LO SCUDO DELLA FEDE (180)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XVII)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO TERZO

LA CHIESA

II. — I caratteri divini della Chiesa.

b) L’unità della Chiesa.

D. Oltre alla sua origine e alla sua perpetuità, la Chiesa, secondo te, ha altri caratteri divini?

R. Ve ne sono quattro che si presentano tradizionalmente come i più notevoli, e per questa ragione si chiamano note o segni caratteristici della Chiesa. Noi li abbiamo inclusi or ora in una veduta generale; e sono l’unità, la santità, la cattolicità e l’apostolicità.

D. Come intendi l’unità?

R. Noi l’intendiamo di una sola credenza, di un solo governo, di un solo culto; e ciò per tutti i tempi e per tutti i paesi come in ciascun tempo e in ciascun paese. Perché tale è la prima necessità di questo gran corpo.

D. Non vi sarebbero dunque, in tutto questo, varietà e variazioni?

R. Ve ne sono e ve ne devono essere. Ma qui noi parliamo dell’essenziale.

D. Perché questa unità?

R. Perchè l’unità è la realtà stessa, perché soprattutto l’unità e la vita non sono che una sola cosa. Ma inoltre ricorda quale vita e quale realtà sono quelle della Chiesa. Se la Chiesa non è altro che l’unione di Dio con l’uomo e l’unione dell’uomo con Dio sotto una forma sociale, come mai vi sarebbero più Chiese, o come mai vi sarebbe divisione nel suo seno riguardo a ciò che precisamente ci aduna? Pluralità di Chiese significherebbe o pluralità di Dio, o pluralità dell’uomo secondo che egli ha rapporto con Dio. Se Dio è uno, e se anche l’uomo è uno, in Cristo, per unirsi a Dio, non ci può essere che una Chiesa. Da Dio e dall’uomo, in essa, sorge una nuova unità: quella dell’organismo umano-divino del quale Cristo è il capo, e tutti gli uomini sono chiamati a diventarne i membri, e lo Spirito Santo ne è l’anima. Perciò noi diciamo della Chiesa che essa è l’Incarnazione continuata, cosa necessariamente una. Il corpo di Cristo è forse diviso? dice S. Paolo. Non vi è che un Signore, una fede, un battesimo, un Dio padre di tutti, che (agisce) per mezzo di tutti, che (è) in tutti.

D. Dicevi poc’anzi che solo recentemente la Chiesa ha operato il suo ultimo concentramento: sarà dunque perché fin qui non era una.

R. La Chiesa fu sempre una; ma vi sono dei gradi nell’unità come ve ne sono nella vita, che noi diciamo confondersi con essa. Un organismo si unifica tanto più quanto più cresce la sua differenziazione e si moltiplicano le sue funzioni, purché questa differenziazione e quest’accrescimento di funzioni procedano dall’interno stesso, dal principio iniziale che cerca di rivelarsi in un modo sempre più ricco. L’uomo è più che un protozoo; questo, sezionato, sussiste: provati a segare un uomo! Così la Chiesa oggi, molto più complicata di quella dei primi tempi, e anche più una, perché la sua complicazione è il risultato d’un rigoglio interno, quello del principio divino che si vuole manifestare di più, e per questo si crea degli organi, ma senza cessare di dominarli, di orientarli verso i suoi propri fini, tanto più che il loro numero è più grande e più grandi le loro risorse.

D. Non vi sono nella Chiesa delle crisi di unità?

R. La vita sociale, religiosa o civile, come pure la vita individuale, è una serie di crisi che si sciolgono. L’essere ben costituito, tanto più l’essere divinamente costituito, trae di lì il suo progresso e fa l’opera sua.

D. Le crisi vanno crescendo con l’unità?

R. Le crisi vanno forse crescendo in numero, in ragione delle complicazioni nuove; ma decrescono in importanza coi progressi dell’unità. Oggi non si vede più la possibilità dell’arianesimo, del grande scisma d’Occidente, dello scisma greco, della riforma. Gli assaggi di dissidio, in Francia, nel momento della separazione, sono caduti nel ridicolo; la crisi modernista fu prontamente vinta. Ogni volta che una tale prova infierisce, una reazione unitaria viene a dimostrare la volontà di vita in uno che conserva la Chiesa.

D. Dici che l’unità si limita all’essenziale: in che consiste l’accessorio?

R. Consiste in differenze alle volte notevolissime, benché secondarie, in materia di credenze, di pratiche, di vita rituale, ecc., differenze che la Chiesa accetta oppure rifiuta di lasciar ridurre, perché essa le giudica utili, ad ogni modo normali, a condizione di mantenersi nei limiti.

D. Chi fissa i limiti?

R. La Chiesa stessa, solo giudice dell’anima sua e di ciò che rispetta, serve od offende l’anima sua.

D. Questa tolleranza ha anche i suoi periodi di tempo?

R. Normalmente essa cresce con l’unità di concentramento che ho descritto. Si è molto più facili circa i particolari, quando si è sicuri dell’insieme. Se Leone XIII e i suoi successori poterono sciogliere i riti orientali, è perché il Concilio Vaticano assicurava ugualmente l’unità, e se domani qualche genio incorpora alla teologia cristiana tutto il contributo contemporaneo, sarà perché prima si saranno ben notate le frontiere tra ciò che è acquisito e irreformabile da una parte, e dall’altra ciò che rimane pieghevole e che è materia di avvenire.

D. Perché l’avvenire apparterrebbe tutto alla tua Chiesa? Perché non vi sarebbe, più tardi, un’altra Chiesa?

R. Ci vorrebbe per questo un altro Cristo; ci vorrebbe una nuova incarnazione, e a che pro? Che farebbe il nuovo Cristo, che non abbia fatto e per sempre il primo? Che nuova materia d’azione, quando Gesù si è rivolto a ogni carne e ha inteso di unire a sé tutto il genere umano? Vi può essere un nuovo Adamo? Dunque, non è possibile, parimenti, che vi sia più un nuovo Cristo, un nuovo corpo di Cristo così come chiamiamo la Chiesa.

D. Il nuovo venuto potrebbe essere un nuovo profeta, un annunziatore.

R. E che cosa annunzierebbe? Parlando nel suo proprio nome, indipendentemente dalla divina parola già udita, egli non sarebbe che un anticristo; parlando nel nome di Cristo e nel senso di Cristo, non farebbe altro che spiegare, sviluppare, e a questo fine basta la Chiesa. Lo Spirito divino in missione permanente in mezzo a noi non ha altro compito. Venga pure un annunziatore, ma parlerà secondo questo Spirito; spiegherà il Cristo; egli sarà nella Chiesa.

D. Tu rifiuti dunque anticipatamente ogni nuovo Messia?

R. Lo stesso Gesù ci mise in guardia: « Se qualcuno vi dice; Cristo è qui, o: Egli è là, non lo credete ». Del resto quei che sognano rivelazioni successive e attendono dei nuovi Messia, anzitutto sono in ritardo; infatti, per quanto è possibile prevederlo, il conflitto dell’avvenire, come quello del presente, sarà questo: il Cristianesimo, o niente. Ma, ad ogni modo, costoro fanno Gesù diverso da quello che Egli è; vedono in lui il rabbino galileo di Renan, e non il Figliuolo dell’Uomo.

c) La Santità della Chiesa.

D. Hai parlato di santità: pretendi forse che la tua Chiesa sia una società di santi?

R. È anzi piuttosto una società di peccatori, poiché è una società di uomini. Ma se gli uomini ne sono la materia, la Chiesa stessa, nella sua realtà totale, è tutt’altro. In grazia di Cristo e dello Spirito di Cristo, essa è un composto umano-divino, e questo composto, disponendo degli influssi di Dio sotto tutte le forme richieste da questa vita a due che Dio propone all’umanità, non può essere che santo e santificante, checché ne sia delle miserie de’ suoi membri. La Chiesa è santità in Dio; la Chiesa è santa perfettamente in Cristo; è santa ne’ suoi mezzi usciti da Dio e da Cristo; aspira solamente ad essere santa in tutti i suoi membri.

D. Non basta questa mescolanza per paralizzare la sua azione?

R. La mescolanza del bene e del male nella Chiesa la incomodò sempre, ma non la potrebbe paralizzare. Anche un grano impuro germoglia, purché le sue impurità non tocchino il potere di germinazione nel suo centro. Qui il centro è divino; la tessitura stessa è divina e non potrebbe perire.

D. Si possono dunque esigere degli effetti di santificazione?

R. Teoricamente, no; perché questi effetti di santificazione hanno per soggetto delle creature libere. L’opera d’arte non è mai sicura di riuscire, quando la sua materia ha il potere di rifiutarsi. Dipende da ciascuno di noi per parte sua il tenere in scacco la santità della Chiesa, secondo che essa consiste in una estensione del suo valore. La Chiesa sarà nondimeno, nel suo fondo, santa e santificante, avendo sempre in sé lo Spirito e tutto il sistema de’ suoi mezzi di espansione.

D. Tu dici che questa risposta è teorica.

R. Unicamente teorica di fatto. Giacché l’umanità è ciò che è, composta di cattivi e di negligenti indubbiamente, ma anche di grandi anime e di anime di buona volontà; se nella Chiesa non vi fossero dei frutti visibili di santità, a buon diritto si dubiterebbe del suo valore santificante. L’albero si riconosce da’ suoi frutti, dice il nostro Vangelo.

D. Non temi che questa massima si rivolga contro di te?

R. La Chiesa non la teme; anzi l’invoca. Il germe che ha germogliato a dispetto delle sue impurità non dimostra forse la sua qualità intima e la sua autenticità in quanto grano di una certa specie? La Chiesa, non ostante i vizi de’ suoi fedeli o de’ suoi dirigenti, ha prodotto della santità nel mondo; si può dire che essa ne ha coperto il mondo: perché appunto vi era in essa un germe divino.

D. Non siete forse soddisfatti a troppo buon mercato?

E. La Chiesa è lontanissima da un contentamento ottimista; non è essa l’eterna brontolona che sempre dispera delle nostre bassezze, motivo per cui anche le nostre bassezze spesso si esasperano? Ciononostante, ambiziosa di assoluto, essa, a chi le domanda dei santi, ne può mostrare delle gloriose falangi. – Avevamo riconosciuto più sopra che nessun gruppo religioso ne può anche lontanamente offrire l’equivalente.

D. Essa non ha cambiato il mondo.

R. Anche i discepoli di Emmaus, il giorno dopo la Risurrezione, al principio dell’opera reale di Cristo, dicevano: « Noi credevamo che Egli avrebbe riscattato Israele ». L’opera della Chiesa è l’opera umana sopra la terra; essa è laboriosa; e, come ho detto, dipende da noi stessi, e il mondo non è finito,

D. Non vi sono dei tempi in cui la Chiesa pare diseredata di santità?

R. Solo la forma cambia. Là dove manca l’estensione, si osserva una concentrazione. Quando i canali regolari della grazia si chiudono, la grazia erompe, qua o là, in getti mirabili, e i periodi ingrati della storia contano i più grandi Santi,

D. Questi sono degli individui; ma vi è anche una santità sociale.

R. Noi ne abbiamo trattato, come dell’altra, a proposito della vera religione. Abbiamo dovuto confessare che la morale evangelica messa in opera nella Chiesa e per la Chiesa, nelle società cristiane, è alla base della civiltà.

D. La Chiesa cattolica vi ebbe una parte preponderante?

R. Fino alla riforma, ciò non si può mettere in dubbio. Dopo la riforma, ciò è anche più certo.

D. Tuttavia si sente dire che le società protestanti, sono superiori, moralmente, alle società cattoliche.

R. A questo darò una triplice risposta. Guardando alle apparenze, si potrebbe credere che certi gruppi protestanti son di fatto di una moralità e di una religione superiore, almeno sotto certi aspetti. Ma quando si è abbastanza informati da andare a fondo delle cose e si generalizza, il giudizio cambia. – In secondo luogo, se tu consideri la parte eletta, che permette un più giusto apprezzamento, la bilancia trabocca totalmente in favore della parte eletta cattolica. – Finalmente, e qui sta il principale, cerca dove sono i Santi, cioè gli eroi religiosi, quelli che, in grazia di quell’alto misticismo che prova l’unione con Dio, manifestano appieno la portata e la fecondità del principio: essi sono una pleiade nel Cattolicismo; non se ne vedono nel protestantesimo. Il protestantesimo alberga molte nobili anime; se ha prodotto dei santi, fu nel segreto; storicamente, in ciò che si vede, che solo è in causa per noi, si ha il diritto di dire: Esso non ha prodotto dei santi; non ha dei genii religiosi; non ha degli eroi. Ora, se tu volessi stabilire tra due eserciti una scala comparativa di valori, non parleresti anzitutto delle unità eminenti, dei grandi soldati, dei grandi capi, dei grandi duci, degli eroi? Così si giudica, nel fatto, il principio vivificante della Chiesa.

D. Tu attendi dall’avvenire un grande sforzo di santità nuova?

R. Ancora una volta, che l’opera dello Spirito si compia, dipende da quelli in cui lo Spirito lavora. Ma noi non temiamo uno scacco che supporrebbe o una malizia sovrumana dalla parte degli uomini, o un rifiuto della misericordia dalla parte di Colui che disse: La mia misericordia è più grande del tuo peccato, o Israele. «Io credo, scriveva Ozanam, al progresso dei tempi cristiani; e non mi spavento delle cadute e dei traviamenti che lo interrompono. Le fredde notti che succedono al calore dei giorni non impediscono all’estate di seguire il suo corso e di maturare i suoi frutti ».

LO SCUDO DELLA FEDE (179)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XVI)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO TERZO

LA CHIESA

II. — I caratteri divini della Chiesa.

a) Il fatto sovrumano.

D. Credi evidente che la Chiesa abbia un’« anima divina »?

R. Questo focolare di verità e di santità nel mondo, questo fermento della povera pasta umana sempre pronta a ricadere e a inacidirsi, questa società così stupenda nella sua fondazione, nella sua espansione, nella sua esatta successione, nella sua fecondità Spirituale, nella sua perpetuità, nella sua unità ad onta di tante lacerazioni secolari, nella sua stabilità in mezzo a tutto quello che vacilla, non è forse un argomento incomparabile in favore della sua missione e della sua divinità?

D. Tu ci vedi un miracolo?

R. Vi è certamente un miracolo nel solo fatto della Chiesa, e ci vuole tutta la potenza di accecamento dell’abitudine per non accorgersene. Supponi una società di amicizia che sia fondata un giorno nelle condizioni in cui si fondò la Chiesa; sottomettila alle medesime traversie; falla durare così per due mila anni, e spandila sopra tutto l’universo con effetti proporzionati a questi: poi mi dirai che cosa pensi della sua vitalità e a quali cause umane una tale vitalità potrebbe veramente essere assegnabile.

D. Il fatto è così ampio come questo?

R. Il governo attuale e i frutti attuali della Chiesa si estendono a oltre trecento milioni di anime. Addiziona le generazioni passate, calcola le future, e computa il gregge di Cristo. Nessuna opera umana può essere, sia pure lontanamente, paragonabile a quest’opera. « Ciò sorpassa l’uomo », specialmente se si confronta il risultato coi mezzi: semplicità alla base di un’immensa complicazione; umiltà a servizio di una onnipotenza; sorgente appena visibile che dà origine a un fiume che si allarga sino a formare un oceano.

D. Ne parli come di una creazione.

R. Attese le condizioni della sua fondazione e del suo trionfo, attesa la sua struttura visibile e specialmente spirituale, la Chiesa, come dice Bossuet, è veramente «un edificio tratto dal niente, una creazione, l’opera di una mano onnipotente ».

D. Tuttavia gli storici notano, nel corso dei tempi, le cause di questo successo della tua Chiesa.

R. Ho già risposto a un argomento di questa forma, e ti dicevo: Tutto ha delle cause; ma bisogna spiegare come queste cause si trovino all’opera nel momento opportuno, senza mai fare difetto, senza fallire il loro effetto, senza lasciarsi annullare da tante altre cause di deviazione o di rovina.

D. Di quali cause contrarie parli tu?

R. Esse abbondano, e talune ebbero tutta l’apparenza di cataclismi mortali. Lunghe e terribili persecuzioni, eresie, scismi, pericoli di assorbimento da parte di capi politici, debolezza e colpe dei fedeli, a volte perfino dei pastori, invasioni barbare che parevano sommergere ogni cosa, formidabile pressione dell’Impero, grande scisma di Occidente, riforma, filosofismo, rivoluzione francese… non sono che le principali crisi. Ora la Chiesa ha attraversato tutto senza perire e senza corrompersi; essa non soccombette mai a questo doppio pericolo, che la minaccia sempre. Che cosa può umanamente spiegare questo?

D. Vi è il genio, la forza, la virtù che operano nella Chiesa come dovunque.

R. Se avviene come dovunque, ciò non spiega niente. Di fatto il genio esiste dovunque, ed è raro dovunque; la Chiesa non ne ha di più che il suo conto. La forza per lo più vi è assente. La virtù fa parte del fenomeno da spiegare. Nient’altro si può invocare che la potenza del germe e il suo adattamento all’ambiente in cui esso lavora. La Chiesa, come un vivente, trova in sé le sue forze di creazione, di accrescimento, di difesa, di riparazione, di progresso. Ciò è ad essa naturale, dato il suo essere; ma è lo stesso suo essere che lo fa divino. « La vita è creazione », dice Claudio Bernard; la Chiesa vive, ed è Iddio che crea.

D. Il vivente di cui parli fu veramente fedele al suo germe? la Chiesa attuale risponde alla sua prima istituzione?

R. Tutto l’essenziale della Chiesa attuale si trova in San Paolo.

D. I protestanti lo negano.

R. Newman intraprese un vasto lavoro per contestarlo con maggiore scienza; a misura che egli si avanzava, vedeva rivolgersi la situazione; alla fine si convertì.

D. Altri, al presente, in Francia, ritornano alla prima idea di Newman, e forse sono meglio attrezzati.

R. Vi sono oggi degli uomini di valore: essi sono meglio attrezzati se si vuole; ma la loro passione anticristiana è troppo manifesta; essa fa torto a se stessa; e succede ad essa, come sempre alla passione, di non correggere la cattiveria o il malvolere se non con la stoltezza. Del resto, ve ne sono di quelli che non capiscono niente affatto, e di quelli che capiscono tanto meno in quanto non vogliono capire.

D. La rigidità de’ suoi principii è forse la ragione della lunga durata della Chiesa e della sua resistenza alle cause di dissoluzione.

E. Resterebbe da spiegare la rigidità secolare della Chiesa in mezzo a un mondo che non è meno seducente secondo lo spirito che secondo le potenze della carne. Abbiamo dato sopra un giudizio di questa difficoltà. Ma inoltre Pascal ti oppone un ragionamento affatto contrario. « Gli stati perirebbero, dice egli, se non si facessero piegare sovente le leggi alla necessità. Ma la religione non ha mai tollerato questo e mai ne ha tatto uso. Così ci vogliono degli accomodamenti o dei miracoli.Non è strano che ci si conservi piegando, e questo non è propriamente un mantenersi. E infine ancora essi periscono interamente; non ce n’è uno che abbia durato mille anni. Ma che questa Religione siasi sempre mantenuta, e inflessibile, ciò è divino ».

D. La Chiesa sì è mantenuta indubbiamente, ma sempre in mezzo alle contradizioni.

R. Ragione di più perché essa abbia bisogno di una soprannaturale protezione. La passione degli uomini si scalda pro e contro di essa; ma è l’imparzialità del tempo che la giudica. A misura che le obiezioni e gli antagonismi andranno moltiplicandosi, la Chiesa potrà sempre più opporre loro l’argomento e la forza della sua perpetuità.

D. A che cosa attribuisci tu queste contradizioni?

R. La Chiesa è contradetta perché, giudicando dal punto di vista dell’eternità, essa è sempre in ritardo o in anticipo sopra qualche cosa, esigendo od opponendosi riguardo a qualche cosa. Essa non può così attendere giustizia se non dai fatti, non dagli uomini, che giudicano in generale, fosse pure a distanza, secondo i loro pregiudizi e le loro passioni.

D. La storia non è dunque per la Chiesa?

R. La storia, sì, ma non sempre gli storici. La storia è per la Chiesa, perché registra quello che la Chiesa ha fatto; 1a fede è a più forte ragione per la Chiesa, perché inoltre essa prevede quello che la Chiesa farà. Ma ciò che fa la Chiesa è quasi sempre sospetto a qualcuno, talvolta allo stesso credente.

D. La Chiesa non prende la propria difesa?

R. Essa lascia dire. È «un blocco di forza silenziosa », come avrebbe detto Carlyle.

D. Spieghi nello stesso modo le persecuzioni?

R. Le due questioni non possono mancare di corrispondersi. La Chiesa è perseguitata perché rivendica dei diritti e impone dei doveri; perché si paventa la sua potenza e ci si irrita delle sue pretese. Ciascun secolo mette alla prova la Chiesa, ed è per questo che essa è; e per questo che essa è, altresì, ciascun secolo la conferma, aggiungendo un nuovo abbigliamento alla sua giovane eternità.

D. Qual è per la Chiesa la suprema garanzia d’indipendenza?

R. Il martirio, Quando si è pronti a morire, si è liberi,

D. Vuoi spiegarmi il tuo pensiero?

R. Ascolta questo breve dialogo: — Taci, o io ti uccido! — La mia morte sarà la mia più alta parola. — Tutto morrà di te eccetto la tua parola. — Dunque io non morrò punto, — Vattene al diavolo! — Vado, ma in grado di poter servire Dio,

D. Giungeresti fino a rallegrarti delle persecuzioni, delle contradizioni?

R. «Vi è del Piacere a trovarsi in una nave sbattuta dalla procella, quando si è sicuri di non perire » (PASCAL).

D. Lo stato presente della Chiesa ti pare che giustifichi una tale fiducia?

R. Lo stato della Chiesa non fu mai più favorevole e più ricco di speranze. Nel 1874, non è dunque gran tempo, Disraeli, membro di un gruppo religioso dissidente e rappresentante di un grande impero, diceva al Parlamento inglese: «Io non me lo posso dissimulare, la Religione Cattolica è un organismo potente, e se mi è permesso di dirlo, il più potente che esista oggi ».

D. Certi Cattolici stessi credono a un regresso.

R. I lodatori del Passato ne dimenticano le miserie; i di tale parzialità di sguardo è certo naturale; sotto un certo aspetto essa è virtuosa, perché milita in favore del nostro ideale; ma tentiamo di vedere quello che è. La Chiesa è piena di vita; sua costituzione; il suo ultimo concentramento organico, punto di partenza di una più ricca espansione che si annunzia da ogni parte, non data che da un mezzo secolo. Ieri stesso si liberava definitivamente del temporale e accresceva così agli occhi del mondo il suo incomparabile prestigio Spirituale; la santità vi circola più che mai, e la sua potenza incivilitrice è così evidente che i gruppi politici più animati contro di essa cercano insistentemente questo focolare spirituale. L’avvenire è davvero largamente aperto davanti alla Chiesa, e benché essa sia antica, pure non è e non sarà mai vecchia. Avviene di essa, e assai meglio ancora, come della terra ad ogni primavera, dell’universo in ciascuno de’ suoi cicli. Il ricominciamento eterno è la legge di ciò che non muore.

LO SCUDO DELLA FEDE (178)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XIV)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO SECONDO

I MISTERI

VIII. — Il mistero della Grazia.

D. Dicevi testè che la Redenzione non è resa effettiva se non per la restituzione della vita soprannaturale perduta per la colpa. In che consiste esattamente questa vita?

R. L’abbiamo espressa in una sola parola: la grazia. Lì sta il fatto essenziale del Cristianesimo, quello in vista del quale sono istituiti o ci sono rivelati tutti gli altri.

D. Ed è anche un mistero?

R. È un mistero affatto segreto che Dio solo ci può rivelare, e siamo noi stessi uno di questi segreti, sia nella nostra natura profonda, sia in ciò che Dio ne vuol fare.

D. La grazia è dunque un disegno di Dio?

R. È il suo disegno essenziale, ed è poi un fatto.

D. Qual disegno? Quale fatto?

È. Il disegno è di farci figliuoli di Dio in un senso nuovo che la natura non comportava punto, che la pura filosofia deista ignora, e che è propriamente la buona novella evangelica, espressa da queste parole di S. Giovanni: « A tutti quelli che hanno creduto, Egli diede il potere di diventare figliuoli di Dio, a quelli che credono nel suo Nome, e che, non dal sangue e dalla volontà della carne, né dalla volontà dell’uomo, ma da Dio, son nati » (Prologo).

D. Bisogna dunque nascere di nuovo?

R. Tu poni la questione di Nicodemo, quando venne di nottetempo a interrogare Gesù sulla sua dottrina: io non posso che ripeterti la risposta di Gesù a Nicodemo: « Nessuno, se non rinasce dall’acqua e dallo Spirito, può entrare nel regno di Dio ».

D. Tu dici che lì sta l’essenziale? Io credevo che l’essenziale del Cristianesimo fosse nell’adesione a Cristo.

R. L’adesione a Cristo non ha ragione di essere e non vuole altro effetto che l’effusione in noi dei doni divini che Cristo ha ricevuto per il genere umano. Cristo è il « Ceppo », e noi siamo i tralci, e il ceppo non è fatto che per i tralci e per i grappoli. Quando riceviamo la grazia, noi diamo a Cristo la sua ragione di essere con quella della nostra adesione. La Trinità non ci fu rivelata se non come la sorgente di questo fatto, l’Incarnazione come il suo agente, la Redenzione come la sua condizione e il suo prezzo. La Chiesa, con tutto quello che porta in sé, ne sarà lo strumento.

D. Vuoi precisarmi che cosa è la grazia?

R. Si chiama grazia, in generale, ogni favore che Dio ci fa, nell’ordine soprannaturale in cui ci ha collocati. Vi sono delle grazie esteriori, come la Redenzione stessa, gli esempi e le esortazioni di Gesù Cristo o dei Santi, il ministero della Chiesa, etc. Ce ne sono delle interiori, come i doni di lume e gli stimoli segreti che ci spingono al bene. In questo dominio segreto, si distinguono due sorta di grazie: la grazia abituale, o santificante, che si può conservare o perdere, ma che, per sé, ci è data per sempre, e le grazie attuali, destinate a procurare atti virtuosi.

D. Queste sono divisioni; io domandavo che cosa è veramente la grazia in sé, e che cosa tu intendi per quest’ordine soprannaturale di cui si tratta dall’inizio dei nostri discorsi.

E. Io aspettavo questo momento per spiegarmi in proposito, e la Spiegazione chiarirà, come spero, tutto quello che abbiamo detto, come quello che deve seguire.

D. La grazia deve affiliarci a Dio?

R. Noi siamo dei figli di Dio per natura; la creazione di cui abbiamo stabilito la nozione precisa, ci mette in relazione necessaria e permanente col nostro Principio. Ma la relazione tra due esseri può essere più o meno stretta, e quando si tratta di relazioni che arricchiscono, come quelle che ci rilegano a Dio, la ricchezza può essere più o meno preziosa e appartenere ad ordini diversissimi. La creazione ci arricchisce per se stessa del nostro essere e della nostra natura ragionevole; ci dà un corpo ed un’anima, delle facoltà vitali, dei poteri di sensazione e di pensiero; ci assegna in sorte la cognizione e l’uso di questo mondo, e inoltre, per la filosofia nel suo più alto insegnamento o per istinto religioso che la sostituisce, il conoscimento astratto e il culto ragionevole del divino.

D. Non basta questo?

R. Noi non possiamo spingerci più lontano del fatto della nostra natura stessa e del suo funzionamento proprio. Ma, osserva S. Tommaso, dovunque noi vediamo delle nature coordinate, ciascuna di esse, oltre il suo movimento proprio, ubbidisce a un movimento che le è impresso dalla natura superiore. In questo modo il mare, lasciato a se stesso si estende a guisa di velo e sposa la forma del suo pianeta; ma gli astri lo attirano e, gonfiando la sua massa, producono il fenomeno delle maree, che non gli è naturale se non lo si considera come in composizione con gli astri. Ora, aggiunge egli, l’uomo è rilegato a Dio per la sua attività intelligente, poiché l’intelligenza gli permette di raggiungere l’universale a proposito degli oggetti dell’esperienza, mettendolo per questo solo, sulla strada del principio dell’universale, che è il Primo Principio. Sarà dunque normale e conforme ad un’induzione costante che la natura umana si sviluppi sopra un duplice piano. Quello che la sua natura determina, tal quale ce la rivela l’analisi, e quello al quale vorrà elevarlo quel motore supremo, buono e magnifico, che noi chiamiamo Dio.

D. Questa teoria è interessante; è propria di S. Tommaso d’Aquino?

R. Essa era stata abbozzata da parecchi filosofi dell’antichità. Aristotile ne fornì i lineamenti nella sua celebre interpretazione del genio, genio dell’intelligenza o genio della virtù, che, secondo lui, non sarebbe altro che un’irruzione subitanea del divino che si sostituisce ai nostri ragionamenti e alle nostre prudenze, per portarci più in alto e più lontano. La Morale di Eudemo, uscita immediatamente dalla sua intelligenza, ci presenta a questo proposito una pagina mirabile, e Plutarco, in cui si trova un riflesso di ciò che vi è di meglio nella filosofia antica, scrisse nel Banchetto dei sette sapienti questo passo meraviglioso che suscitava in Gratry l’entusiasmo: «Il corpo è lo strumento dell’anima e l’anima è io strumento di Dio. E come il corpo ha dei movimenti che gli sono proprii, ma ne ha altri più belli che gli vengono dall’anima, così l’anima ha il suo ordine proprio d’azioni e di movimenti, ma può anche, come il più perfetto degli strumenti, lasciarsi dirigere e muovere da Dio, che agisce in lei. Che se il fuoco, il vento, l’acqua, le nubi sono strumenti di Dio per la vita e per la morte, chi crederà che gli esseri viventi non si possano adattare alla forza di Dio, e lavorare con questa forza, e ispirarsi ai movimenti di Dio, come la freccia ubbidisce agli Sciti e la lira agli Elleni? ».

D. È evidentemente la teoria di S. Tommaso.

R. Bada bene; S. Tommaso ne fa un uso assai più ardito, sostenuto dalle rivelazioni evangeliche, donde vengono per noi le certezze e le ispirazioni superiori. Ciò che l’antichità sospetta, è che Dio opera in noi per portarci più lontano che non potremmo andare da noi stessi, per esempio, per farci vedere, nelle ore d’ispirazione, quello che rimane oscuro alla nostra intelligenza ragionante; per alzarci, in quello slancio che noi chiamiamo eroismo, al di sopra della debolezza del nostro volere. Ma i dominii di vita in cui quest’azione complementare ci spinge, sono nondimeno dei dominii del nostro ordine umano; quello che a noi ne verrà sarà della stessa natura che i risultati ottenuti da sforzi virili. La nostra vita resta nella sua essenza, nelle sue operazioni naturali, nel suo valore d’oggetti; non è cambiato altro che l’ampiezza del gesto, e noi non diventiamo divini pur essendo mossi così dalla Divinità.

D. Perché diventare divini?

R. Così vuole la divina munificenza, e ciò non avviene, ho detto, senza una profonda armonia con la nostra natura. «Il Vangelo soddisfa la coscienza perché la oltrepassa», serive Carlo Secrétan.

D. Tu dici dunque, lasciando l’antichità

E. Che il pensiero cristiano va più oltre; che esso intende di unirci a Dio non più solo come il mobile al suo motore, restando ciascuno dei due nel suo ordine, ma nel modo intimo che permetterà la comunicazione delle vite, in tal maniera che i pensieri e gli amori siano comuni, le vite mescolate, gli oggetti identici, e che io, Cristiano, possa sentire, o ad ogni modo riconoscere « qualcuno che sia in me più me stesso di me» (PAOLO CLAUDEL).

D. Non capisco una tale pretesa.

R. Rappresentati la gamma delle relazioni supponibili tra Dio e la sua creatura. L’uno degli estremi è abbastanza bene rappresentato dal razionalismo deista, il quale vede Dio che interviene nelle nostre vite soltanto per l’intermedio delle leggi generali. L’altro estremo sarebbe fornito dal panteismo, che confonde Dio e l’uomo nell’unità d’una stessa sostanza. Tra i due c’è posto per innumerevoli intermedi; ma il più vicino al razionalismo puro sarebbe quello che abbiamo ora incontrato nei nostri antichi filosofi, e il più vicino al panteismo, del quale esso si appropria la profondità di dottrina rigettando i suoi eccessi, è il sistema cristiano del soprannaturale. Noi ne abbiamo trovato il tipo in Cristo, ed era di diritto, poiché il nostro capo di stirpe soprannaturale è Lui stesso, nella sua umanità fraterna, paterna, solidale su ogni punto della nostra.

D. Cristo non è Dio?

R. Cristo è Dio, e a questo titolo, dicevamo, Egli realizza una sorta di panteismo individuale, in ciò che noi possiamo dire, designando la sua Persona: Questi è Dio, come Anassimene, mostrando con un largo gesto il cielo e la terra, diceva: Tutto questo è Dio. Ma questo fatto non annulla punto la sua umanità. Questa umanità unita a Dio in persona serba il suo funzionamento proprio, sopraelevato però da una tale unione, e l’essenza del soprannaturale si rivela appunto in questo funzionamento di una umanità « piena di grazia ».

D. Io ne richiedo ancora il dato preciso.

R. Si tratta di un’unione di conoscimento e di amore, di un’intuizione dell’intelletto, di un’interpenetrazione dei cuori, di una comunicazione delle vite che introduce l’umanità stessa nella Trinità, e non forma più che una sola vita delle due vite naturali infinitamente disparate.

D. Parli sempre di Cristo?

R. Parlo di Cristo anzitutto; perché Cristo per il primo godeva di questi privilegi, e vedeva Dio, lo provava, lo viveva come noi vediamo e proviamo coi nostri sensi gli oggetti di questo mondo, in tal modo che la sua vita era a un tempo terrestre e celeste. Ma questo stato di grazia — poiché anche in Cristo è una grazia, benché sia una derivazione naturale della grazia prima che è la « grazia d’unione » — questo stato, dico, ci è comunicato nel suo fondo, se noi prestiamo ai meriti di Cristo l’adesione dell’anima nostra. Noi non ne godiamo subito come Lui, perché abbiamo prima da cooperare e non pretendiamo alla sua dignità eminente; ma ne abbiamo in noi il germe, come il bambino prima di nascere ha in germe la vita e il pensiero. Ed è questo germe, questo grano di immortalità beatifica, d’intuizione trascendente, d’amore infinito, che noi chiamiamo grazia santificante. Per essa noi acquistiamo il potere, come diceva S. Giovanni, di esercitare verso Dio il compito di figliuoli nella sua pienezza, cioè di condividere la sua vita intima, di conoscere Lui stesso e tutto quello che Egli conosce, di amare quello che Egli ama e volere quello che Egli vuole come oggetti oramai nostri, connaturali all’anima nostra trapiantata, come il sensibile e i suoi oggetti sono a noi qui connaturali. Vedete, dice S. Giovanni, quale amore il Padre ci ha dimostrato, perché noi fossimo chiamati e fossimo realmente figliuoli di Dio. Adesso noi lo siamo; ma quello che saremo un giorno non e ancora stato manifestato. Noi sappiamo che quando questo sarà manifestato, saremo simili a Dio, perché lo vedremo tal quale Egli è. Per vedere Dio tal quale è, bisogna essergli simili a qualche titolo, poiché questo non è naturale che a Lui. Egli lo rende naturale a noi stessi comunicandoci questa nuova natura, questa natura soprannaturale che è la grazia.

D. Tutto questo rasenta la follia. I personaggi dell’Areopago ne avrebbero riso di cuore.

R. Essi ridevano anche della follia della croce, che fece la sua strada nel mondo. È appunto la follia della croce che richiede questo contrappeso, che spiega queste mire sublimi. Convenne che Cristo morisse per entrare nella sua gloria e perché noi vi salissimo con Lui; ma bisogna reciprocamente che noi saliamo nella gloria dove sale Cristo, per giustificare una tale morte. Quando il sole scende nella notte sanguigna, è per preparare l’alba e il meriggio; questa caduta d’astro è un pegno; un tramonto di sole non è che un’aurora anticipata: così la caduta di un Dio nella vita e nella morte umana è il pegno dei nostri supremi fini.

D. Ancora bisogna tenersi nel verosimile.

E. Il verosimile è sempre oltrepassato da Dio. Quante inverosimiglianze, già, nella natura! In fondo, tutto è inverosimile; lo diciamo verosimile dopo. Ad ogni modo una questione come questa è a noi superiore. «Se si vuole dire che l’uomo è troppo poco per meritare la comunicazione con Dio, bisogna essere ben grande per giudicarne » (PASCAL).

D. Le tue Scritture nel loro insieme appoggiano queste straordinarie pretese?

R. Senza ciò, noi non ci permetteremmo mai di aprire la bocca in proposito. Io ho testè citato Giovanni; ma questa dottrina è comune nel Nuovo Testamento. « Voi sarete partecipi della stessa natura di Dio », diceva S. Pietro ai suoi fedeli, e S. Paolo: «Quando il perfetto sarà venuto, quello che è parziale e incompleto in noi avrà fine. Conosciamo adesso come in uno specchio in modo oscuro; ma allora vedremo il divino a faccia a faccia. Ora conosco in parte; ma allora conoscerò come sono conosciuto » (I Cor., XIII).

D. La grazia, dici, presagisce questo stato; come intendi tu î loro rapporti?

R. Io, per figurarlo, ho usato l’immagine del grano, del germe, e con ciò intendo che in ragione dell’unità della nostra vita, naturale o soprannaturale, si deve trovare al punto di partenza, virtualmente, quello che si troverà sviluppato al termine. Ogni termine qualifica le tappe che lo preparano. Nessuna evoluzione si concepisce se non per trasformazione successiva di un elemento già differenziato e in relazione specifica con l’ultimo effetto. Perché la quercia sia quercia, bisogna che la ghianda sia ghianda, cioè non una quercia in piccolo, come credevano antichi naturalisti, ma una quercia in potenza. Nello stesso modo, se l’uomo dev’essere un giorno divino, nel senso partecipato che abbiamo definito, bisogna che sia tale fin di qui nello stesso senso, con la sola differenza tra la pianta sviluppata e il suo germe.

D. In altre parole?…

R. Voglio dire che l’uomo, portato dalla Divinità così come ogni creatura, deve di più essere pervaso di essa, unito ad essa più a fondo, invaso nel suo essere e nei suoi poteri da quello stesso influsso di cui noi pensiamo che vive Dio e che chiamiamo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è l’agente proprio della grazia; è Lui che effettua questa compenetrazione del divino e dell’umano nell’uomo rigenerato, nuovamente generato per una vita nuova. Egli è per questo fatto «l’anima dell’anima nostra », dice S. Agostino, perché la relazione dell’anima al corpo, come principio di vita, si riscontra in un grado superiore tra l’anima nostra e l’influsso divino che la mette in azione. L’anima informa il corpo; la grazia informa l’anima nostra, e per essa tutto l’essere, per renderlo più divino. Per questo fatto, si dice che Dio lo abita.

D. Abitazione metaforica!

R. Abitazione misteriosa, ma reale, sotto gli auspizi della grazia, e questa abitazione di Dio in noi è agli occhi nostri tutta la religione, poiché è il vincolo solido, quello, non puramente ideale, che ci lega all’oggetto religioso, alla Divinità in persona.

D. L’individualità umana, in tali condizioni, può ancora sussistere? Che cosa diventano le nostre facoltà, e di qual libera azione sono ancora suscettibili?

R. Dio non distrugge niente di ciò che Egli tocca, poiché non tocca se non per vivificare. La sua sopracreazione rispetta în tutto la creazione primitiva. Le nostre facoltà sono sopraelevate e rafforzate per il contributo divino della grazia, senza perdere nulla della loro autonomia e dei loro caratteri. Quello che è grazia santificante nell’anima presa nella sua entità fondamentale, nella sua essenza, come noi diciamo, diventa virtù soprannaturale nell’incanalarsi nelle nostre varie facoltà. Nel nostro intelletto è la fede, che si sovrappone alle nostre cognizioni naturali senza contradirle; nella nostra volontà e nella nostra sensibilità, sono la speranza, la carità, le virtù morali soprannaturali, e inoltre, aggiungendovisi come il genio alla scienza e l’eroismo alla virtù, ciò che noi chiamiamo i doni dello Spirito Santo, disposizioni interiori procedenti a modo dell’istinto, quando le virtù si valgono dei procedimenti razionali dei quali la deliberazione è il tipo.

D. E qual è qui l’essenziale?

R. È la carità, l’amore. Onde l’ordine soprannaturale è chiamato comunemente l’ordine della carità, come si vede in Pascal. Lì è il centro della nostra vita soprannaturale, e per conseguenza lì sta il suo principio organizzatore. La grazia di Dio opera nell’anima il medesimo effetto che lo Spirito sopra il caos primitivo. Il nostro ingresso nella vita divina, che è armonia e dirittura, luce e forza, si effettua sotto questo segno dello Spirito, che è l’Amore vivente, e noi siamo, per questo fatto, sotto una legge d’amore, scritta, dice S. Paolo, non su tavole di pietra, ma su tavole di carne, nei nostri cuori.

D. Ciò esclude evidentemente il male morale?

R. La grazia e il male sono per sé incompatibili; perciò chiamiamo un peccato grave un peccato mortale, perché trae seco la morte dell’anima riguardo a quella vita soprannaturale che noi descriviamo. Parimenti chiamiamo la venuta nello stato di grazia una giustificazione, perché l’uomo in grazia è necessariamente un giusto, un essere gradito a Dio, un figlio di adozione, un fratello di Cristo, perciò un erede del regno che Gesù Cristo conquistò, un «tempio » dello Spirito Santo e di tutta la Trinità, le cui missioni nell’anima sono uno degli arcani più sottili della fede.

D. Sono questi per te veramente dei fatti psicologici, e non solo dei dati morali?

E. Sono dei fatti di biologia spirituale, se così posso dire, dei modi reali dell’essere, dei fenomeni di vita.

D. Allora come non ne abbiamo coscienza?

E. Un sommo psicologo non ne converrebbe affatto. Maine de Biran (Journal, 20 dicembre 1823) scrive: « Adesso intendo la comunicazione interiore d’uno Spirito superiore a noi, che ci parla, che noi udiamo dentro, che vivifica e feconda il nostro Spirito senza confondersi con esso; infatti noi sentiamo che i buoni pensieri, i buoni movimenti non nascono da noi stessi. Questa comunicazione interna dello Spirito col nostro spirito proprio, quando sappiamo invitarlo o preparargli una dimora dentro, è un vero fatto psicologico, e non di fede soltanto. »Tuttavia bisogna riconoscere che di solito lo stato soprannaturale in se stesso non può essere l’oggetto di una certezza sperimentale. Onde S. Paolo dice che assolutamente parlando nessuno sa se sia degno di amore o di odio. Ma si può discernere l’albero da’ suoi frutti. Il modo di vivere, il modo di comportarsi riguardo al soprannaturale, ecco il segno, e questo segno è moralmente sicuro, senza che vi sia bisogno di una evidenza immediata, di un contatto.

D. Resta la stranezza di un’armatura spirituale completa di cui non abbiamo affatto coscienza.

R. Abbiamo noi coscienza dell’incosciente, la cui esistenza è così certa? Abbiamo anzi coscienza della circolazione del sangue? Un fenomeno così grossolano non è stato scoperto che dopo secoli di studi fisiologici, e certi sapienti non ci vollero punto credere. Una folla di correnti ci attraversano o si sprigionano da noi senza che ne siamo avvertiti dalla minima sensazione.

D. Tu ammetti qui, ad ogni modo, un miracolo permanente.

R. Non è un miracolo più di quello che sia un miracolo il sollevarsi dell’acqua nel fenomeno delle maree. È un ordine nuovo, è vero, ma che si presenta come in continuità con tutti gli altri, nell’interno del piano divino. La vita della grazia si sovrappone alla vita naturale dell’anima che essa impregna, come questa all’attività cerebrale, questa all’azione fisico-chimica del corpo e questa all’inerzia materiale.

D. Ma questo stato soprannaturale, identico in tutti i « giusti », non è la rovina delle originalità e delle iniziative? Tutti nello stesso stampo, sia pure uno stampo divino, questo non è un ideale.

R. Comprendere così le cose sarebbe commettere un grosso controsenso. La grazia è la stessa per tutti come soprannaturale e adattata alla natura comune; ma ho già detto che essa è ricevuta in ciascuno secondo le sue particolarità, e, salvo il male, essa rispetta queste ultime. L’Incarnazione non tolse a Cristo uomo i suoi caratteri individuali, neppure quelli della sua stirpe: a molto più forte ragione la grazia non altera i nostri, giacché la nostra personalità non è assorbita da Dio, come fu quella di Cristo. Anzi la grazia consacra e intende di effettuare superiormente ciò che si potrebbe chiamare la nostra vocazione di natura, essa vuol fare con noi la nostra opera propria; sposa il nostro caso e lo favorisce sotto il nome di grazia di stato. Si può essere sicuri che un essere è molto meglio se stesso, quando per la grazia è purificato da’ suoi difetti e sollevato in tutti i suoi mezzi. Alla fine di questo lavoro, la gloria, che espande la grazia, ciascun uomo apparisce, secondo il celebre detto di Mallarmé: « e quale in se stesso finalmente l’eternità lo cambia ». Egli è cambiato, ma in se stesso, in ciò stesso che ideò il Creatore e che le nostre miserie terrene ricoprivano, e per di più in un se stesso trasposto, realizzato in un modo superiore, come di una melodia scritta in un tono più alto.

D. Hai parlato di grazie attuali: qual è la loro nozione?

R. Noi chiamiamo così ogni soccorso soprannaturale di Dio che non ha più un carattere permanente, ma occasionale. Può essere un lume nella nostra intelligenza, uno stimolo della nostra volontà, un movimento felice della nostra sensibilità il tutto in vista del nostro bene spirituale. Secondo i suoi effetti, si dirà di questa grazia che essa ci eccita, ci aiuta, ci guarisce, ci eleva. Si chiamerà efficace se essa porta fino all’azione, o sufficiente se è lasciata all’uso del nostro libero arbitrio. Ma in tutti i casi essa esige la nostra cooperazione. Non ci si salva senza di noi.

D. La grazia dunque non è che una prevenienza di Dio.

R. È più che una prevenienza, perché anche alla risposta Iddio coopera, allorché alle sue prevenienze noi non cooperiamo. Dio è sempre il primo, Dio è sempre il più forte, specialmente in amore. Egli viene, e noi gli andiamo incontro; ma, anche Lui che è dovunque e mescolato a tutto viene con noi, al suo proprio incontro. Che cosa si farebbe, o uomini, in questo ordine che sorpassa l’uomo, senza questo compagno divino?

D. Non si può fare nulla di bene senza la grazia?

E. Si possono fare delle buone azioni senza la grazia, checché ne abbiano detto i luterani e i giansenisti, per i quali la natura umana, totalmente corrotta dal peccato di origine, non sarebbe capace che di male. Ma senza la grazia non si può fare nulla di efficace per la salute, che è soprannaturale; si è solamente ad essa preparati e messi sulla sua strada. Di più, senza la grazia, non si potrebbe evitare, in tutto il corso di una vita, ogni colpa grave contro la legge morale. E noi crediamo ancora giustamente necessario un soccorso speciale, per ottenere quello che chiamiamo la perseveranza finale.

D. Credi possibile, con la grazia, di evitare ogni colpa qualsiasi, anche la più leggera?

R. Praticamente, no; lo spirito umano è troppo incostante; troppe occasioni e accidenti interni o esterni ci sorprendono. Si può evitare ciascuna colpa presa a parte; ma per vincere sempre e non essere mai feriti, noi crediamo indispensabile un privilegio fuori dell’ordinario, che per quanto sappiamo non si è riscontrato che due volte: in Gesù e nella sua purissima Madre.

D. Avendo in sé la grazia che tu chiami santificante, si può  senza la grazia attuale, essere Santi?

R. Anche qui, diamo la stessa risposta. Teoricamente, è possibile; ma praticamente, ci son veramente necessarie grazie attuali, grazie d’occasione. Per quanto armata e coraggiosa sia una milizia, può sempre evitare di ricorrere al suo capo per chieder rinforzo?

D. Il «rinforzo » è qui assicurato?

R. È di fede che tutti i giusti ricevono le grazie necessarie alla loro perseveranza nel bene, tutti i peccatori le grazie necessarie alla loro conversione e alla loro salute, tutti gl’infedeli le grazie che, se vogliono, li condurranno, sia alla fede esplicita, sia ai supplementi morali e soprannaturali della fede.

D. Pare che questa dottrina sia uno sforzo di equilibrio tra il tutto o il niente delle dottrine estreme.

R.. Tommaso scrisse queste belle parole: «La Chiesa santa e apostolica tra due siepi di errori, ben in mezzo alla strada, va con un passo lento ».

D. La dottrina della grazia urta però legittimi orgogli.

R. Quale sorta di orgoglio potrebbe veramente essere qui legittima? « Che bella cosa, scrive Pascal, gridare a un uomo che non conosce se stesso che egli vada da se stesso a Dio! E che bella cosa dirlo a un uomo che conosce se stesso! ». E ancora: « Per fare d’un uomo un santo, è indispensabile che intervenga la grazia, e chi ne dubita non sa che cosa sia un santo e che cosa sia un UOMO ».

D. Ciò non favorisce quelle eresie contrarie che poco fa condannavi?

R. L’uomo s’immagina alternativamente, e alle volte nello stesso tempo che egli può tutto senza Dio e che non può niente, anche con Dio: la Chiesa gl’insegna che egli non può niente senza Dio e tutto con Dio. In tal modo essa crede di onorarlo e d’incoraggiarlo di più; perché l’onore dell’uomo è in quello di Dio, e in Dio la sua forza.

D. L’uomo da solo compie spesso delle belle opere.

R. Compie delle opere magnifiche, ma in collaborazione con la natura e armandosi delle forze universali, delle quali egli stesso non è fisicamente che un punto di concentramento. Ve ne sono anche nell’ordine spirituale, e più ancora nell’ordine soprannaturale. La grazia è un collegamento, in noi, per l’utilizzazione delle forze eterne. Vorrà l’uomo compiere senza Dio un’opera divina, dal momento che non può agire in questo mondo se non utilizzando la materia che insozza i suoi piedi?

D. Ma dov’è allora il merito umano?

R. Il merito umano non può essere un merito solitario, perché l’uomo non è mai solo; ma pure è un merito, perché ciò ch’egli fa con un soccorso normale, lo fa veramente lui, ed è normale altresì che egli ne abbia il benefizio. Per giunta, quello che Dio ci dà non ci appartiene forse, e i meriti di Cristo non sono forse nostri? Che Dio, coronando le nostre opere, non faccia altro che coronare i suoi propri doni, come dice S. Agostino, ciò non impedisce che egli ci coroni. Dio incomincia, ci mette sulla strada; accompagna il viaggiatore, ed è lui che ci riceve; ma ciononostante si cammina.

D. Si può meritare l’aumento della grazia?

R. Sì, ma con la grazia, poiché senza di essa non si può nulla.

D. Si può dunque meritare la prima grazia?

R. La sua stessa definizione vi si oppone. Ho detto però che uno vi si può disporre.

D. Il peccatore destato da una prima grazia può meritarne altre e la conversione stessa?

R. Strettamente no, poiché non si merita propriamente se non essendo amico di Dio; ma alla bontà che lo ha così prevenuto conviene rispondere al suo buon volere e compiere l’opera sua.

D. E si merita la gloria?

R. Nelle medesime condizioni, e si merita pure che essa si aumenti.

D. Che dici del merito per altri o in vista di altri?

R. Non si può salvare un altro senza che lui stesso lo voglia, ma gli si può meritare soccorso, in ragione della nostra solidarietà in Gesù Cristo e nella comune paternità divina. Ecco un caso di ciò che noi chiamiamo la comunione dei santi.

D. Che avviene quando si sono acquistati dei meriti e si pecca poi gravemente?

R. I meriti periscono, perché non si può essere a un tempo separato da Dio e meritevole davanti a Lui; ma se si rientra nella sua amicizia, i meriti rivivono.

D. Rivivono anche le colpe perdonate, quando si ricade?

R. No, e in ciò splende la bontà del nostro Dio, che ricorda il bene e dimentica il male. Non si può tuttavia fare a meno che ne sussistano le tracce, e grande a questo riguardo è la differenza tra il peccatore che ricade e il peccatore che si rialza; perché sul primo gli effetti di antichi peccati sono un peso di più, mentre al secondo servono di scusa. Nel capitolo della Penitenza, del resto, noi ritroveremo questo caso.

D. Quali sono, secondo te, i rapporti di questo regime individuale e interindividuale della grazia con lo stato sociale?

R. Essi sono stretti, e i loro effetti riconosciuti sarebbero immensi. Avendo la grazia per compito di raddrizzare la natura individuale, di sopraelevarla conforme a se stessa e in tutti i suoi aspetti, di aiutarla in tutte le sue attribuzioni, è chiaro che la grazia prepara alla società degli elementi scelti e favorisce l’uso di questi elementi in tutti gli ordini di fatti che la società abbraccia. Essa tende a frenare le forze cattive che mantengono il disordine e intralciano il progresso; dispone le menti alle sane concezioni e alle utili riforme; calma le impazienze perturbatrici; dà come base alla costruzione sociale una famiglia purificata, consolidata dall’unità e dall’indissolubilità del matrimonio, perciò conforme alle esigenze di una società veramente in progresso; con la carità unita alla giustizia, essa aiuta la concordia degli elementi del lavoro, la ricerca e l’accettazione delle combinazioni economiche favorevoli, l’elaborazione e il funzionamento d’una buona politica nazionale e d’una politica di pace.

D. Ammetti tu la reciproca?

R. Essa è di diritto. Poiché la grazia si deve adattare a nature individuali definite e attive, non a una materia anonima e inerte, vi è interesse per essa e per il suo lavoro sovrumano a che le nature individuali siano prese in quadri sociali ben concepiti e funzionanti normalmente. Come base di azione soprannaturale, nulla è meglio che individualità umane « qualificate », e se è possibile superiormente qualificate.

D. Vi è dunque un parallelismo sociale tra la grazia e la natura, come tu hai riconosciuto tra esse un parallelismo individuale?

R. Socialmente come individualmente vi è di fatto un avviamento parallelo e concertato della grazia e della natura. Questo si concepisce subito, se si osserva che la nostra natura è sociale, e solo per astrazione si può distinguere.

D. Vorresti riassumermi in due parole che cosa è il tuo soprannaturale?

R. È un modo di essere e di agire che è naturale solo a Dio e che Dio ci comunica. È la vita intima della Trinità, nella quale noi entriamo.

D. È dunque una vita in due mondi?

R. La nostra conversazione è in cielo, dice S. Paolo. La nostra società con Dio non dipende da nessun mondo; essa comporta solo delle tappe, richieste per il necessario uso della nostra libertà. È presentemente una società per meritare e lavorare alacremente, in attesa del fine e del godimento.

D. Il divino nell’umano, insomma, e umano nel divino?

R. Satana aveva promesso ad Adamo e ad Eva che sarebbero come dèi. « Gesù Cristo mantiene la magnifica promessa del demonio » (MALEBRANCHE).

LO SCUDO DELLA FEDE (177)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XIII)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO SECONDO

I MISTERI

VII. — La Vergine Madre.

D. Non dài tu un posto speciale alla Vergine nell’Incarnazione?

R. Questo posto si delinea da se stesso nel disegno, tal quale lo concepisce la nostra teologia cattolica. L’opera di Dio nell’Incarnazione ha un cominciamento, ed è la Vergine Madre. Maria è l’aurora che precede il giorno; la sua luce è fatta del giorno che Ella annunzia; questa luce non sarà forse della stessa essenza: spirituale, come la luce di Cristo è spirituale, e superiormente umana prima dello splendore sovrumano?

D. Che intendi con ciò?

R. Che Maria, Madre di Cristo, che è Dio, per conseguenza Madre di Dio, benché ciò sia unicamente secondo l’uomo, Maria, associata immediatamente ai più grandi misteri e oggetto della loro preparazione, Maria, che sempre è questo, dacché Cristo è predetto, dacché è preveduto, vale a dire dalla costituzione di questo disegno eterno, non può essere una madre ordinaria. Gli strumenti si preparano secondo l’opera. Maria è lo strumento dell’Incarnazione e della Redenzione; il suo caso dipende dall’Incarnazione e dalla Redenzione; primizia dell’opera e causa della sua Causa, Ella dev’essere il suo capolavoro.

D. Tanti grandi esseri hanno madri qualsisiasi e che la storia non ricorda.

R. I grandi esseri di cui parli possono essere grandi e benefici per rispetto a ciò che li segue; ma nulla possono per quello che li precede. La loro madre, dunque, nulla può ritrarre dalla loro grandezza prima della loro azione. Ma Cristo, che è «ieri, oggi e in tutti i secoli », regola, come Dio, le condizioni della sua propria venuta; è Lui che si dà una madre, come si darà dei discepoli, e se ha ricolmato i Dodici del suo Spirito perché lo continuassero degnamente, come non avrebbe disposto di sua madre in modo che Ella lo precedesse degnamente, precorritrice intima, associata ben diversamente da S. Giovanni Battista, poiché Cristo sarà la carne della sua carne, invitato così a fare di Lei, poiché lo può e in certo modo lo deve, lo spirito del suo Spirito.

D. Chi ti dice che questa convenienza fosse ubbidita?

R. La Chiesa; ma noi ne abbiamo la prova, se non altro il segno ben chiaro in ciò che ci raccontano gli Evangelisti. Noi vediamo che Maria è dichiarata piena di grazia e benedetta fra tutte le donne, perché l’Essere santo che nascerà da Lei sarà chiamato Figliuolo di Dio, ed è tutta la nostra dottrina. Noi non vediamo lì una madre che mette al mondo un bambino che poi formerà la sua gloria; ma la vediamo prevenuta del disegno, invitata ad associarvisi e, per il suo consenso, a provocarlo in una certa maniera. Ella ci dà veramente l’Uomo Dio; si tiene dal lato del Padre e dello Spirito come una libera cooperatrice; è la «porta del cielo »: chi dubiterà che Ella non sia come quelle porte della celeste Gerusalemme, che Giovanni vide risplendere come perle, o come quelle strade d’oro della Città di luce che conducono al Sole vivente?

D. Si riferisce forse a questo il vostro dogma dell’Immacolata Concezione?

R. Senza dubbio! Noi non vogliamo che Dio entri nel mondo per una porta lorda, che il nuovo Paradiso terrestre, « Paradiso animato, in cui dev’essere piantato l’Albero della vita » (San GIOVANNI DAMASCENO), sia un deserto immondo. Anzi noi domandiamo a Dio di preservarlo e di ornarlo; Egli ci dice che lo ha fatto, e noi gliene diamo lode.

D. Tuttavia questo dogma è nuovo.

R. Questo dogma non è nuovo; è nuova soltanto la sua dichiarazione. Sempre latente nella Chiesa, esso se ne è sprigionato, come una bolla nasce da particelle prima disperse in seno a un liquido.

D. Qual è la sua precisa nozione?

R. Figurati un battesimo anticipato. Quella purezza e quella ricchezza spirituale che i meriti di Cristo applicati per il battesimo conferiscono al neonato o all’adulto, Maria l’ottiene sovrabbondantemente e per i medesimi meriti nel momento della sua stessa Concezione. La redenzione la previene prima che Ella vi cooperi per conto suo; Ella è la prima riscattata da Cristo, riscattata prima di nascere e prima che Cristo sia nato; riscattata per nascere intatta e perché il Cristo, alla sua volta, nasca da una Madre intatta. «Infatti, non occorre forse, dice Bossuet, che giovi a Maria l’avere un Figliuolo che sia l’autore della sua nascita? ».

D. Pensi tu che Maria non avesse altro figlio che Gesù?

R. È una questione di rispetto. La porta del Cielo vivo non dà punto passaggio ad altri.

D. Che sono dunque quei «fratelli di Gesù » di cui parla il Vangelo?

R. Sono dei cugini, chiamati fratelli secondo il costume giudaico.

D. E Gesù fu dato a Maria nelle condizioni ordinarie?

R. No affatto. Lo « credevano » figlio di Giuseppe; ma non era se non Figlio di Dio. Il Verbo che ha solo un Padre eterno, non vuole, neanche temporalmente, averne altro; il nuovo Adamo «secondo primo uomo » (P. LAGRANGE), nascerà da Dio solo, come il primo. Una partenogenesi d’onore si è effettuata qui, non a disprezzo del matrimonio; ma perché vi è qualcosa di più alto: il commercio con Dio solo per un’opera in cui la causalità divina deve risplendere.

D. Almeno la nascita di Gesù fu una nascita comune?

R. Neppure. L’integrità della Vergine fu in essa rispettata dalla delicatezza d’un Figliuolo onnipotente. Facendo uso di quelle proprietà del corpo « spirituale » che manifesterà più tardi il suo corpo risuscitato, Egli emana da un astro puro come un puro raggio (Sicut sidus radium profert virgo filium).

D. L’esistenza della Vergine finirà come ha cominciato e proseguito, per un miracolo?

R. Noi crediamo alla sua Assunzione, che pure non è un articolo di fede (Oggi lo è, dal 1954 -ndr.-). Il tempio vivo non deve conoscere la corruzione, benché a somiglianza del suo Figliuolo la Regina dei martiri debba gustare la morte. La corruzione sepolcrale è come una suprema mortificazione della concupiscenza primitiva e della concupiscenza volontaria del peccatore; ora «un essere perfettamente puro, come Cristo o la Vergine, non ha più niente da purificare. Il suo corpo non è più che il ritmo apparente dell’anima sua, la quale non ha più nessuna ragione di separarsene » (MARCELLO SCHWOB).

D. Nella serie dei tempi, quale compito attribuisci alla Vergine Madre?

R. Poiché Ella è stata associata alla nostra salute dandoci per consentimento Colui che la opera; poiché Dio stesso, richiedendo il suo consentimento, ha fatto conoscere il suo costante disegno di unirla all’opera sua redentrice, e poiché finalmente Ella ci è stata data sulla croce nella persona di S. Giovanni, come la intendono tutti i Padri della Chiesa, noi crediamo che Maria, Madre di Dio, è nello stesso tempo Madre degli uomini, Madre tenerissima, che non può rifiutare il suo cuore dopo aver dato il suo Tesoro; Madre potentissima, anzi onnipotente di una onnipotenza di supplicazione (omnipotentia supplex), in ragione dell’autorità effettiva che Ella esercitò sopra il suo Figliuolo e che le continua la filiale tenerezza. Ella è una mediatrice in secondo grado, mediatrice puramente ma squisitamente umana, al di sotto del Mediatore uomo e Dio.

D. Tu vedi così in lei il canale delle grazie?

E. Non è una dottrina definita, ma una piissima credenza. Maria continua in noi la sua maternità. Non siamo noi i membri di Cristo? Ella ha sofferto per noi a piè della croce, acconsentendo al grande Sacrifizio. Il sangue di Gesù e le lacrime di sua Madre non si separano punto, né per conseguenza la mediazione di Gesù e quella di sua Madre, l’umana mediatrice. Vi sono lì due casi essenzialmente differenti, e, checché ne dicano i protestanti, noi non li confondiamo affatto, ma li avviciniamo, perché la natura delle cose li avvicina. Il sole e la luna sono due astri; ma per via del sole, la luna stessa, illumina la nostra notte.

D. Non dici tu che ogni anima è associata così alla redenzione?

R. Ogni anima è associata alla redenzione; ogni anima è come Maria, con Maria, una nuova Eva data da Dio al nuovo Adamo come un aiuto simile a lui. Ma quello che noi siamo, come imitatori, Maria lo è come modello. Onde noi la chiamiamo nostra vita, nostra dolcezza e nostra speranza, come Cristo, benché ciò sia per via di Lui.

LO SCUDO DELLA FEDE (176)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XII)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO SECONDO

I MISTERI

VI. — Il mistero della Redenzione.

D. Tu dici che l’incarnazione ha per ragione di essere la redenzione:  è dunque perché vi è un vincolo di necessità tra l’una e l’altra?

R. Non c’è nessun vincolo di necessità. Dio è libero dei suoi benefizi, e l’incarnazione, al pari di ogni altra soluzione, non s’impone alla sua provvidenza. Una sola cosa è certa, ed è che, dopo la caduta, l’iniziativa della riparazione non poteva venire da noi; ci voleva un intervento del cielo. Come si sarebbe prodotto questo intervento: per mezzo di un’offerta accettata senz’altra condizione che il pentimento, o per la grande avventura redentrice? ecco le due soluzioni estreme; ma ce n’era un’infinità d’altre.

D. Perché dunque questa?

E. Perché Dio fece tutto da Dio. Non abbiamo forse detto che la sua religione porta tutto agli estremi, a fine di conciliare tutto? Si trattava qui di conciliare l’estrema giustizia con l’estrema misericordia, con l’estrema sapienza, con l’estrema potenza, con l’estremo amore, affinché tutti gli attributi divini fossero all’opera, e fossero in gioco tutti i valori umani.

D. Come ciò si effettua?

R. La disgrazia del mondo dipendeva dalla rottura del vincolo tra l’anima e Dio, e, per conseguenza, tra l’anima e l’anima, tra l’anima e il corpo, tra la persona e la cosa, tra lo spirito e l’universo: il rimedio era di ristabilire questo vincolo e di riparare la rottura. Essendo il vincolo rotto anzitutto un vincolo morale, bisognava che il riscatto fosse un atto morale, che fosse un merito, un merito riparatore. Questo merito, normalmente. doveva essere un merito umano, perché donde è venuta la colpa deve venire la riparazione, e ancora doveva essere un merito divino, affinché ogni giustizia fosse soddisfatta fino alla sovrabbondanza, come richiediamo; infatti, non occorre forse che la riparazione salga al livello dell’offesa, e per conseguenza dell’offeso, dal quale l’offesa si misura? La riparazione per mezzo dell’Uomo Dio risponde a questa necessità di magnificenza, se così posso dire, ed ecco quello che provoca nei nostri grandi uomini delle estasi di ammirazione. Dall’intimo stesso della massa del peccato Dio fa germogliare la salute introducendovi il lievito che è il suo Verbo. Il Pensiero creatore riprende l’uomo in sottopera, l’incorpora, per il fatto che Egli l’assume, all’idea della sua prima costituzione, e così la salva, perché l’idea della prima costituzione implica il destino primitivo» Prendendo la forma della nostra miseria, Egli la rialza. Lui, infinito, viene a prenderci in quella lontananza infinita in cui siamo, la lontananza del peccato e, se posso dire così, del soprannaturale peccato. – La conversazione iniziale si riprende per il fatto che il Padre parla col Figliuolo divenuto uno di noi, per il fatto che egli riceve da questo Uguale umano una piena soddisfazione, e si celebra sulla croce il rito del pentimento, dell’adorazione filiale e dell’amore. La scrittura della croce è una cambiale su Dio, un testamento; noi siamo degli aventi diritto e Cristo prende il nostro posto, quello che permette a Bossuet di chiamarlo con un po’ di audacia: « il nostro santo, il nostro caritatevole, il nostro misericordioso colpevole ».

D. Se una riparazione «magnifica» era intraveduta, che cosa significa il simbolo dell’Angelo dalla spada fiammeggiante che proibiva l’ingresso del paradiso terrestre?

R. L’angelo era là meno per difendere l’antica porta che per spingere gli sbanditi verso la nuova. D’ora innanzi è Gesù la « Porta », e il paradiso perduto è ritrovato.

D. In che modo Gesù è la porta?

E. A titolo di Mediatore. Egli stabilisce un passaggio; riallaccia e intercede per la sola sua esistenza, a fortiori per la divina accettazione. È chiaro! Dio non può mancar di risparmiare e di considerare sua una stirpe alla quale appartiene, nel tempo, il Suo Figliuolo eterno, e per la quale questo FIgliuolo perora come per se stesso. Ma ciò prende un carattere effettivo per la comunicazione che ci fa il Figliuolo della vita soprannaturale che Egli possiede e che noi abbiamo perduto per la colpa. Con ciò Egli è il nostro Salvatore e ci rialza dalla caduta collettiva come da tutti i suoi effetti individuali. Con ciò è il nostro padre soprannaturale come Adamo il nostro padre secondo la natura. Con ciò è sacerdote, cioè donatore delle cose sante, ed è anche il solo sacerdote, in ciò che gli altri sacerdoti non sono i suoi successori, ma i suoi rappresentanti e i canali delle sue grazie. Per giunta, questo sacerdote è anche vittima, perché appunto per la sua propria immolazione volle egli compiere la mediazione efficace e salutare di cui parlo. Tal è la Redenzione. Essa ha naturalmente una portata infinita, vale per tutti gli uomini, per tutte le colpe che essa ripara dopo o prima, purché ciascuno ripari per suo conto nella misura delle sue forze. Vale altresì per tutte le ascensioni, compresa la vita eterna, della quale Gesù paga il prezzo.

D. Un prezzo pagato per un vantaggio non giustifica l’idea di redenzione.

R. Vi è redenzione o riscatto perché vi è cessazione di uno stato di servitù o sborso di un prezzo questo effetto.

D. Di quale servitù parli tu?

R. Della servitù del male, e specialmente del peccato; perché « chi commette il peccato è schiavo del peccato », dice S. Pietro, servitù che ne trascina un’altra riguardo a quell’agente invisibile del male, di quel fautore del peccato che si chiama satana.

D. Bisognerà dunque pagare satana?

R. No, come non si paga al lupo la pecora che gli viene strappata; si paga un proprietario. Qui si paga Dio.

D. Quest’apparenza di commercio non ti urta?

R. Non si tratta punto di commercio, ma di giustizia e di soddisfazione.

D. Un umile pentimento non è una sufficiente soddisfazione?

R. Il pentimento è certamente la cosa essenziale; ma non è affatto una soddisfazione. Un suddito che ha insultato il suo sovrano forseché soddisfa rendendogli semplicemente omaggio? L’ordine pubblico si può contentare di questa resipiscenza?

D. Qui non c’è ordine pubblico.

R. C’è l’ordine pubblico degli esseri, l’ordine universale, che è un ordine morale. Quest’ordine è offeso dal peccatore, e l’offesa grave ha un carattere in certo modo infinito, secondo che quest’ordine contiene Dio.

D. Tuttavia Iddio non può rimettere, come capo dell’ordine universale?

R. Dio può tutto, e se Egli facesse ciò che dici, noi loderemmo la sua misericordia; ma la stretta giustizia non sarebbe punto soddisfatta, né certamente la divina paternità, perché non sarà forse l’eterno onore dei figli di Dio l’avere, in grazia del loro Cristo e della loro propria cooperazione, soddisfatto tutti i loro debiti morali, riparato ampiamente tutto il male, glorificato tutto il bene, e l’essere così, spiritualmente come in tutti i modi, i figli delle loro opere? Del resto, quanti benefizi speciali ci sono procurati dalla soluzione ammessa! Li abbiamo intraveduti trattando dell’Incarnazione.

D. Tuttavia, in questa ipotesi, Iddio non fa la figura di gran signore toccato sul vivo?

R. Egli fa figura di Essere universale, sollecito a un tempo di tutti gli attributi del suo regno, di tutti quelli della sua paternità e dei molteplici bisogni delle sue creature. La Redenzione è un’opera d’armonia in cui la giustizia, la misericordia e la sapienza si abbracciano, come l’Incarnazione è un’opera d’armonia in cui il divino e il creato uniscono tutte le loro frontiere. – Gesù Cristo fa da parte sua ciò che non possiamo fare noi, e ci porta a ciò che noi possiamo fare, aiutandoci per giunta a compirlo. Ci fornisce l’insegnamento e l’esempio. L’egoismo orgoglioso e gaudente erano la sorgente di ogni male: Egli non solo li denunzia, ma ancora reagisce sposando i loro contrari. «Egli bevette la medicina amara che l’uomo non poteva bere, dice S. Caterina da Siena, come la madre che allatta prende un rimedio con l’intenzione che faccia bene al bambino ». Noi rigettiamo tutto sopra gli altri: Egli prende tutto sopra di sé. Noi non amiamo che noi stessi contro tutti gli altri: Egli non amerà che gli altri contro di sé. Noi odiamo i patimenti e gli abbassamenti più necessari: Egli vi ci incoraggia con l’amore umiliato e dolorante. La morte ci fa orrore, fosse pure giusta e buona, e indispensabile: Egli la chiama suo calice, che ha fretta di bere, perché Egli venne per quest’ora.

D. Perché questo dramma, quando dici che il minimo atto di Cristo, d’un valore infinito, poteva bastare a ogni cosa?

R. Dio non crede bene di salvarci con un colpo di bacchetta. Dio fa tutto all’eccesso, ancora una volta: eccesso di giustizia, eccesso di misericordia, eccesso di mistero, eccesso di chiarezza, eccesso di abbassamento, eccesso di grandezza, eccesso di tenerezza, eccesso di dolore e di gloria. Organizzata diversamente, l’opera non sarebbe sufficientemente divina; gli attributi sovrani non sarebbero abbastanza manifestati; la lezione sarebbe debole; l’avvenire morale non avrebbe sufficienti garanzie; il bene e il male non avrebbero mostrato tutto il loro peso, e l’amore, principalmente, non avrebbe sufficienti testimonianze.

D. Tu perori per l’amore e per la morte?

R. Vi è certamente un vincolo misterioso e intimo, tra l’amore, il patire e la morte. Dio vuole sottomettersi a questa legge della testimonianza irrecusabile, e consente che vi siano sottomessi con Lui tutti quelli che l’amore travaglia. La salute collettiva per mezzo del sacrifizio non è forse la più grande bellezza della storia? Ricorda Leonida, Regolo, il cavaliere d’Assas, Giovanna d’Arco. Il mistero della Redenzione ricollega la salute della collettività umana a un sacrifizio supremo che ne suscita una infinità d’altri, e ogni cuore generoso lo comprende.

D. Intanto parli della « follia » della croce.

R. Ma aggiungendo: « Quello che sarebbe follia di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini » (Epistola I ai Corinzi, I, 25). Questo caso di un Dio che per amore si mette nelle mani della sua creatura per morire è l’originalità più profonda del Cristianesimo, quella che adatta questa religione all’anima umana in ciò che essa ha di più intimo e di più forte. Lì sta il segreto della sua impresa, e, di gran lunga, la sua più potente leva.

D. Avevi detto sopra che l’universo fisico aveva partecipato alla caduta, ebbene partecipa anche alla redenzione?

R. Sì; perché Cristo, rinforzando il vincolo che lega l’anima a Dio, rafforzò nello stesso tempo il vincolo che lega il corpo all’anima e l’ambiente naturale al corpo. L’anarchia esteriore del mondo è vinta di diritto, come l’anarchia interiore del nostro essere, come l’anarchia iniziale del peccato, e lo spirito riprende, ufficialmente, il governo delle cose.

D. Non sì capisce bene come dopo tali fatti, la situazione sia così poco cambiata. Se Cristo ha riparato tutto, come mai le conseguenze del peccato originale non sono abolite?

R. Esse sono abolite di diritto; noi non vi siamo più soggetti come a una legge opprimente, ma legati oramai come a mezzi. In quanto ad eliminarle tutt’a un tratto, come lo immagina una corta sapienza, è ciò che non sarebbe stato degno di Dio. L’azione di Dio è armonia e ignora le catastrofi. Dio è abbastanza potente da trarre partito da una situazione senza sconvolgerla e trarre anche da una rovina una fabbrica migliore. Il nostro mondo è quello che è: Dio lo conserva; dobbiamo dire: tutte le sue apparenze restano; ma il segno de’ suoi valori è cambiato. Moralmente questo mondo è tutt’altro: ieri una specie d’inferno, oggi, per chi consente a ben vivere, il vestibolo del cielo, o per dir meglio un cielo.

D. Tu vuoi che sì faccia di necessità virtù.

E. Sì, nel gran senso del termine, e di una fatalità un caso di libertà, di una condanna una scelta, d’un costringimento un amore. È un bel rovesciamento, e si compiangerebbe colui che volesse dare la preferenza a un volgare colpo di spugna. Dio ha dei gesti più alti e che ci onorano meglio. Relativamente al piano nuovo, improntato della croce, il piano originale non era che un piano volgare, come di fronte a Socrate con la coppa di cicuta in mano, un qualsiasi bevitore.

D. Ti congratuleresti del peccato originale?

E. Sarei con la liturgia, che dice: « Felice colpa! ». Non ci si rallegra del male, ma della sua riparazione gloriosa e del fatto che «là dove era abbondato il peccato sovrabbondi la grazia », come dice S. Paolo. Ma per noi e per altri, come per Cristo nella sua propria condizione temporale, i più alti valori sono legati al sacrifizio volontario, e per conseguenza a uno stato di prova, di dolore e di morte temperato da qualche gioia, anzi, meglio da un’intima pace.

D. Insomma, dolore dopo dolore.

R. Noi avevamo il dolore peccaminoso o il dolore gratuito; ora è il dolore generoso e il dolore che paga.

D. È questa la porta verso la quale ci spingeva l’Angelo?

R. Lo stato di peccatore trova la sua porta di uscita dal lato della sofferenza, perché la trova dal lato del sacrifizio volontario. Gesù ci mostrò questa porta passando Egli per primo.

D. Il passarvi era cosa grande; ma ciò avrebbe dovuto bastare.

R. Non si vede un capo lottare da solo; spesso anzi egli non si espone; egli assume le parti principali; ma lascia posto alle imprese gloriose della sua milizia.

D. Potendo tutto, si sarebbe dovuto riserbare tutto.

R. Anche l’onore delle grandi cose? Riconquistare un mondo e ristabilirlo nella gloria di Dio, è forse un’opera da serbare per sé?

D. L’opera è penosa e piena di rischi.

R. Ma è anche gloriosa. Patetica al più alto segno, l’avventura è al più alto segno desiderabile all’eroe, e l’eroe l’affronta.

D. Non tutto il mondo è un eroe.

R. Tutti possono essere degli eroi nel grado che bisogna, muniti dei soccorsi che sovrabbondano. « L’eroismo è il vero senso della vita » (WILLIAM JAMES): Cristo vi ci invita. Che riduzione di benefizio sarebbe stata da parte di Cristo la sua volontà di soffrire da solo, di nascondere nelle sue sole piaghe i gioielli del dolore redentore! La croce è un dono regale. Essere ammessi a partecipare con Cristo, a rassomigliargli in tutto, gioia e pene, a non salire le cime che Egli ha conquistato se non coi passi ne’ suoi passi e carichi dello stesso peso: che felice sorte, per chi sa comprendere! L’anima cristiana non desidera altro; interiormente libera, essa si attacca al sublime Amico mediante una squisita e utile servitù « come uno schiavo affrancato che segue per amore il suo padrone » (LACORDAIRE).

D. È quest’amore che poc’anzi chiamavi un cielo?

R. È quest’amore unito alla speranza d’un amore più sviluppato, più ricco di effetti, sciolto da timori e da rimpianti, ebbro di gioie senza fine a prezzo di rapide sofferenze. Il cielo si apre all’anima nostra prima che la terra si apra alla nostra spoglia, e questo stesso seppellimento della nostra spoglia non è per sempre.

D. È una bozza; ma, secondo te, molti uomini sfuggono a quest’azione redentrice, di modo che il primitivo stato dell’uomo non è interamente restaurato; vi è della perdita.

R. Noi crediamo che vi è del guadagno; perché per Cristo l’uomo è sollevato più in alto, se vuole, partendo da più basso. E nulla assicura che nel primitivo stato non ci sarebbe parimenti stata della perdita. La giustizia originale non era inammissibile; si era tenuti servirsene; si poteva sempre perdere. Certo solamente il primo uomo poteva privarne la stirpe; ma ciascuno de’ suoi discendenti poteva personalmente decaderne, e noi non sappiamo se Egli avesse potuto ricuperarla così sovente e così facilmente come noi stessi.

D. Noi non possiamo ricuperarla se non a condizione di riconoscere Cristo: che cosa diventano allora quei che non lo conoscono, o ancora, non colpevolmente, lo disconoscono?

R. Non tutti i rapporti con Cristo sono visibili; neppure sono coscienti. Gesù ha dei discepoli segreti, dei discepoli che si ignorano o anche si credono suoi avversari.

D. Che cosa è che caratterizza questi discepoli segreti?

R. Gesù disse: « Mio discepolo è colui che fa la volontà di mio Padre ». Colui che aderisce alla volontà del Padre, vale a dire a tutto il vero, a tutto il bene tal quale apparisce alla sua coscienza vigilante, senza che egli vi opponga alcun ostacolo essenziale, costui è con Cristo, e Cristo lo salva.

D. Bisogna ancora che Cristo sia venuto, e quanti uomini prima di Cristo!

R. «Cristo viene sempre » (THOMASSIN). « Cristo è sempre stato presso quelli che ebbero un cuore e che, verso l’origine o la fine del mondo, si sono sottomessi alla giustizia che viene da lui » (Idem). S. Paolo non dice forse lo stesso: « Cristo è ieri, oggi e in tutti i secoli »? Noi abbiamo già veduta questa dottrina del Cristo centro dei tempi e raggiante sopra tutti i loro spazi. La «linea d’universo » che lo congiunge a ciascun’anima può sempre essere tracciata e aprire una via di scambi.

D. La Redenzione è dunque cominciata prima della nascita di Cristo?

R. Cominciò da Adamo, e si può dire prima della colpa stessa. Il Creatore non pensava forse al suo Figliuolo, modellando la forma adamitica e soffiando in lui la vita?

D. È bello; ma

R. È pura teologia cattolica, e ne hai il simbolo in ciò che noi chiamiamo la Discesa di Gesù Cristo all’inferno, cioè l’apparizione, la manifestazione di Cristo alle anime de’ suoi figli del passato, de’ suoi riscattati per anticipazione, de’ suoi prossimi fratelli di gloria. Abbiamo qui veramente una consacrazione dogmatica di quest’affermazione che Cristo è di tutti i tempi e che il punto della storia in cui Egli apparisce irradia sopra tutte le età.

D. Ora comprendo perché tu chiami la Redenzione un mistero.

R. Noi chiamiamo la Redenzione un mistero, non solo perché  essa suppone l’Incarnazione e la Trinità; ma anche perché  contiene il segreto della volontà divina riflettente la salute degli uomini, riflettente la giustizia, la misericordia e la loro conciliazione; perché essa ci presenta un Dio sofferente, un Dio di sangue e di lacrime, un Dio che, non avendo fatta la morte, volle soffrirla per liberarne quelli che l’avevano fatta; perché il prezzo di questa Redenzione rischiara di una tragica luce il mistero del male, e, correlativamente, innalza il bene, potenza a cui si accorda il trionfo. Ma il mistero proposto è qui soprattutto l’abisso dell’amore divino. La croce che congiunge il cielo alla terra e tende le sue braccia verso tutti gli spazi, è il simbolo misterioso dell’unità universale, che, per una sofferenza infinitamente generosa e una stretta giustizia, stabilisce l’amor divino.

LO SCUDO DELLA FEDE (177)

LO SCUDO DELLA FEDE (175)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XI)

[Versione autoriz. dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO SECONDO

I MISTERI

V.— Il mistero dell’Incarnazione.

D. Hai fatto prevedere or ora e più d’una volta già prima una riparazione della decadenza umana: desidererei di vederne precisare i mezzi.

R. I mezzi sono l’Incarnazione e tutte le conseguenze che essa importa.

D. L’incarnazione non è forse una bella leggenda, estranea alla vita reale e alle intenzioni personali di Gesù?

R. L’affermazione d’una leggenda di Cristo che va crescendo col tempo non vale più della leggenda. Come abbiamo veduto, Gesù si è presentato tal quale è riconosciuto oggi dai credenti. La teologia non ha gonfiato nessuna delle sue affermazioni; essa le ha registrate e coordinate; ne ha fatto un corpo di dottrina, cosa che non vi cambia niente.

D. Ammettendo il linguaggio teologico, non si potrebbe dire che Gesù è nato come tutti gli uomini, e poi ha conquistato la sua divinità?

R. La divinità non si conquista affatto. Quei che tengono tali discorsi si contentano di metafore.

D. Le metafore sollevano a volte lo spirito dalle sue difficoltà.

R. Diresti tu come Nestorio a Efeso: « Io mai non chiamerei Dio un bambino di due o tre mesi »?

D. Costui aveva della perspicacia.

R. «Fino a un certo punto soltanto », ti direbbe Pascal. Avuto riguardo all’oggetto in causa, egli diceva una corbelleria.

D. Come parlare d’incarnazione! Dopo aver cercato di oltrepassare Dio in alto, in seno alla Trinità, vuoi ora oltrepassarlo in basso?

R. Qui sta il prodigio delle concezioni cristiane. Esse contengono tutti gli estremi, e il passaggio dall’uno all’altro è rapido come quello degli animali simbolici nella visione di Ezechiele: «E questi esseri correvano in tutti i sensi, simili alla folgore ». Dopo la sublime Trinità, l’infima Incarnazione. Infima, dico, allo sguardo frivolo, ma, invero, sublimità nuova: sublimità dei rapporti creati, dopo quella dei rapporti increati; sublimità dei rapporti divini al completo, comprese le loro estensioni al di fuori, oltre alla sublimità di questi rapporti nella divina sostanza. La filosofia pura lasciava la nozione di Dio imperfetta, affatto arida, come « naturalizzata », vale a dire senza vita: la Trinità la compie. Alla sua volta il dogma dell’Incarnazione riprende questa filosofia di Dio e la compie nell’altro senso, precisando e portando al loro punto estremo i rapporti di Dio con l’opera sua. Radicale trasformazione, le due volte nel senso della vita; doppio segno di una Ragione superiore all’uomo.

D. Dopo cîò

R. Dopo ciò, t’avverto che non la è ancora finita. Sarai spinto fino al Dio sofferente, che è il Dio redentore; fino al Dio che abita nel cuore degli uomini, che è il Dio della grazia; fino al Dio che entra nei nostri ordinamenti unitari, ed è il Dio della Chiesa; fino al Dio che si dà agli uomini come cibo per preparare la loro divinizzazione, ed è l’Eucaristia. Ma quando si parlerà di questa divinizzazione, prima prevista e ordita, poi effettuata in un’altra esistenza, è allora che tutto si rischiarerà, gli estremi si toccheranno, il piano manifesterà la sua armonia perfetta, e il movimento da Dio a Dio attraverso a tutta l’opera sua, attraverso a tutti i tempi, ti apparirà così come un’epopea grandiosa. In questo tragitto spirituale e concreto che percorre la vita religiosa universale, Dio ci va di persona, se così posso dire, fino all’esaurimento dei mezzi; ma non fa mai se non la sua parte di Dio: non bisogna forse che colui che crea conduca anche — e coi mezzi che occorrono — le sue creature al loro termine?

D. Il mezzo Incarnazione è veramente razionale?

R. Esattamente come la Trinità. La Trinità è razionale in questo senso che soddisfa la ragione oltrepassandola; l’incarnazione oltrepassa, anch’essa, la nostra intelligenza e la rapisce. Dopo averci aperto una chiarezza ammirabile sopra le intimità di Dio in se stesso, ci abbaglia per le intimità di Dio con la sua creatura. Qui e là il massimo è raggiunto. Dovunque è il capolavoro.

D. Che cosa vi può guadagnare la Religione?

E. Vi guadagna talmente, che per questo fatto si effettua la religione perfetta. Per il suo Uomo Dio, l’umanità può rendere a Dio un omaggio degno di Dio, comunicare con Dio fino all’intimità plenaria: l’unità di persona, e ricevere dei beni divini in rapporto con un tale compito, con una tale prossimità, con un tale dono.

D. Bisogna ancora che non sì onori Dio distruggendolo, che non lo si unisca all’uomo fino a confondervelo, e che a forza di fare di Dio uno di noi, non vi sia più Dio.

R. Tu ti fai una falsa idea del dogma, traviato certamente da queste idee correnti: Dio fatto uomo, Dio divenuto uno di noi, Dio disceso dal cielo in terra, ecc., tutte espressioni che bisogna certo adoperare perché il dogma sia compreso da tutti e maneggiato da tutti comodamente, ma che una sana teologia corregge.

D. In che consiste la correzione?

R. In questo che le formule suddette, e tutte quelle che ad esse rassomigliano, benché grammaticalmente, esprimano dei cambiamenti in Dio, delle relazioni nuove dal lato di Dio e come un viaggio di Dio, tuttavia si devono prendere esclusivamente dal lato della creatura. È nell’umanità che avviene il cambiamento, che si schiude una relazione nuova e il raccostamento trova le sue condizioni. E non c’è viaggio.

D. Dio non è dunque venuto?

R. Che cosa potrebbe veramente significare questo? Dio non si sposta affatto. Nel senso in cui si può dire che sia in qualche parte, Egli è da per tutto. In nessun luogo Egli è di più che davanti a noi, in noi, «in Lui, noi viviamo, ci moviamo e siamo»; il nostro essere, è nel suo. Tutta la questione è di sapere in quale misura, sotto quale forma noi ci varremo di questa presenza, e la vivremo. A questo riguardo vi sono gradi infiniti, e l’incarnazione ne è il massimo.

D. Desidererei di capire meglio.

R. Comprendi prima che noi non attentiamo a Dio; che non facciamo nessuna breccia nell’immutabilità di Dio, come te lo fa intendere la bella antifona seguente: Un ammirabile mistero si svela oggi. Due nature si rinnovano. Dio è fatto uomo. Quello che egli era, rimane; quello che non era, lo assunse. Ciò senza subire mescolanza o divisione. Oltre la precisione di queste ultime espressioni, tu osservi la precauzione che precede. Quello che Dio era, rimane; perché Dio non cambia. Quello che Dio non era… non si dice: Lo diventa, benché lo si possa dire col benefizio del ritorno di senso spiegato or ora; ma si dice più esattamente: Egli lo assume, per suggerire che è un’ascensione della creatura, non una discesa di Dio, un cambiamento nella creatura, non un cambiamento in Dio.

D. Non è tuttavia un po’ di paganesimo questa sorta di apoteosi nel senso proprio, in mancanza di metamorfosi divina? Non vi è forse antropomorfismo in ambi i casi?

R. Noi non facciamo dell’antropomorfismo, noi non vediamo Dio come un uomo più grande; ma sono i deisti ombrosi, quei filosofi borghesi per i quali Dio è una specie di monarca costituzionale, un Luigi XVIII grave a spostarsi, troppo contegnoso e troppo gallonato da entrare in una composizione popolare, umana, profonda e infima com’è l’incarnazione. Noi, dal canto nostro, crediamo al Dio « Sostanza senza determinazione e senza sponde », Anima del mondo trascendente e immanente a un tempo, Spirito intimo e sovreminente di tutte le cose. Perché vi sia un’incarnazione, non si ha che da tuffare una umanità individuale più addentro in questa Sorgente viva, e ve la si tuffa sino all’estremo effettuabile senza confusione, ponendo l’unità di persona nella completa distinzione delle nature. Ciò non abbassa punto Iddio.

D. Come una personalità semplice può convenire a due nature?

R. La personalità di Cristo non è semplice, ma unica, il che non è la stessa cosa. È unica perché qui non vi è che un solo centro, un solo focolare di vita, ed è Dio, o più esattamente il Verbo di Dio; tuttavia è composta, perché partendo da questo focolare, da questo centro, vi è un doppio zampillo: l’uno eterno, in Dio stesso, ed è la natura divina, l’altro temporale, nel creato, che è la natura umana. Insomma, si tratta di una umanità individuale sussistente e vivente per l’irradiamento immediato della divinità immanente in essa.

D. Non avevi detto qualcosa di simile a proposito di Dio nella creazione?

R. Cristo non è che la creatura più perfetta, quella che Dio si unì più strettamente; è dunque naturale che le relazioni si rassomiglino e, sotto certi riguardi, siano anche identiche. Dio vive entro di sé per la Trinità, si espande fuori per la creazione; e quello che emana da Lui rimane talmente unito a Lui che non vi produce addizione di essere, l’essere rimane il pieno possesso di Dio, possesso inalienabile, benché Egli lo comunichi. Nel caso di Cristo, la comunicazione ha questo di particolare, che non si estende se non a una natura individuale; non vi è essere nuovo, personalità nuova, ma è l’essere stesso di Dio che diventa l’essere di un uomo per l’assunzione in lui, l’adesione a lui d’un corpo e di un’anima naturalmente congiunti.

D. È il panteismo ridotto a un caso!

R. Ciò si potrebbe dire, con le spiegazioni convenienti, e coloro che il panteismo tenta, qui avrebbero torto di stupirsi. Sarebbe forse strano il dire: Cristo è Dio, quando da tanti grandi uomini, da Anassimene a Spinoza, e anche oggi, si dice: Tutto è Dio?

D. Tra Cristo e Dio, unione è tanto intima quanto tra l’anima e il corpo?

R. È assai più intima ma diversamente, e sopra questo punto il simbolo di S. Atanasio stesso ha bisogno di commento. Essa è più intima, perché l’essere divino è un centro d’unità altrimenti potente che un’anima in un corpo. Ma è differente, perché tra l’anima e il corpo, vi è composizione e relazione reciproca; l’uno e l’altro elemento è affetto dalla combinazione. Nell’incarnazione nulla di simile. Nessuna combinazione: la divinità non si compone; essa è indipendente, inaccessibile a ogni influsso di un congiunto, estranea a ogni relazione che riguardi essa stessa, benché tutto le sia relativo e sottomesso. L’incarnazione non è che un caso particolare di relazione ascendente, di relazione della creazione a Dio. Per il Cristo, la creazione tocca Dio in un punto, come il circolo finito ha la tangente infinita; ma il grande Separato rimane pienamente a se stesso.

D. Così, Dio non dà niente di sé.

R. Egli dà tutto; non aliena niente. L’incarnazione è un magnifico dono, ma non è un cambio. Dio non è mai compromesso in quello che fa. Ma l’uomo ne sarà meno gratificato? Per quanto l’incarnazione non costi niente alle grandezze di Dio, tuttavia è sempre vero in tutta proprietà di termini che un Dio ha mescolato i suoi passi ai nostri sopra le vie della nostra vita, che Egli ha abbandonato il suo cuore a tutte le nostre angosce e ha gustato la nostra morte.

D. È troppo, a mio avviso. Supponendo possibile un’incarnazione, quale apparenza che da questa possibilità metafisica il Creatore pensi a trarre la minima conseguenza effettiva? Questa cura dell’Infinito per il piccolo genere umano è credibile? Immaginarsi Dio amante del pianeta non è forse una ridicola presunzione?

R. Tu ragioni come Celso, nel secolo secondo; ma ascolta Pascal: «Incredibile che Dio si unisca a noi. Questa considerazione è tratta solamente dalla vista della nostra bassezza. Ma se codesta considerazione è ben sincera, seguila tanto lontano quanto la seguo io, e riconosci che di fatto siamo così in basso, che da noi stessi siamo incapaci di conoscere se la sua misericordia non ci possa rendere capaci di Lui ».

D. Risposta del tutto negativa, confessalo.

R. Ma essa basta a distruggere l’obiezione. Però ecco San Giovanni: Noi abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi, perché Dio è amore. Questa risposta è positiva, ed è quella che ama d’invocare ogni Cristiano. Del resto, la « piccola umanità », il «piccolo pianeta », formule di cui taluni si empiono la bocca per un’umiltà piena d’orgoglio, ciò non significa niente. Ricorda i « due infiniti ». Di fronte alle immensità astrali, noi non siamo che atomi; di fronte al mondo degli atomi, noi siamo un’immensità. Il grande e il piccolo non sono che relazioni diverse. Di fronte all’assoluto divino, nulla è piccolo né grande, e sotto un certo aspetto tutto si equivale, come sotto un altro aspetto tutto si annulla.

D. Quando pure sì debba concedere che l’incarnazione non diminuisce Dio, mi pare tuttavia che non possa non diminuire l’uomo; essa è per la religione un falso punto di partenza; deve condurre alla materializzazione di tutta la vita religiosa.

R. La storia dimostra che quando si respinge l’Uomo Dio, non è né a benefizio dell’uomo, né a benefizio di Dio. Tuttavia se l’Incarnazione fosse una falsificazione di Dio, eliminata la falsificazione, il culto di Dio dovrebbe crescere, e se fosse ma falsificazione dell’uomo, eliminata la falsificazione, il culto vero dell’umanità dovrebbe grandeggiare. Ora è esattamente l’opposto. Nei due casi, il culto di Dio sparisce e il culto dell’uomo si abbassa. Il culto in spirito e verità, sia di Dio, sia dell’uomo, è, di fatto, legato al culto dell’Uomo Dio.

D. Nondimeno l’incarnazione è un cattivo programma. Non siamo già troppo incarnati: non dovremmo esser portati a disincarnarci, per la purificazione dell’anima nostra?

R. Non c’è bisogno di purificarci dal nostro essere. La carne fa parte di noi. Per raddrizzarci, si tratta di rimettere tutto in buono stato, non di abolire qualcosa. Quando l’anima si divinizza per la grazia di Gesù Cristo, alla sua volta essa divinizza la carne e la prepara alla vita immortale. Per questo Dio s’incarna; Egli entra nella carne come il nuotatore nell’acqua, per domarla, o meglio come il germe vivo nella materia che esso deve organizzare e sottomettere allo spirito, e qui allo Spirito supremo.

D. Ma allora perché l’incarnazione non ha luogo in tutti noi? Tu la dici cosa possibile; essa apparisce ora come una convenienza. Non è forse ciascuno di noi che si deve purificare, spiritualizzare, divinizzare? Preferirei che ciascuno fosse il suo proprio Cristo, come Lutero disse che ciascuno è il suo proprio sacerdote.

R. L’incarnazione, in certa maniera, ha luogo in tutti noi; difatti il regime della grazia ne è una partecipazione, un’imitazione. Per il fatto della grazia ci si applica questa parola del Salmo: Voi tutti siete Dei. Per essa anche noi siamo al contatto intimo della natura divina, benché questo contatto non sia personale, come in Gesù Cristo.

D. Come dici tu stesso, è un’imitazione.

R. Nel senso proprio, l’incarnazione dev’essere universale nei suoi effetti; ma non sarebbe naturale che tale fosse nella sua forma. Noi siamo una stirpe. Una soluzione individualista a tal punto non sarebbe dunque in armonia con la nostra umanità. La solidarietà offre un mezzo migliore, e il valersene è una perfezione di più. Dio sarà unito all’uno di noi per natura e agli altri per solidarietà. Unirsi all’Uomo Dio, sarà diventare Dio in una certa maniera, quella che effettua la grazia, come essere figli della stirpe di Adamo è essere uomini.

D. Potrestì riassumermi le tue ragioni in favore di questo dogma?

R.. Le convenienze dell’Incarnazione si possono prendere dal lato di Dio o dal lato dell’uomo. Dio opera per manifestarsi, per darsi, per riflettere nelle sue opere le sue perfezioni e il suo amore. Ora in quest’opera i suoi attributi risplendono al massimo grado; specialmente la sua bontà, come abbiamo detto; ma anche la sua onnipotente sapienza, che trova un tale mezzo per riparare quello che era compromesso e di sostituire al disordine un’armonia magnifica. Infatti, per l’incarnazione si vedranno raggrupparsi in un ordine nuovo tutte le creature, i loro vincoli di solidarietà concentrarsi in grazia del sublime Fratello, l’unità di Dio, della natura e dell’uomo fortificarsi in ciò che Dio avrà avuto di mira, per stabilire la saldatura, il punto delicato dove la materia e lo spirito si ricongiungono, dove l’animale ragionevole offre all’intelletto tutto il contributo dei sensi e tutta l’attività vibrante o vegetante dei corpi insensibili. Dal canto nostro, noi abbiamo bisogno di Dio: un bisogno essenziale, ma anche un bisogno sensibile, perché siamo carne. Piuttosto che privarsi di una divinità visibile, l’umanità ha avvilito il vero Dio. Qui Dio non si avvilisce punto, è Lui che si avvicina, ma senza decadere in verun modo. Resta lui stesso e diventa misteriosamente uno di noi. Il suo commercio familiare soddisfa l’intima aspirazione della terra. L’umanità cercava da per tutto il suo Dio, e un giorno lo trovò in sé. Da ciò quel grandioso movimento morale, nel quale io additavo più sopra l’incomparabile riuscita dell’incarnazione e del suo preteso paradosso. L’Uomo Dio ha conquistato l’umanità; vi ha eccitato l’entusiasmo, l’ammirazione, la speranza, l’amore, senza mai scoraggiare la più piccola o la più debole delle anime, offrendo di che soddisfare le più esigenti e portare all’estremo le più eroiche. Il suo culto ha animato delle collettività, promosso delle civiltà, che hanno trovato e troveranno in Lui l’ispirazione e la guida delle istituzioni più benefiche. Al termine, il rientrare nella Trinità, per mezzo del Verbo, di tutto il creato rappresentato dalla creatura ragionevole e congiunto ad essa, non sarà forse l’integrazione perfetta, la religione compita, il senso umano sfatto in quell’appetito d’infinito che lo travaglia? Finalmente, e noi lo dicevamo pure, si vedrà lì un contrappeso al mistero del male, in ciò che Dio, che la nostra incoscienza tratta alle volte da crudele, sceglie di farsi vittima, e prova che, se permette il male, non è affatto indifferenza, poiché Egli ne vuole morire?

D. Questo piano è bello; ma non è eccessivo nei suoi due estremi?

R. L’intimo unito all’immenso è la grande legge dell’arte.

D. Ma qual bisogno di una così stretta unità?

R. La natura ce ne dà l’esempio, e noi non siamo sorpresi quando, là dove essa si ferma, il soprannaturale riprende.

D. Come questo?

R. La scala degli esseri è formata di successivi gradi: la sensazione, il pensiero; i pianeti, i soli, le nebulose, gli insiemi stellari dei quali ignoriamo ancora le forme c i vasti inquadramenti. Tutto si collega, tutto si unifica in un cosmo, in un ordine. Al di sopra, vi è il Creatore, ma tra questo grande Separato e l’opera sua vi è un immenso iato, e sembra impossibile colmarlo, poiché il Trascendente e l’essere creato non hanno nessun legamento comune, e l’attribuirne loro uno qualsiasi, sarebbe un distruggere Dio. Ora l’incarnazione effettua appunto questo miracolo. Per essa vi è una giuntura, un pezzo di raccordo. Cristo è Dio e uomo, senz’alcuna diminuzione di Dio, senz’alcun alterazione dell’uomo. In Lui tutti i regni si uniscono; materia, vita e pensiero accedono alla divinità e racchiudono tutto in essa. Il suo essere è una « ricapitolazione », come l’opera sua (S. IRENEO). L’universo è così definitivamente uno, uno nell’Uno, nella Sorgente prima, nel Fine, nella Legge, nel Superessere. Così il mondo gira meglio; l’intelletto, strumento d’unità, lo stringe meglio; il reale, a questo fatto d’integrazione, soddisfa più il pensiero, è più un Mondo; la Trinità lo include nel suo triplice centro; il nostro universo è come divinizzato e Dio è come universalizzato per il fatto che è umanato in un Figlio di Adamo. L’unità regna, e con essa l’armonia, il bello supremo, fratello del vero dell’intelletto e del bene dell’amore.

D. In tali condizioni, io non capisco come l’incarnazione non faccia parte del piano iniziale, com’essa venga per fortuna.

R. Tu riscontri il pensiero di non pochi teologi, e dello stesso S. Tommaso nella sua giovinezza dottrinale. Più tardi l’uomo riflessivo si ricredette; dichiarò di riferirsi in proposito alla Scrittura, in una materia in cui le nostre convenienze intellettuali da sole sono di troppo poco peso. Ora è manifesto che la Scrittura presenta come solidali le due idee di incarnazione e di redenzione.

D. Tuttavia un così grande fatto si effettua solo occasionalmente.

R. Occasione se vuoi; ma è un’occasione eterna. Tutto quello che fa Dio si misura all’eternità. E poi, non è forse il capolavoro della sapienza, il miracolo della potenza, il trovare in un’occasione la materia d’un piano superiore? L’arte vive di siffatte occasioni. Tutta la meraviglia gotica non è forse una soluzione di questo problema volgare: come equilibrare la spinta laterale e procurarsi della luce? Di un’occasione mortale per l’umanità Dio fece un trionfo per lei e per l’universo. Ed «è cosa buona! ».

D. Dopo un tale avvenimento, ci dovrebbero essere ancora altri avvenimenti?

R. Non ve ne sono altri, ma vi è lo sviluppo di questo. L’Incarnazione finisce e comincia. « L’umanità è stata divisa in due ore: nella prima ora l’uomo aspettava Dio; nella seconda, è Dio che aspetta l’uomo. Ecco la spartizione dei tempi » (LACORDAIRE).

D. Perché apprestare questo rimedio così tardi?

R. Dio l’apprestò nel momento che parve più opportuno alla sua provvidenza, il più centrale e il più raggiante riguardo tutte le età. Bisognava che l’uomo peccatore si rendesse conscio del suo caso, conscio della sua debolezza, avesse l’evidenza del suo bisogno, a fine di concepire il desiderio della sua liberazione, come si vede che Egli fece nei tempi di fermentazione mistica anteriori a Gesù. « È bene essere stanchi e affaticati dall’inutile ricerca del vero bene, per tendere le braccia al liberatore » (PASCAL). Non bisognava inoltre, per l’onore di Cristo, che venisse nella « pienezza dei tempi » (S. PAOLO) affinché Egli, centro della storia, apparisse dominarla tutta quanta?

D. Tu sacrifichi così il passato.

R. Noi non sacrifichiamo niente. Ho già detto che Cristo irradia nel tempo come irradia nelle estensioni e nelle anime; Egli non è dato a questi, rifiutato a quelli; Egli appartiene a tutti, e l’attesa secolare che l’ha preceduto fa parte del suo lavoro, eseguisce le sue intenzioni in tutte le anime rette; perché l’albero della croce ha radici che sono esse pure medicinali. L’umanità non mancò mai del suo Cristo.

D. L’elemento divino dell’incarnazione è espresso nelle tue parole ora col termine Verbo, ora col termine Dio: da che dipende questa diversità di termini?

R. Dio è la Trinità, o una delle persone in ciò che ha di comune con le altre, cioè la Divinità stessa. Il Verbo è la seconda delle Persone che si oppongono o si rilegano in quelle relazioni viventi di cui abbiamo parlato. Ciò posto, quando si dice: Dio s’incarna, si può volere esprimere in tal modo l’opera medesima, il fatto, l’azione, e allora è tutta la Trinità che si designa; perché un’azione di Dio è Dio, è la sostanza o essenza creatrice nella sua pienezza, e perciò la distinzione delle Persone è qui fuori di questione. All’opposto, se si vuole indicare il risultato dell’azione, quello cui essa fa capo, cioè l’Uomo Dio, si nomina allora specialmente il Verbo, Figliuolo eterno di Dio, Sapienza, seconda Persona della SS. Trinità. E, questa volta, la ragione è che, secondo le nostre credenze, solo il Verbo, nell’Incarnazione, assume, cioè accoglie e raccoglie in sé la natura umana. Il pensiero di Dio era deformato dalla colpa: spettava al Pensiero vivente di riprendere in sottopera il lavoro al quale Egli aveva presieduto nel momento della creazione. Siccome dunque solo il Verbo è Figliuolo di Dio nella Trinità eterna, così solo il Verbo è Figliuolo dell’Uomo nell’incarnazione.

D. Io sospetto che la psicologia di Cristo, secondo questo, debba essere abbastanza complessa.

R. Essa è profondamente misteriosa; ma i contrasti della sua Persona si conciliano con una tale agevolezza e con una tale dolcezza che Giovanni, dopo avere appoggiato la testa sul suo petto, trova affatto naturale chiamarlo suo Dio.

D. Da questa divinità che è in Lui, che cosa deriva nella sua umanità?

R. Ne deriva il cielo, senza che la terra lo abbandoni. Voglio dire che Egli esercita tutte le funzioni della nostra vita terrena, veramente autentiche; la sua vita non è una commedia; i suoi atti non sono dei simulacri; Egli è sottomesso a tutte le nostre debolezze, salvo il peccato e la tendenza al peccato; prova tutti i nostri bisogni; le nostre fatiche e i nostri dolori l’opprimono, e le nostre noie, e i nostri disgusti, e i nostri abbattimenti, e le nostre angustie, che la sua fortezza divina supera, ma non abolisce; Egli giungerà fino all’agonia dell’essere per il quale la morte è una liberazione, e che tuttavia la paventa. Tutto ciò, chiarissimamente affermato, dev’essere poi conciliato con una beatitudine segreta, con una scienza senza ombra, e con una perfetta serenità del volere profondo.

D. Come ciò è possibile?

R. Ciò è possibile tanto facilmente e tanto difficilmente quanto l’incarnazione stessa. Conciliare Dio e l’uomo è conciliare quello che essi sono, e che non sarebbero punto se nella pretesa conciliazione gli attributi dell’uno nuocessero agli attributi dell’altro.

D. Non è possibile fare due cose nello stesso tempo, né ascoltare due musiche.

R. Ciò avviene. Vi è la dettatura di Cesare; vi è Mozart che compone un brano mentre ne scrive un altro; vi sono gli sdoppiamenti di personalità, vi sono quei che cercano la solitudine in mezzo a Parigi e la trovano: vi sono quegli stati d’anima descritti dal D’Annunzio, quando «nell’angoscia più agitata, un meandro profondo della nostra coscienza rimane in pace »; vi sono specialmente gli stati mistici, alcuni dei quali ci mostrano in un solo essere, nello stesso tempo, degli stati in apparenza contradittorii. Qui, «l’anima che è la forma del corpo, gode Dio increato nel Dio fatto uomo » (ANGELA da Foligno). L’estasi è dunque lo stato normale. Gesù attraversa la nostra notte come in un’aureola. Egli è un abitatore della Luce eterna; ascolta una musica segreta; si presta ed è sempre solo; parla e nasconde nel centro un abisso muto; opera in un riposo meraviglioso; prosegue, senza interruzione, l’eterno colloquio; nel corso della stessa Passione, in stati ciascuno dei quali sembra che debba accaparrarsi tutta l’anima, il suo essere intimo si potrebbe definire: un oceano di pace e di silenzio sotto una tempesta furiosa.

D. Se Dio lo penetra a tal punto, sì sarà tentati di negare l’uomo.

R. «La Chiesa ebbe tanta difficoltà a dimostrare che Gesù Cristo era uomo contro coloro che lo negavano, quanto a dimostrare che Egli era Dio, e le apparenze erano altrettanto grandi » (Pascal). Del resto, non sottilizziamo, quando si tratta di miracolo o di mistero; non facciamo i maligni, direbbe Carlo Péguy. Abbiamo lì due fatti associati: un fatto divino con tutte le sue conseguenze, un fatto umano nella sua integrità autentica: l’Onnipotenza e l’Onnisapienza li conciliano.

D. In ogni caso, di tutto ciò che fa Cristo, è Dio responsabile?

R. Certamente; perciò, chiamiamo la sua parola una parola di Dio, il suo sacrifizio volontario una salute di Dio, e le stesse sue azioni più volgari sono teandriche, come dicono i teologi, o umano-divine; perché, sebbene per la loro natura siano del tutto umane, tuttavia sono centrate in Dio, personalizzate in Dio, in quel Dio che ha assunto la natura umana che esse ci manifestano, Sono dunque attribuibili a Dio; sono altresì azioni divine.

D. Ciononostante si domanda a che servano queste complicazioni.

R. Tu dici come Lutero: « Che m’importa! ».

D. Sì, che importa tutta questa teologia di Cristo, quando si tiene la sua dottrina?

R. Non si tiene la dottrina di Cristo, quando si trascura

quello che Egli ha insegnato di se stesso. E si può dire: Che importa? quando si tratta di un tale fatto nella storia umana, di una tale luce sull’amore divino? Si può forse pensare che la vita avrà lo stesso corso, la stessa forma, lo stesso slancio, lo stesso soffio interiore, la stessa dolcezza e gli stessi risultati, se Dio interviene colla sua Persona, o se egli parla per messaggero; se ci affida tutti i misteri e li fa apparire ai nostri occhi in forma umana, o se è solo la forma e il mistero è assente?

D. Tu vuoi il divino in un doppio e unico esemplare?

R. Io vedo con meraviglia che noi abbiamo, in un solo essere, uno specchio divino dell’uomo, uno specchio umano di Dio.

D. Dicevì che non sì può conoscere Dio.

R. Si conosce per analogia, ed ecco l’analogia vivente: la Persona e l’azione di Cristo. È quello che, nella sera della Cena, a Gesù permette di dire a Filippo: Chi vede me vede mio Padre, ed io mi rappresento il discepolo stupefatto nell’atto di immergere gli sguardi in quelle pupille d’uomo, per scorgere la Divinità.

D. Tu non hai detto come Cristo può essere della nostra stirpe senza partecipare alle nostre miserie peccaminose come alle nostre umili grandezze.

R. Non è il flusso delle generazioni che ha formato Cristo; Egli ha per padre Dio; un segreto influsso lo forma nella Vergine e lo compone come conviene alla dignità di una personalità divina ed umana, destinata a un compito esemplare e salvatore.

D. Come mai, con tutto questo, Cristo ha potuto essere disconosciuto?

R. Si può disconoscere tutto. Al di sopra della nostra cognizione diretta, vi è in noi un potere di divinazione, al di sotto un potere di accecamento. Se Dio apparisce in Cristo, non apparisce altrimenti che nella natura, salvo il grado e la forma, e la sua umanità può fare schermo a riguardo della sua divinità come ciò avviene per la natura.

D. Di modo che la condizione dei contemporanei non era gran fatto più favorevole della nostra sotto l’aspetto della fede?

R. Forse era meno favorevole. Quanto è più difficile dire a se stesso, di un uomo che si vede: Quest’uomo è Dio, che credere questo di un uomo aureolato di gloria spirituale per venti secoli!

D. Finalmente, l’incarnazione è a’ tuoi occhi una parte essenziale del Cristianesimo?

R. Essa è il cristianesimo stesso nella sua realtà centrale. Il cristianesimo è la religione di Cristo, cioè di Dio incarnato. E non si deve dir solamente la religione annunziata da lui, ma è nello stesso tempo la religione che ha il Dio incarnato per oggetto, in quanto è Dio; per mezzo, in quanto Egli è uomo. Il Dio incarnato è il nostro tutto, l’alfa e l’omega della nostra vita religiosa. E per questo la nostra religione differisce da tutte le altre. Le religioni panteistiche e le idolatriche confondono l’uomo e Dio; il deismo e il maomettismo li tengono a distanza; il Cristianesimo li associa in Cristo, e con ciò nella Chiesa, nel pensiero e nel cuore del Cristiano.

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE (3)

Dom PAUL NAU Monaco di Solesmes

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE

Saggio sull’autorità del loro insegnamento

Les Editions du Cèdre 13, Rue Mazarine PARIS

III.

Chi ascolta voi, ascolta me…

Si deve dire che le Encicliche siano infallibili? Questa, come abbiamo visto, è la domanda che ancora divide i teologi e alla quale ci siamo posti il compito di dare una risposta. Il Concilio Vaticano, nel definire l’infallibilità papale, può aver contribuito a semplificare i termini del problema, ma non ha, ahimè, indirizzato le menti verso la sua soluzione definitiva. – I Cattolici hanno avuto la loro attenzione concentrata, per così dire, sull’affermazione solenne di questo privilegio unico. Li induceva in una tentazione di dividere gli Atti della Santa Sede in due classi: le definizioni, che erano riconosciute come infallibili, e gli altri documenti che erano invece esclusi dal beneficio dell’infallibilità. In quale di queste due categorie vanno collocate le Encicliche?  Tutto il problema della loro autorità è stato troppo spesso ridotto a questa formula apparentemente molto chiara, ma che in realtà porta a un vicolo cieco. Limitare il tentativo di un’identificazione tra le Encicliche e le definizioni, era certamente una soluzione allettante per la sua stessa semplicità e per l’autorità che assicurava alle lettere papali; ma questo non era tuttavia senza pericolo. Se i teologi non potessero riconoscerne la validità, quale titolo proporrebbero per stabilire l’ineguagliabile autorità che i Pontefici rivendicano per le loro Encicliche? Senza dubbio alcuni autori, seguendo il card. Billot e l’arcivescovo Perriot, si sforzerebbero di estendere la portata della definizione vaticana, al di là dei giudizi dogmatici, ad altri atti pontifici, tra i quali comprenderebbero le Encicliche (BILLOT, Tractat. de Ecclesia Christi, Romæ 1921, Tom. I, p. 632. – PERRIOT, L’Ami du Clergé, 1903, pp. 196 e 200). La maggior parte dei teologi, tuttavia, non credevano che il testo conciliare fosse suscettibile di un’interpretazione così ampia. Di conseguenza, essi furono indotti a negare alle Encicliche il privilegio dell’infallibilità, e a contentarsi di rivendicare per esse, con un’autorità dello stesso ordine di quella dei decreti delle Congregazioni, il diritto all’obbedienza totale da parte dei Cattolici (Per esempio, L. CHOUPIN, S. J. Valore delle decisioni dottrinali e disciplinari della Santa-Sede. Parigi, 1929, p. 50 e seguenti e gli autori citati ibid.) Questa posizione salvaguardava il principio della piena sovranità pontificia; tuttavia, se ne vede l’insufficienza: anche con tale autorità, le Encicliche, senza essere infallibili, potevano conservare il carattere di regola di fede e di autentica fonte di dottrina, universalmente riconosciuto nelle lettere dei primi Papi, e ancora affermato per le loro Encicliche dai Pontefici contemporanei? (Per esempio Pio IX, Quanta Cura: “Noi vogliamo e ordiniamo che tutti i figli della Chiesa Cattolica ritengano come reprobi, proscritte e condannate, ognuna delle opinioni e dottrine malvagie descritte nelle lettere precedenti. Lettere apostoliche di Pio IX, Gregorio XVI, Pio VII (Bonne Presse), p. 13. – LEONE XIII, Immortale Dei: « Se i Cattolici ci ascoltano come dovrebbero, saprebbero esattamente cosa devono pensare e fare. In teoria, prima di tutto, in opinando quidem è necessario attenersi con incrollabile aderenza a tutto ciò che i Romani Pontefici hanno insegnato e insegneranno, e ogni volta che le circostanze lo richiedano, farne pubblica professione ». B. P., vol. II, p. 54. Pio XI a sua volta, Mortalium animos, dà le Encicliche come « una regola di pensiero e di azione per i Cattolici, unde catholici accipiant quid sibi sentiendum agendumque ». B. P. IV, 87). La risposta dei teologi moderni, lasciando aperto il problema essenziale, è stata solo una infelice ritirata, le cui conseguenze non si sono fatte attendere. – Né infallibile né irreformabile, l’Enciclica non potrebbe essere oggetto di revisione da parte dal Papa stesso? Le menti preoccupate porrebbero la domanda, e andrebbero anche oltre: un’Enciclica ostacolerebbe lo sviluppo di una tesi audace, metterebbe in questa revisione possibile, attesa, tutta la loro speranza o anticiperebbero addirittura questo intervento dichiarando l’Enciclica “superata” e collocandola, con tutto il rispetto dovuto al suo rango, nell’archivio delle “questioni chiuse senza conseguenze“. « Mio giovane amico – disse una persona grave ad un sacerdote che si riferiva a una Lettera di Pio X – quando avrai un po’ di esperienza, vedrai… un’Enciclica, dopo venti anni… » (Queste righe erano già state pubblicate quando Pio XII, nella sua Allocuzione del 18 settembre 1951 ai Padri di Famiglia francesi, affermava: « Gli stessi principi che nella sua Enciclica Divini illius Magistri, il nostro predecessore Pio XI ha così saggiamente evidenziato, riguardo all’educazione sessuale e alle questioni connesse, sono – triste segno dei tempi! – congedati con un gesto della mano o un sorriso: Pio XI, si dice, l’ha scritto venti anni fa, per il suo tempo. Da allora, abbiamo fatto molta strada. » – Doc. Cath. t. 48, col. 1285, 1286). – Dal punto di vista dei nostri autori, come possiamo rispondere? Poiché, infatti, se solo le definizioni sono infallibili e se le Encicliche non sono definizioni, come si può concedere loro il privilegio dell’infallibilità? E se non sono infallibili, ma al contrario suscettibili di errore, come si può proibire che un giorno, forse molto presto, siano messe in discussione? Con una tale problematica così sommaria, siamo alla stretta finale. Ma non è proprio questo il problema che richiederebbe una revisione? Quanti esempi ci sono in teologia di problemi apparentemente irrisolvibili, semplicemente perché partono da domande mal poste! – Invece di aggiungere un altro fardello ad un dossier già pesante, vorremmo provare a rivisitare il punto di partenza stesso del dibattito, con l’aiuto dei risultati della nostra inchiesta e della luce recentemente gettata dall’Enciclica Humani Generis. Alla domanda così posta: le Encicliche sono definizioni infallibili? … ci permetteremo di sostituirne altre due: Le Encicliche possono contenere definizioni? – Le Encicliche, anche se non contengono giudizi dogmatici, possono ancora partecipare al privilegio dell’infallibilità nel loro insegnamento ordinario? – Al problema, così precisato, sarà forse più facile dare infine una risposta.

*

**

C’è da meravigliarsi se i teologi non hanno ritenuto possibile identificare Encicliche e definizioni? Per capire la loro esitazione, basta confrontare questi due tipi di documenti. La Definizione, come il Giudizio Dogmatico, è un atto preciso del Sommo Pontefice, con il quale egli afferma, impegnando irrevocabilmente la sua suprema Autorità, che una verità è vincolante per i Cristiani (« Requiritur intentio manifesta definiendi doctrinam dando definitivam sententiam et doctrinam illam proponendo tenendam ab Ecclesia universali. » Collectio lacensis, t. VII Acta et décréta SS. Concilîi Vaticani – Relazione di Mons. GASSER – Col. 414, 2° – Citiamo d’ora in poi, Coll. Lac.).  Se nelle Costituzioni che, il più delle volte, le promulgano, esse sono precedute o seguite da lunghe considerazioni, le definizioni stesse sono solitamente contenute in poche righe e hanno tutta la precisione di un testo giuridico.  (Per esempio, la definizione dell’Assunzione della Madonna: « Perciò, dopo aver rivolto incessanti e supplichevoli preghiere a Dio e aver invocato le luci dello Spirito di Verità, per la Gloria di Dio Onnipotente che ha profuso la sua particolare benevolenza sulla Vergine Maria,  per l’onore di suo Figlio, il Re immortale dei secoli e il vincitore della morte e del peccato, per aumentare la gloria della Sua augusta Madre e per la gioia e l’esultanza di tutta la Chiesa, per l’autorità di Nostro Signore Gesù Cristo, dei beati Apostoli Pietro e Paolo e per la Nostra, Noi proclamiamo, dichiariamo e definiamo che è un dogma divinamente rivelato che Maria, l’Immacolata Madre di Dio, sempre Vergine, alla fine della sua vita terrena, è stata innalzata in anima e corpo alla gloria celeste. » Questo è il testo della definizione stessa, che occupa appena un terzo di una colonna della Documentation Catholique, t. XLVII, col. 1486; la Costituzione stessa è inserita in tredici colonne intere). – L’Enciclica, come abbiamo già visto, ha tutte le caratteristiche di una lettera, in cui il Sommo Pontefice affronta i problemi dottrinali nei toni più vari, assumendo talvolta la forma di un’esortazione, talvolta di un rimprovero, spesso di un’ampia esposizione teologica, eccezionalmente quella  di un giudizio. – Le Encicliche non sono dunque delle definizioni; ma possono almeno contenerle? Messa in questi termini, sembra che il problema non possa che avere oggi una risposta affermativa. Le esitazioni che erano sorte in passato avevano il loro punto di partenza nel carattere imperativo delle definizioni, che erano vere leggi per la fede dei fedeli, e che era normale cercare in testi legislativi come quelli delle Costituzioni Apostoliche o “Decreta”, circondati da tutte le garanzie di forma, e oggetto di autentica promulgazione. (Cfr. Analecta juris pontificii, 1878, “La promulgation des lois“, col. 333-336. Molto recentemente nello stesso senso, R. NAZ., Dict. De Droit Canon., « Encyclical »: « Il Papa non sceglie la via dell’Enciclica per dare definizioni dogmatiche »). Questo argomento aveva già perso molto della sua forza dopo l’istituzione da parte di Pio X di un nuovo modo di promulgazione per i documenti romani, la loro iscrizione nella rivista ufficiale della Santa Sede, gli Acta Apostolicæ Sedis (Costituzione Promulgandi del 29 settembre 1908). Sappiamo che le Encicliche sono in primo piano negli Acta Apostolicæ Sedis, così come le Costituzioni e i Decreti. Non è più possibile arguire che per il fatto di non essere promulgate, si possa rifiutare il riconoscimento delle definizioni. Questo pretesto è mai stato valido? Senza dubbio, la Costituzione o il Decreto è lo strumento normale di una decisione vincolante, ma è lo strumento necessario, almeno quando si tratta di una sentenza del Papa stesso? Il relatore della Commissione della Fede al Concilio Vaticano già sottolineava che nessuna autorità al mondo, nemmeno quella di un Concilio ecumenico, potrebbe imporre al supremo Legislatore della Chiesa il metodo che debba usare per far conoscere le sue definizioni (cf. Col. Lac, col. 401-d, dove il relatore mostra che è impossibile per l’assemblea conciliare imporre la forma delle sue definizioni al Papa, senza cadere nell’errore che sostiene la superiorità del Concilio sul Papa. – La definizione dell’Assunzione è senza dubbio inscritta in una Costituzione dogmatica, ma era già pienamente valida prima della promulgazione di quest’ultima, dal momento in cui fu pronunciata oralmente dal Papa). « Di fatto e di diritto – scrive P. Pègues – non esiste una formula determinata che sia prescritta e necessaria. » (PÈGUES, O. P. L’Autoritè des Encycliques pontificales d’après S. Thomas, Revue Thomiste, 1904, p. 529. Vedi nello stesso senso il testo di GRÉGOIRE XVI citato qui sotto). Chi prova troppo non prova niente. Se l’argomento fosse stato impeccabile, avrebbe escluso dalle Encicliche, insieme alle definizioni, ogni decisione strettamente normativa. Ora, anche i teologi che rifiutano di riconoscere in esse delle definizioni hanno ammesso il carattere obbligatorio delle sentenze pontificie contenute nelle Encicliche. (Cfr. L. CHOUPIN, loc. cit.), e Pio XII nella Humani Generis, diede loro una conferma eclatante su questo punto (« Quodsi Summi Pontifices, in actibus suis de re hactenus controversa, data opera sententiam ferunt, omnibus patet, rem illam, secundum mentem ac voluntatem eorumdem Pontificum, quæstionem liberæ inter theologos disceptationis jam haberi non posse »). – Non c’è dubbio, quindi, che le Encicliche contengano giudizi dogmatici che devono essere imposti all’assenso dei fedeli. Affinché queste frasi siano riconosciute come vere definizioni, è solo necessario che soddisfino le condizioni specificate dal Concilio: « l’oggetto della definizione deve essere una questione di fede o di morale, il Sovrano Pontefice deve esercitare il suo ruolo di Dottore e Pastore universale, infine, l’atto stesso deve essere una sentenza senza appello » (« definimus; Romanum Pontificem, cum ex cathedra loquitur, id est, cum omnium Christianorum Pastoris et Doctoris munere fungens pro suprema sua Apostolica auctoritate doctrinam de fide vel moribus ab universa Ecclesia tenendam définit, per assistentiam divinam, ipsi in beato Petro promissam ea infallibilitate pollere, qua divinus Redemptor Ecctesiam suam in definenda doctrina de fide vel moribus instructam esse voluit; ideoqne eiusmodi Romani Pontificis definitiones ex sese, non autem ex consensu Ecclesiæ irreformabile esse. » Sess. 4, cap. 4, D B. 1839). « lnfallibilitas Romani Pontificis restricta est ratione subjecti, quando Papa loquitur tanquam doctor universalis et judex snpremns in cathedra Petri, id est, in centro, constitutus; restricta est ratione objecti, quando agitar de rebus fidei et morum; et ratione actus, quando définit quid sit credendum vel reiiciendum ab omnibus Christifidelibus » Relazione di Mons. GASSCH ai Padri del Concilio Vaticano sulle proposte di correzione del Vaticano, sulle correzioni proposte al Cap. IV delle Cost. de Ecclesia. Coll. lac, t. VII, col. 401 a.). – Fede e morale, il dominio delle definizioni, è anche, come abbiamo visto, quello delle encicliche (« ad catholicam fidem custodiendam, morumque disciplinam aut servandam aut restaurandam », Benedicti XIV Bullarium, p. IV). – Forse sarà utile ricordarlo per evitare malintesi molto frequenti, che la materia dottrinale e morale in cui si esercita il supremo Magistero non si limita alle verità formalmente rivelate, ma comporta inoltre, con tutte le prescrizioni della legge naturale (che appartiene anch’essa alla morale), ogni verità in stretta connessione della fede, che si rivela necessaria alla conservazione fedele del deposito rivelato. (Questa estensione del magistero, affermata da Pio IX nella sua lettera Tuas libenter del 21 dicembre 1863, è stata nuovamente affermata dal Concilio Vaticano alla fine della Costituzione Dei Filius: « Quoniam vero satis non est hæreticam pravitatem devitare nisi ii quoque errores diligenter fugiantur qui ad illam plus minusve accedunt, omnes officii monemus, servanai etiam constitutiones et decreta quibus pravæ hujusmodi opiniones quae isthic diserte non enumerantur ab hac sancta sede proscriptæ et prohibitæ sunt. » Const, de Fide Cath, post canones, DB. n° 1820. – Non c’è dubbio che le Encicliche siano inserite tra le Costituzioni, documenti maggiori della Santa Sede, e i semplici Decreti. – Cfr. J. C. FENTON, The doctrinal Authority of Papal Encyclicals, in The American Ecclesiastical Review, agosto 1949, p. 145. Fu per riservare questa estensione dell’oggetto del Magistero che furono scelti i termini della definizione dell’infallibilità del Papa nella Cost. Pastor æternus. Cfr. relazione GASSER, Col. lac. col. 415 e 575. Troppo spesso dimenticata, questa dottrina dovette essere oggetto di frequenti richiami, ad esempio, Decreto Lamentabili, prop. 5 – Pio XI, Casti connubii, Atti di Pio XI, B.P., VI, 307′, – Quadragesimo anno ibid. VII, 111, e molto recentemente Humani Generis di PIO XII, che riproduce il testo della Constit. Dei Filius, succitata). – La seconda condizione richiesta per una definizione non può mancare nemmeno nelle Encicliche, dove il Papa si esprime come Dottore universale, sia quando si rivolge solo ai Vescovi, per raggiungere tutto il gregge attraverso di loro, sia quando gli stessi fedeli siano inclusi tra i destinatari. Non mancano esempi in cui i Papi hanno esplicitamente rivendicato questo titolo nelle loro Encicliche (Pro Christi in terris vicarii ac supremi Pastoris et Magistri munere. Nostrum esse duximus Apostolicam attollere vocem…”. Casti connubi, B. P. VI, 245. Vedi altri esempi sopra). – Solo la terza condizione deve essere esaminata da vicino. È necessario, chiede il Concilio, che il Papa definisca, cioè intenda pronunciarsi con un giudizio inappellabile (Cfr. relazione di Mons. GASSER: « Vox définit significat, quod Papa suam sententiam… directe et terminative proférât, ita ut jam unusquisque fidelium certus esse possit de mente Sedis apostolices, de mente Romani Pontificis; ita quidem, ut certo sciat a Romano Pontifice hanc vel illam doctrinam haberi hæreticam, hæresi proximam, certam vel erroneam, etc…». Col. lac, col. 474-d, e 475-a.). – Questa intenzione, per creare un obbligo rigoroso per la fede, deve apparire chiaramente e non deve essere presupposta, soprattutto in una Lettera come l’Enciclica che, per sua natura, non è espressiva di questa intenzione. – Ascoltiamo Gregorio XVI nella sua opera « Il Trionfo della Santa Sede »: « Poiché l’uso costante della Chiesa e dei Pontefici consacra certe formule per indicare inequivocabilmente a tutta la cristianità il giudizio supremo e definitivo… ne consegue che se il Papa trascura queste formule e non esprime chiaramente che, nonostante questa omissione, intende e vuole definirsi giudice supremo della fede, si deve credere che non abbia reso il suo giudizio in questa veste (Il Trionfo della Santa Sede, Venezia, 1838, cap. XXIV, p. 558. – Tradotto da Analecta Juris Pontif. loc. cit., col. 344-345. Cfr. la relazione di Mons. GASSER: « verum hanc proprietatem ipsam et notant definitionis propri dictæ aliquatenus saltem etiam débet exprimere, cum doctrinam ab universali Ecclesia tenendam définit », coll. lac, col. 414-c. – Vedi anche HOUPIN, op. cit. p. 26: « È quando il Papa definisce, cioè quando decide definitivamente e con l’intenzione formale di chiudere tutte le discussioni o di impedirle, è allora e solo allora che è infallibile e che la sua decisione è vincolante per tutti, come articolo di fede »). Tuttavia, il significato del termine “solenne“, che è generalmente usato per designare le sentenze definitive, non deve essere frainteso. (Ha lo stesso significato nel termine “professione solenne”.) Il Papa – osserva giustamente il signor Chavasse – non è infallibile solo quando parla in circostanze solenni, come per esempio nella definizione del dogma dell’Immacolata Concezione, ma può esserlo in circostanze meno solenni; non è infatti secondo l’apparato esterno degli interventi che si deve giudicare della loro infallibilità (A. CHAVASSE. La Véritable conception de l’infaillibilité papale, in Eglise et Unité, Lille, 1948, p. 81). – Basta – affermava già il padre Pègues – che nel modo di esprimersi, qualunque sia la formula che vorrà usare, il Papa designi chiaramente la sua intenzione di risolvere definitivamente il dibattito, di fissare irrevocabilmente un punto di dottrina (L’autorité doctrinale des Encycliques Pontificales d’après S. Thomas, “Revue Thomiste”, 1904, p. 529). – Inoltre, nel suo eccellente articolo nel Dictionnaire de Théologie Catholique, M. Mangenot ha potuto scrivere: Il Papa potrebbe, se volesse, inserire delle definizioni nelle Encicliche (D. T. C. art. Encicliche cfr. PÈGUES, loc. cit. p. 531: “La definizione solenne può… essere comunicata al mondo cattolico per mezzo di un’enciclica“). Ma perché il condizionale, quando ci sono esempi già noti di definizioni in semplici Encicliche? Per citare solo una delle lettere papali di un tempo, la condanna di Pelagio da parte di Innocenzo I è ben considerata come una sentenza ex cathedra; tuttavia la leggiamo in una lettera ai Vescovi d’Africa, sorella maggiore delle nostre Encicliche (Epis. 29. In requirendis del 27.1.417: “Innocentius Aurelio et omnibus sanctis episcopis (seguono i nomi di 69 Vescovi), et ceteris qui in Carthaginensi concilio adfuerunt, dilectissimis fratribus in omino satutem“. P. L. 20-582). – Le cadette, non potrebbero contenerne, quando Benedetto XIV, e dopo di lui Pio VII, le presentano come i le fedeli continuatrici dei loro predecessori? (Benedetto XIV, « Veterem prædecessorum nostrorum… consuetudinem revocandam duximus . » Bullarium, p. IV. – PIE VII, « Dobbiamo infine obbedire, non tanto a un’usanza che risale ai tempi più remoti… quanto a una… » Diu satis. BP, p. 249. – La condanna di Lamennais,in Singulari nos, di GREGORIO XVI, sembra avere le caratteristiche di una definizione ex cathedra. La questione è stata discussa per Quanta Cura di PIO IX; è da notare però che il carattere di definizione per le condanne che portava era riconosciuto implicitamente; è da notare, tuttavia, che il carattere di definizione per le condanne che conteneva era implicitamente riconosciuto da coloro che, per negarlo al Sillabo, si sforzavano di mostrare che i due documenti non erano collegati. – Alcuni teologi hanno visto nella Pascendi di Pio X una definizione. Forse si potrebbe citare anche Casti connubii, dove le parole usate per introdurre l’affermazione della dottrina cristiana del matrimonio sono eccezionalmente solenni. « Pro Christi in terris Vicarii ac Supremi Pastoris et Magistri munere, Nostrum esse duximus Apostolicam attollere vocem… Ecclesia Catholica in signum legationes suæ divinæ, altam per os Nostrum extollit vocem atque denuo promulgat… » B.P. VI. 245 e 276). – Quando, in un’Enciclica, il Papa impone una dottrina, indicando chiaramente la sua intenzione di pronunciare una sentenza definitiva, non c’è più alcun dubbio che in gioco ci sia l’infallibilità. Ci troviamo in presenza dell’autentica Regola di Fede. Anche se questa intenzione di definire è assente dalla sentenza pontificia, né i teologi né i fedeli possono sottrarsi al dovere dell’obbedienza e chi rifiutasse l’assenso interiore non potrebbe evitare la nota di temerità (« È chiaro che un tale atteggiamento sarebbe avventato e contrario all’obbedienza e alla prudenza. » C. VAN GESTEL, O.P. Introduzione all’insegnamento sociale della Chiesa, trans. Bourgy, p. 31. – Cfr. CHOUPÎN, op. cit. p. 50 – ss. PIO XI, Casti connubii. B.P. VI, 308).  – Avendo Roma pronunciato, ogni controversia è d’ora in poi proibita. Ascoltiamo i Vescovi di questa chiesa che amava definirsi “gallicana” e che non può essere sospettata di sopravvalutare l’autorità dei documenti papali. Senza dubbio, nelle rimostranze indirizzate al Re dall’Assemblea del Clero nel 1755, non è ancora un’Enciclica che è in questione. (Ma la Costituzione Unigénitas, che i parlamenti rifiutarono di ricevere, proibì che fosse riconosciuta come “Regola di Fede“). Pertanto, accettando come terreno di discussione la posizione degli oppositori che, per sottrarsi all’autorità dottrinale di un atto della Santa Sede, cercavano già di contestarlo, la posizione della Chiesa veniva messa in discussione per una questione di forma, i prelati diedero ai loro argomenti una portata sufficientemente ampia da poter essere applicata a quei giudizi pontifici che non erano definizioni in senso proprio. « Non ci si rende conto – fanno notare a Luigi XV – che si attacca di petto la saggezza e l’autorità della Chiesa… che si contraddice M. Bossuet che dichiara che le condanne generali erano utilmente praticate nella Chiesa, per dare come un primo colpo agli errori incipienti, e spesso anche l’ultimo, secondo l’esigenza dei casi e il grado di ostinazione che si trova negli spiriti (Second écrit ou Mémoire de M. l’Eveque de Meaux, pour répondre à plusieurs Lettres de M. l’Archevêque de Cambrât Nouvelle édition des Œuvres de M. Bossuet, in-4°, tom. 6, p. 304), che si disconoscono infine i diversi usi che la Chiesa può fare della sua autorità in materia di dottrina. A volte Essa elabora dei Simboli che definiscono verità rivelate, a volte emette giudizi che condannano e riprovano: Essa può mettere in entrambi i casi lo stesso grado di precisione, dichiarare ciò che è eretico, come insegnare ciò che appartiene alla Fede; ma può anche, secondo la prudenza e la necessità dei suoi figli, limitarsi a una censura più generale, condannare i Libri, senza estrarre da essi alcuna proposizione condannabile, proscrivere delle proposizioni senza qualificarle nel dettaglio; Essa può allora giudicare che sia sufficiente che i suoi figli sappiano ciò che non devono credere, come si esprime S. Agostino. Chi può negare che questa conoscenza non sia benefica per i fedeli? E chi può sostenere che abbiano il diritto di chiedere alla Chiesa che faccia loro apprendere di più? Quanti esempi si potrebbero citare di leggi che non spiegano le ragioni particolari dei divieti che si pronunciano? E se si risponde che in questi esempi l’obbedienza consista nell’astenersi esteriormente dalle azioni proibite, si sta dicendo il vero, per quanto riguarda le leggi che un’autorità puramente umana ha portato; ma i giudizi, dettati dallo Spirito di verità catturano la mente arrestando la mano; e quando la Chiesa comanda ai suoi figli di considerare delle proposizioni dottrinali come tanti veleni nocivi alla loro Fede, una sottomissione interiore può solo garantirli dal pericolo di cui li si avverte (Raccolta dei Processi Verbali delle Assemblee Generali del Clero di Francia, Parigi 1778, t. VIII, 1″ parte. Pièces justificatives: “Remontrances au Roi concernant les refus des Sacrements“, col. 168.). Senza dubbio lo scrittore delle Rimostranze insisterà un po’ troppo, in seguito, sull’autorità supplementare che l’accettazione dei Vescovi aggiungerebbe, secondo lui, alle sentenze pontificie; non di meno il carattere decisivo di quelle è affermato con un’eloquenza degna di colui che è stato appena chiamato “Monsieur Bossuet”, e una chiarezza che due secoli dopo, l’Enciclica Humani generis lo ripeterà solo, ma questa volta in una formula altrimenti concisa. – Se i Papi si pronunciano espressamente nelle loro Encicliche un giudizio su una questione fino ad allora controversa, tutti capiscono che tale questione, nel pensiero e nella volontà dei Pontefici, non è più da considerare come una questione libera tra i teologi (B.P. p. 10. Esempi di ciò si trovano negli anni successivi alla ripresa delle Encicliche da parte di Benedetto XIV. Vix pervertit ai Vescovi d’Italia, 1-11-1745. Ex omnibus ai Vescovi di Francia, 16-10- 1756. Anche la lettera di Leone XIII sulle ordinazioni anglicane risolve categoricamente il dibattito. Abbiamo su questa intenzione del Papa l’espressa affermazione dello stesso Leone XIII nella sua lettera del 5-11-96 al card. Richard (Acta Sanctæ Sedis, vol. XXXIX, p. 664). Un testo del Card. RICHARD interpreta la Lettera Apostolica Testem Benevolentiæ nello stesso senso, testimonianza che J. C. FENTON (art. citato, p. 215) autorizza a vedere in questo documento pontificio come una definizione ex cathedra).

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L’eventuale presenza di definizioni nelle Encicliche, se già ci invita ad una lettura attenta, porta però solo una soluzione molto parziale al problema dell’autorità delle Lettere Pontificie, dove le Sentenze solenni appaiono solo come un’eccezione. L’insegnamento enciclicale appartiene normalmente al Magistero ordinario (“Magisterio ordinario hæc docentur…Humani Generis), che può essere esercitato attraverso decisioni dottrinali sulle quali il Papa non intende impegnarsi irrevocabilmente, e che più comunemente assume la forma di un semplice richiamo (plerumque affirmaHumani Generis), o una dichiarazione ampia e dettagliata della dottrina già ricevuta nella Chiesa. È dunque in relazione a questo insegnamento ordinario che si porrà la questione, se vogliamo soprattutto definire la portata dottrinale delle Encicliche, il problema della loro infallibilità. – Abbiamo già esposto questo problema in questo modo: al di là delle definizioni che possano contenere, si può ancora parlare di infallibilità per l’insegnamento dato dalle Lettere Pontificie? La domanda, bisogna ammetterlo, sembra aver colto di sorpresa i teologi contemporanei, che hanno dato, un po’ frettolosamente sembra, le risposte più contraddittorie. Mentre i più astuti erano cautamente riservati (per esempio H. T. HURSTON, Enciclopedia Cattolica, art. Enciclica, che traduciamo: « È generalmente riconosciuto che il solo fatto che il Papa dia a un suo insegnamento la forma di un’Enciclica non la costituisce necessariamente come una locutio ex cathedra e non la investe di autorità infallibile. Il grado di coinvolgimento del Magistero della Santa Sede deve essere giudicato secondo le circostanze e il modo di espressione usato in ogni caso »), qualcun altro ha pensato di poter autorizzare una soluzione chiaramente affermativa da parte del Concilio Vaticano (es. DUBLAMCH, D. T. C. l’Infallibilità del Papa, col. 1705: « Poiché, secondo il decreto del Concilio Vaticano, il Papa possiede l’infallibilità data da Gesù alla sua Chiesa, e che per la Chiesa questa infallibilità può estendersi agli atti del Magistero Ordinario… si deve affermare che il Papa, insegnando da solo, in virtù del suo Magistero Ordinario, è infallibile nella stessa misura e alle stesse condizioni. » – MANOENOT, D. T. C. Enciclica: “Il privilegio dell’infallibilità si trova in quegli atti del Magistero Ordinario”), cosa che altri respinsero senza ulteriori qualificazioni: « Non bisogna dimenticare – scrisse uno di questi ultimi – che accanto al Magistero straordinario del Sommo Pontefice che si esercita con definizioni infallibili, c’è posto per un Magistero Ordinario che non gode di infallibilità (J. VILLAIN, S. J. t L’étude des Encycliques, in Les Etudes du prêtre d’aujourd’hui” Parigi, 1945, p. 187. – Vedi anche CHAVASSE, loc. cit, p. 80: “Le condizioni poste dal Concilio per l’infallibilità papale sono formalmente restrittive: il Papa è personalmente infallibile solo quando parla ex cathedra“). – Queste divergenze, tuttavia, possono essere spiegate. Erano inevitabili quando la gente insisteva nel chiedere al Concilio Vaticano una soluzione che non aveva intenzione di dare. Senza dubbio la Costituzione Pastor æternus aveva definito l’infallibilità personale del Papa, ma affermava il privilegio solo per le sentenze solenni. Taceva sul Magistero Ordinario. Questo, è vero, era stato espressamente riconosciuto come Regola dalla Costituzione Dei Filius, ma era stata aggiunta una parola: “Magistero Ordinario e Universale“, con l’intenzione, come sappiamo, di lasciare aperta la questione dell’infallibilità personale del Sommo Pontefice.  ( « Ratio enim quare optamus ut haec vox universali apponatur voci magisterio, textus nostri, hæc est ut scilicet ne quis putet nos loqai hoc loco de Magisterio infallibili S. Sedis apostolicæ… Nullatenus ea fuit intentio Deputationis, hanc quæstionem de infallibilitate summi Pontifias, sive directe, sive indirecte tangere…» Relazione del vescovo MARTIN, Col. lac. col. 176). – Se era impossibile, senza chiedere ai testi del Concilio, leggere in essi una risposta affermativa, non era più legittimo basare su di essi una negazione. La Costituzione Dei Filius, introducendo nel suo testo la parola universale, aveva rifiutato di risolvere la questione dell’infallibilità personale del Sommo Pontefice, ma non intendeva escluderlo. La definizione di questa stessa infallibilità nella Costituzione Pastor aeternus era espressamente limitata alle sentenze solenni, ma non era “formalmente restrittiva” (È senza dubbio per distrazione che questa confusione si è insinuata nell’altrimenti eccellente articolo di M. CHAVASSE, citato sopra). Il testo del Concilio stesso non è restrittivo. Se le spiegazioni date dal relatore sembrano escludere dall’infallibilità qualsiasi atto che non sia una definizione, esse non contemplano il caso di una serie di atti, o di un insieme come quello costituito dal Magistero Ordinario), e di conseguenza lasciano aperto il problema dell’infallibilità del Papa nel suo Magistero Ordinario. Se questa sfumatura non è stata sempre compresa, è comunque importante; in ogni caso, essa vieta ai teologi di chiedere ai soli testi conciliari di ridurre le loro divergenze. – Più istruttiva, senza dubbio, sarebbe stata una riflessione sui principi richiamati dal Concilio, e sulle discussioni che hanno preceduto il voto sui testi finali. L’enfasi era stata posta sulla necessaria unità della Regola di Fede (Sant’Agostino aveva già fatto affidamento su questo nella sua polemica contro i Donatisti, come su una dottrina indiscussa: “In cathedra unitatis posuit Deus doctrinam veritatis“. Ep. 105 ad donatistas, 16, P.L. 83, col. 408.), nonché sull’impossibilità che contenga errori. È perché realizza di fatto questa unità che la proposta della stessa dottrina dal Magistero Universale della Chiesa può e deve, in nome e sotto la garanzia della prima Verità, impegnare la nostra fede. È perché crea questa unità di diritto, pronunciandosi sul contenuto della Regola di Fede con un atto senza appello, che la sentenza solenne è necessariamente infallibile. Questo, almeno, era l’argomento addotto a favore della definizione dell’infallibilità personale dal relatore della Commissione Fede (Coll. Lac, col. 390-391 e 399-d.), argomento che Leone XIII, citando San Tommaso, avrebbe un giorno ripreso (Leone XIII, Sapientiae Christianæ, B.P. II, 278, in cui cita San Tommaso: – 2a 2æ, q. I, art. 10 – Cfr. Contra Gentiles, 1. IV, с. 76, e BELLARMINO, De Romano Pontifice, 1. IV, с. 1 e 2). Ma questo pronunciamento definitivo è l’unico modo in cui il Papa può effettivamente realizzare l’unità dell’insegnamento ecclesiale intorno a lui? Un maestro – veramente degno di questo grande nome – non ha altro mezzo per stabilire tra sé e i suoi discepoli una intera coesione che formulare delle tesi precise che sarà necessario professare sotto pena di essere immediatamente bollato come dissidente? È molto più spesso e non meno efficacemente che otterrà questo stesso risultato, con il solo esposto quotidiano della sua dottrina, le spiegazioni date sulla sua coerenza interna, sulle sue implicazioni nelle altre discipline o nella condotta quotidiana della vita. In una parola, è il suo insegnamento ordinario che, oltre al ricorso eccezionale a dichiarazioni eclatanti, formerà intorno ad esso la stretta unità di una scuola. Questo insegnamento quotidiano, questo ritorno continuo, tal è proprio quello del Magistero Ordinario che il Sovrano Pontefice, come Pio XII, ricordava solo poco tempo fa (Allocuzione ai giovani sposi La gradita vostra Presenza, 21 gennaio 1942, Discorsi e Radiomessaggi di S. S. Pio XII, Milano, 1942, p. 355), esercitare nei suoi discorsi, nelle sue lettere e nei suoi messaggi, ma soprattutto nelle sue Encicliche. Abbiamo passato molto tempo a dimostrare che “fare l’unità” è la ragion d’essere di queste Lettere, segni di comunione, legami di fede e di carità, che si estendono fino ai più lontani confini del mondo cattolico, portando l’insegnamento del Pastore universale a tutti i fedeli e a serrare intorno alla Sede Apostolica la stretta unione di tutti i pastori. Abbiamo visto i Sommi Pontefici proporre espressamente come obiettivo delle loro Encicliche questa unità da raggiungere (Benedetto XIV ai Vescovi, Via pervenit, « Quando parlate al popolo… nulla ci sia di contrario ai sentimenti che abbiamo trasmesso. » Vedi qui sopra dove si possono trovare altre testimonianze. Possiamo citare ancora Leone XIII, agli operai francesi, il 19-9-91, a proposito della Rerum Novarum: « Senza consumare altro tempo prezioso in sterili discussioni, realizziamo in pratica ciò che, in principio, non può più essere oggetto di controversia »), per qualificare anche come “modernismo pratico” la sola negligenza nel far passare nella condotta di vita l’insegnamento enciclicale (Pio XI, Ubi Arcano, cfr. nota sotto). Pio XII è quindi ben in linea con i suoi predecessori quando esige da tutti l’adesione al contenuto di queste Lettere che ci vengono indirizzate nel nome stesso di Dio (“Né si pensi che ciò che viene proposto nelle Encicliche non richieda di per sé un assenso…  a ciò che viene insegnato dal Magistero Ordinario, si applicano anche le parole “Chi ascolta voi, ascolta me“. Humani Generis, B. P., p. 10). I Papi di oggi, come quelli del quarto secolo, hanno sempre un solo scopo nello scrivere le loro Encicliche: « far regnare in tutto il mondo la stessa professione di una medesima fede « (« Ut… per totum mundum una sit fides et una eademque confestio » S. Leone M., ep. 33, P. L. 54, col. 799.3). Non è, tuttavia, generalmente un’affermazione isolata in un’Enciclica, ma piuttosto un insieme che da solo sarà capace di raggiungere necessariamente questa unità. Con il Magistero Ordinario, infatti, non ci troviamo più, come nel caso della definizione, in presenza di un giudizio formulato solennemente, ma di un insegnamento nel senso comune del termine. – Dom Guéranger invitò una volta il Vescovo Dupanloup a non confondere questi due atti (Dom Guéranger, De la Monarchie pontificale, Parigi, 1870, p. 269). È importante distinguere la loro natura, nello stesso tempo  il modo in cui ciascuno di essi opera l’unità intorno a sé. Il giudizio si esprime interamente in un’affermazione categorica, in un atto preciso, in cui il giudice della fede impegna la sua autorità (e se si tratta di una definizione, al grado supremo e senza appello), per imporre una dottrina ai Cattolici o per escluderla. Stabilisce dei confini, di solito suppone una controversia o un’esitazioei (« Se i Papi nei loro atti emettono espressamente una sentenza su una questione che era finora controversa … » – scrive Pio XII in Humani Generis, B.P., p. 10). La missione dell’insegnamento non è quella di decidere, ma di far conoscere; non  mette fine a una divergenza, ma salva dall’ignoranza o dall’oblio. È all’interno di una dottrina già ricevuta che viene ad assicurare una continuità e una trasmissione fedele, a volte una valorizzazione più completa (« Il più delle volte ciò che viene esposto nelle Encicliche appartiene già d’altra parte alla dottrina cattolica », ibidem). – Di solito implica una molteplicità di espressioni e una continuità di esercizio, integra un intero insieme. Così non è creando per tutta la Chiesa un obbligo giuridico su un punto di dottrina che l’insegnamento delle Encicliche raggiunge la comunione di tutti nello stesso pensiero, è esponendo questo pensiero, non solo ai fedeli, ma ai pastori, che l’insegnamento delle Encicliche diventa una realtà non solo per i fedeli, ma per gli stessi pastori per orientare la propria predicazione; è insistendo su di esso, facendo notare le deviazioni che sopravvengono, ritornandovi in caso di negligenza o di oblio, riducendo con questo stesso ritorno le esitazioni che, qua o là, potrebbero aver cominciato ad apparire. In ogni caso, senza dubbio, un appello al Sommo Pontefice stesso rimane teoricamente possibile, e può sorgere una divergenza momentanea. A parte il caso del giudizio solenne, una singola affermazione non è necessariamente, da sola, rappresentativa di tutta la Chiesa, di per sé rappresentativa di una dottrina, l’intero insegnamento pontificio non vi è impegnato interamente. Ma se si tratta di un soggetto direttamente affrontato in una lettera Enciclica, se questa si inserisce in un insieme o in una continuità, se è oggetto di un richiamo e di un’insistenza, come spesso accade con le grandi Lettere dottrinali, non ci possono essere dubbi sul contenuto autentico dell’insegnamento pontificio. Di conseguenza, rifiutare di aderirvi, cessare di aderirvi per una stretta comunione di pensiero, è necessariamente rompere l’unione della dottrina, è introdurre la dualità nella fede. Come si può allora ammettere per questo insegnamento, almeno nel gruppo che abbiamo appena definito, la possibilità di deviare dalla verità e di sbagliare sulla regola della fede? Se questa ipotesi impossibile fosse assunta, o l’errore non fosse notato, o i Vescovi trascurassero almeno di segnalarlo, tutta la Chiesa sarebbe presto sviata dallo stesso Centro di Unità; (« Tota igitur Ecclesia errare posset, sequens determinationem Papæ, si Papa in tali definitione posset errare. » Coll. Lac. col. 391; L’argomento si applica anche all’insegnamento ordinario. Il semplice fatto di non parlare contro un errore portato dalla lettera pontificia al proprio gregge non dovrebbe essere interpretato dai Vescovi come un’approvazione? “Error cui non resistitur approbatur” citato da Cano in un testo del De Locis 1. S, c* 4, su cui THOMÀSSIN osserva – Diss. in Concil., p. 716-: “Ubi vides et Pontificum et conciliorum provincialium decretis, ex silentio Ecclesiæ universalis, œcumenicæ synodo, parem accedit auctoritatem.”); altrimenti, per rimanere fedeli alla verità, per mantenere i loro greggi in essa, i pastori avrebbero dovuto rompere questa unità, allontanarsi nel loro insegnamento da quello di Roma. Saremmo agli antipodi della tradizione che lega irrevocabilmente la sicurezza della dottrina con la comunione realizzata intorno al Romano Pontefice (per esempio S. Cipriano: “Deus unus et Christus unus, et una Ecclesia et cathedra una super Petram Domini voce fundata… Quisqui ” alibi collegerit spargit.» Ep. plebi universæ. P. L. IV, col. 336 – su S. Girolamo: « Cathedram Pétri et fidem apostolico ore laudatam censui consulendam. Super hanc petram ædificatam Ecclesiam scio. Quicumque extra hanc domum agnum comederit, profanus est ». Episodio. 15 ad Damasum. P. L. XXII, col. 355. Vedi altre testimonianze qui sotto). – Nell’uno o nell’altro caso, ci darebbe una smentita alle promesse divine: Pietro non sarebbe più la roccia da cui la Chiesa trae la sua unità, oppure avrebbe cessato di essere il fondamento sicuro della sua fede. – La conclusione, quindi, è che il privilegio dell’inerranza deve essere riconosciuto per un insegnamento da cui la fede universale dipende così strettamente e circa il quale Dio stesso, la prima Verità, si è fatto garante. Senza dubbio, in tutto il rigore dei termini, la parola infallibilità deve essere pronunciata solo in relazione all’insieme a cui abbiamo appena accennato (« La garanzia infallibile dell’assistenza divina non è limitata ai soli atti del Magistero solenne, ma si estende anche al Magistero Ordinario, senza tuttavia coprirne ed assicurarne ugualmente ogni atto. Essa garantisce assolutamente l’insegnamento della Chiesa universale unita al Papa; ma il Papa, che può esercitare questo Magistero da solo, può anche beneficiare da solo di questa infallibilità. P. LÀBOURDETTE, O. P. Les Enseignements de l’Encyclique Humani Generis, in “Revue Thomiste”, 1950, p. 38.); tuttavia, ognuno degli atti che lo compongono deve anche beneficiare dell’assistenza divina in quanto contribuisce a rappresentare l’insegnamento pontificio, ad assicurare per la sua parte l’unità dottrinale nella Chiesa. Questo mostra il titolo eccezionale che avrà l’Enciclica, « l’atto più alto del Magistero supremo dopo la definizione ex cathedra » (L. CHOUPIN, S. J., Le Motu proprio “Præstantia” di S. S. Pio X, in “Etudes religieuses“, 1908, t. CXIV, p. 123. Cfr. MANGENOT, D. T. C. art. “Encicliche“: « Se non sono giudizi solenni, poiché non hanno né la forma né le condizioni esterne di tali giudizi, sono almeno atti del Magistero Ordinario del Sovrano Pontefice e si avvicinano a giudizi solenni quando trattano materie che potrebbero essere oggetto di definizioni »), atti di cui abbiamo ricordato le immense ripercussioni, non solo sulla fede dei fedeli, ma sull’insegnamento stesso dei pastori. Se un semplice esposto dottrinale, non può mai pretendere l’infallibilità di una definizione se non alla maniera di un asintoto (Nessun atto del Magistero Ordinario, senza cessare di essere tale, può rivendicare da solo la prerogativa connessa all’esercizio del giudizio supremo. Un atto isolato è infallibile solo se il giudice supremo vi impegna la sua autorità al punto da vietarsi di ritornarvi – revocabile, infatti, non potrebbe esserlo senza riconoscere che è passibile di errore – ma un tale atto, senza appello, è proprio quello che costituisce il giudizio solenne e come tale si oppone al Magistero Ordinario. « Neque etiam dicendus est Pontifex infallibilis simpliciter ex auctoritate papatus, sed ut subest divinæ assistentiæ dirigenti in hoc certe et indubie. Nam auctoritate papatus Pontifex est semper supremus judex in rebus fidei et morum et omnium christianorum pater et doctor; sed assistentia divina ipsi promissa qua fit, ut errare non possit, solummodo tunc gaudet, quum munere supremi iudicis in controversiis fidei et universatis Ecclesiæ doctoris reipsa et actu fungitur. – Coll. Lac, col. 399-b.), qui almeno si deve parlare di questa equivalenza pratica (Ecco come il semplice fatto di essere affermato direttamente in un’Enciclica, può rendere certa una dottrina finora considerata probabile tra i teologi. « Nunc… omnino certa habenda ex verbis Summi Pontificis » PII XII, dice l’arcivescovo OTTAVIANI, in relazione a una tesi finora contestata sull’origine della giurisdizione episcopale – Institutiones Juris publici ecclesiastici, Romæ, 1947, I, 413). Le esitazioni dei teologi sull’infallibilità delle lettere papali avrebbero dovuto rendercene conto: ci troviamo in presenza di un limite, ogni affermazione (si tratta, ovviamente, di affermazioni che non sono giudizi dogmatici in senso stretto) presa separatamente, si avvicina solo all’estremo dell’infallibilità, che, invece, è rigorosamente implicita nel caso di convergenza sulla stessa dottrina di una serie di documenti, la cui continuità esclude da sola ogni possibilità di dubbio sul contenuto autentico dell’insegnamento romano. – Questa impareggiabile autorità delle Encicliche non sorprende se si fa attenzione a collocarle nel loro vero posto, nel Magistero Universale, o, nelle parole di Sant’Ireneo, in: « Quella predicazione ricevuta dagli Apostoli » che la Chiesa «…custodisce con cura come se avesse una sola anima e un solo cuore… che predica, insegna e trasmette, come se avesse una sola bocca » (Adv. Hær. I. X, 2. P. G. VII, col. 551). Queste, sono almeno atti del Magistero Ordinario del Sommo Pontefice, e si avvicinano a giudizi solenni quando trattano questioni che potrebbero essere oggetto di definizioni. È solo qui che si rivela « la funzione privilegiata di questo principio di unità che integra », nelle parole di Leone XIII, « la costituzione e l’equilibrio stesso della Chiesa » (Satis Cognitum, B.P., V. 39). « L’autore divino della Chiesa – continua il grande Papa – avendo deciso di darle unità di fede, di governo, di comunione, scelse Pietro e i suoi successori per stabilire in loro il principio e come il centro di questa unità di fede » – … Ecco perché San Cipriano ha potuto dire: «C’è una via facile per arrivare alla fede, e la verità è contenuta in una parola. Il Signore disse a Pietro: Io ti dico che tu sei Pietro… ».È su uno solo che Egli costruisce la Chiesa; e anche se dopo la Resurrezione conferisce a tutti lo stesso potere… tuttavia, per mettere in piena luce l’unità, in uno solo stabilisce con la sua autorità, l’origine e il punto di partenza di quella stessa unità (Ibid., p. 47). Nell’immenso concerto dell’insegnamento universale, la voce di Pietro non è solo una tra le altre, ma è quella che dà il tono, che custodisce e sostiene l’insieme. Sia che lo gridi ad alta voce con un giudizio solenne, sia che lo mantenga più discretamente attraverso la vigilanza e il continuo richiamo delle sue Encicliche, è sempre essa la voce che regola l’unità, e solo sono assicurate circa la loro giustezza le voci che rimangono in armonia con essa. Non è questa, inoltre, l’intima convinzione di tutti i fedeli? « Credo nella Chiesa cattolica », professano nel loro Credo. Ma dalle labbra di chi raccolgono le parole della Chiesa? Quelle di alcuni educatori, quelle dei loro catechisti, del loro parroco. Come sarebbero assicurati di incontrarvi il pensiero autentico di Dio che parla attraverso la sua Chiesa, se non fosse sufficiente per loro sapere che questi sacerdoti sono in unione con il loro Vescovo, che rimane lui stesso rimane unito al centro dell’unità, alla sede del Romano Pontefice? Essendo il Centro e la Causa dell’unità infallibile, come potrebbe essere soggetto all’errore? Stupirsi di non vedere questa dottrina esplicitamente insegnata dal Concilio Vaticano e usarla come pretesto per scartarla, sarebbe dimenticare lo scopo dei decreti e delle definizioni. – Uno dei più illustri teologi che contribuirono alla preparazione degli schemi spiegò « che sarebbe stato un errore cercare in essi l’espressione di ogni verità ammessa », essendo il loro scopo primario quello di opporsi all’errore (Coll. Lac, col. 1612). Senza dubbio le discussioni stesse contribuirono a portare in primo piano le dottrine che erano state contestate dagli oppositori. Per essere state, da questi illustri giocolieri, respinte nell’ombra, quelle stesse che furono l’oggetto di simili dibattiti, non hanno perso nulla della loro tranquilla certezza. Quello che abbiamo appena ricordato, collegandolo come una conclusione teologica dei dogmi vaticani, non sarebbe anche uno di queste? Possiamo basarci sulle testimonianze di Bossuet e Fénelon, anch’esse basate sulla tradizione antica. È il Vescovo di Meaux che parla di « questa Cattedra romana così celebrata dai Padri, che l’hanno esaltata come la continuazione, la primizia della Cattedra apostolica, la fonte dell’unità, e nel posto di Pietro il grado eminente della cattedra sacerdotale; la Chiesa madre, che tiene in mano la guida di tutte le altre chiese; il Capo dell’episcopato, da cui procede il raggio del governo; la Cattedra principale, l’unica Cattedra in cui solo tutti mantengono l’unità. In queste parole si sente San Ottatto, Sant’Agostino, San Cipriano, San Prospero, Sant’Avito, San Teodoreto, il Concilio di Calcedonia ed altri; l’Africa, i Galli, la Grecia, l’Asia, l’Oriente e l’Occidente uniti insieme »(BOSSUET. Sermone sull’unità della Chiesa, parte 1. Oeuvres wtoires, ed. URB. et LEV, Paris, 1923, t. VI, p. 116). Ascoltiamo Fenelon che si riferisce egli stesso alla professione di fede imposta da Papa Ormisda ai Vescovi orientali: « Dio non voglia che qualcuno prenda un atto così solenne, con il quale i Vescovi scismatici tornarono all’unità, come un complimento vago e lusinghiero, che non significhi nulla di preciso e serio. Si tratta qui della promessa del Figlio di Dio fatta a San Pietro, che è verificata di secolo in secolo dagli eventi. Hæc quæ dicta sunt probantur effectibus. Cosa sono questi eventi? Che la Religione Cattolica è inviolabilmente conservata pura nella Sede Apostolica. È che questa Chiesa, come sentiremo presto dire da M. Bossuet, Vescovo di Meaux, è ancora vergine, e che Pietro parlerà sempre dal suo pulpito, e che la fede romana è sempre la fede della Chiesa. È che non c’è differenza tra coloro che sono privati della comunione della Chiesa Cattolica, e quelli che non sono uniti in tutto nel sentimento con questa Sede. Così chi contraddice la fede romana, che è il centro della tradizione comune, contraddice quella di tutta la Chiesa. Al contrario, chi rimane unito alla dottrina di questa Chiesa sempre vergine non rischia nulla per la sua fede » (FÉNELON. Deuxième Mandement sur la Constitution Unigenitus – Œuvres complètes, Paris, 1851. t. V, p. 175). Non si può negare questa prerogativa, inoltre, senza mettersi in opposizione con la più antica e venerabile tradizione.   – La “Seconda Lettera sulla Costituzione Unigenitus” ricordava, contemporaneamente alla testimonianza di Ormisda, il famoso passo in cui Sant’Ireneo propone due modi altrettanto sicuri di riconoscere l’autenticità e l’apostolicità di una dottrina: l’insegnamento costante di tutte le chiese, o quello del solo « Presidente della Fede ». Ed ecco la ragione di tale sicurezza: Perché è con questa Chiesa, a causa della sua eminente principalitas (La parola corrisponde sia a “primato” che a “principato”), che ogni chiesa, cioè i fedeli di ogni luogo, devono concordare; ed è in essa, più che altrove, che le tradizioni che vengono dagli Apostoli sono state conservate (Adv. Hær., III, 3, 2, P. G. VII, col. 849. Per la giustificazione della traduzione adottata, vedi Christine MOHRMANN, Vigiliæ Christianæ, gennaio 1949, p. 57 – e H. HOLSTEIN S. J., loc. cit, che conclude: « La pietra di paragone dell’Ortodossia sarà dunque la conformità con ciò che la Chiesa di Roma conserva ed insegna: è necessario che, dappertutto, tutte le Chiese si trovino in accordo con quella Chiesa che gode della principalitas privilegiata delle Chiese apostoliche, con quella comunità di Cristiani di tutto il mondo, nella quale la tradizione apostolica è stata conservata intatta e viva fin dall’inizio.»). – È come un “principio di unità” che San Cipriano rappresenta a sua volta la Chiesa di Roma, in un passaggio in cui sarebbe perfettamente arbitrario limitare la sua portata alle sentenze solenni. Parlando degli eretici, che si erano sforzati, per meglio diffondere le loro dottrine, di farsi coprire dall’autorità del Papa: Essi osano – egli grida – fare vela verso la Cattedra di Pietro e la Chiesa principale, fonte dell’unità del corpo episcopale. Hanno dimenticato chi sono questi romani, la cui fede è stata lodata dalla bocca dell’Apostolo stesso, e nei quali “l’errore non può trovare accesso”? (Epist. 59 ad Cornelium, n° 14 P. L. III, col. 818. Vedi sopra, altri testi nello stesso senso). È davvero utile moltiplicare le testimonianze, quando la dottrina che afferma la possibilità di incontrare l’errore nella Chiesa di Roma è stata oggetto di una solenne riprovazione? Questa è infatti una delle proposizioni di Pietro di Osma, che fu colpito da Sisto IV con varie censure, arrivando fino alla nota di eresia: « Ecclesia Urbis Romæ errare potest ». (Prop. 7, condannata dalla bolla Licet ea, del 9 agosto 1478. DENZ. BAN. Enchiridion, n° 730.). Non ci si sorprenderà quindi di vedere l’importanza attribuita, tra i luoghi teologici, all’insegnamento ordinario della Santa Sede e specialmente alle Lettere papali. Quando i teologi, quando i Concili, o i Papi stessi, come ha fatto recentemente Pio XII nel suo Magnificentissimus Deus, cercano nel passato “testimonianze, indici, vestigia, testimonia, indici, vestigia“, che permettono loro di riconoscere una dottrina come autenticamente contenuta nel deposito della fede, la ritengono certa, anche se gli strumenti sono pochi, purché tra questi possano annoverare l’insegnamento costante del Sovrano Pontefice, la fede autentica della Chiesa Romana (« Mirum videri non débet quod existimet Canus res fidei non numero episcoporum, sed pondere et auctoritate Romani Pontificis definiri. .. atque ubi discordes sunt inter se Episcopi ei parti semper adhærendum pro qua stat Romanus Pontifex. » TOUBNELY, De Ecclesia, p. 223 – ed. di Venezia, 1731). Le stesse Encicliche non ne danno forse una prova definitiva? I loro lettori, anche se un po’ distratti, avranno certo notato la formula solenne con cui i Papi testimoniano la loro costante preoccupazione di collegare la propria dottrina a quella dei « loro predecessori di immortale memoria ». Se a volte lo esplicitano, se lo rivendicano contro una falsa interpretazione, si preoccupano soprattutto, nella prospettiva stessa di san Ireneo, di mostrare come prova e a garanzia della sua autenticità, la continuità rigorosa dell’insegnamento pontificale (A parte i testi che si trovano in tutte le Encicliche, è da notare l’abitudine di segnare gli anniversari delle Encicliche stesse, Quadragesimo anno, Ærant Ecclesiæ, etc. La realtà è ben lontana dal perpetuo « bilanciamento » dal « pendolo oscillante », dalla « successione di cadute accettate », che è stata data come caratteristica dell’insegnamento enciclicale. Questa immagine, troppo spesso usata, non prova nulla, se non che chi la usa non ha letto le Encicliche, almeno non in modo da fare attenzione a non farsi ingannare da una semplice evoluzione semantica. Senza dubbio Pio VI condanna il governo popolare (Allocuzione concistoriale del 17-6-93), mentre Pio XII (Messaggio di Natale 1944) specifica solo le condizioni di una sana democrazia, ma per escludere il governo delle “masse“, termine che copre esattamente il termine “popolo” usato da Pio VI. Al contrario, Pio XII amplia il significato di democrazia per permetterle, in termini espliciti, di includere la monarchia, che Pio VI opponeva al governo del popolo. Altre parole, stessa dottrina). – Assistito dallo Spirito Santo nel cui Nome si rivolge a noi in ciascuna di queste Lettere, l’insegnamento ordinario delle Encicliche, come ci appare attraverso la loro continuità, non può essere soggetto a revisione. Anche una definizione solenne non potrebbe contraddirla, perché, divinamente assistita, e non potrebbe mai pronunciarsi contro una dottrina infallibilmente preservata dall’errore (Collect. Lac, col. 404. – Cfr. anche la lettera di Mons. DESCHAMPS a Mons. Ketteler sulla distinzione tra il fatto e l’atto di accordo delle Chiese, prima della definizione: « Certamente il Papa non può definire – come dice Sant’Agostino – se non ciò che è nel deposito della rivelazione, nella Sacra Scrittura e nella tradizione “quam Apostolica Sedes et Romana cum ceteris tenet perseveranter Ecclesia“. Questo è il fatto che il Papa nota prima di definire come ha sempre fatto… e come l’assistenza divina promessagli garantisce che farà sempre. » R.S.P.T. 1935, p. 298). Qualunque sia il modo in cui la parola divina ci raggiunga, essa esige sempre lo stesso atteggiamento da parte nostra. Potremmo noi senza pericolo – scrive Dom Guéranger in una delle pagine più belle del suo Anno Liturgico – imporre limiti alla nostra docilità agli insegnamenti che ci vengono nello stesso tempo dallo Spirito e dalla Sposa che sappiamo essere uniti in modo indissolubile (Apoc. XXII, 17)? Sia che quindi, la Chiesa ci intimi ciò che dobbiamo credere mostrandoci la sua pratica, o con la semplice enunciazione dei suoi sentimenti, o se dichiari solennemente la definizione attesa, dobbiamo guardare ed ascoltare con sottomissione di cuore; infatti, la pratica della Chiesa è tenuta nella verità dallo Spirito che la vivifica; rinunciare ai propri sentimenti in qualsiasi momenti, è l’aspirazione continua di questo Spirito che vive in essa; e per quanto riguarda le sentenze che Essa pronuncia, non è Essa sola che le pronuncia, ma lo Spirito che le pronuncia in Essa ed attraverso di Essa. Quando è il suo Capo visibile che dichiara la dottrina, sappiamo che Gesù si degnò di pregare affinché la fede di Pietro non venisse meno, cosa che ottenne dal Padre suo e per la quale ha affidato allo Spirito il compito di mantenere Pietro in possesso di un dono così prezioso per noi » (L’Anno Liturgico, Parigi 1950: “Il Giovedì della Pentecoste“, t. III, p. 609).

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE (2)

Dom PAUL NAU

Monaco di Solesmes

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE

Saggio sull’autorità de loro insegnamento

Les Editions du Cèdre 13, Rue Mazarine PARIS

II.

Lettere di unità

È alla natura stessa delle Encicliche che vorremmo ora chiedere la soluzione dell’apparente antinomia tra i due caratteri che abbiamo appena scoperto in questi atti pontifici: le Encicliche sono lettere, sono lettere circolari indirizzate dal Papa ai Vescovi.  Sono lettere. Senza dubbio questa parola può designare documenti che appartengono solo lontanamente al genere epistolare, di cui conservano solo l’indicazione del destinatario e quella dell’Autorità di provenienza. Le Bolle di canonizzazione dei santi sono Lettere, Litterae decretales, quelle che specificano i limiti di una diocesi o conferiscono poteri a un Vescovo sono anch’esse Litteræ Apostolicæ; è questo stesso nome che portano i Brevi delle indulgenze o di altri privilegi (Sotto il loro protocollo epistolare si nascondono veri e propri atti amministrativi o sentenze dogmatiche: beatificazione di un servo di Dio, delimitazione di un distretto territoriale, condanna di un errore, conferimento di un beneficio o privilegio. In tutto questo, come nelle nostre attuali lettere di credito o di scambio, non c’è nulla di una vera corrispondenza, di uno scambio di opinioni o di pensieri personali).  Le Encicliche, invece, sono lettere in un senso molto più stretto (CICERONE specifica così l’oggetto della lettera e ci sono, come sapete, più tipi di lettere; ma tra tutte la più autentica … è quella a cui si deve l’invenzione stessa delle lettere, quella che è nata dal desiderio di informare gli assenti, quando era di interesse per loro o per noi che fossero istruiti in qualcosa”. (Lettera CLXXIII, A Curion (Fam. II, 4 ), trans. Constans. Ed. “Les Belles Lettres”, t. III, p. 170-172). Non senza dubbio in questo stile abbandonato della corrispondenza privata (Rileggiamo, se vogliamo cogliere la sfumatura, la corrispondenza così piena di verve e finezze indirizzata da Benedetto XIV al Card. del Tonchino DE HEECKEREN, Correspondance de Benoît XIV, Paris, Pion 1912, 2 vol.- Siamo lontani dalle Encicliche dello stesso Papa.). Non è più uno scambio amministrativo ma personale, una conversazione scritta, sia che assuma il tono dell’insegnamento e si rivolga alla mente, sia quello dell’esortazione per condurre all’azione. Siamo in una corrispondenza ufficiale, senza dubbio, ma sempre in una corrispondenza.  Le Encicliche sono lettere; come stupirsi che non abbiano il rigore di espressione e la precisione dei termini propri dei testi legislativi o delle decisioni giudiziarie? Ma allo stesso tempo, queste lettere possono rivendicare un’autorità sovrana: come circolari del Papa ai Vescovi, emanano dal Pastore dei pastori. « Circulari » è infatti la traduzione latina della parola greca – εν κυκλος – « in cerchio ». Le Encicliche sono circolari indirizzate all’Episcopato.  La loro formula di indirizzo è nota: “Ai nostri venerabili fratelli, i Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi e altri Ordinari, in grazia e comunione con la Sede Apostolica, Pio XII, Papa… (Litteræ encyclicæ, Venerabitibus Pratribus, Patriarchis, Primatibus, Archiepiscopis, Episcopis aliisque locorum Ordinariis pacem et communionem cum Apostolica Sede habentibus. Pio Papa XII. Venerabiles Fratres Salutem et Apostolicam benedictionem. Summi Pontificatus; 20 ottobre 1939. BP. I, 198). A volte, oltre al corpo episcopale, sono indicati come destinatari il clero o anche i fedeli dell’universo. Questa estensione, tuttavia, rimane accidentale e non impedisce che le Encicliche siano soprattutto Lettere del Papa ai Vescovi. Una sola eccezione si può notare nei tempi moderni, che non fa che sottolineare ulteriormente il principio generale: quella dell’enciclica In Præclara, indirizzata da Benedetto XV, “ai professori e agli studenti di Lettere e Area del mondo cattolico”, in occasione del sesto centenario della morte di Dante (Dilectis Filiis Doctoribus et Alumnis Litterarum Artique optimarum Orbis Catholici In Præclara, 30 aprile 1921).  È ai Vescovi che il Papa si rivolge nelle Encicliche, e parla loro come loro capo. Questo carattere appare già nella prima Enciclica dei tempi moderni, Ubi Primum, scritta da Benedetto XIV, all’inizio del suo pontificato (3 dicembre 1740. Epistola Encyclica et Commonitoria ad omnes Episcopos. S. D. N. Benedicti Papæ XIV Bullarium, Venezia 1778, p. 2). Il Papa si appella esplicitamente al suo ufficio di Pastore dei Pastori: « Ai nostri Venerabili Fratelli, Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi, Benedetto XIV, Papa,  Venerabili fratelli, saluti e benedizione apostolica. Non appena piacque a Dio, ricco di misericordia, di elevare la nostra umile persona al seggio supremo di Pietro e di affidarci il potere vicario di Nostro Signore Gesù Cristo di governare tutta la sua Chiesa… Ci è sembrato di sentire questa voce divina risuonare nelle nostre orecchie: “Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore”. Con queste parole, il Pontefice di Roma, successore dello stesso Pietro, ha ricevuto dal Signore l’incarico di governare non solo gli agnelli del suo gregge, cioè i popoli di tutto il mondo, ma anche le pecore che sono i Vescovi, perché, come madri dei loro agnellini, generano i popoli in Cristo Gesù e li fanno rinascere. Accogliete dunque, Fratelli, in questa Lettera che vi indirizziamo, le parole del vostro Pastore; a voi che siete chiamati a partecipare all’ufficio che abbiamo ricevuto da Dio in pienezza, questi ammonimenti ed esortazioni faranno capire qual è la preoccupazione che ci spinge a non tralasciare nulla dei doveri del nostro ufficio e qual è la misura della nostra paterna carità nei vostri confronti (La lettera si conclude con un paterno invito rivolto ai Vescovi: “Con piena fiducia, venite a Noi che vi amiamo come Fratelli e aiutanti, come nostra corona nelle viscere di Gesù Cristo. Venite alla vostra Madre, che è anche la Madre, capo e padrona di tutte le chiese, la Santa Chiesa Romana, in cui la religione è nata, dove la fede poggia come su una roccia, dove l’unità del sacerdozio ha la sua fonte, dove la verità è insegnata senza corruzione. Non abbiamo desiderio più ardente, né più gradito, che unire i nostri sforzi ai vostri per procurare la gloria di Dio, la salvaguardia e la protezione della fede cattolica, e per ottenere la salvezza delle anime, per la quale siamo pronti a dare con gioia, se fosse necessario, il nostro sangue e la nostra vita. Ubi Primum. Bullarium, 1. c.). » Questa stessa enfasi si troverà in tutte le Encicliche inaugurali. All’inizio di ogni Pontificato, la prima preoccupazione di colui che è stato appena elevato alla sede di Pietro è di rafforzare i legami che lo uniscono al corpo episcopale di cui è a capo, di assicurare tra lui e i Vescovi l’unità di programma nel governo della Chiesa, l’unità di dottrina contro gli errori del giorno. E per raggiungere questo scopo, ricorre all’organo di un’Enciclica. Non possiamo passare in rassegna tutti i Pontificati, ma alcuni esempi saranno sufficienti. – Dopo la Rivoluzione Francese, fu da Venezia, dove si era svolto il Conclave, che Pio VII riprese il contatto con i Vescovi che erano stati isolati dalla Santa Sede per troppo tempo. Fu la consapevolezza del dovere affidatogli di “confermare i suoi fratelli” che lo invitò anche a prendere la sua penna: « Sono già passati due mesi… da quando Dio ha imposto alla nostra infermità il pesante fardello di guidare la sua Chiesa. Alla fine, dobbiamo obbedire, non tanto a un’usanza dei tempi più antichi, quanto a un nero affetto per voi. Formata molto tempo fa nelle relazioni di confraternita, la sentiamo oggi meravigliosamente accresciuta e giunta al suo culmine; perciò, niente è più dolce per Noi e più piacevole che conversare con voi almeno in queste Lettere. La natura del dovere particolare e principale del nostro ufficio, registrato ed espresso nelle parole: “Conferma i tuoi fratelli”, è ciò che ci impegna anche potentemente e ci determina a farlo. Perché in questi tempi – così sfortunati e così travagliati – Satana non meno che in passato “ha cercato di setacciarci tutti come il grano” (Dia Satis, 15 maggio 1800. BP. 240.). »  – È quasi negli stessi termini che Gregorio XVI si scusa per non aver potuto indirizzare prima la lettera ai Vescovi, « sollecitato più dal suo affetto per loro e dal dovere del suo ufficio, che da un’antica usanza ». Se la tempesta sorta all’inizio del suo Pontificato ha ritardato l’espressione del suo pensiero, non ha fatto altro che mettere in maggiore evidenza il pericolo di errori minacciosi, e l’Enciclica insiste più particolarmente sulla necessità dell’unione nella difesa della fede: « … Agiamo in unità di spirito per la nostra causa comune o, per meglio dire, per quella di Dio; e di fronte ai nemici comuni uniamo la nostra vigilanza, … uniamo i nostri sforzi. Agamus idcirco in unitate spiritus communem nostram seu vertus Dei causant et contra communes hostes, pro totius populi salute, una omnium sit vigilantia, una contentio. » Lo scopo dei vostri sforzi e l’oggetto della vostra continua vigilanza deve quindi essere quello di custodire il deposito della fede in mezzo a questa vasta cospirazione di uomini empi che vediamo, con il più grande dolore, formata per dissiparlo e perderlo. Si ricordi che il giudizio sulla sana dottrina di cui il popolo deve essere nutrito, e il governo e l’amministrazione di tutta la Chiesa, appartengono al Romano Pontefice…  Quanto ai Vescovi in particolare, il loro dovere è di rimanere inviolabilmente attaccati alla Cattedra di Pietro, di custodire il santo deposito con scrupolosa fedeltà, e di pascere il gregge di Dio che è loro sottoposto… » (Mirari Vos, 15 agosto 1832. BP. 205). Quest’ultima citazione ci aiuterà a capire il ruolo proprio delle Encicliche dottrinali. – Partendo da un’esortazione a conservare il deposito, Gregorio XVI mostra qui la procedura: l’unione dei vescovi intorno al Papa. Questo è infatti il principio stesso della costituzione della Chiesa, come ci ricorderà Pio IX (Per esempio Amantissimus Humani Generis dell’8 aprile 1862, Acta Pii IX, v. III, p. 425. Ut autem haec fidei, doctrinaeque unitas semper in sua servaretur Ecclesia, Petrum ex omnibus selegit unum, quem… inexpugnable Ecclesiæ suæ fundamentum et caput constitua, ut… pasceret oves et agnos confirmaret Fratres… ), e specialmente Leone XIII. Quest’ultimo Papa dedicò un’intera Enciclica a spiegare “il piano e lo scopo di Dio nella costruzione della società cristiana” (Satis Cognitum, 29 giugno 1896. BP. 5, 47.). – Questo è il piano. L’Autore divino della Chiesa, avendo decretato di darle l’unità di fede, di governo e di comunione, scelse Pietro e i suoi successori per stabilire in loro il principio e il centro dell’unità. Ecco perché San Cipriano scrive: « Il Signore si rivolge a Pietro: “Io ti dico che tu sei Pietro… Su uno solo costruisce la Chiesa… E sebbene dopo la sua risurrezione Egli dia uguale potere a tutti e dica loro: “Come il Padre mio mi ha mandato…”, tuttavia, per dare piena visibilità all’unità, Egli stabilisce in uno solo, con la sua autorità, l’origine e il punto di partenza di questa stessa unità. Nessuno, quindi, può avere una parte nell’autorità se non è unito a Pietro (Ibid.). È a Pietro, il fondamento della Chiesa, che è stata promessa l’indefettibilità. Da allora in poi, il modo per non fallire sarà quello di rimanere uniti a Pietro, di allineare il proprio insegnamento al suo. – Ma come rimanere uniti a Pietro, come conformare il proprio insegnamento a quello di Pietro? È qui che entra in gioco il ruolo delle Encicliche dottrinali. Senza dubbio in certe circostanze si può stabilire un contatto diretto tra il Papa e i Vescovi. Questo è il caso delle visite ad limina e soprattutto dei Concili Ecumenici. A volte, in caso di errore manifesto, il Papa interviene con una sentenza formale di condanna.  Ma è in ogni momento che il nemico si aggira, quærens quem devoret, che l’errore minaccia, che diventa insidioso, che, tra i pastori come tra il gregge, può sorgere l’esitazione. È allora che una lettera Enciclica indicherà ai Vescovi i punti più particolarmente minacciati, per rafforzare le loro certezze e per portare loro luci sicure per rettificare i fuorviati o per rassicurare i timidi. I capi delle diocesi dovranno solo fare propri questi insegnamenti di Roma (non sono solo portavoce del Papa, ma Pastori essi stessi, anche se subordinati), trasmetterli, spiegarli ai loro fedeli e portarli alla portata dei più umili. – La prima Enciclica di Benedetto XIV non aveva a che fare con questioni dottrinali. Sei anni dopo, nell’Italia settentrionale, sorse una discussione sulla legittimità di certi contratti. Questo era precisamente il caso dei prestiti ad interesse, la cui errata interpretazione sarebbe stata alla base degli abusi del capitalismo moderno. Il Papa ha indirizzato un’Enciclica ai Vescovi della regione dove era sorto il dibattito. Benedetto XIV non qualifica direttamente l’opinione errata, non la censura. Ma dopo aver preso il consiglio dei Cardinali e dei teologi competenti, indica ai Vescovi il principio delle decisioni che essi stessi dovranno prendere, e detta loro ciò che d’ora in poi, e senza ammettere ulteriori discussioni, dovrà servire come base del loro insegnamento: In questo modo sarete istruiti in tutto questo, Venerabili Fratelli, e quando terrete i sinodi, parlerete al popolo e lo istruirete nella dottrina cristiana, nulla di contrario ai sentimenti che abbiamo riferito sarà mai avanzato. Vi esortiamo di nuovo a usare tutta la vostra cura affinché, nelle vostre diocesi, nessuno abbia l’audacia di insegnare il contrario, né oralmente né per iscritto (Vix Pervenit, del 1° novembre 1745, trans. TIBERGHIEN, Tourcoing, 1914). – È allo stesso modo per assicurare tra i membri del corpo episcopale, del collegio docente della Chiesa, l’unità della dottrina, che saranno scritte tutte le grandi Encicliche, da Gregorio XVI a Pio XII. Abbiamo avuto modo di citare Mirari vos, e dovremmo almeno menzionare Quanta cura e tutta la serie di lettere in cui Leone XIII ricorda ai Vescovi, i principi su cui deve essere costruita la società umana e quelli che devono guidarla nelle sue relazioni con la Città di Dio. – Non fu un pensiero diverso, come abbiamo visto, quello che portò Pio X a scrivere la Pascendi, per delineare ai Vescovi le regole da seguire per arginare la marea montante del modernismo e contrastarla con la sana dottrina. Questo sembra essere ancora lo scopo di Pio XII nel trittico delle sue tre grandi Encicliche. “Nel suo messaggio inaugurale, espone i presupposti di un ordine per la ricostruzione individuale, sociale e politica dei popoli. Con Mystici Corporis, fa luce sulla vita interna della Chiesa nei suoi fondamenti dogmatici. Mediator, infine, mira alla vita intima ed esterna della Chiesa nel suo culto, mettendo in evidenza gli errori teorici e pratici che stanno proliferando negli ultimi anni (Mons. Fiorenzo ROMITA, Bollettino Ceciliano, Maggio-Giugno 1948). Conserveremo alcuni passaggi di Pio XI, più espliciti sul ruolo delle Encicliche come collegamento tra l’insegnamento del Sommo Pontefice e quello dei Vescovi.  All’inizio del suo Pontificato, il desiderio di questo Papa sarebbe stato quello di raccogliere intorno a sé il collegio dei Vescovi riprendendo le sessioni interrotte del Concilio Vaticano. In mancanza di questo contatto personale, l’Enciclica porterà il suo incoraggiamento e il suo pensiero a tutti. Ci avete dato una testimonianza impressionante del vostro zelo quando… in occasione del Congresso Eucaristico di Roma, siete venuti quasi tutti nella Città Eterna da tutte le parti del mondo.  Questa assemblea di pastori… Ci ha suggerito l’idea di convocare a tempo debito… una simile assemblea solenne per applicare i rimedi più appropriati dopo un tale sconvolgimento della società umana… Tuttavia, non osiamo risolverci a procedere senza indugio alla ripresa del Concilio Ecumenico aperto dal santissimo Papa Pio IX… che ha portato a termine solo una parte, anche se molto importante, del suo programma. In queste circostanze… la coscienza del nostro ufficio apostolico e dei nostri doveri paterni verso tutti, Ci ispira e Ci fa una specie di obbligo di aggiungere come nuove fiamme al fuoco che vi divora, nella certezza che le nostre esortazioni vi porteranno a dedicare una cura ancora più attenta alla parte di gregge che il Maestro ha affidato a ciascuno di voi… (Ubi Arcano, 23 dicembre 1922. BP. I, 165-166. ). Più tardi, quando fu istituita la festa di Cristo Re, un’altra Enciclica, Quas Primas, avrebbe portato ai Vescovi il tema del loro insegnamento pastorale: « Spetterà poi a voi rendere accessibile all’intelligenza e al sentimento del popolo tutto ciò che Noi diciamo sul culto di Cristo Re, per far sì che la celebrazione annuale di questa solennità porti frutti in molti modi, fin dall’inizio e in futuro. Vestrum erit quidquid… dicturi su mus, ad popularem intelligentiam et sensum accommodare. » (Quas Primas, 11 dicembre 1925. BP. S, 67. ). Qui vediamo in azione il processo stesso di custodire l’unità della fede nella Chiesa, come stabilito da Gregorio XVI, Pio IX e Leone XIII. Emanata dal Sovrano Pontefice, centro stesso dell’unità, l’Enciclica, rivolta ai Vescovi di tutto il mondo, spiegata e insegnata ai fedeli, sarà la sicura garanzia della comunità della dottrina e della fede. Pio XI tornerà più esplicitamente su questo punto nella Mortalium Animos, in relazione alle deviazioni dell’ecumenismo: « La coscienza del nostro Ufficio Apostolico ci proibisce di permettere che errori perniciosi conducano fuori strada il gregge del Signore. Perciò, Venerabili Fratelli, ci appelliamo al vostro zelo per impedire un tale male. Perché siamo convinti che con i vostri scritti e le vostre parole, ognuno sarà in grado di far comprendere facilmente ai suoi fedeli i principi e le ragioni che stiamo per esporre; e i Cattolici ne trarranno una regola di pensiero e di condotta per l’opera di riunire, in qualsiasi modo, in un solo corpo, tutti coloro che rivendicano il nome cristiano. Confidimus enim, per verba et scripta cujusque passe facilius et ad populum per-tingere et a populo intëlligi quæ mox principia rationes proposituri sumus, unde catholici accipiant quid sibi sentiendum agendumque » (Mortalium Animos, 6 gennaio 1928. BP. 4, 67. Vedi nello stesso senso Leone XIII, Cum Multa dell’8 dicembre 1882: « Spetterà a voi, cari Figli e Venerabili Fratelli, essere gli interpreti del nostro pensiero al popolo, e fare in modo, per quanto vi sarà possibile, che tutti conformino la loro condotta ai nostri consigli. BP. 7, 55. Vedi anche ard. SALIÈGE, 26 febbraio 1943: « È dovere del Vescovo far sentire la parola del Papa; provo gioia francese e orgoglio cristiano nel farvela sentire » citato in: Menus propos du Card. Saliège, I. Le Chrétien, ed. l’Equipe, Toulouse, p. 8). Se le Encicliche sono dunque il mezzo di unità tra il Papa e i Vescovi, i loro caratteri, che prima ci sembravano opposti, sono al contrario perfettamente armonizzati. Come stupirsi che non abbiano l’asciuttezza di un testo legislativo o giudiziario? Che ricordino la dottrina o denuncino l’errore, rimangono sempre lettere. Ma le lettere del Dottore supremo agli altri Dottori, per dare coesione all’insegnamento di tutti, procedono dalla più alta Autorità dottrinale sulla terra, sono al principio stesso del Magistero universale della Chiesa e dell’unità della fede, e la loro autorità e importanza non potrebbero quindi mai essere esagerate.

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Le Encicliche sono gli organi di coesione dottrinale tra i membri del corpo episcopale e il loro Capo, la garanzia dell’unità con l’insegnamento pontificio e quindi della fedeltà al deposito affidato da Cristo. Forse le nostre conclusioni si riveleranno affrettate. Non avremmo preso troppo alla lettera formule che sono indubbiamente molto solenni, ma che, a causa del loro carattere un po’ ieratico, siamo abituati a sorvolare rapidamente senza insistere troppo sul loro significato? Non potremmo trovare, a parte le Encicliche stesse e le loro formule stereotipate, il pensiero dei Sommi Pontefici chiaramente esposto? Nessuno di loro ha mai pensato di spiegarci, in un testo positivo, la natura e lo scopo delle Encicliche? Forse Benedetto XIV aveva previsto questo desiderio. In ogni caso, ha risposto in anticipo. Appena qualche anno dopo l’invio di Ubi Primum, il Papa pubblicò il suo Bollario o raccolta dei suoi atti pontifici, tra i quali fece inserire le sue Encicliche. L’ha preceduta con una prefazione dedicatoria, indirizzata “ai dottori e agli studenti di diritto dell’Università di Bologna“, che può essere giustamente considerata l’atto di nascita delle Encicliche moderne (Benedictus Papa XIV, Doctoribus et Scholaribus universis Bononiæ commorantibus et Juri canonico et civili studentibus. Bullarium. p. III.). È sorprendente non vedere questo documento citato più spesso, anche se è essenziale per lo studio delle Encicliche. Per comodità dei nostri lettori, riproduciamo qui i passaggi essenziali: Neque illud a Nobis prætereundum est, Romanis Pontificibus morem perpetuo fuisse, ut Episcopos universos, vel alicujus tantum Provinciæ ad Catholicam Fidem custodiendam, morumque disciplinam aut servandam, aut restaurandam Literis Encyclicis excitarent. Qua in re postremis hisce temporibus, usi sunt opera Congregationum… Divinæ targitatis beneficto ad summum Pontificatum evecti, Literas Encyclicas ad universos Episcopos, vel alicujus Provinciæ et nonullas etiam privatim ad aliquos episcopos dedimus, prout temporum ratio postulabat, quæ huic primo Volumini adjunguntur. Nel suo autem conscribendis Epistolis, veterem Prædecessorum nostrorum (si postrema tempora excipiantur) consuetudinem revocandam duximus, qua tpsi per se Literas Episcopis dabant, rati majorem vim id habiturum, cum amjyliorem Pontificiæ benevolentiæ significationem ipsius Pontificis Epistolæ testari videantur Episcopis, quibuscum Me Fraternitatis vinculo conjungitur quam quæ ab aliis, auctoritate licet Summi Pontificis, conscribuntur. p. IV). Il Papa doveva avvertire i lettori: era infatti la prima volta che documenti diversi da Costituzioni o Bolle, e da importanti Brevi, venivano inseriti in una raccolta di questo tipo (2 S) Il Papa fa qui appello ai suoi ricordi personali: Has Literas Præsules, qui erant a Secretis earum Congregationum, plerumque exorabant… Id nos diligentissime exequuti sumus, cum adhuc in minoribus munus a Secretis Congregationis Concilii per decern et amplius annos vbivimus. Typis emittimus hoc primum Volumen, quod nostras Constitutiones, videlicet Bullas, et aliqua Brevia, Literas Encyclicas, et alia hujusmodi complectitur. Ibidem, p. III. 2). Questa innovazione, inoltre, non è stata l’unica, né la principale, sulla quale il Sovrano Pontefice ha dovuto spiegarsi. Le Encicliche erano senza dubbio tradizionali nella Chiesa, e Benedetto XIV, nel riprendere il loro uso, si riferisce espressamente a questa antica usanza. Ma sotto i Pontificati precedenti, i Papi avevano cessato di usare loro stessi questo modo di insegnare e ne avevano abbandonato l’uso alle congregazioni romane (Non è stato quindi inutile, nell’inserire le Encicliche nel Bollario, ricordare la vera natura di queste Lettere, e far conoscere in ogni caso il motivo della loro ricomparsa tra gli altri testi pontifici. Questa ragione, secondo Benedetto XIV, è la stessa che in passato aveva portato i Papi a scrivere personalmente ai Vescovi: dare maggior peso alle Encicliche. Le lettere del Papa stesso non saranno forse un segno più certo di benevolenza verso i Vescovi, suoi fratelli nell’episcopato, che se fossero emesse da altri firmatari, anche su mandato del Sommo Pontefice? (lbid., p. IV, testo citato sopra). – Ma perché questo segno di benevolenza, se non per rendere più stretti i legami dei Vescovi, non solo con l’amministrazione pontificia, ma con lo stesso Capo del Collegio Apostolico, per stringere e rafforzare attorno al Pastore supremo la coesione del corpo dei pastori della Chiesa? Inoltre – e il grande canonista Benedetto XIV non aveva paura di scendere a questi umili dettagli – le Encicliche, atti personali del Sovrano, non dovranno essere rivestite di quelle formalità di cancelleria, garanzie di autenticità, che erano le pergamene speciali, le scritte complicate, i sigilli tradizionali delle Bolle e dei Brevi (Le Bolle scritte su pergamena ruvida, spessa, in una scrittura gotica molto ornata, e difficile da leggere, era sigillata con una palla di metallo (piombo o oro). Erano datate in Calende e Idi, e l’anno veniva contato non dal primo gennaio, ma dall’anniversario dell’Incarnazione, il 25 marzo. I Brevi, su membrane più sottili e in lettere latine, erano sigillati, su cera rossa, con il famoso anello del pescatore). Come garanzia contro i falsari, basterà che queste lettere siano stampate a Roma sotto gli occhi del Papa, sulla generosa e comoda carta dei torchi vaticani, e che la loro raccolta sia depositata negli archivi, in due copie firmate dallo stesso Sovrano Pontefice (Quia fortasse non deest aliquis, aut etiam non defuit, qui acceptis nostris Literis, Romæ licet impressisi nostroque Nomine inscriptis, dubius tamen incertusque haereat, utrum Ños ipsarum Auctores essemns; (quasi vero temeritas hominum eo devenire possit, ut aliquis, Nobis vitam agentibus, Literas Encyclicas nostro Nomine falso inscríbese, casque Romanis Typis commettere audeat) ad omnem dubitationem tollendam reponi jussimus duo codicis hujus exemplaria, quæ manu nostra subscripsimus, nostroque Signo obfirmavimus, unum in Archivio Castri S. Angeli, alterum in Archivio secreto Vaticano, ut hæc monumenta certa, ac perpetua faciamus, nec ulto unquam tempore Literis Encyclicis, aut alìis in hunc codicem relatis, sfides imminuatur. (Prefazione al Bullarium, p. IV.). Possiamo vedere quanto preziosi possano essere questi documenti nel rafforzare la coesione del corpo episcopale intorno al suo capo. Come atti personali del Papa, le Encicliche non possono non essere ricevute con attenzione dai Vescovi, mentre, come semplici lettere stampate, alleggerite di ogni inutile formalità, possono essere rapidamente inviate a tutte le estremità della cristianità per sbarrare la strada agli errori che rinascono continuamente. Non sosteniamo, tuttavia, che questa mancanza di solennità nella loro forma minimizzi la loro importanza: come abbiamo appena visto, questa semplicità è solo una conseguenza del loro carattere di atti personali del Sovrano Pontefice. E questi atti autentici del “Pastore dei Pastori”, indirizzati a coloro che partecipano al potere di governare e insegnare la Chiesa, hanno come oggetto proprio le questioni essenziali di questo ufficio: la vostra fede e la disciplina dei costumi. Tale era infatti, secondo Benedetto XIV, il loro contenuto nell’uso antico: Neque illud a Nobis prætereundum est Romanis Pontificibus morem perpetua fuisse, ut episcopos universos vel alicujus tantum provinciae ad catholicam fidem custodiendam, morumque disciplinam aut servandam aut restaurandam, Litteris encyclicis excitarent (Bullarium, p. IV, 1). – Questo antico uso è proprio quello che il Sovrano Pontefice vuole reintrodurre. Non possiamo quindi pesare troppo questi termini: fede e morale. Questo è precisamente l’oggetto della missione affidata dal Signore a Pietro e agli Apostoli e ai loro successori, il terreno sul quale l’assistenza divina è promessa loro nella misura in cui rimangono uniti al centro dell’unità, a Pietro, il fondamento incrollabile della Chiesa. – È necessario insistere di più sull’importanza capitale di questi documenti, grazie ai quali, dal suo stesso centro, si rafforza l’unità, si assicura la comunità di dottrina e di governo. Essi permettono ai pastori dispersi di avere un solo insegnamento e una sola azione in comune con il Pastore Supremo. Non è sorprendente, quindi, che Benedetto XIV abbia ordinato che le Encicliche fossero inserite nel Bollario e, alla fine della Lettera ai Dottori di Bologna, che questa raccolta fosse inclusa nel corpo stesso della Legge, nella raccolta “autentica” dei documenti emessi dalla Chiesa. La prefazione al Bollario di Bologna, tuttavia, è un ottimo esempio di questo. – La prefazione al Bollario di Benedetto XIV corrobora così pienamente la conclusione a cui la stessa lettura delle Encicliche ci aveva portato: queste Lettere, indirizzate dal Papa come Supremo Pastore ai Vescovi, suoi co-pastori, sono il vincolo della loro unità di dottrina e di governo, e come tali, stanno al principio dell’unità di fede e di disciplina nella Chiesa.

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La Lettera ai Dottori di Bologna non solo delinea i tratti essenziali di queste Encicliche, che vengono incluse per la prima volta nel Bollario, ma le presenta anche come eredi di una tradizione antica quanto la Chiesa: Veterem Prædecessorum nostrorum… consuetudinem revocandam duximus. È a questa tradizione, dunque, che dobbiamo fare riferimento se vogliamo portare alla luce la vera natura di questi documenti. In un recente articolo sull’Unione dei Vescovi e il Vescovo di Roma nei primi due secoli della Chiesa (La Vie spirituelle, supplemento, 15 maggio 1950, pp. 181-205), M. Jean Colson ha richiamato l’attenzione sul ruolo svolto nei primi secoli dalle lettere episcopali nel mantenere l’unità nella fede. Dopo aver ricordato alcuni degli scambi epistolari di cui si è conservata traccia, M. Colson conclude: « Tale è questa unione fraterna dei Vescovi che crea e mantiene l’unità della Chiesa attraverso una corrispondenza incessante, controllando la conformità delle opinioni di ogni Vescovo con tutto l’episcopato. Tutti i Vescovi, stabiliti fino ai confini della terra, mantengono così una comunicazione reciproca nello Spirito di Gesù Cristo (s. IGNAT. D’ANT. Eph., III, 2). E così è anche, come scrive Sant’Ireneo, che questa predicazione che la Chiesa ha ricevuto… sebbene sia sparsa in tutto il mondo, la custodisce con cura come se avesse una sola anima e un solo cuore, e con perfetta armonia la predica, la insegna e la trasmette, come se avesse una sola bocca. E se le lingue sulla superficie del mondo sono diverse, la forza della Tradizione è una e identica… (Adv. Hær, I, X, 2. PG. 7, 551). – Questa unità della Tradizione, fondamento dell’unità della Chiesa, è realizzata dall’episcopato. Il Vescovo nella sua comunità non è che un portavoce di quel grande corpo episcopale in cui si incarna lo Spirito di Gesù Cristo. È quindi importante che egli sia una voce fedele secondo l’insegnamento comune e tradizionale di cui è custode, in solidarietà con i suoi colleghi. Da qui la preoccupazione di ogni Vescovo, la necessità di sentirsi in comunione di pensiero con gli altri Vescovi, di controllare le sue idee e la sua condotta secondo il consiglio e la pratica dei suoi fratelli nell’episcopato (Vie spir., 1. e , p. 185). – È proprio questo stesso ruolo di collegamento tra Vescovi che, in un’opera dotta (De Litterìs Éncyclicis Dissertatio Francisci Dominici Bencini, abbatis sancti Pontii, ad Magnum Victorium Amedeum, Sardiniæ Regem. Augustæ Taurinorum MDCCXXVIII), un contemporaneo di Benedetto XIV, François Dominique Bencini, abate di Saint Pons, si mostrava essere quello delle Encicliche. « È di essi – scrive nella sua prefazione – che i prelati della Chiesa si sono serviti per conservare la purezza dei dogmi e l’unità dei cuori. Questa, se non mi sbaglio, è la ragione per cui le prime chiese apostoliche e quelle che fondarono furono in grado di mantenere il deposito della Santa Dottrina immacolato e libero da ogni macchia, interpolazione o frode. Questa è la pietra di paragone che ci permette ancora, come ai nostri padri, di verificare la tradizione autentica di ogni dogma e che garantisce l’antichità, l’universalità e l’unità della fede contro le novità profane di tutti i tempi, e questo senza difficoltà, ma con piena sicurezza » (Prœmium operis, II). In tutta la sua opera, gli piace sottolineare questo obiettivo essenziale delle Encicliche: « mantenere pura e integra l’unità della fede e dei costumi … (Fidei et morum integritatem puritatemque, (Prooemium IV) et animarum concordiam, fidei unitatem et consonam constantemque dogmatum confessionem » (§ 20, III).  – Queste espressioni, almeno per quanto riguarda l’idea che esprimono, ricordano troppo da vicino la prefazione del Bollario perché il confronto non sia necessario. Sembra difficile, inoltre, che Benedetto XIV non conoscesse questa Dissertazione. Come poteva lo storico dei costumi della Chiesa, il Cardinale Lambertini, e l’autore del De institutionibus Ecclesiæ, la cui prima preoccupazione dopo la sua elevazione alla sede papale fu di far continuare dai fratelli Ballerini la pubblicazione delle Lettere dei Papi, iniziata da Dom Coustant. (Epistolæ romanorum pontificum… a S. Clemente I usque ad Innocentinm III …studio et labore Domni Pétri Coustant, presbyteri et monachi Ördinis S. Benedicti e Congregatione S. Mauri. Tomus 1, ab anno Christi 67 ad annum 440. Parisiis, MDCCXXL – La pubblicazione è stata prematuramente interrotta dalla morte dell’autore. Solo il primo volume è stato pubblicato).  Come, finalmente, questo avido collezionista di libri nuovi (Cf. DE HEEG. Corrispondenza di Benedetto XIV, vol. I, p. 320, lettera del 26 aprile 1747), poteva egli ignorare un’opera pubblicata a Torino su un argomento che gli stava tanto a cuore, solo quattro anni prima della sua elevazione alla sede di Bologna?  In ogni caso, i dettagli forniti da Bencini, non solo sul ruolo delle Encicliche, ma sul modo stesso della loro efficacia, gettano una luce singolare sulle linee concise del Bollario.  Per l’abate di Saint-Pons, come per Benedetto XIV, le Encicliche sono effettivamente lettere circolari. Il loro nome deriva dal fatto che i loro destinatari sono ovunque, e Bencini cita Esichio che definisce il termine: “quod ubique circumit, ubique permeat“. Erano ancora chiamate “cattoliche” da καθολος universus, nella misura in cui erano rivolte all’universalità del mondo cristiano; così le Epistole cattoliche potrebbero essere considerate le prime Encicliche.  – Tuttavia, si era soliti riservare l’espressione “lettera Enciclica” a quelle indirizzate a tutti i Vescovi, o almeno a un grande gruppo di essi, da altri Vescovi e soprattutto dal Sommo Pontefice o dai patriarchi orientali (Quelle inviati annualmente ai loro suffraganei dai Patriarchi di Alessandria sono rimaste famose. Non solo tenevano i Vescovi d’Egitto in stretta comunione, ma erano indirizzate a Costantinopoli, dove venivano lette nella festa di Pasqua, mentre allo stesso tempo la lettera del patriarca di Costantinopoli veniva letta ad Alessandria. (PREDESTINATUS, Hær. I,, 89, PL. 53, 619). Sant’Epifanio parla anche di 70 Encicliche indirizzate da Sant’Alessandro ai vescovi della Palestina riguardo ad Ario. (EPIPH. Hær, LXIX, 4. P. G. 42-210.). Queste circolari, affidate a messaggeri scelti con cura (A volte Vescovi, per lo più diaconi. Cfr. BENCINI, § IX, De Dominicis cursoribus), dovevano essere pubblicamente ricevute, se non sempre sottoscritte dai loro destinatari… come segno di comunione con le chiese da cui emanavano queste lettere (Ursazio e Valente tentarono invano di fare pressione sui Vescovi per ottenere questa firma, per la loro stessa lettera: aut subscribite, aut ab ecclesia recedite. Episodio. S. Athanasii ad Solitarios. PG. 25, 733). Così, firmare un’Enciclica scritta da un eretico significava rendersi partecipe dei suoi errori, mentre rifiutare di aderire a una lettera di Roma o di ricevere la sua approvazione significava tagliarsi fuori dalla comunione cattolica (Esigenda di Papa Liberius nei confronti degli ariani che, in caso di rifiuto, dovevano essere esclusi dalla Chiesa). Possiamo vedere quale arma facile fossero le Encicliche, sempre a portata di mano, per chiudere ogni via di fuga agli errori e denunciarli a tutta la cattolicità. Per condannare uno scisma, non c’era bisogno di convocare un Concilio di Vescovi; soprattutto in tempi di persecuzione, quando tali riunioni risultavano impossibili, le Encicliche costituivano una sorta di Concilio permanente (Aug. Ad Bonif. I, 4. PL. 44, 638: …ut vero congregatione Synodi opus erat ut aperta pernicies damnaretur; quasi nulla hæresis aliquando sine Synodi congregatione damnata sit. Cfr. BENCINI, Dissertatio, proœmium, XIII: Erat nimirum, instar synodorum ipsa præsulum constabilita inter se… (B. elenca qui le varie forme di Encicliche) communicatio dogmatum fidei imitas et recta Divinarum Traditionum intelligentia).  Infatti, una volta sottoscritte dai Patriarchi e dai loro suffraganei, e soprattutto con l’approvazione romana, se non emanavano dal Sommo Pontefice, le Encicliche diventavano in un certo senso un atto del Magistero universale della Chiesa, in ogni caso, un segno indiscutibile della fede unica e cattolica e di conseguenza dell’autenticità del dogma (Così l’Enciclica sottoscritta da Papa Vigilio e dai Patriarchi di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme con la quale si condanna l’origenismo. LIBERATUS, Brev. c. 23. Acta Conc. Oec. Berlino, II, 5, p. 140. Vedi anche Cassiano, De Inc. I, c. Ult. PL. 50, 29: Sufficere ergo sotus nunc ad confutandum hæresim consensus omnium; quia indubitata veritatis manifestatio est auctoritas nniversorum; – e BENCINI, Dissertatio. § 4, ÎX: Encyclicas. communi episcoporum in suis cathedris sedentium consensu firmatas, representare Magisterium Ecclesiæ, earumque osares nota hæresis esse puniendos).Con il loro stesso rifiuto di aderire, i dissidenti si classificano tra gli eretici o scismatici.  Non dobbiamo quindi sorprenderci di sentire Sant’Alessandro di Alessandria parlare delle Encicliche come del “rimedio per eccellenza”, remedia præcipuo (Lettera I contro Arius, PG. 18, 570. 5), contro l’errore, San Gregorio di Nazianzo vedendo in essi i “segni di comunione”, communionis indices (S. GREG. DE NAZ. Epist. I ad Cledonium, PG. 37, 177), grazie al quale i Vescovi fedeli si distinguono dagli apollinaristi, e Sant’Avit assegna loro come obiettivo proprio quello che li farà riprendere da Benedetto XIV: stringere i legami di carità tra i Vescovi (Cfr. Epist. 27, 5 5 , 8 0 , 8 7 . P. L. 59, col. 243 e seguenti).  Segni di accordo tra le Chiese, le Encicliche erano considerate come testimonianze sicure della tradizione universale solo se avevano ricevuto almeno un’approvazione da Roma: Se infatti – citiamo ancora M. Côlson, che riassume Sant’Ireneo – i Vescovi di tutto il mondo sono i custodi dell’unica e identica Tradizione, la predicano, la informano, la trasmettono, con una sola anima, un solo cuore, una sola bocca, il Vescovo di Roma appare come il “sacramento” o segno efficace dell’unità della Chiesa universale, o nelle parole di Sant’Ireneo, la manifestazione più piena dell’unità e dell’identità della fede vivificante conservata nella Chiesa dagli Apostoli fino ai giorni nostri e tramandata con verità. Egli non è il custode della Tradizione. Ogni Vescovo nella sua chiesa custodisce questa Tradizione. Infatti, la Tradizione degli Apostoli è manifesta in tutto il mondo; chiunque voglia trovare la verità deve solo cercare in qualsiasi chiesa dove si possono enumerare i Vescovi istituiti dagli Apostoli e dai loro successori fino a noi. Il Vescovo in ogni chiesa è per i fedeli il sacramento dell’unità cattolica, è la bocca della Chiesa, predica, insegna, trasmette la Tradizione, la stessa cosa, in una lingua diversa. Qui e là egli incarna la Chiesa universale. Ma lo incarna solo nella misura in cui è nell’unità della cattolicità. E il ruolo del Vescovo di Roma è proprio quello di essere il sacramento di questa unità cattolica, perché è con la sua Chiesa e per l’autorità della sua origine, che ogni chiesa, cioè tutti i fedeli di ogni luogo, deve concordare, ed è in lei che, attraverso questi fedeli” (Ad. Hær. III, 2, PG. 7, 849. Il significato delle ultime parole, t ab his qui sunt undique, è molto contestato. Vedi JACQUIN, Année Thèologique, 1948, p. 95 e seguenti; e Revue des Sciences religieuses, gennaio 1950, p. 72; Christine MOHRMANN, Vigiliæ christianæ, gennaio 1949, p. 57 e seguenti), è stata conservata la Tradizione che viene dagli Apostoli (Art. citato, p. 203-294). Non ci stupiremo, quindi, di vedere i Papi affermare la necessità di questa approvazione da parte loro delle lettere episcopali. San Innocenzo si rivolge in questi termini ai Padri del Sinodo africano che avevano chiesto la conferma del decreto che volevano comunicare alle altre province:  I Padri, nei tempi passati, sotto un’ispirazione non solo umana, ma divina, decisero che qualsiasi cosa fosse fatta nelle province lontane non avrebbe avuto un valore definitivo finché non fosse stata sottoposta alla Santa Sede e avesse ricevuto dalla sua autorità tutta la sua forza (Epist. 29, 1. PL. 20, 582).  È dunque di questa sanzione del capo della cattolicità che i difensori della fede amano avvalersi nelle loro controversie con gli eretici. Il diacono Rustico, per esempio, nel basarsi sulle Encicliche di San Cirillo contro Nestorio, non manca di sottolineare che esse “sono state approvate da Roma: Epistolæ Cyrilli ad Nestorium quas et sanctissimus Cœlestinus Papa Magnæ Romæ ut proprias suscepit; e inoltre: Istas epistolas, id est suas, et orientalium de pace, transmissas, Cyrillus, Romanae ecclesiae Sedi, a sanctissimo Xisto confirman sategit (Disp. adv. Acephalos, P. L. 67, 1173 e 1176). Gli eretici, a loro volta, cercano di mettere questa autorità dalla loro parte e di sorprendere la vigilanza del Sommo Pontefice: “Se otterremo l’approvazione di Liberio“, dicono Ursatio e Valente, “non tarderemo a trionfare” (S. ATHANASUS, Ad. Solitarios, PG. 25, 733).  – L’imperatore stesso non si tirava indietro nell’offrire doni per ottenere l’adesione di Roma. Ma conosciamo la fiera risposta di Liberio: “Anche se rimango solo, la causa della fede non sarà diminuita, etiamsi solus sim, fidei tamen causa non ideo minuitur” (THEODORETO, Hist. Ecc, I, 2, c. 16. PG. 82, 1035). – Se l’approvazione romana era sufficiente a dare tanta forza alle lettere dei Vescovi provinciali o dei sinodi, quale accoglienza deve essere stata per un’Enciclica scritta dal Papa stesso. Era veramente considerato il segno per eccellenza dell’unità e della comunione di tutto il mondo cattolico “Velut prœlucens fax aderat et verae communionis tessera habebatur” (BENCINI, Dissertatio, § 6, XII).  Questo segno di unità non è mai mancato nella Chiesa. Abbiamo già visto Pio VII, nella sua Enciclica inaugurale, rivendicare una “usanza che risale ai tempi più remoti”. Ora è un’espressione quasi simile quella usata da Giovanni Diacono nella vita di San Gregorio Magno, dove riferisce che egli “secondo l’antica usanza dei suoi predecessori, secundum priscum decessornm morem, inviò la sua Enciclica di presa di possesso ai patriarchi di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme” (Gregorii Magni Vita, II, 8. PL. 75, 88.). Il Papa ricordava i doveri dei pastori, esponeva la professione di fede e denunciava gli eretici (Epis. 25. PL. 77, 468. Cfr. Enciclica inaugurale di San Gelasio, ep. II, PL. 59, 19). – Purtroppo, molte di queste Encicliche dei primi secoli sono andate perdute. Tuttavia, ci vorrebbero pagine intere solo per riassumere il ruolo svolto nella storia della Chiesa da quelle di cui abbiamo conservato le tracce. Qui possiamo solo ricordare rapidamente alcuni fatti e raccogliere alcune testimonianze.  Fu una lettera di San Vittore ai Vescovi d’Oriente che unificò la Chiesa e fissò la festa della Pasqua. Conosciamo le reazioni provocate dalle sanzioni con cui il Pontefice ha minacciato i recalcitranti. L’autorità del suo messaggio, tuttavia, non fu messa in discussione e fu riconosciuta da Vescovi come quello di Efeso, che potevano comunque rivendicare le più venerabili tradizioni apostoliche (Eusebio, H. E. V., 23, 24, PG. 20, 490-507. Un rapido riassunto si trova in COLSON, art. cit, p. 198-201).  Nel caso di quest’ultimo, saranno le Encicliche di San Cornelio ai sinodi africani a condannare gli errori di Novatiano e il suo atteggiamento nei confronti dei lapsi. La corrispondenza di San Cipriano dovrebbe essere riletta, perché è piena di indicazioni su questo argomento. Possiamo accontentarci di conservare una parola della sua lettera ad Antonianum, di cui trasmise gli scritti al Papa, affinché quest’ultimo potesse essere sicuro che Antonianum “comunico con lui, cioè con la Chiesa cattolica; ut… jam sciret te secum, id est cum catholica ecclesia communicare” (Ep. ad Antonianum, I. PL. 3, 768).  L’identificazione della comunione romana con l’appartenenza a tutta la Chiesa cattolica è rivelata anche dalla richiesta dei Vescovi riuniti in sinodo a Tiana, verso i loro fratelli orientali: aderire alle lettere di Liberio e dei Vescovi italiani, comunicare con loro e dare prova scritta della loro unione (Sozomene, Hist. Eccl., VI, 12 PG. 67, 1322-1323). Questa esigenza fu peraltro formulata dallo stesso Liberio nella sua Enciclica: “i recalcitranti daranno per scontato di essere, in compagnia di Ario, dei suoi discepoli e di altri serpenti, sabelliani, patripassiani ed eretici di ogni genere, rimossi ed esclusi dalla comunione della Chiesa che non ammette figli adulteri” (Ep. XV. PL. 8 , 1381. Diamo l’indirizzo e il saluto di questa lettera, dove troviamo, come nei suoi contemporanei, formule quasi simili a quelle delle nostre encicliche moderne. Urbis Romæ episcopus, ad universos Orientis orthodoxos episcopos. Dilectis Fratribus et comministris, …(seguendo i nomi di 64 vescovi) et omnibus Orientis orthodoxis episcopis, Liberius episcopus Italiæ, et Occidentis episcopi, in Domino sempiternam salutem). Di fronte al pelagianesimo, i Papi Innocenzo e Zosimo a loro volta alzarono la voce in Encicliche che i Padri furono d’accordo nel riconoscere come risolutive della controversia senza appello. « Perché esigere di nuovo un esame già istituito dalla Sede Apostolica? – scrive S. Agostino all’eretico Giuliano – Non si tratta più di far esaminare l’eresia dai Vescovi, ma di farla sopprimere dai poteri cristiani » (Ad.. Julianum, I, 2. c. 103, PL. 45, 1183). « Con la risposta del Papa la causa è chiusa… e grazie alle lettere di Innocenzo ogni esitazione su questo punto è rimossa » (Ad Bonif, 1, 2. c. 3. PL. 4 4 , 574).  Capræolus di Cartagine non parla diversamente dell’enciclica di San Zosimo, conosciuta sotto il nome di Tractatoria (Così chiamata da Marius Mercator, probabilmente perché scritta dopo una discussione (tractatus) in un sinodo, o indirizzata ad uno synod. Cfr. DU CANGE; BENCINI, Dissertatio, § 1, VI), a cui si aggiungevano le adesioni episcopali: « A che serve appellarsi al Concilio per cercare di difendere errori già riprovati dalla Sede Apostolica e dalla sentenza unanime dei Vescovi… Mettere in dubbio la dottrina già giudicata è entrare in dubbio contro la fede sempre professata finora » (Lettera al Sinodo di Efeso, PL. 63, 845-847). San Prospero unisce le Encicliche dei due Papi in un omaggio comune: Una volta Innocenzo con la sua spada apostolica decapitò l’errore… e papa Zosimo, di santa memoria, ratificando i Concili d’Africa, mise nelle mani dei Vescovi, per abbattere gli empi, la stessa spada di Pietro: ad impiorum detruncationem, gladio Pétri dexteras omnium armavit antistitum (Adv. Collat, c. 21. PL. 51, 271).  È necessario sottolineare questo testo che mette in evidenza il ruolo esatto della lettera pontificia indirizzata all’episcopato: dargli le armi sostenendolo sull’autorità della Pietra indefettibile. Troviamo lo stesso pensiero, ma presentato sotto l’altra faccia, quella dell’unanimità dei Vescovi intorno a Pietro, in queste parole di Papa San Celestino, alludendo a sua volta alle firme episcopali apposte alla Tractatoria: « La fede cattolica fu finalmente in pace quando Oriente e Occidente avevano colpito gli errori di Pelagio con i colpi di una sola frase: telis unitæ sententiæ » (Epist. XIII ad Nest. PL. 50, 469).  Queste righe sono state scritte nel 430. Dieci anni dopo, San Leone salì alla sede papale, le cui lettere eclisseranno quelle di tutti i suoi predecessori nella loro brillantezza. Sono spesso citati dai Papi (Per esempio, Leone XII, che nella sua enciclica inaugurale Ubi Primum, del 5 maggio 1824, si riferisce a San Leone e lo cita per sottolineare il ruolo del Papa nel mantenere l’unità: Si quis malorum omnium, quæ huc usque deploravimus, et aliorum. .., veram originem inquirere velit, intelliget profecto… semper eam fuisse et esse pertinacem contemptum auctoritatis Ecclesiæ, ejus nempe Ecclesiæ quæ docente S. Leone Magno (sermo 2 de nat. P.), ex ordinatissima caritate in Pétri Sede Petrum suscipit, In Petro ergo omnium fortitudo munitur, et divinæ gratiæ ita ordinatur auxilium, ut firmitas quæ per Chris tu m Petro tribultur, per Petrum apostolis conferatur. – Bullarii Rom. Cont., t. VIII, p. 53-57.), e colui tra loro che, per la tredicesima volta, renderà illustre il nome di Leone sulla Sede di Pietro, vi farà affidamento in quasi tutte le sue Encicliche, come per meglio sottolineare, attraverso quindici secoli, la continuità ininterrotta della stessa tradizione. Non è nostro compito qui seguirli nella storia, ma solo raccogliere alcune testimonianze dell’ineguagliabile autorità che è sempre stata riconosciuta loro. Conosciamo l’accoglienza riservata al Tomo di Leone dai Padri del Concilio di Calcedonia: “Quelli che hanno turbato il sinodo di Efeso poco tempo fa… aderiscano alla lettera di Leone, altrimenti siano condannati e considerati scomunicati” (Sed ant consentiant epistolis Leonis Papae, aut damnationem suscipiant et sciant quia excommunicati sunt. MANSI, vol. VII, 55 B). E la stessa sentenza di scomunica è pronunciata contro Dioscoro per la sola ragione che, al “brigantaggio” di Efeso, si era opposto alla lettura dell’Enciclica pontificia (Concilio di Calcedonia, atto III. HARDUIN, t. 2, p. 379).  Non è solo il Tomo a Flaviano, ma tutte le lettere di San Leone che i Papi hanno imposto come regola di fede, allo stesso modo dei decreti dei Concili. Così tra le condizioni di pace proposte all’imperatore dai legati di Ormisda, è stipulata “l’accettazione del santo Concilio di Calcedonia e le lettere del santo Papa Leone” (Corpus S.E.L. 35, 519. Questo e la maggior parte dei testi citati di seguito si trovano in: Textus et Documenta. 9, S. Leonis Magni Tomus, Romæ, 1932), e la formula di fede imposta cinque anni dopo al Patriarca di Costantinopoli recita: « Noi riceviamo e approviamo tutte le lettere del Beato Papa Leone che trattano della religione cristiana » (Corpus, 35, 521). – Ancora Papa Agapito richiederà alle autorità religiose e politiche di Costantinopoli di firmare una formula simile: probantes per omnia atque amplectentes epistulas beatæ memoriæ Leonis omnes, quas de fide conscripsit (Corpus, 35, 339.). – San Gelasio arriverà al punto di colpire con l’anatema chiunque rifiuti la Lettera di Leone a Flaviano o che osi discuterne anche solo una parte (Decretum Gelasii de Libris recipendis, Texte und U, 38, 4, 1912, p. 37), un anatema che San Gregorio non teme di rinnovare assimilando il rifiuto del Tomo a quello dei quattro concili (S. GREC. MAGN. p. VI, 2. Mon. Germano. Hist. Epis 1.1. p. 382). – Si vede che i Papi del XIX e XX secolo, invocando l’autorità apostolica per le loro lettere, non hanno innovato. Fin dall’inizio, le Encicliche furono considerate come una regola di fede; allontanarsi dalla loro dottrina significava separarsi dalla Chiesa. Forse anche questa autorità rigorosa indiscutibilmente riconosciuta alle lettere dei Papi di un tempo potrebbe fornire un pretesto per un’obiezione: questi venerabili documenti sono i primogeniti delle moderne Encicliche? Non è un grave errore equiparare le une alle altre? Senza dubbio le lettere di San Leone trattano gli articoli del simbolo in modo più diretto di quelle di Leone XIII, dove le conseguenze dei dogmi nella vita sociale sono più studiate. Tuttavia, come Benedetto XIV ha visto chiaramente, hanno tutti lo stesso oggetto: la fede e la morale. Sono anche ispirate dallo stesso pensiero: quello di rafforzare i legami di carità fraterna tra il Papa e i vescovi. Non abbiamo dimenticato i termini in cui Benedetto XIV e Pio VII hanno espresso i loro sentimenti. Non sono un’eco lontana di quelle in cui San Leone, ricevendo le risposte dei suoi fratelli nell’episcopato, lasciava traboccare la sua gioia: “Questa gioia è il frutto dell’amore fraterno del corpo episcopale, che ci permette di gustare in questo scambio epistolare tutto segnato dalla grazia, come la presenza di coloro le cui lettere leggiamo con cuore grato” (Omnium quidem litteras sacerdotum gratum nos relegere animo, fraterni collega charitas faeit, cum per spiritualem gratiam tamquam præsentes amplectimur, quibus sermone epistolis mutuo eommeantibus sociamur. Ep. VI ad Anastasium, I. PL. 54. 617). – Linee come queste non sono testi legislativi o giuridici? Non ricordano piuttosto quella semplicità di corrispondenza fraterna in cui abbiamo già riconosciuto una delle caratteristiche delle Encicliche moderne, e che crea un ultimo tratto di somiglianza tra le Lettere dei primi Papi e le loro controparti più giovani? Questo carattere di ampia e tranquilla esposizione, San Leone stesso lo rivendica per le sue Encicliche: Non è una nuova dottrina che il volume porta, ma un semplice richiamo a « ciò che la Chiesa cattolica crede e insegna universalmente sul mistero dell’incarnazione del Signore » (Epist. 29, PL. 54, 783.). « Le nostre lettere insegneranno alla vostra carità ciò che riteniamo divinamente rivelato e ciò che predichiamo senza cambiare nulla » (Epist. 34. PL. 54, 802, Ep. 33. PL. 54, 799.). E il loro scopo dichiarato è ancora lo stesso che noi, con Benedetto XIV, abbiamo riconosciuto nelle Encicliche: assicurare in tutta la Chiesa l’unità della fede: “ut abolito hoc, qui natus videbatur errore, in laudem et gloriam Dei per totum mundum una sit fides et una eademque confessio. Non dobbiamo quindi stupirci di vedere storici come Harnack e Mons. Batiffol attribuire questo stesso carattere alle lettere di San Leone. Batiffol scrive: « Non dobbiamo cercare nella lettera a Flaviano l’abbondante dottrina di Cirillo o di Teodoreto, ancor meno la scolastica di Leone di Bysanzio. Nessuna definizione della natura o della persona. Leone prende le sue prove dal simbolo battesimale, dalla Scrittura, vuole prove di fatto, concrete, elementari. Non anticipa le obiezioni. Pretende solo di dire ciò che ha imparato. Non si può dire che la sua lettera segni un progresso teologico e dogmatico in relazione all’unione ipostatica. È la cristologia media che il Papa impone come disciplina acquisita ai polemisti orientali e senza entrare nei problemi da loro sollevati (Dic. Thèol. Cat. IX, 1926). Nihil novi, niente di nuovo, disse Harnack a sua volta (Lehrbuch der Dogmengeschichte, II, 42), è portato dalla lettera di Leone. Le Encicliche dei primi secoli, come quelle dei nostri giorni, non sono infatti destinate a modificare il dogma: semplici dichiarazioni della fede romana, la loro ambizione è solo quella di unire in uno stesso insegnamento, intorno a quello di Pietro, i Vescovi di tutto il mondo, e di assicurare così la loro dottrina contro ogni possibilità di errore. Ritroviamo così, alla fine del nostro studio, queste due caratteristiche che una rapida lettura ci aveva fatto riconoscere nelle Encicliche dei tempi moderni e che ci sembravano opposte tra loro. Ma alla luce di un’indagine più precisa sulla natura di queste Lettere e sul loro ruolo proprio, questa antinomia si è risolta per rivelare, al contrario, una mirabile armonia. – Le Encicliche, lettere dei Papi ai loro fratelli nell’episcopato, non sono né decreti né leggi. Sono l’esposizione autentica della dottrina insegnata da Roma, sono situati all’articolazione stessa del Magistero pontificio e di quello della Chiesa universale, sono situati nel punto preciso in cui Pietro, fedele al suo dovere di confermare i suoi fratelli, propone loro il suo insegnamento come pietra incrollabile, fondamento e causa dell’assoluta indefettibilità della Chiesa. Qui siamo d’accordo con la conclusione di M. Colson: « Il Vescovo di Roma è il legame della fraternità episcopale che realizza l’unità di fede e di amore della Chiesa. Egli presiede, lui e la sua chiesa – perché è un tutt’uno del Vescovo con la sua Chiesa – nella carità universale, ed è da questo ruolo che derivano tutti i suoi privilegi, specialmente quello dell’infallibilità che, solo, permette alla successione episcopale di Roma di svolgere il suo ruolo e di essere, nelle parole di Sant’Ireneo, la manifestazione più piena dell’unità e dell’identità della fede vivificante che è stata conservata nella Chiesa fin dagli apostoli e trasmessa con verità » (COLSON, loc. cit. p. 205. 1).  La parola infallibilità è stata appena pronunciata. Le Encicliche avrebbero un titolo per rivendicarne il beneficio? Questa è proprio la domanda che era posta all’inizio del nostro studio. Questo studio può averci fornito alcuni degli elementi necessari per abbozzare una risposta. Sarebbe ora avventato tentare una conclusione?

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE (3)

LO SCUDO DELLA FEDE (174)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (X)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO SECONDO

I MISTERI

IV. — Il mistero del peccato originale.

D. Tu hai fatto un’asserzione relativamente al peccato originale, ma non ignori lo scandalo che provoca questa nozione nell’anima contemporanea.

R. Lo ignoro così poco che spesso ho dovuto pensarvi e sono prontissimo a udirti.

D. Donde ti viene questa idea d’un peccato originale?

R. Mi viene dalla fede.

D. Non pretendi di arrivarci anche per dimostrazione?

R. No; per quanto sia utile all’interpretazione della nostra vita, questa idea non ha nulla di assolutamente indispensabile. Tuttavia la sua forza esplicativa è tale, che si ha il diritto di sottoscrivere a questa proposizione di Pascal: « L’uomo è inconcepibile senza questo mistero più che questo mistero non sia inconcepibile all’uomo ».

D. Pascal confessa una difficoltà dalle due parti.

R. Vi è difficoltà dalle due parti, e per questo noi collochiamo il peccato originale tra i misteri. Ma la partita non è uguale; si deve riconoscere insieme l’eminente difficoltà di concepire l’uomo senza il peccato originale, e la sparizione della difficoltà in presenza del dogma.

D. Dove sta la difficoltà di cui parli?

R. In quelle contradizioni della natura umana — grandezza e miseria — di cui l’autore dei Pensieri e dopo di lui Bossuet fecero un così incomparabile quadro.

D. In che cosa ciò si risolve?

R. In questo che la condizione umana apparisce così come un paradosso. Se noi siamo a un tempo grandi e miserabili, e non solo sotto diversi aspetti, ciò che si potrebbe comprendere, ma in qualche modo sotto lo stesso aspetto, considerato che le nostre stesse miserie sono grandi e le nostre stesse grandezze sono miserabili, considerato che le nostre miserie procedono da aspirazioni sublimi e le nostre grandezze vanno scegliendo miserabili oggetti, allora non siamo noi inclinati a pensare che lì sotto vi è qualche mistero?

D. Perché?

È. Perché la natura non conosce il paradosso; perché sembra che così la Provvidenza, nel suo più alto campo, contradica a se stessa.

D. Il caso dell’uomo è forse singolare a questo riguardo?

R. Sì, perché il contrasto del quale parliamo dipende da quel potere infinito di aspirazione che appartiene solo all’uomo. Lì sta il tragico della nostra condizione. Onde Pascal si arroga il diritto di dire: «Solo l’uomo è miserabile ».

D. Non assicurate voi che le contradizioni di questa vita si devono risolvere altrove?

R. Noi lo diciamo, e senza questo la nostra condizione umana sarebbe inaccettabile. Ma quando pure ciò fosse a titolo provvisorio, il piano della natura sembra veramente mancato; esso ci urta; ci pare un’organizzazione della sconfitta, e per giunta un’arte di assecondare l’ingiustizia; perché là dove la natura non ci affligge, ci tenta; per lo più ci trascina, ed è peggio.

D. Non esageri forse?

R. I segni della nostra ingiustizia nativa sono abbastanza visibili; noi siamo dediti a un egoismo mostruoso, a un orgoglio incoercibile, a una cupidigia sfrenata. In noi, l’iniquità è costitutiva, e colui che non la trova in sé la denunzia tutti i giorni negli altri; colui che non la trova in sé prova del resto un accecamento che conclude per il vizio originale di un’altra specie. «Forse che l’uomo che è diventato veramente cosciente di se stesso può veramente rispettare se stesso? » scrive Dostojewski. Questa vita che è molto al di sotto della nostra attesa, è pure, sembra, al di sotto del suo proprio diritto; essa non soddisfa alla sua propria destinazione, neppure provvisoria, e pare che accusi il suo autore, una volta ammesso il carattere del vero Dio: bontà e sapienza.

D. Di fronte a questi mali, il peccato originale è la sola ipotesi?

R. È la più naturale. Nell’umanità, tutto succede come in un individuo che si fosse liberamente corrotto, o in una razza imbastardita per i suoi vizi.

D. Riprendi tu così il ragionamento di Pascal?

R. «Per me, dice egli, confesso che appena la religione cristiana scopre questo principio che la natura degli uomini è corrotta e decaduta da Dio, questo apre gli occhi a vedere dovunque il carattere di questa Verità; perché la natura è tale, che marca dovunque un Dio perduto, e nell’uomo, e fuori dell’uomo, e una natura corrotta ». E ancora: « L’uomo non sa in quale posto mettersi; egli è visibilmente traviato e caduto dal suo vero posto senza poterlo ritrovare. Egli lo cerca con inquietudine e senza successo, nelle tenebre impenetrabili », « Ciò che c’è di grande nell’uomo, dice alla sua volta Bossuet, è un resto della sua prima istituzione; ciò che c’è di basso è il disgraziato effetto della sua caduta». Sono « miserie di grande signore » aveva detto più brevemente Pascal, « miserie d’un re spodestato ». « Contempla questo edifizio, si legge nel Sermone per la professione della signora di La Vallière, e ci vedrai dei segni di una mano divina; ma la disuguaglianza dell’opera ti farà presto osservare che il peccato vi ha mescolato del suo ».

D. Pascal pretende che la natura marchi un Dio perduto  «e nell’uomo, e fuori dell’uomo », e tu estendi forse gli effetti del peccato originale alla stessa creazione materiale?

R. Abbiamo veduto che l’uomo e il suo ambiente sono a questo riguardo solidali, e necessariamente solidali. Onde San Paolo dice senza distinguere: La creazione geme tutta quanta e soffre quasi le doglie del parto. « E i gemiti della creazione sono pieni della miseria non scandagliabile dell’uomo » (V. Hugo).

D. Ciò può sollevare attorno al peccato originale molti problemi!

R. Renouvier li solleva tutti, e prima di lui, Schopenhauer, Kant, e molti altri. Per Schopenhauer, vi è un peccato alla base dell’essere stesso, Il Cristianesimo è più riservato. Ma, come ti dicevo, sollevando un problema, avviene che se ne sollevino mille, e dei più gravi. I nostri misteri sono oscuri, ma sono grandi e, quando sono ammessi, tutto si spiega; senza di essi, tutto è miserabilmente piccolo, e niente si spiega.

D. Insomma tu ripeti dei vecchi miti.

R. Sì, il mito di Prometeo, il mito di Pandora, ed altri. Ho detto che è naturale il ritrovare nelle religioni istintive degli elementi della religione rivelata; è una confermazione; forse è l’indicazione d’una sorgente comune, rispettata qui, e alterata là.

D. In che consiste materialmente questo peccato di razza? Bisogna prendere alla lettera la storia del « frutto proibito »?

R. Nulla a ciò ti obbliga. Si tratta d’un fatto morale.

D. E qual è questo fatto morale?

R. Si può discutere della sua natura precisa; ma ogni peccato è una rivolta contro Dio, un rifiuto dell’ordine, e, a questo titolo, un orgoglio folle, anche se l’occasione di questo orgoglio è un fatto di sensualità, come si crede qui di solito.

D. Si tratterebbe in qualche modo di un doppio peccato?

E. Siccome la caduta originale ha deciso di tutto l’uomo, sarebbe naturale pensare che essa comprendesse a un tempo la sensualità, quest’orgoglio della carne, e l’orgoglio, questa sensualità dello spirito. Tuttavia, come nell’uomo ancora giusto lo spirito è a capo e facilmente domina, il primo peccato dev’essere prima di tutto un peccato d’orgoglio. Ecco l’opinione di S. Tommaso. È anche quella di Pascal, perché l’uomo peccatore « volle rendersi centro di se stesso », in vece di gravitare intorno al suo Sole.

D. Ciò si comprende con facilità per quello che riguarda un individuo; ma ciò che apparisce odioso, è la trasmissione d’un peccato individuale a tutta una razza.

È. Respingo la parola odioso, ma ammetto una volta di più il mistero.

D. Un mistero d’ingiustizia?

È. Rigetto ancora questa parola. Il pregiudizio è antico e molto diffuso: nondimeno chiedo alla tua lealtà di rinunziarvi, dopo la spiegazione che sta per seguire.

D. Ascolto.

R. Anzitutto mi permetto di osservare che migliaia d’anime purissime infinitamente delicate in fatto di giustizia, hanno riverito questo mistero, e l’incredulo, anche virtuoso, qui non ha privilegio.

D. Ammetto.

R. Dopo ciò io ragiono. Un’ingiustizia è la privazione d’un diritto. Là dove non c’è nessun diritto, ci può essere dell’arbitrio, del capriccio, tutto quello che vuoi; ma non c’è ingiustizia. Trovi tu ingiusto che un figlio di tubercolotico sia tubercolotico? che il figlio di un degenerato per colpa sua sia anche lui degenerato, anzi proclive a certi vizi senza che ci sia colpa da parte sua?

D. Ne domanderei volentieri conto alla Provvidenza.

E. La Provvidenza ti ha già esposto che essa s’incarica di trarre da ciò del bene, se gl’interessati vi consentono. Ma proseguo. Condizioni originali ci sono imposte a tutti per il fatto dei nostri ascendenti. A volte noi lo possiamo deplorare; ma non abbiamo il diritto di dire: È ingiusto. Non vi è mai ingiustizia nei dati d’un problema morale; ce ne potrebbe essere solamente nella sua soluzione, e la ragione è che l’ingiustizia suppone una giustizia a cui essa si opponga, e la giustizia il diritto. Ora di che cosa siamo noi privati in conseguenza del peccato originale? Siamo noi privati d’un diritto acquisito, d’una situazione meritata, o anche solo d’un bene in proporzione con ciò che noi siamo? No. Ci si ritira quella grazia di prima creazione alla quale l’obiettante non crede punto; si mette fine a quello stato quasi miracoloso che lo scandalizza, intendo la nostra elevazione al di sopra della natura e di quei formidabili poteri che alternativamente ci affascinano e ci schiacciano. L’incredulo ride di questi privilegi, li trova superflui: è davvero curioso vederli reclamare sotto pena d’ingiustizia!

D. L’ingiustizia è nel fatto che ci si ritira questa grazia per causa di altri.

R. Si taccerebbe d’ingiustizia un monarca che concedesse a un signore della sua corte un privilegio ereditario sotto certe condizioni di servizio, e che poi lo ritirasse perché  il servizio non è stato compiuto? La discendenza di quel signore sarebbe intanto privata; ma essa non avrebbe il diritto di lagnarsi salvo che le si togliessero inoltre i diritti che essa può avere d’altronde.

D. Ma se il vassallo rientrasse più tardi in grazia? Ora non è questo il caso nostro? Adamo, provando la sventura, non si è rialzato dalla sua colpa?

R. Sì certamente.

D. Perché egli non ci ha trasmesso il suo ravvedimento?

R. Perché questo ravvedimento non gli appartiene. Noi siamo potenti per demolire, ma nel soprannaturale non potremmo ricostruire. Il ravvedimento di Adamo e la grazia che lo consacra vengono ad Adamo per il canale della redenzione, per mezzo di quel Figlio lontano e meritevole che è Cristo, nuovo Adamo, « secondo primo uomo », che salva l’altro salvando tutta la stirpe. Di questa salute, Adamo pentito può ben godere il beneficio, e dopo lui i suoi discendenti; ma né essi né lui sono atti a trasmetterla. Se un capo di famiglia rovina i suoi figli e dissipa le loro speranze, è se poi un benefattore sostiene la sua vita e quella de’ suoi figli stessi, il danaro ricevuto non passerà per questo in eredità.

D. Ciò sarebbe possibile e sarebbe più generoso.

R. Sarebbe un altro piano, e ne giudicheremo un po’ più innanzi.

D. Ad ogni modo, tu ragioni come se gli effetti della caduta fossero tutti negativi. Ora si può ridurre così al negativo tutta « questa miseria dell’uomo » di cuì tu facesti così caso?

R. Gli effetti del peccato originale son negativi alla base, o per dir meglio privativi; noi siamo spogliati, e ne seguono degli effetti positivi per il corso naturale delle cose, come se i miei eredi di cui sopra, privati della loro nobiltà, cadessero per fatto loro o per fatto altrui in nuove sventure.

D. Tu chiami gli uomini peccatori in Adamo: dunque li ritieni responsabili, e una responsabilità non è una cosa negativa.

R. Qui vi è un equivoco. Il peccato originale è un peccato in noi; ma è un peccato di natura, uno stato, e che implica una responsabilità collettiva, in ragione del capo della stirpe, ma non una responsabilità individuale. Perciò non puniamo, propriamente parlando, colui che ne è affetto; ma poiché egli appartiene a una stirpe peccatrice, non sarà trattato come colui che appartiene a una stirpe fedele, e questa disuguaglianza non sarà ingiusta più che non lo siano le ineguaglianze sociali sotto un regime di uguaglianza di fronte alla legge, o ancora alle disuguaglianze naturali.

D. Pure tu dici dannati i bambini morti senza battesimo, ed è veramente a cagione del peccato originale.

R. Questi bambini son degli innocenti in ciò che li riguarda personalmente; d’altra parte hanno sopra di sé una colpevolezza di stirpe, e per questa ragione non godranno del benefizio gratuito annesso all’integrità di questa stirpe, all’innocenza primitiva o alla redenzione. Ma noi non li diciamo dannati in questo senso che essi sarebbero infelici; i più dei teologi, tra i quali S. Tommaso, prevedono anzi per essi una beatitudine naturale. Onde conviene eliminare qui questa parola dannazione che si presta a un grave equivoco.

D. Resta la privazione, come dici. Oro credi tu che vada pe’ suoi piedi che tutta una stirpe sia così rappresentata dal suo capo per il possesso o per la perdita d’un bene gratuito, sia pure, ma inestimabile?

R. Questo non va pe’ suoi piedi; è una libera disposizione divina, ma si ricollega a queste grandi leggi di solidarietà e di eredità, sempre più in onore nella scienza.

D. Queste leggi non si negano; per lo meno alla base, sono leggi fisiche: come avviene che ci sia solidarietà morale senza che la volontà dei discendenti partecipi alla volontà del peccatore? Nelle società umane, vi è solidarietà giuridica, perché vi è un vincolo giuridico delle volontà; vi è una specie di delegazione, del contratto mutuo, del consenso unanime.

R. Tu ne parli con precauzione, e a buon diritto. Il « contratto sociale » ha un valore interpretativo; ma tu ben sai che questo vincolo giuridico è fittizio nell’immensa maggioranza dei casi di responsabilità collettiva, sia in bene, sia in male. Di solito è la solidarietà naturale, è, come qui, l’eredità, che decidono di tutto. Difatti un’anima individuale non è attaccata a un solo corpo, ma a parecchi, a tutti quelli della sua discendenza, e per essa di tutta la stirpe.

D. Tu fai poco conto dell’individuo.

R. Sono oggi ben rari quelli i quali non riconoscono che la responsabilità puramente individuale è un pregiudizio razionalista, condannato dalla scienza sociale e dall’esperienza.

D. Confessa che qui ci resta molta oscurità.

R. Lo riconosco, ma tu parlavi di scandalo. Del resto io ho da presentare più di un’altra considerazione. Anzitutto queste leggi di solidarietà, che si sono rivolte contro di noi, potevano pure lavorare per noi; Adamo fedele ci avrebbe trasmesso tutti i suoi privilegi.

D. Dio ben sapeva che cosa ne sarebbe avvenuto.

R. Questo modo di ragionare non è accettabile; è inquinato di antropomorfismo. Abbiamo veduto, parlando della Provvidenza, che le previsioni di Dio e la sua stessa causalità non sottraggono niente alle nostre responsabilità, non modificano in nulla le relazioni temporali tra effetti e cause. Del rimanente, se tu invochi le previsioni di Dio, seguile sino in fondo, e tieni conto di ciò che non è più solamente previsione, ma disposizione effettiva, disposizione ora notificata e ora operante, cioè la redenzione. Tu ti lamenti del fatto che la legge di solidarietà ci abbia nocciuto nell’Eden: rallegrati del fatto che essa ci favorisce sul Calvario. Questi due fatti sono strettamente legati dalla Provvidenza; solo un gioco di astrazione permette di dissociarli, ed è un brutto gioco; infatti trascurare di ringraziare Dio per la redenzione a fine di prenderlo in fallo nella creazione è il fatto d’una triste ingratitudine.

D. L’eredità di Cristo non è gratuita come sarebbe stata l’altra; bisogna cooperare.

R. È gratuita per il bambino battezzato. Se l’adulto deve cooperare, cioè fare atto di libera attività virtuosa, pensi tu che gli eredi di un Adamo rimasto innocente ne sarebbero stati dispensati? Quello che Adamo non avrebbe perduto per tutti, ciascuno l’avrebbe ancora potuto perdere per conto proprio; tutti in qualche modo avrebbero dovuto riconquistarlo, preservarlo, accrescerlo. In nessuna combinazione religiosa l’uomo morale è esonerato dallo sforzo.

D. Lo sforzo sarebbe stato più facile, trovando davanti a sé minori ostacoli e molto maggiori soccorsi.

R. Facciamo il conto. Dopo la nostra adesione a Cristo, le nostre debolezze congenite si volgono in diminuzione delle nostre colpe, in lode delle nostre virtù; in certi casi, la nostra responsabilità peccatrice è annullata dalla violenza improvvisa dell’allettamento; in caso di eroismo, avviene l’opposto e ci vien contato il doppio. Tutto sommato, nulla è perduto a cagione della prima colpa, nulla è perduto se non per una tenace cattiva volontà personale. Questa situazione non è ingiusta.

D. Ciononostante io non posso trattenermi dal giudicarla arbitraria, capricciosa. Riprendo così le tue proprie parole.

R. Ne siamo noi davvero giudici? È serio criticare Dio sulla costituzione del suo universo morale più che su quella dell’universo fisico, dove noi abbiamo riconosciuta la nostra incompetenza? È il fine che decide; i piani ci sfuggono. E devono sfuggirci tanto più in quanto non si tratta qui unicamente delle leggi profonde della natura umana, già così misteriose, ma di un ordine di leggi anche più recondite, quelle del soprannaturale. Il rapporto soprannaturale dell’uomo con Dio oltrepassa l’esperienza; gli effetti della sua rottura devono avere una portata non meno segreta; essi si nascondono nel mistero di Dio intimo comunicato, e dell’unione singolare, in Lui, degli esseri invitati a questo contatto, al di sopra del tempo e di tutte le condizioni particolari.

D. Questo può abolire la personalità?

R. Anzi la personalità si rinforza, come ogni cosa al tocco del suo Creatore; ma nello stesso tempo le diverse personalità si ravvicinano; per una parte esse sfuggono agli effetti del tempo, e perciò si comprende meglio come l’una conti per l’altra, come ce lo rivelerà la comunione dei santi, e come, quaggiù, siano tutte unite nel loro capo di stirpe, formando con lui una particolarissima unità.

D. I diritti della giustizia individuale rimangono.

R. Anzi sono rinforzati, come ho detto della personalità stessa; ma vi si sovrappone una giustizia collettiva, e il congegnamento esatto ci sfugge. Il bambino morto senza battesimo e il bambino battezzato ci fanno vedere la formula alla prova, ma non ce la spiegano punto. Il primo di questi due piccoli esseri non è condannato personalmente; gli si concedono all’opposto tutti i benefizi della natura nella sua piena espansione: dunque la giustizia individuale rimane. Ma a differenza del secondo che ha potuto entrare nell’unità soprannaturale costituita dalla stirpe del Nuovo Adamo, egli non ha parte alla eredità particolare di questa stirpe; egli non è stato un eletto.

D. Perché lui, e non un altro?

E. Io ti rimando alla questione del Battesimo. Qui parliamo di solidarietà, e dico: La solidarietà soprannaturale è particolare. Essere uni in Dio, in Dio intimo, in Dio Trinità, è qualche cosa, e non è senza effetti; il caso di Cristo, vincolo del sacro fascio, ce lo insegnerà meglio. Io ne concludo che non possiamo giudicare del peccato originale e della sua trasmissione alla discendenza d’Adamo secondo i soli dati della nostra esperienza già così confusi. I bambini nel seno della loro madre non respirano come noi; una stirpe soprannaturalizzata parimenti non può aspirare Dio, se posso dire così, e poi espirarlo nelle stesse condizioni onde si adotta o si rigetta un servizio civile. La solidarietà è qui più stretta, perché il nodo dell’individuo alla stirpe è più stretto, e questo nodo è così serrato perché noi siamo legati a Dio, insieme, e ci premiamo in qualche modo nella Trinità.

D. In una parola, Adamo era noi, ed è per questo che noi pecchiamo in lui.

R. La formula è eccessiva; ma ridotta alla sua misura, è vera. Noi siamo in mezzo alle rovine appunto perché Adamo ha in sé compromesso l’edifizio morale.

D. Io resto un po’ perplesso.

R. Non vorrei trarti da una perplessità con un rimprovero; ma posso rischiare una questione che io risolvetti precedentemente contro me stesso: fuori del peccato originale, ti senti tu innocente?

D. No; ma è un poco la colpa del peccato originale; l’hai messo tu stesso all’origine delle fragilità.

R. Esso è all’origine delle fragilità, ma non per questo alla sorgente di ogni responsabilità. I mali che si attribuiscono al peccato originale sono in gran parte l’effetto dei peccati personali, accumulati e aggravati l’uno dall’altro. – Non fu detto a proposito della stessa morte: Gli uomini non muoiono, ma si uccidono? L’assenza dei doni soprannaturali facilita certamente questo stato di cose, ma non l’impone, non lo scusa. Pecchiamo tutti, tutti quanti; pecchiamo nonostante le grazie di riparazione; facciamo del peccato originale una specie di abitudineaccettata e della quale così noi diventiamo resèpnsabili. Il modo con cui ci comportiamo con Dio deve incuterci dei timori sopra ciò che sarebbero stati i nostri modi d’agire se fossimo nati « nell’innocenza dei primordi », come dice Bossuet.

D. Queste sono ipotesi.

E. Sono serie presunzioni, che alleggeriscono la responsabilità divina quanto all’istituzione di questo piano di solidarietà che ti urta. Perché finalmente che diresti, se Dio, apparendoti come a Giobbe per spiegarsi con te circa la sua condotta, si esprimesse così: Io vidi voi tutti, nell’Eden! I tempi si aprivano davanti a me. Trovandovi così al di sotto della vostra propria coscienza, io non Potevo attribuirvi una superiorità molto grande, per rapporto all’eredità del vostro progenitore peccatore. Taluni di noi avrebbero forse ragioni fondate di ricusare questo giudizio?  Ma non sono essi che si lamentano. I santi stimano cosa affatto naturale essere puniti in Adano: essi si sentono punibili; ma coloro che sono molto più punibili non lo sentono affatto. Essi dicono: Io non c’ero! Ma io dico loro: Tu c’eri; perché i tempi per me non hanno nessuna importanza, e fatta astrazione dal tempo, tutta questa fiumana di peccati individuali che dovevano seguire, non è forse anche un peccato di razza? Io vi ho ritenuti per peccatori in Adamo perché vi vedevo peccatori come Adamo. Qualcuno di voi si leverà per dire: Io, per conto mio, non merito di essere nato in un mondo di peccato, con le condizioni del peccato, perché, da parte mia, io sono senza peccato? Uno solo ha detto questo di sua propria autorità: il mio Cristo, e a una sola è stato dato per grazia di ripeterlo: la Madre sua. Ciò non si verifica di nessun altro.

D. Quando Dio parla, sì ha sempre torto!

R. Io credo che Egli parli, e dica come una volta: « È cosa buona! ».

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE (1)

Dom PAUL NAU

Monaco di Solesmes

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE

Saggio sull’autorità del loro insegnamento

Les Editions du Cèdre 13, Rue Mazarine

PARIS

NIHIL OBSTAT Solesmis, die 24 Apr. 1952.Fr. Georgius FRENAUD, m. b. Cens. dep.

IMPRIMI POTEST Solesmis, die 25 Apr. 1952. t Fr. Germanus COZIEN, Abbas S. Petri de Solesmis.

IMPRIMATUR. die 24 Aug. 1952. t GEORGIUS Archiep. Episc. Cenomanensis.

L’enciclica Humani generis ha recentemente scoperto che il punto di partenza delle deviazioni dottrinali che essa è venuta a correggere è stata la mancanza di attenzione all’insegnamento enciclicale dei Pontefici. È stato proprio per risvegliare questa attenzione che sono stati scritti i tre articoli qui raccolti. Erano in procinto di essere pubblicati quando è apparsa la Lettera Pontificia, che confermò le loro conclusioni con la sua impareggiabile autorità. L’autore, nel rispondere alle richieste di ristamparle in forma di libretto, non ha avuto altro scopo che quello di aiutare le persone a comprendere meglio e più ampiamente la portata esatta delle encicliche, e quindi di introdurle ad una lettura più attenta di questi grandi documenti dell’insegnamento ordinario del Romano Pontefice.

I.  

I testi

Nel 1849, il Dictionnaire de Droit et de Jurisprudence civile et ecclésiastique dell’Encyclopédie Théologique, di Migne, dedica alle Encicliche solo questa infausta nota: « La parola Enciclica è nuova in Francia. Oggi questo nome viene dato alle Lettere Apostoliche che il Papa indirizza a tutti i Vescovi di un paese o a tutti i Vescovi dell’universo. La ricezione ufficiale e la pubblicazione di queste lettere è soggetta alle stesse formalità delle bolle, delle memorie o dei rescritti.  Dopo un secolo, non è solo il termine, ma le encicliche stesse che hanno acquisito il diritto di essere lette dai lettori francesi. Gli oratori e gli editori cattolici non sono i soli a contribuire alla loro pubblicità;  (Anche se ci si limita alla Francia, è impossibile citarli tutti. Conosciamo almeno i testi della Documentation catholique e la raccolta di Encicliche e Documenti Pontifici della “Lionne Presse”, così come le monografie pubblicate da “Spes” e le varie edizioni dell’Action catholique. La Cité Chrétienne, di Henri BRUN, e la sua continuazione L’Ordre et l’Amour il Catechismo di Leone XIII, di Padre CERCEAU, possono sempre essere consultati con profitto. Non è necessario richiamare l’attenzione sull’evidente importanza di questi testi e sull’importanza della fondazione all’Istituto Cattolico di Parigi di una cattedra destinata a far conoscere gli insegnamenti pontifici, compito al quale giornali come La France Catholique aprono ampiamente le loro colonne e che La Pensée Catholique ha inserito nella prima pagina del suo programma.). Esse hanno animato i dibattiti della Camera dei Deputati e persino quelli delle logge massoniche (è in seguito all’emozione suscitata al “Grande Oriente” dalla pubblicazione della Rerum Novarum che fu deciso di ridurre la quota d’iscrizione, fino ad allora molto elevata, esatta dai membri di questa obbedienza e che ne impedivano l’entrata ai meno fortunati); solo recentemente la Revue des deux Mondes ha dedicato loro un articolo (Jean DE SAINT-CHAMANT, Les Encycliques et le marxisme, Revue des deux Mondes du 1e r agosto 1948.) e sull’una o sull’altra delle loro collezioni si possono leggere nomi così indipendenti come quello di Dalloz o così insospettabili di favoritismi religiosi come quello di Rieder (Encycliques et messages sociaux, textes choisis et préface par Henri GUITTON, Dalloz, 1948 ; Les textes pontificaux sur la Démocratie et ta société moderne, les éditions Rieder, 1928.). Ma se le Encicliche sono molto discusse, la loro vera natura è generalmente meno conosciuta, e gli stessi teologi talvolta esitano sull’esatta portata della loro autorità dottrinale. Più di quindici anni prima della data in cui l’Enciclopedia del Migne descriveva questo termine come una “parola nuova, un’Enciclica, Mirari vos, aveva già condannato le dottrine de l’Avenir, e Lamennais, preludendo alla sua rottura definitiva, si rifugiò in distinzioni tendenziose: « Il nostro amico di Coriolis – scrisse a Vitrolles – aveva ragione di dirvi che non ero minimamente scosso nelle mie opinioni, che non ne abbandonavo nessuna e che, al contrario, vi ero più attaccato che mai. La lettera del Papa, che non ha carattere dogmatico, che è… solo un atto di governo, potrebbe benissimo impormi momentaneamente l’inazione ma non una fede… (Lettera del 15 novembre 1832 a Vitrolles, citata da Paul Du DON, Lamennais et le Saint-Siège, Paris, 1911, p. 220.).  – Nel 1864, la pubblicazione dell’enciclica Quanta Cura e il Sillabo ad essa allegato risvegliarono la disputa. La definizione dell’infallibilità papale da parte del Concilio Vaticano avrebbe dovuto, a quanto pare, porvi fine; ha semplicemente chiarito il punto in discussione. Il Concilio aveva affermato che il Romano Pontefice è infallibile quando, parlando ex cathedra, definisce un punto di dottrina. Era questo il caso delle Encicliche? Potrebbero essere considerati come atti pronunciati ex cathedra, come giudizi o definizioni della dottrina rivelata? Non è necessario ripetere qui i dettagli delle discussioni che si tennero sull’Ami du Clergé, sugli Etudes, sulla Revue Thomiste (Ami du Clergé, 1903, p. 801 ss., 1907, p. 91 ss, 1908, p. 193 ss e 530 ss; Revue thomiste, 1904, p. 513 ss.; Etudes religieuses, 5 agosto 1907, 5 gennaio 1908), da parte di teologi come Mons. Perriot, P. Pègues, O. P. e P. Choupin, S. J. Quest’ultimo le ha riassunte in un’opera (Lucien CHOUPIN, S. J., Valore delle decisioni dottrinali e disciplinari della Santa-Sede, terza edizione, Parigi, 1929), che è ormai un’autorità e che permetterà a chi lo desidera di riferirsi facilmente ai punti concreti del dibattito. Ci basterà qui riassumerne le conclusioni. Le due parti si accordarono facilmente per negare alle encicliche il carattere di definizioni ex cathedra. Ma mentre questi documenti perdevano per sé stesse, agli occhi dei padri Choupin e Pègues, il privilegio dell’infallibilità, l’editore dell’Ami du Clergé, basandosi su un testo del cardinale Billot, rifiutò di accettare quest’ultima conclusione e continuò a riconoscerne degli atti infallibili. La controversia da allora sembra aver fatto pochi progressi. L’articolo “Enciclica” nel Dictionnaire de Théologie catholique, firmato da M. Mangenot, coincide, almeno in gran parte (… le Encicliche “non costituiscono definizioni ex cathedra, di autorità infallibile. Il Sommo Pontefice potrebbe però, se volesse, fare definizioni solenni nelle encicliche…), con la tesi di P. Choupin, cui si può paragonare il capitolo molto meno sfumato di P. J. Villain, S.J., in Les études: du prêtre d’aujourd’hui (Lo studio delle encicliche, di R. P. J. VILLAIN S. J., in Les études du prêtre d’aujourd’hui, pubblicato dall’ “Union Apostolique“, con una prefazione del cardinale Suhard, Parigi, 1945. Si può anche leggere nello stesso senso: A. CHAVAS, SB” La vera concezione dell’infallibilità pontificale, in Eglise et Unité, Lille, 1948). D’altra parte, il P. Riquet, S.J., in Tu es Petrus (Il Papa, erede dei poteri di Pietro, di R. P. Michel RIQUET S. J., in Tu es Petrus, encyclopédie populaire sur la Papauté, Paris, 1944, p. 56.) sembra mantenere la posizione precedentemente difesa dall’Amico e che pone le Encicliche tra gli atti della Santa Sede, che, senza essere definizioni, sono tuttavia documenti infallibili. Queste divergenze, appena escono dal dominio della pura speculazione teologica, rischiano purtroppo di degenerare in liti di tendenze. J.-M. Vacant lo sottolineava dal 1895, nei suoi Studi Teologici sulle Costituzioni del Concilio Vaticano. Di fronte ad eretici, razionalisti e infedeli, i difensori della verità si sono… sempre, ma oggi più che mai, lasciati dominare da due preoccupazioni diverse, che li hanno fatti camminare in due direzioni opposte. Alcuni cercano soprattutto di proteggere i fedeli dalle seduzioni dell’errore e di salvaguardare l’integrità della fede; perciò, moltiplicherebbero volentieri i punti che la Chiesa ha condannato. Altri sono profondamente preoccupati dal desiderio di attirare alla dottrina cattolica coloro che la rifiutano; così, per una tendenza contraria, vorrebbero eliminare tutti i punti che i miscredenti trovano difficili da ammettere e ridurre i dogmi ad una sorta di minimo. (Etudes théologiques sur les Constitutions du concile du Vatican, par J. M. A. VACANT, Paris-Lyon 1895, tome II, p. 116, n° 650). Più recentemente H. P. J. Villain, nell’opera già citata, ha indicato a sua volta, come ancora attuali, di cui l’esperienza ha dimostrato non essere chimerica, quello di un rigorismo… che rende talvolta odiosa la dottrina, e quello di un laicismo che permette di vedere nelle encicliche solo documenti di nessun valore pratico, dichiarazioni platoniche, semplici dissertazioni del Sovrano Pontefice che non vi attribuirebbe lui stesso grande importanza (Loc. cit.,p. 191).  Nel corso di una discussione, si fa talvolta riferimento a un testo pontificio e la risposta, senza ulteriore qualificazione, è: “È solo un’Enciclica”. Queste discussioni possono continuare senza una soluzione, con grande danno per l’unità di vedute dei Cattolici, finché rimarranno intaccate da un difetto di metodo. Una dottrina può essere vera, anche sovranamente opportuna, senza che il documento che la richiama sia dotato del carisma dell’infallibilità. Al contrario, una verità, anche se proviene da un documento autenticamente e inequivocabilmente infallibile, è improbabile che trovi un pubblico facile tra coloro la cui mentalità è destinata a riformare. Le stesse controversie teologiche difficilmente avranno successo, se rimangono rinchiuse nel regno del “a priori” o del puro metodo deduttivo. Si potrà discutere a lungo sull’autorità delle encicliche se non ci si prenda la briga di interrogarle personalmente. È al Magistero che dobbiamo chiedere quale grado di credito dobbiamo dare ai suoi atti. Pin effetti la loro autorità divina non è una verità puramente razionale, ma appartiene al regno della rivelazione; è quindi il solo organo vivente della rivelazione che può apportarci luce. – Non è d’altronde la questione di principio che è in gioco qui; l’autorità sovrana del Magistero pontificio è una dottrina riconosciuta da tutti i Cattolici. Si tratta solo di sapere fino a che punto il Sommo Pontefice, scrivendo un’Enciclica, impegna questa autorità. È al Sommo Pontefice e alle stesse encicliche che dobbiamo innanzitutto chiedere la risposta. Pertanto, prima di qualsiasi tentativo di sistematizzazione teologica, sembra necessario esaminare attentamente i testi. Questo è precisamente lo scopo di questo documento. Dopo un rapido inventario delle Encicliche stesse, esamineremo il loro atto di nascita, e poi chiederemo alla storia di ricordarci il ruolo che hanno avuto nel preservare il deposito e l’unità della fede. Una volta completato questo esame, sarà forse possibile precisare meglio il ruolo delle Encicliche nella teologia del Magistero, determinarne il credito esatto necessario, secondo la materia che trattano, riconoscere infine se devono essere viste come semplici indicazioni pastorali rapidamente “superate“, o se al contrario, e in che misura, devono essere accolte come autentici atti del Magistero, esigendo l’adesione del pensiero dei Cattolici o addirittura della loro fede. Prima ancora di discutere il contenuto delle Encicliche, possiamo già farci un’idea dell’importanza attribuita loro dal Sommo Pontefice con un semplice sguardo ai fogli stampati che ce le riportano. Dal 1908, la Santa Sede ha un organo ufficiale, gli Acta Apostolicæ Sedis, in cui sono inseriti i principali atti del Sommo Pontefice e delle Congregazioni Romane. È in questo organo che appaiono le Encicliche. Il posto che vi occupano sarà quindi indicativo della loro importanza in relazione agli altri atti del Papa o della Curia. Le Litteræ Encyclicæ sono inserite per prime, seguite immediatamente dalle Epistolæ Encyclicæ, che sono un po’ meno solenni (Contrariamente alla recente affermazione del Dict. D. Can. art. “Encyclicæ”). Gli atti giuridici o amministrativi, come le Costituzioni Apostoliche che promulgano un giubileo o che regolano la nuova erezione di una diocesi, prendono posto solo dopo, intervallati dalle Encicliche e dalle altre Lettere pontificie. Questa è almeno la regola generale. Essa non fu infranta fino al 1944 e al 1949, quando, nell’indice degli Atti, le encicliche lasciarono il posto alle Decretali o Bolle di canonizzazione di diversi Santi, che ripresero allora il primo posto (Cfr. A. A. S., 15 marzo 1950). Questa semplice disposizione materiale è abbastanza eloquente di per sé, e potrebbe, in assenza di un testo preciso, fornirci già una preziosa indicazione. Ma non mancano le dichiarazioni esplicite dei Pontefici nelle loro encicliche. Dovremo tornare tra poco alla condanna formale delle « Parole di un credente » da parte di Gregorio XVI nell’enciclica Singulari nos. Basterà per il momento indicare il titolo invocato per la pronuncia di questa sentenza. Non è altro che la “pienezza del potere apostolico, deque apostolicæ potestatis plenitudine“; un appello che è ulteriormente sottolineato dal considerando precedente: « Chi ci proibisce di tacere, è Colui stesso che Ci ha posto come sentinella in Israele, affinché denunciamo l’errore a coloro che l’Autore e consumatore della nostra Fede, Gesù, ha affidato alle nostre cure » (Singulari Nos del 25 giugno 1834, Acta Gregorii Papæ XVI, Romæ, 1901, t. I, p. 434.). – Non appena fu elevato alla sede pontificia, Pio IX indirizzò un’enciclica all’episcopato di tutto il mondo. In esso egli indica gli errori e i pericoli che minacciano la Chiesa. Possiamo già notare l’espressione che usa per confermare le precedenti condanne contro le società segrete. È di nuovo “la pienezza del potere apostolico” che viene invocata: quas nos apostolicæ nostræ potestatis plenitudine confirmamus (Qui Pluribus del 9 novembre 1846, in Lettere apostoliche di Pio IX, Gregorio XVI, Pio VII, Parigi, 5, rue Bayard, p. 184). È a questa raccolta che di solito rimanderemo i nostri lettori, indicandola con l’abbreviazione BP., mentre le cifre successive indicano la pagina, e il volume in questione, indicando l’uno il tomo, l’altro la pagina, per i Pontificati successivi). Nel 1864 nell’enciclica Quanta cura, la formula non è meno solenne: « Perciò, in mezzo a questa perversità di opinioni depravate, penetrati dal dovere del nostro ufficio apostolico, apostolici nostri officii probe memores, e pieni di sollecitudine per la nostra santa Religione, per la sana dottrina, per la salvezza delle anime che ci è affidata dall’alto e per il bene stesso della società umana, abbiamo ritenuto nostro dovere alzare ancora una volta la voce (Quanta Cura, 8 dicembre 1864, BP. 13). È una formula simile che Leone XIII usa a sua volta, quando, fin dai primi anni del suo pontificato, ritiene necessario mettere in guardia il mondo cattolico contro il pericolo delle dottrine comuniste e socialiste: « Avendo Dio voluto affidarci il governo della Chiesa Cattolica, custode e interprete della dottrina di Gesù Cristo, Noi riteniamo, Venerabili Fratelli, che sia Nostro dovere in questa veste ricordare pubblicamente gli obblighi che la morale cattolica impone a tutti in questo ordine di doveri. Cum regendæ Ecclesiæ catholicæ, doctrinarum Christi custodi et interpreti, Dei beneficio praepositi simus, auctoritatis Nostræ esse judicamus, V. F., publice commemorare quid a quoquam in hoc genere officii catholica veritas exigat » (Diuturnum, 29 giugno 1881, BP.1.143). Ma non è necessario fermarsi ad ogni lettera di Leone XIII per precisarne i termini. Uno di essi è particolarmente significativo. In occasione del suo giubileo sacerdotale, il Papa, rivolgendosi contemporaneamente ai Vescovi, a tutti i fedeli dell’Universo, lascia per una volta il modo serio e solenne ordinario delle encicliche, per assumere un tono più familiare e paterno. Egli ritiene necessario spiegare questa derogazione, che serve solo a sottolineare più fortemente il carattere d’insieme dell’insegnamento enciclicale. « Dall’alto di questo supremo grado dell’ufficio apostolico in cui la bontà di Dio ci ha posto, Noi abbiamo spesso, secondo il nostro dovere, preso la difesa della verità, e ci siamo particolarmente sforzati di esporre quei punti della dottrina che ci sembrano di più attuale interesse per il bene pubblico… Oggi vogliamo parlare a tutti i Cristiani, come un buon padre parla ai suoi figli, e con un’esortazione familiare, esortare ciascuno di loro a regolare la propria vita in modo santo… » (Exeunti jam Anno, 30 dicembre 1888, BP.2.229.1). I successori del grande Papa hanno interpretato i suoi avvertimenti nel senso di atti vincolanti al Magistero papale. Nella sua enciclica Quadragesimo Anno, che commemora il quarantesimo anniversario della Rerum Novarum, Pio XI mostra Leone XIII, in forza del suo diritto e della missione specialissima che ha ricevuto di vigilare sulla Religione e sugli interessi ad essa connessi, jure suo plane usus tuque probe lenens religionis custodiam dispensationemque earum rerum, quæ cum illa arcto vinculo sociantur, sibi potissimum commissas fuisse… Poi continua: Basandosi unicamente sui principi immutabili della ragione e della rivelazione divina, il Pontefice definisce e proclama con autorità sicura di sé (il latino è più forte e allude chiaramente all’autorità stessa di Cristo: tamquam potestatem habens) i diritti e i doveri… (Quadragesimo Anno, 15 maggio 1931, BP.7.94). Qualche riga più sotto Pio XI descrive l’insegnamento papale come « vox apostolica », e si dà il compito di “vendicare contro le false imputazioni di cui è oggetto“, la dottrina del Papa che si identifica con la dottrina stessa della Chiesa: “visum est eam, id est catholicam de hac re doctrinam et a calumniis vindicare et a falsis interpretationibus tueri (ibid., BP.7.113). Nello stesso senso Divini Redemptoris: “Hæc est Ecctesiæ doctrina“, BP. PIE XI, 15.66). Questa autorità che riconosce chiaramente nelle parole del suo predecessore, Pio XI l’aveva rivendicata anche in un’altra Enciclica commemorativa, Casti connubii, dove l’accumulo di termini non può lasciare dubbi sull’intenzione di impegnare in questo documento tutto il potere del Magistero: « In ragione del Nostro ufficio di Vicario di Cristo in terra, del Nostro supremo pastorato e del Nostro Magistero, abbiamo giudicato che appartiene alla Nostra missione apostolica alzare la voce, per allontanare dai pascoli avvelenati le pecorelle a Noi affidate e, per quanto è in Noi, preservarle da essi. Pro Christi in terris Vicarii ac supremi Pastoris et Magistri munere, Nostrum esse duximus Apostolicam attollere vocem... » (Casti Connubii, 31 dicembre 1930, B.P.6.24.5). E come se queste parole non fossero abbastanza chiare e potessero ancora lasciare spazio a qualche esitazione, egli identifica, come aveva fatto per Leone XIII, la dottrina dell’Enciclica con quella della Chiesa stessa: « La Chiesa Cattolica, investita da Dio stesso della missione di insegnare e difendere l’integrità della morale e l’onestà, la Chiesa cattolica, in piedi in mezzo a queste rovine morali, alza forte la sua voce attraverso la nostra bocca, come segno della sua missione divina, per mantenere la castità del legame nuziale al sicuro da questa profanazione e promulga ancora: Ecclesia catholica.., in signum legationis suæ divinæ, altam per os Nostrum extollit vocem atque denuo promulgat… (Ibidem, 276). Poi il Papa, per ricordare ai sacerdoti il loro dovere di istruire i fedeli, si appella di nuovo « alla suprema autorità e alla cura di tutte le anime: pro suprema Nostra auctoritate et omnium animarum salutis cura » (Ibid.). Il tono, senza dubbio, si alza raramente a questa altezza; tuttavia, tali affermazioni non sono eccezionali. Non è solo nella dottrina pontificia sui doveri coniugali, ma anche in quella che tratta dei problemi sociali, che dobbiamo cercare il pensiero della Chiesa. All’inizio dell’Enciclica Divini Redemptoris sul comunismo ateo, il Papa spiega le sue intenzioni: « il suo primo scopo sarà quello di fare una breve sintesi del comunismo e dei suoi metodi di azione, e poi – aggiunge Pio XI – a questi falsi principi opporremo la luminosa dottrina della Chiesa » (Divini Redemptoris, 19 marzo 1937, BP.15.39. 4), la vera nozione della città umana… come ci viene insegnata dalla ragione e dalla rivelazione attraverso la Chiesa Magistra gentium (Ibidem, 15.54). – Non dobbiamo più stupirci del termine serio scelto dal Pontefice per designare l’enciclica. Paragonandolo ai suoi precedenti avvertimenti, lo chiama “un documento di maggior solennità, majoris gravitatis documentum“:  « Il pericolo sta aggravandosi ogni giorno. Perciò è Nostro dovere alzare ancora la voce in un documento più solenne, secondo l’abitudine della Sede Apostolica, maestra di verità, idque facimus per hoc majoris gravitatis documentum, quemadmodum huic Apostolicæ Sedi veritatis magistræ, moris est » (Divini Redemptoris, 19 marzo 1937, B.P.15.S9.).  È un’espressione quasi simile “pontificalis magisterii documentum” che Pio XII userà per descrivere un’altra lettera del suo predecessore, e forse sottolinea ulteriormente lo stretto legame che il Papa vedeva tra l’insegnamento delle encicliche e il Magistero affidato al Romano Pontefice. È tanto più importante notare che la parola non si applica solo alla Quadragesimo Anno, ma anche espressamente alla Rerum Novarum. « Siamo lieti di sapere che il suddetto documento del Magistero Pontificio (Quadragesimo Anno), come pure la lettera enciclica dello stesso genere, Rerum Novarum, di Papa Leone XIII, siano oggetto di attento esame da parte vostra » (Sertum Lætitiæ, 1 novembre 1939, BP.1.284.). Pio XII era anche consapevole del dovere aper il quale si sforzava di essere fedele, quando scriveva le sue encicliche. Già nella sua lettera inaugurale si era espresso così: « Come Vicario di Colui che, in un’ora decisiva, davanti al rappresentante della massima autorità terrena del tempo, pronunciò la grande parola: Sono nato e venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità, chi è della verità ascolti la mia voce, non c’è nulla di cui ci sentiamo più debitori al nostro ufficio e al nostro tempo, che rendere testimonianza alla verità con fermezza apostolica, Nihil Nos muneri Nostro Nostræque ætati magis debere profitemur quam testimonium perhibere veritati » (Summi Pontificatus, 20 ottobre 1939, BP. 1 .210. 3) ». – Questo è precisamente il compito che le Encicliche permetteranno di affrontare. Nel suo discorso all’udienza del 21 gennaio 1942, il Santo Padre rivendica come primo dovere il “ministero della Parola“, affidato agli Apostoli e ai loro successori dal Signore stesso: « Andate e insegnate a tutte le nazioni quello che Io stesso vi ho insegnato. » Questo ministero, che gli sta tanto a cuore, non rinuncia a compierlo rivolgendosi direttamente e in tutta semplicità ai fedeli, ai nuovi sposi inginocchiati ai suoi piedi, ma non dimentica di ricordare il primo e più importante modo di esercitarlo: « Senza dubbio esercitiamo un tale ministero in primo luogo quando, in occasioni solenni, ci rivolgiamo a tutta la Chiesa, ai Vescovi, ai Nostri Fratelli nell’episcopato… » (Discorso La Gradita Vostra Presenza, udienza del 21 gennaio 1943, vedi Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, Milano, 1942, t. III, p. 355. ) » in una parola, nelle Encicliche. Dopo queste ripetute affermazioni che sottolineano l’identità della parola pontificia inscritta nelle Encicliche con l’esercizio del Magistero, quella della dottrina che esse contengono con la dottrina stessa della Chiesa, non ci si può più stupire di vedere i Papi esigere dai fedeli il completo assenso ai loro insegnamenti; ma piuttosto si potrà cogliere da essi una preziosa conferma dell’autorità delle Encicliche, che abbiamo visto così fortemente affermata. Si è fatto riferimento sopra all’atteggiamento di Lamennais nei confronti della condanna di l’Avenir da parte di Mirari vos. Essendo la sottomissione totale, inizialmente promessa, lenta a venire, Gregorio XVI scrisse un Breve all’arcivescovo di Rennes il 5 ottobre 1833. In essa esprime innanzitutto il suo disappunto per non vedere la pubblicazione dell’atto di adesione all’Enciclica con la quale si renderebbe manifesto al mondo cattolico che (Lamennais) mantiene fermamente e seriamente e che professa la sana dottrina che Noi abbiamo esposto nelle Nostre Lettere a tutti i Vescovi della Chiesa, ipsum firme et graviter tenere, ac profiteri sanam Ulani doctrinam, quam nos nostris ad uni-versos Ecclesiæ Antistites Litteris proposuimus (Breve Litteras Accepimus, del 5 ottobre 1838. Ad Gregorii XVI, t. I, p. 311). Le sue prevaricazioni sono una prova che se egli riverisce l’autorità della Santa Sede, non si è ancora sottomesso al suo giudizio e alle dottrine da essa esposte, judicio, hac in re nostro, doctrinisque per nos traduis (ibid.). Per porre fine a questi dubbi il Santo Padre precisa il minimo richiesto a Lamennais: ut sciticet doctrinam nostris encyclicis Litteris traditam… se unice et absolute sequi confirmet, nihilque ab illa alienum se aut scripturum esse aut probaturum; seguire senza riserve ed esclusivamente la dottrina dell’enciclica e non scrivere o approvare nulla di estraneo ad essa (Ibidem). – Un’esigenza simile è espressa nell’Enciclica Immortale Dei di Leone XIII, ma questa volta non è più rivolta a un caso particolare ma si applica all’intero insegnamento pontificale: « Se quindi… i Cattolici ci ascoltano… sapranno esattamente quali sono i doveri di ciascuno sia in teoria che in pratica. In teoria, prima di tutto, è necessario aderire con incrollabile aderenza (judicio stabili) a tutto ciò che i Romani Pontefici hanno insegnato o insegneranno, e, ogni volta che le circostanze lo richiedono, farne pubblica professione » (Immortale Dei, 1 novembre 1885, BP.2.47).  – Poi applica questo principio generale agli errori denunciati nella presente Enciclica: « Soprattutto per quanto riguarda le libertà moderne, come vengono chiamate, ognuno deve attenersi al giudizio della Sede Apostolica e pensare come lui stesso pensa. Et in opinando qiiidem quæcnmqne Pontífices Romani tradiderint vel tradituri sunt, singula necesse est tenere judicio stabili comprehensa, et palam quoties res postulaverit, profiteri. Ac nomi natim de his, quas libértales vocant novissimo tempore qiiæsitas, oporlet Apostolicæ Sedis stare judicio, et quod ipsa senserit idem sentire singulos » (Ibid.). È inutile sottolineare l’importanza del futuro “vel tradituri sunt“, e della “judicio stabili“. Si potrebbero moltiplicare le citazioni dello stesso Papa; basterà raccogliere qualche altro testo. Rivolgendosi agli operai francesi poco dopo la pubblicazione della Rerum Novarum, un documento che definì “un atto del nostro ufficio di Pastore universale di anime“, Leone XIII chiese ai Cattolici « piena adesione e obbedienza agli insegnamenti della Chiesa e del suo Capo » (Udienza del 19 settembre 1891. Cfr. Acta Præcipua Leonis Papæ XIII, Desclée, Paris-Tournai, t. V, p. 3. ). Alcuni anni dopo, scrivendo ai vescovi d’America, indicò le sue precedenti Encicliche come la fonte dove i fedeli potevano trovare « gli insegnamenti che devono seguire e obbedire, quæ sequantur et quibus pareant catholici (Longinqua Oceani, 6 gennaio 1895, BP.4.172) ». Un anno dopo, avendo un giornalista francese osato mettere in discussione le decisioni della lettera pontificia Apostolicæ Curæ, sulle ordinazioni anglicane, il Sommo Pontefice scrisse all’Arcivescovo di Parigi per chiedergli di ricordare ai Cattolici il loro dovere di totale obbedienza alla dottrina pontificia, come definitivamente ferma, stabilita, irrevocabile: catholici omnea nummo dehent obsequio unplecti tamquam perpetua firmom, ratam, irrevocabilem (Lettera Religioni apua Anglos, 5 novembre 1896. Cfr. Acta præcipua…, vol. VI, p. 225). Pio X non parlerà con altro linguaggio. Di fronte alla dottrina esposta da Leone XIII nelle sue Encicliche, il dovere dei Cattolici ai suoi occhi è chiaro: « Noi proclamiamo altamente che il dovere di tutti i Cattolici – un dovere che deve essere adempiuto religiosamente e inviolabilmente in tutte le circostanze della vita sia privata che pubblica – è di custodire fermamente e di professare senza timidezza, tenere firmiter profiterique, i principi della verità cristiana insegnati dal Magistero della Chiesa Cattolica, quelli specialmente che il Nostro predecessore ha formulato così saggiamente nell’Enciclica Rerum Novarum” » (Singulari Quadam, 24 settembre 1912, BP.7.273). – In Ubi Arcano, Pio XI insisterà a sua volta nel definire “modernismo” l’atteggiamento di coloro che rifiutano di ammettere « gli insegnamenti o gli ordini promulgati in tante occasioni dai Pontefici, specialmente da Leone XIII, Pio X e Benedetto XV », o che “agiscono esattamente come se” questi insegnamenti “avessero perso il loro valore primario o addirittura non dovessero più essere presi in considerazione affatto (Ubi Arcano, 28 dicembre 1922, BP.1.172. ) ». – Possiamo stupirci di questa severità quando sentiamo lo stesso Papa dare le sue stesse Encicliche come regola di pensiero e di azione per i Cattolici, « aride catholici accipiant quid sibi sentiendum agendumque » (Mortalium Animos, 6 gennaio 1928, BP.4.67.). – Il carattere normativo delle Encicliche nei confronti del pensiero cristiano è ancora indirettamente evidente dalle condanne formali che questi documenti talvolta portano. Condannare una dottrina è proibirla, e quindi dirigere autorevolmente l’intelligenza. Abbiamo già avuto occasione di alludere alla condanna delle Parole di un credente da parte di Gregorio XVI nell’enciclica Singulari Nos, in cui si appellava alla « pienezza del potere apostolico ». Dobbiamo citare qui l’intero passaggio. Dopo aver esposto i fatti che motivano la condanna, il Papa si esprime così: « Perciò, avendo sentito diversi Nostri venerabili Fratelli, i Cardinali di Santa Romana Chiesa, di nostra iniziativa (Motu proprio), avendo acquisito la certezza dei fatti e usando la pienezza del potere apostolico Noi rimproveriamo, condanniamo, e vogliamo e ordiniamo che il suddetto libro sia ritenuto riproverato e condannato in perpetuo (reprobamus, damnamus ac prò reprobato et damnato in perpetuum haheri valumus atque decernimus), intitolato Parole di un credente, in cui, con un empio abuso della parola di Dio, i popoli si impegnano a rompere tutti i vincoli dell’ordine pubblico, a minare l’autorità, a suscitare sedizioni nel cuore degli imperi, a fomentare movimenti insurrezionali e ribellioni; Questo libro contiene proposizioni, rispettivamente false, calunniose, sconsiderate, favorevoli all’anarchia, contrarie alla parola divina, empie, scandalose, erronee, alle quali la Chiesa ha già mirato nelle sue condanne dei Valdesi, dei seguaci di Wicleff e Huss o di altri eretici dello stesso genere « (Librum) ideo propoitiones respective falas, calumniosas, temerarias, inducentes in anarchiam, contrarias verbo Dei, impias, scandalosas, erroneas, iam ab Ecclesia præsertim Valdensibus Viclefitis, Hussitis aliisque id generis hæreticis damnamus continentem, reprobamus, damnamus ac prò reprobato et damnato in perpétuant baberi volumus atque decernimus » ( Singulari Nos 25 giugno 1834, Acta Gregorii XVI -. 1-434-). Pio IX, a sua volta, nella sua prima Lettera all’Episcopato, ricorda, per confermarle, le precedenti condanne delle Società Bibliche: Il Pontefice di gloriosa memoria al quale succediamo… Gregorio XVI, seguendo in questo l’esempio dei suoi predecessori, ha riprovato queste società con le sue Lettere Apostoliche; anche noi le vogliamo condannate, et nos pariter damnatas esse volumus (Qui Pluribus, 9 novembre 1846, BP.186). (Quanta Cura, 8 dicembre 1864, BP.5). –  Poi, dopo aver descritto gli errori a cui l’Enciclica cerca di porre rimedio, il Papa pronuncia nuovamente il suo solenne ripudio: « Pieni del dovere del Nostro ufficio apostolico e pieni di sollecitudine per la nostra santa religione, per la santa dottrina, per la salvezza delle anime che ci è affidata dall’alto e per il bene stesso della società umana, abbiamo ritenuto nostro dovere alzare di nuovo la voce. Perciò, per la Nostra autorità apostolica, Noi rimproveriamo, Noi proscriviamo, Noi condanniamo, Noi vogliamo e ordiniamo che tutti i figli della Chiesa Cattolica tengano come riproverati, proscritti e condannati ognuna delle cattive opinioni e dottrine descritte nelle lettere precedenti, auctoritate nostra apostólica, reprobamas, proscribimus atque damnamm, easque ab omnibus catholicæ Ecclesiæ fîliis, veluti repróbatas, proscriptas, atque damnatas omnino haberi volumus atque mandanus.»– Ibid 13.). – Se i termini impiegati da Leone XIII, nell’enciclica Inscrutabili, sono meno formali, assumono un valore singolare per la loro connessione con le condanne del Concilio Vaticano che pretendono di confermare: « I Romani Pontefici, i nostri predecessori e in particolare Pio IX, di santa memoria, specialmente nel Concilio Vaticano…, non trascurarono, ogni volta che fu necessario, di rimproverare gli errori che irrompevano e di colpirli con censure apostoliche. Anche noi, seguendo le loro orme, confermiamo e rinnoviamo tutte queste condanne di questa Sede Apostolica della verità, … has condamnationes omnes, Nos, ex hac Apostolica veritatis Sede confirmamus et iteramus » (Inscrutabili, 21 aprile 1878, BP.1.19). – Allo stesso modo, nell’Enciclica Humanum Genus contro la massoneria: « Tutti i decreti emessi dai nostri predecessori… tutte le sentenze pronunciate da loro… Intendiamo ratificarli di nuovo sia in generale che in particolare » (Humanum Genus, 20 aprile 1884, BP.1.269). Le sentenze e i decreti, ai quali qui si fa riferimento, comprendevano oltre alle Costituzioni Apostoliche di Clemente XII, Pio VII e Leone XII, le encicliche di Pio VIII, Gregorio XVI e Pio IX (Ibid. 1.245). – La disapprovazione di Pio X per il principio della separazione tra Chiesa e Stato non è meno chiara: « Che sia necessario separare lo Stato dalla Chiesa è una sentenza assolutamente falsa, e in sommo grado perniciosa, profecto falsissima, maximeque perniciosa sententia est (Vehementer, 11 febbraio 1906, BP.2.126). L’Enciclica sulle associazioni di lavoratori è un altro giudizio definitivo, un divieto formale, che i Vescovi tedeschi hanno ricevuto: Poiché abbiamo sollevato questa causa e, dopo aver consultato i vescovi, spetta a Noi pronunciare la sentenza, ingiungiamo a tutti i buoni uomini di astenersi d’ora in poi da ogni controversia… (Singulari Quadam, 24 ottobre 1912, BP.7.278). – Un altro esempio di condanna formale è fornito dalla prima lettera Enciclica di un Papa il cui brevissimo Pontificato, interamente assorbito dalla sollecitudine della guerra, gli permette raramente di essere citato. Dopo aver ricordato che la Chiesa si aspetta dai suoi difensori qualcosa di diverso dalle vane dispute, ma chiede loro al contrario di lavorare con tutte le loro forze per conservare la fede nella sua integrità e per proteggerla da ogni alito di errore, seguendo principalmente Colui che Gesù Cristo ha costituito custode e interprete della verità, Benedetto XV denuncia coloro che, « preferendo il proprio giudizio all’autorità della Chiesa, sono arrivati nella loro temerarietà a giudicare i misteri divini e tutte le verità rivelate secondo la propria comprensione, non esitando ad adattarle al gusto dei tempi presenti. » Poi aggiunge: «  Così nacquero i mostruosi errori del modernismo, che il Nostro predecessore proclamò giustamente la somma di tutte le eresie e che condannò solennemente. Questa condanna, V. F., la rinnoviamo in tutta la sua estensione. Decessor Noster omnium hæreseon collectum edixit esse et solemniter condemnavit. Eam Nos igitur condemnationem… qnantacumque est, hic iteramus » (Ad Beatissimi, 1 novembre 1914, BP. 1.43,44.). – Per evitare queste condanne, il modernismo cambierà il suo metodo e assumerà una forma più capziosa. Evitando affermazioni di principio, si rifletterà solo nel campo dei fatti, dove non si terrà conto delle condanne dottrinali dei Pontefici. Pio XI lo perseguirà fino a questo punto pericoloso: denunciando coloro che  agendo esattamente come se gli insegnamenti e gli ordini promulgati tante volte dai Pontefici, in particolare da Leone XIII, Pio X e Benedetto XV, avessero perso il loro valore primario o addirittura non dovessero più essere presi in considerazione,  conclude con un giudizio formale: « Questo fatto rivela una sorta di modernismo morale, giuridico e sociale; lo condanniamo formalmente come il modernismo dogmatico. Quod quid quidem una cum modernismo illo dogmático, impense reprobamus » (Ubi Arcano, 28 dicembre 1922, BP. 1.172.). Quando, alla fine dello stesso pontificato, la sollecitudine del Papa si rivolse a un altro errore, il comunismo ateo, l’enciclica che lo denunciava iniziò con il riferimento alle precedenti riprovazioni di questo errore, sia di Pio IX che dello stesso Pio XI: “Ad communistarum errores quod attinet, jam. . decessor noster… eos solemniter reprobavit, reprobationemque suam subinde per Syllabum confirmavit  (Divini Redemptoris, 19 marzo 1937, BP.15,36 )… denuntiavimus, improbauimus… solemniter expostulando conquesti sumus » (Ibid. 37,38). – A questo dossier  già imponente a favore dell’autorità delle Encicliche, si è appena aggiunta una pagina della Humani generis, la cui importanza non si saprebbe mai abbastanza stimare:  « Né si deve pensare che ciò che viene proposto nelle Encicliche non richieda di per sé un assenso, poiché i Papi esercitano in esse il potere supremo del loro magistero. A ciò che viene insegnato dal Magistero ordinario si applica anche il detto: “Chi ascolta voi, ascolta me“; e il più delle volte ciò che viene esposto nelle Encicliche appartiene già d’altra parte alla dottrina cattolica. Se i Papi giudicano espressamente nei loro atti una questione che prima era controversa, tutti capiscono che questa questione nel pensiero e nella volontà dei Pontefici non è più da considerare come una questione libera tra i teologi (Neque putandum est, ea quæ in Encyclicis Litteris proponuntur assensum per se non postulare, cum in iis Pontífices supremam sui Magisterii potestatem non exerceant. Magisterio enim ordinario haec docentur de quo illud etiam valet:Qui vos audit, me audit”, (Luc, X, 16); ac plemmque quae in Encyclicis Litteris proponuntur et inculcantur, jam aliunde ad doctrinam catholicam pertinent. Quod si Summi Pontífices in actis suis de re hactenus controversa data opera sententiam ferunt, omnibus patet rem ìllam, secundum mentem et voluntatem eorumdem Pontificum, quæstionem liberge inter theologos disceptationis jam haberi non posse. (A. A. S. t. XLII, p. 561). Diamo nel testo la traduzione. Bonne Presse, p. 10).  Dovremo esaminare questo testo in dettaglio più avanti; ci basta qui raccogliere due affermazioni che confermano ciò che avevamo già appreso dalla nostra rapida indagine. Quando ascoltiamo l’insegnamento delle Encicliche, espressione del magistero ordinario, sentiamo Cristo stesso: Chi ascolta voi, ascolta me. Quindi, se i Papi esprimono un giudizio dottrinale in essi, la causa deve essere considerata come ascoltata.

* * *

Queste linee molto formali della Humani generis iniziano però con una formula che ci invita a completare la nostra troppo lunga spogliazione dei testi. Se non vogliamo rimanere di parte, è importante che, accanto alle affermazioni a favore dell’autorità delle Encicliche, si abbia cura di sottolineare il carattere proprio di queste lettere, che più di una volta ha confuso i teologi abituati a cercare l’espressione della Regola di fede nei Canoni dei Concili o nelle Definizioni contenute nelle solenni Costituzioni Apostoliche. In un caso, infatti, una formula volutamente concisa, almeno sempre circostanziata, della dottrina. Essa non dibatte, ma è attentamente soppesata per esprimere, con rigorosa precisione, un’affermazione dottrinale il cui rifiuto o accettazione decide tra la comunione della Chiesa o l’anatema solenne; nell’Enciclica, invece, c’è un’esposizione della dottrina a volte prolissa, ma sempre dettagliata. Non si tratta tanto, sembra, di una sfida al credente a scegliere tra accettare o rifiutare un articolo di fede, quanto di un invito all’intelletto a fare proprio il pensiero pontificale, a coglierne la validità e a farsi illuminare dalla sua luce (Se viene redatta una lista di proposizioni condannate, è spesso in un documento di accompagnamento, piuttosto che nell’Enciclica stessa. Così il Sillabo, inviato ai vescovi contemporaneamente alla Quanta Cura).  – Se si tratta di mettere in guardia contro un errore, l’Enciclica cercherà prima di tutto di scoprirne la causa, di mostrare i motivi che hanno animato i suoi autori, di denunciare le sue disastrose conseguenze. Poi arriva la condanna, ma si sforzerà di esporre i suoi motivi in modo ampio, e soprattutto vorrà opporre alle concezioni erronee, la solida sintesi della dottrina cattolica, che il documento pontificio a volte si soffermerà a spiegare in dettaglio, e spesso ne stabilirà la validità con una dimostrazione in regola. – Leone XIII, in Quod apostolici muneris, vuole bloccare la strada al socialismo. La lettera inizia con un’esposizione dell’obiettivo perseguito dai fautori dell’errore, e poi passa a cercare le cause dell’errore, senza temere di ripercorrere i secoli per riuscirci nel modo più completo. La confutazione arriva solo dopo: di fronte al socialismo, che distrugge l’ordine sociale, il Papa dipinge un quadro della dottrina sociale cristiana. Tutta la fine dell’enciclica sarà lo sviluppo di questa opposizione, che sarà perseguita fino alle sue conseguenze finali. Tra queste due concezioni della società, il popolo sarà finalmente invitato a scegliere, ed i Vescovi ad insegnare ampiamente la dottrina sociale della Chiesa. – L’enciclica Arcanum, scritta nel gennaio 1880, meno di due anni dopo quella che abbiamo appena analizzata, è un altro vero trattato, questa volta sul matrimonio cristiano. La stessa ricchezza di dottrina, la stessa abbondanza di prove. Solo l’ordine di presentazione è qui invertito: la dottrina cattolica è la prima ad essere presentata nel suo sviluppo storico e nella sua sintesi. La seconda parte della lettera è dedicata alla critica dell’errore, il cui punto di partenza il Papa prima denuncia, per poi istituire una vigorosa confutazione. Questo sarà ancora l’ordine seguito da Libertas. Inizia esaminando la nozione cristiana di libertà e la necessaria distinzione tra libertà psicologica e morale. Una volta chiarita questa nozione equivoca, il Papa passa alla critica del liberalismo e delle false libertà che ha sostenuto. La lettera si conclude con uno studio dei casi pratici che possono presentarsi per una coscienza cristiana. – Uno degli esempi più caratteristici è senza dubbio quello dell’Enciclica Pascendi, dedicata interamente a combattere le dottrine moderniste. La codificazione degli errori in formule precise era già stata fatta al momento della sua pubblicazione; il decreto Lamentabili, il 4 luglio 1907, aveva appena condannato 65 proposizioni che esprimevano il pensiero di autori modernisti. Due mesi dopo, l’8 settembre, la lettera pontificia fu a sua volta indirizzata ai Vescovi. Questa volta non si trattava più di un breve catalogo, ma di un vero e proprio trattato. L’Enciclica inizia denunciando il pericolo che i nuovi errori fanno correre alla Chiesa, e poi, in pagine che non rifuggono dalle spiegazioni più dettagliate, indica i vari aspetti, spesso complessi, della dottrina incriminata; tenta persino di penetrare la psicologia profonda di coloro che, più o meno consapevolmente, si fanno suoi propagandisti. Sappiamo come Pio X ci sia riuscito; le stesse persone di cui ha rivelato il pensiero con più precisione di quanto fossero state capaci di analizzare loro stesse, lo hanno confessato. Sembra, leggendo questa Lettera con il senno di poi che abbiamo oggi, che il Beato Pontefice abbia voluto, per allontanare il pericolo, riversare sulla Chiesa un immenso fiume di luce. In essa, coloro che si sono smarriti, possono riconoscere i loro errori e ritrovare la strada verso la verità, i Cattolici possono tenersi in guardia, e soprattutto i Vescovi avrebbero potuto agire di concerto per salvaguardare il gregge comune. Le ultime pagine dell’Enciclica indicavano loro con precisione i mezzi da adottare per un’azione efficace.  Senza formulare proposte, senza alcun apparato giuridico, questa lunga e ricca esposizione condannava il modernismo in una prospettiva diversa da quella del decreto, e allo stesso tempo offriva alla Chiesa una fonte incomparabile di dottrina. Osservazioni simili potrebbero essere fatte su quasi tutte le Encicliche. Uno delle più recenti, Mediator Dei, è un esame e un chiarimento estremamente dettagliato di tutto il problema liturgico. Il Papa si rivela un vero Pastore e Dottore universale, mettendo in guardia il suo gregge contro le insidiose apparenze dell’errore, e per ottenere questo, egli stesso distribuisce loro il pane della sana dottrina con magistrale ampiezza. Tuttavia, se le deviazioni vengono denunciate, se la verità viene richiamata con forza, coloro che “si sono allontanati dalla retta via non vengono colpiti da alcun anatema. Il Papa li esorta soltanto a “rettificare il loro modo di parlare e di agire“, affinché l’unità di fede tra tutti i membri della comunità cristiana sia assicurata senza fallo intorno al pensiero pontificio. I Pontefici hanno ripetutamente presentato questo disegno di insegnare in senso proprio, “esponendo la verità e confutando l’errore” come la ragione per scrivere le loro Encicliche. All’inizio della Rerum Novarum, per esempio, Leone XIII specifica lo scopo di questa nuova lettera, simile a quelle che abbiamo appena analizzato: “confutare le opinioni erronee e fallaci“. Quod alias consuevimus, Venerabiles Fratres, datis ad vos litteris de imperio político, de libértate humana, de civitatum constitutione christiana, aliisque non dissimili genere, quæ ad refutandas opinionum fallacias opportuna videbantur, idem nunc faciendum de conditione opificum iisdem de causis duximus (Rerum Novarum, 16 maggio 1891, BP.3.18). ” – Quod Apostolici Muneris, per stessa ammissione del Papa, si proponeva a sua volta “di avvertire pubblicamente i Cattolici dei profondi errori nascosti nelle dottrine del socialismo e dei pericoli che esse ponevano, non solo ai beni esterni, ma anche alla probità dei costumi e alla religione (Graves de Communi, 8 gennaio 1901, BP.6.205)”. Pio XI non interpretò diversamente lo scopo di Leone XIII in Arcanum, vedendolo come “quasi interamente dedicato a provare l’istituzione divina del matrimonio (Casti Connubii, 31 dicembre 1930, BP.6.246. )”. Ritornando sullo stesso argomento, amplia l’affermazione del suo predecessore: “Abbiamo quindi deciso di parlarvi… della natura del matrimonio cristiano, della sua dignità, dei vantaggi e dei benefici che esso apporta alla famiglia e alla stessa società umana, dei gravissimi errori contrari a questa parte della dottrina evangelica, dei vizi che sono contrari alla vita matrimoniale, e dei principali rimedi ai quali è necessario ricorrere” (Ibid., 244). -Abbiamo visto sopra lo stesso Papa, in una delle sue ultime Encicliche, quella diretta contro il comunismo ateo, usare per ricordare le condanne di Pio IX il termine « solemniter reprobavit » e designare i propri avvertimenti con le espressioni: denuntiavimus, improba-vimus, solemniter expostulando conquesti sumus. L’enciclica Divini Redemptoris, che si presenta come il majoris gravitatis documentum, indica chiaramente il suo scopo. In essa, il Sommo Pontefice non si propone di condannare, ma di riassumere tutti gli errori comunisti per opporsi ad essi con la forza della dottrina della Chiesa: «Volumus denuo communistarum inventa… summatim breviterque attingere atque explanare; iisdemque… perspicuam Ecclesiæ doctrinam opponere » (Divini Redemptoris, 19 marzo 1937, BP.15.39-41).  Pio XII dà così il vero carattere dell’insegnamento enciclico quando, nella sua lettera inaugurale, precisa la natura del dovere pontificio di testimoniare la verità: « Questo dovere include necessariamente l’esposto e la confutazione degli errori e delle colpe che è necessario conoscere per poterli curare e guarire. Hoc officium, cui satis Nos apostolica firmitudine opus est, id necessario postulat ut errores hominumque culpas ita exponamus ac refutemus, ut iisdem perspectis ac cognitis fas sit medicinam curationemque præbere » (Summi Pontificatus, 20 ottobre 1939, BP.1.210)”. – A questo insieme di affermazioni, la Humani generis fornisce una preziosa conferma. Non esclude la possibilità di giudizi dottrinali nelle Encicliche. È questo anche espressamente menzionato. Tuttavia, il più delle volte, plerumque, si afferma, il ruolo delle lettere pontificie è quello di un richiamo della dottrina, e abbiamo visto quanto spesso sia magistrale e dettagliato. Normalmente le Encicliche ci portano l’insegnamento nel senso usuale del termine, e sono gli strumenti del « magistero ordinario, magisterio ordinario hæc docentur », di cui appaiono come i documenti maggiori. Torneremo più tardi su questo testo, così pieno di dottrina. – Alla fine di questa prima parte del nostro studio, ci basta ritenere le due caratteristiche che il nostro esame troppo rapido delle Encicliche ci ha permesso di scoprire: prima di tutto quella della grandissima parte di esse, cioè la « pienezza dell’autorità che la Santa Sede impegna. » Più di una volta abbiamo visto i Sommi Pontefici appellarsi con le loro stesse parole alla “pienezza dell’autorità apostolica“, chiamandoli “documenti del Magistero Pontificio“. Abbiamo notato molti passaggi che, o per l’accettazione richiesta ai fedeli o per la fermezza delle condanne, portano alla stessa conclusione.  L’altro carattere scoperto nelle Encicliche sembra a prima vista un po’ opposto al primo: l’assenza in questi documenti, o almeno la scarsità di definizioni precise, censure rigorose e anatemi, così familiari nei Canoni Conciliari o anche nelle Costituzioni dogmatiche. Al contrario, il loro modo di insegnare è quello di un’esposizione ampia e completa della dottrina della Chiesa, così come degli errori che vi si oppongono, esposizione che è spesso accompagnata da tutto un apparato di prove metodiche, pronostici per il futuro, ricerca delle cause, indicazioni pratiche ed esortazioni. Ma c’è una vera opposizione tra questi due aspetti? Forse è stato creduto troppo facilmente e ammesso senza ragioni valide. Questo potrebbe spiegare le divergenze notate sopra tra i teologi sull’autorità delle Encicliche. Alcuni, attenti soprattutto al modo di espressione di questi documenti, avrebbero concluso senza un esame sufficiente che esse erano puramente indicativi. Altri, colpiti al contrario dall’appello che i Papi facevano alla loro autorità sovrana, li avrebbero trattati come definizioni ex cathedra, forse un po’ frettolosamente.  L’esame dei testi, come abbiamo appena visto, ci obbliga, al contrario, a riconoscere entrambe queste caratteristiche delle Encicliche, anche se sembra difficile mostrare il legame tra di esse. La loro coesistenza sembra essere il fatto primario davanti al quale ogni studio coscienzioso dell’autorità dottrinale delle Encicliche deve inchinarsi. È solo dopo averla registrata fedelmente che il teologo può cercare di risolvere l’apparente paradosso che essa pone. Sarebbe sbagliato, inoltre, lasciarsi scoraggiare dalla difficoltà o cercare di evitarla abbandonando l’uno o l’altro aspetto del fatto fondamentale. La soluzione richiederà senza dubbio ulteriore attenzione. Ma questo sarà un nuovo beneficio. Rileggendo ancora una volta queste Lettere Pontificie, interrogando i testi in cui i Pontefici hanno potuto chiarire il loro pensiero sull’intenzione che le ha dettate, forse potremo scoprire, contemporaneamente alla spiegazione del doppio carattere riconosciuto alle Encicliche, nuovi chiarimenti sulla loro natura e sul titolo esatto della loro autorità.

UNA FONTE DOTTRINALE: LE ENCICLICHE (2)