L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (10)

R. P. CHAUTARD D. G. B .

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (10)

TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B. 8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALETORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PARTE QUINTA

Alcuni principi ed avvisi per la vita interiore

1.

Alcuni consigli agli uomini di azione per la vita interiore

CONVINZIONI:

Lo zelo non è efficace se non gli si unisce l’azione di Gesù Cristo.

Gesù Cristo è l’agente principale, e noi non siamo altro che i suoi strumenti.

Gesù Cristo non benedice le opere in cui l’uomo confida soltanto nei propri suoi mezzi.

Gesù Cristo non benedice le opere sostenute unicamente dall’attività naturale.

Gesù Cristo non benedice le opere in cui lavora l’amor proprio invece dell’amore divino (P. Desurmont, C. SS. R).

Guai a chi si rifiuta alle opere a cui Dio lo chiama.

Guai a chi s’intromette nelle opere senza assicurarsi della volontà di Dio.

Guai a chi nelle opere vuole comandare, senza dipendere veramente da Dio.

Guai a chi nell’esercizio dell’azione non adopera i mezzi di conservare o di ricuperare la vita interiore.

Guai a chi non sa coordinare la vita interiore con la vita attiva, in modo che questa non danneggi l’altra.

PRINCÌPI:

Principio. — Non bisogna darsi all’azione per pura attività naturale, ma bisogna consultare Dio per potersi rendere la testimonianza che si agisce sotto l’ispirazione della sua grazia e secondo la manifestazione moralmente sicura della sua volontà.

Principio. — È cosa imprudente e dannosa il rimanere troppo a lungo in un periodo di eccessive occupazioni che metterebbero l’anima in uno stato incompatibile con gli esercizi essenziali della vita interiore; allora è il caso, soprattutto per i sacerdoti e i religiosi, di applicare, anche alle opere più sante, il precetto: Erue eum et proiice abs te (Strappalo e gettalo lontano da te (MATT. V, 29). ).

Principio. — Un regolamento che stabilisca l’impiego abituale del tempo, fatto d’accordo con un sacerdote prudente, di vita interiore e di esperienza, si deve imporre anche con la violenza se occorre, all’eccesso sregolato della vita attiva.

Principio. — Per il profitto proprio e per quello degli altri, bisogna prima di tutto coltivare la vita interiore: quanto più si è occupati, tanto più si abbisogna di questa vita. Dunque tanto più se ne deve avere la sete e si devono adoperare i mezzi perché questa sete non sia uno di quei desideri sterili di cui satana si serve per addormentare le anime e mantenerle nell’illusione.

Principio. — Se l’anima si trova per caso, e davvero per volere di Dio, molto occupata e perciò nella morale impossibilità di prolungare le sue pratiche di pietà, essa possiede un termometro infallibile il quale le dice se DAVVERO si mantiene nel fervore. Se davvero essa ha sete di vita interiore, se con tutta la sua buona volontà prende tutte le occasioni per compierne le pratiche essenziali, può starsene tranquilla e deve fare assegnamento sicuro su grazie affatto speciali che Dio serba per lei: essa vi troverà la forza sufficiente per progredire nella vita spirituale.

Principio. — Fintantoché l’uomo di azione non arriva a mantenersi nel raccoglimento e nella dipendenza dalla grazia che lo devono accompagnare dappertutto, si trova in uno stato insufficiente di vita interiore. Per tale raccoglimento necessario, non occorre nessuno sforzo: basta uno sguardo abituale che venga più dal cuore che non dalla mente, uno sguardo sicuro, giusto, penetrante, per vedere se si rimane nell’azione sotto l’influenza di Gesù.

Avvisi PRATICI:

1° Bisogna scolpirsi bene in mente che senza il Regolamento sopra accennato e senza la ferma volontà di attenervisi abitualmente, e particolarmente riguardo all’ORA DI ALZARSI rigorosamente fissata, l’anima NON PUÒ avere una vita interiore.

2° Stabilire come base della vita interiore, come elemento indispensabile, la meditazione del mattino. Santa Teresa dice: « Colui che è già ben deciso di fare a qualunque costo la mezz’ora di meditazione del mattino, è già a metà strada». Senza la meditazione si avrà quasi necessariamente una giornata di tepidezza.

La Messa, la Comunione, la recita del Breviario, le funzioni liturgiche sono miniere incomparabili di vita interiore, le quali si devono sfruttare con fede e con fervore sempre crescenti.

L’esame particolare e l’esame generale devono avere per scopo, come la meditazione e la vita liturgica, l’abitudine della Custodia del cuore con la quale si mette in pratica l’unione del Vigilate e dell’Orate. L’anima attenta a ciò che passa nel suo interno e alla presenza della Santissima Trinità in lei, acquista l’istinto di ricorrere a Gesù in ogni circostanza, ma soprattutto quando vede il pericolo di dissiparsi o di indebolirsi.

5° Di qui nasce un bisogno di pregare continuamente con le comunioni spirituali e con le giaculatorie cosi facili, quando si vuole, anche in mezzo alle occupazioni più assorbenti, e così piacevoli a variare, adattandole agli speciali bisogni del momento presente, alle circostanze attuali, ai pericoli, alle difficoltà, alla stanchezza, alla delusione ecc.

6° Un devoto studio della Sacra Scrittura e specialmente del Nuovo Testamento deve trovare posto ogni giorno, o almeno più volte alla settimana, nella vita di un sacerdote. — La lettura spirituale del pomeriggio è un dovere quotidiano che un’anima generosa non tralascia mai. La mente ha bisogno di mettersi dinanzi alle verità soprannaturali, ai dogmi che generano la pietà e alle conseguenze morali che ne derivano e che tanto facilmente si dimenticano.

7° In conseguenza di questa custodia del cuore che ne sarà come la preparazione remota, la confessione settimanale sarà certamente fatta con sincera contrizione, con vero dolore e con fermo proponimento sempre più leale e risoluto.

8° Gli esercizi spirituali una volta all’anno sono utilissimi, ma non bastano: il ritiro mensile, di un giorno intero, o almeno di mezza giornata, impiegata davvero per rimettere l’anima in equilibrio, è quasi indispensabile per l’uomo di azione.

2.

La meditazione, elemento indispensabile della vita interiore, e perciò dell’apostolato

Un vago desiderio di vita interiore concepito dopo la lettura rapida di un volume, non darebbe NESSUN RISULTATO.  Bisogna che questo desiderio sia fissato con una risoluzione precisa, viva e pratica.  – Molte persone di azione mi hanno domandato che rendessi loro facile il mezzo di effettuare il loro proposito di vita interiore, esponendo alcune risoluzioni generali. Il rispondere a tali desideri vuol dire aggiungere una specie di appendice a questo volume.  Vi rispondo tuttavia volentieri, persuaso che da una parte l’uomo di azione, o sacerdote o secolare, non avrà certo davvero fatto profìtto dalla lettura di ciò che precede, se non è ben deciso di dedicare ogni mattina un po’ di tempo alla meditazione, e che d’altra parte il sacerdote, se vuole progredire nella vita interiore, non può fare a meno di valersi della vita liturgica e di esercitarsi nella custodia del cuore.  Mi pare cosa più pratica l’adottare per questi tre punti la forma di risoluzione personale. Non pretendo d’insegnare un nuovo metodo di meditazione, ma cercherò di estrarre il midollo dai metodi migliori.

RISOLUZIONE DI MEDITAZIONE (1):

(1) Ciascuna di queste tre risoluzioni dev’essere meditata lentamente o, meglio ancora, divisa in più meditazioni: una semplice lettura non basta per trarne profitto.

Voglio essere fedele alla meditazione del mattino.

a) Questa fedeltà è necessaria?

SACERDOTE, io intesi negli esercizi spirituali della mia ordinazione, questa grave parola: Sacerdos alter Christus! Compresi allora che se non vivo specialmente di Gesù, non sono un sacerdote secondo il suo cuore, non sono un’anima sacerdotale.

SACERDOTE, io devo vivere nell’intimità di Gesù; Egli lo vuole da me: Iam non dicam vos servos.. Vos autem dixi amico (Non vi chiamerò più nervi, ma amici – Giov. XV, 15). – MA LA MIA VITA CON GESÙ principio, mezzo e fine, si sviluppa in quella misura in cui egli è la LUCE della mia ragione e di tutti i miei atti interni ed esterni, 1’AMORE che regola tutti gli affetti del mio cuore, la mia FORZA nelle prove, nelle lotte, nel lavoro e I’ALIMENTO di quella vita soprannaturale che mi fa partecipare della stessa vita di Dio.  Ora questa vita con Gesù, ASSICURATA CON LA MIA FEDELTÀ ALLA MEDITAZIONE, senza questa è moralmente IMPOSSIBILE.  Oserò io oltraggiare con un rifiuto il cuore di Colui che mi offre questo mezzo di vivere della sua amicizia!  Un altro aspetto importante, benché negativo, della necessità della mia meditazione è questo: secondo l’economia del disegno divino, essa è EFFICACE contro i pericoli inerenti alla mia debolezza, alle mie relazioni con il mondo, a quei dati miei obblighi. Se faccio la meditazione, sono come rivestito di un’armatura di acciaio e INVULNERABILE ai dardi nemici i quali mi colpirebbero CERTAMENTE senza la meditazione. Perciò molte colpe che non avverto o avverto appena, mi saranno imputate nella loro causa. O meditazione o gravissimo pericolo di dannazione per il sacerdote che è a contatto con il mondo, dichiarava il pio, dotto e prudente P. Desurmont, uno dei più provetti predicatori di esercizi spirituali agli ecclesiastici. – E il cardinale Lavigerie diceva: «Per l’apostolo non vi è via di mezzo tra la santità, se non acquisita almeno desiderata e cercata (soprattutto con la meditazione quotidiana) e il pervertimento progressivo». – Ciascun sacerdote può applicare alla sua meditazione le parole ispirate dallo Spirito Santo al Salmista: Nisi quod LEX TUA MEDITATIO mea est tunc forte periissem in humilitate mea (Se la tua legge non era la mia meditazione, già sarei perito nella mia miseria – Salmo CXVIII, 92). Ora questa legge arriva fino al punto di obbligare il sacerdote a riprodurre lo spirito di Gesù Cristo.

UN SACERDOTE VALE QUANTO LA SUA MEDITAZIONE. VI SONO DUE CATEGORIE DI SACERDOTI:

1° I sacerdoti la cui risoluzione è tale, che la loro meditazione non sarebbe neppure ritardata da pretesti di convenienza, di occupazioni ecc.; soltanto un caso RARISSIMO di forza maggiore la farà rimandare ad altra mezz’ora del mattino, ma nulla più. Questi veri sacerdoti vogliono ottenere dei risultati buoni dalla loro meditazione e vogliono che questa sia distinta dal ringraziamento della Messa, da ogni lettura spirituale e tanto più dalla composizione di una predica. – Essi hanno la santità efficacemente desiderata e finché perseverano così, la loro salvezza è moralmente assicurata.

2° I sacerdoti che avendo preso soltanto una mezza risoluzione, RIMANDANO e perciò omettono facilmente la loro meditazione, ne snaturano lo scopo oppure non s’impongono nessun vero sforzo per riuscirvi. Ne seguirà una fatale tepidezza, con illusioni subdole, con una coscienza addormentata o falsata… Passo che scivola verso l’abisso.  A quale delle due categorie voglio appartenere! Se esito nella scelta, vuol dire che non feci bene gli esercizi spirituali.  – Tutto si collega insieme: se lascio la mia mezz’ora di meditazione, anche la Messa — perciò la mia comunione — sarà ben presto senza frutti personali e potrà divenire imputabile a colpa; la recita penosa e quasi macchinale del Breviario non sarà più la fervorosa e allegra espressione della mia vita liturgica; poca vigilanza, nessun raccoglimento e perciò nessuna giaculatoria; più nulla, purtroppo, di lettura spirituale; un apostolato sempre meno fecondo; non più esame leale delle colpe, meno ancora l’esame particolare; CONFESSIONI PER ABITUDINE E TALORA DUBBIE… in attesa del SACRILEGIO! – La cittadella sempre meno difesa e abbandonata all’assalto di una legione di nemici: prima sono brecce… ben presto saranno rovine…

b) Che cosa dev’essere la mia meditazione?

ASCENSIO MENTIS IN DEUM (L’ascensione della mente a Dio). « Il salire così, dice san Tommaso, essendo un atto della ragione non speculativa, ma pratica, suppone gli atti della volontà ». Per conseguenza: La meditazione è un VERO LAVORO, specialmente per i principianti. — Lavoro per staccarsi un momento da ciò che non è Dio. — Lavoro per rimanere mezz’ora fissi in Dio e per arrivare a prendere un nuovo slancio verso il bene. — Lavoro certamente penoso da principio, ma che voglio accettare generosamente. — Lavoro che del resto sarà presto coronato dalla più gran consolazione di quaggiù, cioè dalla pace nell’amicizia e nell’unione con Gesù.  La meditazione, dice santa Teresa, non è altro che una conversazione amichevole nella quale l’anima parla intimamente con Colui dal quale si sente amata.

CONVERSAZIONE CORDIALE. Sarebbe un’empietà il supporre che Dio, il quale mi dà il bisogno e talora l’attrattiva di questa conversazione, più che non me la imponga, non voglia poi facilitarmela. Ancorché da molto tempo io l’abbia trascurata, Gesù mi chiama teneramente e mi offre un’assistenza SPECIALE per questo linguaggio della mia fede, della mia speranza e della mia carità che dovrà essere, come dice il Bossuet, la mia meditazione. – Vorrò io resistere a questo invito di un padre il quale chiama anche il prodigo ad ascoltare la sua parola, a trattenersi familiarmente con lui, ad aprirgli il suo cuore e ad ascoltare i suoi palpiti?

CONVERSAZIONE SEMPLICE. Sarò schietto: perciò parlerò a Dio da tiepido, da peccatore, da prodigo o da fervoroso. Con l’ingenuità di un fanciullo esporrò lo stato dell’anima mia e parlerò solo il linguaggio che esprime davvero quello che sono.

CONVERSAZIONE PRATICA. Il fabbro ferraio non mette nel fuoco il ferro per farlo diventare ardente e luminoso, ma per renderlo malleabile: cosi pure la meditazione illumina la mia intelligenza e riscalda il mio cuore unicamente perché l’anima mia diventi malleabile, per poterla martellare, togliere i difetti o la forma dell’uomo vecchio e darle le virtù o la forma di Gesù Cristo. Dunque la mia meditazione avrà lo scopo di rialzare l’anima mia uno alla santità di Gesù (Bella espressione di Alvarez de Paz, sul fine della meditazione), affinché Egli la possa formare a sua immagine. Tu Domine Jesu, Tu ipse, manu mitissima, misericordissima, sed tamen fortissima FORMANS et PERTRACTANS cor meum (Tu, o Signore Gesù, Tu stesso con mano dolcissima, misericordiosissima, ma tuttavia fortissima, formi e plasmi il mio cuore (S. Agostino).

c) Come farò la meditazione?

Per mettere in pratica e la definizione e lo scopo, seguirò questa via logica: metterò la mia ragione, ma soprattutto la mia fede e il mio cuore, dinanzi al Signore che m’insegna una verità o una virtù; ravviverò la mia sete di conformare l’anima mia con l’Ideale intravveduto; deplorerò quello che vi è in me di contrario a Lui; prevedendo gli ostacoli, mi deciderò di romperli; ma persuaso che da me non posso fare nulla, con le mie istanze otterrò la grazia di riuscirvi.  Come un viaggiatore spossato e ansante, cerco di dissetarmi… Finalmente VIDEO (Video, io vedo; sitio, ho sete; volo, voglio; volo tecum, voglio con te): vedo una sorgente. Ma essa scaturisce da una rupe scoscesa… SITIO: quanto più guardo quell’acqua limpida che mi permetterebbe di continuare il mio viaggio, tanto più si fa vivo il desiderio, nonostante gli ostacoli, di calmare la mia sete… VOLO: a qualunque costo voglio arrivare a quella sorgente e sforzarmi di raggiungerla; ma purtroppo devo constatare la mia incapacità… VOLO TECUM: arriva una guida; non aspetta altro che le mie istanze per aiutarmi; mi porta persino nei passi difficili, e ben presto io posso bere a lunghi sorsi.  – Cosi sgorgano dal Cuore di Gesù le acque vive della grazia.

La mia lettura spirituale della sera, elemento così prezioso di vita interiore, ha ravvivato il mio desiderio di fare la meditazione al mattino seguente… PRIMA DEL RIPOSO vedo sommariamente, ma in modo preciso e vivo, l’argomento della meditazione (Un libro di meditazioni è quasi sempre necessario per impedire alla mente dì vagare nel vuoto. Molti volumi antichi e moderni presentano tutti i caratteri di veri libri di meditazione e non soltanto di lettura spirituale. Ogni punto contiene una verità evidente presentata con precisione, con forza e con brevità in modo che, dopo la riflessione, chiama il colloquio affettuoso e pratico con Dio. – Un solo punto basta per mezz’ora e si deve riassumere in un testo biblico o liturgico o in un’idea principale adatta al mio stato. Prima di tutto conviene scegliere i novissimi e il peccato, almeno una volta al mese, poi la vocazione, i doveri del proprio stato, i vizi capitali, le virtù principali, gli attributi di Dio, i misteri del rosario o un’altra scena del Vangelo e soprattutto della Passione. Nelle feste liturgiche l’argomento è già chiaramente indicato), come pure il frutto particolare che ne voglio trarre ed eccito dinanzi a Dio il mio desiderio di profittarne.

L’ORA DELLA MEDITAZIONE È GIUNTA (Il Clauso ostio di Gesù m’invita a preferire, per la meditazione, il luogo dove sarò meno disturbato, chiesa, camera, giardino ecc.). Voglio strapparmi alla terra, sforzare la mia fantasia a rappresentarmi una scena viva e parlante che io sostituisco alle mie preoccupazioni, distrazioni ecc. (Per esempio: Gesù che mostra il suo Cuore e dice: Ego sum resurrectio et vita, oppure: Ecco il Cuore che tanto ha amato gli uomini, oppure una scena della sua vita: Betlemme, Tabor, Calvario ecc. Se dopo uno sforzo sincero e breve non si riesce a farsi questa rappresentazione, si passi avanti, e Dio vi supplirà). Rappresentazione rapida e a grandi linee, ma abbastanza efficace da colpirmi e da GETTARMI ALLA PRESENZA di quel Dio la cui attività tutta di amore vuole avvolgermi e penetrarmi. Così eccomi in relazione con un INTERLOCUTORE VIVENTE (La riuscita della meditazione dipende spesso dalla cura con cui si considera l’Interlocutore come vivo e presente, e nel cessare di considerarlo come lontano e passivo, cioè quasi come un’astrazione), ADORABILE e AMABILE.  Cado subito in profonda adorazione, questa s’impone da sé; poi seguono atti di umiltà, di contrizione, di protesta, di dipendenza, e preghiera umile e fiduciosa affinché sia benedetta questa mia conversazione col mio Dio (Bisogna persuadersi bene che per questa conversazione Dio non vuol altro che la buona volontà. L’anima che, assediata dalle distrazioni, ritorna ogni giorno pazientemente e filialmente al suo divino interlocutore, fa una meditazione eccellente: Dio supplisce a tutto).

VIDEO:

COLPITO dalla vostra viva presenza, o Gesù, e libero così dall’ordine puramente naturale, comincerò la mia conversazione col LINGUAGGIO DELLA FEDE, più fecondo che le analisi della mia ragione, e con questo fine leggo o richiamo alla mente con diligenza il punto da meditare, lo riassumo e concentro in esso la mia attenzione.  Siete Voi che mi parlate e che m’insegnate questa verità, o Gesù; voglio dunque ravvivare e accrescere la mia fede su ciò che mi presentate come assolutamente certo, perché fondato sulla vostra veracità. E tu, o anima mia, non cessare di ripetere: Lo CREDO; ripetilo con maggior forza; come il fanciullo che studia la sua lezione, ripeti moltissime volte che tu aderisci a questa dottrina e alle sue conseguenze per la tua eternità… (Così si formano le forti convinzioni e si preparano i doni dello spirito di viva fede e dell’intuizione soprannaturale). O Gesù, questo è vero, è assolutamente vero, e io lo credo. Voglio che questo raggio del sole della Rivelazione sia come il faro della mia giornata; rendete la mia fede ancora più ardente; ispiratemi un forte desiderio di vivere di questo Ideale, e una santa collera per ciò che gli è contrario. Voglio divorare questo alimento di Verità e assimilarmelo.  – Se tuttavia, dopo alcuni minuti passati nell’eccitare la mia fede, rimanessi inerte dinanzi alla verità che mi viene presentata, non insisterò. Vi esporrò filialmente, o buon Maestro, la pena che provo per tale impotenza e vi pregherò di supplire Voi.

SlTIO:

Dalla frequenza e soprattutto dalla forza dei miei atti di fede, vera partecipazione a un raggio dell’Intelligenza divina, dipenderà il grado dell’esultanza del mio cuore, il LINGUAGGIO DELLA CARITÀ AFFETTIVA. Nascono infatti da sé, o eccitati dalla volontà, GLI AFFETTI, fiori che l’anima mia di fanciullo getta dinanzi a Gesù che le parla; sono adorazione, riconoscenza, amore, gioia, attaccamento alla volontà divina e distacco da tutto il resto, avversione, odio, timore, sdegno, speranza, abbandono. Il mio cuore sceglie uno o più di questi sentimenti, se ne penetra, ve li esprime, o Gesù, e ve li ripete mille volte, teneramente, lealmente, ma con semplicità.  Se la mia sensibilità mi dà aiuto, lo accetto perché può giovare, ma non è necessario. Un affetto calmo ma profondo è più sicuro e più fecondo delle commozioni superficiali; queste non dipendono da me e non sono mai la misura della vera ed efficace meditazione. Quello che è sempre in mio potere e che importa più di tutto, è lo sforzo per scuotere il torpore del mio cuore e per fargli dire: Mio Dio, io voglio unirmi a Voi; voglio annientarmi dinanzi a Voi; voglio cantare la mia gratitudine e la mia gioia di compiere la vostra volontà; non voglio più mentire con dirvi che vi amo e che detesto tutto ciò che vi offende ecc.  Benché mi sia lealmente sforzato, può darsi che il mio cuore rimanga freddo e che esprima fiaccamente i suoi affetti. Vi dirò allora ingenuamente, o Gesù, la mia umiliazione e il mio desiderio; volentieri prolungherò i miei lamenti, persuaso che gemendo così dinanzi a Voi per la mia sterilità, acquisto un diritto speciale ad unirmi in modo efficacissimo, benché aridamente, ciecamente e freddamente, agli affetti del vostro divin Cuore.  Come è bello, o Gesù, l’Ideale che io scorgo in Voi! Ma la mia vita è essa in armonia con questo Esemplare perfetto! Io compio questa ricerca sotto il vostro sguardo profondo, o Interlocutore divino, che ora tutto Misericordia, sarete tutto Giustizia quando vi troverò al giudizio particolare in cui con un solo sguardo Voi scruterete i motivi segreti dei più piccoli atti della mia vita. Vivo io di questo Ideale! Se morissi in questo momento, o Gesù, non trovereste che la mia condotta ne è la contraddizione! Su quali punti, o buon Maestro, desiderate che io mi corregga! Aiutatemi a scoprire gli ostacoli che m’impediscono d’imitarvi, le cause interne o esterne e le occasioni prossime o remote delle mie cadute. Alla vista delle mie miserie e delle mie difficoltà, il mio cuore è costretto ad esprimervi, o mio Redentore adorato, confusione, dolore, tristezza, amaro rimpianto, sete ardente di fare meglio, offerta generosa e illimitata del mio essere: volo piacere Deo in omnibus («Voglio piacere a Dio in tutte le cose». Con queste parole il Suarez riassume i frutti di tutti i trattali ascetici. Questi atti del Sitio dispongono l’anima alla risoluzione di non rifiutare nulla a Dio).

VOLO:

Faccio un passo innanzi nella scuola del VOLERE.

È il LINGUAGGIO DELLA CARITÀ EFFETTIVA. Gli affetti hanno fatto nascere in me il desiderio di correggermi; ho veduto gli ostacoli; ora tocca alla mia volontà il dire: Voglio rialzarmi. O Gesù, il mio ardore nel ripetervi questo voglio, deriva dal mio fervore nel ripetere: credo, amo, mi pento, detesto.  Se qualche volta questo VOLO non viene fuori con quella forza che desidero, o mio diletto Salvatore, deplorerò questa debolezza della mia volontà et invece di perdermi di coraggio, non mi stancherò di ripetervi quanto desidero di partecipare alla vostra generosità nel servizio del Padre celeste. Alla mia risoluzione generale di lavorare per salvarmi e per amare Dio, unisco quella di applicare la mia meditazione alle difficoltà, alle tentazioni e ai pericoli della giornata. Ma avrò cura soprattutto di rifondere con amore più vivo la RISOLUZIONE (È meglio tenere la stessa risoluzione per interi mesi, o da un ritiro all’altro. L’esame particolare, in forma di breve colloquio col Signore, completa la meditazione e, constatando un progresso o un regresso, facilita in modo straordinario l’avanzamento nella perfezione) che è oggetto del mio esame particolare (difetto da combattere o virtù da praticare); la rinforzo con motivi che attingerò dal Cuore del Maestro e da buon stratega stabilisco i mezzi che ne possano assicurare l’esecuzione, prevedo le occasioni e mi preparo alla lotta. Se intravvedo un’occasione speciale di dissipazione, d’immortificazione, di umiliazione, di tentazione, una decisione grave ecc., mi dispongo per quel momento alla vigilanza, all’energia e soprattutto all’unione con Gesù e al ricorso a Maria. – Se cado ancora, nonostante queste precauzioni, che abisso però tra queste cadute di sorpresa e le altre! Lungi da me lo scoraggiamento, perché so che Dio è glorificato dal mio continuo ricominciare per divenire più risoluto, più diffidente di me stesso, più assiduo nel supplicarlo: solo a questo prezzo avrò la riuscita.

VOLO TECUM:

Obbligare uno storpio a camminare diritto è meno assurdo che il pretendere di riuscire senza di Voi, o mio Salvatore (sant’Agostino). Perché le mie risoluzioni sono rimaste senza frutto, se non perché l’omnia possum non è derivato dall’in eo qui me confortat (Io posso tutto in Colui che mi conforta – Filipp. IV, 13)? Arrivo dunque al punto della mia meditazione, che sotto certi aspetti è il più importante: la SUPPLICA O LINGUAGGIO DELLA SPERANZA. – Senza la vostra grazia, o Gesù, io non posso nulla. Per nessun titolo io non merito questa vostra grazia, ma so che le mie istanze, ben lungi dall’annoiarvi, stabiliscono la misura del vostro aiuto, se esse rispecchiano la mia sete di essere vostro, la diffidenza in me stesso e la mia confidenza illimitata, pazza, direi, nel vostro Cuore. Come la Cananea, mi prostro ai vostri piedi, o Bontà infinita, con la sua insistenza, tutta di speranza e di umiltà, vi chiedo non qualche briciola, ma una vera partecipazione a quel banchetto di cui avete detto: Il mio cibo è di fare la volontà del Padre mio. – Divenuto, per mezzo della grazia, membro del vostro Corpo mistico, io partecipo della vostra vita e dei vostri meriti e prego per mezzo vostro, o Gesù. O Padre Santo, io prego per il Sangue divino il quale chiede misericordia: potrete voi respingere la mia preghiera?È il grido del mendico quello che io innalzo a Voi, o ricchezza inesauribile: Exaudi me quoniam inops et pauper sum ego (Esauditemi perché sono povero e bisognoso – Salmo LXXXV). Rivestitemi della vostra forza e nella mia debolezza glorificate la vostra potenza. La vostra bontà, le vostre promesse e i vostri meriti, o Gesù, la mia miseria e la mia fiducia sono i soli titoli della mia supplica per ottenere, mediante la mia unione con Voi, la custodia del cuore e la forza durante questa giornata. Se sopravviene un ostacolo, una tentazione, un sacrificio da imporre a una delle mie facoltà, il testo o il pensiero che io prendo come mazzetto spirituale, mi farà respirare il profumo di preghiera che ha circondato le mie risoluzioni, e di nuovo in quel momento innalzerò il grido della supplica efficace. Quest’ABITUDINE, frutto della mia meditazione, ne sarà pure la pietra di paragone: a fructibus cognoscetis.

*

Quando arriverò a VIVERE DI FEDE e di SETE ABITUALE di Dio, allora soltanto il lavoro del VIDEO sarà presto soppresso; Il SITIO e il VOLO verranno da sé fin dal principio della meditazione la quale trascorrerà nel produrre affetti e offerte, nel confermare la mia volontà risoluta e poi nel mendicare da Gesù direttamente, o per mezzo di Maria Immacolata, degli Angeli o dei Santi, una più intima e più costante unione con la Volontà divina.

 Il santo Sacrificio mi aspetta: la meditazione mi vi ha preparato. La mia partecipazione al Calvario, in nome della Chiesa, e la mia comunione saranno come una continuazione della mia meditazione (1). Nel mio ringraziamento estenderò le mie domande per gl’interessi della Chiesa, per le anime a me affidate, per i defunti, per le opere a cui attendo, per i parenti, amici, benefattori, nemici ecc.  La recita delle diverse ore del mio caro Breviario, in unione con la Chiesa, per lei e per me, le frequenti e fervide giaculatorie, le comunioni spirituali, Tesarne particolare, la visita al SS. Sacramento, la lettura spirituale, il rosario, Tesarne generale ecc. verranno a segnare la mia via, a ravvivare le mie forze e a conservare lo slancio preso al mattino, affinché nulla nella mia giornata sfugga all’azione del Signore. In seguito a tale slancio, il ricorso frequente prima, e poi abituale a Gesù direttamente o per mezzo di Maria, farà cessare le contraddizioni tra la mia ammirazione per la sua dottrina e la mia vita di emancipazione, tra la mia pietà e la mia condotta.

*

Devo qui mettere un freno al mio cuore che, nel suo desiderio di giovare davvero agli uomini di azione, vorrebbe consacrare qui una risoluzione speciale all’ESAME PARTICOLARE. Ma cedendo a tale desiderio, temerei di aumentare troppo questo volume. Eppure dalla lettura di Cassiano, di parecchi Padri della Chiesa, come pure di sant’Ignazio, di san Francesco di Sales e di san Vincenzo de’ Paoli, risulta che l’esame particolare e l’esame generale sono corollari obbligatori della meditazione e si connettono con la custodia del cuore. – L’anima, d’accordo con il suo direttore, si è risoluta a prendere di mira più direttamente, nella sua meditazione e nel corso della giornata, quel tale difetto o la tale virtù, sorgente principale di altri difetti o virtù.  Sono molti i cavalli che tirano il cocchio; l’occhio li vigila tutti costantemente; ma nel centro della squadriglia ve n’è uno che esige maggiore sollecitudine da parte di chi li guida. Infatti se quel cavallo corre troppo a destra o troppo a sinistra, fa sviare tutti gli altri.  L’analisi dell’anima per mezzo dell’esame particolare, per constatare se vi è progresso o regresso o stato stazionario sopra un punto ben determinato, non è altro che un elemento della custodia del cuore.

(1) La meditazione è il braciere dove si ravviva la custodia del cuore.  Con la fedeltà alla meditazione saranno vivificati tutti grll altri esercizi di pietà. L’anima acquisterà a poco a poco la vigilanza e lo spirito di orazione, ossia l’abitudine di ricorrere di più e con più frequenza a Dio.  L’unione con Dio nell’orazione produrrà l’unione intima con Lui, anche durante le occupazioni più assorbenti.  L’anima che vive cosi unita con Dio con la custodia del cuore, attirerà sempre di più sopra di sé i doni dello Spirito Santo e le virtù infuse, e forse Dio la chiamerà ad un grado di orazione più elevato.

L’ottimo libro Les Voies de l’oraison mentale (le vie dell’orazione mentale di Dom VITAL LEHODEY – ed. Lecoffre), stabilisce con precisione ciò che si richiede per l’ascensione dell’anima attraverso i diversi gradi di orazione e dà le regole per discernere se un’orazione superiore sia davvero un dono di Dio o un frutto dell’illusione.  Prima di parlare dell’orazione affettiva, primo grado delle orazioni più elevate a cui Dio ordinariamente chiama soltanto le anime arrivate alla custodia del cuore per mezzo della meditazione, il P. RIGOLEUC, S. J., indica nel libro cosi pregevole delle sue (Œvres spirituelles (Avignone, 1843, pag. 17 e segg.) dieci maniere di trattenersi con Dio quando, dopo una seria prova, uno si trovi nell’impossibilità morale di fare la meditazione sull’argomento preparato il giorno prima. Riassumiamo il pio autore.

1* MANIERA: Prendere un libro spirituale {(uovo Testamento o Imitazione di Cristo) — leggere a intervalli alcune righe — meditare un poco su quanto si ò letto, cercare di penetrare il senso e imprimerlo nella mente.

— Trarne qualche santo affetto, amore o pentimento ecc., e proporsi di praticare all’occasione tale virtù.

Evitare di leggere o di meditare troppo. — Fermarsi a ogni pausa finché la mente trova un colloquio piacevole e utile.

2* MANIERA: Prendere alcune parole della Scrittura o qualche preghiera vocale, per esempio il Pater, l’Ave o il Credo, pronunziarla, fermarsi a ciascuna parola e trarne diversi sentimenti di pietà in cui uno si fermerà finché vi trova gusto.  Alla fine domandare a Dio qualche grazia o virtù, secondo l’argomento meditato. Non fermarsi troppo, con noia e disgusto, su una parola, ma quando non si trova più di che trattenervi, passare tranquillamente ad un’altra.

— Quando uno si sente tocco da qualche buon sentimento, vi si fermi finché dura, senza darsi pensiero di andare innanzi. — Non è necessario fare atti sempre nuovi, ma basta talora stare dinanzi a Dio pensando in silenzio alle parole già meditate, oppure gustando il sentimento da esse prodotto nel cuore.

3* MANIERA: Quando l’argomento preparato non dà materia sufficiente, fare atti di fede, di adorazione, di ringraziamento, di speranza, di amore ecc., dando loro l’estensione che si vuole e fermandosi alquanto su ciascuno per gustarlo.

4* MANIERA: Quando non si sa più meditare né produrre affetti (impotenza e sterilità), protestare dinanzi a Dio, che si ha l’intenzione di fare tanti atti, di contrizione per esempio, quante sono le volte che si respira o che si fanno passare i grani del rosario tra le dita o che si pronuncerà con la bocca una breve preghiera.  Rinnovare di quando in quando tale protesta e, se Dio dà qualche altro buon sentimento, accettarlo con umiltà e trattenersi in esso.

5* MANIERA: Nelle pene e nelle aridità, se si è impotenti a pensare o ad agire, abbandonarsi generosamente al dolore senza inquietarsi né fare sforzi per uscirne, senza fare altri atti che questo dell’abbandono di sé nelle mani di Dio, per soffrire quella prova e tutte le altre che vorrà mandarci.  Oppure unire la propria preghiera all’Agonia di Gesù nel Getsemani e al suo abbandono sulla croce. — Persuadersi che si è crocifissi con Gesù e animarsi, con il suo esempio, a rimanervi e a soffrire costantemente fino alla morte.

6* MANIERA: Esame del proprio interno. — Riconoscere i propri difetti, le passioni, le debolezze, le infermità, l’impotenza, la miseria, il nulla.  — Adorare i giudizi di Dio riguardo allo stato in cui uno si trova. — Sottomettersi alla sua santa volontà. —- Benedire Dio egualmente sia per i castighi della sua giustizia, sia per i favori della sua misericordia. — Umiliarsi dinanzi alla sua infinita Maestà. — Fargli sincera confessione delle proprie infedeltà e peccati, e chiedergli perdono. — Ritrattare i propri giudizi falsi e i propri errori. — Detestare tutto il male che si è fatto e proporre di emendarsi per l’avvenire.  Tale meditazione è assai libera e ammette ogni sorta di affetti; si può fare in ogni tempo, soprattutto dopo qualche caso inaspettato, per sottomettersi al castighi della giustizia di Dio, o dopo il trambusto dell’azione, per rimettersi nel raccoglimento.

7* MANIERA: Viva rappresentazione dei Novissimi. Considerarsi nell’agonia, tra il tempo e l’eternità, — tra la vita passata e il giudizio di Dio.  — Che cosa vorrei aver fatto? — Come vorrei essere vissuto? — Pena che se ne sentirà. — Ricordare i peccati, i disordini, gli abusi deUa grazia. — Come si vorrebbe essersi diportati in quelle date occasioni. — Proporre di rimediare efficacemente a ciò che si ha ragione di temere. Figurarsi di essere sepolti, in putrefazione, dimenticati da tutti — dinanzi al Tribunale di Gesù Cristo — nel Purgatorio — nell’Inferno.  Quanto più viva sarà la rappresentazione, tanto maggior profitto si farà da tale meditazione. È necessaria questa morte mistica, per spogliare l’anima dalla carne e per risuscitare, cioè per liberarsi dalla corruzione del vizio; bisogna passare da questo purgatorio, per giungere al godimento di Dio in questa vita.

8* MANIERA: Applicazione della mente a Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento. Salutare Gesù Sacramentato con tutto il rispetto che richiede la sua presenza reale, unirsi a Lui e a tutte le sue divine operazioni nell’Eucaristia dove non cessa di adorare, lodare, amaro suo Padre in nome di tutti gli uomini e nello stato di vittima.  Concepire il suo raccoglimento, la sua vita nascosta, lo spogliamento di tutto, la sua obbedienza, la sua umiltà ecc. — Eccitarsi a imitarlo e proporsi di farlo all’occasione.  Offrire Gesù Cristo al Padre, come unica vittima degna di Lui, per mezzo della quale noi possiamo rendergli omaggio, riconoscerne i benefici, soddisfare alla sua giustizia e obbligare la sua misericordia a soccorrerci. Offrire a Lui se stessi, l’essere, la vita, l’impiego. Presentargli un atto di virtù che si propone di fare, qualche mortificazione che si vuole praticare per vincersi, e ciò per gli stessi fini per cui Gesù si sacrifica nel Santissimo Sacramento. — Fare tale offerta con un ardente desiderio di accrescere quanto è possibile la gloria che Egli dà al Padre in questo augusto Mistero.  Terminare con la comunione spirituale.

Meditazione eccellente, soprattutto per la visita al Santissimo Sacramento. Rendersela familiare perché la nostra felicità in questa vita dipende dalla nostra unione con Gesù Sacramentato.

9° MANIERA: Essa si fa in nome di Gesù Cristo. — Eccita la nostra fiducia in Dio e ci fa entrare nello spirito e nei sentimenti di Nostro Signore.  Si fonda sul fatto che noi siamo alleati del Figlio di Dio, suoi fratelli, membri del suo Corpo mistico; che Egli vuole cederci tutti i suoi meriti e lasciarci tutte le ricompense che suo Padre gli deve per le sue fatiche e per la sua morte. Questo è ciò che ci rende capaci di onorare Dio con un culto degno di lui e ci dà il diritto di trattare con Dio e di esigere in certo modo le sue grazie come per giustizia. — Noi non abbiamo tale diritto come creature, meno ancora come peccatori, perché vi è sproporzione infinita tra Dio e la creatura, e opposizione infinita tra Dio e il peccatore. Ma come alleati del Verbo incarnato, come suoi fratelli, come suoi membri, possiamo presentarci con fiducia a Dio, trattare familiarmente con Lui e obbligarlo ad ascoltarci benignamente, ad esaudire le nostre suppliche e a darci le grazie, per motivo della nostra alleanza e della nostra unione con suo Figlio.  Presentarsi dunque a Dio per adorarlo, amarlo, lodarlo per mezzo di Gesù Cristo che opera in noi, come Capo nelle sue membra, e che c’innalza con il suo spirito ad uno stato divino; — domandargli qualche favore per i meriti di suo Figlio e a questo fine rappresentargli i servizi a Lui resi dal Figlio diletto, la sua vita, la sua morte, i suoi patimenti la cui ricompensa appartiene a noi, per la donazione che Egli ci fece.

Recitare l’Ufficio divino con questo spirito.

10* MANIERA: Semplice attenzione alla presenza di Dio e meditazione su questa. Prima di mettersi a meditare sull’argomento preparato, mettersi alla presenza di Dio senza accogliere altro pensiero e senza eccitare altro sentimento che quello del rispetto e dell’amore di Dio, ispirato dalla sua presenza. — Accontentarsi di stare cosi dinanzi a Dio in silenzio in questo semplice riposo della mente, finché se ne prova gusto. — Poi meditare secondo la maniera solita.  È bene incominciare cosi tutte le meditazioni ed è utile il fare altrettanto dopo ciascun punto. — Riposare cosi in questa semplice attenzione su Dio. — Cosi ci stabiliamo nel raccoglimento interno; — ci avvezziamo a fissare la mente in Dio e ci prepariamo a poco a poco alla contemplazione. — Ma non fermarsi cosi per pura pigrizia e per non volersi dare la pena di meditare.)

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LO SCUDO DELLA FEDE (125)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE SECONDA

CAPO IV.

Testimonianza che rendono alla nostra fede i miracoli.

I. Quell’obbligazione che già i filosofi più rinomati imponevano a qualsisia loro uditore novello, di non esaminar le dottrine di quella scuola, ma di approvarle a chius’occhi; con infinito più di ragione potrebbe certamente esigere Dio da qualunque mente creata. Tuttavia, perché egli ama, che i suoi precetti siano dolcissimi, al tempo medesimo che dall’uomo ricerca fede, porge all’uomo argomenti di sommo peso, da fare che agevolmente egli inclini a dargliela, e a riputare la soggezione che si presta in tal atto, non soggezione, ma nobile libertà. Ora fra tutte le apparenze a ciò conducenti, sembra che tengano il primo luogo i miracoli: i quali potrebbero acconciamente chiamarsi una sottoscrizione ed un suggello dell’Altissimo a confermazion de’ suoi detti; senonchè, con dir questo, non si direbbe né anche il tutto; mentre la sottoscrizione ed il suggello d’ogni principe può falsarsi di modo che non si riconosca la falsità: ma non possono di modo già falsarsi i miracoli che non si distinguano gli adulterati da’ veri, come sarà poi mio pensiero di far palese.

I.

II. Convien però qui premettere due verità, molto rilevanti. L’una è della necessità la qual v’era di questa prova miracolosa; l’altra è della sufficienza.

III. La necessità è manifesta. Conciossiachè se il non credere doveva imputarsi a colpa, ed a colpa degnissima di scontarsi nella vita futura con pianti eterni e con pene eterne; chiaramente apparisce, come la fede doveva venir corteggiata da numero così grande di meraviglie, che chi neppure in abito sì solenne la riceveva, non si potesse scusare secondo l’uso, con dir, che quella e ra veramente una principessa celeste, ma andava incognita.

IV. E quindi ancor si comprova la sufficienza: dalla quale a vien che i miracoli sieno il più delle volte nelle divine scritture chiamati segni, perciocché ci significano, che Dio parla. E se essi ci significano, che Dio parla, dunque ci obbligano nel tempo istesso ad udire ciò che egli dice, ed insieme a crederlo, se non vogliamo dimostrarci peggio che aspidi sprezzatori di quella voce tanto autorevole che ci cavò fin dal nulla.

V. Ma perché meglio si penetri questo vero, convien sapere, che cosa propriamente intendasi per miracolo. Miracolo è un effetto, non pure strano, ma superiore a tutta la possanza della natura: il qual però non può avere altra cagione immediata, che Dio medesimo, da cui, siccome furono già stabilite le leggi della stessa natura, così ancora possono talor dispensarsi, con quella autorità sublimissima che compete ad un sommo Legislatore. Pertanto, se questa opera, trascendente i confini di ogni poter creato, si effettui da chicchessia in confermazione di qualche detto, è manifesto, che l’operatore di essa è un mero istrumento della Divinità: la quale se non può essere né ingannata né ingannatrice, mai non sarebbe concorsa, come cagion principale, ad autenticare quel detto, ove fosse falso. Un vero miracolo dunque ha una essenzialissima connessione con la divina veracità, e però contiene una certezza di prova tanto infallibile, che non può convenire a veruna creata testimonianza (Il miracolo, a bene intenderne la genuina natura, va riguardato e nella cagione efficiente, che lo origina, e nello scopo finale, a cui è ordinato. Quanto alla sua origine, esso è tal fatto, che trascende la virtù di qualunque siasi forza creata: è come scrive l’Aquinate, præter ordinem naturæ, cioè sopra, ma non contro natura, in quella guisa che il mistero è sopra, ma non contro ragione. Che se il miracolo è sovrannaturale quanto alla sua cagion efficiente, ciò vuol dire, che Dio solo ne è l’autore diretto od immediato. Ma per qual fine mai Dio opera il miracolo? Non per altro scopo, se non questo, di accertare la verità de’ suoi pronunciati. Divino adunque e nella sua origine e nel suo fine, il miracolo è tessera infallibile della Religione divina). Onde quella religione la quale produrrà legittimamente l’attestazion di un miracolo, ancora che solo, operato a favor di lei, è sicurissima di ottenere la palma sopra dell’altre: sicché il non credere a lei sia l’istesso che il non credere a Dio; e con ciò mostrarsi, non solo inetto, ma stolido; non solo irriverente, ma scellerato.

II.

VI. Si facciano però innanzi tutte le sette, e scendano in questo grande steccato di religione, accompagnate dai loro più famosi prodigi, se dà loro cuore di stare a fronte con la fede cattolica.

VII. Vengano, benché timidi, gl’idolatri, e contino la sanità restituita a due infermi da Vespasiano (V. Spart. Bellarm. de not.), aggiugnendo a ciò, che Claudia, nobile donna, tirò a’ dì loro col suo cingolo al lido una vasta nave, e che certa vergine vestale attinse l’acqua in un vaglio senza versarla. Ma quanto a’ prodigi di Vespasiano, non trovano credenza né anche presso gli storici che li narrano: mentre asserisce Tacito (1. 4. hist.) che l’infermità di quei due, sanati da Cesare, fu per consenso de’ medici giudicata curabile dalle forze della lor arte: e però qual maraviglia, se molto meglio potesse restar curato da Vespasiano per opera de’ diavoli? E quanto a que’ di Claudia e della vestale, oltre a che non eccedeano nemmen essi l’operazione diabolica, convien mirare a che erano indirizzati dalle donne. Non erano indirizzati a provare la verità della religione pagana, ma solamente a difendere se medesime, mentre erano ambo state incolpate a torto di pudicizia violata. Che gran cosa dunque saria, se la provvidenza, a cui è sì gradita la pudicizia, si fosse indotta a volerla anticamente onorare con quel doppio miracolo, il quale da un lato non si ordinava ad autenticare il sacrilego culto de’ vani Dei, e dall’altro valeva a sostenere 1’innocenza tradita, ed a coronarla? Però, come i gentili per testimoni della verità ebbero veri vaticini nelle Sibille; cosi per testimoni della integrità poterono ancor avere veri miracoli nelle loro donne più caste. Che se il cielo ha miracolosamente talora soccorsi i bruti, quando ve ne fu cagion giusta; perché non poté soccorrere ancora gli uomini, benché per altro ingannati nella lor fede? Basta che quei miracoli (se pur sono) non sien diretti a provare una fede tale, perché allora sariano bugiardi.

VIII. Abbattuti i gentili, succedono gli ebrei con animo grande, presupponendo, che a favor loro gridino tutti i miracoli registrati nei libri sacri, e spezialmente gli operati già da Mosè, loro condottiere. Ma questo è quasi un far da corvo spennato, che si vuole adornar di piume non sue. Quella religion loro che consisteva in credere la caduta della natura umana, ed il suo ristabilimento per mezzo di un divino Riparatore, non è diversa, ma è la medesima colla nostra, che crede anch’essa in questo loro Riparatore divino, e l’adora con ogni ossequio. Senonché la loro lo adorava già come Riparatore avvenire, e la nostra lo adora come venuto: onde son ambo a guisa di una stella, medesima nella sostanza, e differente solo di nome.Sono il fosforo che precede il sole di giustizia, e l’espero che lo segue. I patriarchi, i profeti, e tutti quei giusti i quali precorsero la comparsa del Messia, vero sole del mondo, appartengono a Cristo come nunzi e cioè fedeli suoi, che credevano dover Lui venire a salvarli. Gli apostoli, cogli altri veri Cristiani, appartengono a Cristo come seguaci e come fedeli suoi, che’ lo credono già venuto. Ma tutti sono una medesima chiesa nata col mondo. Non convien dunque, che i presenti Giudei faccian da ladri, e da ladri ancora sacrileghi. Convien che mostrino un miracolo vero a loro commendazione, dappoiché i miseri, posto in croce Gesù, negarono a Lui quel culto che noi gli diamo: giacché i prodigi descritti nei libri sacri pruovano bene che doveva venire il Messia, ma non provano già, che non sia venuto, come essi follemente si danno a credere. Anzi il vedere che tra loro, primaché Cristo venisse, abbondavan tanto i miracoli, promettitori di Lui, che a prezzo quasi vilissimo si offrivano a chi li desiderasse, dal più basso del mondo fino al più alto: Pete tìbi signum a Domino Deo tuo in profundum inferni, sive in excelsum supra (Is. VII. 18); e il vedere, che poscia che Cristo venne, altro miracolo non rimase tra loro, che quello della probatica (mancato anch’esso, dappoiché Cristo se ne valse al suo fine di manifestarsi per loro liberatore), dà chiaramente a conoscere ch’è venuto.

IX. Ammutoliscono dunque anch’essi i Giudei, e non avendo replica danno il campo ai maomettani, tuttoché poco vaghi di tal cimento. Viene alla testa di questa sì immonda greggia un falso profeta, il quale protesta con fasto sommo di cedere volentieri a Cristo i miracoli nella decisione del vero, purché a sé riserbi la spada: quasiché le menti si convincessero, se stanno dure, col ferro; e che potesse temere mai di ferite quell’intelletto che non può temere di morte. Vero è, che nel capo sessagesimo quarto dell’alcorano, par che Maometto narri non so che di stupendo, fatto da lui nella luna, che caduta e rotta in due parti, secondo la spiegazion dei suoi espositori (Ap. Bell. I. cit. c. 14) fu dalle mani di lui ricongiunta e riposta in cielo, con tanta gloria, che però i turchi presero poi la luna per loro insegna (Corn. a Lap. in Apoc. c. 13. v. 11). Ma di tal prodigio confessa egli medesimo, che non ebbe altro testimonio da sé, che ne fu l’autore: onde, lasciando che gli dian fede i lunatici pari suoi, proseguiamo innanzi.

X . E perché dalla vera chiesa dì Cristo si sono diramate, o piuttosto disgiunte diverse sette, a guisa di comete, che alcuni stimarono esser fumi usciti dal sole, vengano anch’esse, le moderne, quanto lo antiche, e ci arrechino, per marchio infallibile di essere care al cielo, un miracolo solamente. Tutte unite insieme, pure non apporteranno nulla di vero, ma nemmeno di apparente, operato in confermazione de’ loro errori: mentre quei miracoli stessi i quali le meschine hanno voluto fingere, tornarono finalmente sopra di loro in più grave smacco. È noto ciò che nelle storie si legge in questo proposito, delle tre eresie sì famose de’ nostri tempi, degli anabattisti, de’ luterani, e de’ calvinisti, direi tre capi formatori di un cerbero non favoloso, se fossero veramente uniti in un corpo: ma no, che non sono uniti, mentre fra loro medesimi stanno in guerra.

XI. Nella Polonia un principale anabattista promise alla moltitudine convenuta ad udirlo, che lo Spirito Santo sarebbe sceso visibilmente  dal cielo ad autenticare il novello battesimo a lei proposto. Lo spirito venne, ma non venne dal cielo, né venne santo. Venne bensì bastevole ad attestare la verità. E tale fu un gran demonio, di aspetto terribilissimo, il quale, a vista di ognuno, preso per li capelli quel seduttore, lo levò in alto, e l’affondò di poi nell’acque sacrileghe, finché vi rimase annegato (Boz. de sig. 1. 5. c. 1. in fin).

XII. Di Lutero racconta lo Stafilo, qual testimonio di veduta, che volendosi porre a scongiurare una sua discepola, fidato nella famigliarità che passava tra lui e lo spirito invasator di quella infelice, rimase a un tratto dalle furie di questa così mal concio, che se non rompeva violentemente l’uscio di quella camera, e non fuggiva, era per lasciarvi la vita.

XIII. Né differente fu il pericolo corso, in caso più notabile, da Calvino (H. Bols. in vit. Cal. L. Sur. in Chr. ad an. 1544). Si era maliziosamente accordato l’ingannatore con una vil femminuccia in questo concerto: che il marito di lei si fìngesse morto, e che ella tutta lagrime corresse a trovar Calvino, con supplicarlo, che in confermazion della sua dottrina celeste venisse a risuscitarglielo. Ma non terminossi la favola senza un atto pur troppo vero. Perciocché al primo comando che fè Calvino alla morte finta di restituir quell’uomo alla luce, se lo venne a prendere tosto la morte vera; sicché il miserabile, scosso, straziato, agitato per ogni verso, non si alzò più: tanto che la donna fanatica di cordoglio, pubblicò ad alta voce l’inganno occulto, rimproverandolo al bugiardo profeta con quella libertà che concede a qualsisia più meschino il dolore giusto.

XIV. Di questa fatta sono i miracoli tutti dell’eresie, se si vorrà farne un processo innocente: tanto che ad essi sta bene ciò che ne scrisse infino dai primi secoli Tertulliano, ed è, che dove gli Apostoli, de’ morti ne facevano vivi, i novatori de’ vivi ne fanno morti (Illi de mortuis suscitabant, isti de vivis mortuos faciunt – L. de præscript.). Onde, affinché questi mostrino di dire ornai qualche cosa, ove non possono dirne alcuna che vaglia, convien che si riducano ad affermar con Lutero, che la moltitudine de’ seguaci acquistati in sì poco tempo, è per loro un miracolo sufficiente. Ma certamente il maggior si è, che non muoia subito loro la lingua in bocca a menzogne così sfacciate. Se la moltitudine de’ seguaci rende miracolosa la setta dei luterani, più miracolosa si dovrà dunque stimar quella degli ariani, tanto più ampia, che per poco ammorbò tutto l’universo: e più miracolosa si dovrà stimare anche quella de’ maomettani: a cui come può ardire di stare a fronte il partito dei protestanti in Germania, se neppure ha tanto di grande, rispetto a quelli, quanto ne avrebbe un pigmeo vicino a un gigante? Se Lutero e gli altri a lui simili, predicassero il digiuno, la pazienza, la penitenza, la verginità, l’abbandonamento degli averi, l’annegazione degli appetiti, la soggezione del giudizio orgoglioso, confesso che il numero dei seguaci sarebbe un prodigio sommo, come egli è nella nostra legge: ma che prodigio è mai questo numero, qualora colle parole, e più ancor coll’opere, si consigli di sottomettere la ragione al talento? Quivi la difficoltà non è punto all’ottenere che i seguaci sian molti: è all’ottener piuttosto che sieno pochi. Quando l’arca passò il Giordano, le acque superiori stettero immote, e ciò nel vero fu miracolo grande; le inferiori corsero a seppellirsi dentro il mar morto. Ma ciò che fu? Fu miracolo? No di certo. Fu impeto di natura tendente al basso.

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (9)

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (9)

TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B. – 8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE TORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PARTE QUARTA (2)

Fecondità che deriva all’azione dalla vita interiore

La vita interiore è condizione necessaria perché l’azione sia feconda

d) Dà all’operaio evangelico la vera eloquenza

Intendo parlare dell’eloquenza capace di essere apportatrice della grazia, tanto da convertire le anime e da condurle alla virtù. Già se ne è parlato, e mi limiterò qui a poche parole. Nell’Ufficio di san Giovanni si legge questo responsorio: Supra pectus Domini recumbens, Evangelii fluenta de ipso sacro Dominici pectoris fonte potavit et Verbi Dei gratiam in toto terrarum orbe diffudit [adagiato sul petto del Signore, si abbeverava del Vangelo alla fonte fluente dello stesso sacro petto del Signore e diffuse la grazia del verbo di Dio in tutta la terra].In queste poche parole, che bella lezione per tutti coloro che, o predicatori, o scrittori o catechisti, hanno la missione di diffondere la parola divina! Con quali espressioni la Chiesa scopre ai suoi sacerdoti le fonti della vera eloquenza!  Tutti gli Evangelisti sono egualmente ispirati; tutti hanno uno scopo provvidenziale; tuttavia ciascuno ha la sua eloquenza propria. Più che gli altri, san Giovanni ha l’eloquenza che va alla volontà per la via del cuore dove egli diffonde verbi Dei gratiam. Insieme con le Epistole di san Paolo, il suo Vangelo è il libro preferito dalle anime che trovano la vita di quaggiù vuota di senso, se non sono unite con Gesù Cristo. Di dove viene l’eloquenza affascinante di san Giovanni? Quel gran fiume le cui acque benefiche irrigano tutto il mondo Fluente in loto terrarum orbe diffudit, da quale montagna nasce? È uno dei fiumi del Paradiso, dice il testo liturgico: Quasi unus ex Paradisi fluminibus Evangelista Joannes.  – A che servono le alte montagne e i ghiacciai? Quelle sterminate estensioni di terra, dirà l’ignorante, non sarebbero più utili se si appianassero? Egli non pensa che senza quelle alte cime le pianure e le valli sarebbero sterili come il Sahara: sono infatti le montagne che, per mezzo dei fiumi di cui esse sono i serbatoi, danno la fertilità alla terra. Quell’alta vetta del Paradiso dove nasce la sorgente che alimenta il Vangelo di san Giovanni, altro non è che il Cuore di Gesù: Evangelii fluenta de ipso sacro Dominici pectoris fonte potavit; perché  l’Evangelista, con la vita interiore, udì i palpiti del Cuore dell’Uomo-Dio e l’immensità del suo amore per gli uomini, la sua parola è apportatrice della grazia del Verbo divino: Verbi Dei gratiam diffudit. Così si può dire che gli uomini di vita interiore sono anche essi in qualche modo fiumi del Paradiso. Non soltanto con le loro preghiere e con i loro sacrifici attirano dal Cielo in terra le acque vive della grazia e allontanano o abbreviano i castighi che il mondo si merita, ma attingendo nel più alto dei cieli, nel Cuore di Colui nel quale risiede la vita intima di Dio, quell’acqua viva, la versano in abbondanza sulle anime: Haurietis aquas de fontibus Salvatoris. Chiamati a dare la parola di Dio, la danno con un’eloquenza di cui essi soli posseggono il segreto; è il Cielo che parla alla terra; illuminano, riscaldano, consolano e fortificano. Senza tutte queste qualità insieme riunite, l’eloquenza è incompleta; ma il predicatore non riunisce in sé tutte queste qualità se non vive di Gesù. Sono io davvero di coloro che per dare alla loro eloquenza la forza dell’azione, fanno assegnamento sulla loro meditazione, sulla loro visita al SS. Sacramento e soprattutto sulla loro Comunione o la loro Messa? Se non ècosì, potrò essere un rumoroso cymbalum tinniens, potrò rimbombare come il bronzo, velut aes sonans, ma non sarò il canale dell’amore, di quell’amore che rende irresistibile l’eloquenza degli amici di Dio. Il quadro della verità cristiana esposto da un predicatore dotto, ma di mediocre pietà, può muovere le anime, avvicinarle a Dio, accrescerne anche la fede; ma per penetrarle del sapore vivificante della virtù, bisogna aver gustato lo spirito del Vangelo e, per mezzo della meditazione, averne fatta la sostanza della propria vita (S. Pio X, Exhortatio ad Clerum, 4 agosto 1908). Questa esortazione che il cuore paterno di san Pio X rivolge al ministri di Dio. è un commovente invito alla santità sacerdotale; essa ne espone la necessità e la natura e, con una serie di consigli pratici, insegna i mezzi di acquistarla e di conservarla). Ripetiamo ancora che soltanto lo Spirito Santo, principio di ogni fecondità spirituale, opera le conversioni e diffonde le grazie che determinano a fuggire il vizio e a praticare la virtù. La parola dell’operaio evangelico, penetrata dall’unzione dello Spirito santificatore, diventa un canale vivente che riversa tutta l’azione divina. Prima della Pentecoste, gli Apostoli avevano predicato quasi senza alcun frutto; ma dopo il loro ritiro di dieci giorni, tutti di vita interiore, lo Spirito Santo li invade e li trasforma. I loro primi saggi di predicazione sono vere pesche miracolose. Lo stesso è dei seminatori del Vangelo: per la vita interiore essi sono veri portatori di Cristo; essi piantano e irrigano efficacemente, e allora lo Spirito Santo dà sempre l’incremento. La loro parola è nel tempo stesso semenza che cade e pioggia che feconda: il sole che fa crescere e maturare non manca mai. Est tantum lucere vanum, dice san Bernardo, tantum ardere parum, ardere et lucere perfectum. E poco dopo dice: Singulariter aposiolis et apostólìcis viris dicitur: Luceat lux vestra coram hominibus, nimirum tamquam accensis et vehementer accensis (Serm. de S. Joan. Bapt. Il solo splendore è vanità, il solo calore è poco, lo splendore insieme col calore è cosa perfetta. — Soprattutto agli apostoli e agli uomini apostolici è detto: Risplenda la vostra luce dinanzi agli uomini. Essi infatti devono essere accesi, accesissimi). L’apostolo attinge l’eloquenza evangelica della vita di unione con Gesù per mezzo della meditazione e della custodia del cuore, ma anche della Sacra Scrittura che egli studia e gusta con passione. Ogni parola di Dio all’uomo, ogni frase caduta dalle labbra adorabili di Gesù, è per lui un diamante di cui ammira le facce alla luce del dono della sapienza cosi particolarmente sviluppato in lui. Ma siccome egli apre il libro ispirato soltanto dopo di aver pregato, non solo ammira, ma ne gusta gl’insegnamenti come se lo Spirito Santo li avesse dettati espressamente per lui; perciò quanta unione quando, salito in pulpito, cita la parola di Dio, e quale differenza tra la luce che egli ne fa scaturire, e le ingegnose o dotte applicazioni che ne può trarre un predicatore aiutato dai soli lumi della ragione e di una fede quasi astratta e morta! Il primo mostra la verità viva che avvolge le anime con una realtà che vuole non solo illuminarle, ma vivificarle; il secondo invece non sa parlarne se non come di un’equazione algebrica, certa sì, ma fredda e senza relazione come l’intimo dell’esistenza. Egli la lascia astratta e, per così dire, allo stato di semplice memoriale, o capace appena di eccitare i cuori con quello che si chiama il carattere estetico del Cristianesimo. «La maestà della Scrittura mi sbalordisce; la semplicità del Vangelo mi parla al cuore », confessava il sentimentale Rousseau; ma che cosa importavano alla gloria di Dio queste vaghe e così sterili commozioni f II vero apostolo invece possiede il segreto di mostrare il Vangelo nella sua verità, non solo sempre attuale, ma anche sempre operante e continuamente rinnovata, perché divina, per l’anima che prende contatto con esso. Senza fermarsi a cercare il sentimento, egli con la parola di vita divina arriva fino a quella volontà in cui risiede la corrispondenza alla vera vita. Le convinzioni che produce, generano amore e risoluzione: egli solo possiede la sola eloquenza evangelica. – Non si dà vita interiore completa, senza una tenera divozione a Maria Immacolata, che è per eccellenza il canale di tutte le grazie e specialmente delle grazie più elette. L’apostolo abituato a quel perpetuo ricorso a Maria, senza il quale san Bernardo non può comprendere un vero figlio di questa incomparabile Madre, nell’esporre il dogma sulla Madre di Dio e Madre degli uomini, trova parole che non solo colpiscono e commuovono gli uditori, ma trasmettono anche a loro il bisogno di ricorrere in ogni loro difficoltà alla Dispensatrice del Sangue divino. Egli non ha che da lasciar parlare la sua esperienza e il suo cuore, per guadagnare le anime alla Regina del Cielo e per gettarle, per mezzo di Lei, nel Cuore di Gesù.

e) Perché la vita interiore produce la vita interiore, i suoi risultati sulle anime sono profondi e durevoli.

Bisognerebbe che questo capitolo aggiunto alle prime edizioni, fosse in forma di lettera indirizzata al cuore di ciascuno dei miei confratelli. Abbiamo considerato come le opere dipendano soprattutto dalla vita interiore dell’operaio evangelico; ma la preghiera e la riflessione mi hanno fatto vedere sotto un altro aspetto l’infecondità di certe opere, e credo di essere nel vero formulando questa proposizione: Un’opera non mette radici profonde, non è veramente stabile e non può durare, se l’operaio evangelico non abbia generato delle anime alla vita interiore. Ora questo non gli è possibile, se egli stesso non è molto nutrito di vita interiore.  – Nel capo III della seconda parte, riportavo le parole del canonico Timon-David, sulla necessità di formare in ogni istituzione un gruppo di cristiani ferventissimi i quali esercitino alla loro volta un apostolato sui loro compagni. Chi non vede come sia prezioso tale fermento e come questi collaboratori possano moltiplicare la forza di azione dell’apostolo?Questi non è più solo al lavoro, e i suoi mezzi di azione sono centuplicati. Mi affretterò a ripetere che soltanto l’uomo di azione, che sia di vera vita interiore, possiede abbastanza di vita per produrre altri focolari di vita feconda. Anche le istituzioni laiche riescono a ottenere zelatori capaci di fare propaganda e di esercitare un’autorità per amore dei colleghi, per spirito di corpo e per rivalità; bastano, come leva, il fanatismo o la concorrenza, il settarismo o la vanagloria, l’interesse o l’ambizione. Ma suscitare apostoli secondo il Cuore di Gesù Cristo, apostoli che partecipino della sua dolcezza e della sua umiltà, della sua bontà disinteressata e del suo zelo esclusivo per la gloria del Padre celeste, non è cosa possibile che alla leva dell’intensa vita interiore.  – Finché un’istituzione non abbia potuto dare questo risultato, la sua vita è effimera; quasi certamente essa non sopravvivrà al suo fondatore. La ragione della continuità di certe istituzioni invece, non ne dubito affatto, sta ordinariamente nel fatto che la vita interiore poté produrre la vita interiore. Citerò unesempio: Il sacerdote Aliemand, morto in concetto di santità, fondava a Marsiglia, prima della rivoluzione, L’opera giovanile degli studenti e impiegati. Questa istituzione conserva ancora il nome del suo fondatore e continua, dopo più di un secolo, a godere di una meravigliosa prosperità. Eppure quel sacerdote, per nulla ricco di doni naturali, miope all’eccesso, timido, privo di qualità oratorie, era, umanamente parlando, incapace della prodigiosa attività richiesta dalla sua impresa. I lineamenti irregolari del suo volto avrebbero indotto i giovanetti allo scherno, se non fosse stata la bellezza della sua anima che si rifletteva nel suo sguardo e in tutto il suo contegno; con tale bellezza l’uomo di Dio aveva su quei focosi giovani un’autorità che li dominava e imponeva rispetto, stima e affezione. Il pio Aliemand volle tutto basare soltanto sulla vita interiore e poté formare, nella sua istituzione, un gruppo di giovani dai quali esigeva liberamente, in tutta la misura permessa dalla loro condizione, una vita interiore integrale, un’assoluta custodia del cuore, la meditazione del mattino ecc., insomma la vita cristiana completa, come la intendevano e la praticavano ì Cristiani dei primi secoli. E quei giovani apostoli succedendosi continuarono davvero ad essere, in Marsiglia, l’anima di quella istituzione la quale diede alla Chiesa parecchi Vescovi e le dà ancora tanti sacerdoti, missionari, religiosi e migliaia di padri di famiglia i quali sono in quella città ì migliori appoggi delle opere parrocchiali e formano una falange che non solo è l’onore del commercio, dell’industria e delle libere professioni, ma forma un vero focolare di apostolato. Dico di padri di famiglia, e questa espressione richiama il solito ritornello che si sente un po’ dappertutto: «L’apostolato che è relativamente facile sui giovani, sulle fanciulle e sulle madri di famiglia, diventa spesso impossibile quando vogliamo esercitarlo sugli uomini. Eppure finché non avremo ottenuto che i capi di famiglia diventino non solo Cristiani, ma apostoli anch’essi, l’opera pure così importante della madre cristiana sarà resa vana o effimera, e noi non arriveremo mai a stabilire il regno sociale di Gesù Cristo. Ora in questa parrocchia, in questo sobborgo, in quest’ospedale, in quest’officina, non c’è nulla da fare per ridurre gli uomini ad essere profondamente Cristiani ». – Confessando cosi la nostra incapacità, non ci diamo forse quasi sempre un certificato di insufficienza di quella vita interiore che sola ci farebbe conoscere i mezzi per impedire che tanti uomini sfuggano all’azione della Chiesa? Alle fatiche di una preparazione intensa di prediche capaci di destare la convinzione, l’amore e profonde risoluzioni in cervelli e cuori di uomini, non preferiamo forse il facile trionfo oratorio con i giovani e con le donne? Soltanto la vita interiore ci potrebbe sostenere nelle fatiche della semina, umili e aspre e in apparenza per molto tempo infruttifere; essa soltanto ci farebbe comprendere la potenza di azione che ci darebbe il lavoro della preghiera e della penitenza, e come il nostro progresso nell’imitazione di tutte le virtù di Gesù Cristo moltiplicherebbe l’efficacia del nostro apostolato sugli uomini. Ero così sorpreso di quanto mi si diceva intorno a un circolo militare di una gran città della Normandia, che stentavo a credere a così meravigliosi risultati. Come mai, per esempio, i soldati venivano al circolo assai più numerosi quando vi era una lunga serata di adorazione, per riparare alle bestemmie e ai disordini della caserma, che non quando si faceva un concerto musicale o una rappresentazione in teatro? Ma dovetti cedere all’evidenza, e cessò anche lo stupore quando mi fu descritto fino a che punto l’Assistente ecclesiastico comprendeva il santo Tabernacolo, e quali apostoli aveva saputo formare vicino a questo. – Dopo tale esempio, che cosa dovremmo pensare di certi apostoli per i quali il cinematografo, il palcoscenico, l’acrobatismo formano quasi il programma di un quinto vangelo per la conversione dei popoli? L’uso di tali mezzi, in mancanza di altri, per attirare i giovani o per allontanarli dal male, otterrà certamente un risultato, ma per lo più quanto limitato ed effimero! Dio mi liberi dal raffreddare lo zelo dei cari confratelli che non possono concepire né adottare un altro metodo e intravvedono già (come provai io pure da giovane sacerdote inesperto) i loro oratori deserti, se consacrano un tempo più breve a preparare quelle ricreazioni moderne che sono ai loro occhi condizione sine qua non della riuscita. Mi limito dunque a metterli in guardia contro il pericolo di dare una parte troppo larga a quei mezzi e auguro loro la grazia di capire la tesi del canonico Timon-David del quale già ho riferito una conversazione. – Un giorno (avevo allora appena due anni di sacerdozio) quel prete venerando era obbligato, alla fine della conversazione, a dirmi molto fraternamente, ma non senza un po’ di pietà: «Non potesti portare modo; soltanto più tardi, quando sarete più avanti nella vita interiore, mi comprenderete meglio. Oggi, tutto ben considerato, non potete fare a meno di adoperare tali mezzi: adoperateli dunque tranquillamente, in mancanza di altri. Per me, io tengo benissimo i miei giovani operai e impiegati e ne attiro dei nuovi, benché da noi non ci sia quasi altro che quei giochi antichi e sempre nuovi i quali, mentre non costano nulla, riposano l’anima con la loro stessa semplicità. Guardate, soggiunse poi argutamente, vi feci vedere sul solaio gli strumenti musicali che io pure da principio consideravo come indispensabili; ecco che viene appunto verso di noi la nostra fanfara di oggi: voi ne giudicherete». Poco dopo infatti sfilava dinanzi a noi una squadra di quaranta o cinquanta ragazzi dai dodici ai diciassette anni. Che fracasso! Chi si sarebbe potuto trattenere dal ridere alla vista di quella schiera strana che lo sguardo sereno del vecchio canonico fissava con soddisfazione? «Osservate, mi disse, colui che cammina all’indietro alla testa della squadra e che agita la sua bacchetta come un direttore d’orchestra e poi la porta comicamente alle labbra a guisa di clarino: è un sottufficiale in licenza, uno dei nostri migliori zelatori. Per quanto può, fa la comunione quotidiana, ma soprattutto non tralascia mai la sua mezz’ora di meditazione. Straordinario nel tenere allegri gli altri; questo angelo di pietà si sforza con tutto il suo ingegno perché i giuochi dei mezzani non languiscano; meraviglioso nel trovare i mezzi per il suo scopo, tiene vivo l’entusiasmo di questi giovanetti; ma al suo occhio di aiutante e al suo cuore di apostolo non sfugge nulla». Non potevo trattenere le risa dinanzi a quel gruppo di musici che eseguivano le canzonette più comuni: Un canard déployant ses ailes; As-tu vu la casquette ecc. Al segnale del capobanda si cambiava ritornello; ciascuno degli esecutori simulava uno strumento: gli uni con le mani allargate davanti alla bocca, altri con un foglio di carta che vibrava tra le labbra, alcuni pochi con uno zufolo; ma nella prima fila dei musici v’era un trombone a pompa e una grancassa: il primo fatto con due bastoni all’uno dei quali la mano dava un movimento regolare in su e in giù; la seconda era una vecchia latta da petrolio! I visi raggianti di tutti quei giovanetti mostravano tutto il loro entusiasmo per quel gioco. «Andiamo dietro alla fanfara», mi disse il canonico. Infondo del viale vi era unastatua della Madonna. «In ginocchio, amici — comandò il capobanda — un’Ave maris stella alla nostra buona Madre epoi una posta del Rosario ». Quel piccolo mondo restò prima un minuto in silenzio, poi cominciò a rispondere alle Ave Maria con la stessa divozione che se fosse stato in cappella. Quei piccoli Meridionali, quasi tutti congli occhi bassi, veri folletti pochi minuti prima, si erano improvvisamente trasformati in angeli di Fra Angelico! «Non dimenticate, mi disse lamia guida, che questo è il termometro dell’istituzione: trattenere con divertimenti semplici e allegri i nostri giovani anche di più di vent’anni; ottenereche desiderino di ripigliare qui, nelle loro ore di preghiera e di ricreazione, un’anima da fanciullo; arrivare soprattutto a far pregare, ma pregare davvero, anche in mezzo al gioco: tutti i nostri zelatori mirano a questo». La banda si rialzò per nuovi saggi artistici che echeggiarono nell’ampio cortile. Un momento dopo si giocava animatamente alla barra. Avevo notato che il sottufficiale, alzandosi dopo l’Ave maris stella, aveva sussurrato alcune parole all’orecchio di due o tre i quali subito, allegramente e come obbedendo a un’usanza praticata da tutti, andarono a deporre il camiciotto da ricreazione e in ordine si diressero alla cappella per passarvi un quarto d’ora presso il Divino Prigioniero. « La nostra ambizione, soggiunse allora il canonico Timon- David con profonda convinzione, la nostra ambizione deve mirare alla formazione degli zelatori nei quali l’amore di Dio sia abbastanza intenso perché, quando avranno lasciato l’istituto e abbiano fondato una famiglia rimangano apostoli premurosi di comunicare al maggior numero di anime gli ardori della loro carità. Se il nostro apostolato, continuava il santo sacerdote, mirasse soltanto a formare buoni Cristiani, come sarebbe limitato il nostro ideale! Noi dobbiamo creare legioni di apostoli affinché quella cellula fondamentale della società, che è la famiglia, diventi essa pure un centro di apostolato. Ora soltanto una vita di sacrificio e d’intimità con Gesù, ci darà la forza e il segreto di svolgere integralmente tale programma; soltanto a questa condizione la nostra azione sarà potente nella società, e si adempirà la parola del Maestro: Ignem veni mittere in terram et quid volo nisi ut accendatur? » (Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e che altro voglio se non che si accenda? – Luc. XII, 49).  Solamente molto più tardi, purtroppo, sono riuscito a comprendere il valore delle lezioni viventi del canonico, così profondo nella sua psicologia e nella sua tattica, e sotto lo sguardo di Dio, per il quale i trionfi apparenti non contano nulla, a confrontare i risultati dei diversi mezzi adoperati. Questi mezzi, secondo che sono semplici come il Vangelo o complessi come tutto ciò che è troppo umano, possono servire a valutare un’istituzione e quelli che ne sono l’anima. Contro Golia avevano combattuto invano i forti d’Israele bene armati, e il giovine Davide va contro di lui con una fionda, un bastone e cinque pietre del torrente: l’adolescente non chiedeva di più; ma quel suo: In nomine Domini exercituum (lo vengo a te nel nome del Dio degli eserciti – I Re, XVII, 45), era già di un’anima capace di arrivare alla santità. Oggi si parla molto dei doposcuola laici; ma essi potranno pure avere a loro disposizione somme enormi stanziate ufficialmente dallo Stato, magnifici locali ecc.; i doposcuola della Chiesa, nonostante la loro povertà, non ne dovranno temere la concorrenza, se sono fondati sulla vita interiore e con l’attrattiva di ciò che più di tutto piace al giovane, cioè con il loro ideale, attireranno la parte migliore della gioventù.  Terminerò con un ultimo esempio il quale ci servirà a farci conoscere l’uomo di azione il quale sembra trascinare le anime al Signore fino al punto di farne degli apostoli, ma che in realtà desta soltanto entusiasmi nati dalla simpatia naturale per la sua persona e dall’azione magnetica che egli esercita intorno a sé. I giovani, felici di trattare con una pia persona che li incanta, orgogliosi nel vedere che si occupa di loro, formano intorno a lui come una corte e accettano a gara, ma soprattutto per fargli piacere, le pratiche anche più penose che sembrano il riflesso di una vera divozione.  Una Congregazione di ottime Suore catechiste era diretta da un Religioso di cui fu scritta ultimamente la vita. Quest’uomo di vita interiore disse un giorno a una Superiora locale: «Madre, sarei di parere che la Suora X… lasci almeno per un  anno d’insegnare il catechismo. — Ma padre, come si fa? è la migliore insegnante: i fanciulli accorrono da tutti i sobborghi della città, attratti dai suoi modi meravigliosi. Il toglierla dal catechismo equivale a far disertare quasi tutti quei fanciulli. — Io ho assistito dalla tribuna al suo catechismo, rispose il Padre; essa veramente incanta i fanciulli, ma in maniera troppo umana. Dopo un anno di un secondo noviziato, formata meglio alla vita interiore, essa santificherà l’anima sua e le anime dei fanciulli col suo zelo e col buon uso del suo ingegno; ma attualmente, senza saperlo, essa è un ostacolo all’azione diretta del Signore su quelle anime che si stanno preparando alla prima comunione. Vedo, Madre, che la mia insistenza vi rattrista; ebbene, accetterò una transazione: conosco Suor N… anima di vita interiore, ma d’ingegno limitato; domandate alla vostra Superiora Generale, che ve la mandi per qualche tempo. La prima verrà a incominciare per un quarto d’ora il catechismo, tanto per calmare il vostro timore di diserzione, poi a poco a poco si ritirerà del tutto. Vedrete allora che i fanciulli pregheranno meglio e canteranno più devotamente. Il loro raccoglimento e la loro docilità avranno un carattere più soprannaturale: questo sarà il termometro». Quindici giorni dopo, e la Superiora poté constatarlo, Suor N… faceva da sola il catechismo, eppure il numero dei fanciulli andava crescendo. Era proprio Gesù che insegnava il catechismo, per mezzo di lei; col suo sguardo, con la sua modestia, con la sua dolcezza, con la sua bontà, con la sua maniera di fare il segno di croce, con il suo tono di voce, essa esprimeva Gesù Cristo. Suor X… aveva potuto spiegare con ingegno e rendere piacevole ciò che vi era di più arido, ma Suor N… faceva di più. Certamente essa non trascurava nulla per prepararsi alle spiegazioni e per esporle con chiarezza, ma il suo segreto e quello che dominava nel suo cuore era l’unzione: e appunto con questa unzione le anime si trovano veramente a contatto con Gesù. Ai catechismi di Suor N… vi era assai meno di quelle esplosione rumorose, di quegli sguardi attoniti, di quel fascino che avrebbe potuto destare egualmente la conferenza assai interessante di un esploratore o il racconto commovente di una battaglia. Vi era invece un’atmosfera di attenzione raccolta: quei fanciulli stanno nella sala del catechismo come in chiesa; nessun mezzo umano per impedire la dissipazione o la noia.Qual è dunque l’influenza misteriosa che domina quell’uditorio?Non ne dubito: è quella di Gesù che si esercita direttamente. Infatti un’anima di vita interiore, che spieghi il catechismo, è un’arpa che suona al tocco del divino Artista, enessun’arte umana, per quanto meravigliosa, è paragonabile all’azione di Gesù.

f) Importanza della formazione dei migliori e della direzione spirituale

Ritorno ancora alla conversazione memorabile riferita poc’anzi (2a parte, capo II), che io ebbi con il Rev. Timon-David. Una parola caduta dalle labbra di questo esperto fondatore di opere giovanili, certamente avrà colpito il lettore: usando la parola scultoria emetaforica «stampelle», il venerando canonico riassumeva il suo pensiero sull’impiego di certi divertimenti moderni (teatro, fanfara, cinematografo, giochi costosi e complicati ecc.) per attirare etrattenere i giovani nelle istituzioni giovanili. Tali divertimenti che sono spesso occasione di soverchio strapazzo e di depressione fisica, tendono meno ariposare e a dilatare l’anima o a conservare la buona salute, che non a lusingare la vanità e a sovreccitare la fantasia e la sensibilità. Del resto con questo nome di «stampelle» non si alludeva affatto a quei giochi assai divertenti, benché molto semplici, che riposano lo spirito, fortificano il corpo e furono trovati sufficienti da tante generazioni cristiane. Confrontando, ma senza metterlo abbastanza al tempo giusto, il parere di quel saggio canonico con quello di altri eccellenti direttori di opere giovanili, qualcuno si è potuto domandare se egli non generalizzasse troppo il caso in cui le «stampelle» si potessero sopprimere. Senza parlare delle istituzioni create specialmente a sollievo delle miserie corporali, si possono dividere le altre in due categorie: quelle in cui si vogliono soltanto i migliori, e quelle che escludono soltanto i cattivi. Però supponiamo che in questo secondo caso si cerchi pure di formare un nucleo dei migliori, capaci, con il loro fervore, di far notare dagli altri lo scopo dell’istituzione, quello cioè di condurre tutti i suoi membri a una vita non superficialmente, ma profondamente cristiana; altrimenti si avrà l’Istituzione profana diretta da un parroco, secondo l’espressione maliziosa di un bravo professore il quale, dietro la facciata clericale, sospettava che vi fossero le stesse miserie che si deplorano negli stabilimenti sottratti all’influenza della Chiesa.  I direttori che respingono assai facilmente dalle loro istituzioni i soggetti riconosciuti incapaci di essere messi tra i migliori, applaudono e trovano perfetta la parola «stampelle» per esprimere fino a qual punto essi considerano come secondari certi mezzi di cui sanno fare a meno, o che subiscono quasi loro malgrado. E senza dubbio essi sono tutt’altro che a corto di argomenti per difendere il loro parere. Per essi l’avvenire della società e la restaurazione della patria non può derivare che da un’irradiazione più intensa della santità della Chiesa. Con questo mezzo, essi dicono, più che con conferenze apologetiche, il Cristianesimo si sviluppò così rapidamente nei primi secoli della sua storia, nonostante la potenza dei suoi nemici, le prevenzioni di ogni sorta e la corruzione generale. Essi troncano ogni discussione con risposte di questo genere: Potete citare un solo fatto il quale dimostri che in quel periodo la Chiesa abbia avuto bisogno d’inventare divertimenti per distogliere dalla turpitudine degli spettacoli pagani le anime che doveva guadagnare? Uno di questi direttori, alludendo alla sete di denaro e alla frenesia per il cinematografo, che oggi riscaldano le folle avide di piaceri, mi diceva: Il Panem et circenses dei Romani della decadenza si potrebbe oggi tradurre in Biscottini e cinematografo. Ora prendete per esempio sant’Ambrogio e sant’Agostino, uomini straordinari nell’attirare le anime; si può trovare nella loro vita un solo tratto che ce li mostri come organizzatori di istituzioni che avessero lo scopo di procurare alle loro pecorelle dei divertimenti capaci di far loro dimenticare i piaceri offerti dal paganesimo?— E per convertire Roma tanto intepidita dallo spirito della Rinascenza, dove leggiamo noi che san Filippo Neri abbia avuto bisogno delle «stampelle» che eccitavano il buon umore del Rev. Timon-David! È certo che, tra i fedeli, la Chiesa primitiva, come si è già accennato, seppe formare un incomparabile e numeroso nucleo di persone scelte le cui virtù stupivano i pagani e obbligavano all’ammirazione le anime leali, anche le più prevenute per i loro princìpi, per le loro tradizioni e per i loro costumi, contro la religione cristiana. Le conversioni avvenivano anche in quegli ambienti in cui il sacerdote non poteva penetrare. Dinanzi a queste lezioni del passato, noi dobbiamo domandare a noi stessi se nel nostro secolo non abbiamo una fiducia esagerata non soltanto in certi divertimenti che stordiscono, ma anche in diversi mezzi, pellegrinaggi, feste di parata, congressi, discorsi, pubblicazioni, sindacati, azione politica ecc., prodigati oggi a larga mano e utilissimi, senza dubbio, ma ai quali sarebbe cosa deplorevole dare il primo posto. La predicazione per mezzo dell’esempio sarà sempre la leva principale: exempla tradunt. Le conferenze, i buoni libri, la stampa cristiana e anche i migliori discorsi, tutto deve svolgersi intorno a questo programma fondamentale: Regolare l’apostolato sul popolo PER MEZZO DELL’ESEMPIO di Cristiani fervorosi i quali fanno rivivere Gesù Cristo ed esalano il profumo delle sue virtù. I sacerdoti che, lasciandosi assorbire da funzioni estranee al loro ministero, si dedicano troppo poco a quella che è la principale, cioè la formazione dei migliori per la gran propaganda per mezzo del buon esempio, dovranno dunque stupirsi se nei nostri paesi i tre quarti degli uomini restano immobili nell’indifferenza e non vedono nella Chiesa altro che un’istituzione onorevole, di una certa utilità sociale, e non già la forza prima di ogni esistenza individuale, la chiave di volta delle famiglie e delle nazioni, il gran faro della verità e della vita eterna? Qual è dunque questa religione capace d’illuminare, di fortificare e d’infiammare così il cuore umano? Così dicevano i pagani vedendo i meravigliosi effetti che seppe produrre la Lega silenziosa dell’azione per mezzo del buon esempio. La forza di quella Lega che esisteva tra i primi Cristiani, non le veniva certamente dalla sola pratica del Declina a malo (Salmo XXXVI). La fuga delle azioni condannate dal Decalogo, non sarebbe bastata a far nascere, insieme con l’ammirazione, il forte desiderio d’imitare. Soprattutto con il Fac bonum (Salmo XXXVI) si collega l’Exempla trahunt. Ci voleva tutto lo splendore delle virtù evangeliche quali erano state proposte al mondo nel Discorso della Montagna. Un uomo di Stato, illustre ma incredulo, mi diceva un giorno: «Se la Chiesa sapesse scolpire più profondamente nei cuori il testamento del suo Fondatore: Amatevi a vicenda, diverrebbe la grande potenza indispensabile alle nazioni ». Non si potrebbe fare la stessa riflessione, riguardo a parecchie altre virtù? Con la sua conoscenza profonda dei bisogni della Chiesa, san Pio X aveva spesso delle vedute meravigliosamente giuste. L’ami du Clergé (Prédication, 20 gennaio 1921) ricorda un’importante conversazione del santo Pontefice con un gruppo di cardinali. « Qual è, disse il Papa, la cosa più necessaria oggi per la salvezza della società? — Edificare scuole cattoliche, disse uno. — No. — Moltiplicare le chiese, disse un altro. — Neppure. — Promuovere le vocazioni ecclesiastiche, disse un terzo. — No, no, rispose san Pio X, quello che presentemente è PIÙ necessario, è di avere in ogni parrocchia un gruppo di laici che siamo a un tempo assai virtuosi, illuminati, risoluti e veramente apostoli» (Se si confrontano certi passi della prima Enciclica di san Pio X con diverse parole che disse più tardi, si capisce che, nella conversazione che qui citiamo, egli si attende dal fervore dei sacerdoti la formazione dei nuclei scelti di cui parla, e su questi fa poi assegnamento (più che su tutti gli altri mezzi) per vedere accresciuto il numero dei veri fedeli. Ottenuto questo risultato, sono assicurate le vocazioni sacerdotali, come pure la moltiplicazione delle scuole e delle chiese.  Quando la quantità non dipende dalla qualità è ben grave il rischio di non ottenere altro che uno sfoggio di religiosità chiassosa, vana e ingannatrice). Altri particolari mi permettono di affermare che questo santo Papa, nei suoi ultimi giorni, aspettava la salvezza del mondo soltanto dalla formazione, per mezzo dello zelo dei sacerdoti, di fedeli che fossero fervorosi apostoli con la parola e con l’azione, ma soprattutto con il buon esempio. Nelle diocesi in cui, prima di essere Papa, egli aveva esercitato il ministero, dava minore importanza al registro de statu animarum, che non alla lista dei Cristiani capaci di irradiare con il loro apostolato. Egli giudicava che in qualsiasi ambiente si possono formare dei nuclei di fedeli scelti. Perciò egli CLASSIFICAVA i suoi sacerdoti secondo i risultati che il loro ZELO e la loro CAPACITÀ avesse ottenuto su questo punto. Il parere di questo santo Pontefice dà un’autorità speciale al sentimento dei direttori di istituzioni della prima categoria di cui si è parlato poco fa. Se nella formazione dei migliori consiste la sola e vera strategia per agire sulle masse, dunque il conservare dei soggetti di cui non si abbia seria speranza di renderli migliori, è uno sbaglio, quando con questo si corre il pericolo di abbassare il livello dei migliori, anche fino al punto che siano migliori soltanto di nome. Gli altri direttori che si limitano a scartare i soggetti pericolosi, non sono tuttavia senza argomenti per protestare contro l’espressione «stampelle» con cui si qualificano certi mezzi che ai loro occhi non sono punto i meno efficaci. Essi si difendono con mostrare a quali pericoli sarebbero esposte le anime che non si volessero ricevere nelle loro istituzioni, la necessità di accontentarsi di un numero infimo di reclute se si mirasse soltanto ai migliori, l’atmosfera appestata in cui vivono coloro che essi devono evangelizzare ecc. Sarebbe cosa ingiusta e crudele, essi dicono, il trascurare i più e il voler agire su loro soltanto con l’esempio dei migliori, senza tentare di agire direttamente sui mediocri, non fosse altro che per impedire loro di cadere più in basso e per preparare cosi dei candidati ai gruppi dei migliori. – Con molto rispetto ascoltai queste opinioni diverse di direttori o di direttrici di opere giovanili, persone di perfetta e buona fede e di zelo indiscutibile. Non cercherò di conciliare le opinioni diverse: ma siccome scrivo specialmente per i miei venerati confratelli nel sacerdozio, preferisco domandare a me stesso quale sarebbe la risposta del santo sacerdote Àllemand o quella del Rev. Timon-David, se fossero invitati a mettere d’accordo le due tesi con prendere un giusto mezzo. Il disegno dell’uno e dell’altro era questo: – 1° Trovare, tra le centinaia di giovani Cristiani appartenenti all’istituzione, una minoranza anche minima, capace di desiderare vivamente e di praticare seriamente la vita interiore. – 2° Poi riscaldare, direi quasi fino all’incandescenza, quelle anime, con far loro amare appassionatamente il Signore, con ispirare loro l’ideale delle virtù evangeliche e isolandole più che sia possibile dal contatto degli altri studenti, impiegati, operai ecc., fino a che la loro vita interiore non sia giunta al grado in cui li possa rendere immuni dal contagio. – 3° Finalmente, venuto il momento opportuno, comunicare a questi giovani lo zelo per le anime con il fine di servirsene per meglio agire sui loro compagni. Lo stabilire con precisione quel minimo che i due sacerdoti esigevano dai non ferventi, per conservarli qualche tempo nella loro istituzione, mi porterebbe troppo lontano: preferisco richiamare l’attenzione sulla parte considerevole che essi attribuivano alla direzione spirituale per mettere in opera il loro disegno. Il sacerdote Allemand (La vie et l’esprit de Jean-Joseph Allemand, par l’abbé GADUEL, Paris, Lecoffre), nel dirigere personalmente ciascun giovane, riusciva mirabilmente a destare in lui santi entusiasmi per la perfezione e a convincerlo che la miglior prova di devozione al Sacro Cuore è l’imitazione delle virtù del Modello divino.  – Il canonico Timon-David poi, eccellente confessore, abile nello scoprire e nel curare le piaghe delle anime, era inoltre un eccellente direttore spirituale. Nessuno meglio di lui seppe infiammare i cuori dell’amore alla virtù ed eccitare così i suoi collaboratori a non accontentarsi, nella guida delle anime, dei princìpi della teologia morale propri della vita purgativa, ma a servirsi della direzione per orientarle verso la vita illuminativa. Era impareggiabile la sua sollecitudine per fare dei suoi sacerdoti collaboratori, dei veri direttori di anime. Tutti e due consideravano come insufficienti le brevi esortazioni prima dell’assoluzione settimanale, le loro prediche ai giovani raccolti insieme, l’ordinamento della vita liturgica e persino le loro conferenze, pure così attraenti, fatte ai migliori: essi ritenevano cosa INDISPENSABILE la direzione mensile data a ciascuno in particolare. – Essi erano convinti che, dopo la preghiera e il sacrificio, il mezzo più efficace per ottenere dalla grazia di Dio quelle anime scelte che possono rigenerare il mondo, è l’azione del vero sacerdote per mezzo del suo ministero, ma SPECIALMENTE per mezzo della direzione spirituale. – Usciamo dalla cerchia ristretta delle opere giovanili e abbracciamo con uno sguardo tutto il campo che la Chiesa deve coltivare: istituzioni di ogni sorta, parrocchie, seminari, come pure comunità e missioni. Nessuno è capace di guidarsi da sé: tutti hanno debolezze da vincere, tendenze da regolare, doveri da compiere, rischi da incontrare, occasioni pericolose da evitare, difficoltà da superare e dubbi da rischiarare. Se per tutto questo è necessario un aiuto, tanto più per camminare verso la perfezione. Il sacerdote mancherebbe, e talora gravemente, al suo dovere di dottore e di medico delle anime, se le privasse del grande aiuto supplementare del confessionale, di quell’indispensabile propulsore della vita interiore che si chiama la direzione spirituale. Sono ben da compiangere le istituzioni in cui i confessori, che hanno sempre poco tempo disponibile, prima di assolvere non danno per lo più che una pia ma vaga esortazione che spesso è la medesima per tutti, invece di offrire lo specifico che un medico esperto e laborioso avrebbe saputo scegliere, secondo lo stato di ciascun ammalato. Nonostante la sua fede nell’efficacia del Sacramento, il penitente allora deve quasi considerare il ministro semplicemente come un « distributore automatico » simile a quelli che si vedono talora nelle stazioni ferroviarie, che, introducendo la moneta, vi mettono fuori un pasticcino. – Sono invece privilegiati gli oratori, le scuole, gli orfanotrofi ecc., in cui il confessore conosce l’arte della direzione ed è convinto di dovere PRIMA DI TUTTO praticare l’arte sua, se vuole ottenere che tutte le anime capaci di vibrare per un ideale, si diano risolutamente agli esercizi della vita interiore. Quanti padri e madri di famiglia videro singolarmente accresciuta la loro azione sui loro figliuoli e sui loro amici, perché incontrarono un vero direttore! Quali tesori vi sono da far valere, nell’anima di un fanciullo! È il momento in cui l’albero sta per piegarsi, e spesso definitivamente, o da un lato o dall’altro. Per non aver avuto nei loro anni giovanili una direzione adatta alla loro età e alle loro disposizioni, saranno molti gli adulti che non si potranno più contare tra i bei fiori del giardino di Gesù. Quante vocazioni sacerdotali o religiose avrebbero potuto sbocciare! Talora, anche per parecchie generazioni, in una parrocchia, in una missione, continuerà l’impulso dato da un sacerdote il quale sia stato ben altro che un discreto distributore di assoluzioni. Insieme con Ars, con Mesnil-Saint-Loup, si potrebbero citare altri luoghi, veri focolari di vita soprannaturale, in mezzo all’intiepidimento generale, perché ebbero la fortuna di avere un direttore zelante, prudente e pieno di esperienza. – Fui meravigliato e commosso quando, nel mio viaggio in Giappone, circa quindici anni fa, ebbi la fortuna d’incontrare alcuni membri di numerose famiglie cristiane, scoperte circa mezzo secolo fa presso Nagasaki. Cosa inaudita! Circondati da pagani, obbligati a celare la loro religione, privi di sacerdoti da ben tre secoli, quei fedeli avevano ricevuto dai loro padri non soltanto la fede, ma il fervore. Dove trovare uno slancio iniziale tanto forte da spiegare la potenza e la durata di una trasmissione tanto straordinaria? La risposta è facile: I loro antenati avevano avuto in san Francesco Saverio un meraviglioso direttore di questi nuclei dei migliori. Come mai certi piccoli seminari che mancano di direttori spirituali, potranno essere vivai di futuri sacerdoti? La maggior parte dei loro allievi, per non essere stati indirizzati abbastanza per tempo verso la perfezione, come potranno poi elevarsi sopra la mediocrità, nell’esercizio del loro sacerdozio? Fortunate queste anime che vanno cercando la loro via, se non sono state falsate nel loro desiderio di vita sacerdotale, affascinate dal bagliore delle doti naturali di certi professori dai quali trapelava l’indifferenza per la vita interiore e il disprezzo di una regolare direzione spirituale. La prova che in molte Comunità religiose, di vita attiva e anche di vita contemplativa, molti soggetti vegetano soltanto per mancanza di direzione spirituale, è il mutamento radicale che SPESSO potei costatare in anime tiepide, ritornate al fervore della loro professione dal momento che ebbero finalmente un direttore coscienzioso. Certi confessori sembrano dimenticare che le anime consacrate di cui essi hanno la cura, sono obbligate a tendere alla perfezione e hanno un BISOGNO BEALE di essere aiutate e stimolate per effettuare quei progressi continui a cui si possono applicare quelle parole del Salmo: Ascensione in corde suo disposuit… ibunt de virtute in virtutem (Salmo LXXXIII), e per diventare allora veri apostoli della vita interiore. E anche quanti sacerdoti sarebbero più fervorosi, trovando tutta la loro felicità nella vita eucaristica e liturgica e nel progresso delle anime, se il confessore da loro scelto manifestasse loro la sua vera amicizia, con il suo tatto nel guidarli, con la persuasione, alla direzione mensile, in vista di quella perfezione a cui devono tendere più ancora che i religiosi. Non si vede che parte importante danno gli agiografi al direttore spirituale di quasi tutti coloro dei quali raccontano la vita? E la Chiesa non conterebbe forse un maggior numero di Santi, se le anime generose, le anime sacerdotali e religiose soprattutto, fossero dirette con maggiore serietà? Senza l’intima direzione sacerdotale dei genitori di santa Teresa del Bambino Gesù e, più tardi, senza l’azione diretta dei rappresentanti di Dio su questa eletta dal Signore, la terra riceverebbe forse dal cielo quella pioggia di rose di cui è inondata?  Nei suoi scritti, il P. Desurmont ritorna spesso su questo pensiero: Per certe anime la salvezza è collegata con la santità. O tutto o nulla; o l’amore ardente di Gesù, o il culto del mondo e la direzione di satana; o la santità, o la dannazione.  Non sarebbe dunque cosa temeraria il temere dolorose sorprese, al giudizio particolare, per i sacerdoti i quali, per non avere studiato l’arte della direzione spirituale e per aver scansata la fatica che esige la sua pratica, sono, per certi rispetti, responsabili della mediocrità o anche della perdita delle anime. Amministratori capaci, predicatori eccellenti, pieni di sollecitudine per gli infermi e per i poveri, essi hanno però trascurato quella gran tattica adoperata dal Salvatore, quella cioè di trasformare la società per mezzo dei migliori. Il piccolo drappello di discepoli che Gesù scelse e formò Egli stesso e che poi Io Spirito Santo infiammò, bastò per corniciare la rigenerazione del mondo.  – Salutiamo con rispetto quei Vescovi sempre più numerosi, i quali, dietro l’esempio di san Pio X, giudicano che nei loro Seminari un corso di ascetica e anche di mistica è assai più utile che non le conferenze di sociologia. Per far notare l’importanza della direzione, essi esigono prima di tutto che i seminaristi vi siano fedeli per il loro progresso individuale e che tutti i professori ne abbiano una stima speciale e la dimostrino con il loro irradiamento di vita interiore.  Essi vogliono inoltre che tutti gli aspiranti al sacerdozio imparino quello che si riferisce al Regimen animarum, a quest’arte che dipende da princìpi bene stabiliti e dai saggi consigli vissuti da coloro che l’hanno sperimentata. Soprattutto di questa Ars artium si può dire che il Sapere deve necessariamente essere accompagnato dal Saper fare. – Riguardo la direzione, quante false nozioni e quanti pregiudizi si devono sfrondare, se si consultano gli autori che la Chiesa considera come maestri nella vita spirituale! Certe persone sanno molto bene far deviare la direzione dal suo scopo, se il sacerdote lascia che il suo zelo vada ondeggiando senza bussola, e se non regge il timone con mano ferma. Ora sono sedute di chiacchiere sterili o di moine tenere che lusingano l’amor proprio, oppure, portando al quietismo, diminuiscono la responsabilità personale; ora è una scuola di falsa pietà e di sentimentalismo, in cui si sviluppa il gusto delle emozioni sensibili o quello di una religiosità tutta fatta di divozioni esteriori; ora è una specie di ufficio notarile in cui si fa l’abitudine di venire a consultare per i più lievi incidenti della vita, per gli affari temporali e per le brighe familiari… E quante sono le altre false vie in cui si possono disgraziatamente smarrire e direttori e anime dirette! Il sacerdote deve perciò vigilare perché il carattere della direzione non venga falsato. Tutto deve convergere verso il fine chiaramente tracciato in questa definizione. La direzione consiste nel complesso metodico e regolare dei consigli che una persona, la quale abbia la grazia dello stato, la scienza e l’esperienza (soprattutto il sacerdote), dà a un’anima retta e generosa, per farla progredire verso la soda pietà e anche verso la perfezione. Anzitutto è una PREPARAZIÓNE DELLA VOLONTÀ, di questa facoltà principale che san Tommaso chiama Vis unitiva, la sola, in ultima analisi, in cui risiede l’unione col Signore e l’imitazione delle sue virtù. Il direttore degno di questo nome, si rende conto non soltanto delle cause intime dei mancamenti, ma anche delle diverse inclinazioni dell’anima. Egli ne analizza le difficoltà e le ripugnanze nel combattimento spirituale; fa irradiare l’ideale, prova, sceglie, verifica i mezzi di viverlo, segnala gli scogli e le illusioni, scuote il torpore, incoraggia, riprende e consola, se occorre, ma soltanto per ritemprare la volontà contro lo scoraggiamento o la disperazione. La direzione è ordinariamente legata alla confessione, finché l’anima, conservando ancora qualche attacco al peccato, rimane nella vita purgativa. Ma quando l’anima è seriamente orientata verso il fervore, più facilmente la direzione può diventare distinta dalla confessione. Appunto perché non sia confusa con questa, certi sacerdoti la vogliono dare soltanto dopo l’assoluzione e ordinariamente la danno soltanto una volta al mese a coloro che si confessano ogni settimana. Non è nel programma di questo volume lo sviluppare come si fa la direzione; ma siccome sono persuaso che molti sacerdoti devono prendere con maggiore serietà quest’arte spirituale, sarebbe per me una gran gioia, lo confesso, il tentare di offrire a certi confratelli che non hanno il coraggio di studiare opere voluminose, un sunto breve e pratico di ciò che è stato dato dai migliori intorno a questo argomento (Trattati speciali: La direction spirituelle, del Ven. P. Libermann (CEuvre de Saint-Paul 6, rue Cassetto, Parigi). — L’esprit tfun directeur des àmes, del Sig*. Olier (Poussielgue, Parigi). — La charité sacerdotale, del P. Desurmont (Saint-Famulo, rue Servandone Parigi). — Trattati diversi del Rev. Tixnon-David, indicati a pag. 54. — Les degrés de la vie spiritatile, di Saudreau (Grassin et Richou, Angers). — La pratigue progressive de la Confession et de la Direction e vari altri volumi dello stesso autore sulla Formazione morale e religiosa (Lib. Saint-Paul, Parigi). — Direction des Enfants, di Simon (Téqul, Parigi). Pratique de l’Education, di Monfat (Téqui). — L’éducateur apótre, di Guibert (Gigord, Parigi) ecc. Tra i molti che trattano della Direzione spirituale, vi sono: Cassiano, san Gregorio Magno, san Bernardo, san Bonaventura, san Vincenzo Ferreri, santa Teresa, san Francesco di Sales. san Vincenzo de’ Paoli, sant’Alfonso, san Gerolamo, santa Giovanna F. di Chantal, Bossuet, Fénelon, Dupanloup ecc., nelle loro Lettere. — I PP. Aquaviva, Lallemand, Grou, Scaramelli S. J. — Ribet, L’ascétisìne chrétien (Poussielgue, Parigi). — Meynard, O. P. (Jules, Vie, Parigi). — Mons. Gay. — Saudreau (L’ideal de l’dme fervente; La vote qui méne à Dieu; Manuel de spiritualité). — Schievers C. SS. R., Principe de la Vie spirituelle (Devit, Bruxelles) ecc.  Le opere di educazione o di psicologia pedagogica, come quelle dei PP. Eymieu (Perrin, Parigi) e de la Vaissière, S. J. (Beauchesne, Parigi), del PP. Raymond (Beauchesne) e Noble, O. P. (Lethielleux, Parigi), saranno utilissime ai direttori.  Del resto lo studio serio di La charitè sacerdotale del P. Desurmont o dei Degrés de la Vie spirituelle del Can. Saudreau, forniscono già a qualunque sacerdote del mezzi preziosi per dirigere le anime). Questo compendio non solo faciliterà lo studio e la classificazione delle anime, ma stabilirà con precisione i mezzi preconizzati dal Duc in altum adattato agli stati principali. Ciascun’anima è come un mondo a sé, con le differenze sue proprie; tuttavia ex communibus contigentibus si possono classificare i Cristiani in alcuni gruppi. Mi sembra utile il tentare qui di fare tale classifica, prendendo come pietra di paragone, da una parte il peccato o l’imperfezione, dall’altra la preghiera. Vorrei con questo quadro indurre qualcuno dei miei venerati confratelli a riflettere sulla necessità di uno studio che gli permetterebbe di conoscere le regole pratiche per dirigere ciascun’anima secondo il suo stato. Se per le due prime categorie il sacerdote non può direttamente agire sulle anime, almeno, se egli è un buon direttore, guiderà assai più facilmente i genitori o gli amici a cui sta a cuore di trarre, anche dall’indurimento delle persone che loro sono care e che Dio ancora non ha definitivamente rigettate.

1. INDURIMENTO.

Peccato mortale. — Stagnamento in questo peccato, per ignoranza o per coscienza falsata maliziosamente. — Soffocamento o assenza di rimorsi.

Preghiera. — Soppressione volontaria di qualunque ricorso a Dio.

2. VERNICE CRISTIANA.

Peccato mortale. — Considerato come un male leggero e che facilmente viene perdonato; l’anima vi si abbandona facilmente ad ogni occasione o tentazione. — Confessioni quasi senza dolore.

Preghiera. — Macchinale, senza attenzione e sempre dettata da interesse materiale. — Rari e superficiali riflessioni su se stesso.

3. PIETÀ MEDIOCRE.

Peccato mortale. — Debolmente combattuto. — Fuga meno frequente delle occasioni, ma pentimenti seri e vere confessioni.

Peccato veniale. — Si viene a patti con tale peccato considerato come un male insignificante, e perciò tepidezza di volontà. — Non si fa nulla per prevenirlo né per toglierlo né per scoprirlo.

Preghiera. — Assai benfatta di quando in quando. —Velleità passeggere di fervore.

4. PIETÀ INTERMITTENTE.

Peccato mortale. — Lealmente combattuto. Fuga abituale delle occasioni. — Pentimenti vivissimi. — Penitenze per ripararvi.

Peccato veniale. — Talora deliberato. — Combattuto fiaccamente. — Pentimento superficiale. — Esame particolare senza spirito di regolarità.

Preghiera. — Risoluzione insufficiente di essere fedele alla meditazione che l’anima abbandona quando è nell’aridità oppure è molto occupata.

5. PIETÀ ELEVATA.

Peccato mortale. — Mai. — Al più qualche rarissima sorpresa violenta e improvvisa. Allora spesso il peccato mortale è dubbio ed è seguito da vivo pentimento e da penitenza.

Peccato veniale. — Vigilanza per evitarlo e per combatterlo. — Raramente deliberato. — Pentimento vivo, ma poca riparazione. — Esame particolare regolare, ma che mira soltanto alla fuga dei peccati veniali.

Imperfezioni. — L’anima evita di scoprirle per non doverle combattere, oppure le scusa facilmente. — La rinunzia è ammirata e anche desiderata, ma è poco praticata.

Preghiera. — Fedeltà costante e a qualunque costo all’orazione, spesso affettiva. — Alternative di consolazioni spirituali e di aridità subite con pena.

6. FERVORE.

Peccato veniale. — Non mai deliberato. — Qualche volta per sorpresa o con semi-avvertenza. — Pentimento vivo e riparazione seria.

Imperfezioni. — Non volute, sorvegliate e combattute coraggiosamente, per piacere di più a Dio. — Talora tuttavia accettate, ma seguite subito da pentimento. — Atti frequenti di rinunzia. — Esame particolare che mira al perfezionamento in una virtù.

Preghiera. — Meditazione volentieri prolungata. — Orazione piuttosto affettiva e anche di semplicità. — Alternative di grandi consolazioni e di prove dolorose.

7. PERFEZIONE RELATIVA.

Imperfezioni. — Energicamente prevenute con grande amore — Sopravvengono soltanto con la semi-avvertenza.

Preghiera. — Vita abituale di orazione, anche dandosi all’azione esteriore. — Sete di rinunzia, di annientamento, di distacco e di amore divino. — Fame dell’Eucaristia e del Paradiso. — Grazia infusa di orazione di diversi gradi. Frequenti purificazioni passive.

8. EROISMO.

Imperfezioni. — Soltanto di primo impulso.

Preghiera. — Doni soprannaturali di contemplazione accompagnati talora da fenomeni straordinari. — Purificazioni passive accentuate. — Disprezzo di sé fino alla dimenticanza. — Preferenza dei patimenti alle gioie.

9. SANTITÀ CONSUMATA. Imperfezioni. — Appena apparenti.

Preghiera. — Per lo più unione trasformatrice. — Sposalizio spirituale. — Purificazioni di amore. — Sete ardente di patimenti e di umiliazioni. Sono assai rare le anime che appartengono alle due o anche alle tre ultime categorie; perciò facilmente si comprende che i sacerdoti aspettano l’occasione di avere tali soggetti prima di studiare quello che i migliori autori indicano, perché allora la loro direzione sia prudente e sicura. Ma non si potrebbe scusare quel confessore che, per mancanza di zelo nell’imparare e nell’applicare quello che si riferisce alle quattro categorie della Pietà mediocre, della Pietà intermittente, della Pietà elevata e del Fervore, lasciasse molte anime ammuffire in una triste tepidezza o fermarsi molto sotto quel grado di vita interiore a cui Dio le destinava.

*

In quanto ai punti da toccarsi nella direzione dei principianti nella pietà, sembra che si possano ordinariamente ridurre ai quattro seguenti:

1° PACE. — Esaminare se l’anima si trova nella vera pace e non in quella che dà il mondo o che deriva dall’assenza di lotta. Se no, stabilirla in una pace relativa, nonostante le sue difficoltà. Questa è la base di ogni direzione: la calma, il raccoglimento e la fiducia si riferiscono a questo punto.

IDEALE. — Riuniti gli elementi necessari per classificarla e per riconoscerne i lati deboli, le forze vive di carattere e di temperamento e il suo grado di tendenza alla perfezione, cercare i mezzi atti a ravvivare il suo desiderio di vivere più seriamente di Gesù Cristo e di distruggere gli ostacoli che si oppongono allo sviluppo della grazia in lei. Insomma, con questo punto si tende a spingere l’anima a mirare sempre più in alto, sempre excelsior.

3° PREGHIERA. — Informarsi come l’anima fa le sue preghiere, e analizzare particolarmente il suo grado di fedeltà alla meditazione, il suo genere di orazione, gli ostacoli che vi trova e i risultati che ne trae: profitto dei sacramenti, della vita liturgica, delle divozioni particolari, delle giaculatorie e dell’esercizio della presenza di Dio.

4° RINUNZIA. — Studiare su che cosa e soprattutto come si fa l’esame particolare, come si esercita la rinunzia, per odio contro un peccato oppure per amore di una virtù, come si pratica la custodia del cuore, e perciò la vigilanza e il combattimento spirituale, in ispirito di orazione, durante la giornata. A questi quattro punti si può ridurre tutto ciò che vi è di essenziale per la direzione. Si possono esaminare tutti e quattro ogni mese, oppure attenersi alternativamente a uno di essi per non dilungarsi troppo.

Paralizzando così in un’anima gli elementi di morte e ravvivandovi i germi di vita, il sacerdote zelante arriva ad appassionarsi dell’esercizio dell’arte somma della direzione, e lo Spirito Santo di cui è ministro fedele, non gli risparmia quelle consolazioni ineffabili che formano quaggiù una delle grandi felicità del sacerdozio: gliele concede NELLA MISURA CON CUI SI SACRIFICA per applicare alle anime i princìpi che ha studiati. Chi più di san Paolo provò le gioie dell’apostolato? Ma da qual fuoco ardente egli doveva pure essere divorato, per poter scrivere: Per triennium nocte et die non cessavi cum lacrymis monens unumquemque vestrum! (Atti, XX, 31). – « Caro dottore, so che vostro figlio vuol dedicarsi al sacerdozio. Se egli e i suoi confratelli, quando dovranno curare le anime, prenderanno esempio dalla vostra abnegazione e dalla vostra coscienza professionale nel fare le diagnosi e nel prescrivere i rimedi e il regime che devono rendere all’ammalato una florida salute, né ebrei, né massoni, né protestanti non potranno impedire in mezzo a noi i trionfi della fede ». Queste parole piene di ammirazione e di riconoscenza rivolgeva, in mia presenza, un prelato al medico che con duri sforzi era riuscito a strapparlo a una crisi mortale e che poi poco dopo gli restituiva un nuovo vigore.  – L’applicazione della SCIENZA e l’esercizio dell’ABNEGAZIONE saranno certamente benedetti da Dio.  Ma qual potere sovrumano acquisteranno questi due fattori, quando il sacerdote che se ne serve, sarà di quelli che non possono comprendere il loro sacerdozio senza la TENDENZA ALLA SANTITÀ! Egli allora non si può accontentare di rimanere un semplice, benché sicuro, indicatore della via: egli arde di desiderio di essere un vero motore, un trascinatore di anime a cui possa comunicare la vita divina che ribocca in lui. Vi sarebbe una santa rivoluzione nel mondo, se in ogni parrocchia, in ogni missione, in ogni comunità e a capo di ogni associazione cattolica vi fossero dei veri direttori di anime. Allora anche nelle istituzioni, come per esempio gli orfanotrofi, gli asili, i ricoveri, in cui sono raccolti dei soggetti appena passabili, vi sarebbe sempre a base del programma: Formare i migliori e isolarli dai mediocri più che si può, fino a che non siano preparati a un discreto ma ardente apostolato sugli altri. – Chiunque voglia giudicare le istituzioni dai risultati che Gesù ne attende, deve per forza arrivare a questa conclusione: Dovunque si trova un focolare di vera direzione spirituale, non vi è nessun bisogno delle famose «stampelle» per ottenere in abbondanza meravigliosi frutti; mentre l’uso simultaneo, in un’istituzione, di tutte le «stampelle» possibili e più in voga, altro non può fare che mascherare il difetto di tale direzione, ma non mai attenuarne la necessità.  – Quanto più zelanti saranno i sacerdoti nel perfezionarsi nell’arte della direzione e nel dedicarvisi, tanto più si attenuerà ai loro occhi la necessità di certi mezzi esteriori, utili da principio per mettersi a contatto con i fedeli, per attirarli, per raccoglierli, per, interessarli, per trattenerli e per custodirli sotto l’influenza della Chiesa la quale, fedele al suo fine, non può essere pienamente soddisfatta se non quando le anime saranno intimamente incorporate con Gesù Cristo.

g) La vita interiore, con l’Eucaristia riassume tutta la fecondità dell’apostolato

Il fine dell’Incarnazione, eperciò del vero apostolato, è di divinizzare l’umanità: Christus incarnatus est ut homo fieret deus (Gesù Cristo si è incarnato affinché l’uomo diventi Dio – S. Agostino). Unigenitus Dei Filius suæ divinitatis volens nos esse participes naturam nostram assumpsit, ut hommes deos faceret factus homo (2 (2) Volendo che fossimo partecipi della sua divinità, il Figlio Unigenito di Dio prese la nostra natura, affinché, divenuto uomo, egli degli uomini facesse altrettanti dèi – S. TOMM., Uffizio del Corpus Domini). Ora nell’Eucaristia, anzi nella vita eucaristica, cioè nella vita interiore robusta, alimentata al banchetto divino, l’apostolo si assimila la vita divina. Abbiamo la parola perentoria del Maestro, la quale non dà luogo a equivoci: Nisi manducaveritis carnem Filii hominis et biberitis eius sanguinem, non habebitis vitam in vóbis (Se non mangerete la carne del Figliuolo dell’uomo e non berrete il suo Sangue, non avrete in voi la vita – Giov. VI, 54). La vita eucaristica è la vita di GesùCristo in noi, non solamente per l’indispensabile stato di grazia, ma per una sovrabbondanza della sua azione: Veni ut vitam habeant et abundantius habeant (Sono venuto affinché abbiano la vita e l’abbiano abbondantemente – Giov. X, 10). Se l’apostolo deve sovrabbondare di vita divina per poterla dare ai fedeli, e se non ne trova la fonte altrove che nell’Eucaristia, come dunque si potrà supporre l’efficacia delle opere senza l’azione dell’Eucaristia, in coloro che direttamente o indirettamente debbono essere i dispensatori di quella vita per mezzo di tali opere? – Non è possibile meditare sulle conseguenze del dogma della presenza reale, del santo Sacrificio dell’altare, della comunione, senza doverne conchiudere che il Signore volle istituire questo sacramento per fare di esso il focolare di ogni attività, di ogni devozione, di ogni apostolato veramente utile alla Chiesa. Se tutta la Redenzione gravita intorno al Calvario, tutte le grazie di questo mistero sgorgano dall’Altare, e l’operaio della parola evangelica il quale non vive dell’Altare, non avrà altro che una parola morta, una parola che non salva, perché viene da un cuore non abbastanza imbevuto del Sangue redentore. Non senza un profondo disegno Gesù Cristo, subito dopo l’ultima cena, spiega con insistenza e con precisione, con la parabola dalla vite e dei tralci, l’inutilità dell’azione che nonsia animata dallo spirito interiore: Sicut palmes non potest ferre fructum a semetipso, sic nec vos nisi in me manseritis (Come il tralcio non può dare frutto da sé, così neppure voi, se non rimarrete in me – Giov. XV, 4). Ma subito fa vedere di quanto valore sarà l’azione esercitata dall’apostolo il quale vive di vita interiore, della vita eucaristica: Qui manet in me et ego in eo, hic feri fructum multum (Colui che rimane in me e nel quale io rimango, questi porta molto frutto – Giov. XV. 5). Hic, ma soltanto questo; Dio agisce potentemente soltanto per mezzo di lui. Poiché, dice sant’Atanasio, «noi siamo fatti altrettanti dèi dalla carne di Gesù Cristo». Quando il predicatore o il catechista conservano in sè il calore del Sangue divino, quando il loro cuore è acceso del fuoco che consumali Cuore eucaristico di Gesù, come è allora viva, ardente e infiammata la loro parola! Come irradiano intorno a sé gli effetti dell’Eucaristia, per esempio in una scuola, o nella corsia di un ospedale, in un oratorio ecc., coloro che Dio scelse per tali opere, quando ravvivano il loro zelo nella comunione e diventano portatori di Gesù Cristo! – O si tratti dell’abilità del demonio nel mantenere le anime nell’ignoranza, o si tratti dello spirito superbo e impuro che vuole inebriarle di superbia o affogarle nel fango, l’Eucaristia, vita del vero apostolo, fa sentire la sua azione superiore a qualunque altra, contro il nemico della salute. Per mezzo dell’Eucaristia si perfeziona l’amore; questo memoriale vivente della Passione, ravviva nell’apostolo il fuoco divino quando sta per spegnersi; gli fa rivivere il Getsemani, il Pretorio, il Calvario, e gli dà la scienza del dolore e dell’umiliazione. L’operaio apostolico parla agli afflitti un linguaggio che li può fare partecipi delle consolazioni attinte a questa scuola sublime.  Egli parla il linguaggio delle virtù di cui Gesù è sempre il modello, perché ciascuna delle sue parole è come una stilla di sangue eucaristico che cade sulle anime; ma se non riflette così la vita eucaristica, la parola dell’uomo di azione non produrrà altro che un effetto momentaneo; si potranno scuotere le facoltà secondarie e si occuperanno gli accessi della piazzaforte, ma la cittadella, cioè il cuore, la volontà, resterà per lo più inespugnabile. – Al grado di vita eucaristica raggiunto da un’anima, quasi sempre corrisponde la fecondità del suo apostolato. Infatti il segno dell’efficacia di un apostolato è l’arrivare a dare alle anime la sete di partecipare con frequenza e praticamente al banchetto divino; ma tale risultato si ottiene soltanto nella misura in cui l’apostolo stesso vive veramente di Gesù sacramentato. Come san Tommaso d’Aquino che si affacciava al santo Tabernacolo, per trovare la soluzione di qualche difficoltà, anche l’apostolo va a confidare tutto all’Ospite divino, e la sua azione sulle anime è l’attuazione delle sue confidenze con l’Autore della vita.  Il santo Pontefice e padre san Pio X, il Papa della comunione frequente, è anche il Papa della vita interiore: Instaurare omnia in Christo (Restaurare tutte le cose in Gesù Cristo – Efes. I, 10), fu la sua prima parola, rivolta specialmente agli uomini di azione: è il programma di un apostolo che vive dell’Eucaristia e che vede i trionfi della Chiesa proporzionati al progresso che fanno le anime nella vita eucaristica. Perché mai le istituzioni dei nostri giorni, così numerose eppure spesso sterili, perché mai non hanno rigenerato la società! Confessiamolo ancora una volta, esse sono assai più numerose che nei secoli passati, eppure non sono riuscite a impedire che l’empietà facesse una terribile strage nel campo del padre di famiglia; e perché? Perché esse non sono state abbastanza innestate sulla vita interiore, sulla vita eucaristica, sulla vita liturgica ben compresa. Gli uomini di azione che le dirigono, si sono potuti far ammirare per la logica, per l’ingegno e anche per una certa quale pietà, sono riusciti a gettare fasci di luce e a far accettare certe pratiche di divozione: risultato certo non spregevole. Ma perché non attingono abbastanza alla sorgente della vita, non hanno potuto comunicare quel calore che muove le volontà. Invano avrebbero voluto far nascere quelle abnegazioni oscure ma irresistibili, quei fermenti attivi delle masse, quei focolari di attrazione soprannaturale che nessun altro mezzo può sostituire e che senza chiasso, ma senza tregua, comunicano l’incendio intorno a sé e penetrano lentamente, ma sicuramente, in tutte le classi di persone a cui possono arrivare. La loro vita in Gesù era troppo debole per ottenere tali risultati. Nei secoli passati, al contagio del male bastava, per preservarne le anime, opporre una pietà ordinaria, ma al veleno di oggi, di una violenza centuplicata, inoculato dagli allettamenti del mondo, bisogna opporre un siero vivificante assai più energico. Per mancanza di laboratori che sappiano produrre dei contravveleni efficaci, le istituzioni o si sono limitate a procurare il fervore del sentimento, un bel fuoco, ma che si spegne quasi appena acceso, oppure non poterono influire che su infime minoranze. Seminari e noviziati non diedero sciami di sacerdoti, di religiosi e religiose abbastanza inebriati del vino eucaristico; perciò il fuoco che per mezzo di queste anime elette si doveva diffondere sui buoni secolari devoti alle istituzioni, è rimasto latente. Certamente si sono dati alla Chiesa apostoli pii, ma assai raramente le si sono dati operai evangelici che avessero, per la loro vita eucaristica, quella pietà integrale di custodia del cuore e di zelo, ardente, attiva, generosa e pratica, che si chiama vita interiore. Si sente alle volte chiamare buona, eccellente, una parrocchia, perché la gente saluta con garbo il sacerdote, gli risponde con deferenza, gli dimostra una certa simpatia, gli rende anche volentieri qualche servizio quando occorre; ma poi la maggior parte lavorano alla domenica invece di assistere alla Messa, i sacramenti sono abbandonati, regna l’ignoranza della religione, l’intemperanza e la bestemmia, e la morale lascia molto a desiderare. Che pietà! Una parrocchia eccellente! Ma si possono chiamare cristiane quelle persone di vita affatto pagana? Operai evangelici, noi che deploriamo questi tristi risultati, perché non siamo andati di più a quella scuola in cui il Verbo ammaestra i predicatori? Perché non abbiamo attinto di più, nell’intimità con Gesù sacramentato, la parola della vita? Dio non ha parlato per bocca nostra, e doveva essere cosi! Non meravigliamoci più che la nostra parola umana sia rimasta quasi sterile. Noi non ci siamo mostrati alle anime come un riflesso di Gesù e della sua vita nella Chiesa. Perché il popolo credesse in noi, bisognava che intorno alla nostra fronte risplendesse qualche cosa di quell’aureola che illuminava Mosè quando scendeva dal Sinai per ritornare dagli Israeliti; quell’aureola era, agli occhi degli Ebrei, la prova dell’intimità del rappresentante, con Colui che lo mandava. Per la nostra missione bisognava che noi apparissimo non soltanto uomini onesti e convinti, ma che un raggio dell’Eucaristia lasciasse intravvedere al popolo quel Dio vivo al quale nessuna cosa può resistere. Retori, tribuni, conferenzieri, catechisti, professori, noi siamo riusciti imperfettamente, perché non riflettevamo in noi l’intimità divina.  Noi apostoli, che ci lamentiamo del cattivo esito delle nostre fatiche, noi che pure sapevamo che in fin dei conti l’uomo ordinariamente è mosso soltanto dal desiderio della felicità, domandiamo a noi medesimi se gli uomini scorsero in noi quel raggio di felicità eterna e infinita di Dio, che avremmo potuto avere dall’unione con Colui il quale, mentre sta nascosto nel tabernacolo, è pure la gioia della Corte celeste. – Egli, il Maestro, non dimenticava questo nutrimento di gioia indispensabile ai suoi Apostoli: Hæc locutus sum vobis ut gaudium meum sit in vobis et gaudium vestrum impleatur (Vi dico queste cose affinchè la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia perfetta – Giov. XV, 11); così Egli dice subito dopo l’ultima cena, per ricordare fino a che punto l’Eucaristia sarà la sorgente di tutte le migliori allegrezze di quaggiù.  Noi, ministri del Signore, per i quali il Tabernacolo fu muto, la preghiera della consacrazione fredda, l’Ostia un memoriale rispettato ma quasi inerte, noi abbiamo dovuto lasciare le anime nelle loro vie perverse: e come avremmo potuto trarle dal fango dei loro piaceri illeciti! Eppure abbiamo parlato delle gioie della religione e della buona coscienza; ma siccome non abbiamo saputo dissetarci alle acque vive dell’Agnello, abbiamo appena saputo balbettare quando parlavamo di quelle gioie ineffabili il cui desiderio, più efficacemente che le nostre parole terribili sull’inferno, avrebbe spezzato le catene della triplice concupiscenza. In Dio che è tutto amore, le anime, per mezzo nostro, videro più che altro il legislatore severo e il giudice inesorabile nei suoi decreti e rigoroso nei suoi castighi. Le nostre labbra non seppero parlare il linguaggio del Cuore di Colui che ama gli uomini, perché i nostri colloqui con quel Cuore erano assai rari e poco intimi. Non gettiamone la colpa sullo stato di profonda demoralizzazione della società, perché vediamo, per esempio, quello che in parrocchie già scristianizzate poté fare la presenza di sacerdoti giudiziosi, attivi, generosi, capaci, ma soprattutto amanti dell’Eucaristia. Nonostante tutti gli sforzi dei ministri di satana, facti diabolo terribiles, attingendo la forza al focolare della forza, al santo Tabernacolo, questi sacerdoti, disgraziatamente troppo rari, seppero temprare armi invincibili che i demoni insieme congiurati non poterono spezzare.  L’orazione presso l’Altare per loro non fu più sterile, perché divennero capaci di comprendere queste parole’ di san Francesco d’Assisi: L’orazione è la sorgente della grazia; la predicazione è il canale che distribuisce le grazie che abbiamo ricevute dal Cielo. I ministri della parola di Dio sono scelti dal gran Re per portare ai popoli quello che essi stessi avranno imparato e raccolto dalla sua bocca, SOPRATTUTTO PRESSO IL SANTO TABERNACOLO. – Un gran motivo di sperar bene è oggi il vedere una generazione di uomini di azione, i quali non si accontentano più di promuovere comunioni di parata, ma sanno facilitare lo sviluppo delle anime di veri comunicanti.

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L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (8)

R. P. CHAUTARD D. G. B .

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (8)

TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B.8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE TORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PARTE QUARTA (1)

Fecondità che deriva all’azione dalla vita interiore

La vita interiore è condizione necessaria perché l’azione sia feconda

Facendo astrazione da quella ragione di fecondità che i teologi chiamano ex opere operaio, e considerando soltanto quella che risulta ex opere operantis, ricordiamo che se l’apostolo avvera in sè il Qui manet in me et ego in eo, la fecondità della sua azione voluta da Dio è assicurata: Hic fert fructum muh tum (Colui che rimane in me e nel quale io rimango, porta molto frutto (Giov. XV, 5). Tale è la logica evidente di questo testo, ed è superfluo, dopo questa autorità, il provare la tesi: ci limiteremo a confermarla con i fatti.  Per più di trentanni ebbi modo di seguire da lontano le vicende di due orfanotrofi di giovinette, diretti da due Congregazioni diverse. L’uno e l’altro ebbero un periodo di manifesta decadenza. Perché negarlo! Di sedici orfanelle raccolte tutte nelle stesse condizioni e che avevano lasciato l’istituto appena maggiorenni, tre che erano uscite da uno degli istituti e due uscite dall’altro, in un tempo da otto a quindici mesi, erano passate dalla comunione frequente allo stato più degradante della scala sociale. Delle altre undici una sola era rimasta profondamente cristiana; eppure tutte, alla loro uscita, avevano avuto un collocamento serio.  In uno dei due orfanotrofi, soltanto la superiora fu cambiata undici anni fa, e sei mesi dopo già si vedeva una radicale trasformazione nello spirito della casa.  La stessa trasformazione si vide tre anni dopo nell’altro istituto, perché, restando le stesse superiore e le stesse suore, si era cambiato il loro cappellano. Da quel tempo in poi, neppure una di quelle povere fanciulle uscite maggiorenni dai due istituti fu travolta nel fango da Satana, ma tutte, senza eccezione, sono rimaste buone cristiane. La ragione di tali risultati è molto semplice: alla testa della comunità o nel confessionale non vi era una direzione interiore abbastanza soprannaturale, e ciò bastava a rendere vana o almeno insufficiente l’azione della grazia. L’antica superiora in un caso e l’antico cappellano nell’altro, persone sinceramente pie, ma senza una seria vita interiore, non avevano un’azione profonda e duratura: era una pietà sentimentale, pietà fatta dell’ambiente, pietà a scatti, che consisteva tutta in pratiche e in abitudini, nè poteva lasciare convinzioni profonde, ma dava soltanto un amore senza calore e virtù senza radici. Era una pietà fiacca, tutta apparenza e smorfie o di pura abitudine; una falsa pietà che fa delle buone ragazze incapaci di darvi fastidio, smorfiose che vi sanno fare la riverenza, ma senza carattere e guidate dalla sensibilità e dalla fantasia; pietà incapace di dare un vasto orizzonte di vita cristiana e di formare donne forti, preparate alla lotta, e capace appena di trattenere le povere fanciulle a languire nelle loro gabbie, sospirando il giorno in cui ne potranno uscire. Ecco quanto di vita cristiana avevano potuto far germogliare gli operai evangelici che non conoscevano quasi nulla della vita interiore! In quelle due comunità si cambia una superiora e un cappellano, e subito ogni cosa cambia aspetto. Come è meglio compresa la preghiera e come sono più fecondi i sacramenti! Che contegno diverso in cappella e persino al lavoro e nelle ricreazioni! Cambiamento radicale che è dimostrato dall’analisi e che si vede nella gioia serena, nello slancio, nell’acquisto delle virtù e nel desiderio intenso di vocazione religiosa in alcune di quelle anime. A che cosa si deve attribuire tale cambiamento? La nuova superiora e il nuovo cappellano erano anime di vita interiore! Certamente in molti collegi, convitti, ospedali, patronati e persino in parrocchie, comunità e seminari, l’osservatore attento avrà dovuto attribuire simili effetti alle stesse cause. Ascoltiamo san Giovanni della Croce: « Gli uomini smaniosi di azione, i quali credono di poter sconvolgere il mondo con la loro predicazione e con le altre opere esteriori, riflettano un momento. Essi comprenderanno facilmente che sarebbero assai più utili alla Chiesa e più cari a Dio, senza contare il buon esempio che darebbero, se dedicassero più tempo all’orazione e agli esercizi della vita interiore. « In tali condizioni essi farebbero con un’opera sola UN BENE MAGGIORE e con minor fatica, che non ne facciano con mille altre in cui spendono la loro vita. L’orazione meriterebbe loro questa grazia e otterrebbe loro le forze spirituali di cui abbisognano per produrre tali frutti. Senza di essa, tutto si riduce a un gran chiasso; è il martello che cadendo sull’incudine desta tutti gli echi all’intorno; si fa poco più che nulla, spesso assolutamente nulla o persino del male! Dio ci liberi da una tale anima se avviene che si gonfi di superbia! Invano le apparenze sarebbero in suo favore; la verità è che essa non farà nulla, perché è assolutamente certo che nessun’opera buona si può fare senza la virtù di Dio. Quante cose si potrebbero scrivere a questo riguardo, per coloro che trascurano l’esercizio della vita interiore e aspirano alle opere clamorose, capaci di metterli in vista e di farli ammirare dalla gente! Costoro non conoscono affatto la sorgente di acqua viva, la fonte misteriosa che fa fruttificare tutto!» (Cant. Spirit. str. XXIX.) La vita interiore attira le benedizioni di Dio). Alcune parole di questo Santo sono energiche come l’espressione maledette occupazioni di san Bernardo, citata poco fa. Non si può dire che siano esagerate, se si ricorda che le doti più ammirate da Bossuet in san Giovanni della Croce, sono il perfetto buon senso, lo zelo nel mettere in guardia contro il desiderio delle vie straordinarie per giungere alla santità, e una precisione esatta nell’esprimere pensieri assai profondi.  Proviamoci di studiare alcune delle cause della fecondità della vita interiore. 

a) La vita interiore attira le benedizioni di Dio

Inebriato animam sacerdotum pinguedine et populus meus bonis meis adimplebitur (Impinguerò l’anima dei sacerdoti, e il mio popolo sarà ricolmato dei miei beni – GER. XXXI, 14). Osserviamo come siano legate fra loro le due parti di questo testo: Dio non dice già: Io darò ai miei sacerdoti più di zelo, più d’ingegno, ma dice: Io inebrierò la loro anima. E questo non vuol dire altro che: Io li riempirò del mio spirito, darò loro grazie elette, e così il mio popolo riceverà la pienezza dei miei beni. Dio avrebbe potuto distribuire la sua grazia a suo talento, senza tener conto né della pietà del ministro nè delle disposizioni dei fedeli: così fa nel battesimo dei bambini; ma secondo la legge ordinaria della sua Provvidenza, questi due elementi diventano la misura dei doni celesti. Sine me nihil potestis facete(Senza di me non potete fare nulla (Giov. XV, 5); questo è il principio. Sul Calvario fu sparso il Sangue redentore: in che modo Dio ne assicurerà la prima efficacia? Con un miracolo della diffusione della vita interiore. Non vi era nulla di più limitato, che l’ideale e lo zelo degli Apostoli prima della Pentecoste: lo Spirito Santo li trasforma in uomini interiori, e subito la loro predicazione opera prodigi. Dio non rinnoverà più ordinariamente il miracolo del Cenacolo; lascerà d’allora in poi le grazie della santificazione alle prese con la libera e faticosa corrispondenza della sua creatura; ma fissando con la Pentecoste la data ufficiale della nascita della Chiesa, Egli ci fa capire che i suoi ministri devono premettere la loro santificazione personale alla loro opera di corredentori.  Perciò tutti i veri operai apostolici molto più si attendono dai loro sacrifici e dalle loro preghiere, che non dallo spiegamento di tutta la loro attività. Il P. Lacordaire stava per molto tempo in orazione prima di salire in pulpito e, rientrato nella sua cella, si faceva flagellare. II P. Monsabré, prima di predicare a Notre-Dame, recitava il Rosario intero, in ginocchio, e ad un amico che gliene domandava il perchè, rispondeva scherzando: «Prendo la mia ultima infusione». Questi due religiosi vivevano entrambi di questo principio enunziato da san Bonaventura: I segreti di un apostolato fecondo si attingono assai più ai piedi del Crocifisso, che non nello spiegare belle doti. Manent tria haec: verbum- exemplum et oratio; maior autem his est oratio(Restano queste tre cose: la parola, l’esempio e la preghiera; ma la più grande delle tre è la preghiera), esclama san Bernardo. Parola grave, ma che commenta soltanto la risoluzione presa dagli Apostoli, di lasciare certe opere per potersi applicare soprattutto alla preghiera: Orationi, e soltanto dopo al ministero della parola: Ministerio verbi (Act. VI, 4). Abbiamo noi notato abbastanza, a questo riguardo, l’importanza principale che il Salvatore dà a questo spirito di preghiera? Gettando uno sguardo sul mondo e sui secoli futuri e vedendo la moltitudine delle anime chiamate a godere dei frutti del Vangelo, Egli esclama con tristezza: La messe è abbondante, ma sono pochi i mietitori! Messis quidem multa, operarii autem pauci (Matt. IX, 37). Che cosa propone Egli come mezzo più rapido per propagare la sua dottrina? Domanderà ai suoi discepoli che frequentino le scuole di Atene o che vadano a studiare presso i Cesari di Roma, in che modo si conquistino e si amministrino gl’imperi?… O uomini di zelo, ascoltate il Maestro: egli ci rivela un programma, un principio di luce! Rogate ergo Dominum messis ut mittat operarios in messevi suam (Andate dunque e insegnate… predicate – MATT. X, 7). Non ricorda le organizzazioni sapienti, non i mezzi da procurarsi, non le chiese da fabbricare, non le scuole da aprire: rogate ergo! La preghiera, lo spirito di orazione, questa è la verità fondamentale ripetuta dal Maestro; il resto verrà da sé. Rogate ergo! Se il timido mormorio della supplica di un’anima santa è più capace di suscitare legioni di apostoli, che non la voce eloquente di chi va in cerca di vocazioni con meno di spirito di Dio, che cosa dobbiamo conchiudere? Che lo spirito di preghiera, il quale nel vero apostolo è pari allo zelo, è la ragione principale della fecondità del suo lavoro.  Rogate ergo! Dunque prima di tutto pregate; soltanto dopo, il Signore aggiunge: Euntes docete… prædicate (Andate dunque e insegnate… predicate – MATT. X , 7). Certamente Dio si gioverà di quest’altro mezzo; ma le benedizioni che danno la fecondità al ministero, sono riservate alla preghiera dell’uomo di orazione: preghiera così potente, da far uscire dal seno di Dio gli effluvi ardenti di un’azione irresistibile sulle anime. Anche la gran voce di san Pio X mette in rilievo la tesi di questo modesto lavoro:  Per restaurare ogni cosa nel Cristo per mezzo dell’apostolato dell’azione, ci vuole la grazia divina, e l’apostolo non la riceve se non è unito a Gesù Cristo. Soltanto quando avremo formato Gesù Cristo in noi, potremo facilmente restituirlo alla famiglia e alla società. Dunque tutti quelli che partecipano all’apostolato, devono avere una vera pietà (Enciclica di Pio X ai Vescovi d’Italia, 11 giugno 1905).  Quello che diciamo della preghiera, si applica pure all’altro elemento della vita interiore, al patimento, cioè a tutto quello che urta la natura, tanto dentro che fuori.  Si può soffrire come un pagano, come un dannato o come un santo; ma per soffrire davvero con Gesù Cristo bisogna cercare di soffrire da santo. Allora il dolore serve al nostro profitto personale e all’applicazione del mistero della Passione sulle anime: Adimpleo ea quae desunt passionum Christi, in carne mea, prò corpore eius quod est Ecclesia (Quello che manca al patimenti di Gesù Cristo nella mia carne, io lo compio per il suo corpo che è la Chiesa – Coloss. I, 24). — Impletæ erant, dice sant’Agostino, commentando questo testo, impletæ erant omnes, sed in capite, restabant adhuc passiones Christi in memòrie. I patimenti di Gesù Cristo erano completi, ma soltanto nel capo: mancavano ancora i patimenti di Gesù Cristo nelle sue membra mistiche. Præcessit Christus in capite: il Cristo soffri, ma come capo, sequitur in corpore: ora tocca al suo corpo mistico di soffrire. Ogni sacerdote può dire: Questo corpo sono io; io sono un membro di Gesù Cristo, e quello che manca ai patimenti di Gesù Cristo dev’essere da me completato per il suo corpo che è la Chiesa.  Il dolore, dice il P. Faber, è il più grande dei sacramenti. Questo profondo teologo ne mostra la necessità e ne deduce le glorie, e tutti i suoi argomenti si possono applicare alla fecondità dell’azione per mezzo dell’unione dei sacrifici dell’operaio evangelico con il Sacrificio del Calvario, cioè con la  loro partecipazione all’infinita efficacia del Sangue divino.

b) Rende l’apostolo santificatore col suo buon esempio

Nel discorso della Montagna, il Maestro chiama i suoi Apostoli sale della terra, luce del mondo (MATT. V . 3).  Noi siamo sale della terra nella misura della nostra santità. Il sale insipido a che cosa serve? Ab immundo quid mundabiturt (Da quello che è impuro, che cosa può essere purificata? (Eccl. XXXIV, 4). Non serve che ad essere buttato via e calpestato.  L’apostolo pio invece, vero sale della terra, sarà come un valido agente di conservazione in mezzo a questo mare di corruzione che è la società umana. Faro luminoso nella notte, lux mundi, lo splendore del suo esempio, più ancora che della sua parola, dissiperà le tenebre accumulate dallo spirito del mondo e farà risplendere l’ideale della vera felicità, tracciato da Gesù nelle otto Beatitudini. Ciò che meglio può condurre i fedeli a una vita cristiana è appunto la virtù di colui che ha la missione d’insegnarla; le sue debolezze invece allontanano da Dio in modo quasi irresistibile: Nomen Dei per vos blasphematur inter gentes (Per voi, il nome di Dio è bestemmiato in mezzo alle nazioni – Rom. II, 24). Perciò l’apostolo deve più spesso avere in mano la fiaccola del buon esempio, che non le belle parole sulle labbra e deve egli stesso per il primo praticare esattamente le virtù che va insegnando: Chi ha la missione di dire grandi cose, dice san Gregorio, appunto per questo deve farne di somiglianti (Qui enim sui loci necessitate exigitur summa dicere, hac eadem necessitate compellitur summa monstrare (S. GREGORIO, Pastor, 2 p., c III).  Giustamente si osserva che il medico del corpo può curare i suoi ammalati anche se egli stesso non gode di buona salute: ma per guarire le anime, bisogna avere l’anima sana, perché in questo caso si dà qualche cosa di se stesso. Gli uomini hanno il diritto di essere esigenti verso chi pretende d’insegnare loro a riformare se stessi, e vedono subito se vi è conformità tra la parola e la condotta, oppure se la morale di cui si fa bella mostra non è che una maschera; secondo il risultato del loro esame, essi danno o negano la loro fiducia.  – Qual potenza avrà il sacerdote nel parlare della preghiera, se il popolo lo vede spesso in colloquio con l’Ospite troppo abbandonato del santo Tabernacolo! Come sarà ascoltata la sua parola, se predicando il lavoro, la penitenza, egli stesso è laborioso e mortificato! Quando predicherà la carità fraterna, egli troverà dei cuori attenti se, cercando di diffondere nel suo gregge il buon odore di Gesù Cristo, rispecchierà nella sua condotta la dolcezza e l’umiltà del divino Modello: forma gregis ex animo (Modello del gregge – I PIET. V , 3 ).  Il professore senza vita interiore crede di aver fatto tutto il suo dovere, se svolge unicamente un programma di esame; ma se avesse vita interiore, una frase sfuggita dalle sue labbra o dal suo cuore, una commozione espressa nel volto, un gesto espressivo — che dico? — la sola sua maniera di fare il segno di croce, di dire la preghiera prima o dopo la scuola, fosse pure una lezione di matematica, potrebbero agire sopra i suoi allievi più che una predica.  – La suora dell’ospedale o dell’orfanotrofio possiede un potere e dei mezzi efficaci per far germogliare nelle anime, pure restando prudentemente nel suo campo, un profondo amore di Gesù Cristo e dei suoi insegnamenti. Ma se non ha la vita interiore, non sospetterà neppure quel potere o non riuscirà che a promuovere atti puramente esteriori di pietà e nulla più.  Il Cristianesimo si è diffuso non tanto con frequenti e lunghe discussioni, quanto con lo spettacolo dei costumi cristiani così opposti all’egoismo, all’ingiustizia e alla corruzione dei pagani. Il cardinale Wiseman, nel suo bellissimo libro Fabiola, mostra quanto fosse potente l’esempio dei primi Cristiani sulle anime pagane più maldisposte contro la nuova religione. In quel racconto seguiamo la marcia progressiva e quasi irresistibile verso la luce. I nobili sentimenti, le virtù modeste o eroiche che la figlia di Fabio incontra in certe persone di ogni condizione, s’impongono alla sua ammirazione; ma quale mutamento si opera in lei, quale rivelazione per la sua anima, quando scopre successivamente che tutti coloro dei quali essa ammira la carità, il sacrificio, la modestia, la dolcezza, la moderazione, il culto della giustizia e della castità, appartengono a quella setta che le fu sempre descritta come esecrabile! Da quel momento essa è cristiana.  Terminata la lettura del bel racconto, si è obbligati a dire: Ah! se i cattolici, se i loro uomini di azione avessero almeno un po’ di quello splendore di vita cristiana descritto dall’illustre Cardinale, e che pure non è altro che la pratica del Vangelo! Come sarebbe allora irresistibile il loro apostolato su quei pagani moderni, troppo spesso prevenuti contro il Cattolicesimo dalle calunnie dei settari, dal carattere aspro delle nostre polemiche o da una maniera di rivendicare i nostri diritti, che sembra derivare piuttosto dall’orgoglio ferito, che non dal desiderio di difendere gl’interessi di Gesù! O quanto è potente l’irradiazione esterna di un’anima unita a Dio! Nel vedere il P. Passerat a celebrare la Messa, il giovane Desurmont si decide a entrare nella congregazione del SS. Redentore che deve poi illustrare tanto. Il popolo ha delle intuizioni sicure: se predica un uomo di azione cessa di corrispondere a ciò che da lui si attende, l’opera sua, per quanto abilmente condotta, viene compromessa e forse va a irrimediabile rovina.  Videant opera vestra bona et glorìficent Patrem (Vedano le vostre opere buone e diano gloria al Padre – MATT. V, 16), diceva Gesù Cristo. Il buon esempio è continuamente raccomandato da san Paolo ai due suoi discepoli Tito e Timoteo: In omnibus teipsum præbe exemplum bonorum operum (Mostrati in tutto modello di opere buone – Tit. II, 7). Exemplum esto fldelium in verbo, in conversatione, in charitate, in fide, in castitate (Sii modello ai fedeli nella parola, nella condotta, nella carità, nella fede, nella castità – I Tim. IV, 12). Egli stesso esclama: Quæ vidistis in me, hæc agite (Praticate quello che avete veduto in me – Filipp. IV, 9). Imitatores mei estote sicut et ego Christi (Siate miei imitatori, come io sono imitatore del Cristo (I Cor., XI, 1). E la sua parola di verità si appoggia su quella sicurezza e quello zelo che non escludevano l’umanità e che facevano dire a Gesù Cristo: Quis ex vobis arguet me de peccato? – Chi di voi mi convincerà di peccato? (Giov. VIII, 45).  A tale condizione, seguendo le tracce di Colui del quale è scritto: Cœpit facete et docere (Cominciò a fare e a insegnare – Atti I, 1), l’apostolo diventerà operatium inconfusibilem (Un operaio che non deve arrossire – II Tim. II, 15). Leone XIII diceva: Soprattutto, figli carissimi, ricordatevi che la condizione indispensabile del vero zelo e il pegno migliore di riuscita è la purezza e la santità della vita (Enciclica di Leone XIII, 8 settembre 1899). Un uomo santo, perfetto e virtuoso, dice santa Teresa, fa realmente un maggior bene alle anime, che non molti altri i quali siano soltanto istruiti e di miglior ingegno. – Selo spirito non è regolato da una condotta veramente cristiana e santa, dice san Pio X, sarà difficile muovere gli altri al bene. E soggiunge: Tutti quelli che sono chiamati all’azione cattolica, devono essere uomini di una vita tanto esente da ogni macchia, che possano servire a tutti di esempio efficace (Enciclica di Pio X ai Vescovi d’Italia, 11 giugno 1905).

c) Produce nell’apostolo l’Irradiamento soprannaturale. Quanto è efficace questo irradiamento.

Uno dei più seri ostacoli alla conversione di un’anima è che Dio è un Dio nascosto: Deus absconditus (Is. XLV, 15).

Però, per effetto della sua bontà, Dio si svela in qualche modo per mezzo dei suoi Santi e anche per mezzo delle anime fervorose. Il soprannaturale traspira così agli occhi dei fedeli che scorgono qualche cosa del mistero di Dio.  Che cosa è dunque questa diffusione del soprannaturale? Non sarebbe esso lo splendore della santità, lo splendore dell’influsso divino che la teologia chiama brevemente grazia santificante, o meglio ancora forse il risultato dell’ineffabile presenza delle Persone divine nelle anime da esse santificate! San Basilio non la spiegava diversamente: quando lo Spirito Santo – egli dice – si unisce alle anime purificate dalla sua grazia, le rende più spirituali; come il sole rende più risplendente il cristallo che tocca e penetra col suo raggio, lo Spirito santificatore rende più luminose le anime in cui abita, e per la sua presenza esse diventano come focolari che diffondono intorno a sé la grazia e la carità (De Sp. Sancto, c. IX, n. 23). Questa manifestazione del DIVINO, che appariva in un gesto epersino nel riposo dell’Uomo-Dio, la vediamo in certe anime dotate di una più intensa vita interiore. Le conversioni meravigliose operate da certi Santi con la fama delle loro virtù, le migliaia di aspiranti a vita perfetta, i quali venivano a chiedere di seguirli, dicono chiaramente il segreto del loro silenzioso apostolato. Cosi con sant’Antonio si popolano i deserti dell’Oriente; per opera di san Benedetto sorge la falange innumerevole di Santi religiosi che civilizzano l’Europa; un’influenza non più vista è esercitata da san Bernardo nella Chiesa, sui re e sui popoli; san Vincenzo Ferreri eccita al suo passaggio un entusiasmo indescrivibile di innumerevoli moltitudini e più ancora determina la loro conversione; al seguito di sant’Ignazio sorge quell’esercito di valorosi, un solo dei quali, il Saverio, basta a rigenerare una incredibile quantità di pagani. Soltanto l’irradiamento della potenza di Dio stesso attraverso strumenti umani può spiegare tali miracoli. Che disgrazia quando tra le persone che sono a capo di istituzioni importanti non ve n’è nessuna veramente interiore! Il soprannaturale sembra eclissato, e la potenza di Dio è come incatenata; allora, come c’insegnano i Santi, un paese decade, e sembra che la Provvidenza lasci ai cattivi ogni potere di nuocere. Le anime, non dimentichiamolo, percepiscono come per istinto e senza neppure definire chiaramente quello che provano, questa irradiazione del soprannaturale; perciò vedete come volentieri viene a prostrarsi ai piedi del sacerdote e ad implorarne il perdono, il peccatore che riconosce Dio stesso nel suo rappresentante! E invece dal giorno in cui il concetto integrale della santità cessa di essere l’ideale necessario del ministro di una setta cristiana, questa si trova infallantemente costretta ad abolire la confessione. – Joannes quidem signum fedi nullum (Giovanni non fece nessun miracolo – Giov. X, 41).). Senza fare miracoli, Giovanni attrae le moltitudini. La voce del santo Curato d’Ars era troppo esile per giungere alla folla che si pigiava intorno a lui; ma se poco lo udivano, lo vedevano; vedevano un uomo che portava Dio in sé, e quella sola vista soggiogava i presenti e li convertiva. A un avvocato che ritornava da Ars, fu domandato da che cosa fosse stato colpito, ed egli rispose: Io ho veduto Dio in un uomo. – Ci sia permesso di riassumere tutto con una similitudine un po’ volgare: è noto questo esperimento di fisica: una persona posta sopra un isolatore è messa in comunicazione con una macchina elettrica; il suo corpo si carica di fluido e, se viene toccata, manda una scintilla che dà una scossa a chi la tocca. Lo stesso avviene nell’uomo di vita interiore: quando è staccato dalle creature, si stabilisce tra Gesù e lui una comunicazione incessante, come una corrente continua; l’apostolo diventa un accumulatore di vita soprannaturale condensa in sé un fluido divino che varia e si adatta alle circostanze e a tutti i bisogni del centro in cui agisce. Virtus de illo exibat et sanabat omnes (Usciva da lui una forza che guariva tutti (Lue. VI» 19). Parole ed azioni in lui non sono più altro che effluvi di quella forza latente, ma capace di rovesciare gli ostacoli, di ottenere conversioni, di accrescere il fervore. Quanto più vi sono in un cuore le virtù teologali, tanto più tali effluvi aiutano a far nascere le stesse virtù nelle anime.

CON LA VITA INTERIORE L’APOSTOLO IRRADIA LA FEDE. —

La presenza di Dio in lui è manifesta alle persone che lo ascoltano.  Come san Bernardo del quale si dice: Solitudine cordis circumferens ubique solus erat, egli si isola dagli altri e cosi si forma una solitudine interiore, ma s’indovina che egli non è solo, che ha nel cuore un ospite misterioso e intimo col quale ogni momento egli viene a discorrere, che parla secondo la sua direzione, i suoi consigli, i suoi ordini. Si sente che egli è sostenuto e guidato da lui e che le parole che escono dalla sua bocca sono l’eco fedele di quelle del Verbo interiore: Quasi sermones Dei (I PIET. IV, 11). Allora non apparisce tanto la logica e la forza degli argomenti, quanto piuttosto il Verbo interiore, il Verbum docens che parla per bocca della sua creatura: Verba quæ ego loquor vobis, a meipso non loquor; Pater autem in me manens, ipse facit opera (Le parole che dico a voi non le dico da me; il Padre che dimora in me fa queste opere (Giov. XIV, 10). È un’influenza profonda e duratura, assai più profonda che l’ammirazione superficiale o la divozione passeggera che può far nascere l’uomo privo di spirito interiore. Questi potrà far dire al suo uditore: «Questa cosa sembra vera e importante»; ma questo sentimento è di per sè affatto insufficiente a condurre alla fede soprannaturale e a far vivere di questa fede.  – Fra Gabriele, converso trappista (La vita di questo capitano dei dragoni il quale, nel 1870, nella battaglia di Gravellotte fece voto di ritirarsi nella Trappa, dove volle stare come semplice converso, è narrata nel bel libro Du champ de bataille & la Trappe (Perrin et Cie ed.), nell’esercizio delle umili funzioni di vice-forestieraio, ravvivava la fede di molti visitatori assai più che non avrebbe fatto un sacerdote dotto, ma  il cui linguaggio parla meno al cuore ohe alla mente. Il generale de Miribel veniva talora a trattenersi con l’umile frate e si compiaceva nel ripetere: Vengo a ritemprarmi nella fede.  Non si predicò mai, né si discusse, né si scrissero dotti libri apologetici quanto ai nostri giorni, e forse, almeno considerando soltanto la massa dei fedeli, non fu mai meno viva la fede. Troppo spesso coloro che hanno la missione d’insegnare, sembra che vedano nell’atto di fede un solo atto dell’intelligenza, mentre esso dipende pure dalla volontà; dimenticano che il credere è un dono soprannaturale e che t ra la percezione dei motivi di credibilità e l’atto di fede definitivo corre un abisso. Dio solo e la buona volontà di colui che viene istruito, colmano quell’abisso, ma quanto aiuta a colmarlo il riflesso della luce divina prodotto dalla santità di colui che insegna!

IRRADIA LA SPERANZA. —- L’uomo di orazione non può fare a meno d’irradiare la speranza: la sua fede lo ha stabilito per sempre nella convinzione, che la felicità si trova soltanto in Dio. E allora come è convincente la sua parola, quando parla del cielo, e di quali mezzi dispone per consolare! Il mezzo migliore per farsi ascoltare dagli uomini, è di offrire loro il segreto di portare allegramente la croce che è la porzione di ogni mortale. Insieme con l’Eucaristia, la speranza del cielo racchiude tale segreto. Come è viva la parola confortatrice dell’uomo il quale può, senza mentire, applicare a se stesso il detto: Nostra conversatio in cœlis est! (La nostra conversazione è in cielo – Filipp. III, 20). Altri potrà forse con più parole e con più retorica parlare delle gioie della patria celeste, ma i suoi discorsi saranno senza frutto. Una parola del primo, parola convincente e rivelatrice dello stato dell’anima di chi la dice, varrà a calmare quel turbamento, a confortare quel dolore, a far accettare con rassegnazione una pena straziante. La virtù poi della speranza, dall’uomo interiore si è comunicata irresistibilmente a un’anima che forse non ne era stata mai riscaldata e che stava per cadere nella disperazione.

IRRADIA LA CARITÀ. — L’anima che si vuole santificare, desidera soprattutto di possedere la carità; lo scopo dell’uomo interiore è la compenetrazione di Gesù e dell’anima, il Manet in me et ego in eo. Ipredicatori esperti sono unanimi nel riconoscerlo: se le prime prediche sulla morte, sul giudizio, sull’inferno, sono indispensabili e sempre salutari in un ritiro spirituale o in una missione, la predica sull’amore di Gesù Cristo ordinariamente produce un’impressione ancora più salutare; se è fatta da un vero apostolo capace d’infondere negli uditori i sentimenti che lo animano, essa è di sicuro effetto e opera le conversioni.  Quando si tratta di togliere un’anima dalla colpa o di condurla dal fervore alla perfezione, l’amore di Gesù è la leva più potente. Il Cristiano immerso nel fango del peccato, ma capace di scorgere nel suo simile un amore ardente, acceso alle realtà invisibili, e che d’altra parte consideri la delusione e il vuoto degli amori terreni, incomincia a sentirsi disgustato del peccato; egli ha compreso qualche cosa di Dio, qualche cosa dell’immenso amore di Gesù per la sua creatura; ha sentito in se un sussulto della grazia latente del suo battesimo e della sua prima comunione. Gesù gli si è presentato vivo, perché le tenerezze del suo Cuore trasparivano dal volto e dalla voce del suo ministro. Egli ha intravveduto un altro amore, un amore nobile, puro, ardente, e si è detto: Dunque è possibile quaggiù amare con un amore più forte che quello delle creature. Ancora qualche manifestazione più intima del Dio-Amore per mezzo del suo araldo, e l’anima uscirà dal fango in cui era immersa, e non la spaventeranno più i sacrifici necessari per acquistare il tesoro dell’amore divino a lei quasi sconosciuto prima di allora. Anche senza svolgere di più questo pensiero, già si vede abbastanza quali aumenti di amore, e perciò quale progresso, può il vero pastore assicurare nelle anime già uscite dal peccato o già fervorose. Anche gli uomini di azione non rivestiti del sacerdozio faranno nascere intorno a sé, con la loro carità ardente, la più eccellente delle virtù teologali.

IRRADIA LA BONTÀ. — Lo zelo che non è caritatevole, direbbe san Francesco di Sales, deriva da carità non vera. Un’anima che gusti, per mezzo dell’orazione, la soavità di Colui che la Chiesa chiama bonitatis oceanus (Oceano di bontà), arriva a trasformarsi; ancorché fosse naturalmente portata all’egoismo e alla durezza, tutti questi difetti scompariranno a poco a poco. Nutrendosi di Colui nel quale appare la benignità di Dio sul mondo: benignitas et humanitas apparuit Salvatoris nostri Dei (Apparve la benignità e l’umanità di Dio nostro Salvatore (Tit. III, 4), di colui che è l’immagine, l’espressione giusta della Bontà divina: imago Bonitatis illius (Sap. VII, 26), l’apostolo partecipa alla beneficenza di Dio e sente il bisogno di essere come lui diffusivus.  Un cuore quanto più è unito a Gesù Cristo, tanto più partecipa della prima qualità del Cuore divino e umano del Redentore, della sua Bontà. Indulgenza, benevolenza, compassione, tutto in lui è moltiplicato, e la sua generosità e la sua abnegazione arriveranno fino all’immolazione allegra e magnanima. L’apostolo, trasfigurato dall’amore divino, si attirerà facilmente la simpatia delle anime: in bonitate et alacritate animæ suæ placuit (Piacque per la bontà e l’alacrità dell’anima sua – Eccl. XL, 4); le sue parole e le sue azioni saranno piene di bontà, di una bontà disinteressata che non assomiglia a quella ispirata dal desiderio di popolarità o da un egoismo raffinato.  – Il P. Lacordaire dice: «Dio volle che non si facesse nessun beneficio all’uomo, se non amandolo, e che l’insensibilità fosse sempre incapace di dargli la luce e d’ispirargli la virtù». Infatti se la forza vuole imporsi, noi ci facciamo un vanto nel resisterle; se la scienza pretende di sempre convincere, noi per puntiglio opponiamo delle obbiezioni; ma siccome noi ci sentiamo punto umiliati quando la bontà ci disarma, facilmente cediamo al fascino della sua condotta.  – La piccola suora dei poveri, la piccola suora dell’Assunzione, la Figlia della Carità, potrebbero citare molte conversioni fatte senza discutere, con la sola forza di una bontà instancabile e spesso eroica. – Qui vi è Dio, esclama l’empio e il peccatore dinanzi a tanta abnegazione; io lo vedo questo Dio buono; e buono dev’essere davvero, se il trattare con Lui rende un essere così delicato, capace di calpestare il suo amor proprio e di far tacere le sue più giuste ripugnanze! Questi angeli della terra sono l’espressione vivente di questa definizione del P. Faber: « La bontà è l’effusione di sé negli altri; essere buono vuol dire mettere gli altri al posto di sé. La bontà convertì più peccatori che non lo zelo, l’eloquenza e l’istruzione, e queste tre cose non convertirono mai nessuno, se non c’entrava anche la bontà. In una parola, la bontà ci fa altrettanti dèi, gli uni per gli altri. La manifestazione di tali sentimenti negli uomini apostolici è quella che attira a loro i peccatori e li conduce alla conversione. E soggiunge: La bontà si mostra dovunque il miglior pioniere del Prezioso Sangue… Certamente i terrori del Signore sono spesso il principio di quella sapienza che si chiama conversione, ma bisogna spaventare gli uomini con bontà, altrimenti il timore farà soltanto degl’infedeli… » (Conferenze spirituali). Abbiate il cuore di una madre, dice san Vincenzo Ferreri, sia che dobbiate incoraggiare, sia che dobbiate spaventare, mostrate a tutti le viscere di una tenera carità, e senta il peccatore che essa ispira le vostre parole. Se volete essere utili alle anime, incominciate con ricorrere di cuore a Dio, affinché v’infonda questa carità in cui si riassumono tutte le virtù, affinché per mezzo di essa otteniate lo scopo che vi siete prefisso (Trattato della Vita spirituale, p. II, c. X). Tra la bontà naturale, semplice frutto del temperamento, e la bontà soprannaturale di un’anima apostolica, vi è tutta la distanza che corre tra l’umano e il divino. La prima potrà far nascere il rispetto, anche la simpatia verso l’operaio evangelico, e talora può far deviare verso la creatura un’affezione che era dovuta a Dio; essa non arriverà mai a determinare le anime a fare, davvero per amore di Dio, il sacrificio necessario per ritornare al loro Creatore: soltanto la bontà che deriva dall’intimità con Gesù, può produrre tale effetto.  L’amore ardente per Gesù e la vera direzione delle anime dà all’apostolo tutte le audacie compatibili con il tatto e la prudenza. Un illustre secolare ci raccontava che, conversando egli con san Pio X, si era lasciata sfuggire qualche parola mordace contro un nemico della Chiesa, e che il Papa gli disse: «Figlio mio, io non approvo il vostro linguaggio; per punizione, ascoltate questa storia: Un sacerdote che conobbi molto bene, arrivava nella sua prima parrocchia e credette bene di visitare tutte le famiglie, non esclusi gli ebrei, i protestanti e neppure i frammassoni, e poi annunziò dal pulpito, che ogni anno avrebbe ripetuto la sua visita. Fu un gran chiacchierare tra i suoi confratelli che se ne lagnarono con il Vescovo; questi chiamò subito a sé l’accusato e gli fece un severo ammonimento; ma il parroco modestamente gli rispose: “Monsignore, nel Vangelo vedo che Gesù comanda al pastore di ricondurre tutte le pecorelle all’ovile: oportet illas adducere; e come è possibile ciò, se non si vanno a cercare? Del resto io non transigo mai sui princìpi e mi limito a dimostrare il mio interessamento e la mia carità a tutte le anime, anche traviate, che Dio mi ha affidate. Annunziai dal pulpito tali visite, ma se è vostro desiderio che me ne astenga, degnatevi di darmene il divieto per iscritto, affinché si sappia che io non faccio altro che obbedire ai vostri comandi”. Il Vescovo fu tocco da queste giuste parole e non insistette più. L’avvenire poi diede ragione a quel sacerdote il quale ebbe la gioia di convertire alcuni di quei traviati e obbligò tutti gli altri a rispettare la nostra santa Religione. L’umile parroco è divenuto, per volontà di Dio, il Papa che vi dà questa lezione di carità. Siate dunque intransigente sui princìpi, ma la vostra carità abbracci tutti, anche i peggiori nemici della Chiesa ».

IRRADIA L’UMILTÀ. — Facilmente si comprende come la bontà e la dolcezza di Gesù attirassero le moltitudini; ma si può attribuire lo stesso potere alla sua umiltà? Io non ne dubito.  Sine me nihil potesti» facere (Senza di me voi non potete fare nulla – Giov. XV, 5). L’apostolo, innalzato dal Creatore alla dignità di suo cooperatore, diventerà un agente di operazioni soprannaturali, ma a condizione che vi apparisca solo Gesù. Quanto più egli saprà far scomparire se stesso e diventare impersonale, tanto più Gesù avrà cura di manifestarsi. Ma senza questa impersonalità, l’apostolo pianterà e irrigherà inutilmente: non ne germoglierà nulla!  La vera umiltà possiede un fascino particolare di cui Gesù stesso è la sorgente; essa spira il Divino; allo zelo che spiega l’uomo di azione nel far scomparire se stesso perché appaia soltanto Gesù: Illum oportet crescere me autem minui (Bisogna che egli cresca e che lo diminuisca – Giov. III, 30), corrisponde da parte di Nostro Signore il dono che Egli concede al suo ministro, di guadagnare sempre più i cuori. – Così l’umiltà diventa uno dei più grandi mezzi di azione sulle anime. Credetemi, diceva san Vincenzo de’ Paoli ai suoi sacerdoti, non saremo mai atti a fare l’opera di Dio, se non siamo persuasi che da noi soli siamo più capaci di guastare ogni cosa, che non a riuscire.  Qualcuno forse si meraviglierà perché ritorno così spesso sugli stessi pensieri; a me sembra che soltanto col ripeterli potrò scolpirli nella mente dei miei cari lettori e mostrarne loro l’importanza. Il fare arrogante, il tono di pretensione, non hanno forse spesso la loro parte nella infecondità delle opere?  Il Cristiano «moderno» vuole conservare la propria indipendenza; accetterà di obbedire a Dio, ma solo a Dio; dal ministro di Dio egli non accetterà ordini né direzione e neppure consigli, se non ci vede proprio la firma di Dio! Perciò bisogna che l’apostolo sappia tanto nascondersi e scomparire, con la pratica dell’umiltà che è frutto della vita interiore, da arrivare al punto di non essere più, agli occhi di chi lo vede, altro che il trasparente di Dio e ad avverare in sé la parola del Maestro: Qui maior est vestrum erit minister vester. Vos autem nolite vocari Rabbi… nec vocemini Magistri (Voi non vi tate chiamare Babbi… Non chiamatevi Maestri… Il più grande tra voi sia il vostro servo – MATT. XXIII, 8 e 11). La sola vista dell’uomo interiore diventa un insegnamento della scienza della vita, cioè della scienza della preghiera (Sant’Agostino). E perché? Perché con l’umiltà egli spira la dipendenza da Dio; e questa dipendenza nella quale quell’anima si mantiene continuamente, si manifesta con l’abitudine di ricorrere a Dio in ogni occasione, sia per prendere una decisione, sia per avere conforto in qualche difficoltà, sia soprattutto per ottenere la forza di trionfarne. Nel Comune dei Confessori Pontefici, il sacerdote legge queste parole con le quali san Beda commenta così egregiamente l’espressione Pusillus grex: « Il Salvatore chiama piccolo il gregge degli eletti, sia perché lo paragona alla moltitudine dei reprobi, sia più ancora per causa del suo ZELO APPASSIONATO PER L’UMILTÀ, poiché per quanto numerosa ed estesa sia già la sua Chiesa, vuole tuttavia che essa cresca fino alla fine del mondo NELL’UMILTÀ e giunga cosi al REGNO PROMESSO ALL’UMILTÀ» (Hom. di S. BEDA, Lib. IV, cap. LIV su S. Luca, XII).  Questo testo s’ispira alle gravi lezioni che Gesù dà agli Apostoli quando, per esempio, essi vogliono rivolgere a vantaggi personali la loro vocazione all’apostolato e si mostrano in quell’occasione cosi pieni di ambizione e di gelosia. Voi lo sapete, dice loro, coloro che sembrano regnare sulle nazioni dominano su esse, e i grandi comandano imperiosamente al popolo; ma così non dev’essere tra di voi; chi è il più grande tra voi sia come il più piccolo, e colui che vuol essere il primo diventi il servo di tutti (MATT. XX; Lue. XXII).  Ma, dice Bourdaloue, con questo non viene indebolita l’autorità? Vi sarà sempre abbastanza di autorità in mezzo a voi se vi sarà abbastanza di umiltà, e SE L’UMILTÀ SE NE VA, l’autorità diventa PESANTE E INSOPPORTABILE. Senza la vera umiltà, l’apostolo cadrà in uno dei due eccessi: o di una esagerata indulgenza o, più spesso, in una tendenza al despotismo. Non facciamo qui questione di dottrina: supponiamo che l’apostolo sia abbastanza illuminato da preservare la sua intelligenza da una tolleranza senza limiti e da una durezza di zelo che non piacerebbe a Dio; i suoi princìpi sono perfettamente sani e la sua scienza è giusta. Ciò posto, noi affermiamo che senza l’umiltà l’apostolo non potrà tenere il giusto mezzo tra i due estremi, e nella sua condotta si manifesterà la vigliaccheria o più spesso la superbia.  Oppure, cedendo a una falsa umiltà, sarà pusillanime, lascerà che lo spirito di carità degeneri in debolezza, sarà l’uomo delle concessioni esagerate, delle conciliazioni a qualunque costo, e il suo zelo di conservare intatti i princìpi scomparirà sotto mille pretesti, sotto ragioni di prudenza o sotto calcoli meschini. Oppure lo spirito della natura e la cattiva direzione della volontà metteranno di mezzo la superbia, la suscettibilità, l’Io; di cui odi personali, «autoritarismo», rancori, dispetti, rivalità, antipatie, parzialità, passione, rappresaglie, ambizione, gelosia, un desiderio affatto umano di dominare, calunnie, maldicenze, parole aspre, spirito di corpo affatto mondano, asprezza nel difendere i princìpi ecc.  La gloria di Dio, invece di restare il fine vero alla cui ricerca si nobilitano le nostre passioni, sarà ridotta da questo apostolo alla condizione di mezzo e di pretesto per sostenere, sviluppare e far scusare quelle stesse passioni in ciò che hanno di troppo umano. I più piccoli attacchi alla gloria di Dio, alla Chiesa, solleveranno scatti d’ira in cui lo psicologo vedrà la difesa della personalità dell’operaio apostolico o dei privilegi della sua casta come società puramente umana, assai più che la devozione alla causa di Dio, sola ragione di essere della Chiesa come società perfetta stabilita da Dio. – La sicurezza di dottrina e il retto giudizio non bastano a preservare da tali deviazioni, perché l’apostolo senza vita interiore, e perciò senza vera umiltà, sarà dominato dalle sue passioni. Soltanto l’umiltà, conservandolo nella rettitudine di giudizio e distogliendolo dall’agire per impressione, metterà maggiore equilibrio e stabilità nella sua vita. Unendolo a Dio, essa, per così dire, lo farà partecipe dell’immutabilità divina: così la fragile edera diventa forte e stabile della forza incrollabile della quercia, quando con tutte le sue fibre aderisce al tronco robusto di questa regina della foresta. Dobbiamo dunque ammettere che senza l’umiltà, se non cadremo nel primo eccesso, la nostra natura ci porterà al secondo, oppure andremo ora verso l’uno ora verso l’altro, secondo le circostanze o le passioni. Così si avvererà quello che dice san Tommaso: L’uomo è un essere mutevole; è costante solo nella sua incostanza. Il risultato logico di un apostolato così difettoso sarà o il disprezzo di un’autorità pusillanime, o la diffidenza e spesso l’odio contro un’autorità che non è il riflesso di Dio.

IRRADIA LA FERMEZZA E LA DOLCEZZA. — Molte volte i Santi si scagliarono con forza contro l’errore, lo scandalo e l’ipocrisia, e san Bernardo, l’oracolo del suo secolo, si può citare, mi sembra, come uno dei Santi il cui zelo dimostrò maggiore fermezza. Ma nel leggere attentamente la sua vita, il lettore saprà distinguere fino a che punto la vita interiore avesse reso impersonale quest’uomo di Dio. Egli ricorre alla fermezza soltanto dopo di aver constatato con evidenza l’inefficacia degli altri mezzi; spesso anzi li alterna e, nel suo grande amore per le anime, dopo di aver dimostrato, per rivendicare la dottrina, una santa indignazione e dopo di aver chiesto rimedi, riparazioni, pegni e promesse, lo vediamo darsi subito con dolcezza materna alla conversione di coloro che, per obbligo di coscienza, aveva dovuto combattere. Mentre era senza pietà per gli errori di Abelardo, sapeva farsi amico colui che aveva ridotto vittoriosamente al silenzio.  Quando si tratta dei mezzi da adoperarsi, se la dottrina è fuori di questione, egli si erige a campione per impedire che gli ecclesiastici ricorrano alla violenza. Venuto a sapere che si vuole fare strage degli Ebrei in Allemagna, lascia subito il chiostro per correre in loro difesa e per predicare una crociata di pace. Infatti in un memorabile documento che il P. Ratisbonne ricorda nella sua Vita di san Bernardo, il gran rabbino del paese esprime la sua ammirazione per il monaco di Chiaravalle « senza del quale – egli dice – nessuno di noi non sarebbe rimasto vivo in Allemagna ». E invita le future generazioni degli Ebrei a non dimenticare mai il debito di gratitudine che essi hanno verso il santo Abate. «Noi siamo, diceva san Bernardo in quell’occasione, i soldati della pace, siamo l’esercito dei Pacifici: Beo et paci militantibus. La persuasione, l’esempio, l’abnegazione sono le sole armi degne dei figli del Vangelo».  Soltanto la vita interiore può ottenere questo spirito impersonale di cui è improntato lo zelo di tutti i Santi. – Nel Chiablese, prima della venuta di san Francesco di Sales, tutti gli sforzi cadono a vuoto. I capi del protestantesimo si prepararono a una lotta accanita; la setta si propone persino di uccidere il santo. Ma questi si presenta raggiante di dolcezza e di umiltà; in lui si vede un uomo nel quale l’annientamento dell’Io fa risplendere l’amore di Dio e del prossimo. La storia ci dice i risultati rapidi e appena verosimili di quell’apostolato. Ma egli pure, il dolce san Francesco di Sales, quando fu necessario, seppe dimostrare una inesorabile fermezza: egli non esitò a invocare la forza delle leggi umane per confermare i risultati ottenuti con la soavità della sua parola e con l’esempio delle sue virtù. Così il santo Vescovo consigliava al Duca di Savoia i severi provvedimenti contro la perfidia degli eretici.  I Santi non facevano altro che imitare il Maestro. Nel Vangelo vediamo il Salvatore che accoglie con misericordia i peccatori, amico di Zaccheo e dei pubblicani, pieno di bontà verso gli ammalati, gli afflitti, gli umili. Eppure Egli, la dolcezza e la mansuetudine incarnata, non esita a dar mano alla sferza per scacciare i mercanti dal Tempio. Quanta severità e quanta forza nelle sue espressioni, quando parla di Erode o flagella i vizi degli Scribi e dei Farisei ipocriti! Soltanto in certi rarissimi casi, dopo di aver adoperato invano gli altri mezzi, oppure quando è evidente che questi sarebbero inutili, si può, a malincuore, per evitare lo scandalo e perciò per carità, ricorrere a mezzi che sembrino violenti.  Eccetto questi casi e quando non vi è questione di principi, la mansuetudine deve dominare nella condotta dell’operaio evangelico. Si prendono più mosche, dice san Francesco di Sales, con una goccia di miele, che non con un barile di aceto.  Ricordiamo il biasimo dato da Gesù ai suoi Apostoli quando, urtati e umiliati nella loro dignità umana, e non già guidati da uno zelo puro e disinteressato, volevano ricorrere alla violenza e chiedevano che il fuoco del cielo scendesse sul borgo samaritano che non li voleva ricevere. Voi non sapete, disse loro Gesù, di quale spirito siete (Luc. IX, 55). – Un Vescovo della Francia, la cui fermezza nei principi è citata come modello, visitava ultimamente nella sua città vescovile le famiglie in lutto, in cui la recente guerra aveva fatto qualche vittima. Facendosi tutto a tutti, andò a portare il conforto della sua parola a un calvinista che piangeva il figlio caduto sul campo di battaglia, e gli parlò con cuore commosso. Tocco da questo atto di umile carità, quel protestante diceva poi: « È mai possibile che un Vescovo di famiglia così nobile e così illustre per la sua dottrina, si sia degnato, nonostante la diversità della mia religione, di entrare nella mia modesta casa? Questo suo atto e le sue parole mi sono scese al cuore ». L’industriale presso il quale era impiegato quel calvinista, raccontando il fatto, soggiungeva: «Per me, credo che questo protestante sia già per metà convertito; certamente il Vescovo con la sua dolcezza ha fatto ben più per la sua conversione, che non interminabili e vive discussioni». Quel pastore di anime manifestò la mansuetudine di Gesù; il protestante vide, per così dire, dinanzi a sè il Salvatore, e per forza dovette pensare: Una Chiesa nella quale vi sono Pontefici che rispecchiano cosi eccezionalmente Colui che io ammiro nel Vangelo, dev’essere la vera Chiesa.  – La vita interiore mantiene ad un tempo lo spirito e la volontà al servizio del Vangelo. Né l’indolenza né la violenza ingiustificata fanno deviare la direzione dell’anima che vede e opera secondo il Cuore di Gesù; essa attinge la sua prudenza e il suo ardore unicamente da questo Cuore adorabile: qui sta il segreto della sua riuscita. Invece la mancanza di vita interiore, e perciò la manifestazione delle passioni umane, spiegano tante sconfitte.

IRRADIA LA MORTIFICAZIONE. — Lo spirito di mortificazione è un altro principio fecondatore dell’azione. Tutto si riassume nella Croce. Finché non si sia fatto penetrare nelle anime il mistero della Croce, non si sarà mai fatto altro che appena toccarle leggermente. Ma chi dunque potrà far loro accettare un mistero che ripugna a questo orrore per i patimenti, così naturale alla creatura umana? Soltanto colui che potrà dire col grande Apostolo: Christo confixus sum cruci (Io sono crocifisso insieme con Gesù Cristo – Gal. II, 19). Ne saranno capaci coloro che portano in se stessi Gesù mortificato: Semper mortificationem Jesu in corpore nostro circumferentes ut vita Jesu manifestetur in corporibus nostris (Portando sempre con noi nel nostro corpo la morte di Gesù affinché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale (II Cor. IV, 10). Mortificarsi vuol dire riprodurre il Christus non sibi placuit (Gesù Cristo non ebbe compiacenza di sè (Rom. XV, 3), vuol dire rinunziare a sé in ogni circostanza, arrivare ad amare ciò che non piace, tendere insomma all’ideale di essere una vittima continuamente immolata.  Ora senza la vita interiore non possiamo giungere a svellere dalle radici i nostri più tenaci istinti. Mentre il poverello d’Assisi, attraversando in silenzio le vie della città, predica con la sola sua presenza il mistero della Croce, l’apostolo che non è mortificato invano ripeterebbe lo splendido discorso di Bossuet sul Calvario; il mondo sta così trincerato nello spirito del piacere, che per demolire la sua cittadella non bastano gli argomenti comuni e neppure le idee sublimi: ci vuole la Passione resa come sensibile dalla mortificazione e dal distacco del ministro di Dio. Inimicos crucis Christi, ripeterebbe san Paolo, nemici della Croce quei molti Cristiani i quali nella Religione non vedono altro che un’espressione della moda, un’abitudine di pratiche esteriori tradizionali che si compiono periodicamente con rispetto, si, ma senza che abbiano relazione con l’emendazione della vita, con la lotta contro le passioni e con l’introduzione dello spirito evangelico nei costumi. Questo popolo sembra che mi onori, potrebbe dire il Signore, ma mi onora soltanto a parle, e il suo cuore è lontano da me (MATT. XV, 8). Inimicos crucis Christi, nemici della Croce quei Cristiani effeminati che credono cosa indispensabile il circondarsi di tutte le comodità, il piegarsi a tutte le esigenze del mondo, l’abbandonarsi ai suoi piaceri disordinati, il seguirne appassionatamente tutte le mode, e si sentono urtati da quella parola che essi non comprendono più, ma che pure Gesù Cristo disse per tutti: Se non farete penitenza, perirete tutti egualmente (Luc. XIII, 3, 5). La Croce, secondo l’espressione di san Paolo, per essi è divenuta uno scandalo (I Cor. I, 23). Eppure senza la vita interiore, può l’apostolo produrre Cristiani diversi da questi?  Un numeroso concorso a certe funzioni soddisferà certamente il cuore del vero sacerdote, ma lo lascerà senza entusiasmo, se egli non potrà attribuire tale concorso che all’abitudine, a una fedeltà rispettabile verso certe usanze di famiglia, a certe abitudini che non scomodano per nulla il corso della vita, oppure se ne scoprirà la causa nel piacere di trovare della buona musica, un sontuoso apparato, oppure di assistere a un esercizio di eloquenza di cui si viene ad ammirare soltanto la forma. Almeno, sembrerebbe, non mancherà mai questo entusiasmo allo spettacolo della comunione frequente! Mi viene alla mente un ricordo del mio viaggio negli Stati Uniti: attraversando certe parrocchie, mi sentivo pieno di gioia nell’udire che un bel numero di uomini erano fedeli alla comunione del primo venerdì del mese. «Homo videt in facie, Deus autem in corde (Breviario; L’uomo vede in faccia, ma Dio vede il cuore), mi disse un santo sacerdote di New York; non dimenticatevi che siete in un paese dove il rispetto umano è sconosciuto e dove dappertutto si trova il bluff. Conservate la vostra ammirazione per le parrocchie in cui l’osservatore giudizioso può constatare che le comunioni frequenti manifestano davvero, se non la completa emendazione della vita, almeno sforzi sinceri di vita cristiana e un leale desiderio di non venire a patti con l’intemperanza, con la sfrenata ricerca del denaro e altre cose simili ». – Lungi da me il pensiero di non apprezzare anche le più lievi tracce di vita cristiana; lo scopo di queste parole è piuttosto di deplorare quella triste incapacità, in cui ci potremmo trovare per mancanza di vita interiore, di produrre altro che risultati assai meschini, benché non spregevoli.  Il Signore vuole da noi soltanto il cuore; per conquistarlo, per possedere la nostra volontà, per animarci a seguirlo nella vita della rinunzia, Egli venne a rivelare all’uomo le sublimi verità della fede.  Sarà capace di far nascere questa rinunzia che è base di tutta la perfezione, l’apostolo abituato alla vita interiore che è tutta fondata su l’Abneget semetipsum (Rinneghi se stesso – MATT. XVI, 24); ma ne sarà invece incapace colui che segue troppo da lontano il Salvatore che porta la croce. Nemo dat quod non habet (Nessuno dà ciò che non possiede); essendo egli stesso vile nell’imitare Gesù crocifisso, come potrebbe predicare al suo popolo quella guerra santa contro le passioni, alla quale il Signore ci chiama? L’apostolo disinteressato, umile, casto, è il solo che possa trascinare le anime a lottare contro le onde sempre crescenti della cupidigia, dell’ambizione e dell’impudicizia; soltanto chi conosce la scienza del Crocifisso è abbastanza forte da opporre una diga a quella continua ricerca di agiatezze, a quel culto del piacere che minaccia di sommergere tutto e di rovesciare le famiglie e le nazioni. San Paolo riassume il suo apostolato nel predicare Gesù crocifisso, e siccome egli vive di Gesù e di Gesù crocifisso, è capace di far gustare alle anime il mistero della Croce e d’insegnare loro a viverne. Ai nostri giorni troppi apostoli non hanno più abbastanza di vita interiore, per approfondire questo mistero vivificante, per esserne penetrati e per irradiarlo intorno a sé. Essi nella religione considerano troppo esclusivamente i lati filosofici, sociali o anche estetici, che possono fermare l’attenzione della mente o eccitare la sensibilità e la fantasia; essi sviluppano la loro tendenza a vedere soprattutto nella religione una scuola di poesia sublime, di arte incomparabile. La religione possiede certamente queste qualità, ma il vederla soltanto sotto questi aspetti secondari sarebbe assolutamente un deformare l’economia del Vangelo, mettendo come fine quello che è soltanto un mezzo. È sacrilegio fare un Cristo damerino del Cristo del Getsemani, del Pretorio, del Calvario. Dopo il peccato sono diventate condizioni necessarie della vita la penitenza, la riparazione, il combattimento spirituale, e la Croce di Gesù Cristo lo ricorda in tutte le circostanze. Allo zelo del Verbo incarnato per la gloria di suo Padre, non basta ottenere degli ammiratori, ma occorrono degli imitatori. – Nell’Enciclica del 1° novembre 1914, Benedetto XV invita i veri apostoli a scavare un solco più profondo per strappare le anime all’amore degli agi, all’egoismo, alla leggerezza dei gusti, alla dimenticanza dei beni eterni, e questo equivale a fare appello alla vita interiore dei ministri del divino Crocifisso. Dio che ci diede tanto, vuole che dall’età della ragione il cristiano unisca alla Passione sanguinosa di Gesù, qualche cosa di se stesso, quello che potremmo chiamare il sangue dell’anima sua, cioè i sacrifici necessari per osservare le leggi divine. In che modo il fedele s’indurrà a fare generosamente tale sacrificio di beni, di piaceri, di onori, se non lo attira l’esempio del pastore delle anime, abituato egli stesso allo spirito di sacrificio? Di dove verrà la salvezza della società, si domanda ansiosamente allo spettacolo delle ripetute vittorie del nemico infernale; quando toccherà alla Chiesa il trionfo! È facile rispondere col Maestro: Hoc autem genus non eiicitur nisi per ora-tionem et ieiunium (Questo genere di demoni non si scaccia se non con la preghiera e col digiuno (MATT. XVII, 20). Quando dalle file del sacerdozio e dalla milizia dei religiosi uscirà uno stuolo di uomini mortificati che facciano risplendere in mezzo ai popoli il mistero della Croce, questi popoli, contemplando nel sacerdote o nel religioso mortificato le riparazioni per i peccati del mondo, comprenderanno la Redenzione per mezzo del Sangue di Gesù Cristo. Allora soltanto l’esercito di satana indietreggerà, e non si udrà più attraverso i secoli l’eco terribile del pietoso lamento del Signore oltraggiato che finalmente avrà trovato delle anime riparatrici: Et quæsivi de eis virum qui interponeret sepem et staret opposìtus centra me prò terra ne dissiparem eam, et non inveni (Cercai tra loro un uomo che facesse siepe e che stesse contro di me a favore della terra affinché non la distruggessi, e non lo trovai (EZECH. XXII, 30). Da qualcuno si è voluto ricercare perché mai un solo segno di croce del P. de Ravignan producesse un effetto così magico sugl’indifferenti e persino sugli empi venuti ad ascoltarlo per semplice curiosità; la conclusione delle domande rivolte a molti uditori fu che l’austerità di vita intima del predicatore si manifestava assai vivamente in quel segno di croce che lo univa al mistero del Calvario.

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L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (7)

R. P. CHAUTARD D. G. B .

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (7)

TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B.

8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE TORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PARTE TERZA

“ La vita attiva, pericolosa senza la vita interiore, con questa assicura il progresso nella virtù.”

3.

La vita interiore base della santità dell’operaio apostolico

Siccome la santità non è altro che la vita interiore spinta fino alla strettissima unione della volontà con quella di Dio, ordinariamente, eccetto un miracolo della grazia, l’anima arriva a questo termine soltanto dopo di essere passata, con molti e penosi sforzi, per tutti i gradi della vita purgativa e illuminativa. Notiamo che è legge della vita spirituale, che nel corso della santificazione l’azione di Dio e quella dell’anima seguano un cammino inverso: le operazioni di Dio prendono di giorno in giorno una parte più importante, e l’anima agisce sempre di meno. Altra è l’azione di Dio nei perfetti, altra nei principianti: meno apparente in questi, essa provoca soprattutto e mantiene in loro la vigilanza e la supplica, offrendo loro anche il mezzo di ottenere la grazia per nuovi sforzi; nei perfetti invece Dio opera in modo più completo e talora esige soltanto un semplice consenso che unisce l’anima alla sua azione divina.  – Il principiante, come anche il tiepido e il peccatore che Dio vuole avvicinare a sé, si sentono da principio portati a cercare Dio, poi a mostrargli sempre di più il loro desiderio di piacergli, finalmente a rallegrarsi di tutte le occasioni provvidenziali che loro permettono di detronizzare l’amor proprio per stabilire al suo posto il solo regno di Gesù Cristo. In tal caso l’azione divina si limita solo ad incitamenti e ad aiuti. Nei santi, quest’azione è assai più potente e più intera. In mezzo alle fatiche e ai patimenti, abbeverato di umiliazioni oppure oppresso dalla malattia, il santo, per così dire, non ha da fare altro che abbandonarsi all’azione divina, altrimenti sarebbe incapace di sopportare le agonie che, secondo i disegni di Dio, devono compiere la sua maturazione; in lui si avvera pienamente il testo: Deus subiecit sibi omnia, ut sit Deus omnia in omnibus (Dio sottomise a sé tutte le cose, affinché Dio sia tutto in tutte le cose – 1 Cor. XV, 28). Egli vive talmente di Gesù, che sembra vivere soltanto per mezzo di lui, come di se stesso affermava san Paolo: Vivo autem iam non ego; vivit vero in me Christus (Io vivo; ma non sono più io che vivo, è il Cristo che vive In me – Gal. II, 20). Soltanto lo spirito di Gesù è quello che pensa, che decide e che opera. Certo questa divinizzazione non possiede ancora l’intensità che avrà nella gloria, però questo stato riflette già i caratteri dell’unione beatifica. Non occorre dire che la cosa è ben diversa nel principiante, nel tiepido e anche nel semplice fervoroso. Al loro stato si adatta una serie di mezzi che del resto possono servire egualmente tanto all’uno che all’altro; ma il principiante, come un apprendista, stenterà molto, progredirà lentamente e in complesso farà un lavoro mediocre; il fervente invece, come abile operaio, farà presto e bene, e con poca difficoltà progredirà di più. Ma di qualunque categoria di apostoli si tratti, le intenzioni della Provvidenza a loro riguardo restano inalterabili. Dio vuole che sempre e per tutti le opere siano un mezzo di santificazione; ma mentre l’apostolato, per l’anima arrivata alla santità, non porta nessun pericolo serio, non esaurisce le sue forze e le offre molte occasioni di crescere in virtù e in meriti, abbiamo veduto con quanta facilità esso produce l’anemia spirituale, e perciò il regresso nella perfezione, nelle persone unite debolmente a Dio, nelle quali sono troppo poco sviluppati il gusto dell’orazione, lo spirito di sacrificio e soprattutto l’abitudine di custodire il cuore. Tale abitudine Dio non la nega mai a una preghiera assidua e alle ripetute prove di fedeltà; Egli la dà abbondantemente all’anima generosa che, ricominciando continuamente, a poco a poco ha trasformato le sue facoltà e le ha rese docili alle ispirazioni del Cielo e capaci di accettare allegramente contraddizioni e disdette, perdite e delusioni. Vediamo ora, da sei caratteri generali, come questa vita interiore, infiltrandosi in un’anima, la stabilisca nella vera virtù.

a) La premunisce contro i pericoli del ministero esteriore

Difficilius est bene conversari cum cura animarum propter exteriora pericula (È più difficile vivere bene quando si ha cura d’anime, per causa dei pericoli estemi (S. TOMM., 2a 2æ, q. 184, a. 8). Già abbiamo parlato di questi pericoli, nel capo precedente.  Mentre l’operaio evangelico sprovvisto di spirito interiore ignora i pericoli che nascono nell’azione, e si trova così come un viaggiatore che attraversa senz’armi una foresta infestata dai briganti, l’apostolo vero li teme e ogni giorno prende le sue precauzioni contro di essi con un serio esame di coscienza, il quale gli rivela i suoi punti deboli.  Se la vita interiore non desse altro vantaggio che quello di conoscere un pericolo continuo, già contribuirebbe assai a proteggere dalle sorprese della strada, perché un pericolo previsto è già mezzo evitato; ma ben maggiore è la sua utilità. Essa è per l’uomo di azione una completa armatura: Induite armaturam Dei, ut possitìs stare adversus insidias diaboli (Eph. VI, 11-17), armatura divina che gli permette non solo di resistere alla tentazione e di evitare le insidie del demonio: ut possitis resistere in die malo, ma anche di santificare tutte le sue azioni: et in omnibus perfecti stare. – Essa lo cinge con la purità d’intenzione la quale concentra in Dio i pensieri, i desideri, gli affetti, e gl’impedisce di traviarsi nella ricerca delle comodità,dei piaceri e delle distrazioni: Succincti lumbos vestros in veritate. – Essa lo riveste con la corazza della carità la quale gli dà un coraggio virile e lo difende contro le seduzioni della creatura e dello spirito mondano, come pure contro gli assalti del demonio: induti loricam iustitiæ. – Lo calza con la discrezione e con la riservatezza, affinché in tutti i suoi passi egli sappia unire la semplicità della colomba con la prudenza del serpente: calceati pedes in præparatione Evangelii.  Il demonio e il mondo cercheranno d’illudere la sua intelligenza con i sofismi delle false dottrine, di snervare la sua energia adescandolo con massime rilassate; ma a tali menzogne la vita interiore oppone lo scudo della fede che fa risplendere agli occhi dell’anima lo splendore dell’ideale divino: in omnibus sumentes scutum fidei in quo possitis omnia téla nequissimi ignea extinguere. La conoscenza del proprio nulla, la sollecitudine per la propria salvezza, la convinzione di non potere nulla senza l’aiuto della grazia, e perciò la preghiera assidua, supplichevole e frequente, tanto più efficace quanto è più fiduciosa, sono per l’anima un elmo di bronzo contro il quale si spunteranno i colpi dell’orgoglio: galeam salutis assumite.  – Così armato da capo a piedi, l’apostolo può dedicarsi senza timore all’azione, e il suo zelo infiammato dalla meditazione del Vangelo, fortificato dal Pane eucaristico, diventa una spada che gli serve ad un tempo per combattere i nemici dell’anima sua e per conquistare una moltitudine di anime a Gesù Cristo: gladium spiritus quod est verbum Dei.

b) Rinvigorisce le forze dell’apostolo

Come abbiamo detto, solamente il santo, in mezzo alle preoccupazioni degli affari e nonostante un abituale contatto con il mondo, sa custodire il suo spirito interiore edirigere sempre i suoi pensieri e le sue intenzioni verso Dio solo. In lui ogni dispendio di attività esteriore è così soprannaturale e infiammato di carità, che non solo non ne diminuisce le forze, ma gli dà necessariamente un aumento di grazia.  Nelle altre persone, anche fervorose, dopo un tempo più o meno lungo dedicato alle occupazioni esteriori, la vita soprannaturale sembra che subisca qualche perdita; troppo preoccupate del bene da fare al prossimo, troppo assorbite da una compassione non abbastanza soprannaturale, per le miserie da sollevare, il loro cuore imperfetto sembra che innalzi verso Dio delle fiamme meno pure, oscurate dal fumo di molte imperfezioni. – Dio non castiga tale debolezza con una diminuzione della sua grazia e non si mostra rigoroso contro tali deficienze, purché vi siano stati sforzi seri di vigilanza e di preghiera durante l’azione, e l’anima si disponga, compiuto il suo lavoro, a ritornare vicino a Lui per riposarsi e per riprendere forza. Questo continuo ricominciare causato dall’intreccio della vita attiva con la vita interiore, rallegra il suo cuore paterno. Del resto, in coloro che lottano, tali imperfezioni diventano sempre meno profonde e meno frequenti di mano in mano che l’anima impara a ricorrere senza stancarsi a Gesù che essa trova sempre pronto a dirle: Ritorna a me, povero cervo ansante e assetato per il lungo cammino, vieni a trovare nelle acque vive il segreto di una nuova agilità per nuove corse; ritirati un momento dalla moltitudine la quale non ti può dare l’alimento di cui abbisognano le tue stanche forze: Venite scor-sum et requiescite pusillum (Venite In disparte in un luogo deserto e riposate un poco – MARC. VI, 31).). Nella calma, nella pace che gusterai vicino a me, non solo tu ritroverai ben presto il tuo vigore di prima, ma troverai anche i mezzi di fare di più, stancandoti di meno. Elia, accasciato e scoraggiato, si vide ravvivare le energie da un pane misterioso: così, o mio apostolo, nel compito invidiabile di mio corredentore che io ti assegnai, ti offro il mezzo, con la mia parola che è vita e con la mia grazia, cioè col mio Sangue, di rivolgere nuovamente la tua anima verso gli orizzonti eterni, di rinnovare nel tuo cuore e nel mio un patto d’intimità. Vieni, io ti consolerò delle tristezze e delle delusioni del tuo viaggio, e nel fuoco del mio amore tu ritemprerai l’acciaio delle tue risoluzioni: Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis et ego reficiam vos (Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi ristorerò – MATT. XI, 28).

c) Moltiplica le sue forze e i suoi meriti

Tu ergo, fili mi, confortare in gratia (Tu dunque, figlio mio, rafforzati nella grazia – Tim. II, 1). La grazia è una partecipazione alla vita dell’Uomo-Dio. La creatura possiede una certa misura di forza e in qualche senso si può anche qualificare e definire una forza; ma Gesù è la Forza per essenza: in Lui risiede la Forza del Padre, l’Onnipotenza dell’azione divina, e il suo Spirito si chiama Spirito di Forza. O Gesù – esclama san Gregorio Nazianzeno – in Voi solo risiede tutta la mia forza. Fuori di Gesù Cristo, dice san Gerolamo, io non sono altro che impotenza.  – Il Dottore Serafico nel 4° libro del suo Compendìum Theologiæ, enumera i cinque caratteri principali che riveste in noi la forza di Gesù: il primo è d’intraprendere cose difficili e di affrontare risolutamente gli ostacoli: Viriliter agite et confortetur cor vestrum (Operate da forti e il vostro cuore si conforti – SALMO XXX). – Il secondo è il disprezzo delle cose della terra: Omnia detrimentum feci et arbitror ut stercora (Fil. III, 8). – Il terzo è la pazienza nelle tribolazioni: Fortis ut more dilectio (Cant. VIII, 6). Il quarto è la resistenza alle tentazioni: Tamquam leo rugiens circuit… cui resistite fortes in fide (1 Piet. V, 8-9).  Il quinto è il martirio interiore, la testimonianza non del sangue, ma della vita stessa che grida a Gesù: Voglio essere tutta vostra. Esso consiste nel combattere le concupiscenze, nel domare i vizi e nel lavorare energicamente per l’acquisto delle virtù: Bonum certamen certavi (Ho combattuto la buona battaglia – 2 Tim. IV, 7).  Mentre l’uomo esteriore fa assegnamento sulle sue forze naturali, l’uomo interiore invece vede in esse soltanto degli aiuti utili sì, ma insufficienti. Il sentimento della sua debolezza e la sua fede nella potenza di Dio danno a lui, come a san Paolo, la misura esatta della sua forza. Alla vista degli ostacoli che gli si parano dinanzi, egli con umile fierezza esclama: Cum enim infirmar, tunc potens sum (Perché quando sono debole, allora sono forte – II Cor. XII, 10).  Senza la vita interiore, dice san Pio X, le forze non basteranno a sopportare con perseveranza le noie che porta seco ogni apostolato, la freddezza e lo scarso aiuto degli stessi buoni, le calunnie dei nemici, talora anche la gelosia degli amici e dei compagni di armi… Soltanto una virtù paziente, radicata nel bene e in pari tempo soave e delicata, può evitare o diminuire tali difficoltà (Enc. Ai Vescovi d’Italia, 11 giugno, 1905). – Per mezzo della vita di orazione, simile al succo che dalla vite scorre nei tralci, la forza divina scende nell’apostolo per fortificarne l’intelligenza, radicandolo sempre più nella fede. Egli progredisce perché questa virtù illumina con luce più viva la sua via; egli si avanza risoluto, perché sa dove andare e in che modo deve raggiungere la sua meta. Insieme con questa luce, egli riceve tale energia soprannaturale di volontà, che anche il carattere debole e volubile diventa capace di azioni eroiche.  In tal modo il Manete in me (Rimanete in me – Giov. XV, 4), l’unione con l’Immutabile, con colui che è il Leone di Giuda e il Pane dei forti, spiega la meraviglia dell’invincibile costanza e della fermezza cosi perfetta che nell’ammirabile apostolo che fu san Francesco di Sales, si univano a una dolcezza e ad un’umiltà senza pari. Lo spirito e la volontà si fortificano per mezzo della vita interiore, perché ne è fortificato l’amore. Gesù lo purifica, lo dirige, lo accresce progressivamente, lo fa partecipe dei sentimenti di compassione, di generosità, di abnegazione e di disinteresse del suo Cuore adorabile. Se questo amore cresce fino a diventare passione, allora porta fino al massimo sviluppo e adopera a suo profitto tutte le forze naturali e soprannaturali dell’uomo.  – È facile giudicare ora l’aumento di meriti che risulta dalle energie moltiplicate dalla vita di orazione, se non dimentichiamo che il merito non consiste tanto nella difficoltà che vi può essere nel compiere un atto, quanto piuttosto dall’intensità della carità che si porta nel compierlo.

d) Gli dà gioia e consolazione

Soltanto un amore ardente e incrollabile può essere come il sole di una vita, perché l’amore possiede il segreto di dilatare il cuore anche in mezzo ai gravi dolori e alle fatiche opprimenti.  La vita dell’uomo apostolico è un intreccio di patimenti e di fatiche; se egli non ha la convinzione di essere amato da Gesù, quante ore tristi, inquiete e scure per lui, anche se il suo carattere è allegro, eccetto che il cacciatore infernale non gli faccia luccicare lo specchietto delle consolazioni umane e dei buoni risultati apparenti, per meglio attirare l’ingenua allodola nelle sue reti inestricabili. Soltanto l’Uomo-Dio può strappare all’anima quel grido sovrumano: Superabundo gaudio in omni tribulatione nostra (II Cor. VII, 4). In mezzo alle mie prove interne, dice l’apostolo, la parte superiore del mio essere, come quella di Gesù al Getsemani, gode di una felicità che non ha nulla di sensibile, senza dubbio, ma è di tale realtà che, nonostante l’agonia della parte inferiore, non la muterei certamente con tutte le gioie umane.  – Viene la prova, la contraddizione, l’umiliazione, il dolore, la perdita dei beni, anche quella delle persone care, e l’anima accetterà tutte queste croci con disposizioni ben diverse da quelle che aveva al principio della sua conversione. Di giorno in giorno essa cresce nella carità. Il suo amore potrà essere senza splendore, il Maestro la potrà trattare da anima forte, conducendola per le vie di un annientamento sempre più profondo o per l’arduo sentiero dell’espiazione per lei o per il mondo, poco importa! Favorito dal raccoglimento, alimentato dall’Eucaristia, l’amore continua a crescere, e la prova ne è quella generosità con cui l’anima si sacrifica e si abbandona; quello slancio che la spinge a correre, senza badare alla pena, alla ricerca delle anime verso le quali si esercita il suo apostolato con una pazienza, con una prudenza, con un tatto, con una compassione e con un ardore che spiega la penetrazione della vita di Gesù in lei: Vivit vero in me Christus. Il sacramento dell’amore dev’essere il sacramento della gioia: l’anima non può essere interiore se non è eucaristica e se non gusta a fondo il dono di Dio, se non gode della presenza, se non gusta la dolcezza dell’Essere amato che essa possiede e adora. La vita dell’uomo apostolico è una vita di preghiera. «La vita di preghiera, dice il santo Curato d’Ars, è la grande felicità di quaggiù. Oh! bella vita! bella unione dell’anima con Gesù! L’eternità non può bastare per comprendere tale felicita… La vita interiore è un bagno di amore in cui l’anima s’immerge… Essa è come affogata dall’amore… Dio tiene l’anima interiore, come la madre tiene la testa del suo bimbo nella sua mano, per coprirla di baci e di carezze ». – È pure un alimento della gioia il contribuire a far servire e a far onorare l’oggetto del proprio amore. L’uomo apostolico conosce tutte queste felicità. Mentre si serve dell’azione per accrescere il suo amore, egli sente nel tempo stesso crescere la sua gioia e la sua consolazione. Venator animarum, egli ha la gioia di contribuire a salvare anime che si sarebbero perdute, e perciò ha la gioia di consolare Dio dandogli cuori che sarebbero stati per sempre separati da Lui, la gioia insomma di sapere che procura a se stesso una delle più salde assicurazioni del progresso nel bene e della gloria eterna.

e) Raffina la sua purità d’intenzione

L’uomo di fede giudica l’azione ben diversamente da chi vive solo di vita esteriore: egli ne scorge non tanto l’aspetto apparente quanto piuttosto la parte che ha nel disegno di Dio e i suoi risultati soprannaturali. Perciò, considerando se stesso come un semplice strumento, conserva in sé l’orrore di ogni compiacenza nella sua capacità, perché fonda la speranza della sua riuscita sulla persuasione della sua impotenza e sulla confidenza in Dio solo.  Così egli si fonda nello stato di abbandono. In mezzo alle difficoltà, quanta differenza tra il suo atteggiamento e quello dell’uomo apostolico che non conosce l’intimità con Gesù! Questo abbandono del resto non diminuisce per nulla il suo ardore per l’opera intrapresa. Egli agisce come se la buona riuscita dipendesse unicamente dalla sua attività, ma in realtà egli l’attende soltanto da Dio (S. Ignazio). Egli non prova nessuna pena nel subordinare tutti i suoi progetti e le sue speranze ai disegni incomprensibili di quel Dio che spesso, per il bene delle anime, si serve dei rovesci meglio che dei trionfi. Da ciò risulta in quest’anima uno stato di santa indifferenza così per l’insuccesso come per la buona riuscita. Essa è  sempre pronta a dire: O mio Dio, Voi non volete che l’opera incominciata si compia; a Voi non piace che io mi limiti ad agire generosamente ma sempre in pace, a sforzarmi per raggiungere lo scopo prefisso, ma lasciando a Voi solo la cura di decidere se la riuscita vi procurerà maggior gloria che non l’atto di virtù che una disdetta mi darebbe occasione di fare. Sia mille volte benedetta la vostra santa e adorabile volontà e, con l’aiuto della vostra grazia, possa io calpestare i più piccoli sintomi di vana compiacenza quando Voi benedite i miei disegni, come pure umiliarmi e adorarvi quando la vostra Provvidenza crederà bene di distruggere il frutto delle mie fatiche.  A dire il vero, il cuore dell’apostolo sanguina quando vede le tribolazioni della Chiesa, ma non vi è nulla di comune tra il suo modo di soffrire e quello dell’uomo che non è animato da uno spirito soprannaturale. Ne è prova il contegno e l’attività febbrile di questo, quando sopraggiungono le difficoltà, le sue impazienze e il suo abbattimento, la sua disperazione e talora il suo annientamento dinanzi a rovine irreparabili. Il vero apostolo invece si giova di tutto, dei trionfi e dei rovesci, per accrescere la sua speranza e per dilatare la sua anima nell’abbandono fiducioso nella Provvidenza. Non vi è particolarità del suo apostolato, la quale non diventi soggetto di un atto di fede; non vi è momento del suo lavoro perseverante, che non gli dia occasione di dare prova di carità, perché con l’esercizio della custodia del cuore egli arriva a compiere ogni cosa con una purità d’intenzione sempre più perfetta e, con l’abbandono, a rendere il suo ministero sempre più impersonale. – In tal modo ciascuna delle sue azioni riveste sempre di più i caratteri della santità, e il suo amore delle anime, prima mescolato con molte imperfezioni, purificandosi sempre più, finisce con non vedere più le anime se non in Gesù, con non amarle più se non in Gesù, e cosi per mezzo di Gesù le genera a Dio: Filioli mei, quos iterum parturio donec firmetur Christus in vobis (Figliuolini miei, 1 quali io porto nuovamente in seno fino a tanto che sia formato in voi Cristo – Gal. IV, 19).

f.) È uno scudo contro lo scoraggiamento

L’apostolo che non comprende quale dev’essere l’anima del suo apostolato, non comprende questa frase di Bossuet: Quando Dio vuole che un’opera sia tutta di sua mano, riduce ogni cosa all’impotenza e al nulla, e poi agisce.  Nessuna cosa ferisce tanto Dio, quanto l’orgoglio. Ora nella ricerca della buona riuscita, noi possiamo, per mancanza di purità d’intenzione, arrivare al punto di erigerci a divinità, a principio e fine delle nostre opere. Dio abbomina tale idolatria; perciò quando vede che l’apostolo manca di quella impersonalità che la sua gloria esige dalla creatura, lascia talvolta libero il campo alle cause seconde, e l’edificio non tarda a crollare.  L’operaio, attivo, intelligente, generoso, si è messo all’opera con tutto il suo ardore; egli ha forse conosciuto i trionfi della buona riuscita, ne ha goduto e se n’è compiaciuto: era l’opera sua! la sua! Vorrebbe quasi far sue quelle parole famose: Veni, vidi, vici. Ma attendiamo un momento; un caso permesso da Dio; un’azione diretta di satana o del mondo vengono a colpire l’opera o la persona stessa dell’apostolo, e allora tutto va in rovina! Ma più deplorevole ancora è la rovina interiore, frutto dello tristezza e dello scoraggiamento di quel valoroso di ieri: quanto più esuberante era la gioia, tanto più profondo è lo scoraggiamento.  Soltanto il Signore potrebbe rialzare quelle rovine: «Alzati, egli dice allo scoraggiato, invece di operare da solo riprendi il tuo lavoro con me, per mezzo di me e in me». Ma questa voce il disgraziato non la intende più; egli è così travolto dalla vita esteriore, che per intenderla ci vorrebbe un vero miracolo della grazia che egli non si può aspettare, per causa delle sue molte infedeltà. Soltanto una vaga convinzione della Potenza di Dio e della sua Provvidenza aleggia Sopra la desolazione di quello sventurato e non può bastare a dissipare la tristezza che lo inonda. Che spettacolo diverso nel vero sacerdote il cui ideale è di riprodurre in sé Gesù Cristo! Per lui la preghiera e la santità di vita rimangono i due grandi mezzi di azione sul cuore di Dio e sul cuore degli uomini. Egli si è sacrificato generosamente; ma il miraggio del trionfo gli è sembrato una prospettiva indegna di un vero apostolo. Arrivano le burrasche: poco importa quali siano le cause seconde che le hanno prodotte. In mezzo alle rovine, poiché egli ha lavorato soltanto con Gesù Cristo, ode in fondo al cuore ripetersi quello stesso Noli timere che durante la tempesta rendeva la pace e la sicurezza ai discepoli tremanti. Il primo risultato della prova è un nuovo slancio verso l’Eucaristia e un rinnovamento di intima divozione a Maria Addolorata.  La sua anima, invece di lasciarsi schiacciare dal rovescio, esce ringiovanita di sotto il torchio: « sicut aquilæ iuventus renovabitur » (La tua giovinezza sarà rinnovata come quella dell’aquila – Ps. CII). Di dove gli viene quell’atteggiamento di umile trionfatore in mezzo alla sconfitta? Non bisogna cercarne il segreto altrove che in quella unione con Gesù e in quella fiducia incrollabile nella sua onnipotenza, che facevano dire a sant’Ignazio: Se la Compagnia venisse soppressa senza mia colpa, un quarto d’ora di colloquio con Dio mi basterebbe per ricuperare la calma e la pace. « Il cuore delle anime interiori è in mezzo alle umiliazioni e ai patimenti come uno scoglio in mezzo al mare » (Il CURATO D’ARS. — La maggior parte degli uomini di azione sono essi capaci di fare propri i sentimenti che il generale de Sonis esprime in questa bella preghiera riferita dall’autore della sua Vita?). Certamente l’apostolo soffre: la perdita di parecchie sue pecorelle sarà forse la conseguenza di ciò che ha reso inutili i suoi sforzi e che ha distrutto l’opera sua. Per questo vero pastore è una tristezza amara, ma che non può frenare l’ardore che lo spingerà a ricominciare da capo. Egli sa che la redenzione, applicata anche a un’anima sola, è un’opera grande che si compie soprattutto col dolore. La certezza che le prove sopportate generosamente aumentano i suoi progressi nella virtù e procurano a Dio una gloria maggiore, basta a sostenerlo. Egli poi sa che spesso Dio vuole da lui soltanto i germi della buona riuscita: altri verranno a raccogliere messi abbondanti e forse crederanno di potersene attribuire il merito; ma il Cielo saprà discernerne la causa nel lavoro ingrato e in apparenza sterile che le precedette. Misi vos metere quod non laborastis; alii laboraverunt et vos in labores eorum introistis (Vi ho mandati a mietere ciò che non avete lavorato; altri lavorarono e voi siete entrati nei loro lavori – Giov. IV, 38).  Gesù Cristo, autore dei trionfi degli Apostoli dopo la Pentecoste, durante la sua vita pubblica volle soltanto lasciare dei germi, delle lezioni, degli esempi, e prediceva ai suoi Apostoli che loro sarebbe dato di fare opere più grandi che le sue: Opera quæ ego facio et ipse faciet et malora horum faciet (Giov. XIV, 12). Il vero apostolo scoraggiarsi! lasciarsi impressionare dai discorsi dei pusillanimi  condannarsi al riposo dopo le disdette! Ma questo sarebbe non capire la sua vita intima e la sua fede in Gesù Cristo! Ape infaticabile, egli va allegramente a ricostruire i favi nell’alveare devastato.

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LO SCUDO DELLA FEDE (124)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE SECONDA

CAPO III.

Da quali contrassegni debba distinguersi la vera Religione dalle bugiarde.

I. Veggiamo sorte al mondo più religioni. Tutte per loro padre vantano Dio, mentre è certissimo che una solamente può essere a Lui figliuola: L’altre gli son tutte ribelli. Come faremo noi dunque a ravvisare quest’unica fortunata dalla vil turba dell’altre? Miriamole tutte in viso, ma fissamente. E quella che vedremo all’Altissimo più conforme, quella sia la nata da Lui.

II. Ora a noi Dio risplende singolarmente per l’aggregato di quei tre famosi attributi, potenza, sapienza e bontà, che come sono il meglio di quanto può concepirsi da mente umana (Hugo de s. Vict. 1. 2. de sacr. p. 3. c. 19), così giustamente son da noi presi di mira, in più di queste nostre dimostrazioni, per desiderio di colpire nel segno. Quella fede adunque la quale in sé più chiaramente possegga questi tre pregi, dovrà più giustamente venire riconosciuta qual parto nobile del gran Padre de’ lumi: dacché, come Egli non può in sé ricettare verun errore, così né anche può tramandarlo fuori di sé. A questi tre capi ridurremo frattanto per brevità tutti i vari segni che ci distinguono la vera religione dalle fallaci. Riconosceremo il suo divino potere nella forza de’ miracoli, nella fortezza de’ martiri, e in quant’altro a ciò si appartiene di segnalato. Riconosceremo il suo divino sapere nella dottrina celeste da lei recataci, dottrina tutta opposta a quella che insegnano le altre sette, che è sì obbrobriosa. E riconosceremo la sua divina bontà nella virtù che professano i suoi seguaci, e virtù provata qual invitto diamante sotto ad ogni martello, benché implacabile.

III. Rimane solo il premettere un’avvertenza di gran rilievo, ed è, che quanto sarebbe gran fallo in un matematico l’appagarsi nelle sue dimostrazioni di un’evidenza morale, tanto sarebbe in un morale aspirare a quell’evidenza che chiamasi matematica. Come diverse son le materie di cui si tratta, così diversi sono anche i generi delle pruove. Satis de re dictum est, ubi explicabitur quantum rei feri materia, dice il filosofo (Arist. eth. 1. 1. metaph. 1.1. cult.). Certitudo mathematica non in omnibus rebus quærenda est (Eppoi forsechè la matematica è essa sola il tipo della scienza vera e perfetta,io non lo credo: reputo anzi in contrario, che la certezza matematica, anziché assoluta e sovranamente perfetta, è ipotetica, perchéposata su certe definizioni e concetti propedeutici accolti senza previa discussione, e per di più non va scevra di oscurità, come ne fanno fede le contese dei matematici stessi intorno a certe definizioni ed alla natura delle quantità infinitesimali!). La fede è richiesta da Dio negli uomini come ossequio, come obbedienza. Adunque non doveva ella portarsi con dichiarazioni tanto sensibili agl’intelletti, anche pertinaci, che non fosse merito il credere. Doveva il credere essere un tributo giusto, ma volontario, da noi renduto alla prima verità di buon grado. Però in esso ha Dio mescolato talmente il chiaro col fosco, che i fedeli avessero qualche motivo di dubitare, qualor audaci volessero ribellarsi a ciò che insegna la chiesa, e gl’infedeli n’avesser infiniti ad arrendersi, qualor attenti volessero darvi mente: e così giustamente poi si rendesse, l’ultimo giorno alla credenza il suo guiderdone, e giustamente alla incredulità il suo supplizio: Qui crediderit, salvus erit: qui vero non crediderit, condemnabitur(Marc. XVI. 16). Tale fa appunto il sentimento di Ugone da s. Vittore. Quia fideles semper habent locum unde dubitare possunt, et infideles unde credere valent, ìuste et fidelibus prò fide datur præmium, et infidelibus prò infidelitate supplicium.

IV. Quindi avviene, non dover noi fondar la credenza nostra su quelle ragioni umane che ci dimostrano, la nostra fede esser vera. Dobbiamo fondarla sulla veracità infallibile di quel Dio, da cui ci fu rivelata si bella fede. Sulle ragioni umane abbiamo a fondare quel giudizio prudente e pratico il qual ci detta, esserpiù che credibile, aver Dio fatta una tale rivelazione. – Testimonia tua credibilia facta sunt nimis (Ps. XCII. 5). Giudizio che può alterarsi in chi non ripensi più alle dette ragioni, o ripensandovi, voglia cavillarle e combatterle con sofismi non sussistenti: ma non può alterarsi in chi tra sé le consideri a ciel sereno.

V. Però, com’è follia riputare per buona una religione, per questo solo, perché si bevve col latte; cosi è gran fallo alzare nella sua mente un tribunale sofistico che non voglia in materia di religione passare per legittima altra prova che l’evidenza, non soggetta a contrasto. Convien sospettare, dov’è ragionevole sospettare, e convien saper sicurarsi, dove è ragionevole sicurarsi. Altrimenti tanto sarà contra ragione il credere tutto, quanto il dubitare di tutto. Il vedere di notte, non è virtù dell’occhio umano, è fiacchezza. Così è fiacchezza il presumere di vedere ciò che dee credersi. Basti a noi l’avere per marchio della vera fede un aggregato di testimonianze vivissime, tali e tante, che tutte insieme (come da principio si disse) non si congiungono in alcuna fede non vera. Sicché l’avere a quell’unica conceduti Dio quei gran segni particolari di verità, è un argomento infallibile, che gli è accetta anche unicamente, e che unicamente vien da lui proposta a’ mortali, perché  l’abbraccino. Chi richiede il vantaggio per sottomettere la sua mente orgogliosa, o cerca una religione la qual non abbia misteri eccedenti i sensi, e per conseguente professisi senza fede; o per lo meno la cerca per una via che non ha mai fine, qual è l’esaminare ad uno ad uno tutti gli articoli che egli crede, e così chiarirsene: certo di non pervenire mai per tal via al termine della quiete da lui bramata ma d’aggirarsi di dubbio in dubbio, di disputa in disputa, senza mai concludere nulla, spendendo però nel ricercare il vero culto divino tutta quella vita che da Dio gli fu conceduta ad esercitarlo. Facciasi ciò che mai piace. Il credere, perché sia credere, ha da esser volontario: e però chi crede ha sempre, se egli vuole, a poter non credere: Multa potest facere homo nolens, dice s. Agostino, credere autem non potest, nisi volens (Tract. 56 in Ioan.). Posto ciò, chiunque si accorge di avere in capo un cervello altero, conviene che contentisi di abbassarlo; non ricordarsi che l’ingegno, come il mercurio, sublimato è veleno, precipitato è rimedio.

VI. Datemi uno spirito ragionevole, che non si ritiri a bello studio dal vero, ma gli esca incontro, e che, ritrovatolo, non trapassi di là dal segno per impeto concepito nel contraddire, come trapassa di là dal segno un dondolo per l’impeto concepito nell’incontrarlo; ed io gli farò vedere in faccia alla Religione Cattolica raggi così splendenti, che sarà costretto ad abbassar le palpebre, ed a confessare: Questa è la dottrina che merita unicamente d’esser creduta, mentre dall’Onnipotente vien confermata con suggelli di note così cospicue, che se ella fosse bugiarda converrebbe dir, che Dio stesso ci avesse indotti di suo consiglio in errore.

VII. E ciò meravigliosamente potrà giovare ai fedeli ed agli infedeli: ai fedeli per infervorarli di vantaggio nella risoluzione di credere questa dottrina celeste: essendo le prove della sua credibilità somiglianti ad un cammino acceso, a cui la fede, che è cieca, è vero che non vede, ma si riscalda: e agl’infedeli, per disporgli a domare l’orgoglio del loro spirito; dacché la sola umiltà è quella che fa la strada alla fede di Cristo. In mansuetudine suscipite insitum, verbum, quod potest salvare animus vestras (Iac. 1. 21). Questa parola innestata che ha da salvarci, è qualsisia verità soprannaturale: verità che dalla ragion naturale, pianta selvaggia, non si può apprendere, salvo che per innesto. Ora a tanto ci vuole mansuetudine d’intelletto: altrimenti l’innesto non terrà mai: Esto mansuetus ad audiendum Verbum Dei, ut intelligas (Eccli. V. 13). Ma questo medesimo non vi toglie ogni scusa?  Se il Signore, affine di darvi ad intendere bene la sua parola, vi addimandasse ingegno altissimo, spiritoso, svegliato, potreste rispondergli, che la natura non vi fu cortese di tanto. Ma egli non vuole altro da voi, che docilità. E questa è vero che viene assai da natura, ma più viene ancor da virtù (S.Th. 2. 2. q. 49. art. 5. ad 3).

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (6)

R. P. CHAUTARD D. G. B .

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (6)

TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B.

8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE TORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PARTE TERZA

“ La vita attiva, pericolosa senza la vita interiore, con questa assicura il progresso nella virtù.”

1.

Le opere di zelo, mezzo di santità per le anime che fanno vita interiore, diventano per le altre un pericolo per la loro salvezza

a) MEZZO DI SANTITÀ. — A quelle anime che Dio associa al suo apostolato, chiede formalmente che non solo si conservino, ma che progrediscano nella virtù: ne troviamo la prova in ogni pagina delle Epistole di san Paolo, a Tito e a Timoteo, e nelle apostrofi dell’Apocalisse ai Vescovi dell’Asia. D’altra parte già lo abbiamo stabilito come principio, che le Opere sono volute da Dio. Dunque il vedere nelle opere, prese in sé, un ostacolo alla santificazione e affermare che, pure emanando dalla volontà divina, esse rallenteranno per forza il nostro cammino verso la perfezione, sarebbe un’ingiuria, una bestemmia contro la Sapienza, la Bontà e la Provvidenza di Dio. – Non si può evitare questo dilemma: o l’apostolato, sotto qualunque forma, se è voluto da Dio, non solo non ha in sé, come effetto, il potere di alterare l’atmosfera di soda virtù in cui si deve trovare un’anima sollecita della sua salute e del suo progresso spirituale, ma anzi costituisce sempre per l’apostolo un mezzo di santificazione, qualora venga esercitato nelle condizioni richieste. Oppure la persona scelta da Dio come sua cooperatrice, e perciò obbligata a rispondere alla chiamata divina, avrebbe diritto di portare come scuse legittime della sua negligenza nel santificarsi, l’attività, le pene e le sollecitudini date a favore dell’opera comandata.  Ora, per conseguenza dell’economia del disegno divino, Dio PER RIGUARDO A SE STESSO, deve dare all’apostolo scelto da Lui, le grazie necessarie per effettuare l’unione di occupazioni assorbenti, non solo con la sicurezza della salute, ma anche con l’acquisto delle virtù pratiche fino alla santità. – Gli aiuti che diede a san Bernardo, a san Francesco Saverio, Egli li deve, nella misura necessaria, al più modesto degli operai evangelici, al più umile religioso insegnante, alla più ignorata delle suore infermiere. Questo è un vero DEBITO DEL CUORE DI Dio verso lo strumento che sceglie, e non esitiamo a ripeterlo; e ogni apostolo, se adempie le condizioni richieste, deve avere una confidenza assoluta nel suo rigoroso diritto alle grazie che sono necessarie per un dato genere di lavoro, le quali gli danno come un’ipoteca sul tesoro infinito degli aiuti divini.  – Chi si dedica alle opere di carità, dice Alvarez de Paz, non deve pensare che queste gli chiuderanno la porta della contemplazione e lo renderanno meno capace di dedicarsi a questa; deve invece ritenere come certo che esse ve lo disporranno in modo ammirabile. Non soltanto la ragione e l’autorità dei Padri c’insegnano tale verità, ma anche l’esperienza quotidiana, perché vediamo certe anime le quali si dedicano alle opere di carità verso il prossimo, confessioni, prediche, catechismi, visite agli infermi ecc., innalzate da Dio ad un grado così alto di contemplazione, che ben si possono paragonare agli antichi anacoreti (Tom. III, lib. V). – Con le parole « grado di contemplazione », l’illustre gesuita, come anche tutti i maestri della vita spirituale, intende il dono dello spirito di orazione il quale caratterizza la sovrabbondanza della carità in un’anima. I sacrifici richiesti dalle opere, dalla gloria di Dio e dalla santificazione delle anime attingono un tale valore soprannaturale, una tale fecondità di meriti, che l’uomo dato alla vita attiva può, se vuole, innalzarsi ogni giorno a un grado superiore nella carità e nell’unione con Dio, insomma, nella santità.  Senza dubbio in certi casi in cui vi è pericolo grave e prossimo di peccato formale, particolarmente contro la Fede e la virtù angelica, Dio VUOLE che si abbandonino le opere; ma eccetto tali casi, Egli, mediante la vita interiore, ai suoi operai provvede il mezzo di rendersi immuni e di progredire nella  virtù. Un detto paradossale di santa Teresa, così giudiziosa e spiritosa, ci aiuterà a spiegare il nostro pensiero. « Da quando sono Priora, dice la santa, occupata in molte cose e obbligata a viaggi frequenti, commetto assai più mancanze; eppure, poiché combatto generosamente e mi spendo unicamente per Dio, sento che mi avvicino sempre di più a Lui ». La sua debolezza si manifesta più spesso, che nel riposo e nel silenzio del chiostro; la santa lo vede, ma non si turba. La generosità tutta soprannaturale della sua abnegazione e i suoi sforzi più vivi di prima nel combattimento spirituale, le danno in compenso occasioni di vittorie che largamente controbilanciano le sorprese di una fragilità che esisteva anche prima, ma allo stato latente. La nostra unione con Dio, dice san Giovanni della Croce, risiede nell’unione della volontà nostra con la sua e si misura soltanto da essa. Invece di vedere, per un falso concetto della spiritualità, la possibilità del progresso nell’unione con Dio soltanto nella tranquillità e nella solitudine, santa Teresa giudica invece che appunto l’attività imposta veramente da Dio ed esercitata nelle condizioni da Lui volute, alimentando il suo spirito di sacrificio, la sua umiltà, la sua abnegazione, il suo ardore e il suo zelo per il regno di Dio, viene ad accrescere l’unione intima della sua anima col Signore vivente in lei per animare le sue fatiche e per incamminarla verso la santità. La santità infatti risiede prima di tutto nella carità, e un’opera di apostolato, degna di questo nome, è carità in azione. San Gregorio dice: Probatio amoris exhibitio est operis; l’amore si prova con le opere di abnegazione, e Dio chiede ai suoi operai questa prova di generosità. – Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore; tale è la forma di carità che Gesù domanda all’apostolo come prova della sincerità delle ripetute proteste di amore.  San Francesco d’Assisi non crede di poter essere amico di Gesù Cristo, se la sua carità non si dedica alla salvezza delle anime: Non se amicum Christi reputabat, nisi animas foveret quas ille redemit (S. BONAVENTURA, Vita s. Franc., c. IX). E se Gesù Cristo considera come fatte a sé le opere di misericordia anche corporali, è perché in ciascuna di esse scopre  un’irradiazione di quella stessa carità (Matth. XXV, 40) che anima il missionario o sostiene l’anacoreta nelle privazioni, nei combattimenti e nelle preghiere del deserto.  La vita attiva si dedica alle opere di abnegazione; essa cammina per i sentieri del sacrificio e segue Gesù operaio e pastore, missionario, taumaturgo che cura e guarisce tutti e provvede, sempre tenero e infaticabile, a tutti i bisognosi della terra.  La vita attiva ricorda e fa vivere in sé quelle parole del Maestro: Io sono in mezzo a voi come un servo (Luc. XXIII, 27); Il Figliuolo dell’Uomo non è venuto per essere servito, ma per servire (Matt. XX, 28).  Essa batte le vie della miseria umana dicendo la parola che illumina, seminando intorno a sé una messe di grazie che fioriscono in benefìci di ogni sorta.  Con la sua fede illuminata, con gli intuiti del suo amore, essa scopre nel peggiore dei miserabili, nel più meschino dei derelitti, il Dio nudo, piangente, disprezzato da tutti, il gran lebbroso, il misterioso condannato che la giustizia eterna perseguita e abbatte sotto i suoi colpi, vede l’uomo del dolore che Isaia vide coperto di orribili piaghe, nella porpora tragica del suo sangue, così disfatto e straziato dai chiodi e dai flagelli, che si contorceva come un verme che si calpesti.  Così, esclama il Profeta, lo abbiamo veduto e non lo abbiamo riconosciuto (Is. LIII, 2 e 5).  Ma tu, o vita attiva, tu ben lo riconosci, e con le ginocchia a terra, con gli occhi inondati di pianto, tu lo servi nella persona dei poveri! – La vita attiva rende migliore l’umanità; fecondando il mondo con le sue generosità, con le sue fatiche, con i suoi sudori, getta il seme dei suoi meriti per il cielo. Vita santa e premiata da Dio il quale dà il paradiso al bicchiere d’acqua del povero, come ai volumi del dottore, come ai sudori dell’apostolo. Egli canonizza nell’ultimo giorno, davantialla terra e al cielo insieme riuniti, tutte le opere di carità (Lumière et fiamme di P . LEON, O. F . M. Capp. Si noti bene che si tratta, in questa citazione, di una vita attiva piena di spirito di fede, fecondata dalla carità e derivante da un’intensa vita interiore.).

b) PERICOLO PER LA SALVEZZA. — Quante volte, purtroppo, nei ritiri spirituali privati da me diretti, potei constatare che le opere le quali dovevano essere per i loro organizzatori mezzi di progresso, divenivano strumenti di rovina dell’edificio spirituale!  Un uomo di azione, invitato al principio degli esercizi spirituali, a esaminare la sua coscienza ed a cercare la causa dominante del suo stato disgraziato, si giudicava benissimo dandomi questa risposta, a prima vista incomprensibile: «Il dedicarmi agli altri è stata la mia rovina! Le mie naturali disposizioni mi facevano provare della gioia nel sacrificarmi, della felicità nel rendere servizi. Aiutato dall’apparente riuscita delle mie imprese, satana per lunghi anni mise tutto in opera per illudermi, per eccitare in me il delirio dell’azione, per disgustarmi di ogni lavoro interiore e finalmente per trascinarmi nel precipizio ».  Lo stato anormale, per non dire mostruoso, di quell’anima, è presto spiegato: l’operaio di Dio, tutto inteso alla soddisfazione di sfogare la sua attività naturale, aveva lasciato estinguere la vita divina, quel divino calorico che, condensato entro di lui, rendeva fecondo il suo apostolato e difendeva la sua anima dal freddo glaciale dello spirito della natura. Egli aveva lavorato, ma lontano dal sole vivificante: Magnæ vires et cursus celerrimus, sed præter viam (Spiegamento di forze, corsa rapidissima, ma fuori di strada – S. AGOSTINO, in Psalm.. XXXI).). In pari tempo le sue opere, sante per se stesse, si erano rivoltate contro l’apostolo come un’arma pericolosa a maneggiarsi, arma a doppio taglio, la quale ferisce chi non sa più servirsene.  Contro questo pericolo, san Bernardo metteva in guardia il Papa Eugenio III quando gli scriveva: Io temo che in mezzo alle vostre occupazioni che sono innumerevoli, disperando di poterne mai vedere la fine, voi lasciate indurire la vostra anima. Voi agireste più prudentemente con SOTTRARVI A TALI OCCUPAZIONI, anche solo per qualche tempo, che non con permettere che esse vi conducano infallibilmente dove voi non vorreste. E dove direte forse voi: ALL’INDURIMENTO DEL CUORE.  Ecco dove vi possono trascinare quelle MALEDETTE OCCUPAZIONI, HÆ OCCUPATIONES MALEDICTÆ, se ancora continuate, come faceste da principio, ad abbandonarvi interamente ad esse, senza riservare per voi nulla di voi medesimo (S. BERNARDO, De Consid., l. II, c. VI).  Che cosa vi è di più augusto e di più santo, che il governo della Chiesa? Che cosa vi è di più utile per la gloria di Dio e per il bene delle anime? Eppure maledette occupazioni, esclama san Bernardo, se esse impediscono la vita interiore di chi si applica ad esse. Che espressione è questa: maledette occupazioni! Essa vale un libro intero, tanto colpisce e obbliga a riflettere. Contro di essa si vorrebbe quasi protestare, se non fosse caduta dalla penna così esatta di un Dottore della Chiesa! di un san Bernardo!

2.

L’uomo di azione senza la vita interiore

Basta una frase per caratterizzarlo: forse non è ancora tiepido, ma tale diverrà fatalmente. Ora essere tiepido e di una tepidezza non di sentimento o di fragilità, ma di volontà, vuol dire venire a patti con la dissipazione e con la negligenza abitualmente acconsentite o non combattute, venire a patti col peccato veniale deliberato, il che vuol dire togliere all’anima la sicurezza della salute eterna, disporla, anzi condurla al peccato mortale (Dall’insegnamento di san Tommaso, risulta che quando un’anima compie un atto buono in sé, ma senza quel grado di terrore che Dio ha il diritto di attendersi da lei nello stato in cui si trova, quell’atto dispone a diminuire in un certo senso il grado di carità che essa possiede. I testi: Maledetto colui che fa l’opera di Dio con negligenza, e: Perché tu sei tiepido… comincerò a rigettarti dalla mia bocca, si spiegano così.  Di più, ogni peccato veniale, senza diminuire lo stato di grazia, ne diminuisce però il fervore: cosi esso dispone al peccato mortale.  Ora, senza una vita interiore seria, molti peccati veniali non combattuti, spesso anche non avvertiti, sono tuttavia imputabili all’anima dissipata o vile che dimentica il Vigilate et orate. Si trova cosi in san Tommaso la spiegazione della frase maledette occupazioni della pagina precedente e di ciò che si dirà in questo capitolo – Vedi S. TOMM., la 2æ, q. 52 a. 3). – Tale è la dottrina di sant’Alfonso sulla tepidezza, dottrina così bene illustrata dal suo discepolo il P. Desurmont (1e retour continuel à Dieu,). Ora come mai, senza la vita interiore, l’uomo di azione cade necessariamente nella tepidezza? Diciamo necessariamente, e ci basta, per provarlo, la parola di un Vescovo missionario ai suoi sacerdoti, parola tanto più terribilmente vera, perché emana da un cuore ardente di zelo per le Opere e da uno spirito naturalmente opposto a tutto ciò che abbia l’apparenza di quietismo. Dice dunque il cardinale Lavigerie: «Bisogna persuadersi bene che per un apostolo non vi è via di mezzo tra la santità completa, almeno desiderata e cercata con fedeltà e con coraggio, oppure la perversione assoluta ».  Ricordiamo anzitutto il germe di corruzione che la concupiscenza mantiene nella nostra natura, la guerra senza tregua che ci fanno i nostri nemici interni ed esterni, i pericoli che da ogni parte ci minacciano. Poi cerchiamo di figurarci quello che avviene di un’anima che si dà all’apostolato, senza essere abbastanza premunita ed armata contro i suoi pericoli.  N… sente svegliarsi in sé il desiderio di darsi all’azione; è però senza esperienza. La sua inclinazione all’apostolato ci permette di credere che abbia dell’ardore, una certa foga nel carattere, e possiamo immaginarci che trovi piacere nell’azione e forse anche nella lotta. Supponiamo che sia di una condotta corretta, che sia pio e anche devoto; ma di una pietà più di sentimento che di volontà, di una divozione che non è il riflesso di un’anima risoluta a cercare unicamente il beneplacito di Dio, ma piuttosto una pia usanza, residuo di lodevoli abitudini. La meditazione, se pure la fa, è per lui una specie di fantasticheria, e la lettura spirituale è un esercizio di curiosità che non influisce sulla sua condotta. Può essere pure che satana lo porti a gustare, per l’illusione di un senso artistico che la povera anima scambia con la vita interiore, le letture che trattano delle vie sublimi e straordinarie dell’unione con Dio, e ad ammirarle con entusiasmo. Ma in complesso vi è poco, e forse nulla, di vera vita interiore in quell’anima alla quale rimangono, sia pure, molte buone abitudini, molte doti naturali e un certo desiderio leale, ma troppo vago, di restare fedele a Dio.  Ecco dunque il nostro apostolo che pieno di desiderio di darsi all’azione, si abbandona con zelo al ministero nuovo per lui. Ben presto, in forza delle stesse circostanze che fanno nascere quelle nuove occupazioni (e chiunque è abituato all’azione mi comprenderà), ben presto nascono per lui mille circostanze che lo costringono sempre di più a una vita esteriore, mille attrattive per la sua ingenua curiosità, mille occasioni di cadute dalle quali possiamo credere che fino allora lo aveva difeso in parte l’atmosfera tranquilla del focolare domestico, del seminario, della comunità, del noviziato, o almeno la tutela di una saggia guida. Non solo la crescente dissipazione o la curiosità pericolosa di conoscere tutto, le impazienze o le suscettibilità, la vanità o la gelosia, la presunzione o l’abbattimento, la parzialità o la denigrazione, ma l’invasione progressiva delle debolezze del cuore e di tutte le forme più o meno subdole della sensualità sforzeranno a una lotta senza tregua quell’anima male preparata ad assalti così violenti e continui; perciò saranno frequenti le ferite.  Ma verrà anche soltanto il pensiero di resistere, a quell’anima dalla pietà superficiale, mentre è tutta intesa alla soddisfazione già troppo naturale di spendere la propria attività e la propria capacità per una causa eccellente? satana intanto sta in agguato, perché ha già adocchiato la sua preda; e non solo non si oppone a quella soddisfazione, ma la eccita a tutto potere. Arriva però un giorno in cui si intravvede il pericolo: l’Angelo custode si è fatto udire e la coscienza protesta. Bisognerebbe riprendersi, esaminarsi nella calma di un ritiro spirituale, prendere la risoluzione di attenersi a un regolamento che non si abbandonerà più, anche a costo di trascurare occupazioni divenute tanto care. Ahimè! è già tardi! L’anima, ora che ha gustato il piacere di vedere i suoi sforzi coronati dei più lusinghieri risultati, esclama: Domani, domani! Oggi è impossibile: manca il tempo, perché devo continuare quella  serie di discorsi, scrivere quell’articolo, organizzare quel sindacato, quella società di beneficenza, preparare quella rappresentazione, fare quel viaggio, sbrigare la corrispondenza… Come è felice di rassicurarsi con tutti quei pretesti! Poiché il solo pensiero di mettersi in faccia alla propria coscienza le è divenuto insopportabile. È giunto il momento in cui satana può attendere a suo agio all’opera di rovina in un cuore che si fa così bene suo complice. Il terreno è preparato: agire era divenuto una passione per la sua vittima, ed egli gliene dà la febbre; dimenticare il tumulto degli affari e raccogliersi le pareva impossibile, il demonio gliene ispira l’orrore e non manca di ubriacare per di più quell’anima con nuovi progetti che le dipinge abilmente con il bel motivo della gloria di Dio e del gran bene delle anime.  – Ecco ora quest’uomo, fino a poco fa pieno di abitudini virtuose, che da una debolezza ad un’altra sempre più grave, arriva a mettere il piede sopra il pendio così sdrucciolevole, che non potrà più fermarsi nella sua caduta. Davvero disgraziato, avendo una vaga coscienza che tutto il suo agitarsi non è secondo il Cuore di Dio, per far tacere i rimorsi, si slancia più perdutamente nel turbine. Le colpe si accumulano fatalmente: quello che prima turbava la coscienza retta di quell’anima, ora non è più altro che uno scrupolo da disprezzarsi. Volentieri va proclamando che bisogna saper vivere secondo le esigenze dei tempi, lottare con i nemici con le stesse loro armi, e perciò decanta le virtù attive e mostra disprezzo per quella che essa chiama una pietà di un’altra epoca. Le sue istituzioni del resto sono più prospere che mai, e tutti lo dicono; ogni giorno vede fiorire nuovi buoni risultati, e l’anima illusa esclama: «Dio benedice la nostra opera»; ma domani forse, su lei piangeranno, per causa di gravi cadute, gli Angeli del cielo!  – Come mai quest’anima è caduta in uno stato così deplorevole! Per INESPERIENZA, PRESUNZIONE, VANITÀ, IMPREVIDENZA E VILTÀ. Senza considerare la scarsità dei suoi mezzi spirituali, si è lanciata alla ventura in mezzo ai pericoli. Esaurite le sue provviste di vita interiore, si trova nelle condizioni del navigante temerario che non ha più la forza di lottare contro corrente e si lascia trascinare verso l’abisso.  Fermiamoci un momento a misurare con lo sguardo il cammino percorso e la profondità del precipizio: andiamo con ordine e contiamo le tappe.  

Prima tappa. L’anima da principio ha perduto, a poco a poco, se pure l’ebbe mai, la precisione e la forza delle convinzioni sulla vita soprannaturale, sul mondo soprannaturale e sull’economia del disegno e dell’azione di Nostro Signore, riguardo alla relazione della vita intima dell’operaio evangelico con le opere. Essa non vede più tali opere se non attraverso un miraggio ingannatore. La stessa vanità fa abilmente da piedestallo alla pretesa buona intenzione. «Che cosa volete, Dio mi ha dato il dono della parola, e io lo ringrazio», diceva ai suoi adulatori un predicatore pieno di vana compiacenza e vuoto di vita interiore. L’anima cerca più se stessa che Dio: riputazione, gloria, interessi personali occupano il primo posto, e quel Si hominibus placerem, servus Christi non essem (Se ancora piacessi agli uomini, non sarei servo di Gesti Cristo (Gal. I, 10), diventa per lei una parola vuota di senso.  Senza contare l’ignoranza dei princìpi, LA MANCANZA DI UNA BASE SOPRANNATURALE, la quale è il carattere di questa prima tappa, ora ha come causa, ora come conseguenza immediata, la dissipazione, la dimenticanza della presenza di Dio, l’abbandono delle giaculatorie e della custodia del cuore, la mancanza di delicatezza di coscienza e di regolarità di vita: la tepidezza è vicina, se già non è venuta.

Seconda tappa. L’uomo soprannaturale è schiavo del dovere e perciò, avaro del suo tempo: ne regola l’impegno e vive seguendo un regolamento; egli comprende che altrimenti vi sarà il predominio della natura, la vita comoda e a capriccio dal mattino alla sera. L’uomo di azione, senza una base soprannaturale, non tarda a farne l’esperienza. La mancanza di spirito di fede nell’impiego del tempo lo conduce ad abbandonare la lettura spirituale; del resto, se legge ancora, non studia più: il preparare lungo la settimana l’omelia della domenica è cosa che stava bene per i Padri della Chiesa… egli preferisce, eccetto che non ci sia di mezzo la vanità, improvvisare, e improvvisa sempre, così almeno crede, con rara fortuna… Ai libri egli preferisce le riviste; non ha più spirito di ordine, ma va svolazzando. Alla legge del lavoro, a questa gran leggedi preservazione, di moralità e di penitenza, egli si sottrae sciupando le ore di libertà e con la voglia sfrenata di procurarsi delle distrazioni.  – Egli trova faticoso e puramente teorico tutto ciò che legherebbe la sua libertà di movimento; il tempo non gli basta per tante opere e doveri sociali e neppure per quello che egli stima necessario per la sua salute e per le sue ricreazioni. Veramente, gli dice il demonio, è troppo il tempo dedicato agli esercizi di pietà, meditazione, ufficio, messa, atti del ministero… bisogna allargare un poco. E invariabilmente egli incomincia ad abbreviare la meditazione, a farla irregolarmente e forse, purtroppo, a poco a poco arriva a sopprimerla del tutto. Il punto indispensabile per restare fedeli all’orazione, cioè l’alzarsi a ora fissa, è tanto più logicamente abbandonato, perché va a letto molto tardi, e non senza motivo.  – Ora, nella vita attiva, abbandonare la meditazione è lo stesso che abbassare le armi di fronte al nemico. «Eccetto un miracolo, dice sant’Alfonso, senza la meditazione si finisce con cadere nel peccato mortale ». E san Vincenzo de1 Paoli: «Un uomo senza meditazione non è capace di nulla, neppure di rinunziare a sé in qualsiasi cosa: è la vita animale pura e semplice ». Certi autori citano queste parole di santa Teresa: « Senza meditazione, uno diventa ben presto o un bruto o un demonio. Se non fate meditazione non avete bisogno del demonio che vi getti nell’inferno, ma vi buttate da voi. Datemi invece il più gran peccatore: se egli fa meditazione anche soltanto un quarto d’ora al giorno, si convertirà; se poi persevera, egli è sicuro della sua salute eterna ». L’esperienza delle anime sacerdotali o religiose dedicate all’azione, è sufficiente per stabilire che un operaio apostolico il quale, sotto pretesto di occupazioni o di stanchezza, oppure per noia o per pigrizia o per illusione, riduce facilmente la sua meditazione a dieci o a quindici minuti, invece di attenersi a mezz’ora di meditazione seria per attingervi lo slancio e la forza necessaria nella sua giornata, cade fatalmente nella tepidezza di volontà. Evidentemente non si tratta più d’imperfezioni da evitarsi: sono i peccati veniali che si moltiplicano, e l’impossibilità in cui si è caduti, di vigilare alla custodia del cuore, nasconde la maggior parte di tali colpe alla coscienza: l’anima si è messa nello stato di non vedere più. E come potrebbe combattere quello che non discerné più come difettoso? La malattia di languore è già molto avanzata ed è la conseguenza di questa seconda tappa che è caratterizzata dall’abbandono della MEDITAZIONE e di ogni REGOLAMENTO.

Tutto è già maturo per la terza tappa il cui sintomo è la negligenza nella recita del BREVIARIO. La preghiera della Chiesa, che doveva dare al soldato di Gesù Cristo la gioia e la forza di sollevarsi di quando in quando e di trovare in Dio il mezzo di elevarsi sopra il mondo visibile, diventa un peso. La vita liturgica, sorgente di luce, di gioia, di forza, di meriti e di grazie per lui e per i fedeli, non è più altro che l’occasione di un dovere ingrato che si compie di mala voglia. La virtù intima della religione è gravemente ferita; la febbre dell’azione ha contribuito a inaridirla. L’anima non vede più il culto di Dio, se non è legato a chiassose manifestazioni esteriori; il sacrificio personale e oscuro, ma cordiale, della lode, della supplica, del ringraziamento, della riparazione, non le dice più nulla. Poco fa, durante la recita delle sue preghiere vocali, essa ripeteva con legittimo vanto, come se avesse voluto gareggiare con un coro di monaci: anch’io in conspectu Angelorum psallam tibi (In presenza degli Angeli a te canterò inni {Salmo CXXXVII, 2). Il santuario di quell’anima, prima imbalsamato dalla vita liturgica, è divenuto una pubblica piazza dove regnano il chiasso e il disordine. La sollecitudine esagerata per l’azione, e la dissipazione abituale moltiplicano le distrazioni che del resto sono sempre meno combattute. Non in commotione Dominus (Dio non è nel rumore (III Re, XIX, 11). La vera preghiera non c’è più: precipitazione, interruzioni non giustificate, negligenza, sonnolenza, ritardi, rinvio all’ultimo momento, con pericolo di lasciarsi vincere dal sonno… e forse omissioni di quando in quando, mutano il rimedio in veleno e il sacrificio di lode in una litania di peccati che forse non saranno più soltanto veniali!

Quarta tappa. Tutto si concatena: l’abisso chiama l’abisso. I SACRAMENTI! Si ricevono e si amministrano come una cosa rispettabile si, ma non si sente più palpitare la vita che essi contengono. La presenza di Gesù nel santo Tabernacolo o al tribunale di penitenza non riesce più a far vibrare fino al midollo dell’anima la fede. ANCHE LA MESSA, il sacrificio del Calvario, è un giardino chiuso; l’anima certamente è ancora lontana dal sacrilegio, vogliamo sperarlo, ma non sente più il calore del Sangue divino. Le sue consacrazioni rimangono fredde, le sue comunioni tiepide, distratte, superficiali; una familiarità irriverente, l’abitudine e forse il disgusto già la insidiano.  L’apostolo così deformato vive fuori di Gesù e non è più favorito di quelle parole intime che Gesù dice soltanto ai suoi amici.  – Tuttavia di quando in quando l’Amico celeste gli manda un rimorso, un raggio di luce, una chiamata; egli aspetta, bussa, chiede di entrare: Vieni a me, povera anima ferita, ma vieni dunque e io ti guarirò: Venite ad me omnes… et ego reficiam vos (Matt. XI, 28); perché Io sono la tua salvezza: Salus tua ego sum (Ps. XXXIV). Io sono venuto a salvare quello che era perduto: Venit Filius hominis quærere et sàlvum facete quod perierat (Luc. XIX, 10). Questa voce cosi soave, così tenera, così discreta, così premurosa, procura dei momenti di commozione, delle velleità di fare meglio; ma essendo la porta del cuore appena socchiusa, Gesù non può entrare, e questi buoni movimenti dell’anima tiepida non hanno nessun effetto. La grazia passa invano e si rivolge contro l’anima stessa. Forse anche, nella sua misericordia, per non accumulare tesori d’ira, Gesù cesserà di parlare: Time Jesum transeuntem et non revertentem (temi Gesù che passa e non ritorna).  – Andiamo ora più innanzi e penetriamo nell’intimo di quest’anima che stiamo descrivendo. La parte che hanno i pensieri, è preponderante nella vita soprannaturale, come nella vita morale e intellettuale. Quali sono i pensieri che la occupano e a quale corrente obbediscono! Tali pensieri, umani, terreni, vani, superficiali, egoistici, convergono sempre più verso l’Io o verso le creature, spesso anche con l’apparenza di abnegazione e di sacrificio. A tale disordine nell’intelletto, corrisponde il disordine nella fantasia. Nessuna facoltà umana dev’essere repressa più di questa; ma di reprimerla non vi è neppure l’idea, e perciò con la briglia sul collo essa si dà a una corsa pazza e va in tutti i traviamenti, in tutte le pazzie. La progressiva soppressione della mortificazione degli occhi permette alla pazza di casa di trovare pascolo un po’ dappertutto. Il disordine continua la sua strada e dall’intelletto e dalla fantasia scende nelle affezioni. Il cuore non si pasce più che di chimere. Che cosa sarà di quel cuore dissipato che non si cura quasi più del regno di Dio in lui e che è divenuto insensibile ai colloqui intimi con Gesù, alla sublime poesia dei misteri, alle severe bellezze della liturgia, agli inviti e alle attrattive del Dio dell’Eucaristia, insensibile insomma alle influenze del mondo soprannaturale? Si concentrerà in se stesso? Questo sarebbe un suicidio. No! esso sente bisogno di affezione; ma non trovando più la sua felicità in Dio, amerà la creatura. Esso è in balia della prima occasione e vi si getta imprudentemente, perdutamente, senza darsi forse pensiero dei voti più santi né del maggior interesse della Chiesa e neppure della sua riputazione. Supponiamo pure che la prospettiva dell’apostasia ancora lo turbi, e profondamente, ma già lo spaventa di meno lo scandalo delle anime.  Certamente, per grazia di Dio, l’andare così fino al fondo è una rara eccezione; ma chi non vede che il disgusto di Dio e l’accettazione del piacere illecito può trascinare il cuore alle maggiori disgrazie? Dall’animalis homo non intelligit (L’uomo animalo non percepisce lo cose che sono dello spirito di Dio (I Cor. II, 14), si giunge per forza al qui nutriebantur in croceis amplexati sunt stercora (Coloro che erano allevati nella porpora, hanno abbracciato il fango – Ger. LAMENT. IV, 5). L’illusione ostinata, l’accecamento della mente, l’indurimento del cuore vanno progredendo, e c’è da aspettarsi tutto.  Per colmo di sventura la volontà si trova non già distrutta, ma ridotta a uno stato di debolezza e di fiacchezza, che equivale quasi all’impotenza. Provatevi a domandargli non già di reagire energicamente, questo sarebbe inutile, ma di tentare soltanto uno sforzo, ed egli vi darà questa risposta disperata: Non posso. Ora in tal caso non essere più capace di uno sforzo vuol dire andare in completa rovina.  Un empio famoso osò dire che egli non poteva ammettere la fedeltà ai loro voti e ai loro obblighi in certe anime che per la loro azione vivono mescolate alla vita del secolo. «Esse camminano, soggiungeva, sopra una fune tesa, e le loro cadute sono inevitabili ». A tale ingiuria contro Dio e la Chiesa, bisogna rispondere senza esitare, che tali cadute si evitano SICURAMENTE quando si sappia valersi del prezioso bilanciere della vita interiore, e che soltanto all’abbandono di questo mezzo infallibile bisogna attribuire le vertigini e i passi falsi e scandalosi verso il precipizio.  – L’illustre gesuita P. Lallemant risale alla causa iniziale di simili cadute quando dice: Molti uomini apostolici non fanno nulla unicamente per Dio, ma cercano in tutte le cose se stessi e mescolano sempre segretamente i loro interessi con la gloria di Dio, nelle loro migliori imprese. Essi passano cosi la loro vita in questa mescolanza di natura e di grazia; finalmente poi viene la morte e allora soltanto aprono gli occhi, vedono la loro illusione e tremano all’avvicinarsi del terribile giudizio di Dio (P . LALLEMANT, Direct. Spirit.). Lungi da me il pensiero di annoverare tra gli apostoli che predicano se stessi, lo zelante e valente missionario, l’illustre sacerdote Combalot, ma non mi pare fuori di proposito il citare le sue parole in punto di morte. «Abbiate fiducia, caro amico, gli diceva il sacerdote dopo di avergli amministrato gli ultimi sacramenti; voi avete serbato l’integrità della vostra vita sacerdotale, e le vostre migliaia di prediche vi scuseranno dinanzi a Dio dell’insufficienza di vita interiore che voi deplorate. — Le mie prediche! Oh! a che luce le vedo ora! Le mie prediche! Ah! se Nostro Signore non me ne parla Lui per il primo, non comincerò io certamente! ». Alla luce dell’eternità, quel venerando sacerdote vedeva nelle sue migliori opere di zelo, delle imperfezioni che gli turbavano la coscienza e che egli attribuiva ad una deficienza di vita interiore.  – Il cardinale du Perron, in punto di morte, dimostrava il suo pentimento di aver atteso, durante la sua vita, più a perfezionare la sua intelligenza con gli studi, che non la sua volontà con gli esercizi della vita interiore (idem): O Gesù, Apostolo per eccellenza, chi mai si è prodigato come Voi nella vostra vita mortale? Oggi Voi vi date più abbondantemente ancora con la vostra vita eucaristica senza abbandonare tuttavia il seno del Padre! Fate che noi non dimentichiamo mai che Voi non accetterete le nostre fatiche, se non sono animate da un principio davvero soprannaturale e se non hanno le loro radici nel vostro Cuore adorabile!

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (5)

R. P. CHAUTARD D. G. B .

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (5)

TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B.

8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALETORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PARTE SECONDA

Unione della vita attiva e della vita interiore

4.

Vita interiore e vita attiva si chiamano a vicenda

Come l’amore di Dio si rivela con gli atti della vita interiore, così l’amore del prossimo si manifesta con le operazioni della vita esteriore e perciò, non potendosi separare l’amore di Dio e l’amore del prossimo, ne risulta che queste due forme di vita non possono stare l’una senza l’altra (vitam diligendus est proximus, ac per hoc, sic non possuinus sine utraque esse vita, sicut et sine utraque dilectione esse nequaquam possumus – S. IBID., Different, lib. II, XXXIV, n. 135). Perciò, dice il Suarez, non vi può essere uno stato correttamente e normalmente ordinato per giungere alla perfezione, il quale non partecipi in una certa misura dell’azione e della contemplazione (Concedendum ergo est nullum esse posse vitæ studium recte institutum ad perfectionem obtinendam, quod non aliquid de actione et de contemplatane participet – SUAREZ, de Relig. trac., 1. I, cap. V, n. 5). L’illustre gesuita non fa altro che commentare l’insegnamento di san Tommaso. Coloro che sono chiamati alle opere della vita attiva, dice il Dottore Angelico, avrebbero torto a credere che questo dovere li dispensi dalla vita contemplativa; questo dovere non ne accresce e non ne diminuisce la necessità. Perciò le due vite non solo non si escludono a vicenda, ma si chiamano, si suppongono, si mescolano e si completano, e se si deve dare una parte maggiore all’una delle due, bisogna darla alla vita contemplativa che è la più perfetta e la più necessaria (GOFFREDO, Vita S. Bern., I, c. V e III). Perché sia feconda, l’azione ha bisogno della contemplazione; questa quando giunge a un certo grado d’intensità, diffonde sulla prima qualche cosa della sua sovrabbondanza, e così l’anima va ad attingere direttamente nel cuore di Dio le grazie che razione deve distribuire. – Perciò nell’anima di un santo, l’azione e la contemplazione, fondendosi in perfetta armonia, danno alla sua vita una meravigliosa unità. Tale era, per esempio, san Bernardo, l’uomo più contemplativo e inpari tempo più attivo del suo secolo. Di lui unsuo contemporaneo fa questa magnifica descrizione: in lui l’azione e la contemplazione si accordavano così bene, che egli pareva nel tempo stesso tutto dedito alle opere esteriori e intanto tutto assorto nella presenza e nell’amore del suo Dio(S. TOMM., 2a 2æ, q. 182, a. 1 ad 3).  Commentando quel testo scritturale: Pone me ut signaculum super cor tuum, ut signaculum super brachium tuum – Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio – Cant. VIII, 6), il F. Saint-Jure descrive molto bene i rapporti tra le due vite; riassumiamo le sue riflessioni. Il cuore significa la vita interiore, contemplativa; il braccio, la vita esteriore, attiva.  Il sacro testo nomina il cuore e ilbraccio per mostrare che le due vite possono allearsi e andare perfettamente d’accordo nella medesima persona.  Il cuore è nominato per il primo, perché è un organo più nobile e più necessario che il braccio; così pure la contemplazione è assai più eccellente e più perfetta, e merita più stima che non l’azione. – Il cuore batte notte e giorno, e un momento di fermata in questo organo essenziale porterebbe alla morte. Il braccio invece che è soltanto parte integrante del corpo umano, si muove solo a intervalli. Così noi dobbiamo di tanto intanto dare un po’ di tregua al nostro lavoro esteriore, ma non sospendere mai la nostra applicazione alle cose spirituali.  Il cuore dà la vita e la forza al braccio, per mezzo del sangue che gli manda, altrimenti questo membro si paralizzerebbe. Così la vita contemplativa, vita di unione con Dio, con i lumi e la continua assistenza che l’anima riceve da questa intimità, vivifica le occupazioni esteriori ed essa sola ècapace di comunicare loro, insieme con un carattere soprannaturale, una reale utilità. Senza di essa, tutto è languido, sterile, pieno d’imperfezioni.  L’uomo disgraziatamente troppo spesso separa quello che Dio ha unito, perciò questa perfetta unione è molto rara, e poi per effettuarsi esige un complesso di precauzioni che spesso si trascurano: non intraprendere nulla di superiore alle proprie forze; vedere in tutto abitualmente, ma semplicemente, la volontà di Dio; non impegnarsi nell’azione se non quando Dio lo  vuole e nella misura esatta in cui lo vuole da noi, e con il solo desiderio di esercitare la carità; offrirgli fin dal principio il nostro lavoro e durante il lavoro ravvivare spesso con santi pensieri e con ardenti giaculatorie la nostra risoluzione di agire soltanto per Lui e per mezzo di Lui; ancora durante il lavoro, qualunque sia l’attenzione che si richiede da noi, conservarci sempre nella pace, perfettamente padroni di noi medesimi; per la riuscita, rimetterci unicamente a Dio e non desiderare di essere liberati dalla fatica se non per ritrovarci soli con Gesù Cristo. Tali sono i sapientissimi consigli dei maestri della vita spirituale, per giungere a questa unione. Qualche volta le occupazioni si moltiplicheranno tanto, da richiedere tutte le nostre energie, senza che possiamo in nessun modo liberarci dal nostro peso e neppure alleggerirlo. La conseguenza ne potrà essere la privazione, per un tempo più o meno lungo, del godimento dell’unione con Dio, ma questa unione non ne soffrirà, se noi non lo vogliamo. Se tale stato si prolunga, BISOGNA SOFFRIRNE, GEMERNE E SOPRATTUTTO TEMERE CHE DIVENTI ABITUDINE. L’uomo è debole e incostante; trascurata la sua vita spirituale, ben presto ne perde il gusto; assorbito dalle occupazioni materiali, finisce con sentirne piacere. Invece se lo spirito interiore esprime la sua vitalità latente con gemiti e sospiri, questi continui lamenti che vengono da una ferita la quale non si chiude nemmeno in mezzo ad un’attività assorbente, costituiscono il merito della contemplazione sacrificata, o meglio l’anima mette in effetto quella meravigliosa e feconda unione della vita interiore e della vita attiva. Stimolata da questa sete di vita interiore, che essa non può soddisfare a suo agio » ritorna con ardore, appena lo può, alla vita di orazione. Il Signore le prepara sempre alcuni istanti di conversazione; Egli vuole però che essa vi sia fedele e le concede di poter compensare eoi fervore la brevità di quei momenti felici.  In un testo le cui parole sono tutte degne di essere meditate, san Tommaso riassume molto bene tale dottrina: Vita contemplativa, ex genere suo, maioris est meriti quam vita activa. Potest nihilominu8 uccidere ut aliquis plus mereatur aliquid exter-num agendo: pitta si propter abundantiam divini amoris, ut Eius voìuntas impleatur, propter Ipsius gloriam, interdum sustinet a dulcedine divinæ contemplationis ad tempus separati (La vita contemplativa è in sé più meritoria che la vita attiva. Può tuttavia accadere che un uomo meriti di più, facendo un atto esteriore: per esempio se per causa dell’abbondanza di amore, per compiere la volontà di Dio, per la sua gloria, si tollera qualche volta di stare privo, per qualche tempo, della dolcezza della divina contemplazione – 2a 2æ, q. 18, a. 2).  Notiamo l’abbondanza di condizioni che il santo Dottore suppone, perché l’azione diventi più meritoria della contemplazione. La molla interna che spinge l’anima all’azione non è altro che la sovrabbondanza della sua carità: Propter abundantiam divini amoris; non si tratta dunque né dell’agitazione né del capriccio né del bisogno di espandersi. E difatti è un dolore per l’anima: Sustinet, per essere privata delle dolcezze della vita di orazione (Dolcezza che avendo la sua sede soprattutto nella parte superiore dell’anima, non sopprime punto le aridità, perciò: Exsuperat omnem sensum. La logica della fede pura, arida e fredda in sé, basta alla volontà per infiammare il cuore con una fiamma soprannaturale con l’aiuto della grazia.  Sopra il suo letto di morte, a Moulins, santa Giovanna di Chantal, ima delle anime più provate nell’orazione, lasciava alle sue figliuole, come testamento, il principio di cui essa era vissuta per logica della fede: la maggiore felicità quaggiù è di potersi trattenere con Dio.), a dulcedine divinæ contemplationis… separati. Perciò essa sacrifica soltanto provvisoriamente: Accidere… interdum… ad tempus, e per un fine affatto soprannaturale: ut Eius voluntas impleatur, propter Ipsius gloriam, una parte del tempo riservato all’orazione.  – Quanta sapienza e quanta bontà nelle vie del Signore! Che meravigliosa direzione Egli dà all’anima con la vita interiore! Conservata in mezzo all’azione e intanto generosamente offerta, questa pena profonda di dover consacrare tanto tempo alle opere di Dio e così poco al Dio delle opere, trova il suo conforto. Per lei infatti scompaiono tutti i pericoli di dissipazione, di amor proprio, di affezioni naturali; invece di nuocere alla libertà di spirito e all’attività, questa disposizione di animo dà loro un carattere più serio. Essa è la forma pratica dell’esercizio della presenza di Dio, perché l’anima trova nella GRAZIA DEL MOMENTO PRESENTE, Gesù vivo che si offre a lei, nascosto sotto il lavoro da compiere: Gesù lavora con  lei e la sostiene. Quante persone sotto il peso del lavoro dovranno a questa pena salutare ben compresa, a questo desiderio sacrificato, eppure mantenuto, di avere più tempo di stare presso il santo Tabernacolo, a quelle comunioni spirituali quasi continue, dovranno, dico, la fecondità della loro azione e nel tempo stesso la sicurezza dell’anima loro e il progresso nella virtù!

5.

Eccellenza di questa unione

L’unione delle due vite, contemplativa e attiva, costituisce il vero apostolato, opera principale del Cristianesimo, come dice san Tommaso: Principalissimum officium (3a p. q. 67, a. 2 ad 1).  L’apostolato suppone anime capaci di entusiasmarsi per un’idea, di consacrarsi al trionfo di un principio. Se l’effettuazione di questo ideale diventa soprannaturale per lo spirito interiore, se il nostro zelo, nel suo scopo, nel suo focolare e nei suoi mezzi, è animato dallo spirito di Gesù, noi avremo la vita in sé più perfetta, la vita per eccellenza, poiché i teologi la preferiscono anche alla semplice contemplazione: Præfertur simplici contemplationi (San Tommaso). L’apostolato dell’uomo di orazione è la parola conquistatrice, col mandato di Dio, con lo zelo delle anime, col frutto delle conversioni: Missio a Deo, zélus animarum, fructificatio auditorum (San Bonaventura). È il vapore della fede, dalle salutari esalazioni: Zélus, id est vapor fidei (Sant’Ambrogio).  L’apostolato del santo è la semina del mondo. L’apostolo getta alle anime il frumento di Dio (P. Leon, passim, op. cit.). È l’amore in fiamme che divora la terra, l’incendio della Pentecoste irresistibilmente propagato attraverso i popoli: Ignem veni mittere in terram (Io sono venuto a gettare il fuoco sulla terra – S. Luc. XII, 19).  – La sublimità di questo ministero consiste nel provvedere alla salute degli altri, senza pregiudizio per l’apostolo: sublimatur ad hoc ut aliis provideat. Trasmettere le verità divine alle intelligenze, non è questo un ministero degno degli Angeli? Contemplare la verità è cosa buona, ma il comunicarla agli altri è meglio ancora; riflettere la luce è qualche cosa di più che il riceverla; rischiarare è meglio che risplendere sotto il moggio. Con la contemplazione l’anima si nutre, con l’apostolato si dà: Sicut maius est illuminare quam lucere solum, ita maius est contemplata aliis tradere quam solum contemplari (S. TOHM., 2a 2æ, q. 188, a. 6). – Contemplata aliis tradere: in questo ideale di apostolato, la vita di orazione resta la sorgente: tale è il pensiero evidente di san Tommaso. Questo testo, come pure le parole dello stesso santo Dottore citate alla fine del capitolo precedente, condanna chiaramente l’americanismo i cui partigiani sognano una vita mista in cui l’azione soffocherebbe la contemplazione.  Esso infatti suppone due cose: 1° che l’anima viva già abitualmente di orazione e ne viva abbastanza da dover dare soltanto il superfluo; 2° che l’azione non debba sopprimere la vita di orazione, e che, pure dandosi agli altri, l’anima debba praticare la custodia del cuore, in modo da non correre nessun serio pericolo di sottrarre l’esercizio della sua attività all’influenza di Gesù Cristo.  La parola scultoria del P. Matteo Crawley, l’apostolo della Consacrazione delle famiglie al Sacro Cuore di Gesù, traduce esattamente il pensiero di san Tommaso: L’apostolo è un calice pieno fino all’orlo, della vita di Gesù Cristo e la cui sovrabbondanza si riversa sulle anime.  Questa unione dell’azione, con tutto il suo dispendio di zelo, e della contemplazione, con le sue sublimi elevazioni, produsse i più grandi Santi, san Dionigi, san Martino, san Bernardo, san Domenico, san Francesco d’Assisi, san Francesco Saverio, san Filippo Neri, sant’Alfonso, tutti ardenti contemplativi e in pari tempo grandi apostoli.  Vita interiore e vita attiva! Santità nelle opere! Unione potente, unione feconda! quanti prodigi di conversione voi operate! O Dio, date alla vostra Chiesa molti apostoli, ma ravvivate nel loro cuore, infiammato dal desiderio di sacrificarsi, una sete ardente della vita di orazione. Date ai vostri operai questa azione contemplativa e questa contemplazione attiva; allora l’opera vostra si compirà, i vostri operai evangelici riporteranno quelle vittorie che voi annunziaste loro prima della vostra gloriosa Ascensione.

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (4)

R. P. CHAUTARD D. G. B .

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (4)

TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B.

8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE

TORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA

NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PARTE SECONDA

Unione della vita attiva e della vita interiore

1.

Preminenza, riguardo a Dio, della vita interiore sulla vita attiva.

In Dio vi è la vita, ogni vita; Egli è la stessa vita. Ora l’Essere Infinito non manifesta questa vita nel modo più intenso nelle sue opere esteriori, come per esempio nella creazione, ma in quelle che la teologia chiama operazioni ad intra, in quell’attività ineffabile il cui termine è la generazione eterna del Figlio e la continua processione dello Spirito Santo: qui vi è per eccellenza la sua opera essenziale ed eterna.  – Consideriamo la vita mortale di Gesù Cristo, esecuzione perfetta del disegno divino: trent’anni di raccoglimento e di solitudine, poi quaranta giorni di ritiro e di penitenza preludono alla sua breve carriera evangelica; e quante volte ancora noi lo vediamo, nelle sue corse apostoliche, ritirarsi sulla montagna o nel deserto per pregare: Secedebat in desertum et orabat(Si ritirava nel deserto e pregava – S. Luc. V, 16), oppure passare la notte nell’orazione: Pernoctans in oratione Dei(Si ritirò sulla montagna per pregare e passò tutta la notte in orazione di Dio – S. Luc. VI, 12). Cosa più significante ancora, Marta desidera che il Signore, condannando il preteso ozio di sua sorella, proclami la superiorità della vita attiva; ma la risposta di Gesù: Maria optimam partem elegit(Maria ha scelto la parte migliore – S. Luc. X, 42), consacra la preminenza della vita interiore. Che cosa ne dobbiamo conchiudere, se non il proposito ben fermo di farci sentire la preponderanza della vita di orazione sulla vita attiva?  – Dopo il Maestro, gli Apostoli, fedeli al suo esempio, si riserveranno dapprima l’ufficio della preghiera e poi, per darsi al ministero della parola, lasceranno ai diaconi le occupazioni  più esteriori: Nos vero orationi et ministerio verbi instantes erimus (E noi ci dedicheremo interamente alla preghiera e al ministero della parola – Atti VI, 4). – I Pontefici alla loro volta, i santi Dottori, i Teologi affermano che la vita interiore è in sé superiore alla vita attiva.  Pochi anni fa, una donna di gran fede, di virtù e di carattere, Superiora generale di una delle più importanti Congregazioni insegnanti dell’Aveyron, fu invitata dai suoi superiori ecclesiastici a favorire la secolarizzazione delle sue religiose. Bisognava sacrificare le opere alla vita religiosa, oppure abbandonare quelle per conservare questa? Perplessa, non sapendo come conoscere la volontà di Dio, parte segretamente per Roma, ottiene un’udienza da Leone XIII, gli espone i suoi dubbi e l’insistenza che le viene fatta a favore delle opere. L’augusto vegliardo, raccoltosi per qualche momento, le dà questa risposta categorica: «Prima di tutto il resto, prima di tutte le opere, conservate la vita religiosa a quelle tra le vostre figliuole che posseggono davvero lo spirito della loro vocazione e l’amore della vita di orazione. Se non potete conservare insieme con questo anche le opere, Dio saprà suscitare in Francia altre operaie, se occorre. In quanto a voi, con la vostra vita interiore, soprattutto con le vostre preghiere e con i vostri sacrifizi, sarete più utili alla Francia restando davvero religiose, anche lontane da lei, che non rimanendo in patria prive dei tesori della vostra consacrazione a Dio».  – In una lettera indirizzata a un Istituto esclusivamente insegnante, Pio X espresse chiaramente il suo pensiero con queste parole: Sappiamo che va diffondendosi un’opinione secondo la quale voi dovreste dare il primo posto all’educazione dei fanciulli e il secondo posto soltanto, alla professione religiosa: così vorrebbero lo spirito e i bisogni del tempo. Noi NON VOGLIAMO ASSOLUTAMENTE che tale opinione abbia il più piccolo valore per voi e per gli altri Istituti religiosi che, come il vostro, hanno per scopo la rieducazione. Resti dunque stabilito per quanto vi riguarda, che la vita religiosa importa assai più che la vita ordinaria, e che se avete gravi obblighi verso il prossimo per il dovere di i/nse* gnare, ben più gravi sono gli obblighi che vi legano a Dio (Il lasciare l’abito religioso per continuare un’istituzione, non è cosa biasimata da Pio X, purché si mantengano 1 mezzi per conservare in tutto lo spirito religioso). – La ragione di essere della vita religiosa, il suo scopo principale, non è forse l’acquisto della vita interiore?

Vita contemplativadice san Tommaso – simpliciter melior est… et potior quam activa(La vita contemplativa è migliore della vita attiva e le è preferibile.).  – San Bonaventura accumula i comparativi per mostrare l’eccellenza della vita interiore: Vita sublimior, securior, opulentior, suavior, stabilior (Vita più sublime, più ricca, più sicura, più soave e più stabile.).

Vita sublimior.

La vita attiva si occupa degli uomini, la vita contemplativa invece ci fa entrare nel dominio delle più sublimi verità, senza distogliere i suoi sguardi dallo stesso principio di ogni vita: Principium quod Deus est quæritur. Essendo più sublime, essa ha un orizzonte e un campo di azione assai più esteso: Martha in uno loco torpore laborabat circa aliqua, Maria in multis locis caritate circa multa. In Dei enim contemplatione et amore videi omnia; dilatatur ad omnia, eomprehendit et complec-titur omnia, ita ut eius comparatone Martha sollicita dici possit circa panca (Marta in un solo luogo si dedicava corporalmente a poche cose. Maria con la carità lavorava in più luoghi e in diverse occupazioni. Contemplando e amando Dio, essa vede tutto, si estende a tutto, comprende e abbraccia tutto. Si può dunque dire che, in confronto di Maria, Marta si turba per poche cose – RICCARDO DA S. VITTORE, in Cant., 8).

Vita securior.

In essa vi sono meno pericoli. Nella vita quasi esclusivamente attiva, l’anima si agita, diventa febbricitante, disperde le sue energie e con ciò s’indebolisce. Vi è un triplice difetto: Sollicita es(Marta, Marta, tu ti affanni e t’inquieti per molte cose; eppure una sola è necessaria – S. Luc. X, 41, 42).): sono le sollecitudini del pensiero, sollicitudinis in cogitata; Turbaris: ecco i turbamenti che nascono dalle affezioni, turbationis in affectu; finalmente Erga plurima: moltiplicazione di occupazioni, e perciò divisione nello sforzo e nelle azioni, divisionis in actu. — Una sola cosa invece s’impone per formare la vita interiore, cioè l’unione con Dio: Porro unum, est necessatium. Il resto è e non può essere che secondario e si fa soltanto in virtù di questa untone e per rafforzarla di più.

Vita opulentior.

Con la contemplazione si trovano tutti i beni. Venerunt mini omnia bona pariter eum illa (Con essa mi sono venuti tutti i beni – Sap. VII, 11).). Essa è la parte più eccellente di tutte: Optimam partem elegit(Essa ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta – S. Luc. X, 42). 2). In essa si fanno più meriti, perché essa aumenta nello stesso tempo lo slancio della volontà e il grado dì grazia santificante, e fa agire l’anima per un principio di carità.

Vita suavior.

L’anima che vive davvero di vita interiore, si abbandona al beneplacito di Dio, accetta con lo stesso cuore paziente tanto le cose piacevoli quanto le penose e arriverà fino al punto di mostrarsi lieta nelle afflizioni, fortunata di portare la sua croce.

Vita stabilior.

La vita attiva, per quanto sia intensa, termina quaggiù; predicazioni, scuole, lavori di ogni sorta, tutto finisce alle porte dell’eternità. La vita interiore invece non ha tramonto: Quæ non auferetur ab ea. Per lei la dimora su questa terra non è altro che una continua ascesa verso la luce, ascesa che la morte rende immensamente più radiosa e più rapida.  – Per riassumere tutte le eccellenze della vita interiore, possiamo applicarle queste parole di san Bernardo: « In essa l’uomo vive più puro, cade più di rado, si rialza più prontamente, cammina più sicuro, riceve più grazie, riposa più tranquillo, muore più fiducioso, è purificato più presto e riceve una ricompensa più grande» (S. BERNARDO, Hom. Simile est.. De bono relig.).

2.

L’azione dev’essere soltanto l’effusione della vita interiore

Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste (S. Matt. V, 48). Fatte le debite proporzioni, il modo di agire di Dio dev’essere il criterio e la regola della nostra vita esteriore e interiore.  Ora sappiamo che è proprio della natura di Dio il dare, ed è un fatto constatato, che Egli sparge a profusione i suoi benefici su tutti gli esseri e più particolarmente sulla creatura umana. Così da migliaia, se non da milioni di secoli, tutto l’universo è oggetto di quella inesauribile prodigalità che si espande continuamente in benefizi. Dio intanto non s’impoverisce mai, e la sua inesauribile munificenza non può per nulla diminuire le sue infinite ricchezze. – Ma all’uomo, Dio non si accontenta di concedere beni esteriori, gli manda il suo Verbo. E anche qui, in questo atto di somma generosità che è il dono di se stesso, Dio non abbandona nè può abbandonare nulla dell’integrità della sua natura. Dandoci suo Figlio, Egli lo conserva sempre in se stesso: Sume exemplum de summo omnium Parente Verbum suum emittente et retinente (Prendete esempio dal Creatore di tutte le cose, il quale manda il suo Verbo e nel tempo stesso lo tiene con sé – S. BERNARDO, lib. II de Consid,, e. III).  Per mezzo dei Sacramenti, e specialmente per mezzo dell’Eucaristia, Gesù Cristo viene ad arricchirci delle sue grazie; Egli le versa su noi senza misura, perché è un oceano sconfinato che ribocca su noi, senza mai esaurirsi: De plenitudine eius nos omnes accepimus (Noi tutti abbiamo ricevuto dalla sua pienezza – Giov. I, 16).  Cosi, in un certo modo, dobbiamo essere noi, uomini apostolici, che abbiamo il nobile compito di santificare gli altri: Verbum tuum considerano tua, quæ si proceda, non recedat(Il vostro Verbo è la vostra considerazione; essa si allontani da voi senza uscirne – S. BERNARDO, Hb. II de Consid., c. III).; il nostro verbo è lo spirito interiore che la grazia ha formato nelle nostre anime. Questo spirito dunque dia vita a tutte le manifestazioni del nostro zelo, ma come continuamente viene speso a vantaggio del prossimo, così viene continuamente rinnovato con i mezzi che Gesù ci offre: la nostra vita interiore sia il tronco pieno di buon succo, e le nostre opere ne siano la fioritura. Un’anima di apostolo dev’essere essa per la prima inondata di luce e infiammata di amore, affinché riflettendo questa luce e questo calore, possa illuminare e riscaldare gli altri. Quello che essi videro, che contemplarono con i loro occhi, quello che quasi toccarono con mano, lo insegneranno agli uomini (I S. Giov. I, 1). La loro bocca verserà nei cuori l’abbondanza delle dolcezze celesti, dice san Gregorio.  Possiamo intanto stabilire questo principio: LA VITA ATTIVA  DEVE PROCEDERE DALLA VITA CONTEMPLATIVA, TRADURLA E CONTINUARLA DI FUORI E DISTACCARSENE IL MENO POSSIBILE.  – I Padri e i Dottori proclamano tale dottrina.  Priusquam exserat proferenlem linguam, dice sant’Agostino, ad Deum levet animam sitientem ut eructet quod biberit, vel quod impleverit fundat(Prima di permettere alla sua lingua di parlare, l’apostolo deve innalzare a Dio la sua anima assetata, per poter poi esalare ciò che ha bevuto e diffondere quello di cui si sarà riempito – S. AGOSTINO, Doct. Christ. I, IV). – Prima di comunicare, dice lo Pseudo-Dionigi (PSEUDO-DION., Cæl. hier,, c. III), bisogna ricevere, e gli Angeli superiori trasmettono agli inferiori soltanto quei lumi di cui ricevettero la pienezza. Il Creatore ha stabilito quest’ordine universale riguardo le cose divine: colui che ha la missione di distribuirle, vi deve partecipare per il primo e riempirsi prima abbondantemente delle grazie che Dio vuol dare alle anime per mezzo suo; allora, e soltanto allora, a lui sarà permesso di farne parte agli altri. Tutti conoscono quell’avviso che san Bernardo dà all’uomo apostolico: [Se sei saggio, sii un serbatoio e non un canale: Si sapis, concham te exhibebis, non canaìem (S. BERNARDO, Serm. 1 8 in Cant.). Il canale lascia scorrere l’acqua che riceve, senza serbarne una goccia; il serbatoio invece si riempie, poi senza vuotarsi versa il di più che  sempre si rinnova, nei campi che rende fertili. Quanti sì dedicano all’azione e non sono mai altro che canali! e mentre si sforzano di fecondare i cuori, essi restano all’asciutto! Canales multos hodie habemus in Ecclesia, conchas vero perpaucas (Vi sono oggi nella Chiesa molti canali, ma pochissimi serbatoi (S. BERNARDO, ibid.), soggiungeva con amarezza il santo Abate di Chiaravalle. – Ogni causa è superiore al suo effetto, perciò si richiede maggior perfezione per poter perfezionare gli altri, che non per poter semplicemente perfezionare se stesso (S. TOMM., Opusc. de perf, vit. Spirt.).  Come la madre non può allattare il bambino se non nella misura in cui alimenta se stessa, cosi i confessori, i direttori spirituali, i predicatori, i catechisti, i professori, devono prima assimilare la sostanza con cui nutriranno poi i figli della Chiesa (Oportet quod prædicator sit imbutus et dulcoratus in se, et post aliis proponat – S. BONAVENTURA, Illus. EccL, Serm. 17). La verità e l’amore divino sono elementi di questa sostanza, e soltanto la vita interiore può fare della verità e della carità divina un nutrimento capace di dare la vita.

3.

La base, il fine e i mezzi di un’istituzione devono essere penetrati dalla vita interiore

Dobbiamo dire un’Istituzione degna di questo nome, perché certune ai nostri giorni non meritano tale titolo: sono opere organizzate con un’apparenza di pietà, ma con lo scopo reale di procurare ai loro fondatori, con gli applausi del pubblico, una fama di capacità non comune, e per la cui riuscita sarebbero adoperati, all’occorrenza, tutti i mezzi, anche quelli meno giustificabili. Altre opere meritano certamente maggiore stima; esse vogliono il bene; il loro fine e i loro mezzi sono irreprensibili. Eppure, perché i loro organizzatori avevano poca fede nella potenza di azione della vita soprannaturale sulle anime, nonostante mille sforzi, i loro risultati furono nulli o quasi. Per precisare quella che dev’essere un’istituzione, sarà meglio lasciare la parola ad un uomo il quale con il suo apostolato illustrò un’intera regione, e ricordare la lezione che ricevetti da lui negli inizi del mio ministero sacerdotale. Volevo fondare un patronato per i giovani e, dopo di aver visitato i Circoli cattolici di Parigi e di alcune altre città della Francia, le Opere cattoliche di Val-des-Bois ecc., andai a Marsiglia per studiare le istituzioni per la gioventù del santo sacerdote Allemand e del venerando canonico Timon-David. Mi piace ricordare con quale commozione il mio cuore di sacerdote novello accolse le parole di quest’ultimo. – « Banda, teatro, proiezioni, cinematografo ecc., io non biasimo nulla di tutto questo. Da principio anch’io avevo creduto tali cose indispensabili: ma sono soltanto stampelle che si adoperano in mancanza di meglio; più vado avanti, e più diventano soprannaturali il mio fine e i miei mezzi, perché vedo sempre più chiaramente che qualunque istituzione costruita su ciò che è umano, è destinata a morire, e soltanto l’istituzione che mira ad avvicinare gli uomini a Dio mediante la vita interiore, è benedetta dalla Provvidenza.  « Gli strumenti musicali da molto tempo sono sul solaio, il teatro mi è diventato inutile, eppure l’istituzione è più prospera che mai. Perché? Perché i miei sacerdoti e lo vediamo, grazie a Dio, molto meglio che da principio, e la nostra fede nell’azione di Gesù e della grazia è centuplicata.  – «Credetemi, non esitate a mirare in alto più che sia possibile, e sarete meravigliato dei risultati. Mi spiego: Non abbiate soltanto come ideale l’offrire ai giovani un certo numero di distrazioni oneste che distolgono dai piaceri illeciti e dalle relazioni pericolose, e neppure il verniciarli semplicemente di Cristianesimo col farli assistere macchinalmente alla Messa e con far loro ricevere qualche volta, e in modo appena passabile, i Sacramenti.  « Duc in altum(Avanzate in alto mare – Luc. V, 4). Abbiate prima di tutto la nobile ambizione di ottenere, a qualunque costo, che un certo numero di giovani prendano la risoluzione energica di vivere da Cristiani ferventi, cioè con la pratica della meditazione del mattino, con l’abitudine della Messa quotidiana se è possibile, con una breve lettura spirituale e, naturalmente, con frequenti e fruttuose Comunioni. Mettete tutte le vostre cure per infondere in questo gregge scelto un grande amore di Gesù Cristo,  lo spirito di preghiera, di sacrificio, di vigilanza sopra se stessi, insomma, di sode virtù. Sviluppate con la stessa cura nelle loro anime la fame dell’Eucaristia; poi eccitate questi giovani all’azione sui loro compagni. Formatene degli apostoli franchi, generosi, ardenti, buoni, seri, senza devozione gretta, pieni di tatto e che non cadano mai, col pretesto di zelo, nel brutto sbaglio di spiare i compagni. Prima di due anni voi mi direte se vi è ancora bisogno della banda e del teatro per ottenere una messe copiosa ».  – « Comprendo, — risposi io; — questa minoranza dev’essere il fermento; ma che cosa si dovrà fare per gli altri che non si possono portare a questo livello? per la maggioranza, per quei giovani di ogni età e anche per gli uomini ammogliati che apparterranno al circolo progettato, che cosa si dovrà fare? ».  – « Dare loro una fede salda con corsi di conferenze preparate seriamente, le quali occuperanno parecchie delle loro serate invernali. I vostri Cristiani ne usciranno abbastanza armati non solo per rispondere vittoriosamente ai loro compagni di lavoro, ma anche per resistere all’azione più perfida del giornale o del libro. Il far nascere nei giovani convinzioni incrollabili che essi all’occorrenza sapranno affermare senza rispetto umano, sarà già un risultato molto apprezzabile: però bisognerà condurli più lontano, fino alla pietà, a una pietà vera, fervorosa, convinta e illuminata ». – « E dovrò fin da principio aprire la porta a chiunque si presenti?». – « Il numero è da desiderarsi soltanto se gli elementi raccolti sono bene scelti. L’aumento del vostro circolo deve risultare soprattutto dall’influenza di quel nucleo di apostoli dei quali Gesù, Maria e voi, come loro strumento, sarete il centro ».  – « Il locale sarà modesto; dovrò dunque aspettare che i nostri mezzi ci permettano di fare di più?». – « Da principio le sale spaziose e comode possono, come un tamburo, attirare l’attenzione sulla nascente istituzione; ma vi ripeto, se sapete mettere, come base della vostra società, la vita cristiana ardente, integrale, apostolica, il locale strettamente necessario basterà sempre per dare posto anche a tutti gli accessori voluti dal funzionamento di un Circolo. Oh! come potrete allora constatare che il rumore fa poco bene e che il bene fa poco rumore! come vedrete allora che il Vangelo ben compreso fa diminuire la lista delle spese senza pregiudicare i risultati, anzi! Ma prima di tutto, dovrete pagare di vostra persona, ma non tanto per preparare faticosamente recite per il teatro o accademie ginnastiche, quanto piuttosto per accumulare in voi la vita di orazione; poiché dovete persuadervi bene, che la misura con cui voi per il primo vivrete di amore di Gesù Cristo, è la stessa misura con cui potrete accenderlo negli altri ». – «Insomma, voi basate tutto sulla vita interiore!»  – « Sì, mille volte sì; perché così invece di lega si ottiene oro fino. Del resto credete alla mia esperienza: a ogni istituzione, parrocchia, seminario, catechismo, scuola, circolo militare ecc., si può applicare ciò che dico per le istituzioni giovanili. Quanto bene produce in una grande città un’associazione cristiana la quale viva davvero nel soprannaturale! Essa agisce come un lievito potente, e soltanto gli Angeli possono dire quanto essa sia feconda di frutti di salute! – «Ah! se tutti i sacerdoti, i religiosi e anche le persone di azione conoscessero la potenza della leva che tengono nelle loro mani, e prendessero come punto di appoggio il Cuore di Gesù e la vita di unione con questo divin Cuore, solleverebbero la nostra patria: sì, la solleverebbero nonostante gli sforzi di Satana e dei suoi satelliti» (Lo zelante canonico che così mi parlava e della cui conversazione ho voluto conservare un esatto ricordo, sviluppò il suo pensiero in alcuni dei suoi bellissimi libri: Méthode de direction (les ceuvres de jeunesse, 2 voll.; Traité de la confession des enfants et des jeunes gens, 3 voll.; Souvenirs de l’oeuvre ou vie et mori de quelques Congréganistes, in vendita presso l’Oeuvre de la jeunesse, Timon-David, 30, e du Canuta, Marsiglia; oppure presso i Fratelli Mignar, rue Saint-Sulpice, Parigi.).

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (3)

R. P. CHAUTARD D . G. B .

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (3)

Traduzione del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B.

8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALETORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PARTE PRIMA

5.

Risposta a una prima obbiezione: la vita interiore è oziosa?

Questo libro è indirizzato soltanto agli uomini di azione o animati da un desiderio ardente di dedicarsi al bene, ma esposti al pericolo di trascurare i mezzi necessari perché il loro sacrificio riesca fecondo per le anime, senza che sia per loro stessi la perdita della vita interiore. Non è affatto nostro scopo stimolare i pretesi apostoli amanti del riposo, destare le anime illuse dall’egoismo che fa loro vedere nell’ozio un mezzo di favorire la pietà, scuotere l’indifferenza degli indolenti e degli addormentati i quali, con la speranza di vantaggi e di onori accettano di dare il loro nome a qualche opera, purché non ne siano turbati nella loro quiete e nel loro ideale di tranquillità; questo compito richiederebbe un libro a parte.  Perciò, lasciando ad altri la cura di far capire a questa categoria di apatici la responsabilità di un’esistenza che Dio voleva attiva e che il demonio, d’accordo con la natura, rende infeconda per mancanza di attività e di zelo, ritorniamo ai nostri cari e venerati confratelli ai quali specialmente sono dedicate queste pagine. – Nessun termine di confronto ci può rappresentare l’intensità infinita dell’attività che si svolge in seno a Dio: la vita interiore del Padre è tale, che genera una Persona divina; dalla vita interiore del Padre e del Figlio procede lo Spirito Santo.  La vita interiore comunicata agli Apostoli nel Cenacolo accese subito in essi lo zelo. La vita interiore, per qualunque persona istruita che non voglia studiarsi di snaturarla, è un principio di abnegazione. – Quand’anche essa non si rivelasse affatto con manifestazioni esteriori, la vita di orazione, in se stessa e intimamente, è una SORGENTE DI ATTIVITÀ alla quale nessun’altra si può paragonare. Non vi è nulla di più falso che il considerarla come una specie di oasi dove uno si possa rifugiare per trascorrere in pace la vita: basta che essa sia la strada che conduce più direttamente al regno dei cieli, perché le si possa applicare in modo speciale il testo: Regnum cœlorum vim patitur, et violenti rapiunt illud (Il regno dei cieli si acquista con la forza ed è preda di coloro che usano violenza – MATT. XI, 12).  – Don Sebastiano Wyart che aveva provato le fatiche dell’asceta e quelle della vita militare, il lavoro degli studi e le cure inerenti all’uffizio di superiore, soleva ripetere che vi sono tre sorta di lavoro:

1° Il lavoro quasi interamente fisico di coloro che esercitano un mestiere manuale, di operaio, di artigiano, di soldato; questo lavoro, egli diceva, comunque si pensi, è certo il meno duro.

2° Il lavoro intellettuale dello studioso, del pensatore alla ricerca, spesso difficile, della verità, il lavoro dello scrittore, del professore i quali fanno ogni sforzo per far penetrare la verità in altre intelligenze, il lavoro del diplomatico, del negoziante, dell’ingegnere ecc., gli sforzi mentali del generale durante la battaglia per prevedere, dirigere e decidere. Questo lavoro in se stesso è più penoso del primo, come lo conferma il proverbio che LA LAMA LOGORA IL FODERO.

3° Finalmente il lavoro della vita interiore; di tutti e tre, egli non esitava a proclamarlo, questo è il più pesante quando vien preso sul serio (Maior labor est resistere vitiis et passionibus, quam corporalibus insudare laboribus – S. Gregorio). Ma è pure quello che ci offre quaggiù maggiori consolazioni, come pure è anche il più importante, perché esso non forma più la professione dell’uomo, ma forma l’uomo stesso. Quanti si gloriano di essere coraggiosi nei due primi generi di lavoro che portano alla fortuna e alla gloria, e poi sono inerti, pigri e vili quando si tratta di lavorare per la virtù! Sforzarsi di dominare continuamente se stesso e le cose esteriori, per cercare in tutte le cose soltanto la gloria di Dio, è l’ideale dell’uomo risoluto ad acquistare la vita interiore, e perché il suo ideale diventi realtà, egli si sforza di restare unito a Gesù Cristo in ogni circostanza e perciò di tenere fisso lo sguardo al fine che deve raggiungere e di considerare tutte le cose alla luce del Vangelo. Egli ripete con sant’Ignazio: Quo vadam et ad quid? (Dove vado e a che cosa?) In lui dunque tutto dipende da un principio, intelligenza e volontà, memoria, sensibilità, fantasia e sensi. Ma quanto deve affaticarsi per giungere a tale risultato! Sia che si mortifichi o che si conceda qualche onesto piacere, che pensi o che agisca, che lavori o che riposi, che ami il bene oche senta avversione per il male, che desideri o che tema, che accetti la gioia o la tristezza, pieno di speranza o di tristezza, sdegnato o tranquillo, in tutte le cose e sempre egli si sforza di dirigere il suo timone verso il BENEPLACITO DIVINO. Nella preghiera, e soprattutto vicino all’Eucaristia, egli si apparta ancora di più dalle cose visibili per poter trattare con Dio invisibile come se lo vedesse (Invisibilem enim tamquam videns sustinuit – Ebr. XI, 2). Anche in mezzo alle sue fatiche apostoliche egli tende a tradurre in pratica quell’ideale che san Paolo ammirava in Mosè.  – Né avversità della vita, né tempeste delle passioni non lo possono far deviare dalla linea di condotta che si è imposta; se per caso vien meno un momento, subito si rianima e riprende con maggior vigore il suo cammino. Quale lavoro! E come si comprende come Dio ricompensi anche quaggiù con gioie speciali colui che accetta gli sforzi che simile lavoro richiede!  Oziosi, concludeva Don Sebastiano, oziosi i veri religiosi, i Sacerdoti di vita interiore e zelanti! Via! Vengano pure i mondani più affaccendati e verifichino se il loro lavoro si può paragonare al nostro!  Chi non l’ha provato? Qualche volta sarebbero preferibili lunghe ore di un’occupazione faticosa, a una mezz’ora di orazione ben fatta, all’assistenza seria di una Messa, alla recita attenta dell’Ufficio (« Qualunque siano le difficoltà della vita attiva, soltanto gli inesperti osano negare le prove della vita interiore. Molte persone attive, pure sinceramente pie, confessano che molto spesso ciò che a loro costa di più nella loro vita, non è l’azione, ma la parte obbligatoria dell’orazione, e si sentono sollevate quando arriva l’ora dell’azione »(D. Festugière, O. S. B.). 3). Il P. Faber constata con amarezza, che per certuni « il quarto d’ora che segue la Comunione è il quarto d’ora più noioso della giornata ». Se si trattasse di un breve ritiro di tre giorni, quanta ripugnanza ne proverebbero certuni! Appartarsi per tre giorni dalla vita facile, benché molto occupata, e vivere nel soprannaturale e farlo penetrare, durante quel tempo di ritiro, in tutti i particolari della propria vita, sforzare la mente a vedere tutte le cose, per quel breve tempo, alla sola luce della Fede, sforzare il cuore a dimenticare tutto per respirare soltanto Gesù e la sua vita, rimanere a discutere con se stessi e scoprire le proprie infermità e debolezze spirituali, gettare l’anima nel crogiuolo senza sentire pietà alle sue proteste, tutto questo è una prospettiva che fa indietreggiare molte persone che pure sarebbero disposte a qualunque fatica, finché si tratta di spendere un’attività puramente naturale. – Ma se tre giorni di tale occupazione sembrerebbero già tanto penosi, che cosa proverà la natura all’idea di sottoporre gradatamente una vita intera al regime della vita interiore? Certamente in questa vita di spogliamento la grazia ha molta parte e rende soave il giogo e leggero il peso; ma quante occasioni di sforzi vi trova l’anima! È per essa sempre uno sforzo il rimettersi sulla retta via e ritornare al Conversatio nostra in cælis est(La nostra conversazione è nei cieli – Filipp. III, 20). San Tommaso lo spiega molto bene: L’uomo – egli dice – è collocato tra gli oggetti della terra e i beni spirituali nei quali si trova l’eterna felicità; quanto più aderisce agli uni, tanto più si allontana dagli altri (Est homo constitutus inter rea mondi huius et bona spiritualia in quibus æterna beatitudo consistiti, ita quod, quanto plus inhaeret uni eorum, tanto plus recedit ab altero, et e contrario – la 2ae, q. 108, a. 4). Nella bilancia se si abbassa uno dei piatti, l’altro s’innalza altrettanto. – Ora la catastrofe del peccato originale che sconvolse l’economia del nostro essere, ha reso penoso questo doppio movimento di adesione e di allontanamento, e per stabilire e conservare, mediante la vita interiore, l’ordine e l’equilibrio in questo «piccolo mondo» che è l’uomo, si richiede fatica, pena e sacrificio. Si tratta di ricostruire un edificio in rovina e di difenderlo poi da un nuovo crollo. – Strappare continuamente dai pensieri terreni, per mezzo della vigilanza, della rinunzia e della mortificazione, questo onere aggravato da tutto il peso della natura corrotta, gravi corde(Salmo IV), riformare il proprio carattere particolarmente nei punti in cui è più dissimile dalla fisionomia dell’anima di Gesù Cristo, nella dissipazione, nei trasporti d’ira, nella compiacenza in sé e fuori di sé, nelle manifestazioni della superbia o delle miserie della natura, come la durezza, l’egoismo, la mancanza di bontà ecc., resistere alle attrattive del piacere presente e sensibile con la speranza di una felicità spirituale che si avrà soltanto dopo una lunga attesa, staccarsi da tutto ciò che ci può far amare la terra, fare un olocausto completo di tutto, delle creature, dei desideri, delle passioni, delle concupiscenze, dei beni esteriori, della propria volontà e del proprio giudizio… quale lavoro! – Eppure questa è soltanto la parte negativa della vita interiore. Dopo questa lotta a corpo a corpo che faceva gemere san Paolo (Condelector enim legi Dei secundum interiorem hominem: video autem aliam legem in membris mela repugnantem legi mentis meæ et captivantem me in lege peccati, quae est in membris meis. Infelix ego homo; quis me liberabit de corpore mortis huius? – Rom. VII, 22-24), e che il P. Ravignan esprimeva con queste parole: «Mi domandate che cosa ho fatto nel mio noviziato?Eravamo in due; ne buttai uno dalla finestra e sono rimasto solo»; dopo questa lotta senza tregua contro un nemico sempre pronto a rinascere, bisogna proteggere da ogni assalto dello spirito della natura un cuore che, purificato con la penitenza, si strugge dal desiderio di riparare gli oltraggi fatti a Dio, spiegare tutta l’energia per tenerlo attaccato unicamente alle bellezze invisibili delle virtù che si devono acquistare per imitare quelle di Gesù Cristo, sforzarsi di conservare anche nei più minuti particolari della vita un’assoluta confidenza nella Provvidenza; questo è il lato positivo della vita interiore. Chi può immaginare l’immensità di questo campo di lavoro! È un lavoro intimo, assiduo, costante; eppure proprio con tale lavoro l’anima acquista una meravigliosa facilità e rapidità di esecuzione per i lavori apostolici. Soltanto la vita interiore possiede questo segreto. Le opere immense compiute, nonostante una salute precaria, da un Agostino, da un Giovanni Crisostomo, da un Bernardo, da un Tommaso d’Aquino, da un Vincenzo de’ Paoli, ci fanno sbalordire. Ma più ancora ci fa meraviglia il vedere questi uomini, con tutte le loro fatiche quasi ininterrotte, mantenersi nella più costante unione con Dio. Questi Santi che per mezzo della contemplazione si dissetavano di più alla sorgente della vita, ne attingevano più abbondante capacità di lavorare. È questa la verità che un gran Vescovo, sovraccarico di lavoro, esprimeva ad un uomo di Stato, anch’egli oppresso dagli affari, il quale gli domandava il segreto della sua inalterabile serenità e della meravigliosa riuscita delle sue opere: « Caro amico, a tutte le vostre occupazioni aggiungete una mezz’ora di meditazione ogni mattina: non solo sbrigherete i vostri affari, ma troverete anche il tempo per nuove imprese».  – Finalmente noi vediamo il santo re Luigi IX il quale, nelle otto o nove ore che consacrava ogni giorno agli esercizi della vita interiore, trovava il segreto e la forza di applicarsi con tanta sollecitudine agli affari di Stato e al bene dei sudditi, che mai, come confessò un oratore socialista, neppure ai nostri giorni, non si è fatto tanto in favore delle classi operaie, quanto sotto il regno di questo principe.

6.

Risposta ad un’altra obbiezione: la vita interiore è egoistica?

Non parliamo del pigro né del goloso spirituale i quali fanno consistere la vita interiore nelle gioie di un piacevole ozio e cercano assai più le consolazioni di Dio, che non il Dio delle consolazioni: costoro hanno una falsa pietà. Ma colui che leggermente, oppure per partito preso, dice che la vita interiore è egoistica, non la capisce meglio di quegli altri. Già abbiamo detto che questa vita è la sorgente pura e abbondante delle opere più generose della carità verso le anime e della carità che conforta i dolori di quaggiù; esaminiamo ora l’utilità della vita interiore sotto un altro aspetto. Si dirà dunque che fu sterile ed egoistica la vita interiore di Maria e di san Giuseppe! Che bestemmia e che assurdo! Eppure non è loro attribuita nessuna opera esteriore: la sola irradiazione di una intensa vita interiore sul mondo, i meriti delle preghiere e dei sacrifizi applicati all’estensione dei benefizi della Redenzione, bastarono a costituire Maria regina degli Apostoli e Giuseppe patrono della Chiesa universale (In un altro capitolo si vedrà qual è questa vita interiore che dà alle opere la loro fecondità). Soror mea reliquit me solam ministrare(Mia sorella lascia me sola a servire  – Luc. X, 40), dice con le parole di Marta, lo sciocco presuntuoso il quale vede soltanto le sue opere esteriori e i loro risultati.  La sua sciocchezza e la sua poca intelligenza delle vie di Dio non arrivano al punto di fargli supporre che Dio non sappia quasi fare a meno di lui; ma intanto ripete volentieri con Marta, incapace di apprezzare l’eccellenza della contemplazione di Maddalena: Dic illa ut me adiuvet, (Dille dunque che mi aiuti – Luc. X, 40)., e arriva persino a dire: Ut quid perditio hæc (Perché questa perdita? – MATT. XXIV, 8), rimproverando come una perdita dì tempo i momenti che i suoi fratelli di apostolato, che fanno vita interiore più di lui, si riservano per assicurare la loro intima unione con Dio. Io santifico me stessa per loro, AFFINCHÈ essi pure siano santificati nella verità (Pro eis ego sanctifico meipsum ut sint et ipsi sanctificati in veritate – Giov. XVII, 19), risponde l’anima che ha inteso tutta la forza di questa parola del Maestro, AFFINCHÈ, e che conoscendo il valore della preghiera e del sacrifizio, unisce alle lacrime e al sangue del Redentore le lacrime dei suoi occhi e il sangue di un cuore che si va purificando sempre più di giorno in giorno. Con Gesù, l’anima che fa vita interiore, sente la voce dei delitti del mondo salire verso il Cielo e chiedere sui loro autori un castigo del quale essa ritarda la sentenza con l’onnipotenza della supplica capace di fermare la mano di Dio pronta a scagliare i fulmini.  « Coloro che pregano – diceva dopo la sua conversione l’insigne statista Donoso Cortes – fanno per il mondo assai più di quelli che combattono, e se il mondo va di male in peggio, è perché vi sono più battaglie che preghiere».  « Le mani alzate – dice Bossuet – sbaragliano più battaglioni che non le mani che colpiscono ». I solitari della Tebaide in mezzo ai loro deserti avevano spesso in cuore il fuoco che animava san Francesco Saverio. «Sembrava – dice sant’Agostino – che avessero abbandonato il mondo più del bisogno: Tidentur nonnullis res humanas plus qua ni oportet deseruisse: ma non si riflette che le loro preghiere, rese più pure dal loro grande distacco dal mondo, erano più efficaci e più NECESSARIE per questo mondo corrotto». Una breve ma fervida preghiera ordinariamente affretterà una conversione più che le lunghe discussioni e i bei discorsi. Colui che prega, tratta con la CAUSA PRIMA e agisce direttamente su essa. Egli ha pure in sua mano tutte le cause seconde, perché queste ricevono la loro efficacia unicamente da questo principio superiore. Perciò l’effetto desiderato si ottiene allora più sicuramente e più presto. Secondo una rispettabile rivelazione, diecimila eretici furono convertiti da una sola ardente preghiera della serafica santa Teresa la cui anima, infocata per Gesù Cristo, non poteva comprendere una vita contemplativa, una vita interiore la quale non partecipasse alle ardenti sollecitudini del Salvatore, per la salvezza delle anime. « Io accetterei, essa diceva, il purgatorio fino al giorno del Giudizio, per liberare una sola di esse. Che cosa m’importa la lunghezza dei miei patimenti, se così potessi liberare una sola anima, e meglio ancora parecchie anime, per la maggior gloria di Dio!» E alle sue religiose diceva: « Figlie mie, riferite sempre a questo fine tutto apostolico le vostre orazioni, le vostre discipline, i vostri digiuni e i vostri desideri». Così infatti fanno le Carmelitane, le Trappiste, le Clarisse: esse seguono i passi degli Apostoli e li sostengono con la sovrabbondanza delle loro preghiere e delle loro penitenze. Le loro preghiere scendono dall’alto e giungono fin dove cammina la Croce e splende il Vangelo, sulle anime, su queste prede del Signore. O meglio, è il loro amore nascosto, ma attivo, che risveglia dovunque, nel mondo dei peccatori, le voci della misericordia. Nessuno quaggiù conosce il perché di quelle lontane conversioni di pagani, della resistenza eroica di quei Cristiani perseguitati, della gioia celeste di quei missionari martirizzati: tutto questo è invisibilmente legato alla preghiera di quell’umile claustrale. Con le dita sulla tastiera dei perdoni divini, la sua anima silenziosa e solitaria dirige la salvezza delle anime e le conquiste della Chiesa (Lumière et flamme: P. LEON, O. M.). – Monsignor Favier, Vescovo di Pechino, diceva: «Io voglio dei Trappisti in questo Vicariato apostolico; desidero anzi che si astengano da ogni ministero esteriore, affinché nulla li distragga dal lavoro della preghiera, della penitenza e degli studi sacri; perché conosco quanto aiuto darà ai missionari l’esistenza di un monastero fervoroso di contemplativi in mezzo ai nostri poveri Cinesi ». E più tardi diceva: «Siamo finalmente riusciti a penetrare in una regione finora inaccessibile: io attribuisco questo fatto ai nostri cari Trappisti».  Un Vescovo della Cocincina diceva al Governatore di Saigon: «Dieci Carmelitane che pregano, mi daranno aiuto più che venti missionari che predicano». Sacerdoti secolari, religiosi e religiose, dedicati alla vita attiva, ma anche alla vita interiore, hanno sul cuore di Dio la stessa potenza che hanno le anime claustrali. Un Padre Chevrier, un Don Bosco, un Padre Maria Antonio ne sono magnifici esempi. Sant’Anna Maria Taigi, nelle sue funzioni di umile massaia, era un apostolo, come pure san Benedetto Giuseppe Labre che schivava le vie battute. Dupont, il santo di Tours, il colonnello Paqueron ecc., divorati dallo stesso ardore, erano potenti nelle loro opere perché facevano vita interiore; il generale de Sonis, tra una battaglia e l’altra, trovava il segreto del suo apostolato nell’unione con Dio. Chi oserà chiamare egoistica e sterile la vita di un Curato d’Ars? Tale affermazione non meriterebbe risposta. Qualunque mente giudiziosa attribuisce appunto alla sua intimità con Dio, lo zelo e i meravigliosi risultati di questo Sacerdote non ricco d’ingegno ma che, contemplativo come un certosino, sentiva una gran sete di anime, resa inestinguibile dai suoi progressi nella vita interiore, e riceveva da Gesù di cui viveva, una certa partecipazione della potenza divina per convertire i peccatori. Si oserà dire che fu infeconda la sua vita? Ma supponiamo che in ogni diocesi vi fosse un santo Curato d’Ars; in meno di dieci anni l’intera nazione sarebbe rigenerata e assai più  profondamente che non da moltitudini di opere cattoliche non abbastanza fondate sulla vita interiore, e alla cui organizzazione concorressero con i molti mezzi pecuniari, l’ingegno e l’attività di migliaia di apostoli. Noi riteniamo che il motivo principale di sperare bene per la resurrezione della Francia, è che in nessun altro tempo forse non vi furono, come da alcuni anni possiamo constatare, anche tra i semplici fedeli, tante anime così ardentemente desiderose di vivere unite al Cuore di Gesù e di estendere il suo regno, facendo germogliare intorno a sé la vita interiore. Queste anime elette sono un’infima minoranza: sia pure; ma che cosa importa il numero se vi è l’intensità? Il risorgere della Francia dopo la Rivoluzione si deve attribuire a quel gruppo di Sacerdoti maturati nella vita interiore dalla persecuzione; per mezzo loro una corrente di vita divina venne a riscaldare una generazione che l’apostasia e l’indifferenza sembravano aver votato a una morte che nessuno sforzo umano avrebbe potuto scongiurare. Dopo cinquant’anni di libertà d’insegnamento in Francia, dopo questo mezzo secolo che vide fiorire istituzioni innumerevoli e durante il quale noi abbiamo avuto in mano nostra tutta la gioventù del paese e l’appoggio quasi totale dei governanti, come mai, nonostante risultati apparentemente gloriosi, non abbiamo potuto formare nella nazione una maggioranza abbastanza profondamente cristiana che potesse lottare contro la lega dei ministri di satana!  Certamente contribuirono a tale impotenza l’abbandono della vita liturgica e la cessazione del suo irradiare sui fedeli: la nostra spiritualità è divenuta gretta, arida, superficiale, esterna o puramente sentimentale, e non ha più quella penetrazione e quel fascino sulle anime, che suole dare la liturgia, questa grande forza di vitalità cristiana. Ma non vi è forse un’altra causa in questo fatto che, mancando di una intensa vita interiore, noi, Sacerdoti ed educatori, non abbiamo potuto generare altro che anime di una pietà superficiale senza forti ideali, senza sode convinzioni? Come professori, non abbiamo noi rivolto il nostro zelo più al conseguimento delle licenze e al buon nome dell’Istituto, che nell’infondere una soda istruzione religiosa nelle anime! Non abbiamo forse speso l’opera nostra senza avere di mira  soprattutto la formazione della volontà per scolpire l’impronta di Gesù Cristo su caratteri ben formati! E questa mediocrità non è molte volte effetto della meschinità della nostra vita interiore?  A un Sacerdote santo – si dice – corrisponde un popolo fervoroso; a un sacerdote fervoroso, un popolo pio; ad un sacerdote pio, un popolo onesto; ad un sacerdote onesto, un popolo empio: in quelli che sono generati spiritualmente, vi è sempre un grado di vita di meno. – Non accetteremo certamente a occhi chiusi tale affermazione, ma consideriamo che le seguenti parole di sant’Alfonso esprimono abbastanza LA CAUSA a cui bisogna dare la responsabilità della nostra condizione attuale:  « I buoni costumi e la salvezza delle popolazioni dipendono dai buoni pastori; se alla testa di una parrocchia vi è un buon parroco, ben presto si vedrà in essa fiorire la divozione, i Sacramenti frequentati e l’orazione mentale in onore. Di qui il proverbio: Qualis pastor, talis parœcìa, secondo il testo dell’Ecclesiastico (X, 2): Qualis est rector civitatis, tales et inhabitantes in ea» (Homo Apostolicus, VII, 16).

7.

Obbiezione tratta dall’importanza della salvezza delle anime

Ma, dirà l’anima di vita tutta esteriore, in cerca di pretesti contro la vita interiore, come oserò io mettere un limite alle mie opere di zelo! Posso io fare troppo, soprattutto quando si tratta della salvezza delle anime! La mia attività non sostituisce forse, e con vantaggio, tutto il resto, con il sublime esercizio dell’abnegazione! Chi lavora prega, e il sacrifizio vale più che la preghiera. San Gregorio non dice forse che lo zelo è il sacrifizio più gradito che si possa offrire a Dio! Nullum sacrificium est Deo magis acceptum quam zelus animarum– s. GREGORIO, Homilia 12 in Ezech.).  Prima di tutto precisiamo il vero significato del testo di san Gregorio, con le parole del Dottore Angelico. Offrire spiritualmente a Dio un sacrifizio – egli dice – vuol dire offrirgli qualche cosa che lo glorifica; ora, fra tutti i beni, il più gradito che l’uomo possa offrire al Signore, è certamente la salvezza di un’anima. Ma ciascuno deve prima offrire la sua anima, secondo le parole della Scrittura: Se volete piacere a Dio, abbiate pietà dell’anima vostra. Compiuto questo primo sacrifizio, ALLORA ci sarà permesso di procurare anche ad altri la stessa felicità. Quanto più STRETTAMENTE l’uomo unisce a Dio prima la sua anima e poi quella di un altro, tanto più gradito è il suo sacrifizio; ma questa unione intima, generosa e umile, non si può fare SE NON PER MEZZO DELL’ORAZIONE. Applicare se stesso o altri alla vita di orazione, alla contemplazione, piace dunque al Signore PIÙ che il dedicarsi o l’impegnare altri all’azione, alle opere esteriori. Perciò – egli conchiude – quando san Gregorio afferma che il sacrifizio più grato a Dio è la salvezza delle anime, egli non intende di dare alla vita attiva la preferenza sulla contemplazione, ma vuol dire che l’offrire a Dio una sola anima, è per Lui infinitamente più glorioso e per noi assai più meritorio, che l’offrirgli quanto ha la terra di più prezioso (S. TOMM., 2a 2æ, q. 182, a. 2 ad 3.). – La necessità della vita interiore non deve affatto distogliere dalle opere di zelo le anime generose, se la manifesta volontà di Dio vuole questo da loro; che anzi il sottrarsi a tale lavoro o il farlo male, l’abbandonare il campo di battaglia col pretesto di coltivare meglio l’anima propria e di giungere ad una più perfetta unione con Dio, sarebbe una vera illusione e, in certi casi, una sorgente di pericoli. Væ mihi, diceva san Paolo, si non evangelizavero(Guai a me se non annunzio il Vangelo – I Cor. IX, 16). – Ma, fatta questa riserva, diciamo subito che il darsi alla conversione delle anime dimenticando se stessi, produce un’illusione più grave. Dio vuole che noi amiamo il prossimo come noi medesimi, ma non più che noi medesimi, cioè non mai fino al punto di nuocere a noi stessi personalmente, e questo in pratica è lo stesso che esigere una maggior cura dell’anima nostra, che non di quella altrui, perché il nostro zelo dev’essere regolato dalla carità, ed è pur sempre un assioma teologico che Prima sibi charitas(Prima di tutto carità per sé). – « Io amo Gesù Cristo – diceva sant’Alfonso de Liguori – e perciò ardo dal desiderio di dargli delle anime, PRIMA LA MIA, poi moltissime altre ». Questa è la pratica del Tuus esto ubique(Sii dappertutto di te stesso – S. BERNARDO, Hb. II de Consid., cap. III) di san Bernardo: «Non è saggio colui che non appartiene a se stesso».  Il santo Abate di Chiaravalle, vero portento di zelo apostolico, seguiva questa regola, e Goffredo, suo segretario, così lo dipinge: Totus primum sibi et sic totus omnibus(Prima di tutto di se stesso, e così tutto per gli altri – GOFFREDO, Vita S. Bernardi). – Non vi dico già, scrive lo stesso santo al papa Eugenio III, di sottrarvi interamente alle occupazioni secolari; soltanto vi esorto a non abbandonarvi totalmente ad esse. Se siete l’uomo di tutto il mondo, siate dunque anche di voi stesso; altrimenti che cosa vi gioverebbe guadagnare tutti gli altri, se doveste perdere voi stesso? Riserbate dunque qualche cosa anche per voi, e se tutti vengono a bere alla vostra fontana, non dovete astenervi dal bervi anche voi; dovreste dunque voi solo restare assetato!? Cominciate sempre con pensare a voi: INVANO VI DARESTE AD ALTRE CURE, SE VENISTE A TRASCURARE VOI STESSO. Tutte le vostre riflessioni INCOMINCINO DUNQUE CON VOI E FINISCANO CON VOI; siate per voi il primo e l’ultimo e ricordatevi che nell’affare della vostra salute nessuno vi è più prossimo che il figlio unico di vostra madre (S. BERNARDO, Ub. II de Consid., cap. III). – Èmolto eloquente questo appunto di un ritiro spirituale, scritto da Mons. Dupanloup: «Io ho un’attività terribile che mi rovina la salute, disturba la mia pietà e non serve affatto alla mia scienza: bisogna regolarla. Dio mi ha fatto la grazia di riconoscere che ciò che soprattutto si oppone in me, a una vita interiore tranquilla e fruttuosa: è l’attività naturale e la smania delle occupazioni. Inoltre ho riconosciuto che questa MANCANZA DI VITA INTERIORE è la causa di tutte le mie cadute, dei miei disturbi, della mia aridità, dei miei disgusti, della mia cattiva salute. Risolvo dunque di rivolgere tutti i miei sforzi all’acquisto della vita interiore che mi manca, e per questo fine, con la grazia di Dio stabilisco questi punti:

1° Mi prenderò sempre più tempo di quanto è necessario per fare ogni cosa: è questo il mezzo di non essere mai né frettoloso né sopraffatto.

2° Siccome avrò sempre più cose da fare, che non tempo di farle, e siccome questo mi preoccupa e mi trascina, non penserò più alle cose da fare, ma al tempo che devo impiegarvi. Impiegherò il tempo senza perderne nulla, cominciando con le cose più importanti, e non mi inquieterò per quello che non avrò potuto fare ecc. »  – Il gioielliere preferisce a parecchi zaffiri, la più piccola scaglia di diamante: così, secondo l’ordine stabilito da Dio, la nostra intimità con Lui lo glorifica più di tutto il bene possibile da noi procurato a molte anime, ma con danno del nostro progresso. Il Padre nostro celeste il quale si applica di più nel governare un cuore in cui regna, che non nel governo naturale di tutto l’universo e al governo civile di tutti i regni (P. LALLEMANT, Doc. Spirit.), vuole nel nostro zelo quest’armonia. Egli preferisce talora lasciar scomparire un’opera, se la vede diventare un ostacolo allo sviluppo della carità dell’anima che ad essa attende. satana invece non esita a favorirne i risultati superficiali, se può, purché riesca a impedire all’apostolo di progredire nella vita interiore, tanto la sua rabbia sa indovinare dove si trovano i veri tesori per Gesù Cristo: per sopprimere un diamante, volentieri concede qualche zaffiro.

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