezioni. – Egli spaziava da signore su tutti i campi dell’arte, era sensibilissimo alla musica, aveva una stupefacente memoria musicale: per lui l’arte non era una semplice imitazione od espressione, era una vita che assommava tutto. Credo avesse ragione. Per questo mai in arte apparve come il piccolo grammatico dei termini, delle distinzioni, delle catalogazioni; per questo capì fin dove non diventa pazza tutta l’arte moderna. – Credo che se tutto il clero da vent’anni a questa parte ha un gusto più elaborato, lo si debba alla scuola d’arte del seminario fatta da don Mino. La considerazione dell’arte dà un tocco inconfondibile ed insieme rivelatore alla figura di questo sacerdote, perché in fin dei conti la sua inimitabile finezza, la sua educazione, il suo sorriso nel dolore non sono comprensibili affatto senza la presenza di una Suprema Armonia che gli diede fermezza di Fede ed ardore di carità. Noi tutti avevamo la impressione che il suo piano fosse sempre in alto. – Un campo speciale del sacerdozio di don Mino fu la Delegazione Arcivescovile Universitaria della quale fu il primo esecutore ed il primo Delegato. L’Università di Genova, per quanto in qualche settore permeata dalla presenza e dalla azione di buoni studenti cattolici, non aveva una cura spirituale generale, appropriata e diretta. D’altra parte ne era evidente il bisogno: oggi la evidenza è certamente cresciuta. Non si poteva creare una parrocchia della università, perché la grande dislocazione delle facoltà non permetteva una giurisdizione parrocchiale continua, né un solo sacerdote, anche se a tempo pieno coadiuvato da un cooperatore poteva essere sufficiente ai bisogni di una massa, che s’avvicina ormai ai ventimila. Fu così che decisi di istituire una Delegazione Arcivescovile con tutti i poteri e che potesse servirsi dell’opera di numerosi sacerdoti adatti, anche a tempo non pieno. I membri di questa delegazione per evitare questioni giurisdizionali, furono chiamati semplicemente “addetti alla assistenza spirituale degli universitari”. Altri sacerdoti furono aggregati in qualità di “ausiliari”; altri, per la competenza, in qualità di consulenti. Per cementare questo drappello di studio, sull’esempio dell’altro gruppo interessato ai lavoratori, c’era il convegno settimanale del Giovedì nella Segreteria Arcivescovile. Là si studiava, si pregava, si organizzava. Tutto è duro all’inizio. Il peso lo portò tutto don Mino fino alla vigilia della morte. Il suo pensiero era lì. È ovvio che una istituzione simile fosse ritenuta alquanto rivoluzionaria del quieto vivere di tradizioni antiche e di tale stato d’animo si provassero le conseguenze. I colloqui, gli incontri, le ore di conversazione che occuparono il tempo di questo sacerdote sofferente non si possono dire. Certo la sua resistenza, la sua tenacia e la sua pazienza furono in tutto questo eroiche. A me non disse mai male di nessuno – del resto, di chi mai ha detto male questo uomo? – . Per non turbarmi, specialmente in momenti nei quali la mia salute era dolorosamente provata, prospettò sempre quello che era oggetto di gioia e di speranza, senza tentennamenti. Gli era vicino e conforto il buon padre Alberto Boldorini, Barnabita. Tutto il peso lo teneva per sé. Io vedevo e rispettavo il merito della sua virtù. La Delegazione o DAU diventò il centro motore di talune iniziative culturali. Tra queste mi piace annoverare la iniziativa editoriale “Fonti e studi”, che pubblicò documenti originali e studi severi su aspetti interessanti la Storia Ecclesiastica di Genova. Vi collaboravano anzi dirigevano egregi docenti universitari: l’anima con don Mino era il padre Alberto Boldorini. Queste edizioni ebbero dei singolari consensi in Italia ed all’estero. – C’erano le tavole rotonde. Gli elementi della prima e forse della seconda tavola rotonda erano stati raccolti ed animati da un altro benemerito sacerdote. Ma la cosa si affermò splendidamente quando Mino assunse anche questa non comune fatica. Le tavole rotonde radunavano dei competenti su un argomento (urbanistica, arte, scienza, Fede, etc.); i componenti erano pochi, ma il risultato notevolissimo, tanto che mi parve uno degli strumenti più atti all’apostolato di livello. Il nostro intendimento era di arrivare un giorno a stampare gli elaborati di queste tavole rotonde, delle quali mi auguro la resurrezione. Molte volte finivano oltre la mezzanotte ed io non mi accorgevo neppure del ritorno di don Mino. Pensavamo ad una nostra casa editrice, che potrò realizzare quando troverò uomini competenti, disponibili da altri impegni ed obbedienti al pari di Lui. – Il suo apostolato si dilatava in tutte le direzioni, mentre egli stava sempre nella oscurità ed aumentava il peso dei suoi incontri, delle sue conversazioni. Non posso dimenticare che nei primi anni del mio Governo lo volli direttore dell’Opera Giosuè Signori, detta allora “per deficienti e abbandonate”. In seguito alla sua salute dimostrò che non poteva esercitare una tale direzione a distanza e che non la si poteva far combaciare coi suoi possibili orari. Ne lo dispensai con rimpianto, perché la cura di quelle creature l’avevo tenuta io fino alla mia nomina di Arcivescovo, avendola cominciata – me giovanissimo – nell’autunno del 1929. – Questo sacerdozio era illuminato da una pressoché continua preghiera ed era caldo di una intensa carità. Della sua carità ci ha celato tutto quello che ha potuto celare. Ora nelle narrazioni dei molti che lo piangono andiamo lentamente riscoprendo un aspetto, che prima dovevamo solo intuire e ricostruire da casuali elementi. Vi portava una semplicità ed una finezza commovente. – Il sacerdozio di don Mino ha lasciato un singolare rimpianto. La sua finezza aveva risorse commoventi per tutti. Dico per tutti, perché non fece mai differenza tra quelli che lo trattavano bene e quelli che – forse – lo trattavano male. Mai aggressivo, mai reattivo, mai vendicativo: la sua finezza era per tutti. Una luce interiore lo avvolgeva sempre e lontana da ogni discriminazione. Quanti hanno visto arrivare al momento giusto il piccolo dono, la cartolina, la rapida lettera. Fece tante cose, ma come se una regia liturgica lo sovrastasse; fece tutto in ordine al suo sacerdozio. – E questo fece mai pesare a nessuno. Esistono molti che oggi lo rivedono stupiti, in se stessi, come se fosse passato senza fare rumore.

LA INTELLIGENZA

Tutto in don Mino parve qualificato. Una componente era la sua intelligenza Non credo che questo semplice profilo sarebbe sommariamente completo se non la considerassi a parte. Era una intelligenza che voleva la ragione delle cose. Lo constatai subito quando era studente al Doria. Non si accontentava mai della piccola giustificazione di una verità e di un fatto. È per questo che diede basi granitiche alla sua Fede. Ci arrivò presto. Su tutto indagò e discusse, assetato della verità. Ma sulla verità certa, mai tornò indietro. Quando si iniziò per la Chiesa un periodo triste di discussioni e negazioni sulle cose certe, egli vide tutto, sentì tutti, ma non seguì nessun facile profeta. Chi parlava con lui finiva coll’avere – in quasi tutti i casi – (non in tutti purtroppo) la sua certezza irradiante. Era una intelligenza che conduceva diritto alle supreme giustificazioni. E qui sta la ragione della sua sicurezza. Io in questo periodo oscuro ebbi molte e gravi preoccupazioni per gli errori che si andavano insinuando, ma non ebbi mai bisogno di trattarne con lui; egli era già al mio fianco con una intuizione precisa e concludente. Tutte le questioni, anche le più periferiche, con lui o prima o poi risalivano – e spesso si trattava di un baleno – ai supremi principi. Vedeva immediatamente col colpo del maestro le crepe, le illogicità, le contraddizioni, le dispersioni. E sapeva convincere. – La intelligenza di don Mino non cercava la platea. Non ho mai vista la più piccola ricerca dell’effetto, né la più piccola compiacenza di esso quando, indipendentemente da lui, l’effetto c’era. Infatti la conoscenza di lui si diffondeva tranquilla, senza colpi e reazioni. Ho conosciuto pochi che avessero come lui chiara la situazione della cultura moderna, nella cui storia, specialmente se si trattava di arte, egli leggeva sempre la vicenda dei supremi principi. Leggeva moltissimo, ricordava, assimilava ed incasellava subito tutto il puro materiale nozionale. Per questo la conversazione con lui, oltreché piacevole, era sempre illuminante. – Aveva il gusto della letteratura finissimo, era un purista della lingua e dello stile. La ridondanza di questa intelligenza la sentivano sempre e la accoglievano quelli che avevano dimestichezza con lui o con lui vivevano, i suoi scolari soprattutto. Con tutto questo niente c’era in lui dell’intellettualoide (tipo oggi di estrema facilità), il senso pratico non gli fu mai offuscato. Teneva la amministrazione della casa e questo con perfetta accortezza, immediatezza e tatto; nei viaggi io potevo occuparmi di nulla ed attendere solamente allo scopo del viaggio stesso, perché tutto si moveva colla esattezza di un orologio per la organizzazione fatta da lui. – Aveva capacità anche nel disegno e nella pittura. Vi si esercitò in anni lontani e non ignobilmente. Poi non ne fece più nulla; non disse il perché, ma credo che ciò sia accaduto per un suo giudizio di inutilità in ordine al suo ministero sacerdotale. Aveva altro da fare. – Spaziava nei grandi problemi della Chiesa; erano gli unici che potessero interessare. Dalla grandezza di questi problemi e dal modo con cui li impostava si capiva l’altezza del suo ingegno. Spesso, quasi sempre, è l’oggetto trattato dall’intelletto che dà la vera misura del vero intelletto. Mi riesce difficile dire che cosa abbia rappresentato per me, in tempi di vero travaglio, la vicinanza di questa autentica intelligenza. Non gli sfuggivano i dettagli anzi aveva l’occhio di lince per vederli; ma prevaleva l’“insieme”. Per forza della intelligenza, da parte di tutti, il contatto con lui era sempre elevato. Egli era l’autentico “signore” per la sua intelligenza.

LA MONTAGNA

Ne parlo perché era lo specchio dell’anima sua. Ho già ricordato che da ragazzo decenne, ospite dello zio paterno a Cortina d’Ampezzo, ebbe il coraggio di girarsi ripetutamente tutte le alpi ampezzane. Solo. La forza, la linea, la maestà della montagna lo attraevano e lo esaltavano. A poco a poco questo diventò sempre più marcatamente un fatto spirituale. Lo si capiva dal fatto che egli in montagna non aveva alcun bisogno di compagnia. Non che la sopportasse; anzi era un compagno amabilissimo, ma cogli altri in realtà continuava il suo dialogo della montagna. Esultava per la purezza dell’aria, per l’irrompere della natura senza conduzione umana, per il vero silenzio, il più ricco in realtà di arcane melodie. Sono convinto che, specialmente negli ultimi anni, il suo appassionato errare per la montagna fosse fatto di contemplazione e di orazione. Non si trattava di una commozione naturalistica; egli trovava la più pura impronta materiale di Dio. La montagna aveva un potere magico su di lui; svanivano per incanto tutti i limiti impostigli dal suo travagliato sistema nervoso. Per questo lo incitavo ad andare anche quando noi si stava a Genova. Gli orizzonti, i colori, le trasparenze lo mandavano in visibilio e gli facevano dimenticare ogni malanno. Filosoficamente egli era ben certo che “ens et pulchrum convertuntur”. La bellezza della natura non cessava mai di agire su di lui, ma si trattava sempre di un influsso religioso. Se amava la fotografia, questo era certo per fissare volti cari di parenti e di amici, ma era soprattutto per fissare la epopea della montagna. Non aveva importanza per lui che fosse irritata, che fosse percossa dai tuoni e dai lampi: era la montagna e basta. Negli anni in cui si fecero le vacanze nel cuneese, la sua attrattiva era Entraque e di lì la valle di San Giacomo, che lo portava fino ad oltre il padiglione reale di caccia, perché quella valle aveva il Gelas e il Clapier, i soli monti delle Alpi Marittime che conservino veri perenni e consistenti ghiacciai. Ne conosceva i sentieri, i pastori, gli abitanti. Penso che lassù qualcuno lo ricorderà a lungo. Si preoccupava della cioccolata da portare agli amici pastori e credo che se non fosse stato per lasciare noi, lui si sarebbe adattato a viversene lassù, nelle baite. Del resto in quegli intervalli, in cui lui tornava e noi eravamo a Genova, era sempre lassù. – Dopo il primo periodo delle sue sofferenze, fu la Svizzera a dargli una relativa stabilità di salute. La amava ed amava soprattutto i monti. Se poteva raggiungeva i monti sopra Lauterbrunnen – le due meravigliose quinte davanti alle alpi bernesi – per godere della Jungfrau e di tutto il grande ammanto di ghiaccio. Conosceva tutto e finché anch’io per ragioni di quiete ho passato le mie povere vacanze in Svizzera, era lui ad organizzare una meravigliosa varietà con conoscenze perennemente nuove ed entusiasmanti. Io mi occupavo piuttosto di imparare le situazioni e le risorse dei contadini svizzeri, nella vaga e mai soddisfatta speranza di trapiantare qualcosa in Italia: lui vedeva i laghi, i fiumi, i monti. Ricordo una escursione per vedere il gruppo del Silvretta davanti a Davos, coll’attraversamento piuttosto periglioso date le misere condizioni della strada, dell’orrido di Berentritt. Le ultime sue uscite verso la montagna furono ancora una volta nella valle di San Giacomo verso il Gelas e il Clapier. Era felice perché suo cognato e sua sorella nell’assicurarsi un alloggio ad Entraque, avevano pensato a lui riservandogli una stanza. In tal modo egli senza uscire dal caldo ambiente familiare avrebbe potuto facilmente ritirarsi lassù di quando in quando. Purtroppo ne usufruì, come vedremo, una volta solo.

LA MORTE

Don Mino l’attendeva con una certa sollecitudine. Eppure era tranquillo. Me lo aveva detto due anni prima che lui sarebbe morto giovane. Era ormai arrivato al suo meriggio, sofferente e sereno. Io avevo la impressione che tutte le cose di questo mondo, dolori compresi, si fossero ormai distesi in una grande pace. La sua finezza educatissima per noi era commovente. – Lui aveva la cura di amministrare la casa Arcivescovile e questo ufficio comportava i contatti e la cura spirituale delle buone suore, che attendono alla Casa stessa. Vi era assiduo, impegnato; vi portava una gran luce. Quella luminosità serena mi impressionava. Lo trovavo facilmente nella Cappella del Righi, curvo e raccolto in quell’atteggiamento di abbandono che gli era caratteristico. Ora che ho la prospettiva del “poi” capisco che la Provvidenza se lo stava preparando. – Nel Gennaio del 1969 fu colpito dalla influenza. Non c’era alcunché di strano, perché egli era abbonato a tutti i fastidi, che le stagioni portavano con sé. Fece ricaduta e questa fu più lunga del solito. Il Dott. Boggero, suo cognato e suo medico curante, per garantirgli una reale e duratura guarigione pensò di ricorrere alle iniezioni di vaccino. Durarono parecchi mesi, anche dopo la salute recuperata, sotto questo aspetto, pienamente. La vita fluì in modo ordinario. Quando il 3 Giugno di quell’anno egli celebrò il suo giubileo sacerdotale d’argento, stava abbastanza bene rispetto agli anni precedenti. Tutto si chiuse colla celebrazione vespertina nella Cappella del Palazzo Arcivescovile. Erano presenti i suoi amati genitori, la famiglia della sorella coi nipoti; c’eravamo tutti noi. Fu una festa semplice, indimenticabile. Non mancava un gruppo di antichi suoi compagni ed amici. Subito dopo ci trasferimmo alla casa Arcivescovile del Righi. Lui non avrebbe fatto più ritorno al Palazzo Arcivescovile! Le vacanze passarono in modo normale. Don Mino poté ritornare a Peveragno a godersi qualche giorno la montagna. Si arrivò ai Santi. Egli accompagnò la sorella alcuni giorni a riposarsi nella casa di Entraque e subito dopo riprese la vita ordinaria. Si occupava fortemente della organizzazione di quanto gli era affidato. Ma fu questione di pochi giorni: l’influenza lo aggredì nuovamente. Stette alcuni giorni a letto, sempre amorosamente curato dal cognato dottore. Dopo pochi giorni era sfebbrato e tutto parve ritornato alla normalità. Egli riprese la sua consuetudine di portarsi di buon mattino dal Righi sulle alture di Genova, per godere dell’aria pura e fresca: era il fascino della montagna, che aveva sempre un benefico influsso anche sul suo usurato sistema nervoso. Penso che queste uscite mattutine, a lui sì care, abbiano provocato la ricaduta. Si era infatti a metà novembre e cominciava a far freddo. – Alla metà di novembre si rimise a letto e questa volta la febbre venne alta e violenta. Suo cognato lo curava amorevolmente. Eravamo ancora alla villa Arcivescovile del Righi dove egli occupava il piano a tetto. Ci stava lui solo, se lo era arredato e disposto lui, là stava la sua non comune biblioteca. Dalla finestra più che la città vedeva il mare, l’infinito. Noi salivamo lassù solo quando era malato. Era sempre tranquillo, sempre sorridente, grato di qualsivoglia attenzione. Questa volta il male era più serio. Il giovedì 20 Novembre il Dott. Boggero chiese il consulto col Prof. Meneghini. Lo chiamai io stesso al telefono, perché la influenza imperversava in tutta la casa ed io solo ero stato immune dalla influenza. Venne subito; era sera. Il consulto confermava la grande preoccupazione. Quella sera don Mino cominciò ad essere davanti alla morte. Era calmo. Soffriva molto per l’affanno, che facilmente lo coglieva, se qualche poco si sollevava sul letto o scendeva, dopo poco aveva sintomi di collasso. Venne la Suora per l’assistenza anche notturna. Parlava sereno e tranquillo con tutti e sorrideva a tutti. Si capiva che la sua occupazione abituale era la preghiera. In quella malattia breve abbiamo vista veramente l’anima di Mino. La sua finezza, la sua educazione, il suo perfetto equilibrio, la sua pace davanti ad un pericolo che, colla sua intelligenza prontissima, doveva certo capire più di noi. Il preoccuparsi degli altri, il ringraziare per tutto quello in cui lo si aiutava, il suo ragionar tranquillo e sereno dimostrava che da molti anni egli era unito a Dio. Non aveva mai detto male di nessuno, non aveva partecipato a nessuna passione faziosa, aveva coperto il difetto altrui anche quando questo lo faceva terribilmente soffrire. Se l’argomento portava a parlare di aspetti spiacevoli, questi si fondevano sempre in una carità senza limite, mai ostentata e mai pesante. In questi ultimi giorni abbiamo capito il riassunto della sua vita. – Aveva vissuto di Fede, continuamente, mai aveva cercato di apparire, lui, al quale erano tormento per lo stato dei nervi il più piccolo sgarbo, mai se ne era commosso. Si stava accendendo, anche per noi una luce retrospettiva, fatta di cose che una umiltà non comune aveva sempre accuratamente nascosto. È difficile dire quanto amasse suo Padre e sua Madre, la famiglia della sua cara sorella, ma, per non disturbarli e impressionarli ebbe l’eroismo di non chiederne la presenza. Io ero cieco e non pensavo che potesse morire. Lui vedeva. Si arrivò così alla mattina del 24 Novembre. Era un lunedì. Quella mattina salii a salutarlo ancora, prima di andare in Curia: l’affanno era fortissimo (mai lo avevo trovato così) e doveva parlarmi a tratti, sempre calmo e sereno. Quella mattina il Prof. Meneghini chiese la consulenza del Prof. Fieschi. È difficile dire come e con quale affetto questi medici illustri lottarono contro il male. Si trattava di polmonite doppia virale. Fu deciso l’immediato ricovero in clinica. Il Prof. Fieschi chiese in quale clinica volesse andare; egli rispose: “In quella che è più comoda a Lei”. Venne così ricoverato alla clinica di Montallegro. Io ero in arcivescovado per le solite udienze e venni avvertito. Fu un colpo. Subito nel pomeriggio andai a Montallegro, lo trovai sotto la tenda ad ossigeno, più sollevato di quella mattina. Mi chiese: “Ma che cosa dicono che ho, i medici?” Io fui interdetto e risposi con una pia scusa. Capì subito: per un attimo seguì e lesse il mio pensiero, poi evidentemente per non contrariarmi chiese più nulla e continuò a parlare per quanto poteva tranquillamente sorridendo. So che al Padre Cappellano della clinica disse poco dopo: “Non mi lascerete morire senza Sacramenti”. Ci avevo pensato subito ed avevo pregato il Padre Damaso da Celle di amministrargli i Santi Sacramenti. Andò, lo avvertì ed egli non si mostrò affatto sorpreso. Con tranquillità e serenità, con intima devozione ricevette i Santi Sacramenti. Io non riuscivo a persuadermi che il pericolo era veramente mortale, ciò nonostante volli fosse subito provveduto. Ritornai in clinica. C’era allarme tra i medici e venne richiesto il polmone artificiale per permettere al paziente di poter respirare senza troppa fatica. Non so come abbia fatto, ma, Padre Damaso riuscì a far arrivare il polmone artificiale dalla Clinica universitaria. Naturalmente si dovette procedere alla intubazione e da quel momento non passando più l’aria espirata per la gola, il paziente non poté più parlare. Le labbra e la lingua articolavano tutto ma la fonazione, mancando l’aria, non avveniva. Egli continuò a parlare così e a sorridere, sempre perfettamente presente a se stesso; per noi era uno strazio. Ogni mattina si facevano le radiografie. Esse rivelavano che l’area di respirazione dei polmoni si andava progressivamente restringendo per la spaventosa infiltrazione del virus violentissimo. Avrei dovuto capire che moriva, ma io non lo volli capire e continuavo a sperare. Lui sorrideva sempre. Al mattino del mercoledì 26 i medici decisero, per un tentativo disperato, di procedere alla tracheotomia. La lotta era tra il ciclo del virus e le risorse vitali. Se il ciclo del virus si fosse esaurito prima delle risorse vitali, sarebbe stato salvo. Io per questo continuavo fortemente a sperare. Ma, come mi fu spiegato dopo, don Mino non aveva risorse immunitarie sufficienti: ci fosse stato almeno un po’ di essudato polmonare si sarebbe potuto fare la cultura del virus e la vaccinazione (l’unica arma contro quel virus); ma essudato non c’era o non ci fu in tempo utile. Lo rividi dunque col respiratore direttamente applicato alla gola tagliata. Mi parlò a segni delle labbra, che io, stravolto come ero, non potevo capire; ma sorrideva e questo era nella piena coscienza e lucidità, testimone della pace e uniformità alla volontà di Dio, colle quali egli andava incontro alla morte. Gli amici più stretti, il cognato medico, si avvicendavano intorno a Lui, il Padre Damaso, il Padre Boldorini. Nella notte ebbe una agitazione nervosa effetto evidente della asfissia galoppante. Gli fu fatta una iniezione. Si assopì, non rinvenne più e cessò colla coscienza il sorriso. – Al mattino del giovedì 27 fu fatta l’ultima radiografia ed i polmoni apparvero completamente presi. Mi venne immediatamente riferito, ma io impenitentemente continuai a sperare. Fu verso mezzogiorno che mi venne data la terribile notizia. Mino era spirato senza riprendere conoscenza alle dodici meno dieci. Era presente il suo devoto cognato Dott. Boggero e proprio in quel momento sopraggiungeva Padre Boldorini. Diedi ordine che la cara salma venisse immediatamente trasportata e composta nel salone dell’Arcivescovado. Fu così che rividi don Mino morto, rivestito dei sacri paramenti e della casula nel salone poco dopo. Sorrideva ancora. Il concorso del Clero, dei molti scolari, condiscepoli ed amici, per visitare la salma fu imponente e si può veramente dire segnato dal pianto. Arrivarono i suoi genitori. Fu uno strazio: essi erano stati fidenti fino all’ultimo momento. Tutti capivano che avevamo perduto un uomo per nulla comune. I funerali li celebrai io nella Chiesa Metropolitana. Con me concelebrarono i sacerdoti membri della famiglia arcivescovile: Mons. Luigi Cuneo, don Alfredo Capurro Cerimoniere, don Giacomo Barabino segretario. Non invitate, spontaneamente vennero le Autorità. Noi non avevamo fatto l’invito per discrezione. La folla fu grande, la commozione intensa. Io non ebbi la forza di parlare ed il silenzio fu assai più eloquente. I Genitori di Lui, la sorella colla famiglia furono oggetto di una attenzione commossa e affettuosa. Chiesi al Padre di poterlo seppellire nel cimitero di Molare, vicino ai suoi nonni. Del resto Lui, in vita aveva fatto chiaramente capire che desiderava là il luogo del suo riposo. Là aveva trascorse tutte le sue vacanze giovanili, là aveva i ricordi più cari, là avevano vissuto e lavorato i suoi nonni, gli antenati; là restavano parenti. Così il vecchio paese lo riabbracciò e lo tenne con sé. Nella attesa di una sistemazione più acconcia e da Lui sognata, la salma riposa ora in loculo che guarda verso mezzogiorno, verso il sole. Sulla lapide è scritto solo così: Mons. Bartolomeo Pesce. Per XXIII anni segretario dell’Arcivescovado di Genova. 1921 – 1969. – Tutti noi abbiamo la impressione che ci segua dovunque e che ci protegga dal Cielo. Ci volgiamo indietro a guardarlo nel suo insieme. – Era alto di statura, slanciato, la pelle bianca, di capelli neri. I suoi occhi di colore castano avevano una straordinaria capacità di rivelare i sentimenti dell’anima e, per questo, i rapporti di tutti con Lui erano facili, immediati e tendevano a diventare profondi. Guidò nello spirito anime giovanili e tutti i suoi antichi discepoli del Doria portano e porteranno con sé la impronta di una profondità, onestà e serietà cristiane, quale da lui ebbero. I suoi condiscepoli lo riguardarono come un maestro ed era per loro un punto di incontro come se non fossero passati gli anni. I confratelli lo sentirono passare accanto a loro umile, sincero, sempre pronto a tenersi in disparte e ad essere amico servizievole. Nessuno mai si accorse esternamente che era il Segretario del Cardinale Arcivescovo di Genova. Stava alle mie spalle e vi si nascondeva. Mai pesò su nessuno. – Portava con sé la sua pena procuratagli costantemente dal suo sistema neuro vegetativo. Questa pena la nascondeva quanto poteva e per gli altri serbava in qualunque momento la giovialità che ha consolato molti. Quando tutti noi (notare il “tutti noi”) si aveva qualche rompicapo si andava da Lui. Allora si raccoglieva, pensava qualche secondo, poi rispondeva, risolveva, incoraggiava, infondeva la gioia. La sua virtù, il suo spirito di orazione che fu in un certo senso continuamente in atto, non erano affatto comuni. Non disse male di alcuno, cercò di capire tutti, fece quanto poté per risparmiare dolori agli altri, o per dirottarne il duro colpo. Ho sentito il dovere di scrivere queste poche pagine, perché molti le hanno invocate e perché molti hanno ancora bisogno di Lui! Rimane un esempio.

 

S. S. GREGORIO XVII (G. Siri): Omelia della DOMENICA DELLE PALME -1970-

S. S. GREGORIO XVII [G. Siri]

Con le letture dalla Sacra Bibbia, in particolare quelle tratte dal Vangelo, col Santo Sacrificio, comincia la grande settimana, la Settimana Santa, nella quale i fedeli sono chiamati a ricordarsi di essere stati redenti e di avere una speranza al di sopra della loro talvolta misera vita unicamente perché Gesù Cristo è andato in Croce ed è risorto. – Il primo brano del Vangelo, cantato prima della processione delle palme, ha ricordato l’ingresso solenne di Gesù in Gerusalemme. Questo ingresso è avvenuto pochi giorni prima della Sua Passione; l’ha voluto Lui. È stata un’affermazione perché il Messia era anche Re, era il successore di Davide, non per esercitare un potere nell’ordine politico, ma perché raccoglieva un’eredità su un piano ben più alto, ad un livello divino. Volle gli onori reali, perché usare quella cavalcatura era allora privilegio dei re; che si stendessero i mantelli per terra, era cosa che accadeva pei re o pei grandi trionfatori. Il canto dei fanciulli: chi mai li aveva insegnato loro? Chi mai? Eppure i fanciulli soprattutto cantarono per Lui. E così il corteo si mosse e così entrò in Gerusalemme. Se qualcheduno aveva da lamentarsi di questo, aveva risposto colle parole del Profeta: “Se qualcheduno tacerà, saranno le lingue degli infanti ad aprirsi” (cfr. Mt XXI, 16). Insomma, ha voluto che esternoamente ci fosse un trionfo. Dopo sarebbe rientrato subito nell’umiltà della Sua evangelica vita e avrebbe salito il Calvario, il vero grande trionfo, del quale aveva detto poc’anzi: “Quando sarò innalzato sul legno, allora trarrò tutto a me stesso” (Gv XII,32). Vi prego di notare questo: Gesù Cristo ha voluto il trionfo, ha voluto gli onori regali, ha voluto la acclamazione, ed è evidente che anche tutte queste cose hanno una funzione nella realizzazione del piano del Dio. – L’ultima lettura è stata lunga, perché si letto tutto il racconto della Passione secondo Marco (XIV, 1-15, 47), non, come accadeva prima, secondo Matteo. E la narrazione più breve quella di Marco. Ma io non richiamo la vostra attenzione sui particolari, perché tutta questa narrazione si stende tra l’uno e l’altro dettaglio, però si compone tutta intorno ai dolori del Cristo paziente e morente in Croce. E allora vi invito ad una considerazione di carattere generale che è questa: per riparare i peccati degli uomini è occorso tanto. Sì, la Croce! Badate bene che sarebbe occorsa anche ci fosse stato un solo peccato tra gli uomini. Non è che questa sovrabbondanza di dolore sia legata al fatto dei molti peccati, ma è legata all’entità del peccato in se stesso, e pertanto la ragione non avrebbe cambiato se il peccato fosse stato uno solo. E allora ritorniamo in noi per accogliere con umiltà, con pazienza, coll’amore, il riflesso che tutto questo deve disegnare nell’anima nostra. Vuol dire che gli atti nostri sono importanti, e forse un atto della vita, un atto di fede che manca a molti di noi nella loro vita, è quello di renderci conto che i loro atti sono importanti, anche se questo piccolo mondo per gli stessi atti non ha che il silenzio e l’oblio. Perché se a ripagare un peccato, atto di volontà, c’è voluta la Morte del Figlio di Dio, vuol dire che il peccato è una cosa grave, ma prima ancora del peccato, che un atto umano è una cosa grave davanti a Dio e cioè davanti a Colui per il Quale soltanto le cose contano. – Il riflesso che accogliamo nella nostra anima, come vedete, è semplice, è apodittico, ma è tremendo: con che sorta di prudenza, di riflessione noi dobbiamo pensare ed agire. Naturalmente tra l’uno e l’altro ci sta di mezzo il parlare, che talvolta sostituisce l’uno e l’altro a torto, perché gli atti dell’uomo prendono sempre la loro potenza da una folgorazione intellettuale interna e da un atto di volontà. Ecco, cari, la prudenza, il ritegno, la riflessione su tutti i nostri atti. Sembra che le cose colino come l’acqua, fluiscano per disperdersi nel gran mare e non è vero. I nostri atti sono importanti. Stiamoci attenti bene. E quando pensiamo, non crediamo di essere autorizzati a pensare come a noi comoda, e quando parliamo, non crediamo di essere autorizzati a parlare come a noi piace, e quando agiamo, non crediamo di essere autorizzati ad agire come a noi porta benessere e gaudio. Davanti a Dio queste cose che noi dimentichiamo, prendono dimensioni alle quali la nostra stessa intelligenza non sa arrivare e allora sia per il peccato a evitarlo, anche piccolo, sia per la virtù, anche piccola da compiere, pensiamoci bene!

MERCOLEDI’ delle CENERI

Benedictio cinerum

Exáudi nos, Dómine, quóniam benígna est misericórdia tua: secúndum multitúdinem miseratiónum tuárum réspice nos, Dómine.

Salvum me fac, Deus: quóniam intravérunt aquæ usque ad ánimam meam.

Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.

Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen

Exáudi nos, Dómine, quóniam benígna est misericórdia tua: secúndum multitúdinem miseratiónum tuárum réspice nos, Dómine.

Dóminus vobíscum. – Et cum spíritu tuo.

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, parce pæniténtibus, propitiáre supplicántibus: et míttere dignéris sanctum Angelum tuum de coelis, qui bene dícat et sanctíficet hos cíneres, ut sint remédium salúbre ómnibus nomen sanctum tuum humilíter implorántibus, ac semetípsos pro consciéntia delictórum suórum accusántibus, ante conspéctum divínæ cleméntiæ tuæ facínora sua deplorántibus, vel sereníssimam pietátem tuam supplíciter obnixéque flagitántibus: et præsta per invocatiónem sanctíssimi nóminis tui; ut, quicúmque per eos aspérsi fúerint, pro redemptióne peccatórum suórum, córporis sanitátem et ánimæ tutélam percípiant. Per Christum, Dóminum nostrum. R. Amen.

[Onnipotente sempiterno Iddio, perdona ai penitenti, sii propizio ai supplicanti: e dégnati di mandare dal cielo il tuo santo Angelo, che bene†dica, e santi†fichi queste ceneri, onde siano rimedio salutare a quanti Ti invocano umilmente, si confessano rei dei loro peccati, li deplorano innanzi alla tua divina clemenza e con, vero dolore e làcrime implorano la tua serenissima pietà: e per l’invocazione del Tuo Santissimo Nome: fa che tutti quelli che saranno cosparsi di queste ceneri in remissione dei loro peccati, ricevano la sanità del corpo e la protezione dell’ànima. Per Cristo, nostro Signore. R. Amen.]

Orémus.

Deus, qui non mortem, sed pæniténtiam desíderas peccatórum: fragilitátem condiciónis humánæ benigníssime réspice; et hos cíneres, quos, causa proferéndæ humilitátis atque promeréndæ véniæ, capítibus nostris impóni decérnimus, bene dícere pro tua pietáte dignáre: ut, qui nos cínerem esse, et ob pravitátis nostræ deméritum in púlverem reversúros cognóscimus; peccatórum ómnium véniam, et praemia pæniténtibus repromíssa, misericórditer cónsequi mereámur. Per Christum, Dóminum nostrum. R. Amen.

[O Dio, che non desideri la morte dei peccatori, ma il loro pentimento: guarda benignamente alla fragilità della natura umana; e queste ceneri, che intendiamo imporre sul nostro capo per umiliarci e meritarci il perdono, Tu dégnati, nella tua pietà, di bene†dirle, affinché noi, riconoscendo di essere cenere e di dover ritornare polvere per colpa della nostra malvagità, meritiamo di ottenere misericordiosamente il perdono di tutti i peccati e il premio promesso ai penitenti. Per Cristo nostro Signore.]

Orémus.

Deus, qui humiliatióne flécteris, et satisfactióne placáris: aurem tuæ pietátis inclína précibus nostris; et capítibus servórum tuórum, horum cínerum aspersióne contáctis, effúnde propítius grátiam tuæ benedictiónis: ut eos et spíritu compunctiónis répleas et, quæ juste postuláverint, efficáciter tríbuas; et concéssa perpétuo stabilíta et intácta manére decérnas. Per Christum, Dóminum nostrum. R. Amen.

[O Dio, che Ti lasci piegare dall’umiltà e placare dalla penitenza, porgi pietoso orecchio alle nostre preghiere, e sui tuoi servi, cosparsi di queste ceneri, effondi propizio la grazia della tua benedizione; riémpili dello spirito di compunzione, esaudisci efficacemente le giuste domande, e le grazie loro concesse réndile in perpetuo confermate e stabili. Per Cristo nostro Signore.]

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui Ninivítis, in cínere et cilício pæniténtibus, indulgéntiæ tuæ remédia præstitísti: concéde propítius; ut sic eos imitémur hábitu, quaténus véniæ prosequámur obténtu.

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Preghiamo. Onnipotente sempiterno Iddio, che ai Niniviti attestasti il loro pentimento con la cenere e col cilicio, e accordasti il: rimedio del tuo perdono, concédici propizio di imitarne gli atti, così da meritare anche noi gli effetti del tuo perdono.

Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. – Amen.

Vangelo del giorno

[S. Matt VI:16-21]

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Cum jejunátis, nolíte fíeri, sicut hypócritæ, tristes. Extérminant enim fácies suas, ut appáreant homínibus jejunántes. Amen, dico vobis, quia recepérunt mercédem suam. Tu autem, cum jejúnas, unge caput tuum, et fáciem tuam lava, ne videáris homínibus jejúnans, sed Patri tuo, qui est in abscóndito: et Pater tuus, qui videt in abscóndito, reddet tibi. Nolíte thesaurizáre vobis thesáuros in terra: ubi ærúgo et tínea demólitur: et ubi fures effódiunt et furántur. Thesaurizáte autem vobis thesáuros in coelo: ubi neque ærúgo neque tínea demólitur; et ubi fures non effódiunt nec furántur. Ubi enim est thesáurus tuus, ibi est et cor tuum.” – R. Laus tibi, Christe!

[In quel tempo: Disse Gesù ai suoi discepoli: Quando digiunate non fate i malinconici, come gli ipocriti, che sfigurano il proprio volto per far vedere agli uomini che digiunano. In verità, vi dico che hanno già ricevuta la loro ricompensa. Ma tu, quando digiuni, profumati la testa e lavati la faccia: che il tuo digiuno sia noto, non agli uomini, ma al Padre tuo celeste, il quale sta nel segreto: e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa. Non cercate di accumulare tesori sopra la terra, dove la ruggine e la tignola consumano, e dove i ladri disotterrano e rubano. Procurate di accumulare tesori nel cielo, dove la ruggine e la tignola non consumano, e dove i ladri non disotterrano e non rubano. Poiché dov’è il tuo tesoro, lì è il tuo cuore.]

Omelia del Santo Padre Gregorio XVII

[–nella cattedrale di Genova, 1974-]

Si compirà tra qualche istante la cerimonia sacra della benedizione e imposizione delle Ceneri. Dobbiamo parlarne. Non possiamo dimenticare il Vangelo che ora è stato letto, traendolo dal cap. VI di S. Matteo. – La cerimonia delle Ceneri che senso ha? Lo indicano esattamente le parole che vengono dette mentre si impongono le Ceneri. Il richiamo della morte dobbiamo farlo; non è gustoso, non è divertente, non è allegro, ed è umano che sia così, ma è doveroso. Il concetto della morte resta davanti a noi, ed è necessario distinguere i due piani nei quali ci può apparire: il piano meramente naturale e il piano soprannaturale. Vedeteli per scegliere. – Sul piano naturale, anche se la fiamma di spirito che portiamo dentro di noi garantisce di per se stessa, al di fuori d’ogni rivelazione divina, la sopravvivenza e l’immortalità dell’anima, sul piano naturale la morte è una barriera, è un terribile mistero, è una fine, si direbbe un brutto scherzo della vita. E quando la si vede su questo piano naturale, la morte può oscurare anche i giorni più belli, anche le più profumate stagioni della nostra esistenza. Ed è per questo che molti non ne vogliono sentire parlare. – Ma vediamola dal punto di vista soprannaturale, cioè come ce l’ha indicata la Rivelazione divina. Il concetto della morte allora è spiegato, perché così ci insegna la Rivelazione divina: con la morte finisce il tempo della prova, cioè la morte è la maturazione finita e immutabile di quello che si è realizzato nella vita, la morte è il momento ultimo nel quale la libertà nostra può essere esercitata sul bene e sul male, nel quale si può peccare, ma nel quale si può meritare. E siccome il peccato è negativo e il merito è positivo, resta della vita soltanto il merito, e allora si capisce che nella vita una sola cosa vale ai fini della nostra persona: il nostro merito personale. Ma questo proietta la felicità, la gloria, la pace nella stessa eternità. – Ecco i due piani. Chi si rassegna o si degrada al primo, soffre di vivere e ha paura di morire. Chi sale veramente al secondo soffrirà, ma meritoriamente, e avrà ragione di aspettarsi una grazia per morire senza paure. Ecco la morte. – La morte è la compagna della nostra vita, la vera compagna, per questo semplice motivo: che si verifica ogni giorno per noi, perché ogni giorno si spegne una particella della nostra capacità biologica e, pertanto, come diceva il poeta latino, “noi moriamo ogni giorno” (Seneca, Lettere a Lucilio). Ogni giorno una foglia cade dall’albero, ogni giorno cade qualche poco della neve dai monti, ogni giorno qualche cosa passa per non ritornare mai più in questa vita. I fiori, che sono l’esplosione della vitalità più bella in natura, sono i più caduchi di tutti. La morte accompagna la vita, ma quando la si vede sul primo piano naturale è odiosa; quando la si vede sul secondo piano soprannaturale – e per vederla bisogna meritarlo: non è un atto semplicemente intellettuale, ma un atto morale -, allora la vita può essere gaudiosa. Ho davanti a me anche molti bambini che per la loro età sono lontani, credono di essere lontani, bambini che si preparano alla prima comunione. Ma il ragionamento fatto per gli anziani vale anche per i bimbi, vale per tutti. Il tempo è quello che è quando è passato, e, nel momento stesso in cui si dice “ora”, il momento presente è passato. Ed è da questo punto che si acquista la serietà su tutta la vita, su tutti gli oggetti che vengono disposti a scelta davanti a noi dalla nostra esperienza; è solo da questo punto che si ragiona bene. Vogliate ricordarlo. – Ora veniamo al Vangelo che abbiamo letto. Dà una delle profonde ragioni per cui si può vivere, e vivere come in vigilia (le vigilie sono migliori delle feste talvolta; qui non è migliore della festa, ma è bella la vigilia; noi viviamo in vigilia del gaudio eterno). Sentite questo Vangelo. Che cosa dice? Gesù parla e parla della rettitudine d’intenzione. A proposito di che? Di tutte le opere buone, e segnatamente a proposito dell’orazione e del digiuno, perché l’ambiente nel quale parlava esigeva un riferimento a questi oggetti. Ma parla della rettitudine d’intenzione; dice: “Sia retta!” Che cosa è l’intenzione? È l’atto della nostra volontà e intelligenza, col quale diamo uno scopo a quello che facciamo: questa è l’intenzione. C’è molta gente per la quale non si può parlare di rettitudine d’intenzione, perché non ha intenzione di niente, non pensa a niente, va avanti con la testa nel sacco; qualche volta pensa che deve superare gli esami a scuola, che deve ottenere questo o quel risultato, che deve pensare ai propri figli. – Ma l’intenzione come organizzazione fondamentale della nostra vita, cioè dare a tutto quello che si fa uno scopo, è faccenda molto dimenticata e che deve essere fortemente ricordata per la ragione che dirò far poco. – Ho detto intenzione, ma quand’è che l’intenzione è retta? Perché si richiede la retta intenzione; Gesù parla per inculcare la retta intenzione. L’intenzione è retta, quando nei nostri scopi non si deforma la finalità naturale di quello che si compie. Se io faccio una cortesia, sarà una cortesia, e la mia intenzione è retta se io intendo essere cortese. Ma se io mi allontano da questo naturale scopo dell’atto di cortesia, e faccio la cortesia per ingannare qualcuno, per prenderlo nella mia rete, io non ho più la retta intenzione. – Ma non basta, non basta perché l’intenzione sia retta; Gesù ce lo dice qui: l’intenzione è retta quando tutte le nostre azioni sono finalizzate verso Dio: allora la vita vale, tutta. Avete l’abitudine di dire le orazioni tutte le mattine e tutte le sere? E nelle orazioni del mattino avete l’abitudine di dare una finalità eterna a tutto quello che farete? Badate che gli uomini di quello che facciamo non si curano; il più di quello che passa nella nostra vita non interessa. – L’unico è Dio al quale interessa quello che facciamo noi. Sappiamolo e non dimentichiamolo mai! Lui solo, il Padre che ci ha creato, si curva sulle azioni anche le minime, anche le più domestiche, le più semplici, le più trite, le più evanescenti. Avete l’abitudine al mattino di offrire tutto quello che farete e tutto quello che soffrirete, sopporterete, protestando che lo farete per amore di Dio? Gesù in questo Vangelo dice che l’intenzione è realmente retta, quando le cose si fanno per Dio, perché le veda Iddio. Non sopprime l’intenzione che è connaturata alle azioni in sé buone, ma questa fondamentale rettitudine deve essere innalzata e completata solo da questa. Viviamo, operiamo perché dobbiamo tornare a Dio, e restituire a Lui la vita, il tempo, le possibilità che nel tempo ha dispiegato dinnanzi alla nostra libera scelta. Ecco cosa ha detto Gesù nel Vangelo: la rettitudine d’intenzione. – Tutti gli insinceri, tutti i bugiardi, tutti gli ipocriti, tutti i manovratori è difficile che riescano a salvare questa rettitudine di intenzione. Ma avete qui la risposta alla morte: quando tutta la vita è dominata da una rettitudine d’intenzione, la morte è soltanto il tempo del raccolto gioioso, nient’altro, è il tempo del premio, è il giorno della vita. E così si vedono le cose dal punto di vista del Vangelo.