DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (8)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [8]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XIX.

Della conformità che dobbiamo avere alla volontà di Dio sì nella morte come nella vita.

Abbiamo ancora da esser conformi alla volontà di Dio per quel che riguarda o il vivere, o il morire. E sebben questa cosa del morire di natura sua è molto difficile, perché, come dice il Filosofo, Omnium rerum nihil morte terribilius, nihil acerbius (Arist. 3 Æth. c. 6): la morte è la cosa più terribile di tutte le cose umane: nondimeno ne’ Religiosi è tolta via e spianata in gran parte questa difficoltà; perché già abbiamo fatta la metà di questo viaggio, ed anche quasi tutto. Primieramente una delle cagioni per le quali agli uomini del mondo suol riuscir duro il morire e dà loro gran dolore l’arrivo di quell’ora, è perché lasciano le ricchezze, gli onori, i diletti, i trattenimenti, le comodità che avevano in questa vita, gli amici e i parenti; quell’altro la moglie; quell’altro i figliuoli, i quali in quell’ora sogliono dare non poco fastidio, specialmente quando non restano accomodati e collocati. Tutte queste cose già le  ha lasciate a buon’ora il Religioso; e cosi non gli danno fastidio né dolore. Quando il dente è bene scarnato e staccato dalle gengive, allora si cava facilmente; ma se lo vuoi cavare senza scarnarlo, ti cagionerà gran dolore; così al Religioso che già è scarnato e staccato da tutte queste cose del mondo, non cagiona dolore nell’ora della morte l’averle a lasciare; perché le lasciò volontariamente, e con gran merito, fin da quando entrò nella Religione, e non aspettò a lasciarle nel punto della morte; come quei del mondo, che allora bisogna che le lascino per necessità, ancorché non vogliano, e con gran dolore e molte volte eziandio senza alcun merito; poiché più tosto sono le stesse cose che allora lasciano i lor possessori, che questi lascino esse. E questo, tra gli altri molti, è uno de’ frutti che si traggono dal lasciare il mondo e dall’entrare in Religione. S. Gio. Crisostomo nota molto bene (D. Crys. hom. 14 in I . ad Tim.), come a quei che stanno nel mondo molto attaccati alla roba, ai trattenimenti e alle comodità e delizie di questa vita, suol riuscire assai dolorosa la morte, secondo quello che disse il Savio: O mors, quam amara est memoria tua homini pacem habenti in substantiis suis (1(1) Eecli. XLI, 1)! Per fino la memoria della morte è loro amara; or che sarà la presenza di essa? Se questa solo immaginata è amara; che cosa sarà provata? Ma al Religioso il quale ha lasciate già tutte queste cose non è amara la morte, anzi gli è molto dolce e gustosa, come fine e termine di tutti i suoi travagli; e si considera in quel punto come uno che va a ricevere il premio e il guiderdone di tutto quello che ha lasciato per Dio. Un’altra cosa principale che suole cagionar grande angoscia e dolore in quell’ora agli uomini del mondo e render loro la morte terribile e tormentosa, dice S. Ambrogio (D Ambr., de bono mortis, c. 8) che è la mala coscienza e il mancamento di buona disposizione: il che né anche ha né deve aver luogo nel Religioso: poiché tutta la sua vita è una continua preparazione e disposizione al ben morire. Si narra di un santo Religioso, che dicendogli il medico che si preparasse per morire, egli rispose, che da che prese l’abito nella Religione non aveva fatto altro che prepararsi per la morte. Questo è l’esercizio del Religioso. Lo stato istesso della Religione c’instruisce nella disposizione che Cristo nostro Redentore vuole che abbiamo per la sua venuta: Sint lumbi vestri prœcincti, et lucernœ ardentes in manibus vestris (Luc. XII, 35): Tenete cinti i vostri lombi e candele accese nelle vostre mani. S. Gregorio (D. Greg. hom. 13 in Evang.) dice, che il cingere i lombi significa la castità, e il tener le candele accese nelle mani significa l’esercizio delle opere buone; le quali due cose risplendono principalmente nello stato della Religione; e così il buon Religioso non ha occasione di temere la morte. E notisi qui una cosa, già da noi altrove toccata (Vide supra tract.2, c. 5), la quale fa assai al nostro proposito; ed è, che uno de’ buoni contrassegni che vi siano d’aver una buona coscienza e di star bene con Dio, è 1’esser molto conforme alla sua divina volontà in ordine all’ora della sua morte, e lo starla aspettando con grande allegrezza, come chi aspetta il suo sposo, per celebrar con esso le nozze e gli sposalizi celesti : Et vos similes hominibus expectantibus dominum suum, quando revertatur a nuptiis (Luc. XII, 36). E  per lo contrario il dispiacere assai ad uno la morte e il non avere questa conformità, non è buon segno. Si sogliono apportare  alcune buone similitudini per dichiarar questa cosa. Non vedi con che pace e quiete va la pecora al macello, senza aprir bocca né far resistenza alcuna? Ch’è l’esempio che porta la sacra Scrittura per esprimere la mansuetudine con cui andò Cristo nostro Redentore alla morte: Tamquam ovis ad occisionem ductus est (Act. VIII, 32; Isa. LIII, 7). Ma l’animale immondo quanto grugnisce e quanta resistenza fa quando lo vogliono ammazzare? Or questa differenza vi è fra i buoni che sono figurati nelle pecore, e i cattivi e carnali che sono figurati in questi altri animali. Colui che è condannato a morte, ogni volta che sente aprir la prigione, s’attrista, pensando che vengano per cavarlo fuori e appiccarlo; ma l’innocente e quegli che è assoluto, si rallegra ogni volta che la sente aprire, pensando che vengano a liberarlo. Così l’uomo cattivo, quando sente scuotere le sue chiavi, la morte e l’infermità lo stringono, teme, e prova gran pena e affanno, perché come ha macchiata la coscienza, così pensa che presto avrà ad essere condannato alle fiamme dell’inferno per sempre. Ma quegli che ha buona coscienza più tosto si rallegra, perché conosce, che quindi sarà per passare alla libertà e al riposo eterno. Facciamo dunque noi altri quel che dobbiamo come buoni Religiosi: e non solamente non sentiremo difficoltà nel conformarci alla volontà di Dio nell’ora della morte; ma più tosto ci rallegreremo e pregheremo Dio col Profeta, che ci cavi da questo carcere: Educ de custodia (idest de carcere) animam meam (Ps. CXLI, 8). S. Gregorio sopra quelle parole di Giob, Et bestias terræ non formidabis, dice: Justis namque initium retributionis est ipsa plerumque in obitu securitas mentis (D. Greg. lib. 6 mor. o. 16 ; Job v, 22). L’aver nell’ora della morte quest’allegrezza e questa pace e sicurezza di coscienza, dice che è principio del guiderdone de’ giusti: già cominciano a godere una gocciola di quella pace che come fiume abbondante e fecondante ha da entrar subito nelle anime loro: già cominciano a sentire la loro beatitudine. E per lo contrario i cattivi cominciano a sentire il loro tormentO ed il loro inferno, con quel timore e rimorso che sentono in quell’ora. Di maniera che il desiderar la morte ed il rallegrarsi per essa è molto buon segno. – S. Giovanni Climaco dice così: È molto lodevole colui il quale aspetta ogni giorno la morte; ma colui il quale a tutte le ore la desidera, è santo (D. Clim. c. 6). E S. Ambrogio loda quelli che hanno desiderio di morire (D. Ambr. in Orat, funebri de obitu Valentin. Imp. tom. 5, et de fide resurr.). E cosi veggiamo, che quei santi Patriarchi antichi avevano questo desiderio, tenendosi per pellegrini e forestieri sopra la terra, e non per fermi abitatori: Confitentes, quia peregrini et hospites sunt super terram. E come nota molto bene l’apostolo S. Paolo, Qui hæc dicunt, significant se patriam inquirere (Ad Hebr. XI, 14.): Ben dimostravano in questo, che stavano desiderando di uscire da quest’esilio: e questa era la cosa per la quale sospirava il reale Profeta: Heu mihi, quia incolatus meus prolongatus est (Ps. CXIX, 5)! Oimè, che si è prolungato il mio esilio! E se ciò dicevano e desideravano quegli antichi Patriarchi, stando allora chiusa la porta del cielo, e non avendovi d’andar essi subito; che sarà adesso che sta aperta e che subito che l’anima è purgata va a goder Dio?

CAPO XX.

D’alcune ragioni e motivi, per i quali possiamo desiderare la morte lecitamente e santamente.

Acciocché possiamo meglio e con maggior perfezione conformarci alla volontà di Dio, sì nella morte come nella vita, porteremo qui alcuni motivi e ragioni per lequali si può desiderar di morire, affinché eleggiamo la migliore. La prima ragione per la quale si può desiderare la morte, è per fuggire i travagli che reca seco questa vita: perché, come dice il Savio: Melior est mors, quam vita amara (Eccli. XXX, 17); è migliore la morte che una vita amara e travagliosa. In questa maniera veggiamo che gli uomini del mondo desiderano molte volte la morte, e la chieggono a Dio, e lo possono fare senza peccato; poiché alla fine sono tanti e tali i travagli di questa vita, che è lecito desiderare la morte per fuggirli (D. Aug. lib. 2 contra 2 epis. Gaud. cap. 22, tom. 7). Una delle ragioni che allegano i Santi dell’aver dati Dio tanti travagli agli uomini è, perché non s’avessero ad attaccar tanto a questo mondo né ad amar tanto questa vita; ma mettessero il loro cuore e il loro amore nell’altra, e sospirassero per essa, ubi non erit luctus, neque clamor, neque dolor erit ultra (Apoc. XXI, 4), nella quale non vi sarà pianto né dolore. S. Agostino dice, che Dio Signor nostro per sua infinita bontà e misericordia volle che questa vita fosse breve e finisse presto, perché è travagliosa; e che l’altra che aspettiamo fosse eterna, acciocché il travaglio durasse poco, e il godimento e il riposo fosse eterno (D. Aug. sem. 37 de Sanctis, qui est sermo primus in testo omnium Sanctorum). Sant’Ambrogio dice: Tantis malis hæc vita repleta est, ut comparatione ejus mors remedium putetur esse, non pœna (D. Ambr. serm. sup. cit, c. 7 Jo. tom. 2.). È tanto piena di mali e di travagli questa vita, che se Dio non ci avesse data la morte per castigo, gliela avremmo domandata per misericordia e per rimedio, acciocché finissero tanti mali e travagli. Vero è, che molte volte gli uomini del mondo peccano in questo per l’impazienza colla quale pigliano i travagli e pel modo nel quale domandano a Dio la morte, usando termini di lamenti e d’impazienza; ma se gliela domandassero con pace e con sommessione, dicendo: Signore, se vi piace, cavatemi da questi travagli, mi basta quello che ho vissuto; ciò non sarebbe peccato. Secondariamente si può desiderar la morte con maggior perfezione, per non vedere i travagli della Chiesa e le continue offese che si fanno a Dio: come veggiamo che la desiderava il profeta Elia, il quale, veggendo la persecuzione d’Acab e di Jezabele che avevano distrutti gli Altari e uccisi tutti i Profeti di Dio, e che andavano in cerca di lui per lo medesimo effetto, ardendo di zelo dell’onore di Dio, e conoscendo che non vi poteva rimediare, se ne andò ramingo per i deserti della Giudea, e postosi quivi a seder sotto un albero, petivit animæ suæ, ut moreretur; et ait: Sufficit mihi, Domine: tolle animam meam; neque enim melior sum, quam patres mei (III. Reg. XIX, 4.): desiderò di morire; e disse: Mi basta, Signore, quello che sono vissuto: levatemi oramai da questa vita, acciocch’io non vegga tanti mali né tante vostre offese. E quel valoroso capitano del popolo di Dio, Giuda Maccabeo, diceva: Melius est mori in bello, quam videre mala gentis nostra;, et Sanctorum (I Mac. III, 59). Ci mette più conto il morire in guerra, che il veder tanti mali e tante offese di Dio: e con questo esortava ed animava i suoi a combattere. E del beato S. Agostino leggiamo nella sua Vita, che passando i Vandali dalla Spagna nell’Africa, distruggendola tutta, senza perdonare né ad uomo né a donna, né ad Ecclesiastici né a laici, né a fanciulli né a vecchi; arrivarono alla città d’Ippona della quale egli era Vescovo, e l’assediarono da ogni banda con molta gente: e vedendo S. Agostino tanto grande tribolazione, e le chiese senza Preti, e le città co’ suoi abitatori distrutte, piangeva amaramente nella sua vecchiaia, e radunato il suo Clero gli disse: Ho pregato il Signore, che, o ci liberasse da questi pericoli, o ci desse pazienza, o cavasse me da questa vita, per non farmi veder tanti mali; e il Signore m’ha conceduta questa terza cosa, e così subito al terzo mese dell’assedio si ammalò dell’infermità della quale morì. E del nostro S. P. Ignazio leggiamo nella Vita sua un altro esempio simile (Lib. 4, c. 16 Vita; F. N. S. Ign.). Questa è perfezione dei Santi, sentir tanto i travagli della Chiesa e le offese che si fanno alla, maestà di Dio, che non lo possono soffrire, e così desiderino la morte per non veder tanto gran male. – V’è ancora un altro motivo e un’altra ragione molto buona e di molta perfezione per desiderare e domandar a Dio la morte, ed è per vederci ormai liberi e sicuri dall’offenderlo. Perché è cosa certa, che mentre stiamo in questa vita non vi è sicurezza per questo; ma possiamo cadere in peccato mortale; e sappiamo, ch’altri da più di noi i quali avevano gran doni da Dio e che veramente erano Santi, e gran Santi, caddero. Questa è una delle cose che fa più temere i Servi di Dio e per la quale desiderano uscire da questa vita. Per non peccare può uno desiderare di non esser nato né di avere mai avuto essere; quanto più può desiderar di morire? Perciocché è maggior male il peccato, che il non essere: e meglio sarebbe stato il non essere, che l’aver peccato : Bonum erat et, si natus non fuisset homo Me (Matth. XXVI, 24), disse Cristo nostro Redentore di quel disgraziato di Giuda che l’aveva da vendere: Sarebbe stato meglio per lui non esser nato. E S. Ambrogio dichiara a questo proposito quelle parole dell’Ecclesiast (D. Ambr. 13 sup. Psal. CXVIII; Eccli. IV, 2, 3.): Et laudavi magis mortuos, quam viventes; et feliciorem utroque judicavi, qui necdum natus est! Ho lodato più i morti che i vivi, e per più felice di tutti questi ho riputato colui che non è mai nato. S. Ambrogio dice così: Mortuus præfertur viventi, quia peccare destitit: mortuo præfertur qui natus non est, quia peccare nescivit: Il morto è preferito al vivo, perché ha già lasciato di peccare: e al morto è preferito colui che non è nato, perché non ha mai potuto peccare. Onde sarà molto buono esercizio l’attuarci molte volte nell’orazione in questi atti, Domine, ne permittas me separarì a te: Signore, non permettete che io mi separi giammai da Voi. Signore, se vi ho da offendere, levatemi dal mondo prima ch’io vi offenda; che io non desidero la vita, se non per servirvi; e se non vi ho da servire con essa non la desidero (Supra tract. 5, c. 5). Questo è un esercizio molto grato a Dio e molto utile a noi altri, perché in sé contiene un esercizio di dolore e di odio e abborrimento del peccato, un esercizio di umiltà, un esercizio d’amor di Dio, e una domanda delle più grate a Dio che possiamo fargli. Si narra di S. Luigi re di Francia, che alle volte la sua santa madre, Donna Bianca Reina, gli diceva: Vorrei, figliuol mio, vederti piuttosto cader morto sotto a’ miei occhi, che vederti con un peccato mortale su l’anima. E piacque tanto a Dio questo desiderio e questa benedizione che ella gli dava, che si dice di lui che in tutta la sua vita non commise mai peccato mortale (In Vita S. Lud. Reg. Galliæ). Quest’ istesso effetto potrà essere che operi in te questo desiderio e questa domanda. Di più non solo per evitare i peccati mortali, ma ancora per evitare i veniali, de’ quali siamo pieni in questa vita, è cosa buona desiderare la morte. Perché il Servo di Dio ha da star molto risoluto e determinato non solo di morire più tosto che commettere un peccato mortale; ma eziandio di più tosto morire che dire una bugia, che è un peccato veniale: echi veramente morisse per questo, sarebbe martire: dappoiché è cosa certa, che se viviamo, commettiamo molti peccati veniali: Septies enim cadet justus (Prov. XXIV, 16): Sette volte cadrà l’uom giusto, che vuol dire molte volte: e quanto più vivrà, tante più volte cadrà (D. Thom. 2 2, q. 124, art. 5, ad 2). Né solamente per evitare i peccati veniali desiderano i servi di Dio di uscire da questa vita; ma lo desiderano ancora per vedersi liberi da tanti mancamenti e imperfezioni, e da tante tentazioni e miserie, quante ne proviamo ogni giorno: Dice molto bene quel Santo: O Signore, e quanto mai interiormente patisco, mentre pensando nell’orazione alle cose celesti, subito mi si rappresenta alla mente una gran turba di pensieri carnali! Oimè, che vita è questa, ove non mancano travagli e miserie; ove ogni cosa è piena di lacci e di nemici! Imperocché partendosi una tribolazione e tentazione, ne viene un’altra: e durando ancor la prima battaglia, ne sopravvengono molle altre non aspettate. Come può esser amata una vita piena di tanti guai e soggetta a tante calamità e miserie? come si può chiamar vita quella che genera tante morti e tante pesti (Thomas a Kempis, lib. 3, c. 48, n. 5)?Si legge d’una gran Santa che soleva dire,che se avesse potuto eleggere qualche cosa,non n’avrebbe eletta altra che la morte:perché l’anima per mezzo di essa si trovalibera d’ogni timore di far mai più cosache sia d’impedimento al puro amore. Èanche pur cosa di maggior perfezione ildesiderare d’uscire da questa vita, per evitari peccati veniali e i mancamenti e leimperfezioni, di quello che sia il ciò desiderareper evitare i peccati mortali; perchérispetto a questi può darsi che uno si muovaa concepire tal desiderio più per timor dell’inferno e per l’interesse e amor suo proprio,che per amor di Dio: ma l’aver eglitanto amore di Dio, che desideri la morteper non commettere peccati veniali, né mancamenti e imperfezioni, è gran purità d’intenzione e. cosa di gran perfezione. Ma potrebbe dire alcuno: io desidero di vivere per soddisfare per le mie colpe edifetti.A questo rispondo, che se vivendo più, scontassimo sempre le cose passate, e non aggiungessimo nuove colpe, questo sarebbe bene. Ma se non solamente non. I sconti, ma accresci i debiti, e quanto più vivi, tanto più hai di che render conto a Dio,non dirai bene. Dice benissimo S. Bernardo: Cur ergo tantopere vitam istam desideramus in qua quanto amplius vivimus, tanto plus peccamus; quanto est vita longior, tanto culpa numerosior (D. Bern. c. 2 medit.)? Perché desideriamo noi tanto questa vita nella quale quanto più viviamo, tanto più pecchiamo? E S. Girolamo dice: Che differenza pensi tu vi sia fra quello che muore giovine, e quello che muore vecchio, se non che il vecchio va all’altro mondo più carico di peccati che il giovane, e ha più di che rendere conto a Dio (D. Hieron. ep. ad Hel.)? E così S. Bernardo piglia in questo un’altra risoluzione migliore, e dice colla sua grande umiltà certe parole che noi altri possiamo dire con più verità: Vivere erubesco, quia parum pròficio: mori timeo, quia non sum paratus. Malo tamen mori, et misericordia; Dei me committere et commendare, quia benignus et misericors est; quam de mea mala conversatione alicui scandalum facere (D. Bern. de inter. domo, c. 35).Mi vergogno di vivere per lo poco profitto che io fo; e temo di morire perché non istò preparato: con tutto ciò voglio più tosto morire e pienamente abbandonarmi alla misericordia di Dio, poiché Egli è benigno e misericordioso, che proseguire a scandalizzare i miei fratelli colla mia vita tiepida e rimessa. Questo è un molto buon sentimento.Il P. Maestro Avila diceva, che chiunquesi sia il quale tanto solo che si trovi con mediocre disposizione, questo tale dovrebbe più tosto desiderar la morte che la vita, per ragione del pericolo in cui vive di offender Dio, e il quale cessa affatto colla morte. Quid est mors, nisi sepultura vitiorum, virtutum suscitatio? dice sant’Ambrogio.Che cosa è la morte, se non la sepoltura dei vizi e la resurrezione delle virtù (D. Ambros. de bono mortis, c. 4)? Tutte queste ragioni e motivi sono molto buoni per desiderar la morte; ma il motivo di maggior perfezione è quello che stimolava il cuore dell’apostolo Paolo, il quale desiderava di morire per brama di trovarsi col suo Cristo Gesù che tanto egli amava: Desiderium habens dissolvi, et esse cum Christo (Ad Philip, l, 23). Che dici S. Paolo? Perchè desideri di essere sciolto dal corpo? forse per fuggire i travagli? no per certo, che più tosto gloriamur in tribulationibus (Ad Rom. V, 3): questa è la gloria mia. Perché  dunque? per fuggir i peccati? Né anche: Certus sum enim, quia neque mors, neque vita… poterit nos separare a charitate Dei (Ibid. VIII, 38): era egli confermato in grazia, e sapeva, che non la poteva perdere; e così non aveva occasione di temer questo. Perché dunque desideri tanto la morte? Per vedermi una volta con Cristo. La desiderava per puro amore: Quia amore langueo (Cane, II, 5). Era infermo d’amore, e così sospirava pel suo diletto, e qualsivoglia piccola tardanza gli pareva lunga, per arrivar a godere della sua presenza. S. Bonaventura di tre gradi che distingue 1’amor di Dio, mette questo per ultimo (D. Bonav. process. 6 Relig. c. 11, 12 et 13). Il primo è, amar Dio sopra tutte le cose, amando talmente le cose del mondo, che per nessuna di esse facciamo un peccato mortale né trasgrediamo alcun comandamento di Dio: che è quello che disse Cristo nostro Redentore a quel giovinetto dell’Evangelio: Si vis ad vitam ingredi. serva mandata (Matth. XIX, 17.). Se vuoi conseguire la vita eterna, osserva i comandamenti: e a questo è tenuto ogni Cristiano. Il secondo grado di carità è, non contentarci della osservanza dei comandamenti di Dio, ma aggiungerci i consigli: il che è proprio dei Religiosi, i quali non solo cercano il bene, ma anche il meglio e il più perfetto, conformemente a quello che diceva S. Paolo: Ut probetis, quæ sit voluntas Dei bona, et beneplacens, et perfecta (Ad Rom. XII, 2). Il terzo grado di carità dice S. Bonaventura che è, tanto affectu ad Deum estuare, quod sine ipso quasi vivere non possis. Quando uno è tanto acceso e infiammato d’amor di Dio, che gli pare di non poter vivere senza di Lui: onde desidera vedersi libero e sciolto dal carcere di questo corpo per istarsene con Cristo, e sta desiderando d’essere richiamato da quest’esilio, e che si consumi e cada finalmente questo muro del corpo che sta di mezzo, e c’impedisce il vedere Dio. Questi tali, dice il Santo, hanno la vita in impazienza, o per dir meglio, in fastidio, e la morte in ardente desiderio. Del nostro S. Padre Ignazio leggiamo nella sua Vita (Lib. 5, c. 1 Vita P. N. S. Ignatii), che era ardentissimo il desiderio che aveva d’uscire da questo carcere del corpo, e che sospirava tanto l’anima sua per andar a trovarsi col suo Dio, che pensando alla sua morte non poteva ritener le lagrime che per pura allegrezza gli piovevan dagli occhi. Ma si dice ivi, che ardeva egli di questi accesissimi desideri non tanto per conseguir quel sommo bene per sé e per riposarsi egli in quella felice vista, quanto, e molto più, per veder la felicissima gloria dell’umanità sacrosantissima di Cristo che tanto egli amava. In quella maniera che suole di qua un amico rallegrarsi di veder ricolmo di onore e gloria quell’altro che egli ama cordialmente: nella stessa desiderava il nostro santo Padre di vedersi con Cristo, dimentico affatto del proprio interesse e riposo, e spinto da puro amore. Questo era l’unico suo desiderio, il protestarsi rallegrando e godendo della gloria di Cristo, e congratulandosi seco di essa, che è il più alto e perfetto atto d’amore a cui possiamo giungere (Infra c. 32). In questo modo non solo non ci sarà amara la memoria della morte, ma più tosto ci darà gran gusto ed allegrezza. Passa un poco più avanti, e considera, che da qui a pochi giorni starai in cielo godendo di quello che né occhio ha veduto, né orecchio ha udito, né può cader in umano intelletto, e che ogni cosa si convertirà in allegrezza e giocondità. Chi non si rallegra, che termini l’esilio e abbia fine il travaglio? chi non si rallegra di giungere a conseguire il suo ultimo fine per lo quale è stato creato? chi non si rallegra d’entrare in possesso della sua eredità, ed eredità tale? Ora per mezzo della morte entriamo a possedere l’eredità del cielo. Cum dederit dilectis suis somnum: ecce hæreditas Domini (Psal. CXXVI, 3). Non possiamo entrare in possesso di quei Beni eterni, se non per mezzo della morte. E così il Savio dice che l’uomo giusto spera nella sua morte: Sperat justus in morte sua (1 Prov. XIX, 32); perché questo è il mezzo e la scala per salire in cielo, e così questa è la consolazione del presente esilio. Psallam, et intelligam in vita immaculata, quando venies ad me (Psal. C, 2). S. Agostino dichiara così questo luogo (D. Aug. tract. 9 sup. Ep. Jo): Signore, la mia attenzione e il mio desiderio, è conservarmi senza macchia tutta la mia vita, e con questa cura e sollecitudine andrò sempre cantando, e l’argomento del mio canto sarà: Quando, Signore, si rivocherà quest’esilio? quando verrete per me? quando, Signore, verrò io a trovar voi? Quando veniam, et apparebo ante faciem Dei (Psal. XLI, 3)? Quando, Signore, mi vedrò avanti del vostro volto? Oh quanto mi viene ritardata quest’ora! Oh quanto sarà grande per me il gusto e l’allegrezza quando mi sarà detto, che ella è già vicina: Laitatus sum in his, qua; dicta sunt mihi: In domum Domini ibimus. Slantes erant pedes nostri in atriis tuis, Jerusalem (Ps. CXXI, 1-2): M’immagino d’aver già posti colà i piedi e di trovarmi in compagnia degli Angeli e di quei Beati, e di star godendo di voi, o Signore, per tutta l’eternità.

LA FESTA DI CRISTO-RE (3)

LA FESTA DI CRISTO-RE (3)

R. P. Edouard HUGON, o. P.

MAESTRO DI TEOLOGIA PROFESSORE DI DOGMATICA AL COLLEGIO PONTIFICIO « ANGELICUS » DI ROMA E MEMBRO DELL’ACCADEMIA ROMANA DI S. TOMMASO D’AQUINO

LA FESTA SPECIALE di GESÙ-CRISTO RE  

QUINTA EDIZIONE Rivista ed accresciuta

PARIS (VIe) PIERRE TÉQUI, LIBRAIRE-ÉDITEUR 8a, RUE BONAPARTE, 83 1938

APPROBATIONS

Visto e approvato:

Rome, Angelico, le 10 aprile 1927. Fr. Ceslas PABAN-SEGOND, O. P. Maître en S. Théologie.

Fr. Réginald GARRIGOU-LAGRANGE, O. P. Maître en S. Théologie.

PERMIS D’IMPRIMER :

17 aprile 1927. Bonaventura GARCIA DE PAREDES. Mag. Gen. Ord. Frnt. Prædic.

IMPRIMATUR :

Parisiis, die 5 a decembris it>27. V. DUPIN, v. g.

CAPITOLO V

UNA DELLE MANIERE PIU EFFICACI DI PROCLAMARE QUESTA REGALITÀ, È L’ISTITUZIONE D’UNA FESTA SPECIALE DI GESÙ-CRISTO RE UNIVERSALE.

Era certamente necessario che un’enciclica papale esponesse questa dottrina con tutta la solennità del Magistero Supremo. Ma è questo sufficiente per il popolo sul quale lo spirituale fa poca impressione, a meno che non sia presentato in modo visibile, palpabile e che parli alla sua natura intera? Dal momento che anche Dio si serve di sacramenti sensibili per condurre l’uomo alla conoscenza dei misteri soprannaturali, è quindi opportuno istruire i credenti con delle feste esteriori, che scuotano le anime colpendo i sensi, che traducano la verità divina col linguaggio efficace delle realtà concrete e sottomettano tutto l’uomo a Dio con il suo corpo ed il suo spirito (Cf. S. THOM., III a., q. 60, a. 4). Si possono qui applicare le parole con cui il Concilio di Trento dimostra la necessità di una celebrazione speciale del Santissimo Sacramento: “È giusto e opportuno che i Cristiani riservino alcuni giorni per testimoniare con un significato più accentuato e più straordinario quanto siano riconoscenti al loro comune Signore e Redentore per questo ineffabile e divino beneficio. Occorreva che la verità, anch’essa vittoriosa, celebrasse il suo trionfo sulla menzogna e l’eresia, cosicché i suoi avversari, alla presenza di tale splendore e in un così grande gioia della Chiesa universale, si fermasse come distrutta ed annientata, o che, almeno coperto da vergogna e confusione, tornasse a resipiscenza (Conc. Trid., sess. XIII, cap. 5. — Cf. can. 6). “Così, ai nostri giorni, la verità apparirà in tutto il suo splendore, Gesù Cristo sarà compensato dell’ingratitudine e degli oltraggi, i suoi diritti rivendicati, se la sua assoluta regalità è celebrata con una festa solenne. – Ecco ciò che ben comprendono sia i prelati o capi di Ordini religiosi, che hanno chiesto al Sommo Pontefice una Messa e un ufficio in onore della Regalità Sociale di Gesù Cristo. Già una petizione firmata dal Cardinal Sarto, il futuro Pio X, e da altri rappresentanti del Sacro Collegio, era stata indirizzata a Leone XIII, che si degnò di farne buona accoglienza. Da allora, il movimento si è sviluppato in tutto il mondo, più di settecento membri della gerarchia hanno insistito presso la Santa Sede per l’istituzione di una festa speciale di Gesù Cristo Re universale delle società (Le suppliche rivolte al Santo Padre, sono state firmate da 40 cardinali, 703 Arcivescovi o Vescovi, 102 superiori degli Ordini religiosi, 12 Università, tra le quali la Gregoriana e l’Angelico) per dimostrare che è necessario una proclamazione eclatante, stabilendo abbagliante annuncio, come necessario, una festa speciale. –

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L’obiezione spontanea, ripetuta tante volte, è che bisogna diffidare di feste nuove, come di devozioni nuove. – Tutta la questione, risponderemo, è sapere se ne risulti una nuova gloria per Nostro Signore! In questo caso, non abbiamo che da gioire, poiché noi dobbiamo trovare le nostre gioie migliori in ciò che glorifica Dio. E, proprio come la scienza medica non può che fare buona accoglienza ad un nuovo rimedio, se è questo davvero efficace, quindi la teologia e la pietà non potranno che trarre beneficio dall’uso di un rimedio appositamente adattato al male più terribile della nostra epoca, questo laicismo di cui abbiamo parlato. – Una festa speciale, si aggiunge, deve essere riportata ad un fatto storico o ad uno di quei misteri esterni che ricordano la vita, la passione, la resurrezione e l’ascensione di Nostro-Signore, o la discesa visibile dello Spirito Santo sugli Apostoli, e non riferirsi ad un’idea, un concetto o ad un oggetto invisibile, come la dignità regale di Cristo. – La risposta viene da se stessa: poiché la liturgia è l’espressione vivente del dogma e che la legge della preghiera esterna è anche la legge della fede interiore, una festa visibile, può riferirsi ad un oggetto, può riferirsi ad un oggetto invisibile, purché questo oggetto non rimanga vago ed astratto, ma sia ben determinato e definito, e si affermi con qualche manifestazione sensibile, e che ci sia un motivo speciale per giustificare un culto speciale. È così che la Chiesa ha potuto istituire la festa della Santissima Trinità e la festa del sacerdozio di Nostro Signore. Ora, in questo caso, l’oggetto è tutto di fatto preciso e concreto, Gesù Cristo, Re universale delle nazioni e delle società, con quelle qualità e attribuzioni molto nette che la Scrittura e la Tradizione gli hanno dato in termini propri. Sottolineiamo che questa regalità non rimane astratta; essa si è irradiata e si è affermata, non solo nell’Epifania, ma anche nella maggior parte dei misteri della vita di Nostro Signore. – Ma allora, si dirà, essa è sufficientemente onorata negli altri misteri, e quindi non c’è bisogno di una nuova festa. – No, rispondiamo noi. Essa si afferma tra le altre per non rimanere puramente invisibile; essa non è espressamente onorata con questo oggetto e motivo speciale che deve caratterizzarla. A Natale, il Salvatore appare in tutto il suo  essere, con la sua bontà e dignità, apparuit humanitas, apparuit benignitas, come dice la liturgia citando San Paolo, non è questo il Re che si impone al mondo. All’Epifania, Nostro Signore si rivela ai Gentili buoni, che lo riconoscono come re; ma queste non sono ancora le nazioni organizzate in società che proclamano i propri diritti, e, se questa è già la festa della manifestazione di Gesù Cristo, non è ancora la festa della sua sovranità sulle società stesse. Inoltre, all’Epifania, Egli non ha ancora tutti i suoi titoli di re: se Egli è sovrano per diritto di nascita fin dall’inizio, la sua regalità per diritto di conquista si completa con la sua morte sulla croce. Nella solennità della Domenica delle Palme, si intende bene che i Giudei acclamano il figlio di Davide, ma non si scorge con sufficienza il suo impero sulle società umane. La Resurrezione mostra il suo potere sulla morte e sull’inferno; l’Ascensione, il Trionfatore che si innalza sopra tutti i cieli; resta da celebrare in maniera più caratteristica il Re delle nazioni da quaggiù. Nell’ufficio del Santissimo Sacramento adoriamo il Cristo sovrano delle nazioni, Christum Regem dominantem gentibus, da un punto di vista particolare, che ci ricorda gli effetti del cibo eucaristico qui se manducantibus dat spiritus pinguedinem. La festa del Sacro Cuore esalta certamente Gesù Re, ma l’oggetto non è il medesimo della festa progettata. Nel culto del Sacro Cuore l’oggetto specialmente considerato è l’amore, il termine è Gesù tutto amante e tutto amabile, e dunque il Re d’amore; qui l’oggetto è la sovranità regale in se stessa, il termine è Gesù Re in assoluto, su tutti gli uomini e su tutte le creature, e che deve imporre il suo impero, anche là dove il suo amore è respinto. Così dunque, poiché l’oggetto è diverso, c’è bisogno di una festa nuova e speciale. – Ma le anime veramente pie, che cercano soprattutto gli interessi dell’unico Maestro, non hanno da temere che la nuova festa possa nuocere alla devozione del Sacro Cuore; questa devozione, al contrario, non può che avvantaggiarsene, perché il Re dell’Amore è onorato per il fatto che si proclama il Re Universale e la solennità che esalta la regalità senza restrizioni lascia intendere che Gesù regna soprattutto attraverso la carità (Su questo soggetto si veda il bel libro di Mons.  SINIBALDI, Segretario della sacra Congr. dell’Università: il Regno del Sacro Cuore, Milano 1922 – Nel libro citato il Vescovo Sinibaldi espone i seguenti argomenti: Gesù è Re. – Gesù è Re d’amore. – Gesù è Re con il suo Cuore. – Gesù governa con l’amore. – Gesù chiede solo amore). La portata della festa è perfettamente caratterizzata dalla liturgia, di cui stiamo per riassumere i principali insegnamenti.

CAPITOLO VI

GLI INSEGNAMENTI DELLA LITURGIA NELLA FESTA DI DI GESÙ – CRISTO RE

Una festa liturgica è più efficace anche di un documento pontificio solenne. Il documento è rivolto soprattutto allo spirito; la liturgia, all’uomo intero, perché grazie alle cerimonie e ai riti esteriori, alle parole e ai canti, la si comprende con l’aiuto del corpo e delle diverse facoltà, i propri sensi e l’immaginazione, il cuore e la volontà, non meno che con l’intelligenza. – Il documento di per sé ha solo un effetto passeggero; la celebrazione, che si rinnova periodicamente, ne moltiplica e perpetua i risultati. Il documento è l’espressione scientifica della fede; la festa ne è il linguaggio e l’azione, come un dramma vivente, che traduce con energia il sacro dogma. Un rapido studio della liturgia di questa nuova festa ci mostrerà come sono tutti gli insegnamenti così profondi di quella gloriosa solennità sono riassunti nell’Ufficio e nella Messa. Insisteremo sul Prefatio, che è uno splendido poema, che celebra con magnificenza i nostri più alti misteri.

I.

L’Ufficio e la Messa.

Fermiamoci innanzitutto al titolo: « Ultima domenica di ottobre, festa di Gesù Cristo Re ». Bisognava evitare che vi fosse confusione con altre feste del Salvatore e, quindi, celebrarlo a una data abbastanza lontana dalle feste del Santissimo Sacramento e del Sacro Cuore. Si poteva scegliere solo una domenica perché il popolo cristiano potesse restituire al suo Re il più splendido tributo pubblico. Siccome la liturgia delle domeniche dopo la Pentecoste ricorda il regno di Cristo sulla terra, che si completa con il trionfo dei suoi servi e dei suoi soldati associati alla sua felicità, la festa è giustamente collocata nell’ultima domenica di ottobre, seguita, molto opportunamente, della solennità di Ognissanti. – Erano stati espressi desideri per un titolo più esplicito, ad es. re delle nazioni, re dei secoli. Aggiungere questa o qualsiasi altra cosa sarebbe stato restringere la regalità assoluta. Tutto l’insieme della festa dimostra con certezza che Cristo è il re delle nazioni e delle società, e fin dai primi Vespri, l’Inno lo saluta Regem gentium, il Re che l’intera società deve onorare, i governanti, i magistrati, i padroni, i legislatori. Ma c’è ancor di più, perché Egli è il Re dell’intera creazione, universorum rege, come dice la colletta della Messa, e, secondo l’espressione dell’Inno, il Principe di tutti i secoli. Conviene, senza dubbio, esaltare il regno sociale del Cristo, e noi comprendiamo che le riviste ed i Congresso pongono particolare enfasi su questo tema e ne fanno risaltare questo aspetto. Ma, mi diceva un giorno Pio XI, possiamo concepire un regno che non sia sociale? È questo e molto di più, è sia all’interiore che esteriore, invisibile e visibile, spirituale e temporale, senza limiti e senza riserve e senza fine. – Diciamo dunque semplicemente con la liturgia: il Cristo Re, e, come consiglia il Papa: il regno di Cristo, senza l’amplificazione dei pleonasmi e senza la restrizione degli epiteti.L’oggetto della festa è la dignità regale o l’impero assoluto: mentre nel Sacro Cuore noi Consideriamo l’amore e Gesù che regna attraverso l’amore,qui è la regalità in se stessa, è Gesù che deve regnare anche là dove il suo amore è respinto. L’ufficio mette in piena evidenza questo regno eterno, al quale tutte le nazioni devono sottomettersi, sotto pena di condannarsi altrimenti alla rovina ed alla distruzione; perché ogni regno che non riconoscerà questo Sovrano perirà o sarà colpito da sterilità. Tale è il riassunto dei Mattutini e delle Lodi. Gli Inni cantano il Monarca che tiene lo scettro dell’universo, e la Messa, il Re di tutte le cose, sotto lo stendardo del quale abbiamo la gloria di combattere e di trionfare. – Ma, se l’oggetto della nostra festa non è lo stesso della festa del Sacro Cuore, lo scopo è necessariamente identico, le due solennità devono concludersi nell’amore; ed è per questo che Pio XI, istituendo una nuova e distinta festa, ha voluto che la consacrazione del genere umano al Sacro Cuore sia fatta nello stesso giorno, come risposta efficace della terra e come degno coronamento di tutti gli atti liturgici. – I fondamenti di questa regalità possono essere fatte risalire ai due capitoli che l’enciclica di Pio XI sviluppa magistralmente: per diritto di eredità, in virtù dell’unione ipostatica, e per diritto di conquista, in virtù della Redenzione, come il nostro opuscolo ha già esposto. Il Cristo, come Dio, ha un impero universale allo stesso titolo del Padre; come Dio e uomo, o come Verbo incarnato, è erede del Padre ed associato a tutto il suo impero. Dal primo istante dell’Incarnazione, la Persona divina ha unito la sua Umanità santa, l’ha penetrata, l’ha imbalsamata e questa sostanziale unzione è l’unzione di gioia che ha consacrato Gesù Re e Pontefice per l’eternità. – In virtù di questa consacrazione, egli merita un tale onore per cui gli Angeli e gli uomini devono adorarlo non solo come Dio, ma anche con la sua umanità santa, e possiede una potenza tale che tutte le creature devono assolutamente sottomettersi al suo impero anche come uomo (Act. Apost. Sed., XVII, 58, 599.). Ecco perché San Paolo ci dice che quando Dio introduce il suo Figlio nel nostro universo, comanda ai suoi Angeli di adorarlo: Et adorent eum omnes angeli Dei (Hebr. I, 6). Questa è stata la prima intronizzazione di Gesù Cristo Re nella creazione, quando gli Angeli lo hanno adorato ed acclamato per primi come loro Capo. Per noi umani, come abbiamo già spiegato, Egli è Re per un titolo particolarmente dolce; noi siamo chiamati populus acquisitionis, il popolo della sua conquista, proprio come Lui ha acquisito la sua Chiesa a prezzo del suo sangue, e per il fatto che ci riscattato a un tale prezzo, noi non siamo più nostri, non possiamo più venderci o farci schiavi degli uomini (1 Petr., II. 9; Act. XX, 28; 1. Cor, VI, 19, 20; 1, Petr., I, 18.3). – Tutto l’insieme dell’officio della Messa fa emergere questi due titoli. La Colletta afferma questo diritto di nascita, in virtù dell’unione ipostatica. Così come già San Paolo diceva: hæredem universorum, la liturgia canta: universorum Regem. I Mattutini celebrano il Messia che si è affermato Re come Dio stesso, che riceve in eredità le nazioni della terra, alle quali l’Onnipotente sottomette tutte le creature, alle quali i re di quaggiù vengono a rendere omaggio, e il cui trono deve durare tanto quanto l’astro del giorno e l’astro della notte. Le lezioni del secondo notturno, tratte dall’enciclica, insistono su questo titolo di unione sostanziale, e l’omelia, tratta da Sant’Agostino, ci mostra in Gesù il vero sovrano, che è Re e dei Giudei e dei Gentili, perché è Figlio di Dio, perché il Signore gli ha detto: “Oggi Ti ho generato, chiedimi, ed io ti consegnerò le nazioni e come dominio l’universo intero. L’Introito della Messa considera in particolare il diritto di conquista e di redenzione: Egli merita di ricevere tutti gli onori della regalità dell’Agnello che è stato immolato. Ma ben presto riappare il diritto di nascita, sia nell’epistola, in cui San Paolo glorifica il regno ed il potere del Figlio diletto di Dio, di Colui che ha il primato assoluto, perché è l’immagine del Dio invisibile; sia nel Vangelo, dove Nostro Signore, interrogato da Pilato, afferma chiaramente di essere Re; sia nel prefatio, in cui il Cristo è chiamato sacerdote e re in virtù della sostanziale unzione dell’Incarnazione. Una lettura sommaria dei testi è sufficiente per constatare che la liturgia mette in rilievo sia il diritto di nascita, come l’antifona dei primi Vespri, al Magnificat, ricorda che Gesù riceve da Dio il trono di Davide; sia il diritto di conquista, parlando del Signore che ci ha lavati nel suo sangue; sia il diritto e quasi abitualmente i due titoli insieme, come l’antifona dei secondi Vespri, al Magnificat, esalta il Sovrano che porta il mantello della natura umana e che ha la virtù divina, il Re dei Re, il Signore dei Signori. È quindi ben vero che la liturgia è la teologia vivente della festa. Ci resta da dimostrare come il poema del Prefatio traduce e glorifica tutto il dogma dell’Incarnazione.

II

Il Prefatio della nuova Messa.

È con tutto lo slancio del lirismo biblico e con tutta la magnificenza di un poema che il Prefatio solleva i cuori, delizia gli spiriti:  « È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Che il tuo Figlio unigenito, Gesù Cristo nostro Signore, hai consacrato con l’olio dell’esultanza: Sacerdote eterno e Re dell’universo: affinché, offrendosi Egli stesso sull’altare della croce, vittima immacolata e pacifica, compisse il mistero dell’umana redenzione; e, assoggettate al suo dominio tutte le creature, consegnasse all’immensa tua Maestà un Regno eterno e universale, regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine … » Il Prefatio unisce in Cristo il sacerdozio e la regalità e mostra che entrambi tendono allo stesso termine e hanno gli stessi effetti. Bellissima e profonda associazione, che è già contenuta nel canto immortale del profeta salmista (Ps. CIX). Sotto l’ispirazione dell’Altissimo, David esclama: « Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché non ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi » Questa è la dignità regale del vero Signore, che deve regnare in mezzo ai suoi nemici, perché è il Figlio di Dio, generato prima dell’aurora. Subito dopo il veggente celebra il mistero del sacerdozio: “Il Signore ha giurato e non si pentirà: Tu sei un sacerdote in eterno secondo l’ordine de Melchisédech “. Poi il salmo ritorna alla regalità del Sovrano che giudicherà le nazioni, distruggerà la testa dei malvagi, per stabilire il regno della giustizia. È molto interessante che David unisca, come inseparabili, nel Messia, i due titoli di Re e Sacerdote, e che  sottolinei con tanta enfasi la maestà del giuramento: « Sì, il Signore ha giurato: Juravit Dominus; ha giurato, e non si pente Juravit et non peœnitebit eum; Egli ha giurato a te, mio Gesù, a te suo Figlio, a te fratello dell’umanità, ha giurato che tu sarai Sacerdote per sempre, sempre, sempre: tu es sacerdos in æternum. Gesù è Sacerdote in virtù del giuramento di Dio. Capisci che un atto così solenne non può avere come scopo il conferire un titolo che è puramente onorifico (Padre MONSABRÊ, XLII conferenza, Quaresima del 1879.). » Di per sé, la regalità, che comprende i poteri legislativo, giudiziario ed esecutivo (L’enciclica di Pio XI sul Cristo Re fa ben emergere questo triplice carattere della sua regalità. Act. Apost. sed., XVII,599.), è ben distinta dal Sacerdozio, il cui ruolo è quello di pregare, sacrificare, santificare; ma in Cristo la triplice potenza del Re si conduce al fine del Sacerdozio, che è la salvezza del mondo. Per mostrare quanto sia teologico questo bel Prefatio, vi spiegheremo che una stessa unzione sostanziale consacra il Cristo allo stesso tempo Re e Pontefice e quanto siano inseparabili in Nostro Signore i poteri e gli effetti della regalità e del sacerdozio.  Abbiamo già detto che la sostanziale unzione della Persona divina stabilisce il Cristo Re, perché, in virtù di tale unione, Egli merita di essere venerato dagli Angeli e dagli uomini e ha il diritto a che tutte le creature siano soggette al suo impero. Vediamo come lo consacra pontefice. Il sacerdote è essenzialmente mediatore, posto tra la terra ed il cielo per far salire verso Dio i doni dell’uomo – la preghiera ufficiale ed il sacrificio, che sono il nostro obbligo fondamentale – e far discendere i doni di Dio sull’uomo, la grazia ed il perdono, che dovrebbero condurci alla salvezza. Ne consegue quindi che il triplice buon ruolo del sacerdote, come abbiamo detto, è quello di pregare e sacrificare, in nome dell’umanità, e di santificare gli uomini, in nome di Dio. In virtù della grazia d’unione, il Cristo è  mediatore, perché se la natura divina si unisce alla natura umana in una sola Persona, abbiamo immediatamente un intermediario tra Dio e gli uomini. Da quel momento in poi, Egli può stabilire la corrente dalla terra al cielo, pregare a nome di tutti gli esseri umani, di cui è rappresentante ufficiale, sacrificare o immolarsi Egli stesso come vittima per tutti i suoi membri, e far discendere la corrente dal cielo alla terra, santificare comunicando agli uomini la scienza del soprannaturale e della grazia che li fanno vivere (Encicl. di Pio XI, lectio V della Festa di Gesù-Cristo Re). – Pertanto, il Cristo è sacerdote, necessariamente, essenzialmente, per la stessa Incarnazione stessa: la sua vocazione al sacerdozio è inclusa nell’atto stesso  che ne ha decretato l’Incarnazione. San Paolo, che insiste sulla necessità della chiamata divina onde costituire sacerdote, dichiara che Cristo è stabilito pontefice da Colui che gli ha detto: “Tu sei mio Figlio, Io oggi ti ho generato. (Hebr. V) Così il Salvatore è Sacerdote sacro nello stesso momento in cui è stabilito re sul Monte Sion. – Comprendiamo allora, come Pio XI, il 28 dicembre 1925, nell’allocuzione solenne a conclusione delle feste per il centenario di Nicea, abbia potuto dire: « Nel Cristo si diffuse e si diffonde inesauribile ed infinita, questa Unzione sostanziale, che lo ha consacrato Sacerdote in eterno (Civiltà Cattolica, 1926, p. 182, e  Bollettino per la commemorazione del XVI centenario del concilio di Nicea, n° 6, p. 195). » Si vede ora di quale serena e profonda chiarezza si illuminano le parole del nostro Prefatio: « O Dio, che hai unto con l’olio di esultanza Sacerdote eterno Sacerdote e Re dell’universo Gesù Cristo, tuo Figlio unigenito e nostro Signore… » Non è meno chiaro che gli effetti della regalità e del sacerdozio in Gesù Cristo sono inseparabili; poiché la sua regalità tende alla salvezza delle anime ed il suo sacerdozio, santificando e redimendo il mondo, riesce a stabilire il regno universale ed eterno. – Il potere legislativo in Gesù Cristo è veramente sacerdotale, perché promulga questa legge della vita divina, questa scienza del soprannaturale, che le labbra del sacerdote devono dare alle anime (Questa è stata infatti la concezione che si aveva del ruolo del sacerdote nell’antico Testamento, conservare e dare la scienza o la dottrina rivelata: « Labia sacerdotis custodient scientiam et legem ex éjus ore requirent. » MALACH., II, 7); questo codice evangelico che comprende la santità comune attraverso la pratica dei comandamenti, la santità perfetta attraverso la pratica dei precetti e dei consigli, la santità suprema, che giunge fino all’eroismo permanente. Infine il potere giudiziario in Lui è ugualmente sacerdotale, perché Egli deve cacciare il principe di questo mondo (S. Giov. XVI, 11) castigare il peccato, vendicare i diritti misconosciuti e con ciò procacciare questo regno di giustizia che il sacerdote deve annunciare e promuovere. Infine, il potere esecutivo in Lui è sacerdotale, perché Egli deve mettere in opera e condurre a buon termine questi mezzi di salvezza la cui economia è affidata al ministero sacro del Sacerdozio. D’altra parte, tutto l’officio sacerdotale di Gesù-Cristo deve servire al suo regno, perché si riporta alla redenzione e la redenzione è uno dei titoli della sua regalità soprannaturale. Ecco ancora ciò che il Prefatio fa emergere pienamente, celebrando nel contempo e gli effetti del sacerdozio, sia gli effetti della sua regalità: immolandosi come vittima, Gesù compie i misteri della redenzione umana; dopo aver sottomesso tutte le creature al suo impero, Egli offre il regno universale all’immensa maestà di Dio. Occorreva certo che la medesima unzione di esultanza consacrasse Sacerdote e Re il Figlio di Dio incarnato per la nostra salvezza: se fosse stato solo un Re, non potevasi offrire e immolare come vittima per la nostra redenzione; se fosse stato solo un sacerdote non avrebbe potuto rimettere a Dio un regno. Ma, poiché Egli è nel contempo pontefice e re, il seguito del Prefatio appare piena di armonia e bellezza: Egli compie la grande opera della nostra redenzione e rimette al Padre il regno eterno ed universale di giustizia, di amore e pace! – Ecco come la meditazione dei testi liturgici di questa bella festa ci insegnerà a penetrare nelle sante profondità del Cristo Re e Pontefice e ci introdurrà così alle fonti della grazia, della santità e della vera e duratura felicità.

CAPITOLO VII

LE FELICI CONSEGUENZE DI QUESTA FESTA

L’enciclica sottolinea energicamente le felici conseguenze che devono derivare dall’istituzione di questa festa.  In relazione alla Chiesa. Questa festa dimostrerà che la Chiesa, la società perfetta, istituita da Gesù Cristo, ha diritti imperscrittibili, che gli Stati devono garantire la sua piena indipendenza e libertà di azione in tutte le questioni relative alla sua missione divina, che è proprio quella di promuovere questo regno benedetto del Cristo, procurando la salvezza delle anime. Bisogna che questa Chiesa debba poter governare liberamente attraverso il suo Capo visibile, il Romano Pontefice, Vicario di Nostro Signore, con la gerarchia composta dai Vescovi, dai sacerdoti e dai ministri, e anche con gli Ordini e gli Istituti che sono la prova vivente della sua meravigliosa fecondità.  – In relazione allo Stato religioso. Questo stato deve assicurare il regno del Salvatore, combattendo le tre grandi concupiscenze attraverso la pratica dei voti, e facendo risplendere nella Chiesa la nota o l’aureola della perfetta santità.  Questo è il magnifico insegnamento che San Tommaso aveva così ben formulato (S. TOMMASO, IIa IIæ q. 164) e che l’enciclica consacra solennemente. Il Papa indica il posto e il ruolo degli Ordini e degli Istituti religiosi nella società del soprannaturale: essi costituiscono lo stato di perfezione. « Essi fanno sì che la santità donata alla Chiesa dal suo divino Fondatore, come carattere e segno distintivo, risplenda sempre con maggiore splendore davanti allo sguardo dell’universo. »  Questa è una splendida apologia degli Ordini e delle Congregazioni: i religiosi hanno diritto alla libertà stessa di cui debba godere la Chiesa  società perfetta, perché Cristo è Re! – Sì, se Cristo è Re nella società, Egli chiede che la sua Chiesa e lo stato religioso, che appartiene all’integrità di questa Chiesa, godano della libertà indispensabile alla loro missione, che è quella di espandere il suo regno benedetto … In relazione alla società civile. Bisogna che essa debba essere governata secondo i principi del diritto cristiano. Cristo Re deve essere rappresentato nel tribunale, dove si fa giustizia; nella scuola, dove si insegna. Egli merita il culto pubblico nella città; e i capi di Stato saranno giudicati per aver violato questo diritto sovrano di Nostro Signore o per aver voluto rimanere neutrali. Questo è il grave monito del Sommo Pontefice alle Nazioni!  Nella direzione interiore delle anime. Riassumiamo ciò che abbiamo detto in precedenza. Gesù eserciterà il suo dominio su tutte le nostre facoltà: sullo Spirito e sulla volontà, che deve essere conforme ai giudizi ed alla volontà dell’unico Re; sul cuore e sugli affetti, per realizzare l’ideale che San Tommaso esprime in poche parole, cioè amare nulla e nessuno più di Dio, tanto quanto Dio, a malgrado Dio (S. THOM., IIa IIæ, q. 184, a. 3, ad 3); finanche sui nostri corpi e sulle nostre membra, che devono cooperare come strumenti nell’opera della giustizia e della santità, arma justitiæ Deo (Rom. VI, 18).  – Il vero Cristiano si ricorderà che servire Cristo è regnare; e così come santa Teresa provò una sorta di brivido quando sentì cantare le parole del Credo: Cujus regni non erit finis, anche noi saremo consolati dal pensiero che Cristo è per sempre nella gloria del Padre e che, se rimarremo legati a Lui senza riserve e senza ritorno, sarà vero il dire della nostra felicità e del nostro regno, come quello della sua beatitudine e del suo regno a Lui: non erit finis, non vi sarà fine! Abbiamo appena assistito ad una doppia proclamazione della regalità di Gesù Cristo; 1 un dottrinale, con questa magnifica enciclica, in cui tutta la dottrina è stata esposta con ampiezza; l’altro liturgica, con questa solenne festa, in cui la legge della preghiera esteriore è venuta a glorificare la legge della fede e del dogma. Sarà possibile desiderarne una terza, sia dottrinale che liturgico, se i vescovi e i cardinali e il Papa, in una parola, tutti i membri della Gerarchia, riuniti in un concilio ecumenico, definissero questo regno universale e celebrassero insieme davanti a tutto il mondo, di cui sono i rappresentanti spirituali, la solenne festa di  Gesù Cristo Re delle nazioni, delle società, dell’intero universo.  – Se questo trionfo completo è ancora lontano, i veri credenti possono prepararlo e con la loro vita veramente cristiana dire già: Cristo è vittorioso, Cristo regna, Cristo ha un impero assoluto. Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat…  Non bisogna dimenticare che, secondo le parole della Prefazio, la ragione per cui Gesù è Sacerdote sacro e Re, e proprio per questo è voluta l’Incarnazione, è la redenzione umana. L’unzione sostanziale che è l’unione ipostatica avviene affinché Cristo si offra Egli stesso sull’altare della croce. – Nostro Signore appare anche essenzialmente vittima così come Sacerdote e Re. La sua liturgia canta sempre di un’incarnazione redentrice, di un Uomo-Dio che è il Salvatore, e così ci invita ad andare fino al sacrificio di noi stessi per andare al fine all’amore….

FINE

LO SCUDO DELLA FEDE (132)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

(Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884)

PARTE SECONDA

CAPO XI.

Differenza che possa tra i veri martiri Della Chiesa, e i pretesi martiri delle sette.

I. Tutte le repubbliche han sempre costumato di onorar sommamente gli uomini giusti e gli uomini forti: avendo elleno, come nota Aristotile (1. Rhet. c. 10. n. 5), gran bisogno d’ambedue loro: di forti in tempo di guerra, di giusti in tempo di pace. Non è però da stupire, se tutte le sette abbiano ambito parimente l’onore de’ loro martiri come di uomini in cui veggono eminentemente accoppiate queste due virtù stimabili; la fortezza nell’incontrare la morte, e la giustizia nell’incontrarla a titolo il più bello di qualunque altro, qual è quello di testificare a favor della religione. Ma non accade promettersi di falsificare mai queste gemme sì pellegrine. È troppo chiara l’arte di scernere dalle vere le contraffatte. Stabiliscasi però in primo luogo ciò che si debba intendere per martirio.

II. Per martirio si debbe intendere una morte sofferta in testimonianza della verità, della virtù della fede (S. Th. 2. 2. q. 124. art. 1. etc.), E ciò basta a confondere tutti i maomettani, i quali ardiscono di collocare tra’ martiri i loro soldati morti in battaglia. Senonchè una frenesia somigliante cadde anche in capo a Foca imperatore d’oriente, quando egli entrò in pretensione, che i suoi soldati, guerreggiando contra i nemici della religion cristiana, e morendo per loro mano, si avessero da ciascuno in grado di martiri (Spond. an. 610. n. 2). Ma una tale ambizione fu rigettata, con sentenza concorde da tutti i Vescovi, i quali considerarono saviamente, non darsi il sangue da simili combattenti per confession della fede, ma per conservazione della repubblica: né darsi spontaneamente da chi non fa resistenza all’assalitore, ma vendersi piuttosto a prezzo accordato, da chi però tira soldo, e fa quanto può per uccidere l’avversario, non che da lui goda mai di restar ucciso ad onor divino.

III. Lasciato dunque un tale stuolo di martiri troppo impropri, favelliamo sol di coloro che hanno perduta puramente la vita in grazia della lor fede. E qui le sette, sì antiche come moderne, si arrogano di avere una copia grande di simili testimoni a loro favore: Vivebant ut latrones, honorabantur ut martyres, disse sant’Agostino dei donatisti, e dir si potrebbe, con debita proporzione, di vari eretici più moderni, che non cedono aniuno dei trapassati nell’ambir molto. Ma a capir meglio quanto ciò si arroghino invano, si vuole considerare come tre cose ne’ testimoni richieggonsi a piena pruova: il numero, la concordia, la dignità (S. Th. in Ps. 47).

I.

IV. Ora a rifarci dal numero: certa cosa è che le sette, appena nate, diramansi in molti capi, con divenire a poco a poco tante idre mostruosissime. Non possono dunque essere se non pochi color che muoiono per le loro credenze particolari; ne posson essere senonchè in pochi luoghi. Là dove i martiri della chiesa cattolica sono tanti, che a ripartirli in un anno, a tanti per dì, ne toccherebbero in ciascun di trentamila a solennizzare con propria festa (Genebr. in Ps. 78). E questi poi sono di modo distribuiti per l’ambito della terra, che non vi ha niuna provincia nel mondo antico, niuna del nuovo, che non sia inebriata altamente del loro sangue, o almeno bagnata. Siccome la virtù eroica de’ martiri e la loro fortezza doveva essere sempre un argomento invincibile a persuadere la vera religione, ed a dimostrarla; così in ogni luogo volle la provvidenza tenere accesi questi, dirò così, fanali di santità, i quali a tutte le genti fin da lungi scorgessero il vero porto. Pertanto se in tutti i tribunali il maggior numero vince sempre il minore, non saran certo sì temerarie le sette che vogliano mantenere tuttora il campo dopo il cimento, a guisa di vittoriose, se furono sì temerarie in entrarvi per cimentarsi.

V. Tanto più che queste, per essere così varie, come fu detto, nelle loro credenze, qual concordia potranno giammai provare ne’ testimonij da loro addotti a lor conto? A cagion d’esempio, la setta di Lutero, appena comparsa, si divise in più sette: sicché negli anni scorsi da lui fino al Bellarmino se ne annoveravano già da cento (Bellar. de not. Eccl. c. 10). Dal che ne viene che se per difenderle con audacia ne fosse stato abbruciato dagl’inquisitori un centinaio di persone (il che ne anche da loro può dimostrarsi), non più che un piccolissimo mucchio di tali ceneri toccherebbe a ciascuna di tante sette fra sé contrarie. L’istesso dicasi de’ calvinisti, degli anabattisti. degli zuingliani e di quanti altri in questi ultimi secoli hanno infettata co’ fiati pestilenziali de’ loro dogmi la nostra Europa. I loro testimoni non possono essere più concordi che i loro maestri, i quali, alzando nel loro capo un tribunale assoluto di religione, hanno oggi mai conseguito che tante sieno le fedi, quante le teste.

VI. Rimane sola dunque ad esaminarsi l’ultima condizione, ma la più forte di tutte le altre, che è la dignità di conseguire credenza a cagion de’ meriti.

VII. La nobiltà de’ natali, il senno, la sapienza hanno tanto di autorità, che tutti coloro i quali si presumono privi di tali doti, quali sono gli schiavi, i fanciulli, le femmine, i poverelli, sogliono per ciò solo venire esclusi dall’attestare ne’ tribunali, parendo la loro fede tanto men valida, quanto maggiormente venale. Se così è, dicano dunque gli adamiti e gli anabattisti, cioè coloro che fra gli altri settari si confidano più di poter mostrare molti ritratti dì martiri gloriosi uccisi per la loro fede: che nomi scrivono sotto di tali ritratti? Nomi di plebe vile, ignorante, ingannata, cui per lo più persuadevano i seduttori che, posta appena al supplizio, avrebbe veduto calare dal cielo gli angeli a liberarla fin dalle fiamme. Donde chiaro apparisce che ancor quei miseri tolleravano, è vero, ma diabolo possidente, non perseguente, come scrisse sant’Agostino di altri lor pari (Serm. 2 de s. Vinc.). Per contrario la fede cattolica, che pompa non può fare di cavalieri, di consoli, di patrizi, di condottieri di eserciti, di principi, di prelati, di regi illustri, di donne scese da stirpe ancor imperiale, di savi, di senatori, di letterati i più chiari al mondo, che incoronarono lo splendore del loro sangue e la sublimità del loro sapere, con la ghirlanda maestevole del martirio?

VIII. E questo è il meno in paragone della probità de’ costumi.

IX. La maggior parte de’ martiri menavano antecedentemente una vita sì religiosa, che quella sola poteva renderli venerabili al mondo per tutti i secoli. In ogni caso, certo è che in loro non punivasi altro che la profession cristiana, che è quanto dire punivasi l’innocenza: De vestris, rinfacciava a’ gentili già Tertulliano (In Apolog.) con lingua intrepida: de vestris semper æstuat carcer, de vestris semper metallo, suspirant, de vestris bestiæ saginantur. Nullus ibi Christianus, nisi plane tantum christianus: quod si et aliud, iam non christianus. Potranno forse non arrossire le sette, se con esse ragionisi di virtù? non potran certo, se non han la fronte incallita al pari del cuore. Ma non può sconvolgersi troppo questo pantano, altrimenti ne rimarrebbe infettata l’aria, tanto egli è sozzo. Solo accennerò brevemente che le due sette i cui seguaci sian morti con apparenza di più insolita intrepidezza, son quelle appunto, che da me furono rammemorate poc’anzi, cioè i nuovi adamiti nella Boemia, e i nuovi anabattisti nella Moravia, mentre di ambedue questi contan gli storici (Æneas Sil. hist. Boem. c. 21 Fior. Rem.) un andar lieto che facevano al palo apprestato ad arderli. Ora che una tale costanza in tutti quegli infelici non fosse intrepidità, ma bestialità trasfusa in loro da quello spirito reo che gli possedeva già da lungo tempo, ne può far fede la loro vita laidissima. Degli anabattisti basti il sapere che sì la comunanza delle mogli, sì la pluralità erano tra i primi articoli della lor riforma; ciò che sognato da Platone, quanto al primo, e preteso da Maometto, quanto al secondo, basterà a renderli sempre infami a tutti i legislatori (Gault. sec. 12. p. 659 e 660. Prateol. in Adamit,. Gault. sec. 16 in Anab. err. 11). Tra loro ogni donna era obbligata a soggettarsi alla lascivia di ogni uomo, e ogni uomo a saziar la libidine d’ogni donna: con una legge a cui non sono legati né anche i bruti, padroni in un tale genere di se stessi. E può stimarsi che la costanza di questi venisse poi da Dio più che dal diavolo? Mortis contemptum in martyribus pietas, in illis cordis duritia oreralur .S. Bern. sec. 66 in Cant.).

X. Oltre a ciò, quei che tra loro furono straziati in più strane guise, eran colpevoli non solo di esecrande disonestà, ma di fellonia manifesta, mentre sottraevano con sedizione espressa, sé e ciascun altro al dominio de’ loro principi, affermando che la libertà del vangelo richiede di non riconoscere alcun sovrano sovra la terra (Gault. 1. c. err. 17).

XI. E quel che è più, né anche ritrattavano i loro inganni e la loro empietà quando erano per morire, come nemmeno le sogliono ritrattare gli altri settari, che niente più abborriscono che il ridirsi, benché convinti. Un certo Lucilio, propagatore dell’ateismo per la Francia, preso in Tolosa, e condannato alle fiamme, in udirsi dir che chiedesse perdono a Dio, al re, alla giustizia, de’ suoi misfatti, rispose appunto così: Quanto al chieder perdono a Dio, non saprei come farlo, mentre io tengo, non esservi Dio veruno. Quanto al chiederlo al re, io mai non l’offesi; e quanto al chiederlo alla giustizia, vada ella pure al diavolo, che io non la riconosco; se pure non è una favola questa ancora, che dicono, dei diavoli (Gault. in Addit. an. 1719. c. 19).

XII. Di tal razza sono gli eroi che presso le sette rimangono in tanto merito, che si tenta di sollevarli fino agli altari, per quella ombra che mostrano di fortezza, la quale in sostanza non è fortezza, è protervia, è perversità, e però nuova colpa, e colpa spesso maggiore ancor delle antiche. Altro vi vuole a formare un verace martire: Martyres veros non pœna facit, sed causa (Aug. ep. 167). Tutta l’acqua del mare non è bastevole a fabbricare una perla, se ‘l cielo non entra a parte del bel lavoro con le sue rugiade purissime. E così parimente tutti i tormenti del mondo non possono fare un martire, se la grazia di Dio, qual rugiada di paradiso non entra a parte per disegnare, costituire, e compire sì nobil opera ordinata a morir per le verità insegnate da Cristo (S. Th. 2. 2. q. 124. a. 5. in c.).

XIII. Ma perché ancora que’ fuochi pazzi, i quali vanno per l’aria, si acquistano presso il volgo imperito il nome di stelle, per quella poca striscia di luce che gli accompagna nella loro funesta caduta; facciamoci a rimirar più di professione questa durezza con cui sono morti vari uomini scellerati tra gli ebrei e tra gli eretici, dannati al fuoco per li loro eccessi nefandi; e dimostriamo la differenza che v’ha tra la fortezza de’ veri martiri, e de’ supposti; considerando le condizioni che accompagnavano la loro morte, e gli effetti che la seguivano.

II.

XIV. La morte de veri martiri, così bella Come erane la cagione, veniva accompagnata continuamente da più miracoli: miracoli di pazienza, miracoli di potenza: di pazienza dalla lor parte, di potenza dalla divina. Qual miracolo di pazienza non fu vedere fino il sesso più imbelle di donne, di donzelle, di fanciullette, durar costanti fra quante orribili pene sapea mai specolare la crudeltà, piuttosto che piegare un solo ginocchio avanti una statua, in onta del vero Dio? Si sono bene ritrovati più eretici, andati incontro alla morte impavidamente: ma come furiosi, non come forti. Dei donatisti narra sant’Agostino (Epist. 56), che, durante tuttora il culto degl’idoli correvano a quelle infami solennità; non già per impedirle a qualunque rischio, ma per accrescerle, con farsi in compagnia di vari idolatri scannare anch’essi vittime a satanasso. Altri, scontrando passeggeri armati per via, minacciavan di ucciderli, se non venivano prima da loro uccisi, senza altro prò, che di accrescere il numero degli assassini. Ed altri da sé stessi ne andavano come matti, chi a balzare ne’ precipizi, chi a buttarsi ne’ pozzi, chi a slanciarsi d’accordo nelle fiumane, perché non fossero solamente que’ porci indiavolati, che tanto osarono nel lago de’ Geraseni. Ma che? vi sarà però chi mai dica che questi siano miracoli di pazienza? Sono questi miracoli di furore, simile a quello di Giuda, che col suo laccio fu l’ammaestratore di tali martiri. Pazienza è star fra’ tormenti con pace d’Angelo, come vi stavano i martiri Cristiani. Ma questa è quella che non sanno imitare i martiri del diavolo.

XV. Quindi è che gli eretici, se hanno talora incontrata anch’essi la morte, non solamente hanno sempre incontrato una morte breve, ma l’hanno incontrata di più con maniere improprie, superbe, spropositate, le quali, siccome non potevano in esse venir da Dio, che mai non opera senza infinita sapienza, né venire dalla natura, la qual da sé non le detta (come opposte al suo bene), ma le declina; così riman chiaro che venivan ne’ miseri dal diavolo loro dementatore, che non potendo operar né anche da più di quello che egli è, cioè da diavolo, se giammai gli ha sospinti a morti più acerbe, gli ha dipoi quivi subito abbandonati: mercecchè può ben egli dare temerità da incontrare qualsisia patimento senza atterrirsi, ma non può dare virtù di patir con pace. Michele Serveto, innovatore dell’arianismo, sentenziato in Ginevra al fuoco da chi non lo meritava meno di lui, cioè da Calvino: posto in quel tormento sì orribile, disperò: e muggendo a guisa di toro, chiese a’ giudici un coltello in prestito da uccidersi prontamente, ma non l’ottenne (Bellac. in Prœf. controv. de Christo). Onde altro non gli restò che morire arrabbiato, prima che arso. Ecco pertanto la pazienza ammirabile de’ settari, ecco la loro possanza! L’alchimia ha ben ritrovato modo di fissare l’argento vivo, sicché resista al martello: ma non già di fissarlo, sicché resista anche al fuoco. Può ben essere dunque che la ostinazione naturale di un cuore, avvalorata dagl’impulsi e dagli impeti del demonio, si fissi infino a sopportare i colpi di un dolore più comunale; ma dove si troverà che giammai si fissi alla prova di quei tormenti più intensi e più interminati, a cui non può stare salda la carne umana senza miracolo? Dove si vedrà mai fra tutte le sette chi reggesse a ventotto anni di martirio, come un Clemente di Ancira, che solo bastò a stancare più cesari furibondi, e a bagnare del sangue, da lui gettato senza risparmio, più provincie, ove andò prigione per Cristo? Un uomo tale può dalla Chiesa Cattolica opporsi solo, alla fortezza di tutti i falsi martiri delle sette, e un uomo tale può confonderli tutti. Ma che dissi un uomo? Una donna potrà anch’ella confonderli, benché sola. Mi si trovi in tutte le sette una verginella di tredici anni, com’era Agnese, che abbia mai sopportato tanto di strazi con eguale intrepidità: anzi con brio superiore aquel di qualunque sposa andata alle nozze. Non la troveranno in eterno: Una mulier, adunque, una mulier fecit confusionem in domo regis Nabuchodonosor (Iudith. XIV, 16). E quel che io dissi di una si invitta vergine, potrei dire di un figliuoletto ancora di dodici anni, quale fu Vito (15 Jun.). Chi hanno gli avversari da porgli afronte? Noi abbiamo un Agapito (18 Aug.) , un Marcellino (2 Ian.), un Marnante (27 Aug.), un Modesto (12 Febr.), un Venanzo (18 Maii), un Pontico (2 Iun.), un Pastore (6 Aug.), un Celso (12 Iun.), un Ammonio (12 Febr.), un Amonino (3 Sept.), e più altri fanciulli illustri, da potergli almeno mettere in compagnia. Ma i settari chi hanno? Ne pure un solo. Possono ben dunque le vespe imitare le api nel fabbricare i lor favi, ma non le possono imitar già nell’empire i favi di mele, non dico eletto, ma neppure comunale.

XVI. Che so dai miracoli di pazienza noi vorremo passare a quei di potenza, operati dal cielo, o affin di sottrarre i nostri martiri dai tormenti, o affine di farli in essi trionfar di giubilo; qui si che converrà a chi che sia de’ contrastatori seppellirsi ben tosto per confusione, non che nascondersi. Un tal calvinista (Gaul. Tab. Chron. in addit. p. 15, an. 1627) in Alencon di Normandia, condotto da’ suoi gravi eccessi alla forca si dichiarò di rimanersi nella sua perfida religione ostinato fino all’estremo. Appena fu però egli gittato giù dalle scale, che ecco a un tratto il capestro far da rasoio. Gli recide il collo ad un colpo: sicché cadendo il capo da una banda, il corpo dall’altra, ebber tutti a fuggir per lo spavento, cresciuto in sommo dal veder la lingua sacrilega rimasa da se sola attaccata al busto, quando dal busto n’era già divelta la gola. Di questo genere di miracoli avversi alla loro gloria, non favorevoli, sarebbe agevole a qualsiasi de’ settari addurre più d’uno, mentre più d’una volta ha la provvidenza voluto manifestare che la lor morte non è corona della fede, ma pena della perfìdia: Illorum mors non est fidei corona, sed pœna perfidiæ (S. Cyprian. I de simpl. Prælat.). Di altra qualità di prodigi in comprovazione della loro innocenza, o de’ loro insegnamenti, non ne recheranno pur uno. come né anche potranno un solo arrecarne di quella meravigliosa allegrezza, sì comune ai martiri nostri, e pure sì strana, che talora gli ha fatti chiamar vezzi le loro catene, rose i carboni, rugiade le caldaie, giorno di natale il giorno del loro martirio, baciandone gli strumenti per tenerezza, e rimunerandone i manigoldi per gratitudine come fe’ san Cipriano, che dichiarò su quell’atto, erede di tutto il suo chi lo decollò. Una fortezza volgare, mentrella incontra i pericoli per un bene non percettibile ai sensi, diviene per ciò solo fortezza eroica. Quanto più eroica dovrà dunque essere quella che per tal bene non solo incontra i pericoli, ma vi gode, ma vi gioisce? Potrà in un mare di pene far che scaturisca una fonte di paradiso altri che quel Dio che tanto cortesemente promise a’ suoi di cambiar loro in latte l’onde salmastre Inundationes marìs quasi lac suges (Deut. XXXIII. 19) Quindi si dice tanto giustamente de’ martiri, che fortes facti sunt in bello (Hæbr. 1. 31): non ante bellum, ma in bello, perché essi conseguivano la virtù nell’atto stesso di averla ad esercitare, che è il sommo indizio che in lor veniva dall’alto. Così una Felicita che sprezzò poscia intrepida e ferri e fiere, gemeva prigione tra le angosce del parto, perché diceva che nel parto toccava a lei di combattere co’ dolori, nel martirio avrebbe in lei combattuto per lei Gesù (Bar. an. 305). Quel corallo che nascosto sott’acqua non era più che erba molle, al veder il cielo s’indura come una gemma.

XVII. Non accadrebbe all’intento passar più oltre, tanto convien che cedano i novatori: ma non è men di ragione lasciare indietro quella testimonianza che della beata morte de’ martiri danno gli effetti a lei susseguenti, sì ne’ fedeli, che tanto più sempre crescono di fervore sì nella fede che tanto più si dilata sempre di culto. Fu sì da lungi che le carneficine usate ne’ martiri spaventassero i Cristiani accorsi a vederle, che anzi li ricolmavano quasi tutti di nuova lena. Un leone crocifisso, là nell’Africa presso Cartagine fu di sì gran terrore agli altri leoni, che, come è fama, non ardirono più di accostarsi a quella città, cui recavano dianzi continui danni (Plin. 1. 8. c. 16). In simile forma crederono i proconsoli e i presidenti di potere atterrire un tempo i fedeli, ponendo loro innanzi agli occhi spettacoli sanguinosi d’altri lor pari, lacerati, impiccati, infranti, arrostiti sulle vie pubbliche. E puro non sol la morte di pochi, ma la strage stessa di dieci mila per volta rincorava i vivi, e cambiava in tanti leoni fin gli agnelletti (dico i bambinelli innocenti), non che sgomentasse i leoni.

XVIII. Né all’esempio de’ martiri si accendevano puramente i fedeli, ma talora i nemici stessi, cambiatisi in professori animosi di quella fede, di cui erano dianzi arrabbiati persecutori. E può bramarsi miracolo più evidente? L’acque medesime, se sono troppo eccessive, sullo sfiorire di una vigna, l’abbattono nulla meno di una tempesta. E pure la vigna della Chiesa appena piantata fu sì robusta, che non pur le piogge di sangue, che la inondarono, ma i diluvi, valevano a fecondarla felicemente, non a distruggerla. È celeberrimo il detto di Tertulliano (In Apolog. in fine): Plures effìcimur, quoties metimur a vobis. Semen est sanguis christianorum – (Tipo vivente dei martiri cattolici è Cristo Gesù. siccome quegli, che diede la vita in olocausto a Dio sopportando il massimo dei tormenti per la più santa delle cause, la salute delle anime umane. A quel tipo s’inspirarono i martiri cristiani di tutti i tempi e luoghi: da esso attinsero la forza sovrumana e la costanza che spiegarono in omaggio alla fede: in essa dimora la ragione, per cui il sangue dei martiri, a dire di Tertulliano, era seme di nuovi credenti); – concorrendo a sì prodigiosa fertilità l’agricoltore divino, con la forza di quella grazia che egli infondeva negli animi più protervi, e concorrendovi i martiri con l’efficacia di quell’esempio che davano più che mai sull’estremo passo, mentre morivano vittime di carità verso Dio, stando con l’anima tutta in Gesù crocifisso, idea di martirio: e vittime di carità verso il prossimo, pregando per quegli stessi che li martirizzavano sì empiamente, quasi ferro infocato, che percosso più sull’incudine, più sfavilla. Mostrino ora le sette ne’ loro pretesi martiri una carità somigliante. Ma dove la troveranno, se non la fingono? La loro virtù maggiore consisteva in morire non bestemmiando: a guisa di quei monti bituminosi, che allora solamente sono innocenti quando stanno cheti, né scagliano dalle viscere fuoco e fiamme a ferire il cielo. Qual meraviglia però che la morte dei loro non abbia mai vantaggiato il loro partito, ma sempre diminuitolo? La loro pertinacia, come era naturale o era diabolica, così non aveva forza di muovere mai veruno ad abbracciare la rea setta in cui si morivano, ma valeva solo a renderla più esecranda. Quella fiamma che imbianca l’argento vero, consuma l’artifiziato. Se là vite secca si poti, non però rigermoglia come la verde. E se il seme guasto si seppellisca, non per questo moltiplica come il sano.

LA FESTA DI CRISTO-RE (2)

LA FESTA DI CRISTO-RE (2)

R. P. Edouard HUGON, o. P.

MAESTRO DI TEOLOGIA PROFESSORE DI DOGMATICA AL COLLEGIO PONTIFICIO « ANGELICUS » DI ROMA E MEMBRO DELL’ACCADEMIA ROMANA DI S. TOMMASO D’AQUINO

LA FESTA SPECIALE di GESÙ-CRISTO RE

QUINTA EDIZIONE Rivista ed accresciuta.

PARIS (VIe) PIERRE TÉQUI, LIBRAIRE-ÉDITEUR 8a, RUE BONAPARTE, 83 1938

APPROVAZIONI

Visto ed approvato:

Roma, Angelico, il 10 aprile 1927. Fr. Ceslas PABAN-SEGOND, O. P. Maître en S. Théologie.

Fr. Réginald GARRIGOU-LAGRANGE, O. P. Maître en S. Théologie.

PERMESSO DI STAMPA:

17 aprile 1927. Bonaventura GARCIA DE PAREDES. Mag. Gen. Ord. Frnt. Prædic.

IMPRIMATUR:

Parisiis, die 5 a decembris 1927. V. DUPIN, v. g.

CAPITOLO III.

COME QUESTO POTERE REALE DI CRISTO SIA UNIVERSALE, SU TUTTI GLI UOMINI E SU TUTTE LE SOCIETÀ.

Il Salvatore è re su tutti coloro sui quali si irradia l’influenza della sua grazia capitale (Cf. S. THOM., III a , q. 8). Questa azione si manifesta nei beati, ai quali ha meritato grazia e gloria, e nei giusti, ai quali comunica grazia e carità. Si estende ai fedeli, anche ai peccatori, che da lui derivano le virtù soprannaturali della fede e della speranza; si estende anche agli scismatici, agli eretici, agli ebrei, ai pagani e agli infedeli, perché tutti ricevono da lui l’aiuto dell’illuminazione e dell’ispirazione per uscire dalla loro miseria e raggiungere la salvezza. Per questo Papa Alessandro VIII, il 7 dicembre, 1690 (Denzig. 1295), ha condannato questa proposizione: « I gentili, gli ebrei, gli eretici e gli altri che si trovano in tali condizioni non ricevono in alcun modo l’influenza di Cristo. » Egli è morto per tutti e per ciascuno; tutti sono una sua vera conquista. « Ci sono popoli che non hanno né l’Eucaristia, né il Battesimo, né i sacerdoti; ma non ce n’è nessuno del tutto estraneo all’influenza del Verbo fatto carne. Anche le nazioni più degradate, immerse nell’ignoranza e nel crimine, sono talvolta visitate dall’Uomo-Dio: perché, nonostante tutto, ricevono luci, bagliori soprannaturali illuminanti, grazie attuali, ed è questa l’attività strumentale della gloriosa Umanità che porta loro questo aiuto (La causalità strumentale). »  Gli Angeli stessi devono a Gesù Cristo certe grazie, certe nuove gioie o glorie accidentali, perché l’Incarnazione, elevando gli uomini al livello dei cori angelici, ripara le rovine che il peccato aveva fatto nelle gerarchie celesti, e perché la contemplazione di una così perfetta Umanità aggiunge stupore alla loro felicità.  Non comunica Egli più la vita soprannaturale ai dannati, ma regna ancora con la sua giustizia su tutti coloro che non hanno voluto lasciarlo regnare con misericordia ed amore.

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Da tutto ciò che abbiamo appena esposto risulta con assoluta ovvietà che la regalità di Gesù Cristo come eredità e in virtù dell’unione ipostatica si estende a tutte le creature senza eccezione, e che la sua regalità come conquista e per grazia capitale si estende a tutte le creature ragionevoli, specialmente agli uomini, redenti dal suo sangue.  E poiché Egli ha riparato tutta la nostra natura, corpo e anima e facoltà, deve regnare nel nostro interno, che Egli divinizza con la grazia santificante; nella nostra intelligenza, che deve accettare il suo dogma ed i suoi insegnamenti; nella nostra volontà, che deve piegarsi ai suoi precetti; nel nostro cuore e nei nostri affetti, perché non amiamo nulla e nessuno più di Lui, invece che Lui (Cf. S. THOM., lIa, IIæ, q. 184, a. 3, ad 3); nei nostri membri, che devono cooperare come strumenti all’opera della giustizia e della santità, per la sua gloria e il suo onore, arma justitiæ Deo (Rom. VI, 13). – Le stesse ragioni dimostrano che questa regalità deve essere universale, su tutta la società. Riuniti e raggruppati nella società, gli uomini non possono essere allontanati dall’impero del Salvatore, e i doveri che incombono agli individui vincolano la nazione, la patria, gli Stati, che sono assoggettati a Dio e al suo Cristo, ancor più che l’uomo privato. Il Cardinale Pie difendeva valorosamente questi diritti divini contro le negazioni dell’incredulità e del liberalismo; in questo senso citava la magnifica lettera di Sant’Agostino a Macedonio, alto funzionario dell’impero: « Sapendo che voi siete un uomo sinceramente desideroso della prosperità dello Stato, vi chiedo di osservare come sia certo, con l’insegnamento delle Sante Lettere, che le società pubbliche partecipano ai doveri dei privati e possono trovare la felicità solo dalla stessa fonte. » – « Benedetto – diceva il Re Profeta – il popolo il cui Dio è il Signore. » Questo è il voto che dobbiamo augurare nella nostra società di cui siamo cittadini; perché la patria non può essere in alcuna condizione diversa dal singolo cittadino, poiché la città non è altro che un certo numero di uomini ordinati secondo la stessa legge. E per stabilire che la società debba sottomettersi alla regalità di Cristo, il Vescovo di Poitiers dichiara: « Il regno visibile di Dio sulla terra è il regno del Figlio suo incarnato, e il regno visibile del Dio incarnato è il regno permanente della sua Chiesa…. Il dogma cattolico consiste interamente nella sequenza di queste tre verità: un Dio che abita in cielo; Gesù Cristo, il Figlio di Dio inviato agli uomini; la Chiesa come organo permanente e interprete di Gesù Cristo sulla terra. Ora queste tre verità collegate tra loro sono il triplo pacchetto che non può essere infranto (La regalità sociale del Cristo secondo il Cardinal Pie, p. 32 – S Aug. P. L. XXXII, 670). »

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Per dimostrare i diritti sovrani di Cristo sulle nazioni e sugli stati, è sufficiente ricordare che  Egli è come Dio, autore, conservatore, benefattore della società, e come il Verbo Incarnato il principio e la fonte da cui le società derivano, per le società come per gli individui, le energie indispensabili per la salvezza e la prosperità. Innanzitutto, è chiaro che Dio è l’autore della società, perché è da Lui, come ben spiega Leone XIII, che deriva da l’autorità, senza la quale non esiste un governo (Encyclic. Immortale Dei, 1 nov. 1885. LEONIS XIII PP. ACTA, VOL. V, p. 120). E, allo stesso modo che ogni creatura ha bisogno della continua influenza di Dio per sussistere e del suo soccorso immediato per agire e tendere al proprio fine, così la società ha bisogno dell’aiuto incessante di Dio per vivere, svilupparsi, progredire, per raggiungere la sua perfezione. Ecco perché, aggiunge Leone XIII, la società esteriore che riceve tali benefici dal suo Autore, è vincolato da un rigoroso dovere di onorare Dio con un culto pubblico, religione publica satisfacere. Ma, nelle attuali condizioni di caduta, la nostra povera umanità è come il viaggiatore di Gerico, spogliato, ferito, mprente (S. Luc, IX, v. interp. di Beda ven.P. L., XCIÏ, 468, 469), con il libero arbitrio indebolito, incline al male, infirmatum, viribns attenuatum et inclinatum, secondo l’espressione del Concilio di Orange (can. XIII) e del Concilio di Trent (Sess. VI, cap. 1). San Paolo, Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, Sant’Agostino, San Tommaso, si dicono, con irresistibile eloquenza che l’uomo non è in grado di osservare la legge naturale senza la grazia del Mediatore (S. PAUL, Rom., VII, 17-25; S. AUGUSTIN, Serm., 248, P. L., XXXVIII, 1160; S. AMBROS., In ps. XLlII, 71, P. L., XIV, 1123; cf. THOM., Ia IIæ, q. 109. a. 4 et a. 8). Se gli individui non possono, senza tale aiuto, mantenere l’onestà fondamentale del Decalogo, come potrà esservi fedele la società intera, se non rigenerata dalla virtù divina? Ora, tutta l’energia divina, tutte gli aiuti soprannaturali, tutta la grazia, sono elargizione dell’Incarnazione, essendo Cristo l’unica fonte necessaria a cui rivolgersi per avere la vita. E’ per le società, non meno che per gli individui, che San Pietro ha detto: « Non c’è salvezza se non in Lui, e non c’è altro Nome che promette la salvezza alla razza. decaduta ( Act. IV, 12). – Inoltre, la storia è lì per dimostrare che la civiltà avanza o indietreggia nella stessa misura dove la società accetta o rifiuta il beato regno di Gesù-Cristo, che tutto ciò che è squisito nelle nazioni moderne viene a loro dal Vangelo, che i popoli, ingrati come sono, si abbeverano alla luce di Cristo e della Chiesa. Il nuovo Adamo, che è Cristo, spiega Leone XIII, ha istituito la vera fraternità umana, fraternità di individui tra di loro e tra le nazioni (12Leone XIII, lettera ai Vescovi del Brasile, 5 maggio 1888, Acr. LEONIS PAPA XIII, t. VIII, P. 175). Le nazioni, aggiunge Pio XI, hanno bisogno della pace di Cristo nel regno di Cristo (Act, Apost. Sed. Dic. 1922) . « La terra tremerà alla sua base ed inquieta nelle sue viscere – esclamava Mons. Pie, Vescovo di Poitiers – non troverà il suoi assetto fino a quando uno scossone favorevole avrà riparato la perturbazione ed i disordini portati all’equilibrio politico del mondo cristiano dalla scomparsa del suo capo (op. cit. p. 184). » Ma, se è vero che Nostro Signore è la fonte dei veri beni per gli individui, le famiglie, le nazioni, è ugualmente manifesto anche che tutti gli uomini e tutte le società hanno l’obbligo di riconoscere i suoi benefici, che le autorità pubbliche non saprebbero senza iniquità sottrarre al loro regno sociale. – Tale è la sostanza di questa dottrina indiscutibile: Gesù Cristo è il Re delle nazioni e delle società: come Dio allo stesso titolo come il Padre; come uomo in virtù dell’unione ipostatica, perché fornisce loro i mezzi e i soccorsi senza il quale non possono raggiungere la loro prosperità ed il loro fine completo (Quest’ultimo può essere riassunto come segue: Le nazioni e le società devono riconoscere come loro sovrano Colui dal quale ricevono come da una fonte costante l’aiuto di cui hanno bisogno per raggiungere il loro fine. Ora Cristo stesso come l’uomo è il principio secondo il quale le nazioni e le società ricevono questi indispensabili soccorsi. Così tutto il Cristo ed anche come uomo deve essere riconosciuto come il sovrano delle nazioni e delle società. – L’enciclica afferma espressamente che si tratterebbe di un errore grossolano contestare a Gesù-Cristo uomo l’impero assoluto su tutte le cose civili: « Turpiter, ceteroquin, erret
qui a Christo homine rerum civilium quarumlibet imperium abjudicet. » Act. Apost. Sedis,
XVII. 600. 

CAPITOLO IV

NECESSITÀ DI PROCLAMARE SOLENNEMENTE QUESTA REGALITÀ NEL NOSTRO TEMPO.

Se mai ci fosse mai un momento per affermare e vendicare i diritti di Dio, è sovranamente necessario proclamarli ora, nella nostra epoca in cui il crimine è l’apostasia della società, come se questa potesse impunemente fare a meno di Dio. «Il crimine principale che il mondo sta espiando in questo momento – scriveva il cardinale Mercier nella sua Pastorale del 1918 – è l’apostasia ufficiale degli Stati. Non esito a proclamare che questa indifferenza religiosa, che mette sullo stesso piano la Religione divina e le religioni di umana invenzione così da avvilupparle tutte nel medesimo scetticismo, è una blasfemia che ancor più che i crimini degli individui e delle famiglie, richiama sulla società il castigo di Dio. » Il cardinale Pie aveva detto la stessa cosa: “Al presente Gesù Cristo è cacciato dalla società con la secolarizzazione assoluta delle leggi, dell’educazione, del regime, amministrative, delle relazioni internazionali e dell’intera economia sociale (Op. cit., p. 47- Vedi questa seconda parte: Apostasia delle nazioni moderne e sue conseguenze) ». – Per riparare questo crimine della lesa-divinità, dobbiamo esaltare Gesù Cristo come Re universale, degli individui, delle famiglie, delle società. Questo sarà la confutazione pratica del laicismo, che è una delle più grandi calamità del nostro tempo. Ci sono tre forme principali che bisogna combattere. Il laicismo sostiene innanzitutto che la religione sia una questione puramente privata, di cui le autorità pubbliche non debbano occuparsi, che la sua nozione lo escluda persino dai doveri della società. – Se viene proclamata la regalità universale di Cristo, se viene riconosciuto il suo regno sociale, l’errore immediatamente è colpito nella sua radice e ugualmente così trionfa la verità che esprimeva Leone XIII: « È evidente che la società è legata a Dio da numerosi doveri di primaria importanza, ai quali debba soddisfare rendendo a Dio un culto pubblico. La natura e la ragione, che prescrivono agli individui di onorare Dio perché sono nelle sue mani, vengono da Lui e devono tornare da Lui, dicono anche che la stessa legge obbliga la società civile (Leone XIII, Encyclic. Immortale Dei, Acta, vol. V, p. 123). » – In secondo luogo, il laicismo insegna che se si deve seguire una religione, si possa seguire, si possa scegliere quella che più piace, e che la società è assolutamente libera … di rimanere neutrale. – La solenne proclamazione del regno universale di Gesù Cristo colpisce questa nuova forma di errore e dice al mondo che l’unica vera religione è quella che il Figlio di Dio si è degnato di portarci. « Nel culto che dobbiamo alla divinità – continua Leone XIII – dobbiamo assolutamente seguire quello che Dio stesso ha determinato in modo manifesto. » Ora non è difficile capire quale sia la vera religione, se si considerano, con prudente e sincero giudizio, i numerosi ed eclatanti argomenti che lo stabiliscono: la verità delle profezie, l’abbondanza miracoli, la rapida diffusione della fede in mezzo a nemici ed ostacoli di ogni tipo, la testimonianza dei martiri. Queste ed altre prove simili dimostrano che esiste una sola vera religione, quella che Gesù Cristo ha istituito e della quale ha incaricato la sua Chiesa di diffondere e propagare (Ibid., p. 123, 124). » Infine, ciò che caratterizza il laicismo è l’odio e l’orrore che ha del soprannaturale. Il diavolo ha peccato fin dall’inizio (Cf. S. THOM., Ia, q. 63, a. 3), rifiutando il soprannaturale propriamente detto, e allo stesso modo il laicismo, che è lo spirito satanico, si fa un dogma ed una religione nel combattere il soprannaturale con ogni mezzo possibile e per escluderlo dall’umanità. Si può dire che tutta la lotta attuale non sia, in ultima analisi, che una lotta contro il soprannaturale. – Ora il soprannaturale si manifesta efficacemente nel Verbo incarnato per la nostra redenzione. Quindi, dal momento che Gesù Cristo viene riconosciuto Re universale, e si promulga così la necessità e la verità del soprannaturale, il laicismo è rifiutato mentre nel contempo si afferma la missione divina della Chiesa. « Il Figlio unico di Dio – dice Leone XIII nello stesso documento, istituì sulla terra una società, la Chiesa, alla quale affidò l’alta e divina missione di trasmettere fino alla fine dei secoli ciò che Egli stesso ha ricevuto dal Padre: come il Padre ha inviato me, così Io mando voi. » Colpendo il laicismo questa proclamazione affretterebbe il completamento del magnifico programma di Pio IX: « La pace del Cristo nel regno del Cristo ». La pace, secondo una famosa definizione di Sant’Agostino, è la tranquillità dell’ordine: tranquillitas ordinis (S.AUGUSTIN, De Civit. Det, lib. XV, c. XIII; P. L., XLI, 640.). E l’ordine chiede che, ovunque ci sia pluralità, disuguaglianza, diversità, ogni cosa sia al suo posto: Parium dispariumque rerum sua cuique loca tribuens dispositio. Così, al fine di garantire la pace, è necessario stabilire l’ordine, e per stabilire l’ordine bisogna mettere ogni cosa al proprio posto. – Nell’individuo, la pace richiede che il corpo sia sottomesso all’anima, gli appetiti inferiori alla ragione, e la ragione a Dio; nell’universo intero, la pace richiede che tutte le società, la famiglia, la patria, le nazioni, siano soggette a Cristo Re come Cristo è soggetto al Padre. Proclamare Gesù Re universale ed espandere il suo regno, significa preparare e garantire la pace, e allo stesso tempo il trionfo della Chiesa, “No –  esclama Bossuet, no, Gesù Cristo non regna se la sua Chiesa non è autorizzata; i pii monarchi lo hanno ben riconosciuto; e la loro autorità, oso dirlo, non è non è stata più cara che l’autorità della Chiesa (BOSSUET, Terzo sermone per la domenica delle Palme). ». Pio XI aveva perfettamente ragione a dire nella sua prima enciclica: « Non possiamo lavorare più efficacemente per la pace che restaurando il regno di Cristo (Act. Apost. Sed., XIV, 690). » Gli eventi attuali aggiungono a questo linguaggio una brillante e dolorosa conferma. Il movimento Bolscevico che, dopo aver devastato la Russia, si sta diffondendo in Oriente e minaccia di invadere il mondo musulmano, e a poco a poco anche l’Europa, dovrebbe farci comprendere chiaro che lo spirito del male regna dove il Cristo non regna più,  « Quando la religione non è più la mediatrice tra i re ed i popoli, il mondo è alternativamente vittima degli eccessi degli uni e degli altri. Il potere, libero da ogni freno morale, si erge in tirannia, fino a quando la tirannia – divenuta intollerabile – non porta al trionfo della ribellione. Poi dalla ribellione esce qualche nuova dittatura, ancor più odiosa” delle precedenti (Cardinal Pie, nell’opera citata, p. 68) ». Il mezzo dunque per scongiurare l’immenso pericolo dei nuovi tempi è quello di proclamare e stabilire il regno di Gesù-Cristo, così come quello della sua Chiesa, perfetta società spirituale, con i suoi dogmi immutabili, la sua morale intangibile, i suoi diritti imprescrittibili. – Un’altra utilità di questa proclamazione, sarà il temprare i caratteri. Ciì che troppo spesso è mancato ai Cristiani del nostro tempo è questa energia, questo valore, questa costanza alle quali sono riservate le grandi vittorie. Ma se essi avessero davanti ai loro occhi il Cristo Re, che li invita a lottare per la sua causa, si sentirebbero attratti da lui, applicando le parole dell’Apostolo: Lavorate come il buon soldato di Cristo Gesù (II Tim. III). – Per riassumere il tutto in poche parole: dichiarare autenticamente la regalità universale di Nostro Signore è quindi proclamare per gli individui, le famiglie, le nazioni, tutte le società, l’obbligo di sottomettere a Cristo tutte le intelligenze attraverso la fede nella sua dottrina, tutte le volontà, tutte le leggi e la vita intera, con la completa obbedienza ai suoi comandamenti ed un efficace riconoscimento della sua Chiesa.

LA FESTA DI CRISTO-RE (3)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (7)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [7]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XVII.

Che non abbiamo da mettere la nostra confidenza ne’ medici né nelle medicine, ma in Dio, e che dobbiamo conformarci alla volontà sua non solo in ordine all’infermità, ma anche in ordine a tutte le altre cose che sogliono accadere in essa.

Quel che s’è detto dell’infermità si ha da intendere ancora delle altre cose che sogliono occorrere nel tempo di essa. S. Basilio dà una dottrina molto buona per quando siamo infermi (D. Basil, in reg. fusius disp. 55). Dice, che talmente abbiamo da valerci dei medici e delle medicine, che non mettiamo in ciò tutta la nostra fiducia; il che non avendo fatto il re Assa, per ciò la sacra Scrittura ne lo riprende: Nec in infirmitate sua quæsivit Dominum, sed magis in medicorum arte confìsus est (II. Paralip. XVI, 12). Non abbiamo d’attribuire a questo tutta la cagione del guarire, o non guarire dall’infermità; ma abbiamo da mettere tutta la nostra fiducia in Dio, il quale alcune volte vorrà darci la sanità col mezzo di queste medicine, ed altre volte no. E così quando ci mancherà il medico e la medicina, dice S. Basilio, che né anche abbiamo perciò da sconfidarci della sanità; perché, siccome leggiamo nel sacro Evangelio, che Cristo nostro Redentore alcune volte risanava colla sola volontà (nel qual modo risanò quel lebbroso che gli disse: Domine, si vis, potes me mundare (Matth. VIII, 8.): Signore, se tu vuoi, mi puoi mondare; ed Egli rispose: Volo: mundare (ibid. 3): Voglio: sii mondo, altre volte risanava applicando qualche cosa come quando fece il loto collo sputo, ed unse gli occhi del cieco, e gli comandò che andasse a lavarsi nella natatoria, o fontana di Siloe (Joan IX, 2), ed altre volte lasciava gli infermi nelle loro infermità, e non voleva che guarissero, ancorché spendessero tutte le facoltà loro in medici e medicine (Marc, V, 26); così anche adesso, alcune volte Dio dà la sanità senza medici e senza medicine, per mezzo della sola volontà sua; alcune altre le dà col mezzo delle medicine; e alcune altre, benché uno chiami e consulti con molti medici, e gli siano applicati grandi rimedi, Dio non gli vuol dare la sanità; acciocché con questo impariamo a non metter la nostra fiducia ne’ mezzi umani, ma solamente in Dio. Siccome il re Ezechia non attribuì la sua guarigione a quella massa di fichi che Isaia pose sopra la sua piaga (IV. Reg. XX, 7), ma a Dio, così tu quando guarirai dall’infermità, non hai da attribuirlo ai medici né alle medicine, ma a Dio, che è quegli che risana tutte le nostre infermità. Etenim neque herba, neque malagma sanavit eos: sed tuus. Domine, sermo, qui sanat omnia (Sap. XVI, 12): Che non sono le erbe né gl’impiastri quei che guariscono, ma Dio. E quando non guarirai, né anche ti hai da lamentare de’ medici né delle medicine; ma hai da attribuire ogni cosa a Dio, il quale non vuol darti la sanità, ma vuole che stia infermo. Similmente quando il medico non ha conosciuta l’infermità, ovvero ha fatto errore nel medicare (cosa che accade assai spesso anche a gran medici e in gran personaggi), hai da pigliar quell’errore per un effetto e adempimento della volontà di Dio, e così ancora la trascuraggine e negligenza e il mancamento dell’infermiere: onde non hai da dire, che per lo tal mancamento fatto teco ti sia tornata la febbre; ma ogni cosa hai da pigliare come venuta dalla mano di Dio, e dire: È piaciuto al Signore che mi sia cresciuta la febbre e che mi sia venuto il tale accidente. Perciocché è cosa certa, che quantunque relativamente a quei che ti governano questo sia stato errore; nondimeno relativamente a Dio è stato effetto e adempimento della sua volontà, atteso che rispetto a Dio non succede cosa alcuna a caso. Pensi tu, che il passare delle rondinelle e l’acciecare col loro sterco il santo Tobia fosse a caso? non fu a caso, ma una molto particolare disposizione e volontà di Dio per darci in questo santo uomo un raro esempio di pazienza, come nel santo Giob: e così lo dice la divina Scrittura: hanc autem tentationem permisit Dominus evenire illi, ut posteris daretur exemplum patientiæ ejus, sicul et sancti Job (Tob. I, 12.). E l’Angelo gli disse poi: Quia acceptus eras Deo, necesse fuit, ut tentatio probaret te (Ibid. XII, 13): Per provarti, Dio ti ha permesso questa tribolazione. – Nelle Vite dei Padri si racconta dell’abbate Stefano (De abb. Steph. refert etiam D. Dor. doctr. 7), che essendo infermo volle il compagno fargli una frittatella, e pensandosi di farla con olio buono, la fece con olio di seme di lino, che è molto amaro, egliela diede. Stefano, tosto che l’ebbe sentita, ne mangiò un poco, e tacque. Un’altra volta gliene fece un’altra nel medesimo modo, e gustandola e non volendola mangiare, il compagno gli disse: Mangia, Padre, che è molto buona: e fattosi ad assaggiarla egli stesso per indurlo a mangiare, sentita l’amarezza, cominciò ad affannarsi e a dire: Io sono omicida. Allora gli disse Stefano: Non ti turbare, figliuolo, che se Dio avesse voluto, che tu non errassi in pigliar un olio per un altro, non l’avresti fatto. E di molti altri Santi leggiamo, che pigliavano con grande conformità e pazienza i rimedi che si facevano loro, ancorché fossero contrari a quello che ricercava la loro infermità. Ora in questa maniera abbiamo noi altri da pigliar gli errori, le trascuraggini e le negligenze sì del medico, come dell’infermiere, senza lamentarci dell’uno né incolpar l’altro. Questa è una cosa nella quale si scopre e si dimostra grandemente la virtù di un uomo: onde edifica grandemente un Religioso infermo il quale piglia con tranquillità d’animo e con allegrezza ogni cosa come venuta dalla mano di Dio, e si lascia guidare e governare dai Superiori e dagli infermieri, dimenticandosi, e deponendo totalmente ogni cura e sollecitudine di se stesso. Dice S. Basilio: Se hai confidata l’anima tua al Superiore, perché, non gli confidi ancora il tuo corpo? Se hai posta nelle mani di lui la salute eterna, perché non v’hai da mettere ancora la temporale (D. Basil, in reg. fusius disp. reg. 48)? E poiché la Regola ci dà licenza di deporre allora ogni pensiero del nostro corpo, e ce lo comanda (3 p. Const. c. 2, litt. G); dovremmo stimar grandemente questa cosa e valerci di così giovevole licenza. Al contrario dà molto mala edificazione il Religioso infermo, quando ha gran cura di sé, e di quel che gli hanno da dare, e come glielo hanno da dare, e se lo servono a puntino; e quando no, sa molto ben lamentarsi, e ancora mormorare. Dice molto bene Cassiano: L’infermità del corpo non è impedimento alla purità del cuore, anzi le serve d’aiuto, se si sa pigliare come dee essere pigliata. Ma guardati, dice (Cass. lib. 5, de inst. renun. c.7), che l’infermità del corpo non passi all’anima: che se uno s’inferma in questa maniera, e piglia occasione dall’infermità di far la volontà sua, e di non essere ubbidiente e rassegnato; allora l’infermità passerà all’anima, e farà che l’infermità spirituale dia più da pensare al Superiore, che la corporale. Non per esser uno infermo che lasciar di mostrarsi Religioso, né  pensare, che non vi sia più Regola per esso, e che può mettere ogni sollecitudine per pensare alla sua sanità e al buon governo del suo corpo, e dimenticarsi di quel che concerne il suo profitto. – L’infermo, dice il nostro S. Padre, dimostrando la sua umiltà e pazienza, non meno procuri di dare edificazione nel tempo dell’infermità a coloro che lo visiteranno, e seco converseranno e tratteranno, che quando era sano, per maggior gloria di Dio (Reg. 50 Summa). S. Gio. Crisostomo sopra quelle parole del Profeta, Domine, ut scuto bonæ voluntatis tuæ coronasti nos, trattando, come finché dura questa nostra vita, sempre v’è battaglia: Sempre, dice, abbiamo d’andar armati per essa; et ægroti, et sani: morbi enim tempore hujus maximæ pugnæ tempus est; quando dolores undique conturbant animam; quando tristitiæ obsident; quando adest diabolus incitans, ut acerbum aliquod verbum dicamus (D. Chrys. in Psal. V, 13): Il tempo dell’infermità è tempo molto proprio da star bene armati e ben preparati per combattere, quando da una banda i dolori ci turbano, la tristezza ci assedia, e il demonio, presa da ciò l’occasione, c’incita e stimola a parlare con impazienza e a lamentarci soverchiamente: e così allora è tempo di esercitare e mostrar la virtù. Per fin Seneca disse colà (Sen. ep. 78), che l’uomo forte ha occasione di esercitare la sua fortezza non meno nel letto mentre patisce infermità, che nella guerra combattendo contro i nemici; perché la principal parte della fortezza consiste più nel soffrire che nell’assalire: e così il Savio disse, che è migliore l’uomo paziente che il forte: Melior est patiens viro forti, et qui dominatur animo suo, expugnatore urbium (Prov. XVI, 32).

CAPO XVIII.

Si conferma quel che s’è detto con alcuni esempì.

Si legge della santa vergine Gertrude, che una volta le apparve Cristo nostro Redentore, il quale nella mano destra portava la sanità e nella sinistra l’infermità, e le disse, che s’eleggesse quel che voleva: al che ella rispose: Signore, quel che io desidero di tutto cuore, è, che voi non guardiate alla volontà mia, ma che facciate in me quello che sia per risultare a maggior gloria e gusto vostro ((3) Blos. c. 11 monil. spir.). Si racconta di un uomo devoto di san Tommaso Cantuariense (Marulus lib. 5, c. 4, et Jacob de Varagine), che essendo infermo andò al sepolcro del Santo a chiedergli, che pregasse Dio per la sua sanità; e la conseguì. Ritornando poi sano alla sua patria, si pose a pensar fra se stesso, che se l’infermità gli era conveniente per salvarsi, a che effetto desiderava la sanità? E gli fece tanta forza questa ragione, che ritornato al sepolcro, pregò il Santo, che chiedesse per lui a Dio quello che gli era più spediente per salvarsi; e così Dio gli rimandò l’infermità; ed esso se ne stette molto consolato con essa, conoscendo che quello era ciò che più gli conveniva. Il Surio nella vita di S. Bedasto Vescovo mette un altro esempio simile d’un uomo cieco, il quale nel giorno della transazione del Corpo di questo santo Vescovo desiderò grandemente vedere le sue sante Reliquie, e conseguentemente d’avere la vista per tal effetto. La conseguì dal Signore, e vide quello che egli desiderava; e ritrovandosi colla vista, tornò a far orazione, che se quella vista non gli era conveniente pel bene dell’anima sua, gli fosse restituita la cecità: e fatta questa orazione, ritornò cieco come prima. Narra S. Girolamo (D. Hieron. ep. ad Castr. cæcum), che essendo santo Antonio abbate chiamato da S. Atanasio vescovo alla città d’Alessandria, per aiutarlo a confutare e ad estirpar le eresie che ivi regnavano, Didimo, il quale era un uomo eruditissimo, ma cieco degli occhi corporali, trattò con sant’Antonio molte cose delle sacre Scritture, di maniera tale che il Santo restava ammirato dell’ingegno e della sapienza sua. E dopo aver trattato seco di queste cose, gli domandò, se si attristava per esser cieco; ma egli taceva, non bastandogli l’animo di rispondere per vergogna: finalmente domandato la seconda e la terza volta, confessò ingenuamente, che ne sentiva tristezza: allora il Santo gli disse: Mi meraviglio, che un uomo tanto prudente e saggio quanto tu sei, s’attristi e si dolga di non aver quello che hanno le mosche, le formiche e i vermicciuoli della terra; e non si rallegri d’avere quello che solo i Santi e gli Apostoli meritarono d’avere. Dal che si vede, dice S. Girolamo, che è molto meglio aver gli occhi spirituali che corporali. – Nell’Istoria dell’Ordine di S. Domenico racconta il P. F. Ferdinando del Castiglio (Chron. Ord. Praìd. 1 p. 1. 1, c. 49), che stando S. Domenico in Roma, visitava una donna inferma, afflitta, e gran serva di Dio, la quale s’era ritirata in una torre alla porta di S. Giovanni Laterano, e soleva il benedetto Padre confessarla molte volte e amministrarle il santissimo Sacramento. Questa donna si chiamava Bona, ed era la vita sua tanto conforme al nome, che come buona Dio l’ammaestrava in aver allegrezza ne’ travagli e quiete nella morte. Pativa un’infermità gravissima nelle mammelle che erano già incancherite e piene di vermi; di maniera tale che per qualsivoglia altra persona sarebbe stato tormento intollerabile, eccetto per essa che lo sopportava con pazienza mirabile e con rendimento di grazie. Per vederla S. Domenico tanto inferma e tanto approfittata nella virtù, l’amava grandemente: e un giorno dopo averla confessata e comunicata, così inspirato dal Signore, volle vedere quella sì stomacosa e terribil piaga; il che ottenne da lei, sebbene con qualche difficoltà. Quando Bona si scoprì e il Santo vide la marcia, il canchero e i vermi che bollivano, e la sua pazienza ed allegrezza, ebbe compassione di lei; ma più desiderio delle sue piaghe che de’ tesori della terra; e la pregò istantemente, che gli desse uno di quei vermi come per reliquia: non volle però la Serva di Dio darglielo, se prima non le prometteva di restituirglielo; perché  già era arrivata a gustar tanto di vedersi mangiar viva, che se alcuno di quei vermi le cadeva in terra, lo rimetteva nel suo luogo; e così su la sua parola glie ne diede uno che era ben grandicello e con un capo nero. Appena il Santo l’ebbe nelle mani, che si convertì in una bellissima perla, e. i Frati ammirati dicevano al lor Padre, che non gliela restituisse; l’inferma all’incontro domandando il suo verme diceva, che le restituissero la sua perla: e subito che le fu data, tornò alla prima forma di verme, e la donna lo ripose nelle mammelle ove s’era generato e si nutriva: e S. Domenico fatta orazione per essa, e datale la sua benedizione col segno della Croce, la lasciò, e si partì: ma calando giù per la scala della torre, caddero alla donna le mammelle incancherite coi vermi, e a poco a poco andò crescendo la carne, e fra pochi giorni fu sana affatto; raccontando a tutti le cose meravigliose che Dio operava per mezzo del suo Servo. – Nella medesima Istoria si narra (Chron. Ora. Præd. 1 p. lib. 1, c. 83), che trattando fra Reginaldo con S. Domenico di pigliare l’abito della sua Religione, ed essendo già deliberato di farlo, cadde infermo d’una febbre continua a giudicio dei medici mortale. Il Padre S. Domenico prese molto a cuore la sua sanità, e faceva per esso continua orazione a Dio Signor nostro, e così l’infermo, come lui, chiamavano la Madonna santissima in suo aiuto con molta divozione e sentimento. Stando ambedue occupati in questa domanda, entrò nella stanza di Reginaldo la sacratissima Regina del cielo con una chiarezza e splendore in estremo grado meraviglioso e celeste, accompagnata da due altre beate Vergini, che parevano santa Cecilia e santa Caterina martire, le quali s’accostarono insieme colla sovrana Signora al letto dell’infermo; il quale ella come Regina e Madre di pietà consolò, dicendogli: Che cosa vuoi che io faccia per te? ecco che io vengo a veder quel che domandi: dimmelo, e ti sarà dato. Restò sorpreso e confuso Reginaldo per così rara e celeste visione, e dubbioso di quello che gli convenisse fare, o dire; ma una di quelle Sante ch’erano in compagnia della Madonna, lo cavò presto presto da quella perplessità, dicendogli: Fratello, non chiedere cosa alcuna: mettiti totalmente nelle sue mani, che molto meglio saprà Ella dare che tu domandare. L’infermo s’appigliò a questo consiglio, come tanto prudente e accorto ch’egli era, e così rispose alla Vergine: Signora, io non domando cosa alcuna: non ho altra volontà che la tua; in essa e nelle tue mani mi metto. Le stese allora la sacra Vergine, e prendendo dell’olio che a questo effetto portavano quelle due Sante che le servivano di corteggio, unse Reginaldo nel modo che si suol dare l’Estrema Unzione, e fu di tanto grande efficacia il tatto di quelle sacre mani, che subito restò libero dalla febbre e sano, e così ristorato di forze corporali come se non fosse mai stato infermo. E quel che è più, insieme con quella sublime grazia gliene fu fatta un’altra maggiore nella virtù dell’anima, che da quell’ora innanzi non sentì mai più movimento sensuale né disonesto nella sua persona per tutta la vita sua in nessun tempo, luogo, né occasione. – Nell’Istoria Ecclesiastica si narra (Hist Eccl. p. 2, lib. 6, cap. 2), che fra le persone che fiorivano in quel tempo era molto illustre un tal Beniamino, il quale aveva dono da Dio di risanare gl’infermi senz’altra medicina che col solo tatto delle sue mani, ovvero ungendoli con un poco d’olio e facendo orazione sopra di essi. E con questa grazia di risanare altri, ebbe egli stesso una grave infermità d’idropisia per la quale si gonfiò tanto, che non poteva uscire dalla sua cella se non isgangheravan la porta; e così se ne stette dentro di essa per lo spazio di otto mesi, finché morì, sedendo in una sedia molto larga, ed ivi guarì molte infermità, senza lamentarsi né attristarsi di non poter rimediare alla sua propria; e a quei che gli avevano compassione recava conforto e diceva: Pregate Dio per l’anima mia, e non vi curate del corpo; che anche quando era sano non mi serviva per cosa alcuna. Nel Prato Spirituale (Prato spir. c. 10) si racconta d’un Monaco chiamato Bernabeo, al quale essendo accaduto, che per istrada se gli ficcò in un piede uno stecco, o scheggia di legno, non volle per alcuni giorni cavarsela, né esser medicato della ferita, per aver occasione di patire qualche dolore per amor di Dio. E si dice, che soleva dire a quei che lo visitavano, che quanto più patisce e si mortifica l’uomo esteriore, tanto più l’interiore si vivifica e fortifica. – Nella Vita di S. Pacomio il Surio racconta d’un Monaco chiamato Zaccheo, che con tutto che stesse infermo d’epilepsia, o malcaduco, non rimetteva punto del rigore della sua solita astinenza, ch’era in pane solo con sale; né meno cessava di far le orazioni che costumavano di fare gli altri Monaci sani, andando a Mattutino e alle altre Ore; il resto del tempo nel quale cessava dall’ orazione, si occupava in fare stuoie, sporte e corde; e per la ruvidezza di quell’erba, della quale le tesseva, aveva le mani tanto guaste e crepate, che sempre gli scorreva il sangue dalle crepature di esse; il che faceva per non istare ozioso; e la notte prima di dormire era solito di meditare qualche cosa della sacra Scrittura, e poi farsi il segno della Croce sopra tutto il corpo: fatto questo si riposava fin all’ora del Mattutino, al quale, come si è detto, si levava, durando in esso e in orazione fino a giorno. Cosi teneva distribuito il tempo questo santo infermo, e questi erano i suoi ordinari esercizi. Accadde una volta, che andò da lui un Monaco, il quale veggendogli le mani tanto guaste, gli disse, che se le ungesse con olio, che non avrebbe sentito tanto dolore delle crepature di esse. Lo fece Zaccheo, e non solo non se gli mitigò il dolore, ma se gli accrebbe molto più. Essendo poi andato a vederlo S. Pacomio, e raccontandogli egli quello che aveva fatto, il Santo gli disse: Pensi tu forse, o figliuolo, che Dio non veda tutte le nostre infermità, e che se gli piace, non le possa risanare? e quando non fa questo, ma permette che patiamo dolori sino a che piace a Lui, per qual fine credi tu che lo faccia? se non acciocché lasciamo a Lui tutta la cura di noi altri e in esso solo mettiamo ogni nostra fiducia? lo fa anche per bene e utilità delle anime nostre, acciocché possa dipoi accrescerci la mercede e il premio eterno per questi brevi travagli ch’Egli ci manda. Con questo si compunse grandemente Zaccheo, e gli disse: Perdonami, Padre, e prega Dio che mi perdoni anch’esso questo peccato di poca confidenza e conformità alla volontà sua e questo desiderio di guarire. E partitosi Pacomio, digiunò per penitenza di colpa così leggiera tutt’un anno, con tanto rigido digiuno, che non mangiava se non di due in due giorni, ed anche allora molto poco e piangendo. Soleva poi il gran Pacomio raccontare questo cosi notabile esempio a’ suoi Monaci, per esortarli alla perseveranza nel travaglio, alla fiducia in Dio, e a far conto de’ piccoli mancamenti.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (8)

LA FESTA DI CRISTO-RE (1)

LA FESTA DI CRISTO-RE (1)

R. P. Edouard HUGON, o. P.

MAESTRO DI TEOLOGIA PROFESSORE DI DOGMATICA AL COLLEGIO PONTIFICIO « ANGELICUS » DI ROMA E MEMBRO DELL’ACCADEMIA ROMANA DI S. TOMMASO D’AQUINO

LA FESTA SPECIALE di GESÙ-CRISTO RE  

QUINTA EDIZIONE Rivista ed accresciuta.

PARIS (VIe) PIERRE TÉQUI, LIBRAIRE-ÉDITEUR 8a, RUE BONAPARTE, 83 1938

APPROBATIONS

Visto ed approvato

Roma, Angelicus, li 10 aprile 1927.

Fr. Ceslas PABAN-SEGOND, O. P. Maître en S. Théologie.

Fr. Réginald GARRIGOU-LAGRANGE, O. P. Maître en S. Théologie.

PERMESSO DI STAMPA:

17 aprile 1927. Bonaventura GARCIA DE PAREDES. Mag. Gen. Ord. Frnt. Prædic.

IMPRIMATUR:

Parisiis, die 5 a decembris 1927. V. DUPIN, v. g.

PREFAZIONE

È in risposta al desiderio ed all’invito del Sommo Pontefice Pio XI, che abbiamo deciso di affrontare questo tema per il grande pubblico. Il Papa ha voluto procedere con quella maturità e quella saggezza che caratterizzano gli atti del suo Pontificato, chiedendo che la festa di Gesù Cristo Re fosse preparata con un movimento di opinione cattolico. “Il Santo Padre – scriveva nel 1924 Sua Eminenza il Cardinale Laurenti al signor Georges de Noaillat – ha giudicato il progetto molto bello, molto grande, molto opportuno. Proprio per la sua importanza, questo progetto è una realizzazione degna, grandiosa, epocale, che scuote gli animi…. Per ottenere questa preparazione, è necessario agitare, propagare la questione a parole e per iscritto, con scritti per gli studiosi, con scritti popolari… Tale preparazione sarebbe coronata da un atto solenne del Papa, che troverebbe il mondo pronto ad apprezzarne il significato (Cfr. Nouvelles Religieuses, aprile 1924, e la rivista Regnabit, 1924, pp. 197, 198). »  Ci è stato molto gradito entrare in queste considerazioni del Capo supremo della Chiesa, e, per procedere con la chiarezza e l’ordine desiderati, abbiamo cercato di mostrare che Gesù Cristo è veramente Re; quindi, come e in quale veste sia Re e come la sua regalità sia universale e si estenda a tutte le nazioni e società; come sia sovranamente importante proclamare questa verità nel nostro tempo, il cui crimine capitale è l’apostasia ufficiale degli Stati e dell’opinione pubblica; infine, che uno dei modi più efficaci per rimediare a questa iniquità, per combattere il secolarismo e per rivendicare i diritti di Dio, sia l’istituzione di una festa speciale di Gesù Cristo, Re universale delle nazioni e delle società, in una parola di tutte le creature. – Abbiamo avuto la grande consolazione di vedere come l’Enciclica Quas primas confermasse questi insegnamenti e che la liturgia della festa li traducesse in una forma adatta a tutte le intelligenze. – Così teologia e liturgia hanno unito le loro voci per cantare lo stesso inno di lode, lo stesso inno d’amore a Cristo Re; e queste sono le armonie che abbiamo voluto far emergere in questa nuova edizione.

CAPITOLO PRIMO

GESÙ-CRISTO È VERAMENTE RE

Si può dire che tutti i testi messianici, nello stesso momento in cui predicono il Cristo futuro, affermano la sua regalità universale. « Non c’è uno dei profeti, dice il cardinale Pie, non c’è uno degli Evangelisti e degli Apostoli che non gli assicuri la sua qualità e le sue attributi di re (Cfr. il ben documentato libro di p. THÉOTIME DE SAINT-JUST, La regalità sociale di Gesù-Cristo, secondo il cardinale Pie, p. 23). Lo citeremo ancora più di una volta). – Già la Genesi annuncia che le nazioni della terra saranno benedette in Lui e che Egli sarà atteso dalle nazioni; i Numeri dicono che da Giacobbe uscirà il vero dominatore (Gen. XII, 2, 3; XXIII, 17; XXVI, 4; XLIX, 8). I Salmi cantano questa dignità. Il Salmo II rappresenta il Messia come una Persona distinta dal Padre a cui il Padre parla e che Egli genera come suo vero Figlio: Dominus dixit ad me; Filius meus es tu, ego hodie genui te; e allo stesso tempo come Persona divina, eterna, onnipotente, che esercita la regalità su Sion e la cui eredità sono tutte le nazioni della terra: Postula a me, et dabo tibi gentes hæreditatem tuam. Il salmo CIX esalta nel Messia il Signore di Davide, uguale a Dio Padre nella potenza regale, poiché Egli siede alla sua destra e deve un giorno regnare sui suoi nemici, che sono diventati lo sgabello dei suoi piedi. Il Salmo LXXI descrive  le prerogative di questa regalità, che è eterna, cum sole et ante lunam, ed universale, fino ai confini della terra. I Profeti annunciano Colui che è nato bambino e che è Dio e Principe della Pace, che è Re, con un immenso impero: Deus Fortis e Princeps pacis … Multiplicabitur ejus imperium (ISAI., IX, 6-7). È questo stesso regno che Daniele predice quando parla della piccola pietra che rompe la colossale statua, diventa una montagna gigantesca e riempie tutta la terra (Dan., II, 34 ss.), e cioè che il regno di Cristo deve sostituire gli imperi terreni. Sant’Agostino esclama a questo proposito: « Non sorprende che i Giudei non abbiano riconosciuto quella che disprezzavano come la piccola pietra giacente ai loro piedi; quelli che piuttosto ci stupiscono sono coloro che si rifiutano di riconoscere una tale montagna (S. Agostino, Enarrat. 1n ps. XLV, 12; P. L., XXXVI, 522). Altri profeti, come Zaccaria, celebrano le virtù di questo Re, che viene con giustizia, mitezza ed in povertà a salvare il suo popolo: « Ecce rex tuus venit tibi justus et salvator, ipse pauper » (Zacc. IX, 9). È stato quindi giustamente detto che la regalità di Gesù Cristo è come la spina dorsale dell’Antico Testamento, così come la figura benedetta del Salvatore domina entrambi i versanti della storia. – Il Nuovo Testamento lo afferma con ancora più forza. I Vangeli sinottici sottolineano questa dignità regale. L’angelo che annuncia la nascita alla Beata Vergine le dice: “Il Signore gli darà il trono di Davide suo padre, ed Egli regnerà per sempre nella casa di Giacobbe” (Lc. I, 32). Cristo esercita questa potenza suprema in vari modi: perfeziona la Legge, che è di istituzione divina (Mt., V, 7); è il Padrone del sabato, che è anche di diritto divino (Mt., IX, 15); con una sola parola perdona i peccati con la sua stessa virtù (Luc. V, 17-26); Egli diffonde il suo dominio su tutto il creato, sia materiale che spirituale, come spiega meravigliosamente S. Tommaso (S. Thom., IIIa, q. 44), e gli Angeli stessi che sono suoi sudditi, hanno l’onore di servirlo (Luc., II, 13. Matth.,11; XXVI, 53). Prima di ascendere al cielo, disse ai suoi apostoli: « Mi è stato dato ogni potere in cielo ed in terra. Andate ed insegnate a tutte le nazioni » (Matteo, XXVIII, 18-19).  – Si vedrà qui il carattere pubblico e sociale di quest’autorità: poiché Egli ha tutto il potere, le nazioni, tutte le nazioni, sono tenute a sottomettere docile la loro mente alla sua dottrina, e la loro vita alla sua morale e alle sue leggi, che derivano dal Battesimo, baptizandes … – San Giovanni, nel prologo del suo Vangelo, gli attribuisce il potere regale e divino di rigenerare e divinizzare i figli di Dio; e poi riporta la risposta di Gesù alla domanda di Pilato: Sei Tu dunque re? – « Tu l’hai detto », risponde Gesù. “Il Cardinale Pie sottolinea che questa risposta è fatta con tale accento di autorità che Pilato, nonostante tutte le rimostranze dei Giudei, consacra la regalità di Gesù con una scritta pubblica ed un segno solenne (op. cit. p. 23-24). A questo proposito, il Vescovo di Poitiers fa sue le magnifiche parole di Bossuet: « Che la regalità di Gesù Cristo sia promulgata nella lingua ebraica, che è la lingua del popolo di Dio, nella lingua greca, che è la lingua dei dotti e dei filosofi, e nella lingua romana, che è la lingua dell’impero e del mondo, la lingua dei conquistatori e dei politici. Ora avvicinatevi, o Giudei, eredi delle promesse; e voi, o Greci, inventori delle arti; e voi Romani, padroni della terra: venite a leggere questa scritta mirabile: inginocchiatevi davanti al vostro Re. »  – Nella sua Rivelazione, San Giovanni chiama Gesù il Principio e la Fine, il Re dei re, il Signore dei signori, il Giudice supremo, che dona a ciascuno secondo le sue opere (APOC, I, 18; IV, 9-10;VI, 10;III, 7; XXII, 13;XVII, 15;XIX. 16). San Paolo (Philipp.. II; Rom., VIII 31;Hébr., I) predica sia la divinità di Cristo che la sua potenza regale: Colui che ha la forma e la natura di Dio, che è il Figlio di Dio stesso, ha il dominio universale: e per diritto di eredità, perché è erede costituito di tutte le cose in virtù dell’unione ipostatica; e per diritto di merito, perché è esaltato per essersi umiliato; e per diritto di conquista avendo acquisito la sua Chiesa a prezzo del suo sangue: Regere Ecclesiam Dei, quam acquisivit sanguine suo (Àct., XX,28. ). L’importanza di questo testo per stabilire la divinità e la regalità di Cristo non può essere abbastanza sottolineata: chi ha acquisito la Chiesa è DIO, e il suo sangue è il sangue di DIO, così come la sua Chiesa è la Chiesa di DIO. Riunendo i vari titoli di Cristo, l’Apostolo conclude: OPORTET illum regnare, deve essere re (I Cor., XV, 25, 27).

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La tradizione patristica lo ha affermato fin dall’inizio con la stessa energia. San Giustino, nel suo Dialogo con Trifone, mostra ai Giudei che Cristo è il Signore che si è manifestato nell’Antico Testamento, il sovrano che governa con perfetta preveggenza (Cf. JUSTIN, Dialog. Cum Tryphone, P. G.,VI, 600, 620) Allo stesso modo, sant’Ireneo stabilisce, contro gli gnostici, che Cristo è il principio e la fine di tutte le cose, Colui che consola il suo popolo afflitto e si prende cura di esso lui come padrone. (Cf. IREN., Cont. Hæres., lib. IV, c. Xll; P. G.,VII, 1095). – Tra le tante testimonianze della Chiesa latina, basta citare questo passo di sant’Ambrogio: « Il titolo è giustamente posto sulla croce, perché sulla croce si irradiava la maestà del Re Gesù: supra crucem tamen Régis majestas radiabat (S. AMBROS., Exposit. In Luc, X, P. L., XV, 1925). »  La Chiesa siriaca ci dice per bocca del suo dottore Sant’Efrem che Cristo è il Re pacifico il cui scettro è la croce. Egli innalza questa croce come un ponte sulla morte, attraverso il quale le anime passano dalla regione della morte alla regione della vita: Tibi gloria! Qui CRUCEM TUAM PONTEM EXSTBILISTI SUPER MORTEM, ut per eum transeant animæ eregione mortis in regionem vitæ (EPHRAEM, édit. LAMY, t, I, p. 138. Cf.t. II, p. 578). »  La Chiesa di Alessandria spiega, con San Cirillo, che il Salvatore è davvero Re: non ha negato davanti a Pilato questa suprema regalità, ha fatto solo capire che il suo impero è di un altro ordine, che non è imposto dalla violenza o stabilito in modo umano, ma che viene dalla sua stessa natura e si estende su tutto il creato: « Creaturarum omnium dominatum non per vim extortum nec aliunde invectum, sed essentia sua et natura (S. CYR1LL. ALEXANDR., In Joant lib.XII; P. G., LXXI V, 622. 23). » – La liturgia celebra frequentemente questo titolo di Re; nel Te Deum, saluta il Re della gloria, tu rex gloriæ, Christe; nelle antifone dell’Avvento, il Re delle nazioni, O rex gentium; nell’lnvitatorio, il Re degli angeli, il Re degli apostoli, il Re dei martiri, ecc. e, nella festa del Santissimo Sacramento, Cristo Re, Sovrano delle nazioni: Christum Regem dominantem gentïbus….

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Le ragioni teologiche sono evidenziate da San Tommaso. Il grande Dottore dedusse la regalità da queste parole del Simbolo: Cristo è seduto alla destra del Padre… « Sedersi alla destra del Padre significa condividere con il Padre la gloria della divinità, la beatitudine e il potere giudiziario; e questo in modo immutabile e regale: et hoc immutabiliter et REGALITER (S. THOM., IIIa, q. 58, a. 2). “Egli possiede questa dignità come Dio, è manifesto, ma anche come uomo per l’unità della Persona; è per questo che noi onoriamo con uno stesso onore il Figlio di Dio con la natura umana che Egli si è unita (lbid.,a. 3.). – Dappertutto nella Scrittura Cristo è rappresentato come il Giudice supremo, e lo stesso Salvatore afferma che il Padre gli ha dato questo potere di giudicare: Pater omne judicium dédit Filio (Joan., V, 22). Il potere giudiziario, dice San Tommaso, deriva dalla dignità regale: « Judiciaria potestas consequitur regiam dignitatem ». Quindi, se Cristo è Giudice, è Re costituito da Dio. (IIIa, q. 50, a. 4, nd. 1.26) Questa conclusione, inoltre, emergerà con piena evidenza dalle considerazioni che seguono.

CAPITOLO II

IN CHE MODO E A QUAL TITOLO GESÙ CRISTO È RE

Tutti i teologi (V. commentatori di San Tommaso, III, P.) concordano che Nostro Signore non ha esercitato in questo mondo l’ufficio di re temporale, né in Giudea né in altre contrade, né è stato incaricato di dirimere controversie tra individui, come Egli stesso dichiara: « Homo, quis me constituit judicem aut divisorem inter vos (Luc. XII, 14)? »  –  D’altra parte, è evidente che Gesù Cristo, in quanto Dio, è Signore e Re di tutte le cose, per il fatto stesso che tutto è stato fatto da Lui e tutto sussiste in Lui, in cielo e in terra, nel mondo visibile e invisibile (Col. I, 16). – Si riconosce inoltre che anche come uomo, Egli ha, almeno, una regalità spirituale su tutti gli individui e tutte le società: questa è la conclusione immediata dei già citati testi della Scrittura e della Tradizione, che chiamano Gesù Cristo Re, Sovrano delle nazioni, Re dei re, Signore dei signori, ecc.  – La questione è sapere se come uomo avesse il dominio dell’intero universo e se fosse il Re temporale di tutti i re e di tutti gli imperi.  – Qui la soluzione non è stata unanime: scrittori di grande fama, come il B. Bellarmino Tolet, Sylcius Billuart, ecc. rispondono negativamente, mentre la risposta affermativa già insegnata da San Tommaso e Sant’Antonino, validamente difesa dalla teologia di Salamanca, diviene sempre più comune nella nostra epoca (Cf. BELLARM., de Rorn. Pont., cap. iv et v; TOLET. SYLVIUS, in IIIa, q. Billuart, de Justitia, 4 diss. III, art. VI; SALMANT., de ïncarn., diss. XXXII, dub. II). – Una festa liturgica non dovrebbe basarsi su dottrine controverse, ed è noto che in passato già l’approvazione del culto del Sacro Cuore è stata ritardata perché dei sostenitori partigiani volevao basarla sulla discutibile teoria che il cuore è l’organo delle passioni. – Ma sembra che ai nostri giorni sia possibile evitare le polemiche e arrivare ad una reale certezza ponendo la questione sotto suo il suo vero punto di vista.  – I teologi che lo negano o ne dubitano lo considerano in modo troppo ristretto, le loro argomentazioni dimostrano solo che Nostro Signore non è un sovrano terreno come i re di questo mondo, e che non esercita esteriormente il suo potere reale e il suo sovrano dominio.  – Altri sono rimasti impressionati da questo sofisma: se Nostro Signore avesse un potere diretto sui re e sugli imperi, lo avrebbe anche il Papa, il che è chiaramente insostenibile. – È facile rispondere, con la teologia di Salamanca: non tutto il potere spirituale di Cristo passa al suo Vicario, per esempio il potere di istituire i Sacramenti o di modificare la costituzione della Chiesa; e, quindi, anche se il Papa non ha un potere diretto sugli Stati, Cristo può averlo, completo e assoluto se gli conviene, a motivo della stessa unione ipostatica.  – Questo è il vero principio che deve essere invocato per risolvere il problema: bisogna sempre considerare ciò che questa unione sostanziale comporti in termini di diritti e prerogative nel Cristo intero.  Non basta quindi confessare che Nostro Signore come Dio è Re, perché dubitare di questo significherebbe dubitare della sua divinità; ed è troppo poco dire che come uomo è solo un re spirituale, perché questo sarebbe limitare una regalità che la Scrittura e la Tradizione gli attribuiscono senza alcuna riserva. Consideriamo la questione in un modo più alto e più universale e diciamo: il Cristo tutto intero, questo Redentore, questo Salvatore benedetto, che sussiste nelle sue due nature, la natura divina e la natura umana, è il Re in assoluto, sia per l’ordine temporale che per l’ordine spirituale, senza alcuna restrizione.  – I testi già citati suggeriscono questa soluzione. Colui che dice: Tutto il potere mi è stato dato in cielo e in terra, è il Cristo nella sua doppia natura, il Cristo visibile che conversa con gli Apostoli. Ora nulla è escluso dal suo impero, che è assoluto sia in terra come in cielo. Il Cristo si è definito Giudice e quindi anche Re, perché che Egli è il Figlio dell’uomo: Judicium facere, quia Filius hominis est (JOAN., V, 27.). – È nello stesso senso che parla San Paolo: “Omnia subjecta sunt ei, sine dubio, præter eum qui subjecit ei omnia” (I Cor., XV, 27.). Tutto nell’ordine temporale, come nell’ordine spirituale, tutto tranne il Padre, è soggetto a Lui. Questo è il Cristo, non solo nell’ordine divino, secondo il quale non ha bisogno che il Padre gli sottometta le creature, ma ancora nella sua natura umana, a motivo della quale può ricevere l’impero dell’universo.  – San Pietro, per glorificare il Salvatore, che ha sofferto e che è risorto, gli attribuisce questo dominio sovrano su tutto, hic est Dominus omnium, insieme al potere giudiziario: constitutive est a Deo judex vivorum et mortuorum (Act., XV, 36, 42). – Nell’Apocalisse, Cristo, chiamato Re dei re e Signore dei signori, senza restrizioni e in qualsiasi ordine i governanti possano comandare, è il Redentore nella sua duplice natura: la natura divina, poiché il suo nome è il Verbo di Dio; la sua natura umana, poiché la sua veste è coperta del suo sangue (Apoc, XIX. 13, 16).  – I Padri che abbiamo citato attribuiscono la regalità universale al Cristo visibile, che è stato sospeso sulla croce per salvarci.  – La liturgia ( « O rex gentium… veni et salva hominem quem de limo formasti. » – Ant. O dell’Avvento) saluta il Salvatore come Re delle nazioni nella sua duplice natura, per cui unisce Dio e l’uomo, e conclude : Vieni a salvare l’uomo che hai formato dal limo, cioè a dire, salvate per le sofferenze della vostra natura umana, l’uomo che avete creato in virtù della vostra natura divina. – Così, per conservare i testi della Scrittura e della Tradizione nella loro pienezza, è necessario confessare che Nostro Signore tutto intero con la sua duplice natura è Re assolutamente, senza restrizioni, Re di tutti gli uomini e di tutto l’universo. – Se Nostro Signore ha detto che il Suo regno non è di questo mondo, voleva dire che il Suo potere non ha origine da qui sotto e non è esercitato in modo mondano; non ha negato di essere il vero sovrano di questo mondo, Lui che ha anche detto: Tutto il potere mi è stato dato in cielo e in terra. Abbiamo già suggerito la vera ragione teologica, il cui valore probatorio ci sembra inconfutabile. Come Cristo, in virtù dell’unione ipostatica, merita un tale onore che tutte le creature, uomini o Angeli, debbano adorarlo interamente con la sua santa umanità, così come Egli ha diritto, in virtù della stessa unione, a tale potere e sovranità, che tutte le creature devono obbedirgli anche secondo la sua natura umana e sottomettersi a Lui sotto ogni aspetto, senza eccezioni. – Questo solo titolo dell’unione ipostatica conferisce così al Cristo tutto intero la regalità su tutto l’universo, anche se non l’ha esercitata durante la sua vita mortale. – È così che parla infatti San Tommaso: « Cristo, pur essendo stato costituito re da Dio stesso, non ha voluto avere sulla terra l’amministrazione temporale di un regno terreno. » (IIIa, q. 59, a 4, ad 1.) Il Dottore Angelico afferma qui tre cose: – 1° che Nostro Signore, anche nell’ordine temporale, aveva ricevuto da Dio la qualità di vero Re; – 2° che non ha avuto, durante la sua vita quaggiù, l’esercizio o l’amministrazione di questo potere; -3° che, se non l’ha esercitato, è perché Egli non ha voluto fare uso di questo potere e di questo diritto.  – Nei confronti degli uomini, egli è Re ad un titolo particolarmente dolce, cioè il diritto di conquista e di redenzione, in virtù della sua grazia capitale. È con buona ragione che ci chiamiamo populus acquisitionis (I PETR., II, 9), così come si è acquistato la sua Chiesa a prezzo del suo sangue, quam acquisivit sanguine suo. L’Apostolo ha stabilito con invincibile eloquenza questo dominio reale e sovrano del Salvatore su ciascuno di noi: poiché Egli ci ha riscattati a tale prezzo, non siamo più nostri, non possiamo più venderci e renderci schiavi degli uomini: « Non estis vestri: empti enim estis pretio magno » (I Cor., VI, 19-20.). – « Pretio empti estis, nolite fieri servi hominum. » (Rom. VII, 23). »  Questo è anche ciò che ci ricorda San Pietro:  « Sappiate che siete stati riscattati, non con oro o argento corruttibile, ma con il sangue dell’Agnello immacolato, il Cristo immacolato » (I Piet. I. 18,19). »  – San Giovanni nell’Apocalisse, riunisce questi due titoli e questi diritti di eredità e di conquista, e celebra il Principe dei re della terra, che ci ha amato e ci ha lavato dai nostri peccati nel suo sangue (Apoc. I, 5). Per questo motivo, l’enciclica dichiara espressamente che il potere reale in senso stretto deve essere rivendicato per il Cristo uomo. Aggiunge che sarebbe un grave errore contestare al Cristo uomo il dominio sulle questioni civili. Il Papa insiste sulla ragione che abbiamo appena sviluppato: il solo titolo dell’unione ipostatica esige che tutte le creature, Angeli e uomini, gli obbediscano e siano soggetti al suo impero (Act. Apost. Sedis, 596, 598, 599).  L’enciclica sottolinea poi il titolo di conquista in virtù della redenzione.

LA FESTA DI CRISTO-RE (2)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (6)

     DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ  DI DIO (6)

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VI.

CAPO XV.

Della conformità che abbiamo d’avere alla volontà di Dio circa la distribuzione de’ talenti e doni naturali.

Ciascuno ha da stare molto contento di quello che Dio gli ha comunicato in questa parte: ha da stare molto contento del talento, della intelligenza, dell’ingegno, dell’abilità e delle altre qualità che Dio gli ha date, e non ha da pigliarsi fastidio né da attristarsi per non avere tanta abilità, o talento, quanto il suo Fratello, o per non esser da tanto, quanto esso. Questa è una cosa della quale tutti abbiamo necessità; perché sebbene alcuni giudicano, o par loro d’essere eminenti in alcune cose, hanno però sempre altri contrappesi che gli umiliano, ne’ quali hanno necessità di questa conformità. Onde bisogna che stiamo avvertiti e preparati, perché il demonio suole assalir molti per questa via. Starai negli studi, e vedendo che il tuo condiscepolo spicca assai nell’abilita e nell’ingegno, e che argomenta e risponde molto bene, ti verrà forse qualche sorta d’invidia, che quantunque non arrivi ad aver dispiacere del bene del tuo fratello, che è propriamente il peccato dell’invidia; in fine però vedendo, che i tuoi compagni volano assai alto co’ loro ingegni, e fanno gran progresso co’ loro talenti, e che tu te ne resti indietro, e non puoi arrivarli, né alzar il capo, senti tristezza e malinconia, e te ne stai come scoraggiato e svergognato fra gli altri; onde ti viene un avvilimento, una mancanza d’animo e una tentazione di lasciar lo studio, e anche alle volte la Religione. Questa tentazione ha mandati alcuni fuori della Religione, perché non erano ben fondati in umiltà. Pensò colui a salire molto alto e a rendersi segnalato fra tutti gli altri, e che sarebbe corsa voce per tutta la provincia d’esser egli il migliore studente di quanti sono in quel corso; ma essendogli riuscita la cosa tutto al rovescio delle sue idee, resta tanto avvilito e mortificato, che non perdendo il demonio cosi buona occasione, gli rappresenta, che non si potrà liberare da quella vergogna né da quella tristezza, se non col lasciare la Religione. E non è nuova questa tentazione, ma molto antica. Nelle Cronache dell’Ordine di S. Domenico (Hist. Ordin. Præd. 1 p., lib. 3, c. 45) si narra un esempio a questo proposito d’Alberto Magno che fu maestro di S. Tommaso d’Aquino. Alberto Magno, essendo fanciullo, fu molto devoto della gloriosissima Vergine nostra Signora, e recitava ogni giorno ad onor di essa certe divozioni, e per mezzo e intercessione di Lei entrò nella Religione di S. Domenico in età di sedici anni: e si dice ivi, che essendo giovine non era di molto intendimento, anzi che era rozzo e di poca attitudine allo studio, e come si vedeva tra molti e molto rari ingegni de’ suoi condiscepoli, si piccava di tal maniera, che la tentazione lo strinse gagliardamente, e lo pose in gran pericolo, anzi sul punto di lasciar l’abito. Trovandosi in queste angustie e agitazioni di pensieri, ricevé meraviglioso soccorso da una visione. Dormendo egli una notte, gli pareva di mettere una scala e d’appoggiarla al muro del monastero per uscire da esso e andarsene via: e montando su per essa, vide nella cima quattro venerabili matrone, sebben l’una pareva signora e padrona delle altre. Arrivato che fu vicino ad esse, una lo prese, e lo buttò giù dalla scala, vietandogli l’uscita dal monastero. Ostinatosi volle salire un’altra volta, e la seconda matrona fece con lui il medesimo che aveva fatto la prima. Volle salir di nuovo la terza volta; e la terza matrona gli domandò la cagione per la quale si voleva partire dal monastero, ed egli rispose con faccia vergognosa: Signora, io me ne voglio andar via, perché veggo che gli altri miei compagni fanno profitto nello studio della Filosofia, e io m’affatico indarno: la vergogna che per questa cosa io patisco mi fa lasciare la Religione. Allora la matrona gli disse : Quella Signora che tu vedi lì (mostrandogli col dito la quarta), è la Madre di Dio e Regina de’ cieli, di cui noi tre siamo serve: raccomandati ad essa, che noi altre ti aiuteremo e la supplicheremo che interceda per te presso il suo benedetto Figliuolo, acciocché ti dia ingegno docile per poter far profitto nello studio. Fra Alberto intesa questa cosa si rallegrò grandemente; e, conducendolo quella matrona avanti alla gloriosissima Vergine, fu da essa ben ricevuto; e domandato dalla medesima, che cosa era quella che egli tanto desiderava e chiedeva, rispose, che d’apprendere la Filosofia, la quale egli studiava e non l’intendeva: e la Regina del cielo gli rispose, che stesse di buon animo e studiasse, che in quella facoltà, sarebbe riuscito un grand’uomo: ma acciocché tu sappia, soggiunse ella, che questo ti viene da me, e non dal tuo ingegno né abilità, alcuni giorni prima della tua morte, leggendo tu pubblicamente, ti scorderai quanto avrai saputo. Con questa visione egli rimase consolato, e da quel giorno in poi fece quel sì gran profitto nello studio non solo della Filosofia, ma anche della Teologia e della S. Scrittura, come il testificano le Opere che lasciò scritte: e tre anni prima della sua morte, mentre stava leggendo in Colonia, perde totalmente la memoria in quanto concerneva le scienze, rimanendo come se in vita sua non avesse mai saputa cosa alcuna di lettere. E forse questo fu anche in penitenza della poca conformità che aveva avuta alla volontà di Dio intorno al talento e l’abilità che il medesimo Dio gli aveva dato. E ricordandosi della visione ch’ebbe quando volle uscirsene della Religione, raccontò pubblicamente agli ascoltanti tutto quello che era passato; e così si licenziò da essi; e ritiratosi al suo convento, s’impiegò tutto in orazione e contemplazione. Acciocché dunque non abbiamo da vederci in simili pericoli, bisogna che stiamo ben avvertiti e preparati: e la preparazione necessaria per questo ha da essere molta umiltà. Perciocché dal mancamento di questa proviene tutta la presente difficoltà, non potendo tu tollerare d’esser tenuto per l’infimo studente del tuo corso. Se dunque le persone si avanzano a dirti, che non sei per passar avanti negli studi, e vedi i tuoi compagni Teologi, e dipoi Dottori e Predicatori; hai necessità per questo di molta umiltà e di molta conformità alla volontà di Dio. E l’istessa necessità avrai dopo gli studi, quando ti assalirà la tentazione per non vederti da tanto quanto gli altri; perché non hai talento per predicare, né per produrti e trattare come quell’altro, né perché a te si possano commettere negozi di qualche rilievo, né si possa fare gran conto sopra di te. E l’istesse dico di quelli che non sono nell’ordine degli studenti, a’ quali verranno certi pensieri e tentazioni, Oh s’io fossi studente! oh se fossi Sacerdote! oh se fossi dotto, per poter far frutto nelle anime! E tal volta potrà essere, che ti stringa tanto la tentazione, che ti metta in pericolo la vocazione, e ancor la salute, come è avvenuto ad alcuni. Questa è dottrina generale, e ciascuno la può applicar a se stesso secondo lo stato suo. E cosi è necessario, che tutti siano molto conformi alla volontà di Dio, contentandosi ciascuno del talento che Dio gli ha dato, e dello stato nel quale si trova posto, né voglia alcuno essere da più di quello che Dio vuole ch’egli sia. Il beato S. Agostino sopra quelle parole del Salmista, Inclinavi cor meum in testimonia tua, et non in avaritiam (Ps. CXVIII, 361), dice, che questo fu il principio e la radice d’ogni nostro male; perché i nostri primi progenitori vollero essere qualche cosa di più di quello che Dio gli aveva fatti, e desiderarono d’aver più di quello che Dio aveva loro dato; perciò caddero dallo stato nel quale erano, e perdettero quel che avevano avuto. Il demonio pose loro innanzi quell’esca, Eritis sicut Dii, scientes bonum et malum (Gen. III, 5): Sarete simili a Dio. Con questo gl’ingannò e gli abbattè. E questa eredità abbiamo avuta noi altri da essi, che abbiamo un certo appetito di divinità ed una certa pazzia e frenesia di voler essere più di quello che siamo. E come per quella via la cosa riuscì bene al demonio co’ nostri primi progenitori; perciò va procurando egli di far guerra anche a noi altri per lo medesimo mezzo, incitandoci a desiderare di essere da più di quello che Dio vuole che siamo, e a non contentarci del talento ch’Egli ci ha dato, né dello stato nel quale ci ha posti. E perciò dice S. Agostino, che il Profeta domanda a Dio: Signore, datemi un cuore disinteressato e fedelmente inclinato al vostro gusto e alla vostra volontà, e non a’ miei interessi e comodità. Per avarizia, dice, che s’intende ivi ogni sorta d’interesse, e non la sola cupidità del denaro. E questa, dice S. Paolo che è la radice di tutti i mali: Radix omnium malorum est cupiditas (I . ad Tim. VI, 10). – Or acciocché tutti abbiamo questa indifferenza e disposizione, conformandoci alla divina volontà e contentandoci del talento che il Signore ci ha dato, e dello stato e grado nel quale ci ha posti, basta sapere, che questa è la volontà di Dio. Hæc autem omnia operatur unus atque idem spiritus, dividens singulis prout vult, dice S. Paolo a que’ di Corinto (1. ad Cor. XII, 11). Si serve ivi l’Apostolo di quell’allegoria del corpo umano che apportammo anche di sopra ad un altro proposito (tract. 4, c.4); e dice, che siccome Dio pose i membri nel corpo, ciascuno nel modo ch’Egli volle, e non si lamentarono i piedi di non esser fatti capo, né le mani di non esser fatte occhi; così ha fatto anche nel corpo della Chiesa, e il medesimo è nel corpo della Religione. Dio ha posto ciascuno nel luogo e ufficio che gli è piaciuto: non è seguita questa cosa a caso, ma con particolar consiglio e provvidenza sua. Se dunque Dio vuole che siate piedi; non è ragione che voi vogliate esser capo: e se Dio vuole che siate mani; non è ragione che vogliate esser occhi. Oh quanto alti e profondi sono i giudicii di Dio! Chi li potrà mai comprendere? Quis enim hominum poterit scire consilium Dei (Sap. IX, 13)? Tutte le cose, Signore, procedono da Voi, e per questo dovete in ogni cosa esser lodato. Voi sapete quel che conviene che si dia a ciascuno, e per qual cagione uno abbia più e un altro meno: non conviene a noi altri il discuterlo. Che sai tu, che cosa sarebbe stata di te, se avessi avuto grande ingegno ed abilità? Che sai tu, se avessi avuto un gran talento pel pergamo, gran concorrenza d’ascoltanti, e gran fama e stima, che non fossi per quella via andato in perdizione, come vi sono andati altri, insuperbendosi e pavoneggiandosi? Quelli che sono letterali, dice quel Santo (Thomas a Kemp. lib. 1, c. 2, n, 2. Scientes libenter volunt videri, et sapientes dici.), hanno caro di esser tenuti e chiamati tali. Se con due quattrini d’ingegno che hai e con tre soldi di lettere che sai, se con una mediocrità e forse meno che mediocrità, sei tanto vano e gonfio, che ti stimi e paragoni, e forse ti preferisci ad altri, e t’aggravi di non esser eletto per questa e per quell’altra cosa; che faresti, se in cose tali avessi dell’eccellenza? che sarebbe, se tu avessi certe parti rare e straordinarie? Nascono le ali alla formica per suo male; e così forse sarebbero nate a te. Veramente se avessimo occhi, e non occhiali né capricci, renderemmo infinite grazie a Dio dell’averci costituiti in istato basso ed umile, e dell’averci dato poco talento e poca abilità: diremmo con quel Santo: Reputo, Signore, gran beneficio il non aver molte cose, onde esteriormente e secondo l’opinione degli uomini me ne risulti lode e gloria (1Thom. a Kemp. lib. 3, c. 22, n. 4.). I Santi conoscevano molto bene il gran pericolo che suol essere in queste eminenze ed eccellenze; e così non solo non le desideravano, ma le temevano, per lo pericolo grande di diventare con esse vani e di perdersi. Ab altitudine diei timebo (PS. LV, 4): E con ciò piacevano più a Dio il quale vuole i suoi servi più umili che grandi. Oh se finissimo di farci capaci, che ogni cosa è vanità, eccetto che il fare la volontà di Dio! Oh se finissimo di metter ogni nostro gusto nel gusto di Dio! Se tu senza lettere, e tu pure con manco lettere e abilità, puoi dare più gusto a Dio, a che proposito, e tu desiderare le lettere? e tu parimente desiderare più lettere, più abilità e più talento? Se per qualche fine avessimo da desiderare queste cose, dovrebbe essere per dar gusto e per servir meglio a Dio con esse. Or se Dio è più servito, o  dall’esser tu senza lettere, o dal non averne tu più, né più talento, né più abilità, come è ciò certo, poiché egli è quegli che ha fatta questa distribuzione, di che cosa t’hai da pigliare fastidio? Perché vuoi esser da più di quel che Dio vuole? Perché vuoi esser quello che a te stesso non conviene che tu sii? Non piacquero a Dio que’ gran sacrifici che Saulle gli volle offerire (I. Reg. XIII, 10, et c. XV, 21), perché la cosa non camminava conforme alla volontà sua: e così né anche piaceranno a Dio cotesti desideri tuoi alti ed elevati. Che non istà il nostro bene né il nostro profitto e perfezione nell’esser dotti, né gran Predicatori, né in aver grandi abilità e talenti, né in attendere e occuparsi in cose alte ed eminenti; ma in fare la volontà di Dio, in render buon conto di quel che ha posto e fidato nelle nostre mani, e nell’impiegar bene il talento che ci ha dato: onde in questo abbiamo da metter gli occhi, e non in quelle altre cose, perché questo è quello che Dio vuole da noi altri. È molto buona similitudine per dichiarar questo quella de’ comici, la cui lode e premio non si regola dal personaggio che rappresentano, ma dal buon modo e garbo col quale ciascuno, attesa la voce, il portamento ed il gesto, lo rappresenta: onde se fa meglio la parte sua colui che rappresenta la persona del villano che colui che rappresenta la persona dell’Imperadore, quel primo viene ad essere più stimato e lodato da’ circostanti, e meglio premiato da’ giudici. Nell’istessa maniera quel che Dio riguarda e stima in noi altri in questa vita (la quale tutta è come una rappresentazione e commedia che finisce presto, e piaccia a Dio che per alcuni non sia tragedia) non è il personaggio che rappresentiamo, chi di Superiore, chi di Predicatore, chi di Sagrestano, chi di Portinaio; ma bensì con quanto buon garbo si porta ciascuno nel personaggio che rappresenta: onde se il Coadiutore fa meglio il suo ufficio e rappresenta meglio il suo personaggio che non fanno il Predicatore, o il Superiore il loro, sarà più stimato nel cospetto di Dio, più premiato e più onorato. Talvolta forse non avrebbe saputo uno rappresentar bene la persona del Re, e rappresentando quella d’un servidore, o d’un pastore, si guadagnò onore e riportò premio. Così ancora tu non avresti forse saputo rappresentare bene il personaggio di Predicatore, o di Superiore, e rappresenti bene quello di Confessore; e tu altresì quello di Coadiutore. Dio sa molto bene distribuire le parti, e dar a ciascuno quella che più gli conviene: Unicuique secundum propriam virtutem (Matt. XXV, 15): Proporzionatamente al capitale e alle forze di ciascuno dice il sacro Evangelio che distribuì quel padrone i talenti. Perciò nessuno abbia desiderio né di fare altro personaggio, né di avere altri talenti; ma procuri ciascuno di rappresentar bene quel personaggio che gli è stato assegnato, e d’impiegar bene quel talento che ha ricevuto, e di poter rendere buon conto di esso; perché in questo modo piacerà più a Dio ed avrà maggior premio.

CAPO XVI.

Della conformità alla volontà di Dio che dobbiamo avere nelle infermità.

Siccome la sanità è dono di Dio, così ancora è dono di Dio l’infermità la quale il Signore ci manda per provarci, per correggerci e per farci emendare, e per molti altri beni ed utilità che da essa si sogliono cavare; come sono, conoscere la nostra debolezza; chiarirci della nostra vanità; staccarci dall’amore delle cose terrene e dagli appetiti della sensualità; e stenuare le forze e i capricci del nostro maggior nemico, che è la carne, e ricordarci, che questa terra non è la patria nostra, ma come un’osteria e un luogo di nostro esilio, ed altre cose simili. Per lo che disse il Savio: Infirmitas gravis sobriam facit animam (Eccli. XXI, 8): L’infermità grave fa l’anima sobria, temperata e forte. E così abbiamo da esser tanto conformi alla volontà di Dio nell’infermità, quanto nella sanità, accettandola come venuta dalla mano del Signore quando piacerà a Lui di mandarcela. Diceva uno di que’ Padri antichi ad un suo discepolo il quale era infermo: Figliuolo, non ti attristare per l’infermità, anzi ringrazia Dio per essa, perché se sei ferro, col fuoco perderai la ruggine, e se tu sei oro, col fuoco sarai provato; e vi aggiungeva, che è gran virtù ed è cosa da vero Religioso ringraziare Dio nell’infermità. Narra il Surio di S. Chiara nella Vita di lei, che per lo spazio di ventotto anni ebbe gravi infermità, e che fu tanto grande la sua pazienza, che in tutto quel tempo non fu mai udita lamentarsi né mormorare del suo gran patimento, anzi che sempre ringraziava il Signore: e nella sua ultima infermità, stando ella tanto oppressa dal male, che in diciassette giorni non poté mangiar boccone, consolandola il suo Confessore fra Rinaldo, ed esortandola ad aver pazienza in così lungo martirio di tante infermità, ella rispose cosi: Da che conobbi la grazia del mio Signore Gesù Cristo per mezzo del suo santo servo Francesco, nessuna infermità m’è stata dura, nessuna pena molesta e nessuna penitenza grave. È anche meravigliosa a questo proposito, di rarissimo esempio, e che darà grand’animo e consolazione agl’infermi, la vita della santa vergine Liduvina, la quale ebbe per trent’otto anni continue gravissime e straordinarie infermità e dolori; e trenta di essi se ne stette senza potersi levare da un povero letticciuolo né toccar terra co’ piedi; e in quello stato il Signore le faceva grandissime grazie (Refert Surius tom. 7, fol. 277, et Villega 3 p. Vit. 189). Ma perché ci si sogliono rappresentare alcune ragioni particolari con colore e apparenza di maggior bene, per impedirci questa indifferenza e conformità, andremo rispondendo e soddisfacendo ad esse. E primieramente potrebbe dire alcuno: Per quel che tocca a me, non mi curerei più d’esser infermo, che d’esser sano; ma quel che mi duole è, che mi pare di essere di peso alla Religione e di apportare disturbo in Casa. A questo rispondo, che è un giudicare i Superiori e quei della Casa di poca carità e di poca conformità alla volontà di Dio. I Superiori ancora attendono alla perfezione e a pigliare tutte le cose come venute dalla mano del Signore, e a conformarsi in esse alla sua divina volontà; onde se Dio vuole che tu stia infermo e che essi si occupino in compatirti e in consolarti, e in farti curare e servire, vorranno anch’essi il medesimo: e come tu porti la croce che Dio ti dà, così porteranno essi quella che toccherà loro, con gran conformità alla volontà del Signore. Ma mi dirai: Ben veggo la carità grande che in questo s’usa nella Compagnia. Quel che mi dà fastidio non è altro che il frutto che potrei fare studiando, predicando, o confessando, e il mancamento che in ciò ne proviene dallo stare io infermo. A questo risponde molto bene S. Agostino (D. Aug. lib. de catechizandis rudibus, c. 14), dicendo, che noi altri non sappiamo, se sarà meglio fare quello che vorremmo, o il lasciare di farlo: e così abbiamo sempre da architettare e ordinare le cose secondo la nostra capacità: e se dipoi le potremo fare nel modo che noi altri ce le siamo già architettate, non abbiamo da rallegrarci dell’essersi fatto quel che noi abbiamo pensato e voluto, ma dell’esser piaciuto al Signore che così si facesse: e succedendo che non venga ad effetto quello che noi altri abbiamo pensato e disegnato, non dobbiamo perciò turbarci né perder la pace dell’animo: perché æquius est, ut nos ejus, quam ut ille nostram sequatur voluntatem: è tanto più ragionevole, che noi seguiamo la volontà e disposizione di Dio, ch’egli la nostra. E conchiude S. Agostino con una meravigliosa sentenza: Nemo melius ordinat quid agat, nisi qui paratior est non agere, quod divina potestate prohibetur, quam cupidior agere, quod fiumana cogitatione meditatur: Colui ordina e disegna meglio le cose sue il quale sta più disposto e preparato per non far quello che Dio non vuole ch’egli faccia, di quello che stiasi desideroso e ansioso di fare quello che esso ha disegnato e pensato. Or in questa maniera e con questa indifferenza dobbiam noi altri pensare e ordinare quello che abbiamo da fare; cioè con istar sempre molto disposti a conformarci alla volontà di Dio, caso che la cosa non succeda come l’abbiamo pensata. E così non ci turberemo né ci attristeremo quando per infermità, o per altra simil cagione, non potremo far quello che avevamo pensato e disegnato, ancorché le cose in sé siano di molta utilità per le altrui anime. Dice molto bene il padre maestro Avila scrivendo ad un Sacerdote infermo (M. Avil. tom. 2epist.): Non istare a far conto di quel che faresti essendo sano; ma di quanto piacerai al Signore contentandoti di stare infermo. E se cerchi, come credo che tu cerchi, la volontà di Dio puramente, che cosa t’importa più lo stare sano che infermo, poiché la volontà sua è tutto il nostro bene? S. Gio. Crisostomo dice, che meritò più e piacque più a Dio il santo Giob con quel suo, Sìcut Domino placuit, ita factum est: sit nomen Domini benedictum (Chrys. in Job I.21), con ciò pienamente conformandosi alla divina  volontà sua in que’ travagli e in quella lebbra che gli mandò, che con quante limosine e beni fece essendo sano e ricco. Ora nell’istesso modo tu piacerai più a Dio conformandoti alla volontà sua quando stai infermo, che con quanto avresti potuto fare stando sano. Il medesimo dice il glorioso S. Bonaventura: Perfectius est adversa tolerare patienter, quam bonis operibus insudare (D. Bonav. de gradibus virtutum.c. 24, et lib. 2 de prof. Belig. o. 37, affert hoc ex D. Greg.): È maggior perfezione il sopportarecon pazienza e conformità i travaglie le avversità, che l’attendere ad opere molto buone: che Dio non ha necessità dime, né di te, per far il frutto che vuole nella sua Chiesa: Ego dixi, Deus meus es tu, qùoniam bonorum meorum non eges (Psal. XV, 2). Adesso egli vuol predicar a te coll’infermità, e vuole che impari ad avere pazienza ed umiltà. Lascia fare a Dio, che Egli sa quello che più conviene, e tu non lo sai. Se per qualche cosa avessimo da desiderare la sanità e le forze, dovrebbe essere per impiegarle in servire e in piacer più a Dio. Se dunque il Signore si tiene per più servito, e gli piace più che io m’impieghi nello star infermo e nel sopportare con pazienza i travagli dell’infermità, faccia si la volontà sua; che questo è il meglio e quello che più mi conviene. Permise il Signore che l’apostolo S. Paolo (Act. XXVIII, 30), Predicatore delle Genti, stesse prigione per lo spazio di due anni, e in quel tempo di tanta necessità per la primitiva Chiesa. Non paia a te gran cosa che Dio ti tenga prigione coll’infermità per due mesi, o per due anni,o per tutta la vita, se a Lui piacerà, che non sei tu tanto necessario nella Chiesa di Dio. quanto l’era l’apostolo S. Paolo. Ad alcuni quando vien loro un qualche male, o sono soggetti a certe indisposizione. di mala sanità lunghe e continue, si suole rappresentare come una cosa molto penosa per loro il non poter proseguire a fare la vita comune, e lo aver da essere singolari in molte cose; del che sentono gran dispiacere, parendo loro, o di non esser tanto Religiosi quanto gli altri, o almeno che gli altri potranno rimanere scandalizzati, veggendo le loro particolarità e i migliori trattamenti che lor si fanno; specialmente non apparendo alle volte tanto nell’esteriore l’infermità e la necessità di qualcuno, ma sapendo solamente Dio e. l’infermo quanto egli patisce: e intantoqueste singolarità ed esenzioni danno moltonegli altrui occhi. Al che rispondo, chequesto è un molto buon riguardo e un moltogiusto sentimento, ed è cosa lodevole l’averlo:ma questo non ti ha da tórre laconformità alla volontà di Dio nell’infermità;ma bensì da raddoppiarti il merito, conformandoti tu da un canto interamente alla volontà di Dio in tutte le tue in disposizioni e infermità, poiché Egli vuole che tule patisca; e dall’altro avendo gran desiderio,quanto è dalla parte tua, di uniformarsi alla Religione in tutti gli esercizi di. essa molto puntualmente ed esattamente, e sentendo con dispiacere nel cuor tuo il non far tutto quello che fanno gli altri;perché in questo, oltre quel che meriti sopportando l’infermità colla pazienza e conformità, puoi anche meritar tanto in questa seconda cosa, quanto gli altri che sono sani, e stanno bene, e fanno tutti gli esercizi della Religione. S. Agostino nel Sermone sessagesimosecondo de Tempore, trattando dell’obbligo che tutti avevano di digiunare in quel santo tempo di Quaresima sotto pena di peccato mortale, e venendo a trattar di colui che è infermo e non può digiunare, dice: A colui basta il non potere digiunare e il mangiar con dolore nel cuor suo, gemendo e sospirando perché digiunando gli altri egli non può digiunare. Siccome il valente soldato che portato al padiglione ferito sente più il non poter combattere né segnalarsi nel servigio del suo Re, che il dolore delle ferite e del rigore che s’usa seco in medicargliele; così è cosa da buoni Religiosi, quando sono infermi, sentir più il non poter proseguire la vita comune né far gli esercizi della Religione, che l’istessa infermità. Ma al fine né questa né altra cosa alcuna ci ha da distorre dal conformarci alla volontà di Dio nell’infermità, accettandola come mandata dalla sua mano, per maggior gloria della Divina Maestà Sua,e per maggior bene e utilità nostra. Il beato S. Girolamo racconta, che facendo istanza un Monaco al santo abbate Giovanni l’Egizio, che lo risanasse d’una infermità e febbre grave che aveva, gli rispose il Santo: Rem Ubi necessariam cupis abjicere: ut enim corpora nitro, vel aliis hujusmodi linimentis abluuntur a sordibus; ita animæ languoribus, aliisque hujusmodi castigationibus purificantur (D. Hier, in Vit. Petr.): Vuoi torti di dosso una cosa che ti è molto necessaria, perché siccome l’immondezza e sporchezza delle cose corporali si leva con sapone, o con lisciva forte, o con altre cose simili; cosi le anime si purificano coll’infermità e co’ travagli.

IL CATECHISMO DEL CARDINAL GASPARRI (6)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (6)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vic. Gen.

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

CAPO III.

Del Simbolo degli Apostoli.

D. 30. Perché questo elenco delle verità della fede vien chiamato Simbolo degli Apostoli?

R. Questo elenco delle verità della fede vien chiamato Simbolo degli Apostoli perché offre un ristretto delle principali verità tramandate dagli Apostoli: ristretto che sin dai primi tempi della Chiesa entrò nell’uso quale tessera dei Cristiani.

D. 31. Che cosa contengono i dodici articoli del Simbolo?

R. I dodici articoli del Simbolo contengono il mistero di Dio uno in tre Persone realmente distinte: Padre, Figliuolo e Spirito Santo, nonché le azioni che per qualche speciale motivo vengono attribuite alle singole Persone.

(S. Pietro Canisio: De fide et symbolo fidei, cap. I , n . 7; Catech. per i parroci, p. I , c. I, n. 4).

D. 32. In qual modo la dottrina di questo mistero vien distribuita nel Simbolo degli Apostoli?

R. La dottrina di questo mistero vien distribuita nel Simbolo degli Apostoli in tre parti principali, di modo che in una venga descritta la prima Persona della divina natura e l’opera della creazione; nell’altra la seconda Persona e l’opera dell’umana Redenzione; nella terza similmente la terza Persona e l’opera della nostra santificazione, la quale, iniziata quaggiù mediante la grazia, dovrà compiersi nel futuro mediante la gloria.

(*) Catech. p. i parr., 1. C. I: « Come ebbero ad osservare i nostri Padri i quali piamente ed accuratamente studiarono l’argomento presente, il mistero della SS. Trinità sembra qui distribuito in tre parti principali, in modo cioè che nella prima venga descritta la prima Persona della divina natura, e l’opera mirabile della creazione; nella seguente, la seconda Persona e ilmistero della umana Redenzione; nella terza, la terza Persona origine è fonte della nostra santità ».

SEZIONE la. — Del primo articolo del Simbolo che contiene la dottrina circa la prima Persona della santissima Trinità e l’opera della Creazione.

Art. 1. — Di DIO UNO E TRINO.

D. 33. Che cosa significa la parola: Credo?

R. La parola Credo significa: fermamente assentisco, per l’Autorità di Dio rivelante, alle verità contenute nel Simbolo.

D. 34. Che cosa significano le parole: Credo in Dio?

R. Le parole: Credo in Dio significano: credo fermamente che vi è Dio, e che io tendo a Lui come al sommo e perfettissimo bene e come all’ultimo fine (Catech. Per i parr., p. I, c. II, n. 1).

D. 35. Che cosa intendete col nome di Dio?

R. Col nome di Dio intendo uno spirito purissimo, cioè una sostanza spirituale assolutamente semplice e immutabile; infinito nell’intelligenza, nella volontà e in ogni perfezione; in sé e da sé beatissimo.

D. 36. Quali sono le principali perfezioni, o attributi di Dio?

R. Le principali perfezioni, o attributi di Dio, sono le seguenti: Dio è:

eterno, perché non ha né può avere principio, fine o successione;

onnisciente, perché tutto chiaramente conosce, perfino ciò che per libera azione delle creature è futuro, gli stessi affetti del cuore e i secreti pensieri della mente;

immenso, perché è in cielo, in terra e in tutti i luoghi che sono o possono essere;

giusto, perché rende a ciascuno secondo i suoi meriti, in questa vita o certamente nell’altra;

buono, perché con la sua infinita bontà, potenza e sapienza, tutto Egli ha creato, conserva, dispone; i beni di cui godiamo da Lui provengono, ed Egli ascolta benigno le preghiere di chi lo supplica;

misericordioso, perché, volendo la salvezza di tutti gli uomini, li riscattò dalla schiavitù del demonio; perché ad ognuno largisce i mezzi necessari alla salvezza non volendo Egli « la morte del peccatore, ma che si converta e viva »

(Salmo VII, 10; XXXVII, 10; XLIII, 22; CXXXVIII, 1-12; Giov., IV, 24; Atti, XVIII, 25; Paolo, 1a ad Tim., I , 17; Apocalisse, I, 8; IV, 8, 11; Conc. Laterano, IV, c. I ; Conc. Vat.: Cost. Dei Filius, cap.I; S. Cirillo Gerosolimitano, Cathecheses, IV, 5. Della onnipotenza divina è parola nella D. 44.)

D. 37. Dio è distinto dal mondo?

R. Dio è realmente ed essenzialmente distinto dal mondo ed ineffabilmente eccelso, al disopra di quanto è e può essere pensato all’infuori di Lui (Atti, XVII, 24, 25; Paolo, ad Hebr., I , 10-12; Conc. Vat., 1. c.).

D. 38. Dio è uno?

R. Dio è uno di unità di natura, in tre Persone realmente distinte: Padre, Figliuolo e Spirito Santo, le quali sono la Santissima Trinità.

D. 39. In qual modo si distinguono tra loro Padre, Figliuolo e Spirito Santo?

R. Padre, Figliuolo e Spirito Santo sono fra loro distinti per le opposte relazioni delle Persone, in quanto il Padre genera il Figlio e da entrambi procede lo Spirito Santo (*).

(*) Conc. Lat., IV, cap. 2; Conc. di Lione, II, De proc. Spiritus Sancti; Conc. di Firenze: Decr. prò Græcis; S. Ag.: De Trinitate, I, 7; S. Epifanio: Ancoratus, 8; S. Giov. Damasceno: De fide ortodoxa, I , 12. I Padri greci espressero questa eterna processione dello Spirito Santo con la formula: « Dal Padre per il Figliuolo ».

D. 40. Delle tre Persone divine è l’una temporalmente prima dell’altra?

R. Delle tre Persone divine nessuna è temporalmente prima dell’altra, ma tutte sono ugualmente eterne, perché non hanno né possono avere né principio né fine.

D. 41. Perché le tre Persone divine sono un unico Dio?

R. Le tre Persone divine sono un unico Dio perché sono consostanziali, cioè, perch é hanno un’unica e identica natura divina e quindi le medesime perfezioni, o attributi, e le medesime opere ad extra.

(Conc. Lat., sotto S. Martino I , can. I; S. Fulgenzio: De fide, 4; S. Efrem.: Hymnus de defunctis et Trinitate, 11-12; S. Gregorio Nazianzeno: Oratio, XXXIII, 16; Cat. p. parr., p. I,c. IV, n. 3. — Le opere di Dio ad extra sono tutte quelle che Dio produce all’infuori di sé tanto nell’ordine naturale che soprannaturale; vengono chiamate così per distinguerle dalle azioni a Dio immanenti, dalle quali è costituita l’intima vita di Dio.)

D. 42. Ma non sogliono forse le sacre Lettere attribuire al Padre la potenza, al Figliuolo la sapienza, allo Spirito Santo la bontà?

R. Per quanto tutti gli attributi della divinità siano comuni alle singole Persone divine, pur tuttavia le sacre Lettere sogliono attribuire la potenza al Padre, in quanto fonte di ogni origine, la sapienza al Figliuolo in quanto Verbo del Padre, la santità allo Spirito Santo in quanto amore di entrambi (Cat. p. parr., 1. c. e p. I, c.II, n. 14).

D. 43. Qual è la lode delh Santissima Trinità che i fedeli sogliono recitare, soprattuto alla fine delle preghiere?

R. La lode della Santissima Trinità che i fedeli sogliono recitare, soprattutto alla fine delle preghiere, è la seguente: Gloria al Padre e al Figliuolo e allo Spirito Santo, com’era nel principio, e ora, e sempre, e nei secoli de’ secoli, così sia.

D. 44. Che cosa si vuol significare con lo parola Onnipotente?

R. Con la parola Onnipotente si vuol significare che Dio, con un semplice atto della sua volontà può fare quanto vuole, cioè tutto (Salmo CXIII, II, Luca, I, 37).

Art. 2. — DELLA CREAZIONE DEL MONDO E DELLA PROVVIDENZA DIVINA.

D. 45. Che cosa significano le parole: Creatore del cielo e della terra?

R. Le parole: Creatore del cielo e della terrasignificano che Dio, con liberissimo disegno, simultaneamente al principiare stesso del tempo, trasse dal nulla l’una e l’altra creatura, la spirituale e la corporale, vale a dire quella dell’Angelo e quella del mondo e poi quella dell’uomo, quasi partecipe delle prime due, in quanto costituita di spirito e di corpo.

D. 46. Perché Dio si degnò di creare tutte queste cose?

R. Dio, nella sua bontà ed onnipotenza, si degnò di creare tutte queste cose, non al fine di aggiungere alcunché alla propria beatitudine e meno ancora al fine di acquistarla, ma per render manifesta la propria perfezione per mezzo dei beni elargiti alle creature.

(Genesi, I, 1; Salmo CXXXIV, 6; Paolo, ad Hebr., I, 20; Conc. Lat., IV, cap. I; Conc. Vat.: Const. Dei Filius, cap. I; Cat. p. parr., p. I, c. II, n. 20).

D. 47. Dio ha cura di tutte le cose create?

R. Dio ha cura di tutte le cose create in quanto positivamente le conserva, le protegge — altrimenti ricadrebbero immediatamente nel nulla — e le governa, così che nulla sia o possa mai accadere indipendentemente dalla volontà di Dio o senza il suo permesso.

(Sapienza, X I , 26; Matt., VI, 30; Luca, XVI, 6, 7; Atti, XVII, 25; Paolo, ad Rom., VIII, 30; ad Hebr., I, 3; Conc. Vat., 1. c; Cat. p. parr., 1, c. n. 21, 22.)

D. 48. Come si chiama la cura che Dio ha delle cose create?

R. La cura che Dio ha delle cose create si chiama la divina Provvidenza(S. Giovanni Crisostomo: Contra Anamœos, XII, 4).

D. 49. Perché allora Dio non impedisce il peccato?

R. Dio non impedisce il peccato perché ha dato all’uomo la libertà e l’aiuto della grazia, acciocché l’uomo stesso divenisse l’artefice della propria beatitudine o della propria perdizione, a seconda che cooperasse alla grazia o a questa resistesse; però, dallo stesso abuso della libertà, Dio mirabilmente ricava il bene, affinché sempre e dappertutto rifulgano la sua giustizia e la sua misericordia (S. Agostino, De spiritu et littera, 58).

D. 50. Perché Dio vuole o permette quei mali fisici di ogni sorta che ci affliggono in questa nostra vita mortale?

R. Dio vuole o permette i mali fisici di ogni sorta che ci affliggono in questa nostra vita mortale o per punire il peccato, o per far sì che i peccatori si convertano a Lui, o per provare i giusti e renderli degni dell’eterna ricompensa, o in vista di un bene maggiore.

(Genesi, III, 16-19; Tobia, II, 12; Giobbe, II, 6-7; Giov., IX, 3; S. Efrem.: Carmina Nisibena, III, 8, 10; S. Tomaso, p. 1a, q. 19, a. 9 ; q. 49, a. 2).

D. 51. Fra tutte le creature quali sono le più nobili?

R. Fra tutte le creature le più nobili sono gli Angeli e gli uomini.

Art. 3. — DELLA CREAZIONE DEGLI ANGELI.

D. 52. Chi sono gli Angeli?

R. Gli Angeli sono puri spiriti, dotati d’intelligenza e di volontà, costituiti da Dio in stato di giustizia e di santità, affinché, corrispondendo alla grazia di Dio, si meritassero la gloria (Matt: XVIII, 10; Paolo: ad Hebr., I, 7, 14; S. Giov. Damasc.: De fide ortodoxa, II, 3).

D. 53. Corrisposero tutti gli Angeli alla grazia di Dio?

R. Non tutti gli Angeli corrisposero alla grazia di Dio: coloro che vi corrisposero godono in cielo la visione beatifica di Dio e vengon chiamati semplicemente Angeli, divisi in nove ordini; coloro che non vi corrisposero, relegati nell’inferno per il peccato di superbia, son chiamati demòni, e il loro capo è Lucifero ovvero satana.

(Isaia, XIV, 12-15; Giobbe, IV, 18; 2.a di Pietro, II, 4; Giuda, 6; S. Atanasio: De Virginitate, 5; S. Gregorio Magno: In Evangelia, II, 34, 7, 8, 9).

D. 54. Dio si serve del ministero degli Angeli?

R. Dio si serve in molti modi del ministero degli Angeli, specialmente nella cura degli uomini, a ciascuno de’ quali, fin dalla nascita egli assegna un Angelo custode.

(Tobia, V, 15; Salmo XC, 11; Matteo, II, 13, 19; XVIII, 10; Luca, I , 26, 28; Paolo: Ad Hebr., I, 14; S. Gerolamo: lib. III Comm. in cap. XVIII S. Matthæi; Catech. p. parr., p. IV, c. IX, a. 4. )

D. 55. Che bene ci fa l’Angelo Custode?

R. L’Angelo Custode ci protegge, soprattutto nelle tentazioni, ci suggerisce i buoni pensieri, offre a Dio le nostre preghiere e prega per noi (Esodo, XXIII, 20-23; Tobia, III, 25; XII, 12, 13).

D. 56. Giova alla nostra vita spirituale il far oggetto di una speciale devozione il nostro Angelo Custode?

R. Giova moltissimo alla nostra vita spirituale il fare oggetto di una speciale devozione il nostro Angelo Custode, venerandolo e invocandolo, massime contro le tentazioni, seguendo le sue ispirazioni, degnamente ringraziandolo e non offendendo mai col peccato la sua presenza.

D. 57. Qual è la preghiera all’Angelo Custode più in uso tra i fedeli?

R. La preghiera all’Angelo Custode più in uso tra i fedeli è la seguente: Angelo di Dio che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me, che Ti fui affidato dalla Pietà celeste. Così sia.

D. 58. Che cosa possono i demoni contro gli uomini?

R. I demoni possono, col giusto permesso di Dio, affliggere gli uomini di mali diversi, sia all’esterno, sia nelle loro stesse persone, fino a possedere i loro corpi e ad incitarli al peccato col tentarli; non possono però nuocere alla eterna salute degli uomini senza il loro libero consenso (*)

(*) Giobbe, I, 12; II, 6; Luca, XXII, 3, 31; Giovanni, XIII, 27; la di Pietro, V, 8; S. Ireneo: Adversus hæreses, V, 24, 3 e 4.

Art. 4. — DELLA CREAZIONE DELL’UOMO E DEL PECCATO ORIGINALE.

D. 59. Che cosa è l’uomo?

R. L’uomo è una creatura la quale consta di un’anima razionale e di un corpo organico (Gen. II, 7).

D. 60. Che cosa è l’anima razionale?

R. L’anima razionale è una sostanza spirituale, fornita d’intelligenza, di libera volontà, ed immortale; essa poi è in tal modo unita sostanzialmente al corpo da essere, nell’uomo, principio di ogni vita (Concilio Lateranense, V, Sess. VII; Pio IX: Epist. ad Episc. Wratislav., 30 apr. 1860; S. Giov. Dam.: De fide ortodoxa, II, 12).

D. 61. A qual fine l’uomo è stato creato da Dio?

R. L’uomo è stato creato da Dio al fine di conoscerlo, amarlo e servirlo, e, così facendo, possederlo dopo la morte, con la visione beatifica, nel gaudio eterno del Paradiso (Deuteronomio, VI, 13; Giov., XVIII, 3; I di Giov., III, 2)

D. 62. In che cosa consiste la visione beatifica di Dio?

R. La visione beatifica di Dio consiste nel vedere la divina essenza, immediatamente, schiettamente, chiaramente e apertamente svelata; visione alla quale l’anima può giungere solo con il lume della gloria; in grazia di tal visione e godimento l’uomo raggiunge la felicità vera e piena che non verrà mai meno, vale a dire la vita eterna (Benedetto XII: Const. Benedictus Deus, 29 giugno 1336; S. Giov. Dam.: De fide ortod., I V , 27; Catech. pei parr., p. I, c. XIII, n. 7 e segg.).

D. 63. La visione beatifica di Dio è dovuta alla natura?

R. La visione beatifica di Dio non è dovuta alla natura, ma è soprannaturale; supera del tutto ogni e qualsiasi natura creata e solo per divina bontà è liberamente concessa alla creatura ragionevole.

(*) La perfetta felicità alla quale gli uomini tutti tendono per natura, può aversi soltanto nell’altra vita col possesso di Dio mediante la perfetta conoscenza dell’intelletto e quell’amore della volontà che ne consegue, secondo quanto dice S. Agostino, Conf. 1.1, c. I , n. I : « Ci hai fatti, o Signore, per Te e il nostro cuore e inquieto fin tanto che in Te non riposi ». Dio poi, per l’infinita sua bontà, si degna di elevare gli uomini alla perfetta felicità soprannaturale, felicità che si ottiene nel possesso di Dio, col vederlo qual è in sé; in ciò consiste la nostra vita eterna. — Paolo, Ia ad Cor., II, 9, 10; S. Pio V: Const. Ex omnibus afflictionibus, 1 ott. 1567, contro errores Baii; Clemente XI: Const. Unigenitus contra errores Quesnel, 8 sett. 1713, prop. 35; Pio VI: Const. Auctorem fidei, 28 agosto 1794, prop. 16.

D. 64. Chi furono i progenitori del genere umano?

R. I progenitori del genere umano furono Adamo ed Eva, che Dio plasmò e collocò nel Paradiso terrestre, elevandoli all’ordine soprannaturale e colmandoli di doni singolari di grazia e di natura.

(Gen. II, 7 e segg. — All’uomo creato a propria immagine e somiglianza, Dio assoggettò gli animali della terra affinché di essi, come dell’erbe e de’ frutti, si servisse per proprio beneficio. Sicché non abusare, o Cristiano, degli animali, bensì usane rettamente; se arbitrariamente e senz’alcuna ragione tu li maltrattassi e incrudelissi contro essi, mancheresti a quella mitezza d’animo che a tutti, ma, più che ad ogni altro, si addice al Cristiano).

D. 65. In qual modo Dio formò i progenitori del genere umano?

R. Dio formò il corpo di Adamo col fango della terra, e il corpo di Eva da una costa di Adamo; quanto all’anima dell’uno e dell’altra Egli la creò dal nulla e la congiunse al corpo con mirabile unione sostanziale (Gen., 1. C. ; S. Giov. Cris.: In Gen., XIII, 1).

D. 66. In qual senso è detto nelle sacre Lettere che Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza?

R. È detto nelle sacre Lettere che Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza nel senso che lo fornì di quell’intelletto e di quella libera volontà, in grazia dei quali esso viene ad imitare in special modo la natura di Dio; e lo elevò nello stesso tempo all’ordine soprannaturale.

(*) Gen., 26, 27; Sap., II, 23; Salmo VIII, 5-9; S. Efrem.:

In Genesim, cap. 2; S. Basilio: Sermo asceticus, I; S. Agost.: Enarratio in Psalm., 49, 2; S. Tom., p. I A, q. 93. — Questa immagine e somiglianza di Dio è tanto più perfezionata per l’aggiunta della grazia santificante, per la quale l’uomo diventa partecipe della divina Natura, tempio dello Spirito Santo, amico di Dio e suo figlio adottivo, erede della gloria celeste. (Dom., 280).

D. 67. Qual è, nell’ordine naturale, la differenza tra la creazione dei progenitori e l’origine di tutti gli altri uomini che per naturale generazione da essi discendono?

R. Nell’ordine naturale l’unica differenza consiste nella formazione del corpo, mentre, infatti, il corpo dei discendenti d’Adamo vien formato per generazione, l’anima di ciascuno di essi è come quella di Adamo, immediatamente creata da Dio e unita sostanzialmente al corpo.

D. 68. Quali furono i doni di cui Dio colmò i progenitori nel paradiso terrestre?

R. I doni di cui Dio colmò i progenitori nel paradiso terrestre furono i seguenti:

1°. li formò perfetti nel corpo e nell’anima, con la scienza conveniente al loro stato (Eccli., XVII , 1-12);

2°. si degnò di ordinarli al fine soprannaturale, conferendo loro la giustizia e la santità, con il dono dell’integrità di natura, per il quale le potenze inferiori erano perfettamente sottoposte alla ragione; nonché il privilegio di essere immuni dalla morte e dagli altri dolori e miserie della vita.

(Gen., I , 28; II, 17, 25; III, 3, 7, 19; Sapienza, I, 13; II, 23; Eccli., XXV, 33; Paolo: ad Rom., V, 12-19; 1a ad Cor., XV, 45-49).

D. 69. Con quale intendimento Dio conferì ai progenitori la giustizia, la santità e gli altri doni?

R. Dio conferì ai progenitori la giustizia, la santità e gli altri doni, con l’intendimento preciso di conferire tutto ciò alla stessa natura umana, quale dono a tutta la natura divinamente elargito, che Adamo, quale capostipite del genere umano, avrebbe trasmesso ai posteri, unitamente alla stessa natura, mediante la generazione (S. Tom.: la, 2æ, q. 81, a. 2.).

D. 70. Che cosa Dio vietò ai progenitori costituiti nell’ordine soprannaturale?

R. Ai progenitori costituiti nell’ordine soprannaturale vietò di mangiare il frutto dell’albero della scienza del bene e del male (Gen. II, 17; III, 3).

D. 71. Osservarono i progenitori il divieto di Dio?

R. I progenitori non osservarono il divieto di Dio, sicché, per il grave peccato di superbia e di disubbidienza, perdettero la giustizia e la santità; espulsi quindi dal Paradiso terrestre, furono assoggettati alla concupiscenza,nalla morte e agli altri dolori e miserie della vita (Gen., II, 17; III, 1-24; Paolo: Ad Rom., V, 19).

D. 72. Con la sua prevaricazione Adamo nocque pure a’ suoi discendenti?

R. Con la sua prevaricazione Adamo nocque pure a’ suoi discendenti, perché trasmise loro non solo la concupiscenza, la morte e le altre pene del peccato, ma il peccato stesso, vale a dire la privazione della giustizia e della santità.

D. 73. In qual modo Adamo trasmise il peccato a’ suoi discendenti?

R. Adamo trasmise il peccato a’ suoi discendenti in quanto trasmise loro la umana natura privata della giustizia e santità che Dio aveva voluto conferirgli; e questa privazione è precisamente il peccato abituale della natura: uno in Adamo per origine, diffuso poi mediante la propagazione.

D. 74. Come si chiama questo peccato trasmesso ai discendenti?

R. Questo peccato trasmesso ai discendenti si chiama peccato originale(*).

(*) Giobbe, XIV, 4; Salmo, L, 6; Giov., III, 5; Paolo: I.a ad Tim., II, 6; ad Rom., V, 12-14, 18-19; Conc. di Cartag., (a. 418), can. 2; Conc. II d’Orange, can. 1, 2; Conc. Di Fir.: Decr. prò Jacobitis; Conc. di Trento, Sess. V: De peccato originali; Pio IX, Alloc.: Singulari quadam, 9 dic. 1854; S. Cirillo Aless.: In Epistola ad Romanos, V, 18.Se si crede opportuno, così può chiarirsi quanto precede. Il primo uomo fu costituito in uno stato perfetto, non solo riguardo al corpo così da poter subito generare i suoi simili, ma anche riguardo all’anima, così da poter subito istruirli e governarli con la scienza d’ordine naturale a ciò necessaria. Tale scienza fu data ad entrambi i progenitori, e massimamente ad Adamo, cui spettava in primo luogo d’istruire e governare gli altri; essa non sarebbe passata ai figli nati nello stato d’innocenza, i quali con l’andare del tempo, mediante unprocesso di ricerca e di apprendimento, avrebbero acquistato senza difficoltà la scienza loro conveniente (S. Tomaso, I, q. 94, a. 3 e q. 101, a. I , 2). Dio, elevando i progenitori allo stato soprannaturale, rivelò loro le verità riferentisi a quel medesimo stato e le verità che Adamo doveva trasmettere ai discendenti; simultaneamente Egli conferì loro la giustizia e la santità insieme con gli altri doni. Con la sua prevaricazione Adamo perdette tutto ciò, e per sé e per i suoi discendenti, senza però perdere la scienza d’ordine naturale, né la conoscenza delle verità rivelate. La perdita della giustizia e della santità, e quella soprattutto dell’integrità di natura, fu l’inizio di quella lotta fra le potenze inferiori e la ragione, di cui Paolo (ad Gal., V, 17) scrive: « La carne concupisce contro lo spirito e lo spirito contro la carne, perché l’uno è avverso all’altra ». E così per la colpa del primo padre venne inflitta all’umana natura una grave e acerba ferita: le tenebre offuscarono la mente e la volontà diventò proclive al male. (Pio IX, 1. e; S. Tom., I 2ae, q. 85, a. 3, c. 5). Avendo Dio per la sua infinita misericordia promesso al genere umano un Redentore, i progenitori e molti loro posteri, per l a fede nel Redentore e ne’ suoi meriti, per divina grazia, furono, ancor viventi, liberati da ogni peccato tanto originale quanto attuale, come dal reato della pena de’ peccati attuali, non però dal reato di pena del peccato originale per cui venivano esclusi dalla gloria, non essendo ancora stato pagato il prezzo della redenzione. (S. Tom., p. III, q. 52, a. 5, ad 2um). Senonché la maggior parte dei discendenti o perdettero affatto conoscenza delle verità della fede e della morale, o l’ebbero sostanzialmente corrotta. Da ciò si vede quanto sia lungi dalla verità ciò che taluni pretendono: cioè che il primo uomo sia stato creato in uno stato di selvaggia barbarie, oppure provenga dalla scimmia, perfezionatosi via via per successivi sviluppi: affermazioni tutte, che chiunque sia illuminato dalla luce della fede cattolica deve respingere. Quella ferocia e quella barbarie nella quale a lungo dimorò e anche oggi dimora gran parte degli uomini, altro non è se non la corruzione, dovuta al peccato, della condizione primigenia. –

D. 75. Nessuno fu preservato immune dalla macchia della colpa originale?

R. Sola fra tutti la Beata Vergine Maria, sin dal primo istante del suo concepimento, in previsione dei meriti di Gesù Cristo e per singolare privilegio di Dio, fu preservata dalla macchia della colpa originale, e perciò dicesi immacolatamente concepita.(Gen., III, 15; Luc., I, 28; Conc. di Trento: Sess. V in fine; Sisto IV, Const.: Cum præexcelsa, 28 Feb. 1476; Pio IX,Const.: Ineffabilis Deus, 8 Dic. 1854; S. Efrem: Carmina Nisibena, XXVII, 8; S. Agost. : De natura et gratta, 42.).

D. 76. Cosa dunque significa l’immacolata concezione della beata Vergine Maria?

R. L’immacolata concezione della beata Vergine Maria significa che sin dal primo istante del suo concepimento la beata Vergine possedette la giustizia e la santità, ossia la grazia santificante, o meglio ancora la pienezza della grazia insieme con le virtù infuse, i doni dello Spirito Santo e l’integrità di natura; rimase però soggetta e alla morte e a quegli altri dolori e miserie della vita cui volle soggiacere il suo Figliuolo medesimo.

D. 77. Che cosa ritiene la Chiesa circa il transito della beata Vergine Maria?

R. Circa il transito della beata Vergine Maria, la Chiesa ritiene che il suo corpo fu separato dall’anima, in che consiste la morte; ma essendosi poi l’anima ricongiunta col corpo incorrotto, la beata Vergine Maria, per angelico ministerio, venne assunta in cielo ed esaltata al disopra di tutti i cori degli Angeli.

D. 78. Dio lasciò il genere umano nello stato di peccato originale?

R. Dio non lasciò il genere umano nello stato di peccato originale; mosso infatti dalla sua infinita misericordia, subito promise e a suo tempo concedette il Redentore, cioè Gesù Cristo, Figliuolo di Dio, fattosi uomo, affinché, mediante la fede in Lui e ne’ suoi meriti, gli uomini a Lui uniti per la fede e la carità potessero salvarsi, anche prima del suo avvento (Gen. III, 15; Matt., IX, 13; Paolo: I ad Tim., I , 15.).

IL CATECHISMO DEL CARDINAL GASPARRI (5)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (5)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

CAPO I .

Del segno della Santa Croce.

D. 1. Sei tu Cristiano?

R. Sono Cristiano per grazia di Dio.

D. 2. Chi si può dire ed è Cristiano?

R. Si può dire ed è Cristiano chi ha ricevuto il Sacramento del Battesimo, che è come la porta della Chiesa di Cristo.

(Concilio di Firenze, Decretum prò Armenis; Conc. di Trento, Sess. VI, can. 28; Benedetto XV, Encicl. Ad beatissimi, 1 nov. 1914; Codice Dir. Can., can. 87).

D. 3. Ma chi si può dire ed è più propriamente Cristiano?

R. Si può dire, ed è più propriamente Cristiano il battezzato che professi la vera e intera fede di Cristo, cioè il Cattolico; il quale, se congiunge la fede con l’osservanza della legge del Vangelo, è buon Cristiano.

D. 4. Qual è il segno esterno del Cristiano?

R. Il segno esterno del cristiano è il segno della Santa Croce (S. Agostino, In Joann., CXVIII, 5).

D. 5. Come si fa il segno della Santa Croce?

R. Il segno della Santa Croce si fa portando la mano destra alla fronte e dicendo: Nel nome del Padre; poi al petto aggiungendo: e del Figliuolo; infine dalla spalla sinistra e a quella destra dicendo: e dello Spirito Santo, così sia (Se in qualche luogo il segno della Santa Croce suol farsi in altro modo può essere conservata la consuetudine, se approvata. — Innocenzo III, De sacro Altaris mysterio, II, 45),

D. 6. Perchè il segno della Santa Croce è il segno del Cristiano?

R. Il segno della Santa Croce è il segno del Cristiano perché con esso professiamo esternamente i principali misteri della fede cristiana.

D. 7. Che cos’è il mistero?

R. Il mistero è una verità di ordine soprannaturale che, superando per propria natura l’intelletto creato, non può essere conosciuta se non per mezzo della divina rivelazione (*).

(*) S. Paolo, la ad Cor., II, 6-13; Conc. Vatic., Constit. Dei Filius, cap. 4; Pio IX, Lett. Tuas libenter all’Arcivescovo di Monacoe Frisinga, 21 dic. 1863. — Perciò s’ingannano gli increduli e gli altri avversari della Religione Cattolica, che respingono tutti i misteri di ordine soprannaturale, poiché proprio nell’ordine naturale son costretti ad ammetterne moltissimi, che per insufficienza della mente umana o non si possono in alcun modo spiegare o soltanto imperfettamente.

D. 8. Quali sono i misteri principali della fede cristiana?

R. I misteri principali della fede cristiana sono:

1° unità di Dio in tre Persone realmente distinte: Padre, Figlio e Spirito Santo;

2° l’umana Redenzione mediante l’incarnazione, la passione e la morte di Gesù Cristo Figlio di Dio (Questi misteri della fede si spiegano più largamente alla dom. 33 e segg.).

D. 9. Come il segno della Santa Croce indica questi due misteri della fede cristiana?

R. Il segno della Santa Croce indica questi due misteri della fede cristiana perché le parole significano l’Unità di Dio in tre Persone distinte, mentre la figura della Croce che formiamo con la mano, richiama alla memoria l’umana Redenzione compiuta da Gesù Cristo sul legno della Croce.

D. 10. E utile segnarsi col segno della Santa Croce?

R. E utile, anzi utilissimo, segnarsi spesso e devotamente col segno della Santa Croce, sopra tutto all’inizio e alla fine delle più importanti azioni.

D. 11. Perché è utile, anzi utilissimo, segnarsi spesso e devotamente col segno della Santa Croce?

R. E utile, anzi utilissimo, segnarsi spesso col segno della Santa Croce, perché questo segno, se fatto come si deve, è una manifestazione esterna della fede interiore, atto quindi ad eccitare la fede, a vincere il rispetto umano, a scacciare le tentazioni, ad allontanare i pericoli del peccato e ad impetrare da Dio altre grazie ancora (S. Pietro Canisio: De fide et symbolo fidei, cap. I, n. 12.)

CAPO II.

Della divina Rivelazione.

D. 12. Possiamo noi col lume della ragione naturale conoscere e dimostrare Dio?

R. Col lume della ragione naturale noi possiamo con certezza conoscere e dimostrare dalle cose create Dio uno e vero, principio e fine di tutte le cose, nostro Creatore e Signore, argomentando il Creatore dalle creature, la causa dall’effetto (Sap., XIII, 1-5; Paolo, ad Rom., I , 20; Conc. Vat., 1.  cap. 2, e can. 1 De Revel.; Pio X, Motu proprio Sacrorum Antistitum, 1 sett. 1910; S. Ireneo, Adv. hæreses, I I , q. I ; S. Agostino, Sermóne 141, 2.)

D. 13. Possiamo noi conoscere Dio anche per altra via che non sia quella del lume della ragione naturale?

R. Noi possiamo conoscere Dio anche per altra via che non sia quella del lume della ragione naturale, cioè mediante la fede, poiché alla divina Sapienza e Bontà piacque di manifestare all’uman genere se stesso e gli eterni decreti della sua volontà per mezzo della rivelazione soprannaturale (Paolo, ad Hebr., I, 1; Conc. Vat., 1. c, cap. 2.

D. 14. Che cosa intendete con questo nome di rivelazione soprannaturale?

R. Con questo nome di rivelazione soprannaturale intendo tanto la parola con la quale Dio stesso manifestò certe verità, per ammaestrare gli uomini nella dottrina dell’eterna salute, quanto l’insieme di quelle medesime verità (Paolo, 1a ad Cor., II, 10; ad Hebr., 1. c.).

D. 15. Che cosa consegue da tale nozione della rivelazione soprannaturale?

R. Da tale nozione della rivelazione soprannaturale consegue che questa è assolutamente immune da ogni errore: Dio, infatti, Somma Verità, non può ingannarsi, né  ingannare.

D. 16. Quali verità contiene la divina rivelazione?

R. La divina rivelazione contiene non solo misteri che superano l’intelletto creato, ma anche molte verità che per se stesse non sono inaccessibili all’umana ragione.

D. 17. Perché Dio si è degnato di rivelare agli uomini verità per sé stesse non inaccessibili all’umana ragione?

R. Dio si è degnato di rivelare agli uomini verità per se stesse non inaccessibili all’umana ragione affinché tali verità, nella presente condizione del genere umano, potessero venire da tutti conosciute prontamente, con ferma certezza e senza alcuna mescolanza d’errore (Conc. Vat., , c.).

D. 18. Quali argomenti esterni ha voluto dare Iddio della sua rivelazione perché l’ossequio della nostra fede fosse consentaneo alla ragione?

R. Perché l’ossequio della nostra fede fosse consentaneo alla ragione, Dio ha voluto agli aiuti interni della grazia aggiungere argomenti esterni della sua rivelazione, cioè dei fatti divini, soprattutto i miracoli e le profezie, che, dimostrando luminosamente l’onnipotenza e l’infinita scienza di Dio, sono segni certissimi della divina rivelazione, proporzionati all’intelligenza di tutti (Isaia, XLI, 23; Giovanni, X, 25, 37, 38; XV, 24; Lett. 2.a di Pietro, I, 19; Conc. Vat., 1. C., cap. 3; Origene: Contro Celsum, VI, 10.).

D. 19. Che cosa è il miracolo?

R. Il miracolo è un fatto prodotto da Dio all’infuori dell’ordine di tutta la natura creata (S. Tommaso, p. I, q. 110, n. 11).

D. 20. Che cosa è la profezia?

R. La profezia, presa in senso proprio, è la predizione certa di un evento futuro, che in nessun modo può essere preconosciuto per mezzo di cause naturali (S. Tom., 2a 2æ, q. 171, a. 3).

D. 21. Dove sono contenute le verità rivelate da Dio?

R. Le verità rivelate da Dio sono contenute nella sacra Scrittura e nella Tradizione (S. Teofilo Antiocheno: Ad Antolycum, III, 12; S. Epifanio, Hæres., 61, 6).

D. 22. Che cosa intendete col nome di sacra Scrittura?

R. Col nome di sacra Scrittura intendo i libri dell’antico e del nuovo Testamento, libri che, scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali vennero da Dio medesimo affidati alla Chiesa. (Paolo, 2.a ad Tim., III, 15, 16; 2.a di Pietro, I, 20, 21).

D. 23. In che cosa consiste l’ispirazione dello Spirito Santo?

R. L’ispirazione dello Spirito Santo consiste in ciò che lo Spirito Santo eccitò e mosse gli scrittori a scrivere, assistendoli in modo che tutte e soltanto le cose da Lui volute, essi rettamente intendessero, fedelmente volessero scrivere e acconciamente esprimessero con infallibile verità (Conc. di Trento, Sess. IV, Decret. de can. Script.; Conc. Vat., Const. Dei Filius, cap. 2; Leone XIII, Enc. Providentissimus, 18 novembre 1893).

D. 24. Che cosa intendete per antico Testamento e che cosa per nuovo Testamento?

R. Per antico Testamento intendo i libri della sacra Scrittura scritti prima della venuta di Gesù Cristo; per nuovo Testamento i libri scritti dopo la sua venuta.

D. 25. Che cosa intendete con la parola Tradizione?

R. Con la parola Tradizione intendo l’insieme delle verità rivelate, che gli Apostoli raccolsero dalle stesse labbra di Cristo, o ricevettero dallo Spirito Santo che le dettava, e che quasi a mano trasmesse e per continua successione conservate nella Chiesa Cattolica, son pervenute sino a noi (Matteo, XXVIII, 19, 20; Giovanni, XIV, 2 6 ; XVI, 13; XX, 30; XXI, 25; Atti degli Ap., I, 3; Paolo: 2.a ai Tessalon,, 11, 15; Conc. di Tr., 1. e; Conc. Vat., 1. c.).

D. 26. Come si chiama l’insieme di tutte le verità rivelate?

R. L’insieme di tutte le verità rivelate si chiama deposito della fede.

D. 27. A chi volle Gesù Cristo affidare il deposito della fede?

R. Gesù Cristo volle affidare il deposito della fede alla Chiesa, affinché questa, con l’assistenza dello Spirito Santo, santamente custodisse la dottrina rivelata e fedelmente l’insegnasse (Matt., XXVIII, 20; Giov. XIV, 16; XVI, 13).

D. 28. Che cosa dobbiamo fare innanzi tutto per raggiungere la vita eterna?

R. Per raggiungere la vita eterna dobbiamo innanzi tutto credere le verità che Dio ha rivelate, e che la Chiesa ci propone di credere (Mc. XVI, 6; Giov. III, 18; Paolo, Ad Hebr., XI, 6).

D. 29. Dove trovansi soprattutto le verità che Dio ha rivelate e la Chiesa ci propone a credere?

R. Le verità che Dio ha rivelate e la Chiesa ci propone a credere trovansi principalmente nel Simbolo degli Apostoli (Le verità della fede si trovano principalmente nel Simbolo, perché ci sono altre verità di fede che s’insegnano fuori del Simbolo o nello stesso catechismo; le nozioni poi, che riguardano la virtù della fede si danno alla dom. 518 e segg. 3).

IL CATECHISMO DEL CARDINAL GASPARRI (6)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (5)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [5]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO. XIII

Della indifferenza e conformità alla volontà di Dio che ha da avere il Religioso per andare a stare in qualsivoglia parte del mondo ove lo mandi l’ubbidienza.

Acciocché possiamo cavar maggior frutto da quest’esercizio della conformità alla volontà di Dio e mettere in pratica quello che abbiamo detto, andremo specificando alcune cose principali nelle quali abbiamo da esercitarci, e di poi discenderemo ad altre cose generali appartenenti a tutti. Cominceremo dunque adesso da alcune particolari che abbiamo nelle nostre Costituzioni, poiché in esse principalmente vuol la ragione che il Religioso mostri la sua virtù e religiosità: e ciascuno potrà applicare la dottrina ad altre cose simili che siano nella sua Religione, o nel suo stato. Nella parte settima delle Costituzioni, trattando il nostro S. Padre delle Missioni, che sono uno dei principali impieghi del nostro Istituto, dice, che quelli della Compagnia hanno da essere indifferenti per andare e per risedere in qualsivoglia parte del mondo ove l’ubbidienza li manderà, fra i Fedeli, o Infedeli, alle Indie, o fra gli Eretici (7 p. Const. c. 1, § 1).E di questo fanno i Professi il quarto voto solenne di una speciale obbedienza al sommo Pontefice, obbligandosi ad andar prontamente e speditamente, senza alcuna sorta di scusa in qualsivoglia parte del mondo, ove alla Santità Sua piacerà di mandarli, senza domandar cosa alcuna temporale, né per sé, né per altra persona, né pel viaggio, né per istare colà; ma andarsene a piedi, o a cavallo, co’ denari, o senza, e chiedendo limosina, come al sommo Pontefice parerà meglio. E dice ivi il nostro santo Padre,che il fine e l’intenzione di far questo voto fu per meglio così assicurarsi di fare la volontà di Dio. Perché essendo que’ primi Padri della Compagnia di diverse Provincie, e Regni, e non sapendo in quali parti del mondo si sarebbe Dio compiaciuto più di essi, se tra’ Fedeli, o tra gl’Infedeli per incontrare la divina sua volontà, fecero quel voto nelle mani del Vicario di Cristo, acciocché egli li distribuisse pel mondo, ove, e come giudicasse, che fosse per esser maggior gloria di Dio. Ma il Soggetto della Compagnia, dice il Santo, non s’ha da intromettere in questo, né ha da procurare in modo alcuno d’andare, o stare, in un luogo più tosto che in un altro; ma ha da esser molto indifferente, lasciando la libera ed intera disposizione di sé nelle mani del Superiore, che in luogo di Dio lo governa a maggior servizio e gloria sua. – Acciocché si vegga quanto indifferenti e quanto disposti vuole il nostro S. Padre che stiamo per andare in qualsivoglia parte del mondo ove l’ubbidienza ci mandi, leggiamo nella sua Vita (Lib. 5, c. 4 Vitæ S. P. N. Ignatii),che una volta il padre Diego Laynez gli disse, che gli veniva desiderio d’andare alle Indie a procurar la salute di quella cieca Gentilità, la quale periva per mancamento d’operai evangelici; e il nostro Padre gli rispose: Io non desidero niente di questo: e domandato della cagione di ciò, disse: Perché avendo noi altri fatto voto d’ubbidienza al sommo Pontefice, acciocché a piacer suo ci mandi in qualsivoglia parte del mondo in servizio del Signore, abbiamo a mantenerci in ciò indifferenti per modo, che non incliniamo più ad una che ad un’altra banda: anzi aggiunse, se io mi sentissi inclinato, come voi, ad andar alle Indie procurerei di inclinarmi alla parte contraria, per venir a possedere quell’equanimità e indifferenza che è necessaria per acquistare la perfezione dell’ubbidienza. Non vogliamo dire per questo, che siano cattivi, o imperfetti, i desideri delle Indie, perché non sono tali, ma molto buoni e santi: ed è anche cosa buona il proporli e rappresentarli al Superiore, quando il Signore li dà. E cosi lo dice ivi il santo nostro Fondatore (7 p. Const. C. 2, litt. L).Si rallegrano i Superiori, che i sudditi rappresentino loro questi desideri; perché sogliono esser segno, che Dio li chiama per quello, e così le cose si fanno con soavità. Ma diciamo questo, acciocché si vegga l’indifferenza e la prontezza che il nostro santo Padre vuole che abbiamo per andare e stare in qualsivoglia parte del mondo; poiché né anche ad una cosa tanto faticosa, e di tanto servizio del Signore, quali sono le Missioni delle Indie, vuole che stiamo soverchiamente affezionati; acciocché questa affezione e desiderio particolare non ci tolga, o c’impedisca l’indifferenza e la prontezza che abbiamo d’avere sempre per qualsivoglia altra cosa e per qualsisia altra parte ove l’ubbidienza, ci voglia mandare. – Quindi vengono in conseguenza alcune cose colle quali questo s’intenderà meglio. La prima è, che se i desideri delle Indie fossero cagione a chi gli ha di perder punto  di questa indifferenza e prontezza per altre cose che l’ubbidienza gli ordinasse, non sarebbero buoni, ma imperfetti. Se io avessi tanta voglia e desiderio di andare alle Indie, o ad altra parte del mondo, che questo m’inquietasse e mi fosse cagione di non istar tanto contento qui, o in altro luogo, ove l’ubbidienza vuole che io stia, ovvero che non abbracciassi tanto volentieri né facessi con tanta applicazione i ministeri presenti nei quali ora mi occupa l’ubbidienza, per tener posto il pensiero e il cuore in quell’altro impiego che io desidero, è cosa chiara, che questi desideri non sarebbero buoni né verrebbero da Dio, poiché impediscono la sua divina volontà, e Dio non può esser contrario a se stesso; specialmente non essendo soliti i desideri ispirati dallo Spirito santo di recar seco inquietudine; ma molta pace e tranquillità. E questo è uno dei segni che mettono i Maestri della vita spirituale, per conoscere, se le ispirazioni e i desideri sono da Dio, o no. – La seconda cosa che viene in conseguenza di questa prima, è, che quello il quale ha una disposizione universale pronta ed indifferente per andare in qualsivoglia parte del mondo, e per far qualsisia cosa che l’ubbidienza gli ordini, ancorché non abbia quei particolari desideri e quell’inclinazione d’andar alle Indie, o ad altre parti remote, che hanno altri, non occorre che di ciò n’abbia dispiacere né se ne prenda fastidio: perché non per questo è di peggior condizione, anzi di migliore; imperocché questa è la disposizione che il nostro santo Padre vuole che abbiamo tutti nella Compagnia; cioè, che quanto è dal canto nostro, non abbiamo desiderio né affezione particolare più a questa che a quell’altra cosa; ma che stiamo come la linguetta della bilancia, senza inchinare più ad una che ad un’altra banda: e di questi ve ne sono molti, e credo la maggior parte. Trattava una volta il nostro santo Padre di mandar il padre maestro Natale ad una certa Missione, e volle prima saper da lui a che cosa inclinava, per farlo con maggior soavità: e il padre Natale gli riscrisse: Che a nessun’altra cosa inclinava, che a non inclinare (Lib. 5 Vitæ S, Ign.).Questa cosa tiene il nostro santo Padre per migliore e più perfetta: e con ragione; perché l’altro pare che si leghi ad una cosa sola; ma questi colla sua indifferenza abbraccia tutte le cose che gli possono essere comandate, e sta ugualmente disposto ed esposto a tutte esse: e come Dio guarda il cuore ela volontà di ciascuno, ela valuta quanto l’opera nel suo divino cospetto; per ciò questo èper lui come se già avesse posta in esecuzione ogni cosa. – E per finire di dichiarar questo punto, dico, che se uno non ha questi desideri delle Indie per codardia, pusillanimità e immortificazione, e per non bastargli l’animo di lasciare le comodità che gli par d’avere, o di poter avere in questi paesi di qua, né di patire i grandi travagli che colà si passano; questa sarà imperfezione e amor proprio: ma chi non lascia di desiderar questo per codardia, né perché gli manchino desideri ed animo per patire questi ed altri maggiori travagli per amor di Dio e per la salute delle anime; ma unicamente perché non sa, se sia quella la volontà di Dio, o se la Divina Maestà Sua vuol da lui altra cosa; stando però egli sempre dal canto suo tanto pronto e disposto per questo, e per tutto quello che conoscerà esser volontà di Dio (talché se lo manderanno alle Indie, o in Inghilterra, o in qualsisia altra parte del mondo, v’andrà cosi volentieri, come se ciò avesse desiderato e domandato, e forse ancora più volentieri, per esser più sicuro, che non fa in questo la volontà sua, ma puramente quella di Dio) dico, che fuori di ogni dubbio questa è cosa molto migliore e più perfetta. E così quelli che hanno questa disposizione e indifferenza sono anche mandati volentieri dai Superiori alle Indie. Ma ritornando al nostro punto principale, vuole il santo nostro Fondatore, che abbiamo tutti tanta indifferenza e rassegnazione per istare così volentieri in uno come in un altro luogo, e così in una come in un’altra provincia, che né anche il riguardo alla salute corporale basti per tòrci questa indifferenza. Dice egli nella terza parte delle Costituzioni (3 p. Const. C. 2, litt. F et 2 Summ.), che è proprio della nostra vocazione e del nostro Istituto,andare in vari luoghi e vivere in qualsivoglia parte del mondo dove si speri maggior servizio di Dio ed aiuto delle anime: ma se per esperienza si vedesse che ad alcuno fosse nociva l’aria di qualche paese e che continuamente vi stesse con mala sanità; che il Superiore consideri, se conviene, che quel tale si mandi ad un altro luogo, ove, trovandosi con maggior sanità, possa impiegarsi meglio nel servizio di Dio e delle anime. Dice però, che non ha da domandare l’infermo questa mutazione, nemmeno ha da mostrare inclinazione ad essa; ma che ha da lasciarne tutta la cura al Superiore: Non tàmen erit ipsius infirmi hujusmodi mutationem postulare, nec animi propensionem ad eam ostendere; sed Superioris curce id relinquetur (ut sup. in declarat. Litt. F). In questo non ricerca da noi poco, ma molto il nostro santo Padre: perciocché bisogna bene che uno sia molto indifferente e mortificato per non domandare mutazione, anzi nemmeno mostrare inclinazione per essa, tutto che, dove trovasi, vi stia continuamente con mala sanità (7 p. Const. C. 3 litt. I).Di maniera che in quello che dicevamo, di andar alle Indie, o in paese di Eretici, dice, che può ben uno proporre la sua inclinazione e il suo desiderio, con indifferenza però e con rassegnazione; ma in questo non dà licenza per domandar mutazione e né anche per mostrar inclinazione e desiderio di essa, che è molto più: solamente dà licenza, che chi si sente infermo possa proporre al Superiore la sua infermità e indisposizione, e quindi l’inabilita’ in cui trovasi per eseguire i ministeri ingiuntigli: e di ciò ne abbiam Regola la qual ordina, che tutto ciò proponiamo; ma fatta questa proposta, non ha il suddito da far altro. Il Superiore è quegli a cui tocca il vedere se, supposto questo, sarà conveniente mandarlo ad altro luogo, ove stando meglio di sanità, possa fare di più, o se sarà maggior gloria di Dio, che se ne resti colà, benché faccia meno, o non faccia niente. Questa non è cura del suddito. Si lasci ciascuno guidare dal suo Superiore il quale lo governa in luogo di Dio, e tenga per meglio e per maggior servizio del Signore quello che il Superiore ordinerà. Quanti sono che se ne stanno in questi paesi e in altri più contrari alla sanità loro, perché in essi hanno di che vivere mediante il lor ufficio, arte, o professione, o qualche beneficio? quanti passano il mare, e vanno alle Indie, a Roma, e a Costantinopoli, per un poco di roba, e mettono a pericolo non solo la sanità, ma anche la vita? Non sarà dunque gran cosa che noi altri, essendo Religiosi, facciamo per Dio e per l’ubbidienza quel che fanno gli uomini del mondo per amor del denaro. E se ti passerà pel pensiero, che in altra parte potresti far qualche cosa, anzi molte assai, e che ove stai, sei tanto mal andato di sanità, che non puoi far nulla; ricordati, che con tutto ciò è meglio star qui per volontà di Dio, senza far cosa alcuna, che in altro luogo per volontà tua, ancorché facessi assai; e conformati alla volontà di Dio il quale vuole adesso questo da te per la ragione e pel fine che Egli sa, e che non è necessario che tu sappia. Nelle Croniche dell’Ordine di S. Francesco (1 p. lib 7, c. 5 Hist. Min.)si racconta del santo fra Egidio, che avendogli il beato S. Francesco data licenza d’andar ove volesse e di stare nella provincia e monastero che più gli gustasse, lasciando il tutto a sua elezione, per esser molto grande la virtù e santità sua; appena stette quattro giorni con quella licenza, che gli mancò la tranquillità e quiete di prima, e sentì l’inquietudine che perciò aveva l’anima sua; onde andatosene da S. Francesco, gli chiese con grande istanza, che gli assegnasse luogo e monastero ove avesse da stare, e non lasciasse questa cosa alla sua elezione; certificandolo, che in quella libera e larga ubbidienza egli non poteva quietar sé né l’anima sua. I buoni Religiosi non trovano pace né contentezza nell’adempimento della volontà loro; e così non desiderano questa né quell’altra cosa, o luogo, ma che l’ubbidienza di man sua li metta ove vuole, perché stanno persuasi, quella essere la volontà di Dio nella quale sola trovano riposo e contentezza.

CAPO XIV.

Dell’indifferenza e conformità alla volontà di Dìo che dee avere il Religioso per qualsivoglia ufficio e occupazione in che l’ubbidienza lo voglia mettere.

Questa medesima indifferenza e rassegnazione abbiamo d’avere ancora per qualsivoglia ufficio e occupazione in che ci voglia Mettere l’ubbidienza. Veggiamo bene quanti sono e quanto differenti gli uffici e le occupazioni della Religione. Or vada ognuno discorrendo per quelli sin a tanto che arrivi a sentirsi ugualmente disposto per ciascuno d’essi. Dice il nostro S. Padre nelle Costituzioni, e l’abbiamo nelle Regole: Nell’esercizio degli uffici umili e bassi più prontamente si debbono accettar quelli ne’ quali il senso trova più ripugnanza; se però gli sarà imposto ch’egli si eserciti in quelli (C. 4 exam. § 28, et Eeg. 13 Summ.).Per gli uffici umili e bassi è più necessaria l’indifferenza e la rassegnazione, attesa la ripugnanza che ha in essi la nostra natura. Onde fa più uno, e mostra maggior virtù e perfezione nell’offerirsi a Dio per questi uffici, che nell’offerirsi per altri più eminenti e onorevoli. Come se uno avesse tanto desiderio di servir un padrone che s’offrisse di servirlo per tutta la sua vita in qualità di staffiero, o di scopatore, se bisognasse; è cosa chiara, che farebbe più costui e mostrerebbe meglio la volontà sua di servirlo, che se dicesse: Signore, io vi servirò di scalco, o di maggiordomo; perché questo è più tosto domandar favori che offerir servizi: e tanto più sarebbe da stimarsi quell’umile offerta, quanto maggior talento avesse per uffici eminenti quegli che si offre per vili. Ora nell’istesso modo se tu ti offri a Dio, dicendo, Signore, io ti servirò in ufficio di Predicatore, o di Lettore di Teologia, non fai in ciò gran cosa; perché questi uffici alti e onorevoli sono di sua natura appetibili: poco mostri in ciò il desiderio che hai di servir Dio. Ma quando ti offerisci a servire nella Casa di Dio tutta la vita tua in uffici umili e bassi, e ripugnanti alla tua carne e sensualità, allora mostri molto più il desiderio di servire Sua Divina Maestà. Questa è cosa più degna d’esser gradita e stimata: e tanto più quanto maggior talento avrai per uffici più alti. Questo ci dovrebbe bastare per desiderare gli uffici umili e bassi, e per farci sempre inclinare più ad essi, specialmente non vi essendo nella Casa di Dio ufficio alcuno che si possa dir basso. Anche nella Corte di un Re si dice, che non v’è ufficio basso; perché il servir al Re, in qualsivoglia ufficio che sia, si stima per cosa molto onorevole: quanto più si dee stimare il servir a Dio, il servire a cui è regnare? S. Basilio (D. Basil., in reg. fusius disputatis interrog. 7) per affezionarci agli uffici umili e bassi apporta l’esempio di Cristo di cui leggiamo nel sacro Evangelio che s’occupò in simili uffici, abbassandosi a lavare i piedi a’ suoi discepoli, e non solo facendo questo, ma anche servendo lungo tempo la sua santissima Madre e S. Giuseppe, e stando soggetto e ubbidiente ad essi in ciò che gli comandavano: Et erat subditus illis (2Luc. II, 51). Dai dodici anni fino ai trenta non ci racconta il sacro Evangelio altra cosa di Lui, che questa. Nel che considerano i Santi molto bene, che doveva Egli servirgli ed aiutargli in molti uffici umili e bassi, specialmente essendo essi tanto poveri, quanto erano. Dunque Non dedignetur facere Christianus, quod fecit Christus (D. Augnst. tract. 58, sup. Jo. circa Illa verba: Si ergo ego lavi etc.): Non isdegni il Cristiano, e molto meno il Religioso, di far’ quello che fece Cristo, Poiché non ebbe a schifo il Figliuolo di Dio d’occuparsi in questi uffici bassi per amor nostro; non abbiamo a schifo né anche noi altri di occuparci in essi per amor suo, ancorché sia questo per tutto il tempo della nostra vita. Ma venendo più al nostro proposito, una delle ragioni e motivi principali che ci ha da far accettare tanto volentieri qualsivoglia ufficio e occupazione che ci dia l’ubbidienza, ha da essere il persuaderci, che questa è la volontà di Dio: perché, come di sopra abbiam detto, questo ha da esser sempre la nostra consolazione e la nostra contentezza in tutte le nostre occupazioni, lo star facendo in esse la volontà di Dio. Questo è quello che consola ed appaga l’anima: Dio vuole che io faccia questo adesso, questa è la volontà di Dio, non occorre desiderare altro; perché non vi è cosa migliore né più alta che la volontà di Dio. Quei che procedono in questo modo, nulla si curano che sia comandata loro più tosto questa che quell’altra cosa, né che li mettano in ufficio alto, o basso, perché per loro è tutt’uno. – Il beato S. Girolamo racconta un esempio molto buono a questo proposito (D. Hier. In reg. Mon. c. 12.).Dice, che visitando egli que’ santi Monaci dell’Eremo, ne vide uno al quale il Superiore, desiderando il suo profitto, ed anche di far vedere per di lui mezzo un esempio d’ubbidienza agli altri giovani, gli aveva comandato, che per due volte in ciascun giorno portasse su le sue spalle un sasso molto grande per lo spazio di tre miglia, senza che di ciò vi fosse necessità né utilità alcuna, eccetto l’ubbidire ed il mortificare il proprio giudicio: ed erano già otto anni che faceva questa cosa. E come un fatto tale, dice S. Girolamo, a quei che non conoscono il valore di questa virtù dell’ubbidienza, né sono arrivati alla purità e semplicità di essa, poteva forse, secondo lo spirito loro tuttavia altero e superbo, parer giuoco da fanciulli, ovvero azione oziosa; perciò gli domandavano, come sopportava quell’ubbidienza; ed io stesso ancora, dice il Santo, glielo dimandai, desideroso di sapere qual movimenti sentisse nell’anima sua facendo quel che faceva: e il Monaco mi rispose: Così contento e allegro io mi rimango quand’ho fatta questa cosa, come se avessi fatta la più alta e più importante che mi si fosse potuta comandare. Dice S. Girolamo, che lo commosse tanto questa risposta, che da quell’ora cominciò egli a vivere come Monaco. Questo è esser Monaco e vivere come vero Religioso, non guardar altro nell’esteriore, se non che stiamo facendo la volontà e il gusto di Dio. Questi sono quelli che fanno profitto e crescono grandemente in virtù e perfezione; perché si nutriscono sempre di fare la volontà di Dio; si nutriscono di fior di farina : Et adipe frumenti satiat te (Ps. CXLVII, 14). – Ma mi dirà qualcuno: Io veggo bene, che è gran perfezione fare la volontà di Dio in tutte le cose, e che in qualsivoglia esercizio che mi sia comandato posso star facendo questa divina volontà; ma io vorrei esser occupato in altra cosa di maggiore rilievo ed in essa fare la volontà di Dio. Questo è errore ne’ primi principii, perché in buon volgare questo è volere che Dio faccia la volontà tua, e non voler tu fare quella di Dio. Non ho io da dar legge a Dio, né ho da volere eh’ egli sì conformi a quello che par a me e a quello che io vorrei; ma tocca a me seguitar i disegni di Dio, e conformarmi a quel che Egli vuole da me. Dice molto bene S. Agostino: Optimum minister tuus est, qui non magis intuetur hoc a te audire, quod ipse voluerit, sed potius hoc velle, quod a te audierit (1D. Aug. lib. 10 Conf. c. 26): Quegli è buon vostro servo, o Signore, il quale non istà a guardare, se quello che gli comandate è conforme, o no, alla sua volontà; ma unicamente vuole quello che gli comandate. E il santo abbate Nilo dice: Non ores, ut fiant, quæ fieri velis; sed potius ora, sìcut orare didicisti, ut fiat voluntas Dei in me (D. Nil. c. 29 de orat.). Non chiedere a Dio, che faccia quel che tu vuoi; ma chiedi quello che c’insegnò Cristo di chiedere; cioè, che si faccia in te la volontà sua. Notisi questo punto il quale è molto utile e universale per tutti i travagli e accidenti che ci possono occorrere. Non dobbiamo noi altri eleggerci in che cosa e come abbiamo da patire. Ma l’ha da far Dio. Non hai da eleggerti tu le tentazioni che hai da avere, né hai da dire, se fosse qualunque altra tentazione non me ne curerei niente, ma questa non la posso tollerare. Se lepene e i travagli che ci vengono fossero quelli che noi altri vogliamo, non sarebbero travagli né pene. Se da vero desideri di piacer a Dio, gli hai da chiedere, che ti guidi per dove Egli sa e vuole, e non per dove vuoi tu. E quando il Signore ti manderà quello che ti è più disgustevole, e quello che abborrisci più di patire, e tu a questo ti conformerai; allora imiterai più Cristo nostro Redentore il quale disse: Non si faccia, Signore, la volontà mia, ma la tua (Luc. XXII, 42). Questo è avere intera conformità alla volontà di Dio; offrirsi totalmente a Lui acciocché faccia di noi quanto, quando, e come vorrà, senza eccezione né ripugnanza dal canto nostro, e senza riservare per noi cosa alcuna. Narra il Blosio (Blos. o. 10 mon. spir.; et Tilm. Bredembr. 1. 8, coll. c. 29), che la santa vergine Gertrude, mossa da pietà e misericordia, pregava Dio per una certa persona la quale aveva ella inteso che con impazienza andavasi lamentando perché Dio le mandava alcuni travagli, infermità e tentazioni, che le pareva che non convenissero a lei. Ma il Signore rispose alla santa vergine: Dirai a cotesta persona, per la quale tu preghi, che atteso che il regno de’ cieli non si può acquistare senza qualche travaglio, o molestia, s’elegga ella quel travaglio e quella molestia che le pare per sé più utile; e quando poi le verrà, abbia pazienza. Dalle quali parole e dal modo nel quale il Signore gliele disse, conobbe la santa vergine, esser una specie d’impazienza molto pericolosa, quando l’uomo si vorrebbe eleggere da se stesso le cose nelle quali ha da patire, dicendo, che quelle che Dio gli manda non sono convenienti alla sua salute, né le può sopportare. Perciocché ciascuno s’ha da persuadere e confidare, che quello che Dio Signor nostro gli manda, è quello che è per lui più espediente: e così l’ha da ricevere con pazienza, conformandosi in esso alla volontà di Dio. Ora siccome non hai da far elezione de’ travagli né delle tentazioni che hai da patire, ma hai da accettare come dalla mano di Dio quelle che egli ti manda, e star persuaso che quelle sono per te più espedienti; così né anche hai da eleggerti l’ufficio, o ministero, che hai da fare, ma accettare come dalla mano di Dio quello nel quale l’ubbidienza ti metterà, con persuaderti, che sia desso quello che più ti conviene. Aggiungono qui un altro punto molto spirituale; e dicono, che la persona ha da star tanto rassegnata nella volontà di Dio, e si ha da confidare e pienamente abbandonarsi in Lui, che né pur desideri di sapere quello che Dio vorrà fare e disporre di lei (Blos. c. 15, mon. spir.).Siccome quando un signore si fida tanto d’un maggiordomo, che non ha notizia della sua roba né sa quello che ha in casa, questo è segno di gran confidenza; quale appunto disse il patriarca Giuseppe avere di lui avuta il suo padrone: Ecce dominus meus, omnibus miài traditis, ignorat quid hàbeat in domo sua (Gen. XXXIX, 8); così mostra uno d’aver gran confidenza in Dio quando non vuol sapere quello che Dio sia per disporre di lui. Sto in buone mani: questo mi basta: In manibus tuis sortes meæ (Ps. XXX, 16): Con questo io sto contento e sicuro; non ho bisogno di saper più oltre. Per quelli che desiderano luoghi, uffici, o ministeri più alti, parendo loro che in quelli farebbero maggior frutto nelle anime e renderebbero maggior servigio a Dio, dico, che s’ingannano grandemente in pensare che questo sia zelo del maggior servigio di Dio e del maggior bene delle anime; perché non è così, ma zelo e desiderio di onore, di riputazione e delle proprie comodità: e per esser quell’ufficio, o quel ministero più onorevole, o più conforme al gusto e inclinazion loro, perciò lo desiderano; il che si vedrà chiaramente da questo, che se tu stessi colà nel secolo, o pur fossi solo nella Religione, pare che potresti dire, questo è meglio che quello e di maggior frutto per le anime : voglio lasciar quello per far questo, perché non si può far ogni cosa; ma qui nella Religione non s’ha da lasciar questo per quello, l’un e l’altro s’ha da fare: è ben vero, che se tu fai il contralto, l’altro ha da fare il contrabasso: e s’io fossi umile, più tosto avrei da volere che l’altro facesse l’ufficio alto, dovendo io credere che lo farebbe meglio di me, e con maggior frutto, e con minor pericolo di vanità. Per questo e altre cose simili, è molto buona una dottrina del nostro S. P. Ignazio (P. N. Ign. lib. Exero. spir. sub die 5, hebd. 2),la quale viene posta da lui come fondamento per le elezioni; e vi mette tre gradi, o modi d’umiltà, il terzo de’ quali, e il più perfetto, è, che offrendosi due cose d’ugual gloria e servigio di Dio, io elegga quella nella quale vi sarà maggior dispregio e vilipendio per me, per assomigliarmi e imitare con ciò maggiormente Cristo nostro Redentore e Signore il quale volle essere dispregiato e vilipeso per noi altri. Nel che si trova un altro gran bene, che in queste cose in cui vi è meno d’interesse proprio, non ha l’uomo occasione di cercar se medesimo, né corre quel pericolo d’invanirsi in esse che corre nelle alte e onorevoli. Negli uffici bassi si esercitano unitamente l’umiltà e la carità, e con essi si conserva grandemente questa virtù dell’umiltà, come con atti propri di essa; ma negli alti ed eminenti s’esercita la carità con pericolo dell’umiltà; il che ci dovrebbe bastare non pure per non desiderarli, ma per temerli.