VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 11

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (11)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VIII.

Della mortificazione

È verità certissima che, dopo il peccato, Adamo è stato maledetto tutto intero, vale a dire non solo nella sua persona ma anche in tutta la sua discendenza: dimodoché Dio riprova tutto quanto di Adamo v’è in noi; la sua santità non lo potrebbe sopportare. La condanna divina, non porta soltanto su la carne, ma ancora su le opere della carne; perciò, queste opere sono da S. Giovanni chiamate carne. Ciò che è nato dalla carne è carne: la carne non serve a nulla; e S. Paolo la chiama morte e carne di peccato, perché ci porta al peccato; è ripiena « di desiderii del peccato, non ha in sé che inclinazione propensione al peccato (Joann., III, 6; VI, 64- Rom. VIII. 6). Se persino in Nostro Signore la carne viene da S. Paolo chiamata peccato e maledizione, benché in Lui non vi fosse che la somiglianza col peccato, non avendone Egli preso che la figura e l’immagine (Rom. VII, 8): quanto più deve essere chiamata con tale nome in noi che, pur troppo, ne abbiamo la malizia, la dissolutezza ed i disordini?

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Donde chiaramente appare che tutto quanto si opera per principio della carne, per la sua mozione, le sue inclinazioni, i suoi desideri, la sua impressione e la sua impetuosità, non serve di nulla per la vita eterna, ma, al contrario, viene senza posa riprovato da Dio; secondo questo fondo corrotto e questa parte maligna, con tutto ciò che da tale principio viene operato in noi, siamo per il Signore oggetto di avversione. Dovremmo vivere in una immensa confusione, con la faccia contro terra, per la vergogna di vederci così riprovati da Dio in una parte di noi stessi e per la malignità di quel fondo maledetto che abbiamo in noi. – Le opere, infatti, che provengono dalla mozione e dall’istinto della carne oppure dalla pradenza della carne, non sono che opere di morte (Rom. VII, 6), da Dio condannate come frutto della malignità del demonio, il quale ha corrotta la nostra carne e vi ha impresso quelle maligne inclinazioni che la portano ad allontanarsi da Dio e usurparne il posto, col cercare sé stessa in ogni cosa come suo ultimo fine (La scuola berulliana adotta, riguardo agli effetti del peccato originale in noi, l’opinione teologica più stretta. Perciò le espressioni di Giov. Olier contro la carne sono assai forti, ma sempre nei limiti della fede. Per altro, il linguaggio del Servo di Dio, in sostanza, è quello di S. Paolo nel capo VIII dell’Epistola ai Romani e dell’Imitazione di Cristo nei capitoli XIV e XV del libro III. Anche Nostro Signore disse che dobbiamo odiare l’anima nostra – Joan. XII, 25, ossia « quella parte di noi, come spiega G. Olier in altro luogo, che è unita alla carne ed è contraria a Dio con la carne »). Ecco il fondo e l’origine della nostra malignità intima e segreta, quella prepotente inclinazione a cercare incessantemente, in ogni nostra azione, null’altro che il nostro interesse, la nostra soddisfazione e il nostro onore, non mai Dio, non mai la sua volontà né il suo compiacimento. La carne non può mai cercare Dio perché, come dice S. Paolo, essa non è, né mai può essere soggetta alla legge di Dio (Rom. VIII, 7). – Perciò, Nostro Signore, venuto al mondo per farci intendere la nostra miseria e la necessità del soccorso di un principio interiore che ci faccia vivere divinamente, volendo renderci persasi dell’urgente bisogno che abbiamo di un altro spirito che quello della carne, vale a dire, dello Spirito Santo che ci attacchi a Dio, elevandoci al disopra della terra, diceva: Lo Spirito è quello che dà la vita (Joan. VI, 64). Lo Spirito Santo dà la vera vita, lo Spirito Santo santifica tutte le nostre opere, lo Spirito Santo ci fa operare in tutto come veri figli di Dio (Rom. VIII, 14). – I veri figli di Dio sono ben differenti la quelli di Adamo, perché sono diretti dallo Spirito Santo e condotti dalla luce della fede; ricevono la virtù di operare con l’intenzione di piacere a Dio e in un modo superiore alla propria natura. Ciò presupposto, possiamo notare vari motivi che ci obbligano alla mortificazione di noi stessi.

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Primo motivo della mortificazione.

Siamo Cristiani, dobbiamo vivere secondo lo Spirito ricevuto nel Battesimo. In questa vita c’è sempre da combattere. – Grande vantaggio nella lotta contro la carne.

Il Cristiano non deve vivere secondo la carne, (Debitores sumus non carne, ut secundum carnem vivamus. – Rom., VIII, 12), ma secondo lo spirito, avendo nel battesimo ricevuto in sé lo Spirito Santo perché sia il principio delle sue opere e tolga alla carne la facoltà di trascinarlo. Questo ci obbliga a reprimere la carne e a mortificarla in ogni occasione, affinché lo Spirito Santo possa fare in noi ciò che Egli vuole e portarci a ciò che Egli desidera. Benché lo Spirito ci porti talora a certe cose che sono pure conformi ai desideri della carne, come sono il cibo, il riposo ed altre simili, non le dobbiamo tuttavia compiere per i motivi impuri ed i fini perversi della carne, né per un maledetto principio di amor proprio, ma per un principio divino, per un principio di santità che ci elevi a Dio nel distacco da noi stessi e dalle creature. Orbene, ecco il segno per conoscere la differenza che passa tra le opere alle quali ci portiamo per il principio della carne e quelle alle quali ci portiamo per il principio dello Spirito. Chi opera secondo il principio della carne, opera con precipitazione, con veemenza. per il proprio piacere, e senza essere mosso da nessuna intenzione rivolta a Dio. Quando invece siamo mossi dallo Spirito, questo ci ispira interiormente qualche motivo divino, quindi il nostro operare viene riferito a Dio, con l’intenzione di piacere a Lui e di renderci capaci di servirlo; noi allora, più dell’opera che facciamo e più della creatura di cui abbiamo bisogno, consideriamo Dio medesimo. – Inoltre, lo Spirito si fa sentire per la forza con cui ci eleva a Dio, per la dolcezza, la pace, la soavità della sua mozione; ci tiene distaccati da noi medesimi, e rimane in possesso della nostra volontà onde portarla, nelle sue mani, a tutto quanto Egli desidera da noi. È questo propriamente ciò che si chiama essere spirituali e in ogni cosa vivere secondo lo spirito; quando, cioè, lo Spirito Santo è in noi il principio di tutto, ci possiede interamente, ci tiene nelle sue braccia e ci porta dovunque gli piace. Benché in alcuni ciò avvenga in modo più sensibile che in altri, ciò si verifica in tutti quelli che vogliono mortificarsi, rinunciando in tutto alla propria carne e a sé medesimi. – Quando lasciamo il posto allo Spirito con piena libertà di disporre di noi, Egli non manca mai di esercitare in noi la sua azione e di dirigerci; non manca mai di prendere possesso delle nostre facoltà per elevarle alle opere che Dio desidera da noi, perché viene e abita in noi unicamente per promuovere, per mezzo nostro, la gloria di Dio. Egli sta in noi, per essere il principio della nostra vita nuova, di quella vita divina di cui dobbiamo vivere. Dopo il battesimo, infatti, nel quale abbiamo ricevuto lo Spirito di figlioli di Dio, noi dobbiamo vivere secondo la volontà di Dio, anzi vivere della vita medesima di Dio, perché il figlio deve vivere della vita del padre suo; il figlio proviene dal padre come un secondo vivente, deve quindi continuare, dilatare e propagare la vita medesima del padre, in una parola, aver col padre un medesimo principio di vita. Orbene, la vita di Dio in se stesso è Dio medesimo, ed Egli è il principio della propria vita. Così la vita in noi è Dio: Dio è il principio della nostra vita, principio che ci anima, ci muove ed è la nostra forza. Qui sta la differenza tra i battezzati e gli infedeli; i battezzati han ricevuto lo Spirito di Dio, che è Dio medesimo il quale abita in essi come nuovo principio di vita e di azione. Ma gli infedeli e tutti i figli di Adamo sono mossi dalla carne e dallo spirito maligno; vivono secondo i sentimenti, i movimenti e la vita della carne e dello spirito maligno. E così avviene pure dei Cristiani che cadono in peccato mortale; perché, rinunciando allo Spirito divino col quale erano una sola cosa, per unirsi ed aderire allo spirito maligno, diventano per ciò stesso una cosa sola con quest’ultimo. Il demonio ha gran potere sopra la carne, perciò dobbiamo stare in guardia per essere costanti nel rinunciare coraggiosamente ad essa; egli la spinge, la muove, l’anima a suo piacimento, perché non è ancora rigenerata né santificata come il nostro spirito è rigenerato e santificato dal battesimo. Nella presente vita, la nostra rinascita non è perfetta; essa è parziale, né sarà completa che nel giorno del giudizio e della universale rigenerazione; allora i nostri corpi saranno rinnovati e trasformati, le loro inclinazioni maligne e carnali saranno cambiate in quelle dello spirito; trasformazione che non viene operata dal battesimo in questa vita, Nel battesimo, lo spirito dell’uomo viene rigenerato, dimodoché riceve inclinazioni nuove, riceve cioè le inclinazioni di Gesù Cristo invece di quelle di Adamo delle quali era ripieno a motivo della relazione con la carne maledetta che proviene da Adamo e ne conserva le inclinazioni. L’anima non ha la sua origine da Adamo, ma da Dio che l’ha tratta dal proprio seno per metterla in quel corpo umano che proviene da Adamo. Perciò, Dio la considera come sua figlia, e si prende cura di purificarla, lavarla, separarla, santificarla mediante la grazia del Figlio suo e per l’aspersione del sangue di esso, per la presenza del suo proprio Spirito che la libera e la purifica dalle macchie contratte nella alleanza con la carne. Orbene, benché l’anima sia così purificata e rigenerata, il corpo, vero figlio di Adamo, conserva sempre le sue inclinazioni e le sue tendenze, rimane sempre per intero nei suoi primitivi e maledetti sentimenti, e tale rimarrà sino al giorno della rigenerazione universale per la quale nel dì del giudizio, i corpi saranno riformati da Gesù Cristo nostro Padre, che infonderà in essi i suoi propri sentimenti e li renderà partecipi della sua redenzione. Noi sospiriamo, dice S. Paolo, e gemiamo entro noi stessi, perché sentiamo ad ogni ora gli istinti della carne e la vita del nostro misero padre Adamo (Rom. VIII, 23). Sospiriamo perché, essendo già figli di Dio nello spirito, non lo siamo ancora nel corpo; perché la nostra carne non ha ancora ricevuto le inclinazioni del Padre nostro e non è ancora partecipe di quelle del nostro spirito. Gemiamo perché non siamo ancora figli che a metà (Initium aliquod creaturæ ejus. Jac., I, 18), mentre i nostri corpi non partecipano ancora alla nostra adozione, non hanno ancora ricevuto gli effetti della grazia di adozione e rimangono privi, a differenza della nostra anima, dei privilegi della redenzione operata da Gesù Cristo. – Ahimè, qual peso per il nostro spirito! Quale pericolo per noi, il nostro corpo! Esso è così lontano da Dio, così pesante e pende così fortemente verso la rovina, che facilmente trascina l’anima e lo spirito, se non resistono continuamente alle sue maledette inclinazioni. L’anima è costretta ad animare la carne e a servirsene, ma ne resta aggravata. La carne deprime lo spirito, ossia quella parte superiore ed eminente che lo Spirito Santo eleva alla partecipazione della sua divina luce. È dunque essenziale che il nostro spirito si mantenga continuamente fermo nella sua adesione allo Spirito Santo e si elevi continuamente a Lui; che ad ogni ora si dia e si abbandoni alla sua potenza, separandosi e allontanandosi dall’anima infetta dalla carne e dalle mozioni della carne e perciò attratta verso la terra e le creature. Se il nostro spirito non rimane fedele in tal modo allo Spirito Santo, diventa carne, perché da questa si lascia assorbire e ne riceve i sentimenti, a quel modo che prima era spirito, quando cioè aderiva allo Spirito Santo e gli era unito per l’amore e l’affezione. Tale è lo stato dell’uomo in questa vita, stato che lo pone nella necessità di rinunciare incessantemente a se stesso, di resistere alla propria carne, di mettersi risolutamente dalla parte dello spirito, di vivere continuamente nel timore a motivo della smania del corpo nel ricercare la propria soddisfazione. Perciò la via che dobbiamo seguire, via unica, sicura e certa, è di rinunciare alla carne, togliendo tutto quanto essa desidera e così aderire allo spirito e non essere che una sola cosa con lui. Allora si compirà quanto dice l’Apostolo: Chi aderisce a Dio, ossia sta unito a Dio, diventa con Lui un solo Spirito (1 Cor. VI, 17). Procuriamo dunque di darci per intero a quel divino Spirito, rinunciando a tutto quanto non è Lui. – O Spirito divino, rapiteci! Elevateci a tutto ciò che è di vostro gradimento! Fate che nulla ci trattenga più in questo mondo né ci attacchi alla terra! Fate che non ci occupiamo più di cose terrene: A Voi, a Voi solo il nostro cuore, le nostre affezioni e tutto ciò che siamo!

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Ecco, dunque, il primo motivo che abbiamo di praticare la mortificazione; siamo Cristiani e quindi obbligati a vivere secondo lo Spirito che abbiamo ricevuto nel battesimo e che ci fa aderire a Dio onde non vivere più secondo la carne. Benché una tal pratica sia la rinuncia ad ogni cosa creata, tuttavia non vi perdiamo nulla. Perché, in virtù di questa unione ammirabile di Dio con noi e di noi con Dio, noi, in quel Dio che possiede in se stesso ogni verace bene, troviamo attrattive così potenti, che l’anima nostra senza rincrescimento si priva di tutto quanto le viene proposto dalla carne. In Dio essa trova i beni veraci di cui gli altri beni non sono che apparenze: Dio ha voluto che questi beni apparenti fossero come immagini, figure, somiglianze di Lui; se l’anima prende queste figure per la realtà, sta nella menzogna, ma se ne giudica con rettitudine e ne ha una vera conoscenza, vi rinuncerà mille volte al giorno. Essa riconoscerà che il grande ed unico bene è Dio, il quale ora vuol essere posseduto in se stesso e non più nelle sue creature, come quando si dava all’anima sotto la figura delle creature, facendosi conoscere ed amare sotto i titoli e le qualità con cui in esse rappresentava sé medesimo; a questo fine si presentava, come luce nel sole, come calore nel fuoco, come fermezza sotto la figura della terra, come bellezza nei fiori; ma erano rappresentazioni sempre imperfettissime, perché si trattava di creature materiali, corruttibili e passeggere. Ora, invece, Egli non vuole più darsi al possesso dell’anima che in se stesso e in spirito; vuole che l’anima lo possegga immediatamente e si dà ad essa direttamente. Dio vuole che l’anima e lo spirito gli stiano interiormente uniti, dimodocé Egli li possegga, li animi, li diriga e li elevi in tal modo al di sopra della carne e della terra, che non abbiano più nessun altro desiderio che di essere totalmente da Dio, posseduti e in Lui consumati. In forza di che noi viviamo nell’avversione della carne e da essa separati, e la mortifichiamo in tutto nella nostra persona.

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Ma è da notarsi che questa mortificazione deve essere non solo universale, ma anche continua, perché la minima mancanza di mortificazione abbassa l’anima ad aderire alla carne; e così a poco a poco il nostro spirito diventa carne, si distacca da Dio per abbandonarsi alla creatura. Il nostro spirito quanto più si ferma alla creatura tanto meno aderisce a Dio, perché ne riceve meno il soccorso. Quanto più è privo del grande aiuto di Dio cui prima aderiva e dal quale era sorretto, tanto più diventa pesante, inclinato alle cose terrene; così per non aver mortificato continuamente la propria carne, a poco a poco cadrà nella rovina. Se vivrete secondo la carne, dice S. Paolo, morrete; se invece, con lo spirito, darete morte alle azioni della carne, vivrete (Rom. VII, 131).Questa pratica della mortificazione èfacile per chi vive nello Spirito della graziaed è ben posseduto da Dio; perché loSpirito Santo che sta in noi, attira l’animanostra, trattiene il nostro spirito perchénon aderisca alle creature. Quando sigode in tal modo della unione perfetta epura con Dio, bisogna guardarsi bene daiprimi assalti delle creature; appena si sentequalche attrattiva verso di esse, bisognaresistervi, allontanarsene e separarsene totalmente. Se avviene, a cagione di esempio, esi presenti ai nostri occhi qualche oggettoattraente e che l’anima sia spinta a compiacersene, bisogna rinunciarvi e astenersi dal guardarlo. Questo si chiama mortificare i propri occhi; così bisogna dire degli altri sensi esterni ed interni, ed anche delle altre facoltà dell’anima nostra

LA VITA INTERIORE (18)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (18)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione Riveduta.

LUCE DIFFUSA

LA DEVOZIONE A MARIA

LE ALTEZZE DI MARIA.

Ad Jesum per Mariam.

Tota ratio spei meæ, Maria!

« Non vi è certamente che un Dio solo e un solo Mediatore necessario, Gesù Cristo. » Ma piacque alla sapienza e alla Bontà divina di darci dei protettori, degli intercessori e dei modelli che siano o almeno sembrino più vicini a noi; e sono i Santi, i quali, avendo ricopiato in se stessi le perfezioni divine e le virtù di Nostro Signore, fanno parte del suo corpo mistico e si dànno pensiero di noi che siamo loro fratelli. Onorandoli, onoriamo Dio stesso e un riflesso delle sue perfezioni. » Tra di essi, soprattutto, c’è Maria, la Madre di Dio e Madre degli uomini » (TANQUEREY, Compendio di vita Ascetica, 103). Ed è più che giusto. Maria non è solo la piena di grazia; ma il tempio, il tabernacolo vivente dell’autore della grazia! È la Regina celeste che ha tutte le virtù! Nessun’anima, nessuna, anche se attinse alle più alte vette della santità, può esserle paragonata. Per la sua altezza, per la ricchezza immensurabile delle sue perfezioni, per la sua intimità con Dio, noi dobbiamo invocarla, pregarla, imitarla, certi che, per mezzo di Lei raggiungeremo l’unione con Dio, l’unificazione con Gesù, il termine delle nostre elevate aspirazioni. « Signore Gesù, ascolta quanto il cuore, sotto l’azione soave della tua di amore ci suggerisce! Il cuore della Madonna, quale verginale campo di fecondità divina! Tu scendesti, verso di Dio, in questo campo: celeste ed una fecondazione infinita riempi la terra di Paradiso! Ma dimmi, Signore: anche dopo che la Vergine ti generò al mondo, non rimanesti Tu, con la invisibile presenza della Tua Parola, a fecondare quella valle celeste e silenziosa? Il Cuore di Maria non resta ancora campo seminato di infiniti germi di vita divina, vero Paradiso di tripudio ove si appuntano le compiacenze celesti del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo? Al quale mirano con dolce emozione i serafini del cielo e della terra? Quale splendore di immacolatezza in questo Tabernacolo ove sono diffuse a profusione — prodigalità amorosa! — le perle che ornano la celeste Gerusalemme!» (Giov. Italica, ott. 1934 – S. La Pira).

MOTIVI DI CONFIDENZA.

Il santo don Giovanni Bosco, nel suo aureo libretto in onore di Maria (Il mese di maggio pel popolo.), dopo avere affermato che i motivi di confidenza in Lei sono innumerevoli, passa a indicarne i principali, che riduce a tre, e sono i seguenti:

1. Maria è più santa di tutte le creature;

2. Maria è Madre di Dio;

3. Maria è Madre nostra.

Questi motivi sono veramente chiarissimi, anzi, evidenti per se stessi. Se Maria SS. può tutto, certamente può e vuole il nostro più completo miglioramento, la nostra vicinanza, la nostra unione con Gesù. Così Ella ci viene ammaestrando coi suoi esempi, con la luce della sua vita mortale, con la forza del suo sacrificio; con la nobilissima rassegnazione nelle sofferenze fisiche e morali, con la sua più profonda umiltà. Ma « noi siamo in questo mondo come in un mare burrascoso, come in un esilio, in una valle di lacrime. Maria è la stella del mare, il conforto del nostro esilio, la luce che ci addita la via del cielo asciugandoci le lagrime…» (S. Giov. Bosco, o. c., pag. 177.). Ci terge le lagrime, ci viene in aiuto, ci favorisce la sua luce, ascoltando i nostri gemiti, esaudendo la nostra preghiera, difendendoci dal nemico dell’anima nostra.

UN SOGNO… DI DON BOSCO.

Il santo don Bosco, sempre tanto illuminato nel condurre le anime ai piedi della Vergine Santissima, narrò ai suoi alunni il seguente sogno: «Sognai di trovarmi con tutti i giovani a Castelnuovo d’Asti a casa di mio fratello. Mentre tutti facevano ricreazione, viene a me uno ch’io non sapeva chi fosse, e m’invita in un prato attiguo al cortile e là mi indicò fra l’erba un serpentaccio lungo sette od otto metri e di una grossezza straordinaria. Inorridii a tal vista e voleva fuggirmene: — No, no, mi disse quel tale, non fugga; venga qui e veda. — E come, risposi, vuoi che io osi avvicinarmi a quella bestiaccia?  — Non abbia paura; non le recherà alcun male; venga con me. — Prenda questa corda, la sospenderemo sopra il serpente. — E poi? — E poi gliela lasceremo cadere attraverso la schiena. — Ah! no per carità! Perché, guai se noi faremo questo. Il serpe salterà su indispettito e ci farà a pezzi. — No no; lasci fare da me. — Là, là! io non voglio prendermi questa soddisfazione che può costarmi la vita. — E già me ne voleva fuggire. Ma quel tale insistette di nuovo, mi assicuro che non avevo di che temere, che il serpe non mi avrebbe fatto alcun male, e tanto disse che io rimasi e acconsentii a far il suo volere. Egli intanto passò dall’altra parte del mostro, alzò la corda e poi con questa die una sferzata sulla schiena del serpe. Il serpente fece un salto volgendo la testa indietro per mordere ciò che l’aveva percosso, ma invece di mordere la corda, restò ad essa allacciato come in cappio scorsoio. Allora mi gridò quell’uomo: — Tenga stretto, tenga stretto e non lasci sfuggire la corda. Frattanto il serpente si dimenava, si dibatteva furiosamente e dava giù colpi in terra con la testa e colle immani sue spire, che laceravansi le sue carni e ne faceva saltare i pezzi a grande distanza. Così continuò finché ebbe vita; e, morto che fu, più non rimase di lui che il solo scheletro spolpato. Morto il serpente, quel medesimo uomo slegò la corda che aveva legato dall’albero alla finestra, la trasse a sé, la raccolse, ne formò come un gomitolo e poi mi disse: — Stia attento neh! — Così mise la corda in una cassetta che chiuse e poi dopo qualche istante aprì. I giovani erano accorsi attorno a me. Gettammo l’occhio dentro alla cassetta e fummo tutti stupiti. Quella corda si era disposta in modo che formava le parole « Ave Maria!» — Ma come va! Ho detto. Tu hai messa quella corda nella cassetta così alla rinfusa e ora è così ordinata. — Ecco, disse colui; il serpente figura il demonio, e la corda l’« Ave Maria » o piuttosto il Rosario che è una continuazione di «Ave Maria», colla quale e colle quali si possono battere, vincere, distruggere tutti i demoni dell’inferno» (Vedi LEMOYNE, Memorie biografiche di don Bosco, vol. VII).

MARIA ESEMPIO E MAESTRA D’UNIONE CON GESÙ.

Ma tra tutti gli aiuti che Maria può e vuole dare alle nostre anime, il primo e principale per noi, il più caro per Lei, è quello di insegnarci ad acquistare la vita d’unione con Gesù. Il suo ammaestramento, anche in questo, ci è dato dalla sua vita. Infatti « Nessuna creatura umana fu più di Lei unita a Dio mediante la grazia di Gesù Cristo. Non miracoli o manifestazioni rumorose noi troviamo nella Madonna, ma tutta la sua grandezza ed i suoi privilegi, fonte della sua gloria, si riducono a quell’unione. Ella è l’Immacolata, e come tutti sanno, l’immacolato concepimento non è altro se non la esclusione della colpa originale, ossia il fatto che mai l’anima di Maria fu priva della grazia e dell’unione con Dio. » Ella è la Vergine e della verginità ci offre il vero e profondo significato, la dedizione completa della creatura al Creatore e sua unione con Lui; Ella è la Madre, che mediante l’unione con Dio nell’incarnazione, unisce gli uomini tutti, — tutti i suoi figli — al Padre. E se anche dovessimo dare uno sguardo alla Corredentrice, altro non coglieremmo se non l’unione con Gesù nei suoi misteri; l’Assunzione non è altro che l’unione perfetta con Dio in cielo; il culto per la Vergine nei secoli, ha per oggetto e per finalità l’unione con Dio e la grazia. Insomma, in questa musica una sola nota, divinamente bella, squilla ed echeggia; e senza le nozioni del soprannaturale, sarebbe vano voler, sia pure pallidamente comprendere colei che santa Geltrude invocava così: O giglio bianco della Trinità splendente » (Olgiati, Il sillabario del Cristianesimo, pagina 245-6.). Ma ancora e sempre: Ad Jesum per Mariam! O Gesù dolce, Gesù Amore, ascoltaci: nel cuore di Maria, tutte le tue bellezze, tutti i raggi della tua gloria, tutti i sorrisi della tua inebriante bontà, tutta la dolce e ricca e piena e amorosa cura del tuo Amore per il nostro dolore, della tua luce per le nostre tenebre, della tua ricchezza per la nostra miseria, del tuo tutto pel nostro nulla.

(Ora l’amore che aveva per il Figlio, Maria lo riversa su noi che siamo i membri viventi di questo Figlio divino, la sua estensione e il suo complemento.)

A. TANQUEREY.

LA VITA INTERIORE (17)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (17)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna, Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

LUCE DIFFUSA

DELLA VERA DEVOZIONE

ERRORI COMUNI.

Non a caso abbiamo scritto della vera devozione, anziché soltanto: della devozione. Gi errori communi e diffusi su questo argomento sono tali e tanti ché proprio necessario dirne una parola precisa. Vi sono, per esempio, alcune anime che credono di non pregare bene perché non hanno fervore. E, per loro, il fervore, è il sentimento, é la soddisfazione, è il sensibile accordo con Dio, l’intesa e l’approvazione, a loro modo. – Ve ne sono altre che ritengono di peccare, anziché pregare, perché, durante la loro preghiera, soffrono di distrazioni, o, peggio, di tentazioni. E tanto le prime, che le seconde, dopo un po’ di tempo, si stancano, ritengono sia inutile il loro sforzo di pregare e quindi… lasciano tutto, quasi a cercar sollievo in più spirabil aere. Così facendo, inconsciamente, ma non senza loro grave danno, svolgono il programma minimo, e poi massimo del nemico delle anime, il quale, assai astutamente, prima di portarle con le sue macchinazioni a commettere colpe gravi, le indebolisce spiritualmente, con l’allontanamento da Dio, dall’osservanza delle sue leggi, dalle pratiche di pietà, dall’orazione.

LA DEVOZIONE ESSENZIALE.

« La (vera) divozione, dice S. Tommaso, è una volontà pronta a fare tutte quelle cose che spettano al servizio di Dio ». E cioè, a meglio intendere:

1) La divozione vera e principale (o sostanziale) è un atto, generoso e costante, non del sentimento o della sensibilità, con affetti o gioie tenere, con intime soddisfazioni, ma è un atto della volontà, che prescinde e perciò ne fa à meno, di per sé, dalle gioie, dagli affetti sensibili, dalle lagrime, dai sospiri, dalla facilità maggiore o minore nel raccogliersi e sentirsi separato dalle esteriorità, dal gusto che si può provare nelle pratiche di pietà (devozione secondaria o accidentale).

2) La divozione non è soltanto un atto della volontà, sia pure generoso e costante, ma un atto forte « che spinge l’anima a darsi totalmente non ad alcune, ma a tutte quelle cose che riguardano il servizio di Dio, sia che l’anima senta o non senta, gusti o non gusti sensibilmente quelle cose che spettano al servizio di Sua Divina Maestà ».

Data questa facile distinzione non ci dev’essere più nessuna ragione di turbamento per le anime pie che si agitano, si sconvolgono, si turbano inutilmente e disturbano mezzo mondo perché, secondo il loro giudizio, non hanno la divozione, non sentono. fervore, si accorgono di essere distratte, o sono tentate. Queste anime tutte potranno soltanto riconoscere che in loro stesse manca il fervore sensibile, ma non dovranno per questo affliggersi e, tanto meno, abbandonare la via dell’orazione. La vera santità è data dallo sforzo, dalla ricerca di riuscire a compiere bene i nostri doveri, tutti i nostri doveri, per amore di Dio, e solo per amore di Dio. Lo sforzo è la ricerca di riuscire, non sono già la riuscita. Il Signore è ben diverso dagli uomini: questi pagano, ricompensano solo il lavoro bene eseguito e collaudato. Dio ricompensa lo sforzo e la ricerca per riuscire, quanto la riuscita stessa. La divozione, ripetiamo, è un atto della volontà, ma non il raggiungimento obbiettivo dell’effetto.

LA MANCANZA DEL FERVORE.

Quanto al fervore sensibile, o alla sua mancanza (quando questa non sia palesemente causata da trascuratezza o dalla tiepidezza) conviene ricordare che la dolce bontà persuasiva di Gesù è catechetica, cioè istruttiva. Fa, press’a poco, Gesù, con noi, come le mamme con loro bambini — (sia detto con tutta la riverenza). — Gesù attrae à Sé l’anima con la dolcezza e col fervore sensibile. E l’anima così attratta si tuffa generosa nell’oceano dell’amore del Cristo che sempre più splende, e che sempre più attrae. Ma poco tempo dura questo stato di felicità. Gesù, a nostro modo di ragionare, non vuole che consumiamo l’interesse del capitale del nostro amore. Preferisce che lo conserviamo come merito pel Cielo. Ancora: Egli, sempre a nostro modo di ragionare, deve preoccuparsi per noi, perché proprio non abbiamo à cercare soltanto le sue consolazioni, ma Lui, Autore delle consolazioni, poiché queste sono mezzo, e non fine. Per l’economia spirituale meglio intesa, adunque, Gesù, dopo breve tempo, non splende più raggiante alle anime; non si lascia vedere; non dà ascolto (o meglio sembra non si  lasci più vedere, sembra non dia ascolto!) e lascia che l’anima, servendosi dell’aiuto che Egli continua a dare, faccia il bene solo per amore di Dio, per la convinzione, o per il ragionamento, ch’è il nostro dovere. Superata la prova nella perseveranza della fedeltà verso Dio, l’anima prova una relativa tranquillità e si dispone al compimento dei suoi obblighi verso Dio, in modo speciale per quelli che riguardano direttamente il servizio di Lui: e cioè, la meditazione, la preghiera, la lettura spirituale, gli esami di coscienza, l’assistenza alla S. Messa, la frequenza dei Ss. Sacramenti della Confessione e della Comunione, l’offerta quotidiana a Dio di tutte le azioni della giornata, comprese pure le cosiddette azioni indifferenti, come il cibarsi, il dormire, lo svagarsi e simili. – Possiamo adunque così concludere: il Signore dà secondo i suoi fini, per breve tempo e con parsimonia, a chi meglio giudica e come giudica, la devozione che abbiamo chiamata accidentale e secondaria. Mentre dà a tutti la divozione principale o sostanziale. La divozione secondaria è un premio temporaneo; è molto utile e va tenuta in grande considerazione, ma non va ricercata con affanno, o peggio, con angustia. Non in commotione Dominus! – L’autore della Imitazione di Cristo così, a proposito della divozione, dice molto bene: « Ti conviene cercare con istanza la grazia della divozione, chiederla con desiderio, attenderla con pazienza e con fiducia, riceverla con gratitudine, operare con essa studiosamente e rimettere a Dio il tempo e il modo della visita celeste ». La visita celeste è …. la devozione accessoria, secondaria o sensibile. Il tempo di essa va lasciato a Dio. E continua: « Sta’ fermo ai propositi: abbiti rettitudine d’intenzione e guardati bene dalla vana compiacenza e dalla superbia ». À questo punto, un Santo maestro di spirito spiega alle anime il perché dell’ammonimento: « Perché la compiacenza che l’anima ha, talora, di se stessa e quel credersi, forse, santa, vedendosi premiata da Dio con consolazioni celesti e con una devozione ben sensibile, è una delle cause principali che la gettano, e, talvolta, lasciano per molto tempo nelle aridità, nelle desolazioni, nelle oscurità e nell’abbattimento di spirito ». –  Ma, continua ancora l’autore dell’Imitazione: « Ciò che, sovra tutto, impedisce la consolazione (cioè la divozione sensibile) è che tu non ti servi dell’orazione, oppure vi  ricorri troppo tardi: egli è perché prima di supplicare me (Te, o Dio) vai in cerca di qualche svago nelle creature e nelle cose esteriori..…. Tuttavia per causa delle aridità o delle angustie (per causa, cioè, della mancanza di devozione sensibile ed accidentale) che l’anima tua prova, non ti lasciar andare alla negligenza nel servizio di Dio, né punto né poco: non toglierti dall’orazione, né tralasciare le altre tue consuete pratiche di Pietà ». Cioè, in altre parole, se noi non abbiamo la divozione accidentale, o di consolazione, abbiamo pazienza, poiché questa non è necessaria; ma non trascuriamo mai la divozione principale o sostanziale poiché questa è necessaria.

(Quando Dio ci manda le aridità, lo fa per distaccarci da tutto ciò ch’é creato, anche dalle gioie della pietà, affinché impariamo ad amar Dio solo per se stesso.)

A. TANQUEREY

LA VITA INTERIORE (18).

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 10

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (10)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VII

Della virtù di penitenza

VI.

Preghiere e affetti di penitenza.

Questo pure, mio Dio e mio Padre, ardisco chiedervi con le parole medesime di Gesù Cristo, che morendo su la Croce esprime il desiderio di soffrire ancora in noi per dilatare le sue pene, prolungare la sua penitenza, farvi così in perpetuo ammenda onorevole e darvi una soddisfazione continua in mezzo alla vostra Chiesa. Perciò, grande Iddio, prostrato ai vostri piedi, mi sottometto ad ogni vostra giustizia, a tutte quelle pene e vendette cui vorrete sottopormi. E in attesa che vi piaccia darmi qualche penitenza, accetterò tutte quelle che, per mio onore, mi saranno da Voi imposte a mezzo della vostra Chiesa e delle persone che hanno diritto d’umiliarmi e di assoggettarmi ai rigori della penitenza. E tutto ciò in unione col vostro diletto Figlio, l’unico e universale penitente della Chiesa. Signor mio Gesù, che vivete in me col vostro spirito onde terminare di soffrire tutte quelle pene e quella penitenza che eravate disposto a portare durante la vostra vita per la gloria del Padre vostro, se fosse stato il suo beneplacito; fatemi questa grazia che, usando della potenza del vostro spirito in me, io sia animato in tutte le mie azioni dalle disposizioni di una vera penitenza; fate che io non perda mai la vista dei miei peccati, perché non posso averla che nella luce della vostra sapienza, la quale ai peccatori, come in uno specchio tersissimo, fa vedere le macchie delle loro anime. Fate inoltre, o mio Signore e mio Dio, che essendo riempito di confusione per l’enormità delle mie colpe, non compaia mai senza vergogna, per la mia orribile deformità, sia al cospetto della Maestà del Padre vostro, sia davanti ai suoi santi altari, sia nella preghiera come in tutte le sante pratiche e i santi ministeri. Fate ancora che non ardisca di comparire senza confusione in mezzo ai santi Sacerdoti ed ai Cristiani miei maestri, stimandomi indegno della loro società e tenendomi in ispirito ai loro piedi oppure lontano da essi. Tali pure siano le mie di posizioni riguardo a me stesso e che rimanga continuamente confuso ed annientato in me stesso, non osando pensare a me che con orrore e spavento, stimandomi meno di un verme della terra, più vile che i rifiuti del mondo; riputandomi indegno di prendere il mio cibo e le altre cose per il sostentamento della mia vita. indegno anzi della vita stessa, non prenda mai senza rincrescimento ciò che è necessario per conservarmela.

***

Adorabile mio Signore, per le lacrime che avete versate sopra Gerusalemme, vale a dire sopra tutti i peccati della Chiesa; per quelle lacrime che sul Calvario, avete versato nella santa contrizione che avete continuamente sentita per i miei peccati sopra i quali avete pianto, come su Lazzaro, in un fremito che indicava l’emozione che essi causavano nel vostro spirito: vi chiedo la grazia di piangerli ogni giorno della mia vita, e di vivere in un amaro dolore di averli commessi. Ch’io viva nell’orrore di tutto me stesso come pure di ogni sentimento peccaminoso che insorga in me! Ch’io combatta e crocifigga tutte le mie inclinazioni naturali, tutti i miei sensi interni ed esterni, e tutte le passioni disordinate dell’anima mia!

* * *

Infine o mio Dio, per quel grido che la forza e il fervore del vostro Spirito penitente vi fecero emettere sulla Croce, nell’abbandono dell’anima vostra alla vendetta del Padre e a quell’orribile giudizio che dovevate subire sopra di Voi stesso, vi domando la grazia di vivere, come Voi, abbandonato al rigore del giudizio e della giustizia del Padre vostro sopra i miei peccati. Fin d’ora accetto tutta quella crocifissione che vi compiacerete di ordinare per me nella vita presente.

1° In unione con la vostra povertà e nudità su la croce, e con l’abbandono da parte delle creature che allora avete sofferto e per onorare questa vostra pena, mi abbandono a tutta la povertà alla quale potrò mai essere ridotto, sia per qualche ordine aspro della divina Provvidenza e della sua santa giustizia, come per la noncuranza o la cattiveria da parte delle creature.

2° In unione coi disprezzi, con le ingiurie, con gli obbrobri che avete sofferti sul Calvario e per rendere onore a queste umiliazioni, mi abbandono, in pena dei miei peccati, a tutte le calunnie, derisioni, confusioni e ignominie che potranno mai accadermi.

3° In unione coi dolori con cui vi siete meritato quel bel nome di uomo dei dolori «Virum dolorum » (Isa. LIII, 3) e per onorarli, mi abbandono pure alle sofferenze, malattie, infermità, agonie ed infine alla morte medesima, ultimo supplizio del peccato In unione con la vostra morte così penosa e ignominiosa, accetto, in castigo dei miei peccati, qualsiasi tormento, qualsiasi pena, qualsiasi genere di morte che vi piacerà di farmi soffrire.

4° In unione e in onore dell’abbandono interiore che avete sofferto da parte del Padre vostro, e di tutte le vostre pene interiori, mi abbandono al Padre vostro per soffrire tutte quelle pene di cui vorranno onorarmi la sua santità e la sua giustizia; dolente di non aver usato bene sinora delle sue sante visite. Oh! se ora mi fosse dato ancora di soffrirle in soddisfazione dei miei delitti, quanto mi riterrei fortunato di presentarvele per l’amore e la gloria del Padre vostro! E per quanto riguarda l’uomo vecchio che vive in me, che sta tutto nel peccato come pur troppo riconosco, ed è stato attaccato alla Croce con Voi (Rom. VI, 6), adorabile nostro Capo, sotto il vostro esterno di peccato: prometto a Dio, davanti a Voi, o mio Gesù, di tenerne tutte le membra crocifisse e incatenate sulla Croce; protesto di non voler lasciar a queste membra nessuna libertà di operare secondo la loro malizia, ma di fare ogni sforzo, al contrario, per annientarne gli atti perversi affinché solo dallo spirito siano riempite e vivificate, e mi servano solo per compiere opere sante. Le nostre membra non sono più di Adamo ma di Gesù Cristo, che è venuto a consacrarle e santificarle con la presenza del suo Spirito, per muoverle e dirigerle alla gloria di Dio. Noi siamo trasferiti, dice S. Giovanni, dalla morte nella vita. Non apparteniamo più a noi, soggiunge S. Paolo, perché siamo stati redenti col prezzo di un sangue prezioso, affinché coloro che vivono non vivano già per sé, ma per Colui che è morto e risuscitato per essi (I Joann., III, 14, – I. Cor. V, 19, 20; – Il Cor., V, 18).

VII.

Frutti ed effetti della vera penitenza.

1. Lo Spirito Santo rende l’anima partecipe del suo odio contro la carne. – 2. Dio riprende il suo posto nell’anima e se ne appropria. – 3. Se l’anima diventa Sposa di Dio, ripara lo sfregio orribile fatto dal peccato allo Spirito Santo e, trasformata nella natura divina, vive in Dio.

I primi sentimenti che lo Spirito Santo produce in noi, in seguito alle virtù teologali, sono quelli di religione riguardo a Dio e di penitenza riguardo a noi stessi. Dopo di averci fatto conoscere ed amare Iddio con la fede, la speranza e la carità, il suo primo effetto è di applicarci ai doveri di rispetto e di sottomissione verso la divina Maestà, nei quali consiste la religione; poi sentimenti di orrore, di avversione, di riprovazione e di distruzione del peccato, della nostra carne e di noi stessi, ciò che chiamasi penitenza.

1. Quando lo Spirito abita in noi in pienezza; quando diventa re della nostr’anima; quando l’ha separata da sé medesimo e dai propri interessi, che l’ha tirata dalla sua parte, convertita e ridotta ad essere una cosa sola con se stesso, la sua prima operazione è di renderla partecipe del suo zelo, del suo odio, del suo orrore contro la carne e contro essa medesima in quanto è forma e amica della carne. Così, lo Spirito Santo è il padre della penitenza e l’anima ama la penitenza nella misura in cui vive nello Spirito Santo, perché tanto più è animata da zelo contro sè stessa quanto più è passata nella natura di Lui. (I. Cor. VI, 17)

* * *

2. Allora si vede un Dio vittorioso in noi, veramente vittorioso dell’amor proprio e di noi medesimi: un Dio che eleva l’anima alla vera estasi, tirandola fuori di sé stessa mediante la sua divina virtù per farla entrare in sé medesimo e nei suoi interessi; Dio si appropria l’anima in tal modo che essa passa in Lui, dimentica tutto ciò che è in sé medesima e ciò che vorrebbe, se appartenesse ancora a sé. Dimodoché l’anima dimenticando completamente sé stessa e tutti i suoi propri interessi, abbandona tutti i suoi primitivi sentimenti; perduta nell’amore di Dio e passata in Dio contro sé stessa, diventa una stessa cosa e uno stesso spirito con Lui.

3. Appropriata così a Dio, l’anima diventa sposa di Dio e totalmente aliena dalla sua prima aderenza alla carne. Prima, essa era una medesima cosa con la carne che vivificava, ne amava gli interessi, ne assecondava i sentimenti e i desideri; ora invece, essendone interamente separata, tende a Dio nel suo intimo amore, s’investe degli interessi di Dio, delle inclinazioni, dei sentimenti e della vita di Dio, mentre non ha più che odio, opposizione e avversione contro la carne. – L’anima che è amica della carne ha desideri contrari allo Spirito (Tutte queste espressioni di G. Olier significano che lo Spirito Santo unisce intimamente a sé l’anima penitente e fa sì che essa si distacchi da sé medesima per darsi a Lui e rendergli gloria.), quindi è contraria a Dio, rivolgendo tutti i suoi desideri verso le creature e verso tutto ciò che dà gusto e soddisfazione alla carne. Ed è cosa miserabile questo voler obbligare lo Spirito a mettersi dalla nostra parte; è segno che la sua azione in noi è debolissima e che la carne lo ha vinto, costringendolo ad aver compassione della nostra delicatezza. In tal case lo Spirito in noi è come un Dio in fasce, un Dio bimbo e infermo, un Dio nella debolezza: allora si vede la carne tutta trionfante nella sua dominazione. Una tale inferiorità è più ignominiosa per lo Spirito Santo che se Egli non fosse in noi; perché se fosse assente, almeno non soffrirebbe un simile affronto: il suo nemico, è vero, trionferebbe, ma almeno senza combattere; la carne sarebbe meno gloriosa nel suo trionfo. Ma, avere un Dio presente, eppure trionfarne, calpestarlo, impedirgli di superare il proprio schiavo, anzi tenergli il piede sulla gola, è cosa spaventevole; è ciò che S. Paolo chiama: contristare lo Spirito Santo; è questo fare allo Spirito di grazia la più villana delle ingiurie (Ephes., IV, 30 – Hebr, X, 29). L’anima invece che è amica e sposa di Dio, cerca gl’interessi di Dio e non desidera che d’inabissarsi interamente in Lui. Dimodoché investendosi della natura della divinità, essa diventa nemica e vendicatrice di sé stessa, partecipando a quel fuoco divino che in essa opera i medesimi effetti di quello della fornace di Babilonia, il quale divorava i carnefici che lo alimentavano. La fiamma li investiva ed essi non avevano nemico peggiore di quel fuoco che i medesimi avevano acceso. – L’anima che vive in Dio, respinge e condanna continuamente la propria carne; esce dal suo Dio, simile ad un tizzone ardente; e in quella guisa che il tizzone, avendo preso la natura del fuoco, abbrucia, ciò che il fuoco medesimo abbrucerebbe, così anima trasformata in Dio che è un fuoco consumante, divora e distrugge il peccato, diventando ardente ed infiammata di zelo contro la carne e contro il peccato il quale abita nella carne. Così, secondo la misura dell’odio che l’anima porta a sé stessa, della riprovazione che fa della propria carne e dell’orrore che nutre verso il peccato, si deve giudicare della misura in cui lo Spirito di Dio sia stabilito e potente in essa; perché in verità, questo divino Spirito è padrone in noi nella misura in cui la carne gli è sottoposta; l’anima pure è trasformata nella natura di Dio nella misura in cui essa odia sé stessa (Odiando sé stessa, la sua carne e le cattive inclinazioni della nostra natura corrotta dal peccato, l’anima diventa sempre più unita a Dio ed acquista con Lui maggiore somiglianza soprannaturale.). Estasi felice quella che mette l’anima in un tale stato permanente di rinuncia a sé medesima: le fa dimenticare e trascurare ogni suo interesse e il suo essere proprio; la mantiene in tale stato di morte a sé stessa, in un tale trasporto e in una tale consumazione in Dio, che essa rovina e distrugge sé medesima, senza risentirne, ovvero, se ne risente, non tralascia perciò di annientarsi perfettamente. Beata quell’anima che, investita della vita e dello zelo di Dio, non ha più nulla che sia rivolto a sé medesimo, né pensiero. Né stima, né volontà, né inclinazione, né movimento, ma vive sempre in Dio senza mai uscirne! Una tale estasi, quanto è differente da quelle estati passeggere che momentaneamente trasportano l’anima in Dio con un rapimento di gioia e di consolazione! Passati questi rapimenti momentanei, la carne rimane ancora integra, col suo desiderio di essere ricercata, adulata, accarezzata; dimodoché facilmente l’anima ritorna al suo amor proprio e al desiderio del proprio interesse e spesso non ritiene nulla di ciò che Dio sovranamente desidera; perché ciò che Dio desidera è l’annientamento della creatura, l’annientamento della ricerca di noi stessi e della inclinazione che ci porta alla propria soddisfazione e alla pienezza di noi medesimi.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 11

LO SCUDO DELLA FEDE (199)

DIO GI LIBERI CHE SAPIENTI!. CI VORREBBERO FAR PERDERE LA TESTA! (2)

PER Monsig. BELASIO

TORINO, 1878 – TIPOGRAFIA E LIBRERIA SALESIANA San Pier d’Arena – Nizza Marittima. Tip. E libr. Salesiana, Torino 1878

INTRODUZIONE

Labia sacerdotis custodiant scientiam et legem requirent de ore eius.

(MALACH. c. 2, v. ti)

Fu un bravo farmacista in questa Italia nostra nel borgo di N., che per le mie buone ragioni non voglio nominare. Buona pasta d’uomo che egli era; finita la spedizione delle sue ricette, colle mani in panciolle; col ventre sporto sopra il banco, con quell’ariona di buonomia salutava tutti gentilmente gli avventori, e massime gli immancabili accorrenti al convegno di conversazione, signori di buon tempo perseguitati dalla noia, politici di gazzette, laureati senza ufficii e studenti in continue vacanze. Godendo in fondo.al cuore di vedersi là d’intorno tutte le notabilità che contavan per denaro, e tutti quelli che avevan, od almeno si credeva che n’avessero, sale in zucca. Il buon uomo, vel dico io, si ringalluzziva tutto d’esser egli un piccol Accademo che prestava il bosco a’ discepoli di Platone, e la sua spezieria un portico di Peripatetici in miniatura. Là si trattava di tutto che si sapeva o di saper si pretendesse. A tutti poi che nel calore del disputare l’interrogavano cogli occhi, arrotondando le pastose gote, dava una risposta con un sorriso che diceva niente; meno «al signor medico seduto a scranna come un presidente nato, con cui s’intendeva per benino. Però ben di spesso gli avveniva d’udirne di così marchiane che gli rompevano il sorriso sulle labbra. – Restava a bocca aperta inarcando gli occhi, stentando anch’egli, benché fosse di natura assai elastica, a trangugiarle tanto grosse, sicché gli scappava fuor di gola: « Oh!… ma questa poi!… » Allora subito i più bellocci lisciando sotto le nari i crescenti peli a chiudergli la bocca: «Eh eh, signor speziale, siete voi l’uomo de’ tempi andati….. Adesso noi la sappiamo lunga, noi abbiam studiato sotto professori, cima d’uomini, i più grandi dotti della Europa… » Ed egli allor, che fare?… Stringersi nelle spalle e dir mortificato in sé medesimo: « Ma. costoro, se non foss’io, mi farebbero perder la testa!… Or che poss’io rispondere a questa gente? » Un dì che gli avvenne di sentirne di così bestiali ed empie da non poterne più, prese il partito di recarsi a consultare il parroco, pio e dotto uomo, che coi suoi talenti e colle sue speranze che potesse aver nel. mondo, aveva la sua persona consacrata a Dio per salvare le anime. – È questo ancor il miglior partito, quando si senton dire spropositi da cavallo; o si vedon girar libri pieni di così brutte, orrende cose, di non dare ad un pio e dotto prete: come si debba regolare un buon Cristiano in questi casi? Venuto a lui, e fatto i convenevoli, senz’altro: « Signor parroco, gli disse, ella sa che la mia bottega è come un porto di mare, chi va, chi viene; e vi si fermano a conversare i migliori del paese… Ma, oh se sentisse! ne sballano di così grosse, che se foss’io doganiere, non vi metterei il bollo di transito, né le lascerei mettere pel popolo in commercio. Per me, già, sono spregiudicato; ma non ostante, non fo per dire, son buon Cristiano; e non vorrei che neppur l’aria le sentisse. Eh se mi fan montare i futeri a sentirli ad abbaiare diavolerie così bestiali! Vi sarà ben una risposta, per rincacciarle in gola ad una ad una. »

Parroco. Sì veramente, il mio buon signor amico; a tutti gli errori fu data già da buon tempo una risposta a prova della verità, e la Chiesa nostra buona madre ad ogni nuovo errore né avrà sempre una in pronto per dimostrare il vero ai suoi figliuoli. Ma per darvele in bocca chiare ad una ad una, vorrei mi diceste almeno i principali.

Speziale. Oh se li dirò; anzi, mi perdoni se glie li sciorino qui davanti così brutti come li buttan fuori quelli; ed ecco come mi restano in mente a mio dispetto. In prima dicon chiaro che non si ha da creder più niente e che senza Dio il mondo è sempre stato e va da sé sviluppandosi in nuove maniere (Il Panteismo sotto diverse forme.). – Dicono poi in conseguenza, in secondo luogo che la terra da se stessa si mutò in piante, che le piante si mutarono in animali, e che gli animali sono diventati uomini (Il Darvinismo.): Veda, se non perdono la testa! – E voglio dirle ancora in terzo luogo, come non han vergogna di dire che i nostri primi padri uscirono dai boschi brutti, feroci come i scimmioni più orrendi, e che man mano diventarono umani, inciviliti; eh! tanti e tanti secoli, prima d’Adamo (l’uomo preistorico e l’empietà), come si vanno sognando!

Parroco. Voi vi spiegate bene, ché son proprio questi gli errori più in voga. Ora per darvi la risposta più precisa, esponetemi, come parlassero quelli, i loro errori.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 9

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (9)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VII

Della virtù di penitenza

III.

L’esercizio della penitenza in ispirito

Colui che aderisce a Dio è un solo spirito con Lui: Chi sta unito col Signore, è un solo spirito ‘con Lui (1 Cor. VI, 17). Ne consegue necessariamente che l’anima, quando è intimamente unita a Dio si rende partecipe delle qualità, dei costumi, dei sentimenti, delle disposizioni di Lui; e perciò si investe anche dello zelo incessante della divina giustizia contro la carne, dimodoché il giusto corruccio di Dio contro la carne ed il peccato essendo impresso in quell’anima ed essendo essa animata dallo Spirito della divina giustizia, essa sì trova continuamente compresa di avversione e di condanna per la propria carne. – La carne tutta sta nel peccato e tende al peccato; la carne è tutta impregnata di ogni sorta di desideri impuri e, nel suo amor proprio e nella sua sensualità, non desidera nulla che per sé medesima; perciò Dio non può amare la carne; ma al contrario sempre la respinge e condanna ( Giov. Olier non vuol dire che tutto quanto l’uomo fa sia peccato, come potrebbe pensare chi guardasse superficialmente le sue espressioni; egli fu sempre strenuo della verità cattolica contro Protestanti, Bajanisti. E Giansenisti. La parola carne qui è presa nel suo senso peggiore, è quella che ha desideri contrari allo Spirito e le cui opere sono descritte da San Paolo nel capo V dell’Epistola ai Galati; quell’anima che nostro Signore ci comanda di odiare; che bisogna crocifiggere con i suoi vizi e le sue concupiscenze; quella inclinazione prepotente al male che portiamo in noi in forza del peccato originale; chi la segue non può piacere a Dio). Così l’anima quando sia passata in Dio, investita dallo zelo e dalla santità di Dio, riprova, condanna ed annienta in sé medesima tutti i desideri perversi che senza posa si innalzano nella propria carne per la soddisfazione dei sensi. Gli occhi, per esempio, secondo i desideri della carne, tendono a ciò che può dar loro gusto e soddisfazione, quindi cercano senza posa nelle creature quanto può contentarli; così pure tutti gli altri sensi esterni e interni. Ma lo Spirito che ha preso possesso dell’anima nostra, vedendo e sentendo in noi le inclinazioni e i desideri impuri che sono i segni della vita della carne e l’espressione della volontà ch’essa ha di soddisfarsi, non manca di imprimerci un sentimento di ripulsa contro questa vita della carne, e di portar l’anima nostra a resistervi, a guardarsi bene dall’aderire ad essa o dal soddisfarla con la ricerca e l’uso di ciò ch’essa desidera. Lo Spirito porta pure i sensi a privarsi di tali cose e a starne lontani, appunto perché sono desideri impuri della carne, la quale va castigata nel suo amore disordinato e nella sua funesta concupiscenza che la porta sempre ad accontentare sé stessa invece di Dio, mentre Dio è il nostro unico fine a cui dobbiamo tendere, secondo il dovere essenziale e capitale della nostra vita. È questa l’azione costante delle Spirito di penitenza, il quale ci porta alla mortificazione di noi stessi e all’intima repressione degli eccessi della nostra carne. Quando questa sia ben castigata, in modo che non goda nessuna soddisfazione inutile, essa si trova in istato di penitenza violentissima e penosissima, che conduce agli estremi; sono spesso agonie affannose, sensibilissime per quelli che sono fedeli a mortificarla e a privarla di ogni inutile soddisfazione.

IV.

Motivi e sentimenti di penitenza.

In onore di Gesù Cristo, e in unione con Lui penitente davanti a Dio, per i miei peccati e per quelli di tutto il mondo, protesto di voler far penitenza in tutti i giorni della mia vita, e di considerarmi in ogni cosa come un povero e miserabile peccatore, come un penitente indegnissimo. A questo fine porterò sopra di me l’immagine di Gesù Cristo, penitente sovrano, ed essa, con la memoria della penitenza interiore e dell’amore del mio Salvatore, sarà per me il ricordo continuo dei motivi che mi obbligano a far penitenza. Sono obbligato a fare ammenda onorevole alla giustizia ed alla santità di Dio Padre; un tal dovere mi viene imposto dal suo amore, dalla sua bontà, e da tatti ì suoi divini attributi. Sono in dovere di far penitenza, perché  il Figlio di Dio l’ha fatta per i miei peccati, perché ha meritato per me la misericordia del Padre suo e insieme la grazia di poter compiere la mia penitenza, mediante l’adorabilissimo e preziosissimo tesoro del suo sangue sparso per me su la Croce. Sono in dovere di far penitenza, perché nel battesimo ho ricevuto il Santo Spirito di penitenza onde esserne animato e vivere nei suoi sentimenti in tutta la condotta della mia vita. Dio è giusto, perciò non può né deve perdere nessun diritto sulle sue creature; Egli non mancherà di esercitare sopra di esse una intera vendetta e di prendersi una rigorosissima soddisfazione; o in questo mondo coi suoi flagelli, o con castighi spaventevoli nell’altro.

V.

Pratica della virtù di penitenza.

Il peccatore deve: 1. tenersi sempre presente il suo peccato, 2. conservarsi in una continua confusione, davanti a Dio, davanti al mondo e davanti a sé medesimo, 3. Dolersi con Gesù Cristo dei propri peccati, sempre disposto a subire la vendetta della divina giustizia. – e ciò in unione con Gesù Cristo. – Gesù ha espiato l’avarizia, la superbia e la voluttà con la povertà, i patimenti corporali e più ancora coi dolori interni dell’anima.

L’anima penitente in Gesù Cristo, rivestita dello spirito di penitenza di Gesù Cristo, deve formarsi le medesime disposizioni di Gesù Cristo e assimilarsi la forza e la virtù delle pratiche di Gesù Cristo.

***

1° Il peccatore, ad imitazione di Gesù Cristo che si è costituito peccatore e penitente per noi (Qui non noverat peccatum, pro nobis peccatum, fecit. II Cor. V. 21.); deve sempre tenersi il suo peccato davanti a sé (Peccatum meum contra me est semper. Ps., 4, 5); questa vista continua sarà il fondamento degli altri doveri che i suoi peccati gli impongono verso Dio.

2° Il peccatore, in conseguenza dei suoi peccati, deve, con Nostro Signore, portare sul proprio volto una perpetua confusione; portare una tale confusione dapprima davanti a Dio, come Gesù Cristo che portò davanti al Padre suo la vergogna delle nostre offese, secondo quelle parole Di confusione è stato coperto il mio volto (Operuit confusio faciem meam. Ps. LXVIII, 8); inoltre, restar confuse davanti a tutto il mondo, come ha fatto ancora il Figlio di Dio, il quale dice per bocca del Profeta: « Mi sono allontanato e ritirato dal mondo per dimorare nella solitudine; sono stato forestiero e pellegrino tra i miei fratelli (Ps. LIV, 8 – LXVIII, 9), vale a dire, fra gli uomini e tra i figli santi della Chiesa; avevo vergogna di stare in mezzo a loro, essendo carico di delitti più che tutti gli altri e portando su me stesso l’orribile e vergognoso peso dei peccati di tutto il mondo. Effettivamente mi sono nascosto nella solitudine solo per un certo tempo, ma, in ispirito, vi rimango sempre come indegno di comparire davanti al mondo e tra gli uomini ». – In terzo luogo, dobbiamo essere confusi anche davanti a noi medesimi, non potendo sopportarci nella nostra miseria e nella nostra onta. Così pure, di se stesso diceva il Figlio di Dio per bocca del profeta: Sono diventato di carico a me stesso (Job. VII, 20); provavo gran pena a sopportare me stesso per l’obbrobrio che sentivo sopra di me per tutti quei peccati orribili e odiosi. – Dio, nella sua misericordia mi faccia la grazia di aver parte della santa luce di Gesù Cristo, luce che mi faccia vedere l’orrore dei miei peccati, e mi copra la faccia e lo spirito di confusione davanti al mondo e davanti a me Stesso, ma soprattutto davanti a Dio Padre, affinché io gli dica spesso col Figlio prodigo: « Padre del Verbo Incarnato, che non ardisco chiamar mio Padre, ho peccato contro il cielo, contro gli Angeli ed i Santi che vivono con Voi, ma soprattutto ho peccato contro di Voi medesimo; e col pubblicano, che non osava alzare gli occhi al cielo; « Abbiate pietà di me che sono peccatore ».

***

3° In seguito alla confusione che deve sentire per i suoi peccati, il peccatore deve inoltre averne il dolore e la detestazione insieme con Nostro Signore che visse nel sacrificio perpetuo di un cuore contrito ed angosciato per i peccati del mondo. In virtù dei meriti di Gesù Cristo e per la unione con Lui, Dio accetta la contrizione da parte di tutti gli uomini i quali, partecipando  allo Spirito di Gesù, piangono, gemono e sono contriti per i loro peccati (Ps. 4, 19). Eterno Padre, per l’amara contrizione e l’abisso dei dolori interni del Figlio vostro (Thren. II, 12), datemi parte al divino Spirito della sua santa e dolorosa penitenza. Il vero penitente dopo tante sue colpe, nella confusione e riprovazione di sè stesso, deve sottomettersi per tutti i momenti della sua vita alla giustizia eterna, infinita e onnipotente di Dio, rimanendo sempre disposto a subire tutti gli effetti della sua vendetta, tutti i castighi che si compiacerà di imporgli. – A questo fine dobbiamo, noi peccatori, vivere sempre in unione di spirito con Gesù Cristo vivente e morente in croce in pena delle nostre colpe, perché il valore della soddisfazione di Gesù, essendoci comunicato, impreziosirà le nostre pene e santificherà i nostri travagli; questi sono sempre leggeri, meschini e sproporzionati alle nostre colpe, ma il merito adorabile di Gesù li renderà accettabili alla giustizia del Padre suo. – Gesù Cristo, dice S. Paolo, è morto per i nostri peccati; Egli era giusto ed ha sofferto per gl’iniqui (Rom. IV, 25); onde presentarci a Dio suo Padre come penitenti mortificati crocifissi nella nostra carne da uno spirito di penitenza, animando così, Egli stesso, i nostri cuori, come da nuova vita, dal desiderio di vendicare sopra di noi medesimi i nostri delitti. – I tre grandi peccati che riempiono il mondo sono: l’avarizia, la superbia e la voluttà; orbene a tre sorte di pene possono pure ridursi le immense soddisfazioni che Gesù Cristo Nostro Signore ha rese al Padre suo sulla Croce, e le pene esterne che Egli ha sofferto: estrema povertà, estrema confusione, estremi dolori nel suo corpo; tre sorte di patimenti ordinati a distruggere i suoi nemici capitali che sono pure tre: il mondo, il demonio e la carne. – La Scrittura, in parecchi luoghi, fa espressa menzione di questi tre patimenti. In merito alla povertà, la quale apparve più completamente sulla Croce, essa dice: Essendo ricco, si è fatto povero per noi. In merito alla sua vergogna e confusione, Egli stesso dice: Sono un verme della terra, l’obbrobrio degli uomini, il rifiuto del popolo. In merito ai patimenti che Gesù soffrì nel suo corpo, il Profeta dice: Non v’è nel mio corpo una minima parte che non sia colpita dal dolore (Isa, I, 6). Ma tutti questi mali erano ben poca cosa in confronto delle pene interne e dell’abbandono interiore che Gesù subiva nell’anima; di questo unicamente Egli si lamentava su la Croce: « Dio mio. Dio mio, perché mi avete abbandonato? » (Matt. XXVII, 46) Il profeta parlando di questo estremo della sua atroce afflizione dice di averlo visto non solo come un lebbroso, da cui stillava da ogni parte fetida marcia, ma pure come colpito nell’anima dalla vendetta di Dio corrucciato contro di Lui; perché era carico dei peccati di tutti gli uomini che insorgevano contro la Maestà divina (Isai, LIII, 4). Gli obbrobri e le ripulse, le oppressioni e i castighi meritati dai peccati che insorgevano contro di Voi, o mio Dio, sono caduti sopra l’anima mia e mi hanno causata la morte. Mi han fatto morire in uno spaventevole accasciamento nel quale immensamente soffrivo per il prolungato ritardo del mio ritorno a Voi e della mia perfetta unione con Voi nella gloria. In questo sta il colmo enorme e spaventoso dei dolori di Gesù, di Gesù infinitamente santo e amante di Dio suo Padre. Egli non respira che l’amore del Padre, non sospira che gli attestati della sua benevolenza, e vedersene respinto da un eccesso terribile e spaventoso della sua ira e del suo furore! Nella previsione di questo dolore spaventevole Egli diceva al Padre: Padre se è possibile, passi da me questo calice » (Matt. XXVI, 29), e parecchie volte per bocca del Profeta: «Dio mio, non mi riprendete nel vostro furore » (Ps. LVII, 1); sopporterò quanto vi piacerà, ma risparmiatemi questo effetto orribile della vostra collera, perché, a paragone di questo, tutti i dolori corporali non sono niente, né sono capaci di saziarmi: Sitio, ho sete ancora di pene esterne; perciò datemi di poter soffrire ancora dopo la mia morte nella mia Chiesa. e che i miei membri bevano al mio Calice, affinché facciano penitenza con me ed Io faccia penitenza in essi.

LA VITA INTERIORE (16)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (16)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

LUCE DIFFUSA

LA MORTE MISTICA

LA VITA NUOVA.

L’Apostolo Paolo dice che il Cristiano, per mezzo del Battesimo è morto e seppellito in Gesù Cristo, e dal Battesimo ne esce risuscitato a vita nuova, col dovere di vivere questa vita nuova… sul modello della gloriosa risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo. Come si può, e si deve, vivere questa vita nuova? La vita di unione con Gesù esige la vita di Gesù in noi ed esclude la vita del nostro io, fatto di amor proprio e di orgoglio. Questa esclusione della vita del nostro io, ci porta alla necessità del distacco da tutto ciò che non è Dio e che a Dio non conduce; alla dimenticanza di noi stessi, alla morte mistica del nostro io.

IL DISTACCO DA TUTTO E DA TUTTI.

Tra gli elogi che venivano fatti ai primi Cristiani, v’era anche questo: che essi vivevano nel mezzo del mondo, ma vi erano col corpo, non col cuore, ed erano, con ciò, perfettissimi. – Se questo giudizio era detto dei primi Cristiani, è logico che debba essere ripetuto di ogni anima cristiana. Ecco, adunque, il nostro preciso dovere: vivere in mezzo al mondo, compiere tutti i nostri doveri dell’Apostolato nel mondo, come se nel mondo noi non vi fossimo. Esso, è il vero distacco secondo l’invito di Gesù: Se qualcuno vuole venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce, e mi segua. L’abnegazione che Gesù richiede alle nostre anime è il distacco perfetto da tutto ciò che si oppone a Dio. Ecco, per questo, una regola che oserei dire infallibile e che tolgo dal libro tanto prezioso degli Esercizi di S. Ignazio di Loyola. Dopo d’avere affermato, e provato, che Dio è il nostro ultimo fine, il santo così dice: « Tutte le creature che esistono sulla terra vi sono poste in vista dell’uomo, per aiutarlo a perseguire e raggiungere il suo fine: dal che ne deriva che noi non dobbiamo usare di esse che finché ci sono di aiuto, disprezzarle, fuggirle nella misura che c’impediscono di pervenirvi » (Esercizi Spirituali, 2a Settimana, Fondamento.). – Questa verità formulata dal santo fondatore della Compagnia di Gesù, dice Monsignor Gay, non ammette contestazione ragionevole; la conclusione che il santo ne trae è assolutamente rigorosa, implica fin d’ora una legge che non si potrebbe ignorare. Questa legge domina tutta la nostra vita terrena e la deve governare al di fuori e al di dentro; si applica tanto bene alle affezioni che alle azioni. Là sta il gran segreto, conclude Mons. Gay, del santo svincolamento dell’anima; e cioè del distacco da tutto ciò che non è Dio, concludiamo noi. V’è ancora un qualche cosa di più. Lo diciamo con le parole di san Francesco di Sales: O Signore, no, non eccettuo niente, strappate me a me stesso. O mio me stesso, io ti lascio per sempre, fino a che Dio mi comanderà di riprenderti.

LA DIMENTICANZA DI SÈ.

Il distacco è generico e comprensivo: comprende lo spogliamento generale dell’io; la dimenticanza è più ristretta e specifica, e riguarda, precisamente, soltanto noi stessi. Giova insistere: quando un’anima si dona, si consacra a Dio, non appartiene più a sé. Non esiste più di fronte alla propria volontà, nella visione della sua intelligenza come in quella de’ suoi occhi: vive unicamente in Colui al quale si è offerta; non ha più interessi e considerazioni proprie, ma solo quelli e quelle dello Sposo celeste. Dimenticare sé stessa, ecco, adunque, la più grande legge della vita di ogni anima. « Dimenticare se stessa, dice lo Schryvers (Il dono di sè, pag. 193) significa escludere dalle proprie azioni, sofferenze e preghiere, ogni calcolo umano, ogni pensiero retrospettivo di amor proprio, ogni i intenzione egoistica ». Dimenticare sé stessi significa accettare semplicemente dalla mano di Dio tutte le croci, tutte le contrarietà senza lamentarsene, senza prevalersene, senza esaminarne la durata, la natura, come se colpissero un altro. – Dimenticare se stessi, significa moderare la ricerca delle soddisfazioni personali, fuggendo le illecite, e prendendo tra le altre, solo quelle che la Provvidenza stessa ha preparato. Dimenticare se stessi significa stimarsi al giusto suo valore, ossia come una nullità e come un peccatore; significa sbarazzare la memoria sua e quella degli altri, della propria persona, delle proprie qualità, delle proprie opere; significa evitare anche uno sguardo ansioso e troppo prolungato sulle proprie debolezze. Questo sguardo ansioso e troppo prolungato sulle proprie debolezze è sempre una vittoria dell’animæ hostis e dell’amor proprio. – Ancora: « Dimenticare se stessi, significa sparire ai proprii occhi, con un atto di volontà, per non ritrovare in sé e negli altri, nelle persone e nelle cose, altro che Gesù e la sua volontà ». Fermiamoci. Qualche anima potrebbe, qui, domandarci: Sono possibili tutte queste dimenticanze? E come? Sì, rispondiamo recisamente. Ed è sempre e solo possibile per l’anima che ricorda la Passione e morte di Gesù; per l’anima che, meditando lo spogliamento totale di Gesù, per amore nostro, si lancia nell’oceano dell’amore divino; cioè, di questo santo amore divino ch’è parte dell’unica realtà, di Gesù, re di amore. L’anima che sente questo amore si compiace d’essere spogliata di tutto; è felice di vedersi togliere tutto quello che forma la gioia o la felicità delle anime ordinarie. Queste possono, e vogliono, prevedere o prevenire il loro futuro, cercare, combinare piani di battaglia, scomporre giochi faticosi di equilibrio; fabbricano progetti e li distruggono, scelgono liberamente le loro occupazioni, le distrazioni, i diporti, i piaceri; vanno a caccia delle proprie soddisfazioni egoistiche e prepotenti; sono avide della stima e della considerazione degli altri uomini; dànno, o ricusano, saltuariamente, ma volontariamente, il loro affetto, anzi la loro intimità; scherzano sulla meschina quotidiana politica delle anime piccine, ingannano gli ingenui; cambiano, come si dice, le carte in tavola, negli affari, successivamente e in breve volgere d’istanti; sono, in una parola, immersi nella vita del giorno e non conoscono le gioie del vero amore. Per questo vero amore, invece, le anime generose scelgono ed abbracciano le rinunzie, le mortificazioni, l’annientamento assoluto del proprio io; per questo vero amore le anime imparano a dimenticare se stesse e ad abitare nelle profondità di Dio. In questo modo l’anima appartiene a Gesù e ama solo Lui,  ardentemente, e gli esprime questo amore in tante differenti maniere, e lo ama ininterrottamente: nelle tribolazioni, nelle tentazioni, nelle tenebre, nelle desolazioni, come nei momenti di luce e di consolazione.  Quest’anima che vuole amare Gesù non gli chiede mai conto della sua condotta verso di lei. È come l’argilla nelle mani del vasaio. Vede, essa, che Gesù le dà un aspetto strano, apparentemente incomprensibile, ma l’argilla non può chiedere all’artista: perché mi forgi in questa maniera? L’anima che così vuole amare Dio lo serve anche con tutta la prontezza della sua obbedienza. Talora questo servizio è gradito e conforme alle sue delicatezze, e l’anima allora, benedice il Signore, lo ringrazia e accetta questa soddisfazione senza indugiarvisi sopra. Talora, invece, il servizio divino è pesante, doloroso, sanguinoso: espone l’anima a lotte, a contrarietà, a incontri penosi, umiliazioni spiacevoli, a incomprensioni angosciose. Allora l’anima ricorda che non si possiede l’amore se non per mezzo del dolore, e che il dolore è sempre l’ambasciatore di Gesù. « Perciò, dice molto opportunamente lo Schryvers (O. c., 198), l’anima che ha dimenticato se stessa, non presta attenzione a ciò che la fa soffrire, la mortifica o l’umilia. Non vive per se stessa, ma per il Maestro. Non nota l’ingiuria fattale, il disonore del quale è ricoperta, il disprezzo di cui è oggetto. Come potrebbe accorgersene essa che non è più? Imperturbabile prosegue l’opera compiuta per la gloria di Dio, dovesse anche soccombere sotto il suo compito, dovesse essere schiacciata sotto i colpi dell’insulto e della persecuzione.

» La semplicità e il disinteresse dell’anima sono spesso motivo di stupore in questo mondo, dove tutto è finzione ed egoismo. Le creature cercano, talvolta, di sfruttare, a loro profitto, tale ingenuità, le tendono tranelli e cercano di sorprendere la sua buona fede. Ma l’anima semplice, non è suscettibile di sorpresa. Non si tratta con essa, ma con Dio, non si cerca d’imbrogliare o raggirare essa, ma Dio medesimo ». L’amore ci persuade a dimenticare noi stessi. Ma non solo l’amore. Tutte le cose create invitano l’anima a dimenticare se stessa. – Non è Dio, infatti, il principio e il termine d’ogni cosa? Egli ha, perciò, diritto di sovranità su tutto, e tutto deve dipendere da Lui. Se dipendiamo da Lui, non è giusto ch’Egli solo regni e che noi ci dimentichiamo, per ricordare Lui solo? Tutto, fuori e dentro di Noi, ci avverte del nulla da cui fummo tratti, e tutto c’indica l’Artista che ci ha creato. Non importa se, non ostante questa constatata  realtà, al Dio Creatore e Giudice che esige il dovere della sottomissione dell’uomo, questi risponde anche con una sfida insolente. Quante volte si potrebbe ripetere col profeta: Stupitevi o cieli! Il bue conosce il suo padrone e l’asino colui che lo nutrisce: ma tu, o Israele, non conosci il tuo Dio (Isa.I, 3). Ho nutrito ed allevato molti figliuoli, ma essi mi hanno disprezzato (Io. I, 2).

LA MORTE MISTICA DEL NOSTRO IO.

Distacco da tutto, dimenticanza di sé, morte del nostro io. Tutta la vita di Gesù Cristo sulla terra, fu croce e martirio; una morte continua, morte mistica, completata con la morte naturale sulla croce. Perché la vita mistica, la vita d’unione di noi con Gesù sia stabile e completa, occorre che noi vogliamo e cerchiamo di morire a noi stessi. Ecco i vari e differenti gradi di questa morte mistica.

1) Morte al peccato. Il peccato è l’unico male, esso non può stare con Dio. La morte ma non peccati, fu il proposito preso e mantenuto dal ven. Domenico Savio, il pio alunno del santo don Bosco nell’Oratorio salesiano. Potius mori quam foedari, « piuttosto morire che macchiarmi » fu l’ardente desiderio di Agnese purissima, e di tutte le vergini Spose di Gesù! La morte, mille morti, ma non peccare! Il non offendere Dio è la prima condizione che deve osservare l’anima che vuole vivere intimamente con Dio.

2) Morte al mondo e alle cose esterne. Tutto il mondo ha le radici nella malvagità. Nessuno può servire a due padroni: il mondo segue il demonio; ogni anima deve seguire Dio, e tanto più deve cercare e seguire Dio l’anima che desidera e vuole vivere intimamente unita con Lui.

3) Morte ai sensi e alle cure del corpo. Ai sensi e al corpo dobbiamo dare solo ciò ch’è necessario; e perché il corpo non recalcitri, dobbiamo domarlo con le privazioni e con le mortificazioni.

4) Morte ai difetti naturali. Questo genere di morte è molto difficile: in esso consiste la completa riforma del carattere. Tra gli stessi santi, alcuni, come S. Agostino e S. Francesco di Sales, riuscirono a domare e dominare vittoriosamente il loro carattere, con l’aiuto della grazia santificante. Altri non riuscirono nella loro opera di completa riforma. È un lavorio codesto che ha termine soltanto con la morte. L’esame particolare ci fornisce, a questo fine, un mezzo eccellente, anzi indispensabile.

5) Morte alla propria volontà. Ripeteremo sovente il fiat, Domine, voluntas tua; così che non soltanto ci sentiamo rassegnati, ma lo siamo prima con gusto, poi con gioia, e poi con vivissima riconoscenza a Dio, da conformare prima, e uniformare poi, definitivamente, il nostro modo di vedere, pensare, giudicare, parlare, con la volontà di Dio e con quella di chi ci rappresenta Dio. Non capricci, adunque, non fantasie, non punti di vista personali, non ostinazioni, non presunzioni, ma lasciarci guidare sempre dallo Spirito Divino.

6) Infine morte alla stima e all’amor proprio; morte alle consolazioni spirituali stesse che sono mezzi non necessari per la perfezione, e completa oscurità riguardo lo stato dell’anima. Gesù dice allora all’anima quella parola che già disse, un giorno, a S. Caterina da Siena: Tu pensa a me, io penserò a te.

LA VITA INTERIORE (17)

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 8

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (8)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935, F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VII

Della virtù di penitenza

Spirito di Gesù. — Davide e San Paolo animati da tale spirito. — Si ottiene con la preghiera; modo di ottenerlo.

La virtù di penitenza è interiore ed esteriore. La penitenza interiore, che è la principale e dà alla penitenza esterna il suo valore, comprende tre disposizioni necessarie: l’umiliazione, la contrizione e l’oblazione di sé stesso alla divina giustizia per subire tutti gli effetti della vendetta che le piacerà d’infliggerci. – Lo spirito di penitenza è lo spirito medesimo di Dio, che è stato infuso dapprima in Gesù Cristo, e in seguito da Gesù Cristo diffuso nella sua Chiesa; esso opera nelle anime vari sentimenti e vi imprime specialmente i sentimenti di penitenza. Ciò si osserva nella persona di Davide, che in anticipazione, come figura del Figlio di di Dio penitente, aveva ricevuto l’abbondanza di tale spirito. Si vede che l’anima di Davide, per l’azione dello spirito di penitenza, era rivestita di quei sentimenti e di quelle disposizioni di cui abbiamo l’espressione nei Salmi che vennero dati alla Chiesa per sollievo e consolazione dei veri penitenti. Questi restano oltremodo consolati nel vedersi animati da sentimenti conformi a quelli che sono espressi nella Scrittura; perché la Scrittura è la regola della loro condotta e della loro vita. Essa esprime la vita interiore di Gesù nelle anime, vita che deve essere la medesima in esse come in Gesù; e questo si è verificato nei suoi membri, sia in quelli che lo hanno preceduto, come in quelli che lo hanno seguito nella Chiesa. S. Paolo nel nuovo Testamento, e Davide nell’antico, esprimono l’interiore penitente di Gesù Cristo. Dalla identità delle espressioni che adoperano l’uno e l’altro, si riconosce chiaramente che furono ispirati dal medesimo Spirito, il quale in Davide prima della venuta di Gesù Cristo, e in San Paolo dopo il ritorno di Lui al Padre, ha operato i medesimi effetti. Davide dice che è stato compreso di timore, di terrore e di spavento alla vista dei giudizi di Dio: Timor et tremor (Ps. CXVIII, 120). S. Paolo ci fa sapere che il timore e le ansie interne non gli causavano minori angosce che le calunnie e le persecuzioni che gli provenivano dai suoi nemici. (II. Cor. VII, 5). Davide nella sua qualità di penitente ci attesta che era disposto a subire nel suo corpo tutto quanto un delinquente deve soffrire (Ps. XXXVII, 18); Paolo ci dice che trattava il proprio corpo come uno schiavo, castigandolo severamente (I. Cor. IV, 27). L’uno e l’altro ci attestano così, con l’espressione dei loro sentimenti, la conformità che esiste tra i penitenti, sie dell’antico come del nuovo Testamento, con Gesù Cristo penitente, il quale, nel suo interiore, era pieno di timore e di terrore alla vista dei giudizi e dei rigori del Padre suo corrucciato contro di Lui, mentre eternamente era colpito dall’odio e dalla persecuzione dei Giudei che lo cercavano per metterlo in croce. In questo stato Gesù continuamente offriva sé stesso al Padre suo per sopportare, nel suo ardente desiderio di dargli soddisfazione, tutti i tormenti che avrebbe sofferto da parte dei Giudei, in penitenza dei nostri peccati. Nel leggere i Salmi, bisogna dunque onorare in Davide lo spirito di penitenza di Gesù Cristo, e con grande religione e raccoglimento venerare le disposizioni dello spirito interiore di Gesù Cristo, fonte di ogni penitenza, che era diffusa nel santo Salmista; bisogna inoltre, con un cuore umiliato, implorare con insistenza, fervore e costanza, ma sopra tutto con umile confidenza, che quello spirito ci venga pure comunicato.

***

Se dopo di aver implorato l’effusione di questo Santo Spirito di cui vediamo gli effetti nell’anima del santo re Davide, non sentiamo in noi in modo sensibile, le medesime disposizioni; non dobbiamo tuttavia rattristarci. Perché dobbiamo sapere che, nella preghiera animata dallo Spirito, non vi sarà da parte nostra il minimo sospiro, che da Dio non attiri qualche bene sopra di noi e in noi: Dio non rifiuta nulla allo Spirito che prega in noi, ma sempre lo esaudisce, come sempre esaudisce Nostro Signore a motivo della sua riverenza (Hebr. V., 71). Sta scritto ancora che nessuna parola interiore si innalzerà a Dio, che non venga esaudita e non ritorni a noi col suo frutto (Ps. CXVIII, 131; Isai, LV, 11). Dio con la sua parola si è impegnato a concedere alla preghiera dell’uomo il dono di questo Spirito che è il cibo dell’anima. Lo dà alla sua Chiesa secondo il bisogno dei suoi figliuoli; a ciascuno dei pargoli che lo domandano Egli distribuisce questo pane. Ma questo divino Spirito, a motivo della sua purezza, è insensibile nella sua azione; quando si dà all’anima come cibo e alimento, lo fa in modo impercettibile. L’anima realmente lo riceve in sé stessa e cresce nella virtù di esso, ma senza averne coscienza. Così, non si vede, né si sente l’aumento di questo spirito, perché consiste in una grazia insensibile, ricevuta nel fondo dell’anima dove non c’è sensibilità. Non si vede crescere il corpo dell’uomo, benché nutrito da una sostanza sensibile; non si vede muoversi la sfera di un orologio, benché il movimento ne sia sensibile; non è quindi da meravigliarsi se non si possono percepire coi sensi le azioni di quel divino Spirito; ma soltanto bisogna aver fede e fidarsi della parola di Dio, il quale concede tutto alla preghiera; e pregare con umiltà, ma con fiducia in Dio, tenendo l’anima nostra aperta davanti a Lui per ricerverne le operazioni. – Potrà darsi che mentre leggiamo i salmi, la bontà di Dio produca nel nostro cuore disposizioni e sentimenti in conformità con ciò che leggiamo, e che proviamo quindi nel cuore una certa operazione di spirito che ci farà gustare ciò che meditiamo e seguire con attenzione, con intelligenza, con compiacenza le parole di Davide: in tal caso non dovremo interrompere questa operazione per continuare le nostre suppliche; bisognerà fermarci lì perché così saremmo esauditi prima di pregare; la meditazione otterrebbe il suo fine nel suo inizio medesimo; le nostre preghiere sarebbero in tal modo prevenute e noi riceveremmo così gratuitamente ciò che i fedeli servitori e le anime forti ottengono dopo molte preghiere e molte umiliazioni. – Daremo un esempio; se nel leggere questo versetto: Domine ne in furore tuo arguas me, neque in ira tua corripias me,Signore, non mi riprendere nel tuo furore e non mi castigare nell’ira tua (Ps. VI, 2), avvenisseche ci fosse data l’intelligenza di questeparole, e che esse facessero sorgere nelpiù intimo di noi stessi una prece e undesiderio conformi a quel di Davide; seavvenisse che ci sentissimo umiliati davantia Dio, domandandogli che nel suo fervore non ci condanni, né ci giudichi nella sua ira, e che questo sentimento tenesse la nostra anima tutta impegnata in un santo fervore al cospetto della divina Maestà, non bisognerebbe cercare nessun’altra occupazione, perché qui vi sarebbe un segno della operazione di Dio; bisognerebbe stare in pace in questo stato, e lasciare operare lo Spirito, cibandoci di questa disposizione. – Che se lo Spirito cesserà di nutrirci o di tenerci occupati in quel modo, allora potremmo passare ai versetti che seguono: ché se infine Dio ritirasse la sua operazione sensibile dall’anima nostra, lasciandocinell’aridità della pura fede, potremmo metterci a pregare in altro modo, servendoci di altro metodo com’è quello che abbiamo esposto più sopra.

I.

Varie sorta di penitenze interiori.

Abbandono a Dio per subire la pena interiore dei nostri peccati. — Gesù Cristo penitente: quanto ha patito. — La penitenza interiore è la più necessaria. — Esempio di Gesù che si assoggetta a San Giovanni.

Dobbiamo abbandonarci a Dio, pronti a sopportare ogni aridità e desolazione, ogni timore, ogni tristezza e ogni dolore, tutti effetti questi di quella penitenza interiore che viene da Dio e non è conosciuta che da Lui solo, e da quelli che la esercitano. Bisogna abbandonarci alla divina giustizia per subire i terrori dei suoi santi giudizi, le ripulse interiori ch’essa ci fa sentire delle nostre anime e di tutte le opere nostre, per sopportare i rigori dei suoi rimproveri e delle sue riprensioni.

***

Era questo lo stato di penitenza interiore in Gesù Cristo, e le sue pene interiori sorpassavano infinitamente i dolori esterni. Gesù fin dal primo momento dell’incarnazione si era abbandonato a Dio per subire questi stati di penitenza, e li ha sempre portati durante la sua vita mortale, perché era venuto in questo mondo per fare la penitenza interiore ed esterna dovuta ai peccatori (Psalm., XXI, 11; XXXVII, 18; Isai, I, 6.). – Gesù Cristo non solamente ha sopportato ogni pena e ogni dolore nelle sue membra per soffrire in tutto il suo corpo, perché i peccatori si prendono soddisfazioni peccaminose in tutte le parti del loro corpo; ma inoltre, ha subìto la massima delle pene corporali dovute al peccato, ossia la morte. Si è fatto obbediente sino alla morte e sino alla morte della Croce che è la più estrema delle pene corporali; questa pena Gesù ha voluto tenersela sempre davanti agli occhi. Durante tutta la sua vita; nell’orto degli ulivi poi ha voluto sentire tutta l’amarezza e l’acerbità nella sua dolorosa agonia. Non solamente ha sofferto le pene esteriori nel massimo grado, ma ancora le pene interiori in tutta la violenza delle passioni alle quali lasciava ogni libertà, perché insorgessero in Lui e lo affliggessero in ogni modo nella parte inferiore dell’anima sua. – Ha sopportato nel suo spirito la vista del disprezzo, della ripulsa, dell’abbandono e dei rigori dell’Eterno Padre che l’aveva caricato della vergogna e della confusione meritata da quei peccati che pur non aveva commessi (Improperia improperantium tibi ceciderunt super me. Ps. LXVIII. 10). Gesù sottostava al rimprovero obbrobrioso che Dio fa ai peccatori nel giudicarli e condannarli, e ciò gli faceva esclamare: Dio mio!… la voce dei miei delitti mi allontana dalla salute (Ps. XXI 2). – Non solo si vedeva circondato da tutti i peccati degli uomini, i quali,  di loro natura, insorgono con audacia contro Dio: per Gesù era questo un peso insopportabile; non solo Egli era oppresso dalle grida e dalle bestemmie che tutti questi peccati vomitano contro la divina Maestà, ma ancora dalla bocca del Padre riceveva le invettive e gli obbrobri dovuti al peccato di cui portava il carico, ed erano questi come altrettanti colpi di tuono che lo schiacciavano e con un giudizio severo e terribile lo respingevano dal Padre.

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Bisogna che un’anima si offra a portare in sé medesima la penitenza interiore nella quale Dio Padre talora da sé medesimo e per la sua propria giustizia mette le anime, penitenza che Lui solo sa operare in noi; è questo l’estremo abbandono cui l’anima possa venir ridotta. Di questa pena parlava Nostro Signore soprattutto nella descrizione delle pene della sua morte. Di questa diceva dapprima, facendo poi un cenno anche alle altre pene esterne. Il salmo Deus, Deus meus, ut qui dereliquisti me? si riferisce soprattutto alle pene interne, in confronto delle quali dolori esterni erano un nulla.Così in confronto della penitenza interiore,ha ben poco valore l’esercizio esterno della penitenza, come il digiuno, la mortificazione corporale, l’astinenza dai piaceri sensibili. Un solo istante di penitenza interna vale più di tutto il resto senza di essa (È da ammirarsi la moderazione con cui, in questo tratto, il servo di Dio parla della mortificazione corporale, soprattutto se si riflette che a quel tempo le macerazioni erano molto in uso ed egli stesso trattava il suo corpo con grande durezza. I santi mentre sono crudeli, si passi la parola, con sé medesimi, sono miti con gli altri. Ci si permetta di ricordar qui un aneddoto della vita del servo di Dio. Padre Yvan, oratoriano di grande austerità, ma rude anche con gli altri, venne un giorno a far visita a Giov. Olier e lo trovò a pranzo coi suoi sacerdoti; la tavola era servita senza lusso, ma pure senza ostentata austerità, trattandosi di preti che seguivano la via comune e dovevano faticar molto. Il Padre Yvan ne restò scandalizzato, e con franchezza eccessiva ma che si doveva compatire per la sua età avanzata, ne mosse rimproveri severi e quasi offensivi al servo di Dio; questo accettò la correzione con sincera umiltà ringraziando il Signore di aver trovato infine una persona che lo avvisasse dei suoi difetti, e se ne dimostrò gratissimo con tutta naturalezza. Padre Yvan durante tutto il colloquio, tenne l’occhio fisso sopra Giov. Olier, e vedendo la dolcezza con cui accettava la rude correzione, ne restò tutto stupito e riconobbe che, pur prendendo il suo cibo secondo il suo bisogno, era mortificato come i più austeri penitenti; e da quel momento lo tenne in una stima particolare, a segno che andava dicendo in ogni occasione: « Il Sig. Olier è veramente un santo, è morto, in lui la natura è spenta»; e si mise a lavorare anche lui al servizio del Seminario fondato di Olier e della Parrocchia di San Sulpizio. La grazia dei santi, non essendo la medesima in tutti, la durezza apparente del Padre Yvan non toglieva nulla alla grande stima che da ogni parte si professava della sua persona e dei suoi consigli. – Cfr. Faillon, Vita di Olier. II, pag. 114). – Questo stato di penitenza interiore opera d’un colpo nell’anima le disposizioni lella penitenza vera e reale, ossia della penitenza essenziale dello spirito. Perché le sue impressioni producono in noi un profondo annientamento e una grandissima confusione, la condanna, l’orrore e la contrizione del peccato, l’umiliazione dell’anima e la sottomissione agli effetti della santa giustizia di Dio sopra di noi. – Beata l’anima che raggiunge uno stato di purezza interiore tale da renderla adatta a subire gli effetti della giustizia divina. Ché se Dio per la nostra infermità o per le nostre disposizioni particolari, non ce ne giudica degni, dobbiamo abbandonarci a Lui per sopportare almeno tutto quanto Egli si degnerà di disporre a nostro riguardo, sia direttamente con la sua divina mano che si estende anche al nostro interiore, sia per mezzo delle creature, come pure talora per mezzo dei demoni. Dio infatti impiega anche i demoni per darci il mezzo di far penitenza; essi ci opprimono quindi con tentazioni oltremodo veementi, dolorose, odiose e spaventose, come quelle di bestemmia, di impurità, di disperazione, d’infedeltà, di gelosia e di tristezza, le quali sono più penose dei patimenti naturali ordinari. – Dio inoltre si serve anche degli uomini per castigarci ed esercitare sopra di noi le vendette della sua giustizia; così, i servi ed i domestici ci saranno molesti, perché pigri, negligenti e infedeli; gli estranei ci saranno di peso e di noia per il loro carattere antipatico, ci daranno incomodo con le loro visite importune, e forse lasceranno capire il foro desiderio di soppiantarci, di tradirci e di burlarsi di noi.  Anche il nostro confessore sarà per noi strumento di penitenza, perché  ci imporrà delle mortificazioni in nome di Dio e secondo ciò che Dio gli ispirerà; ma questo ci dà minor fastidio, perché noi gli siamo sottoposti per nostra volontà ed accettiamo con amore ciò che ci impone.

***

In tal modo Nostro Signore si sottomise a S. Giovanni Battista che teneva il posto dell’Eterno Padre dal quale era stato mandato. Dalla mano di Giovanni Egli ricevette il battesimo che significava l’obbligo della penitenza; così da Giovanni venne pure caricato dei peccati di tutto il popolo. Il capro emissario dal Sommo Pontefice veniva caricato di tutti i peccati d’Israele e poi scacciato nel deserto; di questo rito figurativo san Giovanni realizzò il significato: notiamo che il Battista era figlio di Zaccaria e quindi apparteneva alla stirpe sacerdotale, benché non ne esercitasse la funzione esterna a motivo che era riservato per un’opera più santa di quella della Legge, opera che dava il suo compimento a tutta la penitenza della Legge. Da Lui Gesù Cristo venne, da parte di Dio Padre, caricato anche esteriormente dei peccati di tutto il mondo. Dopo di ché lo Spirito Santo lo cacciò nel deserto come il capro emissario, come la vittima pubblica del peccato, per dare soddisfazione a Dio. Con questo spirito dobbiamo ritirarci nel deserto con Gesù Cristo, lasciando che lo Spirito vi ci conduca e ci separi dal consorzio del mondo, dalla società dei fedeli ed anche dalla gente per bene, per metterci, in ispirito, fuori di quella vita alla quale dobbiamo morire interiormente.

Il.

Dello spirito di penitenza

Lo spirito di penitenza di Gesù Cristo, principio della sua penitenza – Gesù Cristo penitente pubblico e universale, vuole continuare la sua penitenza nel suo Corpo mistico e in ciascuno di noi. – Sete di patimenti in Gesù. – La sua penitenza esteriore è più estesa. — Perfezione dei sentimenti e delle minime azioni di Gesù. – Per essere veri penitenti dobbiamo unirci al divino interiore di Gesù, abbandonarci al suo spirito, accettando quella misura di penitenza che vuole da noi.

Nostro Signore è la pienezza della penitenza; Egli ne porta in sé stesso lo spirito e ne riveste tutta la Chiesa; dimodoché tutta la penitenza che compare al di fuori e all’esterno, se è vera e reale, emana dallo spirito interiore di penitenza che trovasi in Gesù Cristo, donde si diffonde in noi. – Ogni penitenza esterna che non derivi dallo Spirito di Gesù Cristo, non è penitenza vera e reale: Potremmo praticare mortificazioni rigorose ed anche acerbissime, ma se non emanano da Nostro Signore penitente in noi, saranno penitenze cristiane. Unicamente per mezzo di Gesù si fa penitenza; Egli ha incominciato la penitenza quaggiù su la terra nella propria Persona, e la continua in noi, dilatando nei suoi membri ciò che aveva compendiato in sé medesimo. – Non dico soltanto che la penitenza deve farsi per mezzo di Gesù, vale a dire, per i suoi meriti e per la sua grazia; ma dico che la dobbiamo fare realmente in Lui, vale a dire, che Egli, nel suo Spirito, deve esserne il principio. Gesù deve investire l’anima nostra delle disposizioni interiori di annientamento, di confusione, di dolore, di contrizione, di zelo contro di noi medesimi e di forza per esercitare sopra di noi la soddisfazione, in quella misura di pena che Dio Padre vuole ricevere da Gesù Cristo nella nostra carne. –  Gesù Cristo è il Penitente pubblico ed anche il Penitente universale (Bourdelou: « O profondità ed abisso dei disegni di Dio! Tale è la qualità  (di Penitente) che il Salvatore del mondo ha voluto assumere ed ha tanto santamente quanto costantemente sostenuta in tutto il corso della sua adorabile passione … Siccome, secondo la Scrittura, la vera penitenza consiste soprattutto in due cose: la contrizione che ci fa detestare il peccato, e la soddisfazione che lo deve espiare; così, quando dico un Dio Penitente, intendo un Dio compreso dalla più viva contrizione alla vista del peccato dell’uomo, un Dio che ha sacrificato sé medesimo, soddisfa in pieno  il vigore della giustizia, re della giustizia, per il peccato dell’uomo: due obbligazioni che Gesù Cristo aveva prese sopra di sé sino dal primo istante della sua vita e che adempì esattamente nel giorno della sua Passione ». Sermone sulla Passione.); Lui, Lui solo, fa penitenza in noi. Gesù Cristo carica il corpo della Chiesa di strumenti di penitenza e li porta Egli stesso nei Cristiani che sono le sue membra; come avrebbe voluto usarne sulla terra e portarli, Lui solo, nel suo corpo reale, se questo non fosse stato troppo debole e troppo piccolo. Per questo, Gesù Cristo ha voluto, per mezzo della sua Chiesa, dilatare e allargare il suo corpo (Ecclesia quæ est corpus ipsius, et plenitudo ejus. – Eph. I,  23); con la diffusione del suo Spirito, Egli riveste la Chiesa delle industrie della sua penitenza, e così Egli dà soddisfazione a Dio suo Padre nel suo corpo mistico come in un supplemento di sé stesso; Egli soddisfa lo zelo interiore ed i desideri che il suo spirito avea di soffrire, desiderio che non ha potuto saziare nella sua sola Persona. Egli ha preso per sé una parte soltanto della penitenza esteriore, e l’altra la distribuisce fra i singoli suoi membri (Adimpleo era quæ desunt passionum Christi. Col.,  I, 24); ma per se stesso ha riservato fa pienezza dello Spirito interiore, dal quale in tutti i suoi membri vengono compiute tutte le operazioni esterne. – L’interiore di Nostro Signore è più esteso del suo esterno; perché nel suo proprio Spirito Egli contiene l’interiore di tutti i fedeli; mentre nel suo corpo non ebbe che quella penitenza esterna che era ordinata dal Padre suo e che Egli accettò. Orbene, siccome quest’interiore di Gesù Cristo era nascosto, il Padre ha voluto fosse manifestato; ha voluto che la sete ardente che Gesù provava su la Croce, quella sete che gli strappava quell’esclamazione: « Ho sete » (Joan. XIX, 28), fosse conosciuta e che gli uomini ne avessero la spiegazione. Era quella una di soffrire per il Padre suo e per la Chiesa, sete che indicava l’ardore della sua penitenza e il fuoco che infiammava il suo cuore di zelo contro sé medesimo, per distruggere il peccato. – Egli dava ad intendere, con quella esclamazione, che un corpo, benché sia oppresso, consumato e distrutto, benché sia ridotto agli estremi dell’agonia, come era il suo corpo sulla Croce, deve nondimeno vivere nello spirito di penitenza; e che il desiderio di soffrire per i nostri peccati e per tutti coloro che nella Chiesa hanno offeso e offendono ancora la Maestà di Dio, deve sempre rimaner acceso nel nostro cuore. Da qui noi veniamo a conoscere quel comune spirito di penitenza del quale debbono investirsi tutti i membri di Gesù Cristo, col darsi interiormente allo spirito di penitenza della Chiesa. Questo Spirito di penitenza della Chiesa è lo Spirito medesimo di Gesù Cristo ch’Egli diffonde e dilata nei suoi membri, onde avere un amore e uno zelo universale di soddisfare al Padre suo, nella propria sua Persona, per tutti i peccati del mondo. Così Gesù Cristo, con questo Spirito universale, mediante questo Spirito e in questo Spirito, vuole essere presente in tutti i suoi membri per dare, in tutti e in ciascuno, soddisfazione e compiacenza alla divina Maestà.

***

Ed è questa la seconda unione di penitenza che dobbiamo avere con Gesù Cristo. Dobbiamo in primo luogo renderci partecipi della penitenza di Gesù Cristo, facendo penitenza in Lui medesimo. In secondo luogo, dobbiamo unirci pure con Gesù Cristo penitente nei suoi membri, onde investirci di tutti i sentimenti della penitenza interiore, e questa non deve avere limiti in noi, ma deve oltrepassare infinitamente la misura di quella penitenza esterna che dobbiamo esercitare sui nostri corpi. Dio tutto pesa con la misura dello spirito: Egli vede quanto nelle nostre opere vi è dello Spirito divino, e le stima secondo tale misura; perché nelle opere nostre non v’è nulla che meriti stima, se non ciò che viene da Lui mediante il suo Spirito. Donde avviene che in Gesù Cristo ogni minima azione sorpassava tutte le fatiche dei Santi Apostoli e di tutta intera la Chiesa; a motivo della pienezza dello Spirito, della scienza, della luce e dell’amore, ogni minima azione era, in Lui, animata da sentimenti, intenzioni e disposizioni tutte divine, per onorare Iddio. – Infatti, la pienezza dello zelo, della forza, della purezza, che riempiva le opere di Gesù, dava ad esse davanti a Dio, maggior valore e maggior efficacia di tutto quanto dalla Chiesa intera viene meritato o potrebbe essere meritato. Benché animata dal medesimo Spirito, la Chiesa non opera con l’immensità della divinità, con la quale quel divino Spirito operava in Gesù Cristo. In tal modo, benché la Chiesa esprima all’esterno una parte dei pensieri che l’amore della penitenza eccitava in Gesù, per dare soddisfazione al Padre suo; non abbiamo nulla, tuttavia, nella Chiesa medesima che esprima perfettamente l’intensità dei desideri e la forza degli atti interiori di Gesù; non abbiamo nulla che esprima il peso immenso dell’amore del suo Cuore, e l’infinità del suo zelo per dare soddisfazione e compiacimento al Padre suo. Qualche cosa, è vero, se ne può conoscere per la gravezza dei rigori che il suo Spirito opera nella Chiesa, e per la diversità delle pene e sofferenze che Egli stesso porta nei suoi membri, i quali gli servono a compiere e terminare la sua penitenza, ma l’intensità e la perfezione dei suoi sentimenti, soltanto l’eternità ce le potrà svelare. Nulla ce le può manifestare in questa vita, come dice S. Ambrogio: Nessuno quaggiù potrà mai intendere perfettamente l’interiore di Gesù. (Dei consilium humana vota non capiunt, nec quisquam interiorum potest esse particeps Christi).

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Dobbiamo unirci a questi divini sentimenti di Gesù Cristo, per essere rivestiti di Lui nell’intimo dell’anima nostra. Una tale unione con Gesù Cristo, questa partecipazione al suo spirito è ciò che dobbiamo soprattutto ricercare, perché è ciò che vi ha di più prezioso nella penitenza ed è anche il fondo ogni virtù. Dobbiamo essere penitenti in Gesù Cristo e inebriati in Lui dello Spirito delia vera penitenza: questo Spirito opera dapprima in noi e sopra di noi tutta la penitenza esteriore, la quale non è che una dipendenza, un getto tenuissimo, e come un segno e un’espressione della penitenza interiore; ma poi produce in noi questa penitenza interiore in proporzione della pienezza e dell’abbondanza dello Spirito. Secondo la dottrina di S. Paolo, lo Spirito nei Santi opera insieme e supplica secondo i disegni di Dio, (1 Cor, XII, 6, 11), perciò nel suo zelo ci porta a castigarci noi stessi, e a prestare soddisfazione a Dio; e noi dobbiamo obbedire a questo divino Operaio dei misteri di Dio, come a Colui che assiste ai consigli divini e penetra nel più profondo dei segreti di Dio (I Cor. II, 34). – Egli conosce la misura delle soddisfazioni che Dio esige da noi, e che noi ignoriamo: dobbiamo quindi abbandonarci a questo Spirito interiore, che è un mare e in oceano di penitenza interiore e divina, e protestargli che siamo, con intero abbandono, pronti e disposti a tutto, e che non rifiutiamo nessun castigo e nessun effetto della sua giustizia. Dobbiamo protestargli che siamo universalmente sottomessi a tutti gli ordini di Dio; e che, quando pure dovessimo perdere mille volte la vita nella penitenza, noi siamo pienamente disposti a tutto; che non vogliamo limiti nelle nostre sofferenze, poiché lo Spirito di Gesù Cristo, nel suo zelo, non può aver nessun limite riguardo a Dio suo Padre; che perciò noi abbracciamo in ispirito ogni sorta di pene, onde sopportare tutto quanto Dio desidererà di imporci, o direttamente per sé stesso, o per bocca e per ordine di colui che tiene per noi il suo posto sulla terra, ossia del nostro confessore in cui veneriamo la sua Maestà. In tal modo, bisogna essere uniti a Gesù Cristo penitente su la terra; e come Egli, quando dallo Spirito fu inviato e cacciato nel deserto per fare penitenza, si sottometteva agli ordini di Dio suo Padre, così dobbiamo accettare, in unione col suo Spirito e con le sue disposizioni, le penitenze, che ci verranno imposte. Bisogna accettarle rinunciando completamente al nostro spirito proprio, al nostro proprio giudizio ed alla nostra volontà propria, senza discutere né mormorare, abbandonandoci a tutto, ma senza far mai più di quanto ci sarà comandato.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 9

LA VITA INTERIORE (15)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (15)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

LUCE DIFFUSA

L’UMILTÀ

UN DOLCE INVITO DEL CUORE DI GESÙ

Ce lo riferisce l’evangelista S. Matteo: «Imparate da me che sono mite ed umile di cuore» (XI, 29). Essere umile vuol dire avere e praticare la virtù dell’umiltà. Gesù è il maestro di questa virtù, in sommo grado, e noi non potremo dirci veri figli e seguaci suoi se non impareremo e praticheremo questa virtù sconosciuta e disprezzata dal mondo ch’è poggiato sullo spirito di superbia.

IN CHE COSA CONSISTE.

Da humus, terra, viene humilitas, cioè che sa di terra. L’umiltà è quindi la virtù che induce a riconoscerci fatti dI terra, e perciò, di nessun pregio, di nessun valore. Non è una virtù passiva, come vorrebbe l’americanismo; tanto meno è codardia, ingratitudine o selvatichezza, come la insulta il mondo. L’umiltà è la verità, dice S. Bernardo. È la virtù che ci fa conoscere ciò che siamo, vale a dire creature di Dio tratte dal fango della terra… È il meglio della superbia. La superbia detronizzò lucifero con gli angeli ribelli e li fece dannare per tutta l’eternità; l’umiltà, invece, è il mezzo più pratico e più efficace per entrare nel Paradiso. L’umiltà è – come insiste S. Bernardo – il fondamento e la custodia di tutte le virtù. Senza l’umiltà, tutte le altre virtù non sono più virtù, diventano vizi. Infatti, senza l’umiltà la mortificazione esteriore è ipocrisia; la preghiera senza umiltà è presunzione; la meditazione è illusione e inganno; senza l’umiltà la carità diventerebbe egoismo raffinato; senza l’umiltà, infine, è impossibile conservarci in grazia di Dio. « Qualunque cosa di buono noi facciamo – dice S. Giovanni Crisostomo – sia preghiera, sia digiuno, sia limosina, sia continenza, va in fumo e sparisce se non è accompagnata dall’umiltà » (Hom. 15 in Matth.). «L’umiltà – assicura S. Vincenzo – è la base di tutta la perfezione evangelica, ed il  nocciolo di tutta la vita spirituale; chi possederà quest’umiltà, acquisterà pure con essa tutt’i beni; chi poi ne sarà privo, perderà anche quel bene che ha, e sarà agitato da continue angustie ». – Ecco con quale precisione S. Agostino la esalta: « Se tu mi domandassi qual sia la strada per raggiungere la verità, qual sia la cosa principale nella religione e nella scuola di Cristo, ti risponderò: la prima cosa è l’umiltà; quale la seconda? l’umiltà; quale la terza? l’umiltà; e se cento volte m’interrogassi, cento volte ti darei la medesima risposta » (Ep. 149).

NECESSITÀ DI QUESTA VIRTÙ.

Da quanto abbiamo detto possiamo ben arguire e comprendere il significato completo, assoluto della nobilissima parabola: Il fariseo e il pubblicano al Tempio, narrataci con tanta graziosità ed esattezza di linee da San Luca (XVIII, 9, 14). La preghiera umile apre le porte del Cuore SS. di Gesù e Gesù apre quelle del Cielo. La preghiera superba dissecca la fontana della misericordia del Cuore SS. di Gesù e isterilisce ogni opera buona. Con umiltà, dunque, le nostre anime debbono avvicinarsi a Gesù; con grande umiltà supplicarlo; con immensa umiltà considerare i suoi immensi benefizi per poter dire a Lui, Padre dolcissimo, tutti i sentimenti più vivi della riconoscenza e dell’amore filiale. Ma Gesù fu, in altre circostanze, anche più esplicito nell’indicare che la virtù dell’umiltà è indispensabile. Quando gli Apostoli, avvicinatisi a Lui, confidenzialmente gli chiesero: « Chi è mai il più grande nel regno dei cieli?» Gesù, dopo aver fatto venire a sé un fanciullo, rispose agli Apostoli: In verità vi dico, se non vi cambierete e non diventerete come i pargoli, non entrerete nel regno dei cieli. Chi pertanto si farà piccolo come questo fanciullo, sarà Il più grande nel regno dei cieli (Matt., XVIII, 1-4). Con queste sue dichiarazioni Gesù ha proclamato una grandissima verità e ci ha esortato « a quella profonda mutazione che consiste nella infanzia spirituale, ossia nella pratica dell’umiltà, indispensabile per entrare in Paradiso ». Procuriamo anche di tenere presente allo spirito e di meditare la chiarissima affermazione dell’Apostolo Pietro: Dio resiste ai superbi e dà la sua grazia agli umili (I Petr., V. 5): « L’umiltà non è, dice il Carmagnola, soltanto una virtù di consiglio, e dalla quale possiamo in certe circostanze e per ispeciali ragioni esimerci, no; essa è doverosa per conseguire la vita eterna, ed è doverosa sempre. In cielo vi possono essere dei Santi che non abbiano potuto praticare digiuni e macerazioni; vi possono regnare di coloro che non si mantennero nello stato verginale, ma nessuno può entrarvi, senza che sia stato umile ».

ECCELLENZA DELL’UMILTÀ.

Il divino Maestro non solo ci ha insegnato l’altezza e la preziosità di questa nobilissima virtù, ma, prima di insegnarcela, come sempre ed in tutto, Egli ha voluto praticarla in modo tale che può dirsi la virtù caratteristica di Gesù! Basta riflettere un istante sulla condizione di vita che Gesù si diede nel lasciare il cielo e venire sulla terra. Con molta proprietà l’Apostolo affermò che Gesù exinanivit semetipsum formam servi accipiens (Philip., II, 7), cioè siumiliò tanto da prendere l’aspetto di servodegli uomini… Se vi pensiamo anche perpochi istanti, il nostro cuore non potrà nonsentire la più intensa commozione nel considerarele dolorose, umilissime condizionidi Gesù nella sua vita, dalla culla al calvario!Nessuna meraviglia se coloro cheseguirono realmente Gesù, sentirono di doverpraticare questa virtù, e specialmente i Santi, i quali l’ebbero come distintivo preferito.Ci è, dapprima, maestra insuperabilela Vergine santa. Perché il Signore ha visto l’umiltà della sua serva… Ecco l’esatta motivazionedelle grandezze di Maria… Conl’umiltà di Maria SS. ammiriamo quelladi S. Giuseppe, di S. Giovanni Battista, ditutti i Santi. A voler ricordarne i nomi e gliesempi, sarebbe soverchio. Desideriamo,tuttavia, accennare alla grande umiltà diS. Giovanni Bosco e agli esempi eroici diuna sua figliuola spirituale, la ven. MariaMazzarello; che fu la cofondatrice colsanto don Bosco, delle Figlie di MariaAusiliatrice, la seconda famiglia religiosasalesiana.

L’UMILTÀ EROICA DELLA VEN. MARIA MAZZARELLO.

Il Santo Padre Pio XI, il 3 maggio 1936, dopo la lettura del decreto approvante l’eroismo delle sue virtù, tessendone un alto elogio, fra l’altro, disse: «… È veramente questa, l’umiltà, la nota caratteristica della Venerabile. Una grande umiltà la sua: si direbbe proprio una piena coscienza, e il continuo pratico ricordo dell’umile sua origine, dell’umile sua condizione, dell’umile suo lavoro. Contadinella, piccola sarta di paese, di umile formazione ed educazione; educazione cristiana, è vero, quindi oltremodo preziosa, ma alla quale è mancato, si può dire, tutto quello che comunemente si intende per educazione; anche la più modesta istruzione, sia pure nella più modesta misura. Restava quella semplicità che Iddio, l’unico preparatore di anime, s’era appunto predisposta in così eletta anima; e ci sembra proprio di entrare nei gusti di Dio e della stessa Venerabile, seguendo e studiando il segreto di questa sua vita vissuta e della vita postuma che la Venerabile viene esplicando in tanta sopravvivenza di persone e di opere. » La sua umiltà fu così grande, da invitare a domandarci che cosa vede Iddio benedetto in un’anima umile, veramente, profondamente umile; che appunto per l’umiltà, tanto, si direbbe, lo seduce e gli fa fare fino le più alte meraviglie in favore di quella stessa anima, e altre meraviglie per mezzo di essa… ». Quando si pensa, infatti, al valore dell’anima — il Signore ha dato la sua vita «per me», esclama l’Apostolo — che cosa, adunque, nell’umiltà vede il Signore? La domanda s’impone, specialmente quando si riflette per contrasto, a quello che nell’umiltà vede il mondo: rare volte il mondo si dimostra così insipiente nella sua albagia e nella sua supposta sapienza. Per il mondo questa umiltà e semplicità è povertà nel senso più miserabile e compassionevole della parola. Che cosa invece nell’umiltà vede Iddio? Egli stesso, il Signore, si è presa la cura di scioglierci questo problema che umanamente si presenta in modo scoraggiante. Ce lo ha detto in una delle sue più belle parole di S. Paolo, allorché fa dire all’Apostolo e proprio all’indirizzo dei non umili, dei superbi, di coloro che credono di potersi vantare e gloriarsi in qualche cosa — qualità, gesta, opere — la parola così solenne; così ammonitrice: Quid habes quod non accepisti? Et si autem accepisti, cur gloriaris quasi non acceperis?» Ecco, dilettissimi figli, ecco tutto il segretodell’umiltà; per essa l’anima stima evede reali splendori di verità, maestà di giustizia, dolcezza di riconoscenza; i rapporti, cioè, che devono intercedere fra l’animae Dio; per l’umiltà, l’anima vede che cosa è Dio nella verità; sa che cosa a Dio deve, nella giustizia; compie ciò che è obbligo verso Dio, nella riconoscenza. È qui la sostanza della umiltà nella verità, per risalire all’origine prima, giacché tutto viene da Dio — che cosa tu hai che non abbia da Dio ricevuto? — della umiltà nella giustizia; nell’attribuzione cioè della gloria a Dio: non nobis Domine, sed nomini tuo da gloriam; della umiltà nella riconoscenza intera, completa per i doni, per la liberalità divina; per la perfetta gratuità, propria di Dio, e nella sua scelta e nella sua. larghezza.» Quello che Dio vede nell’umiltà, cioè le vedute di Dio circa l’umiltà sono perfettamente all’opposto di quanto vede il mondo. Che cosa dunque vede Iddio? Vede nell’umiltà, nell’anima umile una luce, una forma, una delineazione dinanzi alla quale Egli non può resistere, poiché gli raffigura nella sua bellezza squisita e nelle linee più fondamentali e costruttive, la fisionomia stessa del diletto suo Figlio unigenito. Ed è questo un pensiero espresso dallo stesso Divino Maestro. E Lui stesso che dice a questo proposito: « Imparate da me». Che cosa imparare? « Imparate da me che sono mite ed umile di cuore». Veramente noi non riterremo mai abbastanza ciò che dicono queste poche parole: « Imparate da me che sono mite ed umile di cuore ». È il Maestro divino, portatore del verbo di Dio, portatore di tutti i tesori di sapienza, di scienza, di santità, che ci dice: « Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore », come se non avesse altro da insegnare a noi, a questi poveri uomini, a questa povera umanità, che aveva perduto anche le tracce della verità, anche il filo per rintracciarla e che aveva tutto, tutto da imparare. Vien detto ad essa, vien detto a tutti gli uomini: « Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore », come se non avesse altro da imparare, come se, questo imparato, fosse da noi appreso tutto quello che ci abbisogna per la ricostruzione delle anime, per la ricostruzione morale del mondo…

»… Ecco qualche cosa di ben prezioso e di cui sì può ringraziare la ven. Mazzarello, per il ricordo che ce ne dà. Da lei, infatti, ci viene questa indicazione; e tutta la sua vita ed opera sono appunto in questo ordine di idee, in questa divina didascalia e divina scuola di umiltà.

» Ora qui non possiamo non aggiungere che la venerabile Mazzarello — la esemplare, l’antica Figlia di Maria — di Maria SS., altresì, ci ricorda e ci ripete la somma lezione di umiltà, allorché la Vergine Madre di Dio esclamava doversi la sua elezione e gloria all’umiItà. Respexit humilitatem ancillæ suæ.

» La Madre di Dio si chiama la serva, l’ancella di Dio; e perciò, ex hoc beatam me dicent omnes generationes. È bello considerare la venerabile Mazzarello in questa luce, nella luce stessa di Maria. Anch’ella può ripetere: il Signore ha guardato con infinita benignità la mia umiltà, la mia semplicità e per questo: Beatam me dicent omnes generationes. Ecco infatti tutte le genti del mondo già conoscono il nome suo, le case, le opere, le sue Religiose; ecco che proprio in questo giorno che ci richiama e ci ricorda le grandi umiliazioni Della Croce, si mette in vista, con la proclamazione delle virtù eroiche, la possibilità chela Serva di Dio possa un altro giorno ripetere, e in modo più appropriato: Beatam me dicent omnes generationes ».

COME DOBBIAMO ESERCITARCI NELL’UMILTÀ.

Ricordiamo quanto dice S. Tommaso: L’umiltà consiste essenzialmente nel raffrenare la smania di tendere in modo disordinato a cose grandi e nel regolarci secondo la stima esatta, e non esagerata, di noi stessi. Ne consegue che per la pratica dell’umiltà sono necessarie tre cose:

1) Conoscere noi stessi, esattamente, e giungere alla reale convinzione che noi siamo niente e che possiamo fare niente. Di nostro v’è solo il peccato. Se il Signore ha largheggiato verso di noi, con doni di natura, questi accrescono la nostra responsabilità. Cerchiamo di seguire l’esempio del pubblicano e non quello del fariseo. Parleremo di noi stessi, solo quando sarà necessario, e taceremo quello che può tornare a nostra lode, lasciando a Dio la cura di tutto.

2) Acquistata l’esatta conoscenza di noi stessi, modereremo l’innato desiderio di tendere a cose grandi, di esibirci, di pretendere. E poiché – come disse S. Bernardo – l’umiliazione è la strada dell’umiltà, ci sforzeremo di accettare con gioia, o almeno con rassegnazione, i dispiaceri, le contrarietà, i biasimi, le correzioni esagerate e violente che al Signore piacesse di farci incontrare.

3) Il terzo mezzo per praticare l’umiltà è la preghiera, come quella del pubblicano: Signore, abbiate pietà di me, peccatore. – Dobbiamo, inoltre, essere umili sempre: – a) Verso Dio: riconoscendo di aver ricevuto tutto quello che abbiamo unicamente e direttamente da Lui solo, secondo la felice espressione dell’Apostolo: Che cos’hai che tu non l’abbia ricevuto? E se poi l’hai ricevuto, perché ti glori come se non l’avessi ricevuto? – b) Verso il prossimo: ammirando senza invidia e gelosia i doni di natura e di grazia nei nostri fratelli, e unendoci a loro per ringraziarne il Signore. – c) Verso noi stessi: con l’umiltà della mente che riconoscendo il mio nulla, me ne persuaderà facilmente e, perciò, mi renderà diffidente verso me stesso; con l’umiltà del cuore che m’indurrà ad amare la mia miseria, a fuggire gli onori e la gloria mondana, e a tenere un contegno esteriore sobrio, modesto e caro a Dio.

L’UMILTÀ, GIOIA, CONFORTO E UNIONE CON DIO.

L’umiltà è, come abbiamo detto, la verità. La verità è armonia e la tranquillità dell’ordine. L’armonia e la tranquillità portano la pace ch’è gioia e conforto dei nostri cuori. Tutto questo, sempre, quando noi cerchiamo di vivere umilmente, ma soprattutto in certi momenti della vita nei quali il Signore permette che ci sentiamo soli… L’isolamento che induce i superbi alla tristezza e, talora, alla disperazione, porta l’umile a cercare con maggior avidità, e con più grande intensità l’unico Amore, Gesù, per voler vivere sempre unito con lui!

Noi siamo pieni di miserie, ma abbiamo onore insigne d’essere le membra del Cristo: la qual cosa ci procura le attenzioni del Padre nostro celeste.

C. MARMION.

LA VITA INTERIORE (16)

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 7

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (7)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VI.

Della superbia

L’umiltà è il mistero delle virtù e la più difficile ad intendersi, perciò aggiungiamo questo capitolo sulla superbia, che potrà fornire qualche schiarimento e contribuire a far conoscere l’umiltà con maggior chiarezza.

I

Motivi per detestare la superbia.

La superbia è un mostro spaventoso che va sempre crescendo e non ha limiti nei suoi eccessi: il cuore del superbo non è soddisfatto affinché non diventi Dio. Nella sua stolta e sacrilega impresa procede per gradi e va di desiderio in desiderio (superbia eorum qui qui te oderunt ascendit semper, Ps, LXXIII, 23): il demonio, invece, d’un colpo si abbandonò al desiderio più eccessivo dell’orgoglio, esprimendo sfacciatamente la sua pretesa. Mi innalzerò e sarò simile all’Altissimo. Tale fu pure il pensiero che esso ,suggerì ad Adamo: Sarete come Dei (Isa. XIV, 14 – Gen, III, 5). In tal modo, Nabucodonosor e gli altri principi si fecero adorare come divinità. Così pure alla fine dei secoli l’Anticristo siederà sugli altari al posto di Gesù Cristo (Matth. XXIV, 15). Ed è questa nei cuori la pretesa di quest’orribile vizio: il principio della superbia è di apostatare da Dio (Initium superbiæ hominis apostatare a Deo. Eccli. X, 7), la sua pretesa è di mettersi al posto di Dio e diventare nientemeno che Dio. Perciò, il superbo è oggetto di esecrazione per Dio e per gli uomini (Eccli. X, 7). Tutto  l’essere di Dio gli resiste pienamente, per l’interesse naturale che per così dire, Dio ha di conservarsi, anzi, di distruggere ciò che lo vorrebbe annientare. In quella guisa poi che una famiglia tutta intera insorge con il servo traditore che vorrebbe distruggerne il padre che ne è il capo; così tutta la creatura si trova naturalmente compresa di esecrazione contro il disgraziato che, pieno di superbia, tende a detronizzare Domeneddio e distruggerlo. Per questo motivo nel castigo del peccato di superbia nei demoni, tutti gli Angeli di comune accordo si trovarono uniti con Dio per abbatterli e distruggerli. Non è dunque senza fondamento che la Scrittura dice che Dio resiste ai superbi (Jacob. IV, 6) ciò che non dice degli altri vizi; perché il superbo se la prende direttamente con Dio, e ne prende di mira la Persona medesima; perciò Dio resiste a tali insolenti e orribili pretese; e siccome vuole conservare il proprio Essere, Egli abbatte e distrugge tutto quanto insorge contro di esso. – Donde avviene che l’Ecclesiastico, dopo aver detto che l’inizio d’ogni peccato è la superbia, aggiunge: Chi a lei si abbandona sarà colmato di maledizioni, ed essa alla fine lo manderà in rovina. (Eccl., X, 15). Il Signore, quando non solo da sé stesso, ma anche per mezzo delle sue creature avrà colmato i superbi di maledizioni, finirà col distruggerli, non solo nella loro persona, ma pure in tutta la loro generazione. Distruggerà i loro beni e rovinerà le loro case sino alle fondamenta. Poi ancora, onde manifestare l’orrore che prova verso l’orgoglio, ne cancellerà persino la memoria, che è pur la traccia più leggera che l’uomo possa lasciare su la terra; come se qualcuno, dopo distrutta una statua di cui avanzasse qualche ombra, volesse giungere sino alla distruzione di quel po’ d’ombra. – Tale è la severità che Dio esercita contro il superbo, quando vuole distruggere la memoria (Memoriam superborum perdidit Deus. Eccli., X.). –

***

Da quel maledetto disegno del superbo proviene la sua perpetua infelicità in questa vita, in attesa del giudizio di Dio in morte e dopo morte. Infatti, la pretesa del superbo che, nella sua costante ostinazione, persiste nei suoi disegni, si trova sempre di fronte alla mano onnipotente di Dio che gli resiste e lo schiaccia, quindi quale può mai essere la vita di un essere così miserabile? Il superbo sempre si innalza e sempre Dio gli resiste. Il superbo è sempre in moto e in agitazione, e sempre sente il peso della destra di Dio che lo respinge e ne schiaccia l’orgoglio. Se qualcuno si innalza contro Dio, Dio è sopra di lui e lo schiaccia. In tali condizioni quale pace si potrebbe mai avere, quale gioia e quale riposo nello spirito? – Ma oltre che una tale ripulsa da parte di Dio è direttamente opposta alla pretensione del superbo, la sua pena è tanto più grave e universale che questo vizio innalza universalmente tutti i desideri dell’uomo. L’orgoglio, infatti, spinge alla grandezza in tutto ciò che è nell’uomo; e poiché la pretesa del superbo, in sostanza, è di farsi Dio, in cui tutto è infinitamente grande e perfetto, ne avviene che vuol essere lui pure grande in tutto. Il superbo vuol essere grande nelle ricchezze, nei possedimenti, nei mobili, nelle dignità, nelle cariche, negli onori; primeggiare nella bellezza, nella forza, nella scienza; grandeggiare insomma in ogni cosa. Ma siccome non può aver tutto, quanto più estesi sono i suoi desideri, tanto più trova occasioni e motivi di inquietudini e di pena. La privazione lo ammazza, il bene che vede negli altri lo opprime; il superbo, insomma, presenta lo spettacolo più funesto e più penoso che vi sia. Per altro, quale follia e quale accecamento di sentirsi e vedersi così povero, vile e miserabile, eppure volersi considerare come capace di essere tutto e di possedere ogni cosa! Il desiderio del superbo lo innalza e la sua impotenza lo abbatte e lo avvilisce. Tale è la contraddizione che il superbo prova in sé medesimo.

II

Natura della superbia.

Differenza tra desiderio e appetito. — Stato felice dell’uomo prima del peccato. — La superbia è un desiderio eccessivo della propria eccellenza. — Illusioni in proposito. — Come riconoscerle.

La superbia è un desiderio eccessivo della propria eccellenza. Dapprima, notiamo che essa è un desiderio; non è un appetito, ossia una semplice inclinazione. L’appetito è un movimento naturale e necessario, che trovasi in noi senza di noi, e anche contro il nostro desiderio. Ma il desiderio è un movimento libero, una inclinazione che noi liberamente approviamo col nostro consenso; il desiderio è in noi, ed è conforme alla nostra volontà che ne è la madre e la padrona. L’appetito eccesivo di grandezza trovasi in noi in conseguenza del peccato originale, per il principio di quella generazione maligna che ha riempito la nostra carne della sua abominevole corruzione dimodoché la nostra carne ha infettato il nostro spirito, a tal segno che il complesso dell’uomo, rivestito e riempito di questa infezione e di questo seme maledetto, ci rende in sostanza simili al demonio (Joan. XIII, 14). Perciò, agli occhi di Dio, noi siamo orribili, abbominevoli, esecrabili.

***

Dio, formando l’uomo a sua immagine e animandolo dalla sua vita divina, aveva impresso in lui la somiglianza delle sue perfezioni; l’uomo teneva il posto di Dio sulla terra, ed ogni creatura doveva rendergli, come alla persona di Dio, onore, omaggio e rispetto. L’uomo allora era grande e perfetto, essendo intimamente unito e aderente a Dio che si rendeva sensibile in lui; riceveva pure tutti gli onori ed omaggi che si rendono alla divinità, ma unicamente per Dio e in Dio, senza nulla appropriare a se stesso. Stabilito nell’essere e nella vita di Dio, l’uomo contemplava, in Dio e come Dio stesso, la divinità di cui era ripieno; rapito dalla bellezza e dalle perfezioni di Dio, era tutto infiammato del divino amore e, inoltre, trasformato in Dio e tutto deificato. Nella luce ammirabile che rischiarava la sua mente, egli vedeva e contemplava Dio in tutte le creature, ad imitazione della vista che Dio ha di se stesso in tutte le sue opere, secondo queste parole di Mosè: Dio vide tutte le cose che aveva fatte e trovò che erano molto buone (Gen. III, 31). Insomma, in un tale stato ammirabile e divino, nell’aderenza ed intima unione a Dio, l’uomo era un’opera eccellente e perfetta. Allora egli non si appropriava nulla; nulla lo allontanava da Dio; godeva di ogni cosa in Dio; non vedeva sé stesso in nulla, ma non vedeva in sé medesimo che Dio, Dio eccellente, perfetto e degno di ogni onore e di ogni lode. – Così S. Paolo, parlando dei Cristiani, dice che devono giungere sino a tale semplicità da essere una cosa sola con Gesù Cristo, nel quale sta tutta la loro gloria: Qui gloriatur in Domino glorietur. (II Cor. IX, 17).  Dal difetto di tale semplicità e unità nasce in noi l’amor proprio, la ricerca della nostra propria eccellenza. In questo modo, Angeli e uomini si sono perduti, distaccandosi da Dio per attaccarsi a sé medesimi; ricercando la propria eccellenza sono diventati superbi. Donde avviene, come dice la Scrittura, che « il principio della superbia è di apostatare da Dio », staccarsi da Dio per ricercare il proprio interesse. Il demonio tentò di separar uomo da Dio dicendogli: Sarete come dei; esso fece sì che l’uomo distogliesse il suo sguardo da Dio per portarlo sopra sé stesso; quindi gli suggerì e gli insinuò il desiderio di essere Dio e di comparire tale agli occhi di tutta la creazione, per riceverne gli omaggi al posto di Dio, usurpando per sé medesimo tutte le lodi che si rendevano alla divinità.

***

Nell’uomo adunque vi sono due cose: un appetito sregolato, e un desiderio eccessivo di grandezza e di eccellenza propria. L’appetito non è il peccato di superbia, benché sia un avanzo del peccato ed un effetto del demonio che ha corrotto la nostra natura e depravato in noi gli istinti di Dio. Ma il desiderio, l’aderenza, la volontà formata ed attuale di assecondare questo appetito, questo è il peccato di superbia. L’appetito è un movimento cieco della natura corrotta: il desiderio invece è un movimento ragionato e accompagnato dal lume e dall’avvertenza della ragione. Orbene, il male che si fa con avvertenza e con libero consenso è peccato. Se questo desiderio è ardente e per una cosa eccessiva, è peccato grave.

***

In secondo luogo, la superbia è un desiderio della propria eccellenza; vi è una eccellenza e una perfezione che sono lodevoli e che Dio medesimo riconosce: Siate perfetti — ha detto Gesù Cristo — come il Padre celeste è perfetto; e ve n’è un’altra che è viziosa: l’eccellenza in sé stessa e per amor proprio. È buono il desiderio dell’eccellenza quando sia regolato secondo un fine buono; è male quando è ordinato ad un fine cattivo; ma riguardo al fine sovente si è vittima di illusione, per non ingannarci bisogna esaminare gli effetti. Dio ha stabilito che la sua creatura diventi perfetta e ricerchi l’eccellenza, ma unicamente per l’amore di Lui e del prossimo. Vuole che siamo perfetti per amore di Lui, e che facciamo opere buone ed eccellenti affinché Egli ne sia onorato e glorificato. – « Si veggano, — dice Nostro Signore, — le vostre opere buone, affinché Dio. — che è nascosto in cielo e sconosciuto al mondo, — sta veduto e conosciuto sulla terra per mezzo della perfezione e delle opere che compirà in voi. Orbene, per vedere se operiamo per Dio, bisogna osservare se dalle nostre opere buone non vogliamo ricavare stima e lode per noi medesimi, se non ce ne gloriamo punto, se non abbiamo piacere di riceverne stima e onore, se ci prendiamo cura di riferire tutto a Dio col desiderio che Egli solo sia stimato e glorificato in sé stesso e da sé medesimo. Dio vuole pure che vi siano persone buone e perfette, per il bene del prossimo ed il sollievo delle sue miserie. Orbene, per conoscere se assecondiamo questo disegno di Dio, dobbiamo esaminare se dedicandoci al sollievo del prossimo abbiamo per fine il suo bene, ovvero se operiamo per nostro interesse, se guardiamo la nostra persona e ricerchiamo noi medesimi; se ci occupiamo di noi per attirarci la stima e ne proviamo compiacenza; osservare insomma, se ricerchiamo qualche utile per noi medesimi. Così degli altri uffici; molti infatti, o non pensano che a gloriarsi e innalzarsi sopra gli altri e ad attirarsi lodi e onori; o non cercano che lucro e guadagno, questi fini ben s’intende, non sono nelle intenzioni e nei disegni di Dio. – Il superbo ricerca l’eccellenza, non già precisamente per il pregio della bontà, né per unirsi a Dio che è il Padre di ogni eccellenza e l’oceano di ogni perfezione; ma la ricerca per sé medesimo e per il proprio vanto. Così, per quel maledetto amor proprio, si cambia l’ordine elle cose; infatti, secondo l’ordine, ciò che è minore ed imperfetto deve essere riferito a ciò che è eccellente, e non già ciò che è eccellente a ciò che è meno perfetto. – L’Essere di Dio non può entrare in nessun composto di nessun genere; persino in Gesù Cristo, rimangono distanti de due nature divina ed umana. Essendo infinitamente perfetto, l’Essere di Dio, non può riferirsi a cosa alcuna come ad un fine, mentre tutte le cose esistono per Lui: eppure il superbo riferisce Dio a sé stesso. Tale è l’effetto del peccato, di sconvolgere l’ordine e la natura delle cose; ma in particolare tale è l’effetto della superbia, dell’amor proprio, di attirare tutto a sé e di appropriarsi tutto; mentre l’ordine della carità vuole che noi usciamo di noi stessi e ci portiamo nell’Essere perfetto, onde unirci a Lui ed essere perfettamente consumati in Lui. È questa l’ammirabile abnegazione di sé medesimo praticata da chi è animato dalla pura virtù di Dio, il quale santifica la sua creatura e viene in essa onde portarla al suo fine. La creatura si unisce così all’Essere sovrano e perfetto, e dimentica tutto quanto vi è nel proprio essere tanto imperfetto; così si rivolge a Dio che è la sua fonte e dove sta la sua perfezione; e in Dio essa riceverà un essere più eccellente di quello che possiede. Dio, infatti, l’aspetta per consumarla in sé medesimo, rendendola partecipe dell’Essere eminente della sua divinità. L’amor proprio invece cerca di abbassare Dio sino a sé medesimo e farlo servire alla propria superbia. Infatti, per uno spaventoso accecamento, chi segue l’amor proprio considera Dio in sé stesso e nelle sue perfezioni come cosa sua propria, si gloria di tutto ciò che possiede e che è pur partecipazione di Dio, come se fosse cosa sua e provenisse da sé medesimo: così non vede punto la causa che diffonde in lui con immensa carità, quel bene e quelle grazie. Ecco il furto, l’ingratitudine, l’insolenza della superbia. Ché se l’anima infetta dalla superbia non arriva all’eccesso di considerare Dio in sé stesso come cosa sua o di ritenersi indipendente da Dio nei suoi desideri, essa almeno nutre la persuasione che ]’eccellenza dei suoi doni proviene dai propri meriti e dal proprio lavoro; ed è questa un’altra specie di superbia che si chiama arroganza, per la quale l’anima attribuisce a sé medesima e ai suoi meriti ciò che non ha ricevuto che per grazia e misericordia di Dio, mentre Dio è in noi la nostra luce, la nostra buona disposizione, la nostra vita, la nostra virtù e il nostro tutto; senza di Lui non siamo capaci né di pensare, né di volere, né di fare nessun bene in nessun modo.

II.

Dei gradi della superbia.

Il superbo cerca di essere onorato, — anche con le umiliazioni. — Fa su la terra quanto ha fatto il demonio in cielo. Quella falsa e maledetta persuasione di cui abbiamo detto, è il fondamento di tutto l’eccesso della superbia. Quell’accecamento della mente è il principio degli iniqui desideri della volontà. Tantoché in conseguenza di tali funeste illusioni e di tali maledetti errori, l’uomo, confusamente e senza riflessione né esame, crede di essere qualcosa di grande: è questo un vero inganno, perché se si esaminassero un po’ le cose con l’occhio della fede, sì riconoscerebbe facilmente la propria illusione; in conseguenza dunque di quella funesta persuasione di essere da sé qualche cosa di grande, e di aver molto valore per proprio merito, si pretende aver diritto a ricevere da tutti onore, rispetto e lodi; questo si ricerca, sia apertamente, sia di nascosto, con ogni mezzo possibile, fino al punto di umiliarsi e disprezzare sé stesso per essere onorato. Il superbo poi se non riceve quell’onore e quella lode che aspetta e vuole, ne resta offeso e rattristato, disprezza quelli che non lo lodano, quasiché non conoscano il suo merito; si innalza sopra di essi per il disprezzo che ne fa e giunge persino alle ingiurie e alle dispute. Ché se non ottiene l’onore e le lodi, egli però crede di meritarle con tutta evidenza; se qualcun lo loda e lo approva, quegli diventa per lui oggetto di benevolenza e di amore e persino di ammirazione, Oh follìa! Come se gli uomini siano capaci di onorarci! La loro stima, quale vantaggio ci procura? Il loro disprezzo che cosa ci toglie? Queste sono cose per noi assolutamente esteriori e debbono esserci indifferenti. Quali giudici possono mai essere gli uomini? Essi sono o ciechi o maligni. Se sono ciechi, non sono capaci di giudicarci; perciò la Scrittura dice: « Gli uomini non vedono che l’esterno, Dio solo vede l’intimo del cuore » (I Reg. XVI, 7); se sono maligni, faranno l’elemosina di un po’ di adulazione mentre nel loro cuore si burleranno di noi. Gli uomini sono maligni e superbi, quindi l’onore lo vogliono per sé medesimi; state certi che se ve ne rendono, è soltanto con malizia, come dice la Scrittura: « L’uomo cattivo si umilia e si abbassa davanti a voi », per costringervi ad amarlo ed onorarlo, per comperare le vostre lodi col tributarvi le sue, e per ricevere onore più che non ve ne renda. Il superbo si innalza sempre e fugge il disprezzo; se si abbassa non è che per evitare di essere respinto e confuso, e per meritarsi accoglienza e lode. – L’anima, in conseguenza di questa stima, di questa lode e adorazione che desidera, si procura, o riceve, si fissa e si eleva in sé stessa, come su di un trono, al disopra di tutti. Vede sé stessa come una persona singolare (Singulariter sum ego. Ps. CXL, 10.); internamente considera sé stessa come unica nel proprio valore, quindi arriva a credere di essere unica come Dio. Si immagina di essere sapiente più di tutti o di posseder qualche capacità speciale ed unica. – Da qui nascono i disastri e i maledetti effetti della superbia; perché prima essa era ancora timida, non aveva ancora che il proposito e il desiderio di stabilirsi nell’anima, non ne aveva ancora preso possesso, né vi aveva fissato il suo trono e la sua sede; ma appena si sia introdotta nell’anima e vi si sia fortificata, essa incomincia subito a causarvi mali orribili.

***

Tale fu l’opera del demonio in mezzo agli Angeli, nel Cielo, dove fece tre mali spaventevoli; ed è pure il danno che uomini superbi portano nella società umana. In primo luogo, lo spirito che si è stabilito nella cieca persuasione del suo valore singolare, siede in sé medesimo, come il demonio, sul trono di Dio; disprezza Dio e lo bestemmia in sé stesso. Perciò il superbo nella Scrittura viene chiamato Bestemmia (Super capita ejus nomina blasphemiæ. Apoc., XIII, 1). Nell’Apocalisse, il demonio porta sulla fronte questa parola. Nel suo disprezzo di Dio il superbo fa ogni sforzo per innalzarsi e mettersi al posto di Lui. In tal modo si comporta pure l’inferiore arrogante e superbo, quando abbia lasciato penetrare nel proprio spirito la falsa stima di sé medesimo e la persuasione intima e cieca del proprio valore. Benché si nasconda spesso sotto il manto dell’umiltà, perché è questa una virtù molto apprezzata e necessaria per godere un po’ di stima, non di meno egli si fissa nella persuasione che debba essere onorato. Dimodoché se gli accade di essere disprezzato, respinto o condannato, si agita, sì rivolta, condanna, mormora, disprezza, spodesta nel suo spirito ogni potestà superiore, si mette al disopra di tutti, cerca qualcuno che lo ami e lo stimi, si procura amici e soci che con lui si accompagnano e insieme si innalzano in una comune cospirazione. – Un’anima in cui sia così radicata la stima di sé stessa e la convinzione del proprio valore per la considerazione delle sue virtù esteriori, si costituisce al disopra di tutti: essa giudica di tutto e decide di ogni cosa, ma sempre in proprio favore e a condanna degli altri. Segretamente, essa cerca sempre di regnare su tutti gli uomini, o almeno su di una parte di essi, nulla tralasciando per giungere al compimento dei suoi desideri. – Il secondo male che fece il demonio in Cielo fu di distogliere i suoi fratelli dalla sottomissione a Dio, di formare un bando a parte e così dividere, con la sua rivolta, il regno di Dio, rovinare la comunità celeste e distruggere quell’opera che Dio aveva formato con tanta compiacenza. Così, sia per dispetto contro Dio che sta sempre nel suo posto e sul suo trono divino, sia per la smania di essere onorato ed avere devoti adulatori e adoratori, egli sconvolgeva la società e gli ordinamenti del Cielo. – L’uomo superbo causa il medesimo danno nelle comunità. Egli, sia come nemico della superiorità altrui che lo umilia e condanna il suo modo di comportarsi, sia per amore di adulazione e di lode, ovvero per desiderio di appoggio, di conforto e di consolazione nei suoi disinganni e nelle sue desolazioni, non tralascia mai di suscitare scismi e divisioni; animato da un odio segreto, esso vorrebbe distruggere, se potesse, la bontà dei suoi fratelli, benché ne dovesse egli stesso venire in esecrazione al cospetto di Dio. –  Il terzo male di cui si rese colpevole il demonio, fu di disprezzare e sconvolgere la legge di Dio in Cielo e sulla terra. Perché dopo aver distrutto nei suoi fratelli la religione e l’unione che sono le due leggi capitali del Cielo, egli discese su la terra e nel Paradiso terrestre, per sconvolgervi di nuovo con la sua maledetta suggestione, tutta la legge di Dio. Dio aveva detto all’uomo che se mangiava del frutto proibito ne morrebbe; il demonio invece gli disse che se ne mangiasse, non morrebbe punto, ma sarebbe uguale a Dio (Gen. II, 17; II, 4-5). Così fanno i superbi in tutta la società; se la prendono infine con la legge e tentano di sconvolgerla e di distruggerla.