VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 16

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (16)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch. Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO XI

I.

Della povertà

La povertà non soltanto separa l’uomo dalle cose esterne del mondo; essa ha un altro effetto e un fine più importante; che tende a ristabilire tutto l’uomo interiore nel suo stato primitivo. Questa separazione dalle cose esteriori, nei Cristiani, non è che l’imitazione di Gesù Cristo. Nostro Signore, infatti, ha voluto praticarla per il primo, affinché la santa ed eroica virtù della povertà, fosse più facile per gli uomini, i quali talmente la paventano che anche in mezzo ai beni e alle ricchezze hanno ancora paura di essere poveri. La virtù della povertà ha inoltre lo scopo di castigare negli uomini l’abuso di ogni cosa che hanno fatto, tanto in Adamo quanto in sé stessi; in soddisfazione di un tale abuso, Dio ha voluto privarli di quei beni di cui hanno abusato e portarne Lui medesimo la penitenza per darne l’esempio alla sua Chiesa.

I.

Natura della povertà.

Ristabilisce l’uomo nel suo primitivo stato di santità. – L’avarizia profanazione del cuore dell’uomo. Gesù Cristo e l’avarizia.

Per intendere la natura della povertà, bisogna ricordare il fine ed il disegno che ebbe Gesù Cristo nella riparazione del genere umano, disegno che fu di offrire a Dio suo Padre una conveniente soddisfazione e in questo modo ristabilire l’uomo nel suo stato primitivo, nella perfezione, cioè, della santità in cui era stato creato. Perciò bisogna riflettere che Dio aveva creato l’uomo perché fosse il suo tempio, tempio che riservava per sé medesimo per esservi, in modo esclusivo, amato, lodato e adorato. Epperò nel primo comandamento, che è l’espressione dello stato primitivo dell’uomo e del primo disegno divino sopra di lui, Dio, nel momento stesso in cui lo creava, gli imprimeva nel cuore quella medesima legge che doveva poi essere scolpita su la pietra, onde obbligarlo ad impiegare nell’amarlo tutta l’attività della sua anima, del suo cuore, delle sue forze; quindi, in quel primo comandamento, Dio gli diceva: Amerai il Dio tuo con tutto il tuo cuore, ecc. (Deuter. VI, 5). Per questo ancora il cuore dell’uomo venne creato vuoto di qualsiasi oggetto,  come una pura capacità di Dio e dell’amore di Dio. – Ma il demonio lavorò per riempire il cuore dell’uomo di idoli, di simulacri e affinché l’uomo occupasse i suoi pensieri e i suoi desiderii nell’amore di queste miserie, lasciasse così il culto del vero Dio e si abbandonasse all’idolatria. – L’avarizia, dice S. Paolo, e l’amore delle cose terrene si sono stabilite nel cuore dell’uomo (Ephes. V, 5); si può dire che è questa l’abbominazione della desolazione nel luogo santo (Matth. XXIV, 15). Il cuor dell’uomo è il tempio di Dio, luogo santo che Dio in modo particolarissimo ha consacrato a sé stesso: qual disordine orribile, quale desolazione ributtante vederlo profanato da tante cose impure e immonde! Quale desolazione vedere, in questo tempio, abominevoli nicchie, come quelle vedute da Ezechiele (Ezech. VIII) piene di serpenti, di coccodrilli, e di cose esecrabili! È cosa questa così abominevole agli occhi di Dio che Egli altre volte abbandonò il suo popolo al furore dei suoi nemici, per castigo dell’avarizia di un solo israelita, il quale aveva preso e trattenuto un mantello di scarlatto e un oggetto d’oro, dalle spoglie di Gerico, città colpita di anatema e da un decreto divino condannata al fuoco.

***

Il disegno di Gesù Cristo, mentre viene nel nostro cuore per santificarlo e ristabilirvi il vuoto e la purezza del primitivo stato, è di bandire da questo suo tempio tutto quanto lo profana. Non può vedervi altro che il Padre suo con le sue divine perfezioni e quindi, a colpi di flagello con le persecuzioni e le croci, ne scaccia tutti i compratori e venditori. – Nostro Signore si accese di zelo e come di furore, quando trovò piena di mercanti la casa del Padre suo, casa di orazione che deve essere ornata di santità (Ps. XCII, 5). Orbene, i mercanti sono il simbolo degli avari, perché nel traffico e nel commercio delle cose terrene espongono persino la loro vita, dedicandovi tutto il loro tempo e le loro cure, invece di impiegar tutto per il Signore che vuole per sé tutta la mente, tutto il cuore, tutto il tempo, e tutte le forze delle sue meschine creature. – È questo il fine per il quale Gesù Cristo è venuto in questo mondo; ha voluto purificare il cuore dell’uomo, farvi il vuoto di ogni creatura, e riparare così la disgrazia e il disordine in cui era caduto per la miseria del peccato e l’opera malvagia del demonio. Perciò Egli ha posto come fondamento capitale della nostra salvezza, la santa povertà, la quale di sua natura tende a espellere dal cuore umano tutto quanto può riempirlo all’infuori di Dio. Per questo appunto, Gesù Cristo, nel suo primo sermone, proclamava come la sua prima massima questa sentenza: Beati i poveri, Beati pauperes (Luc. VI, 20); ciò per insegnarci che la virtù di povertà per noi è la prima, la più importante e la più necessaria. Per farci sapere poi quale sia questa povertà, aggiungeva: Beati i poveri di spirito (Matth. VI), vale a dire quelli che hanno il fondo dell’anima vuoto e libero da ogni possesso di creature, che non hanno nulla che tenga il posto di Dio in quel cuore che Egli solo vuole riempire ed occupare. – Fuori di Dio, tutto è vano e inganno, tutto è fantasia, scorza e superficie. Dio solo è il bene vero e reale, Lui solo è tutta la vita essenziale e incorruttibile delle anime nostre.

II.

Divisioni della povertà.

La povertà è di due sorta, interiore l’una esterna l’altra. La prima consiste nel distacco

del cuore che deve essere vuoto di ogni desiderio terreno e di ogni amore alle creature; la seconda consiste nella privazione esterna ed effettiva dei beni terreni. La privazione esterna senza il distacco interiore non è punto virtù, mentre il distacco interiore, con la disposizione di sopportare la privazione esterna, è la virtù di povertà di cui Nostro Signore ha detto: « Beati i poveri di spirito ». Gesù Cristo, con queste parole, ha voluto insegnarci che dobbiamo vivere nella povertà di spirito, ossia, nel distacco interiore e nella privazione affettiva, per esser disposti al puro amore di Dio, perché Egli non può venire a patti con l’amore alle creature, né può soffrire che si abbia il minimo attacco alle creature; Egli vuole che il cuore sia vuoto, distaccato da tutto, e vuoto secondo tutta l’ampiezza della propria capacità.

III.

Della povertà esterna.

Povertà evangelica. – Povertà praticata dai primi Cristiani. – Privazioni dell’uso dei propri beni.

Vi sono tre sorta di povertà, di cui le prime due furono molto in uso nella primitiva Chiesa. La prima consisteva nel privarsi di tutto il proprio avere e di venderlo, secondo il consiglio che ne diede Nostro Signore a quel giovane: Vade, vende quæ habes et da pauperibus – Va, vendi ciò che possiedi e dà tutto ai poveri (Matth. XIX, 21). Gesù Cristo si compiacque ancora di rinnovare una tale povertà in questi ultimi secoli, come in San Francesco e in parecchi altri santi che così la praticarono. – La seconda povertà era di mettere il proprio avere in comune; era questa la pratica ordinaria dei primi Cristiani; ognuno si privava di ciò che possedeva e lo donava a Dio, affinché ciascuno ne potesse prendere a seconda dei propri bisogni; così tutto era uguale per tutti, e il povero ne riceveva il necessario sostentamento tanto come il ricco. – La terza povertà consiste nello spogliarsi dell’uso dei beni che Dio ci ha dati benché la proprietà se ne conservi ancora:  questa povertà può praticarsi con grande vantaggio. Perché, dapprima in tal mode si rimane nello stato in cui la divina Provvidenza ci ha posti; inoltre, si fa buon uso di ciò che si è ricevuto dalla sua liberalità, servendosene per la sua gloria; in fine, si gode il vantaggio della povertà che è di non aver nulla che ci impedisca di dedicarci a Dio solo. Di questa povertà e di tali poveri sta scritto: Beati i poveri di spirito, perché ad essi appartiene il Regno dei cieli (Matth. V, 3).

IV.

Della povertà interiore – Distacco anche dai doni spirituali.

Distacco universale da ogni bene e dono di Dio. — 1. Stare davanti a Dio come mendicanti. – 2. Non appropriarci i doni e le grazie di Dio; sarebbe ingiustizia. — 3. Lasciare a Dio piena disposizione dei beni di cui ci affida il deposito.

La povertà interiore non si estende solo al distacco dei beni corporali, dai quali lo spirito deve essere interamente diviso e tutto distaccato; non consiste. Solamente nella nudità, ossia privazione affettiva di tutti gli onori, di tutte le ricchezze, e di tutti i beni mondani; consiste anche nella nudità spirituale, ossia nel distacco dai doni di Dio; benché Dio ce li conceda, noi dobbiamo esserne distaccati. Per avere la virtù della povertà, dobbiamo sempre considerare, non solo i beni materiali, ma anche i beni spirituali, come proprietà di Dio. Debbiamo considerare i beni spirituali come appartenenti a Dio e da Lui inseparabili, in quella guisa che i raggi sono inseparabili dal Sole; oppure come perle e diamanti che sarebbero applicati sopra un abito. Il padrone ha attaccato queste perle preziose al suo abito all’unico scopo di renderlo più splendido e più prezioso; esso quindi ha sempre la facoltà di toglierle quando gli piace. Con tal pensiero, l’anima deve stare perfettamente distaccata da tutto, vivendo in mezzo anche ai doni spirituali, per così dire, senza toccarvi e senza che il cuore vi prenda parte.

***

La povertà di spirito ha tre gradi: il primo è di considerarci davanti a Dio come mendicanti riguardo a tutti i suoi doni, non avendo da noi stessi assolutamente nulla e nessuna grazia; così dobbiamo vivere in spirito di mendicanti onde esser rivestiti dei suoi beni. – Il secondo grado è di non appropriarci i doni e le grazie di Dio quando li possediamo, come se fossero cosa nostra o come cosa che fosse passata nella nostra natura. Bisogna considerarli come un abito; uno che porta un abito sa benissimo che il suo corpo, in se stesso è nudo e sprovvisto di ciò che sarebbe necessario per riparlo dagli incomodi delle stagioni; perciò esso trovasi continuamente costretto per difendersi a vestirsi e a dipendere dalle cose esterne. L’anima veramente povera, benché sia rivestita ed arricchita dei doni di Dio, si considera sempre davanti a Lui in una perfetta e assoluta indigenza, come un corpo senza vesti. Perché essendo ben radicata nella conoscenza di sé stessa, vede che sempre si trova nella più assoluta indigenza, benché possieda Dio e ne sia rivestita. In tal modo non prova nessuna compiacenza per tutto ciò che in sé medesima può essere, per tutto ciò che può avere, perché essendo sempre la medesima nell’intimo di se stessa, essa in mezzo ai doni che possiede non ha maggior stima di sé che prima d’esserne ricolmata. – L’anima deve sempre considerare i doni di Dio come cosa che emana da Dio e a Lui appartiene come sua proprietà; sono raggi che Egli fa splendere sopra di noi per impedire ai nostri cechi di vedere la nostra viltà e così renderci più sopportabile la nostra miseria. – Dio trova in noi la sua gloria, traendola da ciò che gli appartiene; Lui solo merita stima per ciò che vi è di buono negli uomini; Lui solo deve prendervi le sue compiacenze. Chi, nell’intimo del suo cuore, ha stima di se stesso per quei doni che non sono suoi e di cui la lode deve riferirsi a Dio solo, è un ladro che tenta di attirare e prendere per sé quella gloria che è dovuta unicamente a Dic. E sarebbe questa una grande ingiustizia, poiché a Dio appartengono le lodi che i suoi doni, da sé medesimi, tributano alla sua divina maestà.

***

Il terzo grado di povertà spirituale è di portare in noi i doni di Dio e custodire i suoi tesori negli scrigni del nostro cuore, senza aver l’ardimento di toccarvi; guardarci quindi dal farne uso da noi medesimi, e lasciare che Dio stesso ci ponga nelle mani il suo avere e nei suoi scrigni prenda ciò che vuole per l’impiego che desidera, affinché Egli solo sia l’autore e il direttore della distribuzione delle sue grazie. Non solamente dobbiamo guardarci dall’usare dei doni di Dio per i nostri meschini interessi temporali oppure per acquistarci onore e stima, ciò che sarebbe un infame sacrilegio; ma dobbiamo persino guardarci dal toccare a questi doni. Dio li ha posti in deposito nella nostra anima: dobbiamo lasciare a Lui la cura di prendere la nostra mano e guidarla a pigliare ciò che a Lui piace, onde farne a nome suo la distribuzione. – L’anima umile, segreta e fedele, alla quale Nostro Signore ha affidato le sue ricchezze, è un tesoro suggellato con sette sigilli che solo l’Agnello può aprire. A Lui solo spetta frugare negli scrigni dove ha rinchiusi i suoi tesori; a Lui solo spetta aprirli e, con lo splendore dei suoi raggi e la ricchezza della sua divina luce, cioè per la virtù della sua grazia, applicar l’anima all’uso che essa ne deve fare. I Re della terra si scaricano della gestione delle loro finanze sopra i tesorieri che le custodiscono, lasciando ad essi di maneggiare i loro tesori per distribuirli come vogliono. Gesù Cristo non fa in questo modo; Egli invece si tiene nelle sue proprie mani le chiavi dei suoi scrigni, per aprirli quando e come gli piace. Economo universale, dispensore generale, Egli è tutto in tutti e non ha bisogno di nessuno che supplisca né alla sua presenza, né alla sua potenza, perché Egli è dappertutto, può tutto, vede tutto e dispone sempre in noi dei suoi beni secondo la sua sapienza e il suo amore. – Egli vuole dunque che l’anima cui Egli affida i suoi tesori, si tenga nel riserbo; lungi dal forzare le serrature quando gli scrigni sono chiusi, non tocchi nulla, vale a dire, si guardi bene dall’andare a cercare, con sforzi di memoria e con violenza, nel proprio fondo qualche cosa che Dio vi avesse posto e come chiuso sotto chiave. Ma, quando pure Dio lasciasse i suoi scrigni aperti, vale a dire, quando ricevessimo da Dio ogni lume e ogni verità, non spetta a noi mettervi la mano e prenderne ciò che ci piace. I doni e i tesori di Dio vanno sempre considerati con gran rispetto, perché a Lui appartengono ed Egli li ha depositati in noi per un effetto della sua infinita misericordia. In noi non v’era nulla che potesse darci motivo di sperare tanta grazia, perché il nostro fondo, nella sua impurità, era indegno dei divini favori. Tuttavia, Dio per una grazia ed un amore infinito, ha scelto un luogo così basso per farne il deposito; e come lo ha fatto unicamente perché così gli è piaciuto, a Lui pure e solo a Lui spetta di usarne in noi come gli piace. – Dio fa nell’anima nostra come il padrone che nel suo campo vuole innalzare una fabbrica. Come fa quel padrone? Vi fa portare a suo piacimento pietre e materiali, secondo il disegno che ha in mente; in un luogo, ne fa depositare più che in un altro, a seconda dell’ampiezza dell’edifici che vuole costruirvi; di tutto fa l’uso che conviene al disegno che più gli piace. Esso utilizza i materiali. assume operai e manovali per fabbricare secondo il disegno che essi sovente non conoscono, senza dir loro quanto intende fare; a poco a poco esso forma una fabbrica, la costruisce e la compie, conforme all’idea che ha nella sua mente e secondo la direzione che esercita sopra i suoi operai. Così fa il Signore nei suoi doni; sono come materiali che Egli depone in noi, come in un campo cieco che non sa punto quale sia la fabbrica che il grande architetto e capomastro vuole innalzare, A noi spetta unicamente cogliere i suoi doni e i suoi favori: a Lui di metterli in opera e di usare a suo piacimento delle nostre facoltà; e queste devono cooperare fedelmente alla sua grazia onde costruire, mediante la sua virtù. quella fabbrica che Egli ha determinata nei suoi adorabili disegni che a noi rimangono nascosti.

LO SCUDO DELLA FEDE (201)

LO SCUDO DELLA FEDE (201)

DIO GI LIBERI CHE SAPIENTI!.

CI VORREBBERO FAR PERDERE LA TESTA! (4)

PER Monsig. BELASIO

TORINO, 1878

TIPOGRAFIA E LIBRERIA SALESIANA

San Pier d’Arena – Nizza Marittima.

§ II.

Il secondo errore eguale al primo é il negare la creazione, sognando invece le trasformazioni.

(DARVINISMO).

Spez. Io la ringrazio, signor parroco. Oh! se venissero un po’ a ragionar con lei così alla buona quei tali, intenderebbero che gli increduli li ingannano: per poi tradirli all’uopo orrendamente. Ma che vuole? par che il diavolo li aizzi come cani ad abbaiare una e poi un’altra bestialità, là a casaccio… Veda di fatto, che mentre si vantano essi di non credere più niente, si sbracciano a far credere a noi (e solo perché lo dicono essi) che tutte le creature che vediamo vennero fuori dalla terra, senza che vi sia entrato Dio a formarle!

Par. È proprio così! chi non vuole più credere in Dio, è come un navigante che ha perduta la bussola in mar torbido e fortunoso, va trabalzato dall’uno scoglio all’altro, finché si sprofonda a naufragare. Voi ricordate lor di tener l’occhio alla bussola; che è la fede in Dio, se non vogliono, pazzamente perdere fino il buon senso. Tutti che credono al Creatore, col solo buon senso vedendo come le piante son prodotte da altre simili piante, e come gli animali son generati da animali parimenti della specie istessa, guardano le diverse specie delle piante e degli animali, come tante catene in cui gli anelli discendono l’un giù dagli altri. Come tengono poi per certo, senza neppur pensarvi sopra, che i primi anelli sono fissi alla volta da cui discendono; così sono pure. Certi che la prima pianta e il primo animale scendon giù dalla mano di Dio che li sostiene a continuare la loro discendenza. Udite come l’ebbe «dimostrato una buona donnicciola colla massima. semplicità. – Si racconta che Voltaire vedendo una donna che accarezzava una gallina, si sentiva in vena di scherzare: e « buona donna; le disse, vi è ben cara questa gallina? » — Ed essa: Eh signore, mi dà lei un ovo tutti li dì? — Ed il filosofo: « Ma quella gallina, com’è che voi l’avete avuta? » — E quella: « Mi è nata in casa da un ovo. » — « E quest’ovo da chi mai? » — « Da un’altra gallina. » — « Ma e la gallina prima?… — Allora quella: « Eh, signore, lo sanno fino i bambini che vanno al catechismo, che Dio creò il cielo e la terra e tutte le cose che sono in essi. » Voltaire restò lì sopra pensiero un istante!.. Poi: « Oh la brava, perché tu credi al catechismo, parli meglio di tutti questi che pretendono di saper tutto e non sanno spiegare niente !… » Tacque qui; ma il signor di Voltaire poteva dire ancora che quella buona massaia mostrava di aver più buon senso di quel tale così dotto astronomo (lo van dicendo di Arago), il quale sopra morte interrogato, se avesse nelle vita sua adorato ben Iddio? rispose: « Non ho avuto tempo di pensarvi! » Almeno la brava donnicciola teneva d’acconto la gallina, perchè le piaceva l’ovo da lei fatto; e quel dotto senza cuore ammirava le stelle, e si dimenticava di Dio che le creò!…

Spez. Lasciate fare a me, che lo voglio raccontare anch’io, per dare una buona rimbeccata a quei superbi, che non vogliono sentir parlare di Dio. – Ma io vorrei saper rispondere proprio a tono, quando dicono là, che le piante, gli animali e fin gli uomini vengon tutti prodotti dalla terra?

Par. Eh eh, adagio adagio a ma’ passi, dite loro; perché chi va saltellando tra gli abissi, cade certo a rompicollo. Ma sapete che avete fatti i grandi salti con queste poche parole! Dalla terra siete saltato alle piante, dalle piante agli animali, e dagli animali fino agli uomini. Pare a voi la poca cosa eh?…. Ma non sapete che dall’uno all’altro di questi generi di creature vi è una differenza tanto grande, un vero abisso di distanza che nessun uomo può misurarlo colla mente! Ve lo farò capire. Se aveste: voi scavata la terra in fondo in fondo (come la scavarono i geologi, cioè quegli scienziati che la vanno rovistando per conoscervi qualche cosa); avreste trovato, come. quelli, che là non vi era neppur un segno di piante e d’animali. Era dunque là la terra; e chi sa per quanto tempo? in prima come cosa morta senza produrre niente affatto.» – Ora, per cominciare poi a formar le prime piante, sì che dovette la terra pensar tanto come doveva formarsi bene le radici, i fusti e tante foglie, e stender quei filamenti sottilissimi, ed intrecciar le costoline e far i buchi da passare dentro gli elementi, e poi e poi… eh non so io, né sanno gli altri dir ben tutti come sieno formati quegli organi così minuti. Pensarlo?… Sarebbe ancora poco; e poi è più ancora mettersi a far tutto! Eppure quelle teste matte, come se niente fosse il poter fare tanti miracoli di cose, dicon li, con una parola « che la terra si è sviluppata in piante!» Come la san lunga!… Ma poi la terra quando si è fatta piante di se stessa, e le dovette venir voglia di diventare animali, bisognava che inventasse che cosa fossero gli animali dei quali non s’era mai veduto neppur uno; e poi s’andasse a provvedere chi sa dove? quelle tali cose che si chiamano anime che fan muovere e sentire. Poiché sentire e muover e muoversi spontaneamente come fanno gli animali, deve esser ben diverso dallo stare lì piantati come un albero insensibile… Aspettate!. Ma e poi quando la terra fattasi piante ed animali, questi si sentirono l’ambizione di diventare uomini da comandare a tutti; allora sì! che dovettero studiar bene di crearsi dei figliuoli un po’ migliori, e di quella bellezza che non si avevano mai veduti tra quei brutti ceffi di scimmioni d’ogni specie. E poi e poi, che inventassero delle anime capaci d’imparare a ragionare: ché di ragione gli animali non ne vollero mai sapere. Bisognava dunque che la terra, altro altro che far evoluzioni e trasformarsi da una specie all’altra come sono le creature! bisognava adunque che la terra prima se le sapesse tutte immaginare? anzi anzi, aver la potenza di far tutto e la sapienza di far tutto in così bell’ordine! Bisognava adunque che la terra fosse sapientissima, onnipotente provvidentissima da sapere, da potere crear tutto, e tutto conservare… Oh vedete che disgrazia, di coloro che se non vogliono credere in Dio Creatore. onnipotente; diventano. Così matti da credere che sia la terra creatore onnipotente, creatori anche le piante, e creatori di noi uomini siano le bestie!

Spez. Che sapienti!… Ma hanno perduto proprio la testa. Ma abbiate la bontà di darmi la risposta che io possa dare, quando diranno: che le creature, o gli esseri, come dicono essi, son così simili tra loro che certe piante si confondono colla terra e certi animali si confondono colle piante e certi uomini colle bestie, sicché dicono: che si conosce che le cose si trasformarono l’una nell’altra.

Par. Eh! ne avrebbero stavolta detta una mezzo vera, ché proprio certi uomini si confondon colle bestie, alla maniera che dicono ed operano senza ragione! È però vero che le creature terrestri si somigliano in qualche cosa che tutte hanno insieme con sé. Tutte hanno della materia di cui son formati tutti i corpi; ma oltre la materia che le piante han dentro loro, essi han gli organi che le compongono, e cogli organi la forza di vegetare, e questa forza non è cosa materiale. Così pure gli animali hanno fili, vene, organi insomma adattati a loro; ma col corpo organizzato han la forza di sentire, han l’istinto di muoversi e andar a cercare ciò che loro è necessario, e questa forza di sentire non è cosa materiale, né una conformazione di parti organizzate come sono le piante; ma è l’anima per cui essi sono animati. Così anche degli uomini poté dire un gran dotto, che è S. Gregorio, che noi uomini in certo qual modo siamo esseri materiali come la terra, vegetanti come le piante, animati come gli animali. Ma se in queste cose siamo simili agli animali, noi nel corpo animato, abbiam però poi anche l’anima ragionevole, per cui siam diversi assai assai e superiori a tutti; poiché coll’anima ragionevole siamo simili fino agli Angeli. Ma a divertirvi, voglio raccontarvi un fatterello che darebbe una lezione assai solenne, per far capire come noi uomini siam diversi da tutt’altre creature. Fu un di un maestro che nella scuola tecnica parlava di tutto e spiegava anche quello che non aveva mai studiato, credendosi licenziato in ogni scienza come un professore enciclopedico che conoscesse tutte le cose, e più altro ancora. Solo perché aveva passeggiato sotto i portici dell’Università, e udito cinguettar di Darvinismo, voleva dare prova di tutto il suo sapere con far solennemente una gran lezione. E là a sciorinare, che in tutto l’universo era materia, che si era trasformata da terra in piante e da piante in animali, eccetera, eccetera!… E siccome i paperi a gracchiare dall’oca grande, così egli aveva imparato da un grande professore a conchiudere vociando: (con divozione si direbbe) Oh metamorfosi della materia, sacra parola, al solo pronunciarti mi sento destar nel petto un senso di profonda venerazione…» poi ai suoi scolari: « Colti giovani, siate spregiudicati e non lasciatevi ingannare da qualche sentimento di debolezza!… » Quei giovani che si ridevano sotto labbra di quel sciocco buffone… ai quali bastava l’animo di fargliene delle belle, vollero mettere in pratica la lezione in un modo assai bizzarro, da cavargli la voglia di replicarla al solito. Lo aspettaron uniti insieme in corpo all’uscio della scuola, e all’uscirne fu un battere le mani a lui tutti d’intorno. Ei si ringalluzziva tutto dicendo in suo cuore: « che gran lezione ho mai fatto io! eh! Se sono un professore da esser chiamato all’Ateneo!» Ma gli arditi gli si serraron alla vita, e il sollevaron tra le braccia in alto in alto… Egli, che credeva lo portassero in trionfo, a gridar subito: « Troppo ono…. e muta il grido in «ahi! » quando lo stramazzarono per terra. Meschinello!.. rotta la testa!.. mise un gemito « son rovinato!… aiuto! » Ma gli scolari nello sghignazzio, da buoni spregiudicati senza sentimento: « È proprio terra il signor maestro! è caduto come una gran motta di terra!..» — Ma il povero maestro grida: « Aiuto! aiuto!… mi sento morire!… Ho paura!..» Ed essi a scherno: « Eh eh, signor maestro, e se si muore?… è niente è niente, è un po’ di terra che fa la sua evoluzione!..» Io credo che allora anche il maestro maledisse il Darvinismo!

Spez. La ci andava una simile lezione a questo sciocco che voleva fare lo scienziato! È tanto spiritoso il brutto giuoco, che muove più il riso che la compassione! Ma mi dica ancora, perché io possa rispondere a’ miei signori: Non potrebbero le piante e gli animali diventar migliori per la coltura e collo svilupparsi sempre in meglio farsi col tempo di una razza più bella?

Par. Rispondete che per diventare migliore una cosa, deve essere in prima già la cosa che la si debba migliorare. Così voi potete nel vostro orto; come il Darwin nel suo, coltivare le cipolle, e diventeranno più grosse; saranno però sempre cipolle; coltivate i cavoli, ma non si cambieranno in. Bestioline di nessuna sorta; coltivate i piccoli polli, non diventeranno mai le graziose colombine. Da tutte piante, come da tutte bestie, vengon su piante e nascon sempre bestie della stessa natura di quelle che le hanno prodotte. Questo si è sempre veduto dacché mondo è mondo. Si trovan diffatti negli antichissimi sepolcri di mille e mille anni fa grani; serpenti e scimmie che erano stati imbalsamati coi cadaveri umani; ebbene, son proprio gli stessi grani, i quali, ancor seminati da noi, danno grani come quelli antichissimi, e sono gli stessi serpenti che strisciano ancor là nelle sabbie abbruciate dell’Africa, gli stessi gatti delle cucine nostre e le istesse scimmie colle quattro zampe istesse che s’arrampicano sugli alberi oggidì; le quali poi, si vede, che mai non si sognaron, almen per sei mila anni, di farsi scimmie un po’ migliori. Insomma, le piante e gli animali vengon su coi loro caratteri particolari dal seme o germoglio, come l’ha creato Iddio. Così spunta una piantolina dal suo guscio, ma essa è già il piccol albero che potrà diventar grande come il castagno della regina Giovanna da tener all’ombra i cento cavalieri; ma più o men grossa, è sempre la pianta istessa. – Degli animali poi è da dire lo stesso. Nasca pur piccina la bestiolina, ma in sé ha già tutte quelle ossa che si vanno consolidando, e tutti quei muscoli e nervi e le più minute vene; sicché può diventar crescendo un grosso elefante; ma non cambierà mai: perché pel trasformarsi, cioè mutarsi in altro, sol cambiasse un osso solo, non potrebbe vivere come elefante, quale fu creato da Dio.

Spez. Oh! le belle cose che mi spiegate chiaramente! Ma essi piglian tutto in grosso, e dicono che certi animali si cambiano in altri animali più perfetti, migliorando la loro specie.

Par. Più perfetti?… ma ogni specie di animali ha tutte le parti necessarie per esser perfetta nella sua qualità; Dite loro: che l’uomo che più s’intende dell’anatomia degli animali, perché studiò tanto ciascun organo del loro corpo, il signor Cuvier, osservò che tutte le parti degli animali sono così create per servire all’animale di quella specie. Per esempio, dice egli, l’animale che mangia carne, non solo si conosce dagli artigli e dagli unghioni, ma ogni piccol muscolo del suo corpo è proporzionato alla forza, all’agilità, insomma a tutto ciò che si richiede dalla sua maniera di vivere. Sicché (lo dice egli) il dire che un animale possa trasmutarsi in altro, è un mostrar di avere, (notate, son sue parole,) la più grande ignoranza.

Spez. To? che me li ha bollati, in regola questi che pretendono, senz’aver studiato, darsi il vanto di mostrarsi gli scienziati, solo perché si vantano di non credere. Diede loro la patente di solenni ignoranti.

Par. Ma raccontate un fatto che darà prova che il signor Cuvier gliela poteva dare. Un dì nelle cave di calce di Montmartre presso Parigi furon « trovate delle  ossa, che egli conobbe non poter essere d’alcun degli animali che vivono ai nostri dì. Quindi pensò che quelle grand’ossa dovevano averne altre corrispondenti per far andare insieme il corpo degli animali. Pensò che sopra quelle ossa si dovevano stendere dei muscoli di carne in un tal modo; e così via via si mette a disegnare l’animale intiero come se l’immaginava egli che doveva essere. Fu poi trovato l’animale intiero; e si vide, meraviglia! era proprio simile al disegnato. Replicò poi la prova; da altre poche ossa di animali sconosciuti disegnò esattamente quali dovean essere quegli animali, e non la sbagliò mai. E sapete il perché? Perché conobbe esattamente che ciascun animale ha tutte le sue parti da Dio create per poter vivere. secondo la sua specie e la sua natura; né un animale potrebbe vivere, se mutasse un proprio osso, un nervo nella forma di un osso o d’un nervo che hanno animali di altra specie.

Spez. Eppure avrebbe da udirli come quei creatori a fantasia essi sanno la maniera, per cui gli animali di una vanno adagino mutandosi in animali di un’altra specie. E vanno dicendo che la inclinazione e la gran voglia di arrivare a pigliarsi qualche cosa, di godere e far sempre migliore vita fanno sviluppare negli animali le membra che hanno; e perfino, ma la senta una bella! perfino fanno lor nascere le membra che non si avevano prima.

Par. Oh oh! è proprio bella bella; ma però la potrebbe mutare in brutta pei poveri galantuomini… Ma sa egli, che se le inclinazioni, le brame potessero crear le membra che non si hanno, molti furfantoni che hanno tanta inclinazione, una brama viva viva, una calda foia ch’abbrucia a lor le carni addosso, oh se vel dico io! come metterebbero fuori certe alacce sulle spalle, da volare da grifoni nelle finestre ad arraffare nelle stanze l’oro che fa a loro tanta gola!… Quante si dicono stoltezze, mio caro, quando si ha perduto il ben di Dio ?…. Voi potete far intendere a chi ha ancora un po’ di ragione, che l’esercizio può bensì far diventare più robuste e grosse le membra che il Signore ha dato agli animali… ma non farne venire delle nuove?… Oh oh non mai! Io credo che neppur quando uom sogna, ei fantastica di aver le ali.

Spez. Sì, veramente sono. anch’io ben persuaso che col non credere più in Dio, si perde proprio la testa! Ma ascolti ancora quest’altra; e mi suggerisca come possa far loro credere che diventano ridicoli! Volendo dire che nell’universo tutto è materia e forza, non han vergogna di dire anche: che aggiungendo forza a forza si compongono le ragioni degli uomini, come io compongo i miei impiastri!

Par. E voi pigliate subito loro di bocca le loro parole istesse. O i miei belli scienziati, troppo bene mi avete detto, che tutto essendo materia e forza solamente, ogni atomo è sempre unito colla sua forza, e che ogni forza, la sia pur piccina piccina, ha sempre unito il suo granellino di materia. Adunque per far di un animale irragionevole un uomo ch’abbia la ragione, bisognerà metter nella bestia un’altra forza. Così aggiungendo forza a forza, aggiungeremo materia a materia… L’avete fatta la gran bella scoperta! Da bravi, avanti avanti, e per formare un uomo più dotto, fate un bestione ancor più grosso del mammouth… Ah ah sarà questo il sapientone, proprio il vero vostro Salomone!

Spez. Bisogna ridere per forza, anche quando non si ha voglia!

Par. Deh non ridete. Poiché è cosa che fa piangere il pensare che con tanti spropositi non solo si fa’ perdere la fede ed il buon senso, ma si fa spegnere ogni sentimento di bontà! Perché assuefandosi anche coloro che non sono malvagi ancora, a dir sempre così cattive cose alla spensierata, si finisce poi per crederle senza pensarvi più che tanto. Quindi col parlar sempre di materiali cose, coll’aggiungervi che tutto è sola Materia, si guardan fino le persone come fossero cose materiali, da servirsene, quando sì possa, a volontà. Avvisate i vostri amici, che avran forse da pentirsene. Quand’avranno i loro figli educati a queste scuole, ed in famiglie non sentiranno che parlar d’interessi e di far servire le persone a far meglio gl’interessi loro proprii… potranno poi far certi calcoli fin sulle persone dei loro padri…  Raccontate questo fatto per far intendere a quella buona gente, che « cosa si potrebbe volere far finanche di questa povera carne umana. Inorridite alla crudeltà di questo calcolo innanzi alla pietà cristiana, udendo solamente a raccontarlo. Un dì una giovine sposa in un santo cimitero inginocchiata sulla tomba della buona sua madre, deponeva appié della croce. una corona di violette del pensiero con in mezzo un cuor fatto di rose, e a quella pietà il suo giovine sposo col cappello in mano dietro a lei pregava anch’esso. Poco lontano appoggiato le spalle ad una colonna un tale cupo cupo, col cappello all’americana giù sulla fronte, segnava alcune cifre sopra un suo portafoglio; e in quella dava di sbieco un’occhiata su quei due ridendo. A quel segno di confidenza lo sposo a lui: « Signore, disse, voi forse scrivete un qualche bel pensiero venuto anche a voi in questo luogo d’inspirazioni così care e sublimi?… » E l’altro crollando il capo con un far di beffa: « Superstizioni, esclama, superstizioni tanto dannose al progresso… Eh eh,. signore; bisogna elevarsi. Sopra questi bassi sentimenti… La scienza, la scienza, e non più superstizioni! Ora la scienza insegna che tutto quello che succede. non è che evoluzione della materia… Che mi parlate d’inspirazioni dell’anima? Se tutto è materia, egli bisogna trar partito dalla materia… Io faccio appunto il calcolo che il corpo di un cadavere pesa in media tanti chilogrammi: dunque da un cadavere si può cavare tanti chilogrammi di olio e tanti di colla; e poi colle ossa spolpate tanti chilogrammi di calce… Che gran capitale va perduto per la superstizione della Religione cristiana! » – Il giovine sposo diede in dietro un passo per ribrezzo, e la signora atterrita nascondevasi dietro al consorte, parendole in quel grifo uno sguardo da iena, che agognasse cogli unghioni di ferro a dissotterrare il cadavere della santa sua madre!

Spez. Mi sento venirmi fredda anch’io la vita, quando io penso che se la scienza di quei sapienti va innanzi ancor un poco, ve’ che mi vorranno gettare in una gran caldaia; pu pu!… fan troppo orrore. – Ma costoro, signor parroco, se non si credon di essere che materia, perché fan tanti calcoli per far l’interesse di un pizzico di materia?

Par. Mio buon signor amico, bisogna conoscerli per bene, e vorrei lo capissero tutti i cari nostri, come costoro guardano tutti gli altri come cose materiali da maneggiarsi senza sentimento; ma solo riserbano a se stessi di potere servirsi di tutti, per fare il proprio interesse. Pur vantandosi d’esser i soli sapienti, vanno dicendo d’esser filantropi, che amano tanto il popoletto!

Spez. L’ho sempre detto io:

DIO CI LIBERI!… CHE SAPIENTI?… CI VORREBBERO: FAR PERDERE LA TESTA … Ma dirò anche sempre : CHE FILANTROPI… FAN L’AMORE AL POPOLO COLLE UNGHIE E CO DENTI!….

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 15

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (15)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 – F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO X.

Della dolcezza

Perfezione della dolcezza. — È partecipazione della dolcezza medesima di Dio.  – E il contrassegno del vero zelo — non si trova per lo più che nelle anime innocenti. – Dio per comunicarci le sue virtù segue due vie, quella dell’effusione e quella dell’acquisto.

La virtù di dolcezza è fa più alta perfezione del Cristiano; essa, infatti, presuppone in noi l’annientamente da tutte quanto è nostro e la morte di ogni interesse proprio; dimodochè il disprezzo non ci irrita più e neppure la perdita dei beni e della tranquillità della vita vale a farci perdere la nostra pace. – In voi, dice S. Paolo, sia soffocata e consumata qualsiasi radice di amarezza (Ephes. IV, 31; Hebr. XII, 15). Ora, questo si fa per mezzo di Gesù Cristo Nostro Signore; perché Gesù Cristo, abitando nel fondo dell’anima nostra con la pienezza della divinità, assorbe nella sua carità il nostro amor proprio, il quale è la causa dell’ira. In tal modo, l’anima nostra trovasi nella pace e nella dolcezza; ed anche nei casi in cui l’interesse proprio in apparenza sembra ferito, essa non ha né asprezza né amarezza. L’amor proprio si irrita e si accende tutto di vivissimo fuoco, quando si ha la pretesa di rapirgli ciò che gli appartiene, Perciò, se vogliamo che l’anima nostra goda la vera dolcezza, è necessario che tutto quel fondo di amor proprio che si estende e si porta verso la creatura, sia inabissato in Dio. Come vi sono parecchi gradi di umiltà, vi sono pure varie sorte di dolcezza. Ma la dolcezza vera, fondata e perfetta, è quella del cuore: di essa parlava Nostro Signore, quando diceva: Imparate da me, ch’io sono dolce ed umile di cuore. Ora, questa dolcezza di cuore deve essere talmente radicata in noi che niente la possa alterare, e non le rimanga più nulla né della carne né di sé medesima, ma sia tutta immersa e come perduta in Dio, ossia nell’essere, nella vita, nella sostanza, nelle perfezioni di Dio. In tale stato, l’anima tutto opera nella dolcezza; quando pure agisce con zelo, è sempre con dolcezza, perché l’amarezza e l’acrimonia non hanno più luogo in essa, come non possono aver luogo in Dio. – La carne e l’uomo vecchio hanno uno zelo falso e contraffatto. il quale per quanto esteriormente abbia qualche somiglianza con lo zelo dell’uomo nuovo, in fondo ne è molto dissimile: il primo è sempre pieno di amarezza e di asprezza, il secondo è tutto animato dalla dolcezza. Uno dei maggiori contrassegni per discernere lo zelo della carne da quello dello Spirito Santo è appunto questo; il vero zelo di Dio viene acceso in noi dalla considerazione del bene del prossimo, mentre lo zelo falso dell’uomo vecchio trovasi sempre eccitato dal nostro interesse proprio; e questo viene chiamato la collera, la quale è un appetito, una tendenza, un moto di ardore per ritenere o cercare ciò che ci appartiene. La vera dolcezza non si trova quasi mai che nelle anime innocenti, nelle quali Gesù ha stabilito la sua dimora continua fin dalla loro santa generazione e nelle quali è cresciuto nel complesso di tutte le sue perfezioni. Nelle anime penitenti, la dolcezza si trova raramente; perché il peccato le ha private di un’infinità di perfezioni, ed ha fatto regnare in esse il disordinato interesse di mille cose di cui l’abitudine si è formata e contratta con una fervente attività; anime penitenti sono quindi obbligate lavorare con molta fatica e violenza, per distruggere l’uno dopo l’altro tutti questi vizi della carne, riacquistare le Virtù contrarie, e così, in Gesù Cristo, riparare quanto avevano perduto. Siccome poi per ottenere questi effetti ci vuole molto tempo e occorrono molte mortificazioni, pochi ve ne soro che siano perseveranti e che lavorino all’acquisto della virtù con quella grande fedeltà che è necessaria onde ricuperare quanto hanno perduto col far getto della grazia del loro battesimo, e quindi ristabilirsi, in Gesù Cristo, nella pienezza delle vie divine.

***

Vi sono due vie differenti per le quali Dio comunica agli uomini le sue virtù. Nella prima, Egli le comunica per un puro effetto della sua bontà e liberalità, senza esigere alcun lavoro da parte della sua creatura. Nell’altra, esige fatica nella creatura, e non concede la virtù se non dopo violenti sforzi e in seguito ad una prolungata fedeltà. La prima può chiamarsi via di infusione: la seconda via di acquisto. La prima è rara nella Chiesa, a meno che Dio non abbia qualche disegno particolare sopra qualche anima, e per lo più, non viene usata che per gl’innocenti; la seconda non è meno rara, perché sono pochi quelli che perseverano con costanza e fedeltà. – La via d’infusione è dolce: ciascuno vorrebbe possedere per questa via le virtù non meno che gli altri doni: ma la via di acquisto è dura e nessuno la vorrebbe. Quest’ultima nondimeno è per tutti i peccatori e per tutta la Chiesa; mentre l’infusione è soltanto per gli innocenti e per poche altre anime su fa terra. Gli innocenti mentre crescono in Gesù Cristo, crescono pure in tutte le virtù, a motivo che Gesù Cristo nelle loro anime gode di un dominio estesissimo, per cui le riveste, le copre, le investe delle sue proprie virtù, col dono continuo e privilegiato della sua presenza. Egli in queste anime opera tale una trasformazione ch’esse non sono più sé medesime ma sono Gesù Cristo vivente e regnante in esse, Gesù Cristo che possiede e consuma tutto il loro essere. E siccome Egli è tutto consumato e trasformato in Dio perché Dio è perfettamente stabilito in Lui, così delle anime nelle quali Egli vive; Egli le consuma e le trasforma interamente in sé medesimo. Orbene, poche sono le anime in cui Gesù Cristo operi questi effetti, poche le anime nelle quali non rimanga qualche fondo di amor proprio, sorgente dell’amarezza e dell’ira che si accende per il proprio interesse; donde avviene che vi sono pochi Cristiani animati da perfetta dolcezza.

VITA E VIRTU CRISTIANE (Olier) 16

LA VITA INTERIORE (21)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (21)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

LUCE DIFFUSA

LA RICONOSCENZA E IL RINGRAZIAMENTO

NEGLIGENZA INESPLICABILE.

Noi siamo soliti, almeno, a parole, dire, ripetere a sazietà, il «grazie» a chi ci fa, o sembra farci, un qualunque beneficio, o ci concede un favore, anche se insignificante. Non indaghiamo se, e fino a che punto, questi «grazie, grazie » abbiano radici nel cuore e disposizioni pratiche corrispondenti nella volontà. Tuttavia, se questo nostro sentimento di riconoscenza, questa manifestazione di ringraziamento è abbastanza comune verso i nostri simili, non lo è, purtroppo, egualmente verso Dio nostro Padre e massimo benefattore. – Il fatto fu, e lo è continuamente ancora, constatato da molti santi, da tante anime pie che se ne mostrarono, e se ne mostrano sconsolati: «se vi è cosa di cui non si sappia spiegare la completa assenza nella religione pratica della maggior parte degli uomini — dice il P. Faber (Tutto per Gesù. Torino – S.E.I., pag. 215.) — è il ringraziamento. È ben difficile esagerare la negligenza che molti dimostrano riguardo a questo dovere; si fanno certamente poche preghiere, ma si fanno meno ancora ringraziamenti. Se un milione di Pater e di Ave s’innalzano dalla terra per domandare a Dio di allontanare da noi tutti i mali e per far discendere le sue grazie, quante di queste preghiere si diranno poi per ringraziare Dio dei mali da cui ci ha liberati e delle grazie che ci ha date? Ohimé! è troppo facile trovare la causa di questa ingratitudine: alla preghiera ci spinge naturalmente il nostro interesse, ma la riconoscenza è inspirata solo dall’amore ». Il corsivo di queste ultime righe è mio; ed è per rimarcare questa dolorosa affermazione che, purtroppo, corrisponde alla realtà dei fatti!

IL DOLORE DEL CUORE DI GESÙ.

Proprio per questa mancanza di riconoscenza, dopo la guarigione miracolosa dei dieci lebbrosi, Gesù, come fedelmente san Luca (XVII, 12-17) riferisce, uscì in una espressione piena di dolore, vedendo che uno solo fra i dieci, ed era un samaritano, aveva sentito il dovere di ritornare da Lui per ringraziarlo. « E come (Gesù) stava per entrare in un villaggio, gli si fecero incontro dieci lebbrosi, che si tennero a distanza ed, elevando la voce, esclamarono: “ Gesù, Maestro, abbi pietà di noi! ’’. A quella vista Egli disse loro: Andate a mostrarvi ai sacerdoti. » E mentre vi andavano, furono guariti.

» Or, uno di essi, vedendosi guarito, tornò indietro glorificando Dio ad alta voce, e si gettò con la faccia a terra davanti ai piedi (di Gesù) a ringraziarlo; ed egli era un Samaritano.

» Prese allora a dire Gesù: Non sono stati guariti tutti e dieci? E dove sono gli altri nove? Non s’è trovato nessun’altro, che sia tornato a rendere gloria a Dio, se non questo straniero?

» E a lui soggiunse: Alzati, va’; la tua fede ti ha salvato ». Una semplice considerazione. Risalta evidente, nei lebbrosi, il contrasto tra la condotta anteriore e quella posteriore alla guarigione. Prima della guarigione, il desiderio d’essere esauditi « li rendeva ossequiosi e prudenti; stavano in distanza per timore di irritarlo (Gesù) con l’avvicinarglisi troppo…; alzavano la voce dicendo: “ Gesù, Maestro, abbi pietà di noi”. Compiuto poi il miracolo, nove di loro, pieni di una gioia egoistica, andarono a presentarsi ai sacerdoti: ma uno, “uno solo… vedendosi guarito… si prostrò al piedi di Gesù e lo ringraziò » (Faber, op. c., p. 216). Di qui la sorpresa, la meraviglia, l’afflizione del Cuore di Gesù. La riconoscenza, ch’è un dovere d’amore, era stata soffocata dall’egoismo… negli altri nove lebbrosi guariti. – A parecchi secoli di distanza, Gesù ci fa sentire ancora lo stesso lamento. Santa Matilde, in preghiera davanti al santo Tabernacolo, aveva domandato a Gesù che cosa gli piacesse di più nell’uomo, e Gesù così, benevolmente, le rispose: « Il mio più vivo piacere è ch’egli mediti con profonda riconoscenza, e ricordi sempre sempre le ingiurie che ho sofferte nei miei trentatré anni, la miseria in cui vissi, gli affronti sopportati dalle mie creature ed infine quanto soffersi in Croce morendo nella più amara ed atroce delle morti per amore dell’uomo, per redimere l’anima sua col mio prezioso Sangue e farne una sposa fedele. Vorrei che ognuno mi fosse grato per un tanto beneficio, di gratitudine tenerissima, come se tutto avessi sofferto solo per lui ». Ogni anima deve ritenere rivolto a se stessa questo invito di Gesù, ricordare queste parole, meditarle, conformare e coordinare, secondo il giusto e santo desiderio del Maestro divino, i pensieri, le parole, le opere.

IL RINGRAZIAMENTO È DOVEROSO.

Non solo per un bisogno del cuore nostro; non solo pel desiderio giustissimo e per il diritto che ne ha Gesù, ma, anche perché la riconoscenza è vivamente consigliata, suggerita, comandata dai Santi e dai Padri della Chiesa. La miglior guida, in questo, come dice il P. Faber, è l’autorità della S. Scrittura. L’apostolo Paolo scrivendo agli Efesini, dice che Noi dobbiamo rendere grazie di tutte le cose a Dio Padre in nome di Gesù Cristo (Ef., V, 20). Ai fedeli di Corinto dice: «Fratelli, sempre rendo grazia per voi al mio Dio, per la grazia di Dio che vi è stata data…» (I Cor., 1-4). E ancora: « Dobbiamo abbondare con tutta la semplicità che opera in noi, ringraziando Dio» (II Cor., IX, 11). Ecco l’ammonimento che dà ai Filippesi: « Non desiderate nulla, ma in ogni occasione esprimete il vostro desiderio a Dio con la preghiera, con le suppliche e col ringraziamento » (Filip., IV, 6). – E ai Colossesi: «Poiché avete ricevuto il Signor nostro Gesù Cristo, camminate in lui, appoggiati su di lui e edificati in lui e confermati nella fede come l’avete appreso, rendendo, per mezzo di lui grazie abbondanti » (Col., II, n). Più avanti, ancora: « Non trascurate la preghiera, ma vigilate attentamente nei vostri ringraziamenti » (Col., IV, 2). Rivolto a Timoteo, afferma che: « ogni creatura di Dio è buona, e non bisogna rifiutare nulla di ciò che si riceve con ringraziamento» (I Tim., IV, 3). Indirizzandosi ai Romani dice: « E il carattere dei Gentili era tale che, sebbene conoscessero Dio, non lo glorificavano come Dio e non lo ringraziavano » (Rom., I, 21). La lode e il ringraziamento sono la delizia più grande degli Angeli e dei Santi in Paradiso; saranno anche la nostra occupazione, per così dire, più gradita in cielo. – Nell’Apocalisse di S. Giovanni, il linguaggio degli Angeli, dei seniori e di tutte le creature viventi si riduce alle seguenti parole: Amen! Benedizione e gloria, sapienza, grazia, onore, potenza e forza al nostro Dio, in tutti i secoli! Amen. – Gesù disse a santa Brigida che il ringraziamento è uno dei fini dell’istituzione del S. Sacrificio della Messa: Il mio corpo, le disse, è ogni giorno immolato su l’altare, affinché gli uomini che mi amano si ricordino più spesso dei miei benefici. Ringraziate Dio, dice san Bernardo, e voti ne riceverete dei favori sempre più grandi. – S. Lorenzo Giustiniani, nel suo Trattato dell’obbedienza, così si esprime: «Chi volesse, egli dice, contare tutti i benefici di Dio, somiglierebbe a chi si sforzasse di racchiudere le potenti acque dell’immenso oceano in un piccolo vaso… E più avanti: Mostrate soltanto a Dio che voi siete riconoscenti di quello che vi ha dato, ed Egli verserà sopra di voi dei favori sempre più abbondanti ». – San Paolo della Croce, durante una sua grave malattia, passava le ore e i giorni nel ringraziare e lodare Dio, ripetendo sovente con particolare attenzione e devozione quelle parole del Gloria in excelsis: « Noi ti ringraziamo per la tua grande gloria ». Alla maggior gloria di Dio era la frase, la giaculatoria, il motto araldico preferito di S. Ignatio di Lojola, lasciato in eredità alla Compagnia di Gesù. – Una grande caratteristica del santo don Bosco fu la sua immensa riconoscenza: verso Dio soprattutto; per Maria SS. Ausiliatrice, che chiamava la sua Regina potente, la sua ispiratrice, e alla quale tutto solo e sempre attribuiva; pei suoi collaboratori, pei suoi benefattori, pei suoi alunni stessi, per chiunque gli avesse fatto anche il minimo benefizio… La gratitudine è l’anima della religione, dell’amore filiale, dell’amore a quelli che ci amano, dell’amore alla società umana, dalla quale ci vengono tanta protezione e tante dolcezze. Tutte le astuzie per giustificare l’ingratitudine, sono vane; l’ingrato è vile. Così il mite e grande Silvio Pellico che, per avere molto sofferto, era specialmente indicato e qualificato nel ringraziare anche per le minime attenzioni che gli si usavano.

MOTIVI DI RICONOSCENZA.

Noi dobbiamo ringraziare continuamente il Signore per tutti i suoi benefizi. Anzitutto pei suoi benefizi generali, cioè quelli che concede a tutti gli uomini indistintamente, come: la creazione, la conservazione, la redenzione, il perdono dei nostri peccati, tutte le grazie della santa umanità di Gesù, i gloriosi privilegi della Madre di Dio e tutto lo splendore degli Angeli e dei Santi. Indi, dobbiamo ringraziare il Signore per tutti i favori, pubblici e privati, che, nella sua misericordia, diede a ciascuno di noi personalmente, individualmente. Tutti i grandissimi beni dell’anima e del corpo; la grazia dei sacramenti, le sante ispirazioni, gli aiuti speciali per la nostra perfezione e santificazione. – Di più: san Giovanni Crisostomo voleva pure che si ricordassero con particolare riconoscenza i benefizi nascosti che Dio ci diede a nostra insaputa. « Il Signore, egli dice, è una sorgente abbondante di clemenza, le cui acque scorrono su di noi e intorno a noi, anche quando non lo sappiamo ». – Per questi, e per tanti altri motivi di ringraziamento, la Chiesa ci insegna il modo di manifestare a Dio la nostra gratitudine. Nel prefazio della S. Messa si trovano queste belle parole: Vere dignum et justum est… nos tibi semper et ubique gratias agere: è cosa veramente degna e giusta che noi ti ringraziamo sempre, o Signore… Sempre e ovunque, perché — in qualunque luogo — non v’è momento, che non sia un benefizio del Signore. Presso il popolo giudaico vediamo con grande ammirazione che non appena il Signore aveva concesso qualche benefizio al suo popolo, questi cantava subito un inno di lode e di ringraziamento a Dio suo massimo, insuperabile benefattore. Ci risuonano nell’anima le parole del Salmista: Quid retribuam Domino pro omnibus quæ retribuit mihi? — Che potrò io mai rendere al Signore per tutti i benefizi che ho da Lui ricevuti? — Come non ricordare, qui, il meraviglioso cantico della Vergine Santissima quando, nell’entrare in casa della cugina Elisabetta, uscì in quel meraviglioso: Magnificat anima mea Dominum? Questi esempi, questi motivi debbono indurre anche le anime nostre a cantare le glorie del Signore, a dirgli di continuo tutta la nostra più filiale riconoscenza! Questo, però, non basta. Il modo e il mezzo più bello per ringraziare Dio pei suoi benefizi, è quello di farne buon uso, servendoci dei benefizi e dei doni stessi per aumentare la sua gloria e procurare la salvezza della nostra anima.

NELLE TRIBOLAZIONI DELLA VITA.

Se, generalmente parlando, poche sono le anime che sentono e comprendono appieno la necessità del ringraziamento, della laus perennis al Creatore per tutti i favori e i benefizi da Lui ricevuti, pochissime sono, certamente, quelle che comprendono il dovere della riconoscenza, del ringraziamento a Dio per le tribolazioni, per i dolori, per le contrarietà d’ogni genere che Dio manda, o permette, alle anime. Difficilmente gli uomini ricordano che Dio è Padre, e soprattutto Padre buono, Padre tenerissimo che vuole solo il nostro bene, e che pel nostro bene tutto dispone con ordine, peso e misura. Se questo concetto fosse sempre tenuto presente dalle anime, non vi dovrebb’essere difficoltà di sorta a persuaderci della verità delle parole di Giobbe: Se abbiamo ricevuto con gioia i benefici dalla mano del Signore, perché non dovremmo accettare, egualmente, i mali che egli ci manda? «Non crediamo, dice il P. Faber (Op. cit, p. 236-7), che si esiga da noi un sacrificio troppo grande, quando ci viene raccomandato di ringraziare Dio di tutte le afflizioni, di tutte le tribolazioni a cui fummo sottoposti nel passato e che soffriamo ancora presentemente… – San Giovanni d’Avila soleva dire che un solo Deo gratias di un cuore afflitto vale più di parecchie migliaia di esclamazioni simili in mezzo alla prosperità ». « No, dice sant’Antioco, noi non possiamo dire di una persona ch’è veramente riconoscente, finché non l’abbiamo veduta ringraziare di cuore Dio in mezzo alle avversità… San Giovanni Crisostomo, nelle sue omelie su l’Epistola agli Efesini, dice che noi dobbiamo ringraziare Dio anche per l’inferno e per i tormenti che vi si soffrono, perché nulla ci aiuta tanto a dominare le nostre passioni, quanto il pensiero di quei supplizi. – Come possiamo accettare le tribolazioni?- Facciamo nostro il pensiero del Tissot (La vita interiore semplificata, pag. 288. Torino, 1913). Dobbiamo accettare le sofferenze con gratitudine, non con gioia, perché questa non dipende da noi. Da noi dipende la riconoscenza; da Dio la gioia. Come regola generale, teniamo la massima favorita di S. Francesco di Sales: nulla chiedere, nulla rifiutare. Questa massima può servire molto bene di formula alla condotta cristiana attraverso le desolazioni e le consolazioni. L’anima, poi, che vuole realmente amare Gesù e seguirlo, gli sarà altresì riconoscente per le sofferenze ch’egli ha, per noi, sopportate. – Come non ricordare, senza commuoversi intensamente, tutte le prove di amore nel dolore, nel sacrificio totale di sé, nel rinnegamento assoluto e perfetto, nella desolazione completa che Gesù volle soffrire per la redenzione delle anime nostre? Giustamente possiamo ricordare e ripetere: Tota Jesu Christi vita, crux fuit et martyrium. Non basta. Gesù dispone, nella sua infinita sapienza, che i dolori da noi sofferti con rassegnazione e per amor suo, in questa vita, siano ordinati a farci evitare le sofferenze del Purgatorio…

IL MALE DELL’INGRATITUDINE.

Per mostrare quanto grave male sia l’ingratitudine, ricordiamo ancora il dolore provato da Gesù nel vedersi comparire davanti, per ringraziarlo, soltanto uno dei dieci lebbrosi da lui beneficati e guariti. Uno solo dei dieci sentì e compì il grave dovere della riconoscenza! Presso gli uomini, l’ingrato è giudicato vile, è disprezzato, odiato, fuggito, costretto a vivere nell’isolamento e nell’abbandono. « Ma se il vizio dell’ingratitudine è odioso in faccia agli uomini, ed è da tutti giustamente condannato; tanto più lo è in faccia a Dio, e da lui perciò è severamente condannato. L’ingratitudine arresta il corso dei benefizi di Dio, dissecca la sorgente della pietà, e mette ostacoli a tutti i disegni di Dio su di noi » (Morino, Il Tesoro evangelico, III, pag. 363). Perché tanto dispiacciono a Dio gli ingrati? Perché, più col fatto che colle parole, essi dicono a Dio che non hanno più bisogno di Lui. E in seguito a tale condotta che il Signore ha fatto sentire i penosissimi lamenti verso i Giudei! … Popule meus, quid feci tibi? Aut in quo contristavi te? Responde mihi! Quia eduxi te de terra Aegypti parasti crucem Salvatori tuo! – Gli Israeliti dimostrarono ingratitudine a Mosè che in nome di Dio li aveva liberati dalla schiavitù d’Egitto; dimostrarono ingratitudine a Dio che nel deserto li aveva nutriti con la manna, cibo disceso dal cielo; dimostrarono ingratitudine per essere stati avviati alla terra promessa… Per tutti questi e per altri molti segni di ingratitudine, gli Israeliti de’ quali Dio si lamentò, furono da lui maledetti e nessuno di essi penetrò in quella terra promessa. Quante anime cristiane, già tanto beneficate da Dio, non entreranno nel regno dei cieli per la loro ingratitudine! È straziante il lamento che Dio fece sentire al suo popolo per mezzo del profeta Isaia: Udite, o cieli, e tu, o terra, ascolta: ho nutrito ed esaltati dei figli, ma essi mi hanno disprezzato. Il bue distingue il suo padrone, e il giumento la greppia del suo signore, ma il mio popolo non mi riconosce e non vuole intendermi: oh! guai a questo popolo ingrato e prevaricatore! Perché il Signore non si disgusti, non si stanchi di noi, non abbia a punirci severamente, cerchiamo di dirgli e dargli, in teoria e in pratica, tutta la nostra più viva, più sentita, più filiale riconoscenza.

LA GRATITUDINE E IL RINGRAZIAMENTO CI PORTANO ALLA SANTITÀ.

Narrano i biografi di santa Geltrude ch’ella si offerse, una mattina, durante la celebrazione della S. Messa, proprio nel momento dell’elevazione, in ringraziamento al Padre celeste per tanti benefizi da Lui ricevuti, e comprendendo poi che in quell’offerta doveva unirsi ai sentimenti del Cuore di Gesù, si prostrò con la faccia per terra e così disse al Padre Celeste: Mi offro con Gesù per tutto quello che può contribuire meglio alla vostra gloria. Appena detto questo Ebbe immediatamente la gioia sovrumana di vedere Gesù prostrato alla sua destra, e di sentire da Lui le seguenti parole: Io e quest’anima siamo una cosa sola. E subito la Santa di rimando a Gesù: « Oh Signore! anch’io sono tutta vostra ». Dice il Faber (Tutto per Ges, p.270): «Il crescere in santità non è altro che ricevere continuamente nuove grazie con le quali Dio ricompensa ciascuno degli atti con cui noi corrispondiamo alle grazie che già ci ha fatto, e noi sappiamo che nessuna cosa può attirare su di noi grazie così abbondanti o invitare Dio a versare su di noi i suoi tesori, quanto la divozione del ringraziamento ». Se la lode e il ringraziamento sono la vita degli Angeli e dei Santi e saranno la nostra occupazione nel Paradiso, il lodare e il ringraziare Dio ora, mentre siamo su la terra, nel pellegrinaggio in questa valle di lagrime, non è forse, un paradiso anticipato, e perciò l’unione nostra con Dio? – « Nulla, dice il Tissot (La vita interiore semplificata, Torino,1913), è forse così potente quanto questo ringraziamento per il progresso spirituale dell’anima; nulla porta la vita con tanta abbondanza ed impetuosità fino nelle intime fibre, poiché nulla apre così pienamente la via .a Dio. Questa sola pratica basterebbe a santificare l’anima in poco tempo; sarebbe in me la garanzia di tutte le virtù e la condizione del loro progresso ». – In breve: la riconoscenza e il ringraziamento a Dio ci fanno vivere contenti e soddisfatti di tutto nella vita cristiana; ci sorreggono nel lavorare e sopportare tutto per la gloria di Dio; ci aiutano a considerare proprio come nostri gli interessi di Gesù. Queste considerazioni vengono avvalorate dal seguente pensiero di S. Bernardo: «Il mare è origine di tutte le sorgenti e di tutti i fiumi; ma di tutte le virtù e di ogni scienza è principio Gesù Cristo: la continenza, la purezza del cuore, la rettitudine della volontà, traggono la vita da questa fonte. Pel ringraziamento questo fiume celeste ritorni al suo principio, affinché continui ad irrigare la terra». Giustamente quindi il pio autore dell’Imitazione di Cristo poté dire: « Sii dunque grato per ogni piccola cosa, e sarai fatto degno di riceverne delle maggiori » (V, 21).

Signore, che posso rendervi io, povera creatura, per tanti benefici? Che posso rendervi che non sia indegno di voi? Benché voi non abbiate bisogno dei miei beni (Salmo XV, 2) è tuttavia giusto ch’io riconosca la vostra bontà infinita verso di me.

C. MARMION.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 14

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (14)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935 – Nihil obstat quominus imprimetur., Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO IX.

Della pazienza

La pazienza è quella virtù che ci fa sopportare in pace, ed anche con gioia, le pene di questa vita, e tutte quelle tribolazioni che Dio si compiace di mandarci. La pazienza, per essere cristiana, deve, con gli occhi della fede, considerare Dio come l’autore di tutte le avversità e di tutte le contrarietà che ci accadono. Deve anche sopportare le afflizioni spirituali e le pene interne; e tutte per la virtù dello Spirito di Dio, che dapprima risiedette nella sua pienezza in Gesù Cristo, e venne poi comunicato anche a noi dal Battesimo e dagli altri Sacramenti.

I.

Gradi della pazienza,

1. Soffrire in pace. -— 2. Desiderare di soffrire. — 3. Soffrire con gioia, — ad esempio di Gesù Cristo.

Tre sono i gradi della pazienza; Nostro Signore ce li ha indicati nel Vangelo e si è compiaciuto di darcene l’esempio. Il primo è di soffrire le nostre pene in pace, con rassegnazione, conservandoci in una perfetta sottomissione agli ordini di Dio. Così Giobbe, in mezzo alle sue afflizioni, diceva, in una perfetta pace e con un intero abbandono alla volontà divina: Dio mi aveva dato tutto, Dio mi ha tolto tutto; sia benedetto il suo santo Nome! (Giob. I-21) – L’anima paziente non si lamenta né contro Dio né contro il prossimo; non si inquieta menomamente nel suo cuore per il proprio male, essendo animata dalle stesse disposizioni che le anime del Purgatorio, le quali con una sublime pace soffrono la violenza del fuoco e dei tormenti. Questo primo grado della penitenza viene espresso in queste parole di Gesù: Beati coloro che soffrono persecuzioni per la giustizia, e che la soffrono in pace e con sottomissione agli ordini santi della Divina Provvidenza. Gesù Cristo ce ne ha dato l’esempio col sottomettersi volontariamente a tante pene, passando per ogni sorta di patimenti, tranquillo come la pecora che si lascia menare al macello (Act. VIII, 22).

* * *

Il secondo grado, è di desiderare ardentemente di patire. Ciò si è veduto nei martiri, che avevano il cuore infiammato di un tal desiderio così intenso da lasciar comparire anche esternamente il loro grande amore per i patimenti. Così S. Andrea, alla vista dei tormenti, esclamava: O buona croce che da tanto tempo così ardentemente desideravo! San Lorenzo si lamentava nel veder ritardato il suo martirio; e S. Teresa, nei trasporti del suo amore, esclamava: Aut pati, aut mori. O soffrire o morire! Nostro Signore esprimeva questo secondo grado della pazienza con queste parole: Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia (Matth. V, 6), e che sospirano di patire perché in essi si compiano i disegni di Dio, il Quale vuole che tutti i Cristiani soffrano con Gesù Cristo, e in Lui e con Lui prestino soddisfazione alla divina giustizia. Gesù ha voluto pure darcene l’esempio col manifestarci il suo ardente e continuo desiderio di soffrire, quando diceva: « Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, Desiderio desideravi » (Luc. XXII, 15;XII, 50). Egli considerava il sacrificio della Pasqua come un solo sacrificio con quello della Croce che doveva comprendere ed includere ogni patimento per questo motivo manifestava un grande desiderio di mangiare coi Discepoli quell’ultima Pasqua. – Il terzo grado è di soffrire con piacer e con gioia. Così gli Apostoli e i primi Cristiani se ne ritornavano dai tribunali pieni di gioia perché erano stati degni di soffrire per Gesù Cristo. S. Paolo, nelle sue Epistole, attesta ai fedeli che li vuole compagni della sua gioia nelle sue afflizioni e nelle sue pene (Fil., 7). Non solo ci manifesta la gioia che prova nel patire, ma afferma che trionfa nelle sue infermità e si gloria delle sue sofferenze (II Cor., XII, 9; Gal., VI, 14). S. Giacomo dice pure che il nostro cuore deve essere ripieno di ogni gioia in ogni pena e tentazione (Jacob, I, 2). – Nostro Signore esprimeva questo terzo grado con queste parole: Beati voi, quando gli uomini vi perseguiteranno e lanceranno contro di voi ogni sorta di maledizioni e calunnie; allora rallegratevi (Matth. V, 11). Ce ne ha dato pure l’esempio, poiché sta scritto: Propostosi il gaudio, sostenne la Croce, Proposito sibi gaudio sustinuit crucem (Hebr., XII, 2)

II

Motivi della pazienza.

Siamo creature, – peccatori – cristiani. — Gesù Cristo deve vivere in noi e trionfare in noi pure sulla carne. — Obbligo speciale dei Sacerdoti. – Efficacia e modo dell’azione di Gesù Cristo in noi.

Siamo obbligati alla pazienza, in primo luogo per la nostra qualità di creature; Dio è sovrano padrone della vita e della morte; da Lui tutto in noi assolutamente dipende, Egli ha quindi diritto di disporre di noi come gli piace. Il vasaio, dice S. Paolo, è padrone della creta per farne quel vaso che crede meglio (Rom. IX, 21); e dopo, del vaso che ha fatto dispone a suo piacimento; lo spezza, lo rompe; lo rifà, lo impasta, fo piega, lo schiaccia e gli dà quella forma che vuole. – Tale è la nostra condizione riguardo a Dic; essendo noi opera delle sue mani, Egli può far di noi tutto ciò che vuole. Che spezzi e rompa, che uccida o mortifichi, che ci getti nel più profondo dell’inferno o ce ne ritiri, questo è affar suo e dipende dalla sua mano; a noi non rimane che di sopportare in pace, adorando la sua volontà, i suoi giudizi e i suoi disegni, abbandonandoci completamente al suo beneplacito. In secondo luogo, siamo peccatori; in questa qualità, dobbiamo subire gli effetti della giustizia di Dio e del suo corruccio. Tutti i castighi che Egli manda in questo mondo sono un nulla in confronto di ciò che abbiamo meritato, e di ciò che ci farebbe soffrire, se non si degnasse di usarci misericordia trattandoci in questa vita con dolcezza e clemenza. Ricordiamoci dei castighi con cui Dio ha colpito i peccatori, come vediamo nella Scrittura: riflettiamo ai tormenti dei dannati. alle pene che i demoni per un solo peccato soffrono e soffriranno eternamente; con questi pensieri sopporteremo non soltanto con pace, ma anche con gioia, tutti i nostri patimenti, per quanto possano essere grandi. Infatti, che cosa v’è nell’Inferno che a noi non sia dovuto? Quali supplizi vi sono laggiù che non abbiamo meritato? Anzi abbiamo meritato mille volte di più, perché anche nell’Inferno Dio lascio ancora posto alla sua misericordia, e di questa siamo indegni. Non deve forse questo pensiero indurci a sopportare con pazienza qualsiasi pena o tribolazione di questa vita, tanto più che Nostro Signore dichiara che tali afflizioni sono segni del suo amore per noi. Quelli che amo, li riprendo e li castigo (Apoc. III, 19). –  In terzo luogo, siamo Cristiani; in questa qualità, dobbiamo esser disposti a soffrir molto. A questo fine appunto siamo stati introdotti nella Chiesa, poiché Nostro Signore non ci ha accolti come Cristiani nella sua Chiesa, se non per prolungare sulla terra la sua propria vita. Ora. Qual è stata la vita di Gesù Cristo, se non una vita di condanna della carne? Perciò, Gesù Cristo deve umiliare e assoggettare in noi la carne, seguendo quelle vie che Egli sa e giudica più utili per esserne completamente vittorioso. Ha incominciato a riportarne la vittoria nella sua propria carne, e vuole continuare a vincerla in noi medesimi, per manifestare in ciascuno di noi come un indizio e un saggio della vittoria universale che ne ha riportata nella sua Persona. La Chiesa ed i Cristiani, a confronto del mondo intero, non sono che un pugno di carne; tuttavia, Egli desidera di essere ancora vincitore della carne in essi, per manifestare la sua vittoria e dare prove sicure e splendenti del suo trionfo. Con questo sentimento, il Cristiano deve rimanere perfettamente fedele allo Spirito, ed abbandonarsi interamente a Lui per vincere la carne e distruggerla in tutto. Le occasioni non gli mancano in questa vita, perché deve sopportare gli assalti del mondo, il disprezzo, le calunnie, le persecuzioni cui viene fatto segno; poi le violenti rivolte della carne sempre ribelle; inoltre, le tentazioni che gli vengono dal demonio: e infine, quelle prove che vengono direttamente da Dio, come le aridità, l’abbandono, ed altre pene interiori, con cui Egli ci affligge allo scopo di aiutarci a crocifiggere interiormente la nostra carne.

***

I sacerdoti poi hanno un obbligo speciale di portar pazienza, perché devono possedere la perfezione del Cristianesimo; e questa non può stare senza la pazienza. La pazienza è un indizio che l’anima è intimamente unita a Dio e stabilita nella perfezione. Bisogna, infatti, che essa viva eminentemente in Dio, e sia da Lui pienamente posseduta, perché sopporti pene e tormenti con pace e tranquillità, ed anche vi trovi la gioia e la felicità del suo cuore. Bisogna che sia ben profondamente inabissata in Dio e che Dio se la tenga con tanta potenza e tanta forza, perché la carne non abbia la forza di trarla a sé e di farle accettare i propri sentimenti e le proprie ripugnanze verso le pene ed i patimenti. In tale stato. L’anima giunge alla massima perfezione cui possa elevarsi in questa vita, poiché essa è conforme a nostro Signore nella perfetta sottomissione che Egli praticò verso Dio nei suoi patimenti. Gesù Cristo, infatti, benché nella sua carne provasse somma ripugnanza per la croce, non ascoltò la carne né i desideri della carne, ma sempre visse in una perfetta conformità con la volontà del Padre suo. I sacerdoti adunque, essendo Cristiani perfetti, scelti in mezzo alla Chiesa per stare e servire davanti al Tabernacolo di Dio, devono essere attenti in un modo particolare a praticare questa virtù. È questo il loro carattere speciale, il contrassegno che li deve distinguere; la loro pazienza li disporrà a portare l’onorifica dignità di cui sono investiti e li farà riconoscere come servi e familiari di Dio. – Sacerdoti e Pastori devono possedere la pazienza in grado eminente; poiché, in Gesù Cristo e con Gesù Cristo sono sacerdoti, e vittime per i peccati del mondo. Gesù Cristo, il nostro Sommo Sacerdote, ha voluto essere la vittima del suo sacrificio e si è costituito Ostia per tutto il popolo. I sacerdoti sono come sacramenti e figure di Gesù Cristo. Gesù vive in essi per continuare il suo sacerdozio, e li riveste dei suoi propri sentimenti e delle sue disposizioni interiori del pari che del suo potere e della sua Persona, perciò vuole che siano stabilmente animati dallo spirito interiore e dalle disposizioni di Ostia per offrire e sopportare, per far penitenza, insomma, ed immolarsi alla gloria di Dio per la salvezza del popolo. – I sacerdoti non solo devono, ad imitazione di Nostro Signore, essere vittime per il peccato con la penitenza, con le persecuzioni e le pene interiori ed esterne, ma devono ancora essere vittime di olocausto; questa è la loro vocazione. Non basta quindi che soffrano, come Gesù Cristo, ogni sorta di pene, sia per i propri peccati, sia per i peccati del popolo dei quali portano il peso; devono inoltre essere, con Gesù Cristo perfettamente consumati interiormente nell’amore. Lo Spirito di amore dà forza e potenza per sopportare le pene e le afflizioni per quanto possano essere grandi; e siccome Egli è infinito, ci dà forza e potenza quanto è necessario per sopportare tutte quelle che ci possono capitare nella nostra vocazione. Tutti i tormenti del mondo non sono nulla per un cuore generoso che sia ripieno della virtù di un Dio che può portare sopra di sé mille e mille pene, molto più violente di tutte quelle con le quali il mondo e il demonio potrebbero affliggerci. S. Paolo alludeva appunto a questo spirito quando diceva: « Omnia possum in eo qui me corfortat, tutto io posso in Colui che è la mia forza » (Fil. IV, 13). Perché Dio abitava in lui, qualsiasi pena gli sembrava cosa da nulla. In questo medesimo Spirito eterno, immerso e onnipotente, il grande Apostolo chiamava momentanee e leggiere le sue tribolazioni: « Momentaneum et leve » (II, Cor. IV, 17). Perché Gesù le soffriva e le sopportava Lui, facendogli, con la sua presenza, vedere e sentire qualche cosa della sua eternità; perciò l’Apostolo considerava tutto il tempo di questa vita come un istante brevissimo. Così pure, Nostro Signore, col farci scoprire interiormente la sua potenza e la sua forza capace di portare mille mondi, ci fa riconoscere che il suo carico è leggero « Onus meum leve » (Matth. XI, 20). Talora Egli ci priva del sentimento sensibile del suo potente aiuto, affinché sentiamo il peso della tribolazione, nella debolezza della nastra carne e nell’infermità in cui l’anima nostra viene ridotta da tale privazione. Ma con questa specie di abbandono Egli vuole ottenere nelle anime nostre due grandi effetti. Il primo è d’ispirarci il disprezzo di noi medesimi e delle debolezze della carne: il secondo d’infonderci una grande stima di Dio e della sua forza, perché quando sentiamo la nostra debolezza, ci troviamo costretti, per necessità, a ricorrere a Dio e a stare in Lui. onde essere fortificati e sorretti per fare e soffrire a gloria sua tutto quanto gli piacerà.

LA VITA INTERIORE (20)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (20)

  • Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

LUCE DIFFUSA

L’AMORE PER DIO

L’AMORE PURO.

Dio è per noi il Padre più affettuoso. Tanto ci ha amato, e ci ama, che non esitò a permettere, e volere, il sacrificio del suo unico Figliuolo. Ci ha colmato di benefizi che non è possibile numerare. Ci ha perseguitato, e ci perseguita, col suo amore. Per noi ha creato il premio eterno e ci vuole salvi nell’eternità felice, in unione con lui. Dovremmo volere e sapere amarlo tanto non da riuscire a ricompensarlo, ché sarebbe impossibile, ma in modo da potergli dire: eccomi, o Signore, sono tutto tuo, e ti voglio amare ad ogni costo, per sempre, interamente e unicamente. Tu sei l’unico Amore, la sola Realtà. Poiché l’amor puro è l’amore di Dio interamente staccato è liberato dall’amor proprio, dovremmo sentirci tanto generosi da ripetere l’atto di amore puro espresso da santa Teresa: « Se io vi amo, o Signore, non è punto per il Cielo che mi avete promesso; se io temo di offendervi, non è neppure per l’inferno che avete minacciato: ciò che mi attrae verso di Voi, o mio Dio, siete Voi, Voi solo: è di vedervi inchiodato sulla croce col corpo straziato, nelle angosce della morte. E il vostro amore si è fatto così padrone del mio cuore che se anche non vi fosse il Cielo, io vi amerei ugualmente; quando anche non vi fosse l’inferno, io avrei timore di Voi. Nessun vostro dono può provocare il mio amore: perché anche non sperando ciò che spero, io vi amerei ugualmente come vi amo » (Storia di santa Teresa dei Bollandisti. Tomo II, cap. 31). Con questa espressione di amore non v’è in atto, nessun sentimento di speranza, né un desiderio di ricambio o di ricompensa; perciò così si ama Dio soltanto per il bene di lui stesso e non per il nostro. Se non che, questo è solo possibile, momentaneamente, cioè come atto transitorio. L’amore, cioè la carità, non può esistere nella nostra volontà se non come conseguenza della speranza. Non solo, dunque, noi dobbiamo cercare di amare Dio per sé, per le sue perfezioni, ma anche perché è il mostro vero bene; perché a Lui dobbiamo tendere continuamente, e in Lui dobbiamo vivere. Cioè: per la nostra unione con Lui!

ATTRAZIONE E SACRIFICIO GENEROSO DEL CUORE.

Trovo, in un libro (G. MAINETTI, Una educatrice nella luce di S. Giovanni Bosco. Torino – L.I.C.E.) molto interessante, riflessi di un’anima ardente di amore pel suo Dio, fino all’immolazione. Narra l’autrice: « È un mattino ardente di sole nel cielo puro e su la terra lussureggiante di vegetazione: 5 agosto: primo anniversario della vestizione religiosa di Madre Maria Mazzarello (ora Venerabile) e delle sue prime compagne. – 5 Agosto 1873. – Nelle mani del Fondatore S. Giovanni Bosco, la giovine discendente dei Conti Bellegarde de Saint Lary, depone il suo passato di speranze, di umiliazioni, di lotte, di patimenti, e anche di aspirazioni che non hanno più ragione di essere, nel suo cuore, per incominciare una nuova vita; fu una tappa, una sosta: ora bisogna riprendere il cammino scabro ancora, ma illuminato da un’altra luce, da un’altra speranza… Depone gli ornamenti del mondo, per rivestire quelli della vergine sposa di Dio. Suor Emilia Mosca è novizia. – Un anno dopo: 14 giugno 1874. – Fuori biondeggiano le spighe; luccicano i pampini sotto il bel sole che ricerca i grappoletti ancor verdi sui tralci; dentro la cappellina ornata a festa della bianca solitaria casa, otto giovani novizie pronunciano i sacri voti di povertà, castità, obbedienza: voti temporanei avanti alla Chiesa; perpetui nel sentimento, nel desiderio, nella volontà delle otto giovani suore. Li riceve don Bosco, il Fondatore santo. Poi la voce di lui si leva dolce e solenne nel trepido silenzio, a commentare il detto del divino Maestro: Nessuno che, dopo aver messo mano all’aratro, volga lo sguardo indietro, è atto per il Regno di Dio (Luca, IX, 62). – Una protesta si dipinge sui visi ombrati dal sacro velo; una protesta di fedeltà, per sempre). Per ogni anima, la vera letizia che non ha confine è questa: sentirsi figlia e sposa dell’Amore Divino!

LE STIGMATE DELL’AMORE.

La prova dell’amore è nel dolore serenamente accettato dalle mani di Dio: è nel compimento della sua santa volontà, qualunque essa sia, con tutte le nostre forze. Il dolore suol essere, sempre, la vera tempera dell’amore. L’amore per Gesù ha sostenuto i martiri e le vergini nel duro cimento. Parlo di Agnese, di Cecilia, di Sebastiano… L’amore per Gesù attrasse i giovani cuori a seguirlo generosamente nell’abbracciare la croce, e nel rinnegarsi; l’amore di Gesù fu luce e conforto inenarrabile, insuperabile alle anime desiderose di rivivere le sofferenze e la passione del maestro Divino. – Nella Messa di san Francesco d’Assisi v’è una sequenza molto bella che desidero qui ricordare (Cfr. il Messale Francescano; e OLGIATI, La pietà cristiana. Milano, 1935.): «La sequenza canta Francesco che, ritiratosi nella caverna di un monte, prega, proteso a terra, sino a che la serenità non sia concessa alla sua anima. Con la mortificazione egli riduce in tal modo il suo corpo, da non essere più se non l’ombra di sé; il suo cibo è la Scrittura; le cose della terra egli respinge con disdegno. Mentre in una profonda e silenziosa tristezza medita i misteri della Passione, un personaggio celeste, che porta i segni di Gesù Crocifisso, glieli imprime nella carne. Il suo corpo è piagato dalle sante stigmate; egli è ferito alle mani ed ai piedi e, trafitto nel lato destro, è tutto coperto di sangue». Ed ecco la mirabile dichiarazione: Non impressit hos natura, Non tortura mallei. Queste stigmate non gli furono fatte dalla natura; i chiodi non vi furono conficcati dal martello. Tutto è opera dell’amore… Dell’amore di Francesco per l’unico, vero, intero, perfetto Amore, per Gesù! – Ricordiamo ancora. Nel maggio 1920, Benedetto XV canonizzò undici suore Orsoline martiri della Rivoluzione Francese. Le vergini spose di Gesù, andarono al patibolo colla più grande gioia dello spirito per l’incontro, tanto bramato, dello sposo celeste. « Il Commissario della Rivoluzione le aveva condannate alla morte. Intorno al loro piccolo Crocifisso, avevano per tutta la notte implorato da Gesù la forza e la grazia per sostenere il martirio. Nelle loro anime la preghiera aveva portato la fortezza. E la più schietta e serena letizia splendeva sui loro volti. AI mattino furono condotte le sante vergini dinanzi ai loro carnefici, per venir trasportate al patibolo. Era costume che i condannati a morte dovessero essere spogliati di tutto: solo una tunica era ad essi lasciata. Ed i carnefici strapparono alle suore le sacre vesti, indossate nella primavera della vita, quando l’anima giovanile brilla d’amore verginale. Come vittime innocenti, esse non si opposero; ma tra le mani tenevano quasi un tesoro prezioso: la loro corona del santo Rosario. « Lasciateci la nostra corona », risposero ai carnefici che volevano strappare loro anche questo caro segno della loro pietà. « A che vi servirà un Rosario sopra il patibolo? », osservarono i carnefici. Anche il giudice rise; e diede ordine che venissero loro legate le mani e che i Rosari fossero posti sopra il loro capo, a formarne una corona. Le sante vergini ne furono contente… Andarono al martirio, collo stesso entusiasmo col quale, un giorno, dopo il noviziato, avevano offerto al Signore i loro voti solenni. Quando raggiunsero la ghigliottina, vollero baciare le mani dei carnefici, salutarono come trionfatrici la folla che assisteva commossa. Poste in fila onde ascendessero con ordine i gradini insanguinati del patibolo, era tanto il desiderio del martirio, che il boia dovette usare la sua forza, perché tutte volevano essere le prime a morire per Gesù, E mentre le anime delle sante eroine volavano in cielo a ricevere il premio della loro virtù, cadevano le loro teste, incoronate dal bell’emblema della Vergine del Rosario » (Cfr. OLGIATI, o. c., pag. 382-3). « NON VIVITUR IN AMORE NISI PER DOLOREM… » Sia benvenuto sempre il dolore: è la vera strada dell’amore. Solo così potremo ripetere con salda convinzione e totale aderenza l’espressione paolina: sovrabbondo di gioia nelle mie tribolazioni. Queste conducono all’Amore di Dio; l’amore di Dio ci porta all’unione con Dio!

L’abbandono, cioè l’amorosa sottomissione ai voleri di Dio, è condizione essenziale del vero progresso nell’Unione con Dio.

C. MARMION

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 13

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (13)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935 – Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 , F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VIII.

Della mortificazione

V.

Pratica della mortificazione

Esame, — Proponimenti: 1. rinunciare alla nostra vita propria, — imitando Gesù Cristo. — Vita di Dio in noi. — 2, lasciare piena libertà all’azione di Dio. — La mortificazione è la condizione della presenza di Dio in noi.

Dopo aver considerato i motivi che ci obbligano a praticare la mortificazione, ed essercene ben convinti, dobbiamo esaminare, con sentimento di confusione davanti a Dio, quanti anni abbiamo passati in una vita immortificata. Allora noi si viveva in noi stessi e secondo il nostro amor proprio, dolendoci per qualsiasi cosa che ci contrariava, né potendo soffrire cosa che fosse opposta alle nostre inclinazioni e ai nostri desideri naturali. Una tale condotta è in opposizione con esempio di Gesù Cristo nostro modello; Gesù non ha mai seguito le inclinazioni umane né i desideri naturali. Cristo non ha mai cercato di piacere a se stesso; Christus non sibi placuit (Rom. XV, 3). Quante volte ci siamo dati all’impazienza? Quanti desiderii di amor proprio abbiamo assecondati? Insomma, per quanti anni abbiamo vissuto non da Cristiani, ma da pagani, mentre l’unico principio della nostra condotta era la nostra soddisfazione e la nostra carne, né ci curavamo dello Spirito Santo che interiormente ci manifestava il nostro dovere e vi ci portava con efficace amore?

***

In seguito a questo esame, dobbiamo risolverci a fare due cose. La prima sarà di studiarci, per mezzo della meditazione, di rinunciare a noi stessi e a questa vita propria che è vita di condanna; di far quanto possiamo per resistere a quei desideri della carne che ad ogni momento nascono in noi, e per sopprimere i movimenti sregolati e disordinati della natura, la quale non è un principio di vita cristiana.

La vita cristiana proviene in noi dallo Spirito vivificante che Dio ci dà nel battesimo, nel quale  siamo fatti figliuoli di Dio, animati dalla sua medesima Vita, riempiti di una medesima sostanza, per cui dobbiamo, in tutto,  essere mossi e diretti da Lui. – Gesù Cristo sia in ciò il nostro modello: Egli, infatti, si lasciava perfettamente go.vernare dallo Spirito di Dio suo Padre; orbene, noi pure abbiamo il medesimo Spirito. Gesù Cristo non operava mai che secondo la luce del Padre suo: così noi non dobbiamo operare che secondo la fede, la quale è un’ammirabile partecipazione della medesima luce divina (1 Piet. II, 9). Gesù Cristo non operava mai che dietro la mozione dello Spirito divino; così noi dobbiamo nei nostri atti essere sempre mossi dalla carità che Egli infonde in noi perché sia il principio delle opere nostre. Gesù Cristo non operava che nella virtù dello Spirito divino, così non dobbiamo operare che nella forza di quel medesimo Spirito che abbiamo ricevuto nel battesimo e che ci venne comunicato in pienezza nella Confermazione. Questa vita cristiana, che procede dalle Spirito e dallo Spirito è animata, è la vita di cui Dio vive in se stesso e di cui vivono i Santi nel Cielo. Dio si compiace di comunicarci la sua vita nascosta (Vita vestra est abscondita cum Christo in Deo. Colos., II, 3); l’ha rinchiusa in noi in queste mondo, e la manifesterà nel giorno dell’eternità in cui farà vedere chiaramente quale era la perfezione, la santità, la sapienza, la carità e la forza con cui Egli operava in noi. E sarà questo uno degli oggetti della beatitudine dei Santi, nei quali Dio esporrà la bellezza e la ricchezza della sua vita (Col. III, 3). – Al contrario, uno dei più grandi e più sensibili tormenti dei reprobi sarà la maledizione delle opere della carne che essi vorrebbero tutte abolite e distrutte, per non portarne più la pena. Dio, tuttavia, ne darà continua visione a quei disgraziati, che vedranno con ispavento tutti gli effetti che la corruzione della carne avrà operati in essi in questa vita. – Per i miserabili dannati sarà spaventevole la visione degli orribili effetti delle opere della carne; in quel modo che per i beati sarà oltremodo deliziosa la vista delle opere dello Spirito. I Santi, infatti, saranno rapiti di gioia nel vedere la bellezza che sarà il frutto delle loro opere ela santità sureminente con la quale la Maestà di Dio avrà esercitata la sua azione nelle loro anime. – La seconda cosa cui dobbiamo risolverci è una immediata conseguenza della prima; e sarà di lasciare che Dio operi in noi e ci animi del suo Spirito in tutte le nostre opere, poiché Egli vuole essere in noi il principio di qualsiasi atto. O benedizione! O gioia! O inconcepibile felicità! che Dio voglia così vivere nella carne e animarla, perché essa compia opere degne dell’eternità, nelle quali Egli senza fine troverà la sua gloria.

***

Questi sono i due esercizi coi quali dobbiamo dar principio in noi alla vita interiore e divina: bisogna metterci con impegno a mortificarci; poi, essendo morti alla carne, procurare di vivere nello Spirito. Senza di ciò non faremo mai nulla; ogni altro esercizio non servirà che a rovinarci. Tutto il resto è come un unguento che inasprisce il nostro male e non lo guarisce, un palliativo e non un rimedio: Tutto è illusione e abuso, se non si lavora sopra questi principi. Bisogna quindi risolverci alla santa mortificazione per la virtù dello Spirito Santo; perché se avremo cura, per la sua divina virtù, di respingere i sentimenti e le suggestioni abominevoli della carne, noi vivremo, come dice S, Paolo, mentre se vivremo secondo l’impulso dei desiderii e delle suggestioni della carne, noi morremo (Rom. VIII, 13). Se saremo fedeli a mortificare la nostra carne nelle sue concupiscenze e nei suoi desideri, Dio si renderà presente in noi; Egli si unirà intimamente con noi; e maggiore sarà la nostra cura di mortificarci e di rinunciare a noi stessi anche nelle minime cose in cui la carne potrebbe ricercare sé medesima, maggiore sarà pure l’amore con cui Dio ci vivificherà e ci animerà. – Per giungere alla contemplazione non v’è via migliore della purificazione di noi medesimi, con la quale eliminiamo da noi tutto ciò che non è Dio, e rendiamo l’anima nostra pulita e pura come uno specchio nel quale quel sole che è Dio si compiace di imprimersi e tenersi presente. In questo consiste la vera vita dei Cristiani, essa è una partecipazione della vita medesima dei beati nella contemplazione della verità di Dio a loro sempre presente dovunque si trovino.

VI.

Considerazioni su l’immortificazione

Ingiuria al Padre. – a Gesù Cristo, – allo Spirito Santo. – Trionfo del demonio. – Disordine nell’uomo. – Confusione per voi; tristezza e rimorso per l’ora della morte. – Avvilimento dell’anima. – Equità della mortificazione.

1° Noi facciamo una speciale ingiuria all’Eterno Padre, quando rifiutiamo di privarci per la sua gloria del godimento d’un miserabile piacere, rimanendo insensibili sia alla considerazione della sua presenza, come all’autorità del uo comando, ed alla minaccia dei suoi castighi, insensibili persino alla promessa. dei torrenti immensi delle sue delizie che saranno il premio della mortificazione.

2° Quale confusione per il Figlio di Dio! Aver sofferto tanto per obbligarci a resistere ai nostri sensi, eppure, né il sentimento di tante grazie e di tanti doni che Egli ci ha meritati, né l’esempio che ci ha dato, né la forza che ci ha acquistata possono nulla sopra di noi! E da parte nostra quale disprezzo della vita, del sangue e della morte di Gesù Cristo!

3° Quale affronto per lo Spirito Santo! Egli risiede in noi per opprimere la carne nelle sue pretese, per stabilire il suo impero sopra l’assoggettamento dei nostri sensi, delle nostre passioni e di noi medesimi; eppure questa divina e augusta Persona, questo Dio vincitore di tutto il mondo, questo augusto Re di tutte le creature, si vede ridotto ad essere schiavo dei nostri sensi, assoggettato ad una passione, vinto dalla carne e troppo spesso rovesciato dal suo trono e scacciato dalla sua dimora!

4°Quale soggetto di superbia per il demonio, mentre esso nella creatura trionfa del Dio vivente, e vede assoggettati sotto i suoi piedi il Cristiano e insieme il suo Dio! Quale vergogna per noi che venga commesso, per mezzo nostro, un sì orribile attentato: un Dio schiavo sotto i piedi del demonio!

5° Quale disordine nell’uomo! Quale sconvolgimento nel suo essere! L’appetito inferiore che dovrebbe essere soggetto allo Spirito, ne è invece il padrone, e la carne è sovrapposta allo spirito; in una parola, il padrone in noi è divenuto lo schiavo. Dio ha tanto fatto per ristabilire per mezzo del suo Figlio l’ordine primitivo della nostra condizione, e noi d’un colpo rovesciamo i suoi meriti, il suo sangue, la sua grazia e tutta l’opera sua, tutti i disegni del Padre, tutte le fatiche del Figlio, tutti gli sforzi e le operazioni dello Spirito Santo.

6° Qual frutto riceviamo da un istante d’immortificazione, se non il rimorso nel cuore, la confusione che ci fa arrossire per la vergogna, ed infine la condanna eterna?

7° Il piacere è Passato, e la pena resta: il piacere è stato di brevissima durata, la soddisfazione è stata leggerissima, ma i disagi dureranno in eterno,

8° Quale tristezza per l’anima all’ora della morte, quando vedrà nel languore senza vita quelle membra con le quali avrebbe potuto acquistare gradi di gloria immortale, e si troverà invece, per colpa della sua immortificazione priva di speranza e priva di merito nelle sue opere!

9° Quale dispetto essa proverà pure in quell’ora contro se stessa, per essersi miseramente perduta in soddisfazioni di cui, sotto la luce di Dio, vedrà l’iniquità  e la viltà, soddisfazioni che non avranno più allora nulla di quelle ingannevoli attrattive, di quelle fallaci illusioni che la seducevano e l’immergevano nel peccato!

10° Quale gioia, al contrario, non sentirà allora l’anima che in questa vita sarà stata fedele e costante nella mortificazione! Quale gioia nel vedere le sue membra allora ormai inutili e senza vita, aspettare di vivere della vita gloriosa di un Dio risorto, il quale, con la sua vita di travagli e di pene, ha conquistato per i suoi membri afflitti e crocifissi con Lui, la pienezza della gioia e della beatitudine che dal Padre suo deve ricevere in essi, per aver sofferto ed essersi mortificato in essi!

11° Qual terrore nel vedersi presentata ad un giudice così esatto, giusto e rigoroso! Dio accoglierà l’anima con gradimento tanto maggiore quanto più essa avrà sofferto in questa vita; la castigherà invece con tanto maggior rigore quanto più essa sarà stata indulgente per sé stessa, quanto più per la propria soddisfazione avrà assecondato le voglie della carne e le suggestioni del demonio.

12° O’ anima cristiana, rifletti perché il tuo Dio ti ha creata e perché nella sua Misericordia ti ha rigenerata! Non già perché  vivesti nell’impurità e nell’immondezza della carne, ma perché t’innalzassi alla santità di Dio medesimo (1 Tess. IV, 7). La volontà di Dio Padre, nel riformarci secondo la sua propria immagine, è di farci santi come Lui (1 Tess. IV, 5). Dio è santo e vuole che i suoi figliuoli siano santi (1 Piet. I, 6). – Il Figlio suo, dice S, Paolo, è risuscitato a questo fine, affinché camminiamo in una vita nuova, vale a dire nella santità. Per questo pure ci ha dato il suo divino Spirito di santità: e per questo dimora in noi onde fare di noi i suoi templi e santificarci in tutto. Il suo disegno è di fare di tutti i Cristiani. nella sua Chiesa, altrettanti angeli, e come spiriti separati dalla carne per la santità (1 Cor. III, 17).

13° O anima! Che cosa fai tu? Che cosa sei divenuta? Dov’è la santità e la perfezione delle tue vie? Tu che eri così bella come la luna, eletta come il sole, immacolata per la grazia del battesimo! (Cant. VI, 9).

14° Che cosa ne è ora di quello splendore di Dio e dove mai sei ridotta? Sei diventata più nera dei carboni (Thren. IV, 8). Eccoti per causa della tua immortificazione e dell’aderenza alla carne, più nera del carbone, più sporca di uno straccio coperto di fango e di marcia: Quasi pannus menstruatæ (Isa. LXIV, 6).

15° Sorgi dal tuo avvilimento e dalla tua confusione: ritorna a Dio tuo Createre, fiduciosa che ti purificherà! Saresti anche più nera di un Etiope, egli ti renderà più bianca della neve. Invoca il Signore, nella sua bontà e nelle sue misericordie che sono maggiori della sua giustizia!

16° Mercè la confessione dei nostri peccati, preveniamo l’ira della sua giustizia: evitiamo le pene col punire noi medesimi, offrendo soddisfazioni per le nostre colpe e castigando la nostra carne per mezzo di quelle medesime cose nelle quali essa ha peccato. La soddisfazione in Gesù Cristo, la penitenza animata e vivificata dal suo spirito, vale tutto per un’anima che si è investita di Lui, che è pienamente animata dall’intenzione di piacere alla giustizia del Padre senza riserva e di fargli ammenda onorevole, mediante un puro sacrificio di amore, di buona e pura volontà!

17° Da ultimo, cosa può esservi mai di più potente contro l’immortificazione che il pensiero che siamo peccatori, e come tali non dobbiamo più ricevere nessuna gioia dalle creature? Queste non debbono più servire che a crocifiggerci e a castigarci, invece di rallegrarci e consolarci; anzi. Come delinquenti, dobbiamo crocifiggerci noi medesimi incessantemente e in tutto; perché la crocifissione è il supplizio che Dio istituito e consacrato per punire il peccato e farne giustizia – La crocifissione, è una pena universale che colpisce e fa soffrire tutta la carne; è la morte totale dei sensi e di tutto noi medesimi, e non solamente un supplizio che colpisca solamente qualche membro e produca la morte mediante qualche pena particolare.

LO SCUDO DELLA FEDE (200)

DIO GI LIBERI CHE SAPIENTI! CI VORREBBERO FAR PERDERE LA TESTA! (3)

PER Monsig. BELASIO

TORINO, 1878 – TIPOGRAFIA E LIBRERIA SALESIANA San Pier d’Arena – Nizza Marittima.

§1

Il principio di tutta l’ignoranza è la superbia di non voler credere in Dio. (PANTEISMO).

Spez. Eh, come le. ho detto, ridono di noi, che abbiamo un po’ di fede; e ci van dicendo: « Oh… ma noi non siamo i bimbi più da farci credere, come vogliono; noi abbiamo gli occhi aperti; e prima di credere vogliam conoscere, Veder bene e ragionare. »

Par. E voi togliete loro di bocca la parola, e dite pure ad essi:« Signorini belli, voi dite di non voler credere più niente; e intanto per sapere una qualche cosa, cominciate a credere sempre; e poi da buoni buoni pensate di conoscere da voi ciò che in prima avete creduto ad altri. Aspettate che ve lo farò capire. Senza credere, voi non potreste pur conoscervi chi siete; Ed in fatto, sapete voi di essere i tali, figliuoli dei tali signori genitori vostri?… E com’è che lo sapete? Lo. sapete solo, perché lo credete a chi ve l’ebbe detto. Se voi vorreste credere a quello solamente che toccate e conoscete, le vostre cognizioni si estenderebbero ben pochi metri intorno a voi. E com’è che voi sapete che vi è Parigi, Londra e financo le Americhe; che forse non vedrete mai? E sapete poi quello che si è fatto in secoli passati, e quello che si va ora facendo da voi lontano? Voi lo sapete, perché ve l’hanno detto; o lo leggete voi; dunque lo credete. Sicché voi che dite avere gli occhi aperti, cominciaste a credere alle vostre buone mamme, pazienza a quelle buone! Ad occhi chiusi credete poi ai maestri, ai professori, e quali!… e vi lasciate imporre da loro che vi si vendono per uomini grandi, e non son talvolta che ribaldi onorati! Poi finalmente, quando vi credete liberi di pensare a vostro nodo e vi date vanto di non lasciarvi infinocchiare, finite a credere ai compagni che vi si serrano ai panni, e vi lasciate menar da loro. Così credete nei libri ai morti, credete ai vivi, credete fino ai più tristi cialtroni e più indegni… oh che disgrazia! Solamente non vorreste credere a chi vi vuole un bene della vita per amore di Dio! Per me vi dico chiaro: è perché vi non pensate. Se vi fermate a pensare un poco; così intelligenti come siete, dovete credere per forza. Udite un fatterello che vi farà piacere. Fu, non è gran tempo, a Parigi un buon dotto avvocato, il sig. Guillelmin, il quale disse di ad un avvocatino che faceva pratica nel suo studio: « Signor Lacordaire, credete voi in Dio ed alla sua santa Religione? » Il giovane, pigliato così all’improvviso, alzò la testa, e lisciandosi i baffi con quell’aria che si danno gl’increduli, risponde: « Signor avvocato principale, io? … ma credo niente io. » E di ripicco il signor Guillelmin: « Ah! Non dite così, signor avvocatino, che avete tanto ingegno. Ché se fosse vero che voi non credeste proprio niente, sareste simile al can di casa e al ciuco dell’ortolano, i quali credono proprio nulla. Ma voi crederete almeno che. Siete qui … » –  L’avvocatino: «Oh! Si che io credo, perché io mi sento. » — « Bravo, credete voi poi anche che siete nato dai vostri buoni genitori, e che il vostro signor padre non si sarà fatto: da se stesso col temperino, né la vostra signora madre colla forbice, quando ancor non erano. Dovettero dunque i primi’ genitori essere stati formati dal Creatore. » — L’avvocatino piegò la fronte sulla mano per un istante; e disse, almeno allora sincero col proprio cuore: « Si!… se v’è il mondo creato, vi è certo il Creatore! » Vi pensò sopra… vi pensò bene; Lacordaire, che con un gran talento aveva un gran buon senso, converti; si fece celebre predicatore per far pensare agli altri a convertirsi.. E noi, buoni amici miei, e noi se non crediamo a Dio?…

Spez. Oh buon signor parroco mio, il ciel mi guardi ch’io ricordi Dio a questi tali! Non vogliono neppur sentirlo a nominare!… E mi van dicendo con un fare altero: « E che bisogno v’è di credere Dio, mentre noi sappiamo come il mondo fu formato senza Lui!

Par. Ricordatevi, mio buon amico, che con chi è matto non si ragiona. Piuttosto rispondete sorridendo: Ma che grandi teste, voi che la sapete così lunga! Però io vi voglio raccontarne una fresca fresca. Questa mattina io mi trovava davanti alla Stazione. Ed ecco là venirmi innanzi la macchina a vapore che sbuffava come un gran superbo, e tronfia della sua potenza si tirava appresso sopra le rotaie un gran numero di carri, e veran sopra uomini e bestie e tante cose d’altro. Mentre io la contemplava come in un vero incanto, e diceva meco: quanto fu potente d’ingegno e di mano l’uomo che ha congegnato un così bell’ordigno che va tanto bene! Allora mi si balza innanzi un grullone di stordito, e senza complimenti dice: « Oh! se siete voi ancora bene di quei tempi!… che non sapete che quella macchina non è stata fatta da nessuno! Io sì che ho la testa fina, ed ho scoperto come si è fatto tutto. Tutte quelle cose che vi son là dentro, erano sparse per la terra e dentro le viscere de’ monti, ed aspettavano le circostanze, come dice un gran libro d’un sapiente che, oh! è cima di dotti, il dottor Buchner. Allora il rame colla propria forza. cominciò a saltar fuori, e corse a lui incontro anche lo stagno, e fecer lega, però senza pensarvi, per diventar più forti, e diventaron così bronzo bell’e fatto. Allora anche il ferro volle colar giù fuor dai duri macigni; e bronzo e ferro, l’uno diventar bei pezzi; e l’altro lunghe spranghe. Si assottigliarono quindi in varie guise e diventarono ruote e, mostrando fuori i denti corsero ad ingranarsi nelle scanalature. Avreste allor veduto in mezzo a loro congegnati insieme saltare una caldaia piena d’acqua, e il vivo fuoco dire « sono qui io » e sotto, a riscaldarla. E l’acqua via in furia tutta in vapore, e nello scappar fuori spinger lo stantuffo che incontra, in tal maniera tutte queste cose per caso si trovaron d’accordo e fanno andar là tutto così bene. — Ma che? To’ che voi, signori, non credete a me che vi possa esser stato tale un matto? Eppure non siete voi che mi avete detto che vi fu un signor tale, il quale con un suo libro in mano vi venne a dire in robon da professore, e proprio in una città che voi qui conoscete, con una serietà da far ridere le telline che la sua scienza non ammette più il Creatore, che formò quest’immenso universo; ch’egli è venuto a scoprir bene che il mondo si formò da sé. Poi egli dice con tutta l’autorità che si ha da sé pigliato « se voi volete esser scienziati, dovete credere a quel che diciam noi: cioè che tutto è solo materia, e che in prima erano atomi, granellini come l’aria, ma più fini ancora, e per parlar più chiaro, un gran polverio senza fine, che gira gira, e in lui suoi granelli in confusione, precipitando gli uni sopra gli altri seppero formar da loro le stelle, il sole e questa terra, e soprappiù le piante in esse e gli animali, e poi e poi… fino noi così grandi uomini che. siamo, creati bell’e fatti da quel polverio!;;. « Oh! oh! esclama qui Voltaire, che pur fu uno dei loro, lasciate quel meschino di pazzerello che disse che una macchina non è fatta da un macchinista, come un orologio si facesse da sé senza orologiaio; lasciatelo pur fuori del manicomio, e chiudete, sarebbe meglio, dentro questi pazzeroni da catena che si dicono sapienti!

Spez. DIO CI LIBERI ! CHE SAPIENTI!… CI VORREBBERO FAR PERDERE LA TESTA!

Ma io vorrei sapere loro chiaramente dimostrare che non è vero che vi sian sempre stati gli atomi di quel nebbione, cioè che la materia di cui son composte queste cose della terra tutta, (giacché dicono che tutto é materia,) non è vero che sia eterna.

Par. Voi potrete ‘dimostrarlo facilmente assai. Cominciate a dir loro che se tutto è materia, e la materia è sempre stata eternamente, sarà dunque eternamente quale eternamente fu; perché non vi fu prima un Creatore che nel crearla l’abbia fatta in quella forma, e né vi fu altri mai che la cambiasse in altra forma. Ma voi vedete che la materia è li come cosa morta, e si può dire indifferente a pigliare quella forma che alcuno voglia e possa darle. La creta, per esempio, è li ferma sotto i piedi, ed il vasaio se l’impasta a modo suo, poi la fa muovere sul torno, e diventa un vaso; la montagna di sasso è morta e ferma lì da quanti secoli, chi lo sa? ed uno la rompe dentro e piglia un pezzo, ne fa una ruota, e la fa girare sui perni; e la ruota gira, finché una forza non la fermi ancora. Voi poi saprete come chi forma una macchina per far muovere qualche cosa materiale, calcola ben per far la macchina la forza necessaria per far produrre il movimento. Vi è dunque il Creatore che creò la materia in quella forma, poi la compose in mille modi da formare tutte queste cose materiali, e colla forza sua fa tutto andare nel bell’ordine mondiale.

Spez. Eh!eh! Ma essi dicon subito che ogni granellino di materia ha la sua forza, e che non vi è materia che non abbia la sua forza unita; e che non v’è forza che non sia unita alla materia; la qual forza la fa muover sempre.

Par. Non lasciateli correr tanto colla lingua sguinzagliata; ma fermateli a farvi spiegare ciò che voglion dire colle parole loro. Se voi lor domandate: Ma che cosa è questa materia che voi vi date l’aria di conoscer così bene? Oh!… restan li a bocca aperta, e non vi sapranno dire mai che cosa sia la materia. Poi domandate loro similmente che cosa sia questa forza che fa mover la materia. Io ho letto tanti autori che ne parlano da sapienti e non san dirmi niente. Questo è certo che la materia e le forze sono cose ben diverse fra di loro; perocché la materia sta ferma, e la forza la fa muovere; la materia è pesante, e come sasso slanciata in aria cade e sta; ma la forza è senza peso, come quella che fe’ volare in aria il sasso; l’una è la cosa spinta, l’altra è quella che la spinge. Non è vero adunque che tutto sia solo materia! Ora dite ancora a loro: è poi vero, che le forze che fan muover le materiali cose, siano insieme colla materia sempre unite? No, per certo, perché io, per esempio, agito il braccio e faccio girare una ruota se si muove la ruota e il braccio mio che prima erano li quieti. Non era adunque in loro in prima la forza che li fa muovere adesso. No, per certo, non è vero che le cose materiali abbian sempre unita seco una forza: voi, per esempio, al giuoco. battete a colpo netto una palla di bigliardo contro un’altra, e la palla investita. E mossa dalla vostra forza colpisce l’altra; la prima sta, si muove l’altra: dunque la forza che faceva muovere la prima, passò via da lei, e fa muover la seconda, Conchiudete adunque che la forza è quella che fa cominciare un movimento: e fare un movimento vuol dire cominciar a muoversi da un luogo per andare ad un altro luogo: e se le stelle, il sole, la terra e tutto si muove, v’è dunque il Creatore che cominciò a dar la forza di far muovere tutto.

Spez. Ma li avreste da udire come dicono essi di sapere che gli atomi di quel lor nebbione erano là già preparati e stavano tutti ad aspettare le circostanze, per discendere a far ciascuno la sua parte.

Par. To’ che costoro la sanno proprio lunga! Ma giacché corsero indietro colla fantasia. a vedere in sul principio gli atomi in quel nebbione, pregateli di far un passo ancora più in su, per sapere poi dire a noi chi li avesse là preparati e lavorati così bene da farli andare d’accordo insieme, per poi formare tante belle cose, Abbiamo poco fa detto che era matto chi diceva che la bella macchina a vapore non fu fatta da un bravo macchinista; or dite loro che vi accompagnino col pensiero in un gran laboratorio, in cui si fabbricano le macchine. Oh se vedeste tutto là ben preparato; tante ruote e spranghe e molle e piuoli, e quei denti in quelle ruote e quelle incavature e tanti altri oggetti con bel lavorio così ben finiti, che pare aspettino li di esser congegnati insieme! Certo che fu il bravo macchinista che formò ogni minuta cosa pel fine a cui la destinava. Or domandate loro se gli atomi in quel loro gran polverio erano già così bene preparati, chi li ebbe così ben preparati da poter unirsi insieme e formare le stelle, il sole, la terra e far andar in ordine quest’ammiranda immensa macchina dell’universo?

Spez. Ma la materia e la forza vanno così. ben regolate da leggi con lor eterne, dicon essi.

Par. Guardate mo’ come sono bricconi gl’increduli! di soppiatto ti metton dentro tutti gli intingoli per fare dalla buona gente ingollare il mal boccone senza che si accorga del veleno!… Dopo di aver sognato a fantasia la materia e le forze che la fanno muovere; ti metton dentro una cosettina che vien bene a far passare il tutto. Essa è solo una parolina, aggiuntavi, le leggi; ed il mondo deve andar bello e creato, Ma voi da bravo, fermate sulle lor lingue la parola leggi: e prima di lasciarla metter dentro, domandate loro che cosa intendono per leggi. La legge è ordine dato da chi comanda per far fare da altri quel che egli vuole. Ora se vi son leggi che fanno andare la materia e la forza non unite insieme a fare tutto così bene, vi deve essere il Legislatore Iddio che fa loro eseguire quello che vuole Egli. Che se non è Dio, qual sarà il legislatore?

Spez. Oh vel dicon subito: è la natura; e che gli atomi sono tali per natura, che le forze sono unite loro. per natura, e che le leggi che le regolano sono leggi di natura.

Par. Quanto debbon esser costoro fortunati di conoscere essi questa gran natura. Eh eh, che deve avere una forza immensa per poter raccogliere e chi sa dove? Tutto quello sterminato polverio di atomi, e preparare tanto materiale da comporre. le stelle, il sole, così grandi che in paragone di loro questa nostra terra, la quale con tutti i monti e mari e tutte cose in essa è pur grossetta alquanto, pure nuota come perduta nel vano sconfinato del firmamento! Bisogna proprio dire che la natura è onnipotente… Eh che testa dovette avere questa lor natura! Figuratevi! Mentre tutti i chimici, macchinisti con tutti i loro filosofi, professori sapientissimi vanno disperati di non avere ancora potuto nonché formare un pelo di animaluzzo o  una fogliolina d’erba, neppur un granellino di sabbia; ed ecco da questa natura che seppe inventare le piante cui mente d’uomo non avrebbe mai potuto immaginare se non fossero; e seppe congegnare quei fili e costoline e quelle vene, e nelle foglie e nelle radici quelle piccolissime boccucce! da ‘assorbirsi gli alimenti, e colorir le foglie e fare brillanti i fiori così belli. Ma questa natura le sapeva tutte! Fino sa far gli organi dei sensi agli animali, e metter dentro loro cuore e cervello e nervi e tante’altre meraviglie che il sapiente studia, studia e non finisce mai di ammirare!… Ed essa, la natura, pensa a tutto nel far tutto. Figuriamoci quanto dovette pensare nella sua sapienza solo a formar l’occhio nostro. Ella dovette dire: « voglio dar questo strumento od organo della vista per vedere le cose in mezzo a cui uno si trova. Ebbene lo metterò in alto all’uomo. Egli ha da camminare; ed io gli metterò 1’occhio innanzi sulla fronte; egli ha da guardare tutto intorno; ed io glielo farò rotondo. Per vedere ha da ricevere la luce dentro; ed io glielo farò trasparente come il vetro; ma per far che l’uomo veda, ha da ricevere dentro le immaginette delle cose; ed io gli metterò le palpebre per tenere la pupilla lucida come uno specchio, e metterlo poi anco sotto un velo per farlo riposare; ma la luce potrebbe esser troppo viva di abbruciare la vista; ed io metterò i peli delle ciglia a respingerla se punge troppo: ma poi sempre in moto a guardare qua e là si dovrà pel calorico diventar infuocato; ma io gli metterò d’intorno un po’ di acqua con cui si possa tenere sempre fresco…» Oh uomo, oh uomo, e tu non dici mai neppur un grazie! or pensa che quel che si dice dell’occhio, si è da dire di tutte le più minute parti del corpo umano!… Ed avrà fatto tutto la natura?…. Oh se bisogna dire che questa che dicono natura è sapientissima davvero! Al veder poi come colle sue leggi fa andar tutto in ordine il dì, la notte, le stagioni, e fa dalle piante e dagli animali produrre sempre novelle piante è sempre altri animali, e così provvede a tutto, bisogna dire per poco di ragione che si abbia, che questa che dicono natura è provvidentissima natura… Ma che!… ma che!… Una natura che fu sempre onnipotente, sapientissima, provvidentissima !.. Ah bravi, bravi… Gli cambiano il nome, ma vogliono dire Iddio. Ve l’ho detto che per necessità bisogna creder in Dio. Anche quando strillano di non voler credere in Dio, e perfidiano in negare il suo Nome; pur confessano di crederlo in realtà.

Spez. Ma no, signore, essi non dicono mica che la natura sia una gran persona; ma dicono che tutta insieme questa gran faraggine di materia, di forze e di leggi che forman l’universo, è la natura stessa.

Par. Oh! come ragionano da sapienti questi vostri signori! Udite adunque ciò che vengono essi a dire. In prima: che la natura è quella che formò e fa andare in ordine tutte le cose insieme; poi dicono, che tutte le cose insieme formano la natura: dunque, secondo essi, la natura creò la natura stessa. Però noi non abbiam poi da perdere più tanto tempo per rispondere a loro che parlano; e sanno anch’essi di non credere a quel che dicono. Diremo tutto in breve chiaramente. Ascoltate: La questione tra noi e i signori della bottega in fine si riduce a questo: che noi crediamo che Dio Eterno, Onnipotente e Sapientissimo creò il mondo e lo sostiene in ordine colla sua Provvidenza; e quei signori di bottega voglion dire che il mondo fu formato in un gran nebbione dalla materia, dalle forze e dalle leggi che giravano alla cieca sempre intorno furibonde, come tre orbi che fanno a bastonate. Ma, almeno almeno, questi tre orbi avessero avuto un lumicino di ragione; ché allora essi avrebbero potuto aggiustarsi tra loro certi colpi per benino. Signori, no; tra quei tre orbi, dicono i grandi sapienti, di ragione non v’era un briciolo; ma andavano là, come van sempre ancora, senza saper dove vanno; in tentativi infiniti, senza tentare di fare mai niente. Così quei muti, ciechi e senza cognizione, senza volere mai far niente; han fatto e cielo e terra e tutte piante ed animali, fino noi medesimi. Ma si può dire una più matta cosa?…

Spez.. Ha, ragione, signor parroco; ma che vuole? Son tutti nella … foia di negare che vi sia Dio!… Ah! vorrei io un po’ sapere perché hanno quel fuoco addosso!

Par. Ah! veramente mi fa male il cuore a dire perché hanno, la smania di negare Dio! Se lo sapessero i vostri amici signori della conversazione, che poi in fondo sono ancor buoni, ne resterebbero spaventati! È un orrore a dirlo: vi son di uomini così perdutamente guasti, che vorrebbero che Dio non fosse. Il pensiero di Dio benedetto Creatore è come un grande spettro che mette loro paura; e smaniano per toglierselo dinanzi dalla mente. Per loro la sola propria persona è come il dio, a cui piace loro tutto sacrificare. Non sapete che si dicono risoluti, anzi già pronti ad ammazzar tutti che non han la voglia di farsi pecore per loro? E perché non si dica che noi li calunniamo, dirovvi che vi son di loro tali così orrendamente audaci che lo stamparono in faccia al sole de’ nostri di. Udite le parole di un di loro (Marr): « Distruggiamo la fede in Dio, facciam la guerra ad ogni idea di religione… l’individuo co’ suoi appetiti e colle sue passioni, ecco il vero Dio. E poi muoia il popolo, muoia l’Allemagna, muoian tutte le nazioni; sbarazzato da tutti i fantasmi (di religione) l’uomo ricuperi la sua indipendenza » (Revue des deux mondes, an. 1850, pag. 208).

Spez. Basta, basta ; mi fan venir il freddo addosso al solo udirli. Ma se costoro arrivassero proprio a far creder al mondo che non vi è Dio, che potrebbero fare allora gli uomini?

Par. Eh! Ammazzarsi gli uni cogli altri, quando credessero convenisse all’interesse loro. E non vel dico io, ma è un grand’empio della lor compagnia, Rousseau, il quale disse: « Io non vorrei aver un servo, il quale non credesse  in Dio: perché se gli facessero gola i miei danari, studiato modo di farla franca, una qualche notte — mi pianterebbe un coltello nel cuore tranquillamente; perché dagli uomini avrebbe ben pensato come mettersi al sicuro, a Dio poi non crede. » Così gli uomini che son creati per formare una famiglia di fratelli da aiutarsi l’un coll’altro, diverrebbero una società di tigri, di leoni e di iene! Ditelo per carità ai vostri amici: che si guardino da questi che si vantano sapienti e si dicono filantropi innamorati dei popoli.

DIO CI LIBERI!… CHE SAPIENTI! CI VORREBBERO FAR PERDERE LA TESTA! CHE FILANTROPI! FAN L’AMORE AI POPOLI CO’ DENTI!…

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 12

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (12)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VIII.

Della mortificazione

II.

Secondo motivo della mortificazione

È dovere di giustizia crocifiggere la carne, — perché ha servito al peccato. Perché è nemica mortale di Dio.

Il secondo motivo che ci obbliga a mortificarci è il dovere di far penitenza. Come le nostre membra hanno servito all’iniquità, dice S. Paolo, così devono servire alla giustizia (Rom. VI, 19). Nostro Signore vuole troviamo il nostro castigo in quelle medesime cose per le quali abbiamo peccato. Bisogna dunque che le nostre membra, perché nell’offesa di Dio hanno cercato la propria soddisfazione, siano crocifisse e punite; bisogna siano mortificate e come hanno servito all’ingiustizia e all’iniquità, noi le facciamo servire alla giustizia. Ora noi le facciamo servire alla giustizia, non solamente nell’adoperarle negli esercizi di pietà ché sono opere di giustizia perché per mezzo di esse si adempiono i doveri verso Dio; ma le faremo servire alla giustizia di Dio, col far loro sentire giusti effetti della divina vendetta. Bisogna che Dio punisca in noi le nostre membra, e così queste servano alla giustizia: se Dio non lo fa, dobbiamo noi metterci al suo posto e animarci del suo zelo contro di nei; bisogna che diventiamo strumenti del suo Spirito per esercitare sopra di noi la sua giustizia; bisogna che rendiamo partito per Lui contro noi medesimi e che per conto suo facciamo guerra a noi stessi, poiché sappiamo che Egli non è contento di noi, eppure non si è preso soddisfazione e vendetta per le nostre offese. – Dobbiamo dunque con un santo zelo ed un generoso coraggio castigarci noi medesimi, alzando il braccio contro di noi come contro una persona estranea, perché, infatti, apparteniamo a Dio più che a noi stessi e dobbiamo curarci dell’interesse di Dio più che di ogni nostro interesse proprio. Dio è tutto per noi, e a confronto Lui noi non siamo nulla. Dobbiamo perciò dimenticare per così dire, abbandonare la nostra persona e battere sopra di noi come sopra un morto o sopra un estraneo. Così fa il vero penitente che esercita sopra di sé la mortificazione con ispirito di vera penitenza.

***

 Altro pensiero che ci impone la mortificazione è la considerazione della nostra carne quale trovasi in sé stessa, nella sua maledizione e nella sua ribellione contro Dio; in quanto è tale, noi dobbiamo mortificarla in tutto e in ogni modo, armandoci contro di essa come contro un mortale nemico di Dio. La carne in sé stessa è interamente contraria a Dio e, in tale qualità, va castigata; essa è come un forzato, uno schiavo ribelle che, malgrado il suo delitto, non lascia punto di rivoltarsi ogni era; così essa con la forza e la violenza va tenuta soggetta al suo padrone. Adamo, per dare l’esempio alla sua posterità, passò la sua vita nella penitenza: il Signore lo lasciò novecento anni sulla terra, appunto per insegnare a tutti i di lui figliuoli che ne continuano la vita, che essi pure, mentre vivono sulla terra esuli dal Cielo, devono incessantemente far penitenza come sempre fece Adamo finché stette sulla terra. I Cristiani, come figliuoli di Gesù Cristo, continuano la vita santa di Gesù per la virtù del suo Santo Spirito. Così i figliuoli di Adamo devono parimente continuare la vita penitente del loro primo Padre. I Cristiani sono l’espressione di Gesù Cristo e il prolungamento della sua vita; così i figli di Adamo devono ancor essi essere l’espressione di Adamo e la dilatazione della sua vita nello stato di penitenza. Sono dunque obbligati a castigare le prorie colpe come Adamo ha castigato la sua.

III.

Terzo motivo di mortificazione.

La religione esige il sacrificio.

Il terzo motivo nasce dalla religione la quale ci porta sempre al sacrificio di noi medesimi e quindi alla mortificazione. Quando desideriamo di prenderci qualche diletto secondo la carne, quando siamo tentati di dar gusto ai nostri sensi interni o esterni, oppure di accontentare qualcuna delle nostre facoltà anche spirituali, come sarebbe la nostra volontà con qualche vana soddisfazione o la nostra mente con qualche curiosità o qualche studio inutile, dobbiamo, in ispirito di religione e di sacrificio, mortificare tutti questi desideri dell’amor proprio, distruggerli e soffocarli. Questo si chiama propriamente sacrificare, perché così, per la gloria di Dio, sì distrugge, si immola, si uccide, si soffoca l’appetito naturale, il quale è pur cosa reale e vera, perché è cosa sensibile ed effettiva, tanto più sensibile quanto più realmente è in noi, essendo una parte di noi stessi. Nulla è più crudele e rigoroso della religione; essa immola tutto, uccide tutto e non risparmia nulla; essa ha in mano quella spada che il nostro Maestro Gesù è venuto ad apportare sulla terra: Non veni pacem mittere sed gladium. Non sono venuto ad apportare la pace, ma la spada: (Matth. X, 24). La mortificazione è raffigurata pure dalla spada di Ezechiele (Ez. V, 1) che quel santo Profeta ogni tanto passava tra i peli della sua barba, per indicare che bisogna mortificare i desideri superflui della carne che non sono altro che rifiuti e una corruzione della nostra natura. – I sacrifizi sanguinosi dell’antica legge erano un’altra figura della crudeltà che dobbiamo avere in fatto di religione; questa non deve risparmiare nulla, ma tutto sacrificare a Dio. Così fecero i Leviti, come si riferisce nell’Esodo (Es. XXXII, 27-29), che sacrificarono a Dio e immolarono i loro figliuoli, i loro fratelli e i loro amici per ispirito di religione e di grande riverenza verso Dio, davanti al quale consideravano ogni creatura come niente, né potevano soffrir nulla che a Lui procurasse dispiacere. Da tale spirito di religione devono essere animati i Cristiani; quindi distruggere e mortificare ogni corruzione della propria carne, tutto quanto hanno di proprio, tutto quanto vi è in essa di superfluo, in una parola, sacrificare tutto quanto non è rigenerato da Gesù Cristo.

IV.

Quarto motivo della mortificazione

La santità, cui tutti siamo chiamati, specialmente i Sacerdoti, esige distacco da ogni cosa creata, anche dalle tenerezze spirituali. — La comunione spirituale a Dio.

Quarto motivo che ci obbliga alla mortificazione, la santità con cui dobbiamo vivere nell’anima con Dio, nel distacco da ogni creatura. In Dio, la santità lo tiene applicato a Lui stesso e separato da tutto l’essere creato; lo stesso effetto essa suole operare in tutti i Cristiani, perché sono consacrati a Dio per il battesimo e perciò da S. Paolo chiamati col nome di Santi (1 Cor. I, 2; Efes., I, 1). Ché se tutti i Cristiani devono essere santi e distaccati da tutto, i sacerdoti ne hanno un obbligo più particolare, perché ad essi principalmente Dio rivolge queste parole: Siate santi perché io sono santo (Lev. XI, 44), siate distaccati da tutto perché io sono separato da tutto. – I sacerdoti, che offrono a Dio i pani e l’incenso, dovranno essere santi per il loro Dio (Lev. XXI, 6), vale a dire, saranno distaccati da tutto e dedicati a Dio solo. Egli merita questo omaggio, ma di più lo esige la sua grande santità; Dio, essendo la santità per essenza, non può sopportar nulla che non sia secondo la sua volontà. Egli vuole che i sacerdoti, perché lo avvicinano, siano consumati in Lui dal suo Spirito, affinché nulla che sia impuro si avvicini a Lui e che, in tal modo, anche quando è unito al sacerdote Egli rimanga sempre santo e separato da tutto. – La santità separa l’anima da ogni creatura; le impedisce di effondersi nella creatura e riporvi i suoi affetti; la obbliga a ritirarsi in Dio senza più cercar nulla fuori di Lui. La santità è così di una austerità eminente e di una severità oltremodo rigorosa perché non tollera la minima effusione dell’anima in ciò che non è Dio. La santità non tollera neppure che l’anima cerchi la sua soddisfazione in certe tenerezze verso Dio, perché questi sentimenti e questi gusti spirituali non sono Dio; e l’anima perdendosi in queste tenerezze si prenderebbe diletto e soddisfazione in ciò che non è Dio. Quando sia stabilita nella santità perfetta, l’anima rimane unita a Dio puramente con la fede; non si perde in nulla, né si ferma a nulla, non cerca altro che Dio e sì conserva distaccata persino dai doni di Dio, perché questi non sono Dio, il quale è puro, santo e separato da tutto. – Non già che non dobbiamo usare dei suoi doni per andare a Lui, ma essi non debbono essere che la via per giungere a Lui; non dobbiamo esservi menomamente attaccati; dobbiamo tendere unicamente al possesso di Dio solo. Se vi ci attacchiamo, tra Dio e noi v’è qualche cosa che gl’impedisce di unirsi interamente a noi. Ben poche sono le anime che non sì rivolgano alle creature per cercare in esse qualche soddisfazione (Omnes declinaverunt. Ps. XIII,3). Poche sono quelle che appena si accorgono di qualche attacco alle creature, hanno cura di ritirarsi nel loro interiore per entrare in Dio e rimanere perfettamente uniti a Lui. Eppure ci vuole grande fedeltà in questo punto, perché non bisogna mai soffrire che l’anima riponga le sue affezioni in nessuna creatura. Donde avviene che le persone sante, le quali sono puramente intente in Dio e interamente ritirate in Lui, non si compiacciono mai in soddisfazioni naturali, neppure nelle relazioni con le persone care; essendoché Dio, nel quale la loro anima è ritirata, non lo permette; e siccome esse hanno rinunciato ad ogni sentimento naturale e che il fondo della loro anima tutto occupato di Dio e a Lui intimamente unito, non si perdono nel cercare soddisfazioni fuori di Lui. – Ché se l’anima incomincia a distogliersi da tale distacco santo e divino, se incomincia ad effondersi nelle creature, essa tanto meno resta unita a Dio; inoltre perde la sua forza e il suo vigore, diventa vana e dissipata, effusa fuori di sé come l’acqua versata su la terra asciutta (Ps. XXI, 15). Quindi non bisogna soltanto aver cura di distaccare l’anima, come abbiamo detto, dalle cose sensuali e materiali, ma anche dalle cose spirituali; vale a dire dalle dolcezze, dalle consolazioni e dalle altre grazie sensibili alle quali l’anima facilmente si attacca. Essa ama questi doni, li cerca, quasi sempre li desidera, non avvertendo che questi doni non sono Dio più che le altre cose; vi si attacca e perde la sua santità in modo tanto reale, benché non così interamente, come se si attaccasse a cose più materiali. L’anima, per l’uso e il gusto di queste cose spirituali, diventa lorda e impura, debole, incostante e leggera; se non istà ben attenta, arriverà ad una intera opposizione con la santità di Dio. – Il disegno di Dio è di richiamare tutte queste cose all’unità; perciò, Egli vuole che tutte le creature, le quali in se stesse sono diffuse e moltiplicate, servano però all’uomo perché si unisca a Lui solo. Epperò Egli vuole che, se l’anima nostra e i nostri sensi vengano attirati da oggetti che ci piacciono, subito noi ce ne distogliamo per rivolgere a Lui il nostro cuore, dicendogli: voi siete il mio mondo, la mia gloria, il mio tesoro e il mio tutto. – Così nel Cielo, i Santi inabissati in Dio, in Lui trovano tutto, né più sono tentati dalle cose basse e spregevoli della terra. Siccome Dio contiene ogni cosa in eminenza ed Egli è tutto per essenza; siccome Dio in sé e nella sua somma perfezione include tutte le imperfette perfezioni disseminate e diffuse nelle creature, i Santi in Dio possiedono perfettamente intenti, senza che nulla di profano, né alcuna inclinazione terrena li renda impuri, o sia di impedimento alla loro santità. – Ciò che ci rende terreni e ci impedisce di essere santi, è l’amore e l’attacco alla creatura. Perciò, se vogliamo essere santi, dobbiamo aver cura, all’aspetto di qualsiasi creatura, di ritirarci in Dio, perché non ve n’è neppure una che non tenda a distaccarsi da Dio per attirarci a sé stessa. Perciò, sono convinto che è cosa importantissima proporci esercizi giornalieri, che nelle varie circostanze della vita ci servano a tenerci distaccati da Ogni cosa, per portarci a Dio, rifugiarci in Lui e così vivere in intima unione di amore con Lui: Chi sta nella carità sta in Dio, e Dio in lui (Qui manet in charitate, in Deo manet, ed Deus in eo. – Joan. IV, 16).

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L’unione di carità mette Dio in noi e noi in Dio. Come la Comunione sacramentale mette Gesù Cristo in noi e noi in Gesù Cristo, così la Comunione a Dio per amore, benché spirituale, è tuttavia reale; essa ci mette realmente in Dio e mette pure realmente Dio in noi; dimodoché diventiamo un medesimo spirito con Lui: Chi mangia la mia carne, e beve il mio sangue sta in me, ed io sto in lui (Joan. VI, 59). È  questo l’alimento continuo, il pane quotidiano di cui dobbiamo incessantemente nutrirci; è la mammella cui dobbiamo ricorrere senza posa per essere mantenuti nella vita divina. La Comunione spirituale a Dio e la Comunione sacramentale sono le due mammelle di cui dice la Scrittura che sono migliori del vino più delizioso (Cant. I, 1). – Dio, col suo divino Spirito che è una di quelle mammelle con cui nutre la sua Chiesa, fa come quelle nutrici, che talvolta gettano del latte sulle labbra del bambino perché si porti al seno dove troverà abbondante nutrimento. In tal modo, quel divino Spirito, ornando il mondo delle proprie bellezze (Spiritus ejus ornavit cælos – Job. XXVI, 18) presenta agli occhi nostri i beni e gli oggetti piacevoli di questa vita, perché ci ricordiamo della loro fonte che è in Lui e perché a questa fonte ricorriamo con amore per il nostro spirituale alimento: e questo si fa col legarci a Lui per amore, col ritirarci in Lui quando a noi si presentano le creature. Le cose di questo mondo non sono create perché in esse noi troviamo la nostra soddisfazione, ma per avvertirci che nello Spirito di Dio troveremo cose più sante e più pure, di cui potremo godere in Lui senza imperfezione.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 13

LA VITA INTERIORE (19)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (19)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

LUCE DIFFUSA

LA DEVOZIONE AL CUORE SS. DI GESÙ

MOTIVO DI CONFORTO.

Non sono molti anni che, al solo sentir parlare di devozione al Cuore SS. di Gesù, si vedeva qualche sorrisetto tra gli ascoltatori o, magari, rannuvolarsi qualche volto, a seconda dei casi. Per gli uni, la devozione al S. Cuore era… una leggerezza; per gli altri, almeno una divozione inutile, un duplicato, un surrogato, una pietistica dimostrazione di coscienze sviate. Ora, per grazia di Dio, non è più così. Gli è un grande conforto il vedere, specialmente nel pomeriggio precedente il primo venerdì d’ogni mese, i confessionali nelle chiese assiepati di anime generose e desiderose di potersi presentare al banchetto eucaristico, in omaggio ai desideri che il Cuore SS. di Gesù volle, ripetutamente, manifestare. Come per la pratica del primo venerdì, così per le altre pratiche desiderate e suggerite da Gesù, la devozione al Suo Cuore Sacratissimo prese un vasto, profondo, intenso svolgimento.

IL SIGNIFICATO DI QUESTA DEVOZIONE

«Il Cuore di Gesù — riferisce santa Margherita (Mons. Lfeon Gautey, Vie et oeuvres de la B. Marguerite Marie, Parigi, 1935) — mi fece comprendere che questa devozione era come un ultimo sforzo del suo amore, che voleva favorire gli uomini in questi ultimi secoli di questa redenzione amorosa, per sottrarli all’impero di Satana che Egli voleva rovinare e collocarci sotto la dolce libertà del suo amore, che desiderava stabilire nel cuore di tutti quelli che volessero abbracciare questa devozione ». « Mi sembra che il gran desiderio di Nostro Signore, che nel suo Sacro Cuore sia onorato con qualche omaggio particolare, abbia lo scopo di rinnovare nelle anime gli effetti della sua redenzione, facendo di questo Sacro Cuore come un secondo mediatore tra Dio e gli uomini, i peccati dei quali si sono talmente moltiplicati, che è necessaria tutta l’estensione del suo potere per ottenere loro misericordia ». – « La devozione del suo Sacro Cuore contiene tesori incomprensibili, che Egli vuole siano riversati su tutti i cuori di buona volontà, perché questo è un ultimo sforzo dell’amore del Signore verso i peccatori, per condurli a penitenza e dar loro abbondantemente le sue grazie efficaci e santificanti per ottenere la loro salvezza ». « Questo Cuore divino è il tesoro del cielo, che ci è stato dato… come l’ultima scoperta del suo amore». Mediante la devozione al suo Cuore, Egli vuole acquistarsi « un numero infinito di servi fedeli, perfetti amici e di figli interamente devoti ». « I tesori di benedizioni e di grazie che questo Sacro Cuore racchiude, sono infiniti; io non so se vi sia nella vita spirituale alcun altro esercizio di devozione, che sia più atto ad elevare in poco tempo un’anima alla più alta perfezione, e a farle gustare le vere dolcezze che si trovano nel servizio di Gesù Cristo. Sì, lo dico con tutta sicurezza; se si sapesse quanto sia gradita a Gesù Cristo questa devozione, non vi sarebbe alcun Cristiano, per quanto poco amasse questo amabile Salvatore, che non là porrebbe subito in pratica ». – « Le anime religiose ritrarranno da essa tanti aiuti, che non sarà necessario altro mezzo per ristabilire il fervore primitivo e la più esatta regolarità nelle Comunità meno osservanti, per condurre all’apice della perfezione quelle che vivono nella più grande osservanza). « Quanto alle persone secolari, esse troveranno, per mezzo di questa amabile devozione, tutti gli aiuti necessari al loro stato, cioè, la pace nelle loro famiglie, il sollievo nei loro travagli, le benedizioni del cielo su tutte le loro imprese, la consolazione nelle loro miserie; ed è proprio in questo Sacro Cuore che esse troveranno un luogo di rifugio durante tutta la loro vita e principalmente neil’ora de!la morte. Ah! Come è dolce morire dopo avere avuto una tenera e costante devozione al Sacro Cuore di Gesù Cristo! ».  – « Il mio divino Maestro mi ha fatto conoscere che quelli che lavorano per la salvezza delle anime, lavoreranno con successo, e conosceranno l’arte di commuovere i cuori più induriti, se avranno una tenera devozione al suo Sacro Cuore, e si sforzeranno d’ispirarla e stabilirla ovunque ». « Infine. è evidente sotto ogni aspetto che non v’ha persona al mondo, la quale non riceverebbe ogni sorta di aiuti celesti, se avesse per Gesù Cristo un amore veramente fedele, quale è quello che gli si manifesta con la devozione al Suo Sacro Cuore ».

ECCO QUEL CUORE! UNA NUOVA VIA.

Vero è che, fin dal 1281, Gesù affidò alla religiosa benedettina Geltrude la missione di far conoscere le meraviglie della bontà e della misericordia del suo Cuore per la gloria del Padre celeste e la salvezza delle anime. Ma fu solo nel 1675 che, dal campo mistico riserbato dov’era rimasto, eredità di pochissime anime d’eccezione, il tesoro rivelato a santa Geltrude venne, nuovamente e incondizionatamente, manifestato a tutti gli uomini, per mezzo di santa Margherita, come reazione al movimento pseudoriformistico protestante e al giansenismo glaciale e mortifero, che dilagavano, atrofizzando ogni più santa espressione di spirituale elevazione. È in quel tempo che Gesù fece sentire la sua dolorosa constatazione: Ecco quel Cuore che tanto ha amato gli uomini e dai quali è stato così poco riamato. Fu allora che il Sacro Cuore suggerì una nuova via « la quale se ben si osserva, presenta queste tre note caratteristiche (Mons. F. OLGIATI, La pietà cristiana. Milano, 1935, pag. 135):

I. La conquista e l’universalità del suo Regno. « Contro l’impero di satana, Gesù vuol stabilire il suo regno d’amore». Non, adunque, una devozione tra le altre, ma una battaglia che deve estendersi a tutto il mondo per il trionfo del regno individuale e sociale di Cristo. La Madre Maria del Divin Cuore, nella sua lettera a Leone XIII, perché all’inizio del secolo vigesimo consacrasse al Cuore di Cristo tutto il mondo, dice: « Egli farà risplendere una nuova luce sul mondo intero…». Con lo splendore di questa luce i popoli e le nazioni saranno illuminati e col suo ardore riscaldati ». Ed ogni volta che si scorrono i documenti pontifici a proposito del Sacro Cuore, come ad es., la Miserentissimus Redemptor di Pio XI, rifioriscono sulle labbra, senza volerlo, — come giustamente scrive il P. Alcaniz — i passi numerosissimi in cui i Libri Sacri descrivono l’impero del Messia: « E dominerà da un mare all’altro, e dal fiume (Giordano o Eufrate) sino all’estremità della terra » (Salmo LXXI). « E si ricorderanno e si convertiranno al Signore tutti i confini della terra e si umilieranno avanti a Lui tutte le famiglie delle genti » (Salmo XXI).

2. La dedizione nostra. – Nelle grandi rivelazioni, l’attuazione del primo punto programmatico — la guerra a satana ed il trionfo di Cristo — è congiunta con la consacrazione dell’anima, che vuol seguire il vessillo del S. Cuore. Non per nulla, commenta ancora il P. Alcaniz, nella storia di tale devozione troviamo ad essa unita sempre l’idea di consacrazione: « Consacrazione del genere umano fatta da Leone XIII, e comandata si rinnovasse tutti gli anni da Pio XI; consacrazione di nazioni, provincie, municipii e consigli comunali; di diocesi e di parrocchie: di ordini religiosi, comunità, famiglie, officine; consacrazione frequentissima di individui ». Ed anche qui non materializziamo le iniziative dello spirito. La consacrazione non è solo una formula, una funzione, una festa: ma consiste nel mettere tutto a disposizione del Cuore di Gesù, le nostre energie, le nostre cose, le famiglie e i popoli; consiste, per dirla con santa Margherita Maria, nel « fare al suo Cuore un intero sacrificio di se stessi e di tutto ciò che da noi dipende », nell’affidare a Lui la nostra anima, la nostra libertà, il nostro corpo, le nostre attività, i nostri interessi, sicuri e fidenti nella sua parola: « Abbi tu cura del mio Cuore e delle mie cose; ed il mio Cuore avrà cura di te e delle tue ». Dire consacrazione è dire riparazione di chi non può restare freddo ed indifferente dinanzi al Dio del suo cuore, che viene oltraggiato, sputacchiato e crocifisso; è dire apostolato nelle sue varie forme: dall’apostolato della preghiera all’apostolato dell’azione; dall’apostolato che consiste nell’adempimento dei propri doveri, individuali, famigliari e sociali, e perciò del buon esempio, all’apostolato della sofferenza; dal lavoro per procurare al Sacro Cuore «tutta la gloria, l’amore, la lode che sarà in nostro potere », all’offerta di sè come vittime, desiderose «di sacrificarsi come un’ostia di immolazione al S. Cuore per il compimento dei suoi disegni ». Un unico ideale deve tormentare il nostro animo: non respirare — come del P. De La Colombière riferisce santa Margherita — se non per far amare, onorare, e glorificare il Cuore di Cristo e poter dire col santo gesuita: « Il mio cuore è insensibile a tutto, fuorché agli interessi di questo divin Cuore… ».

3. «Finalmente, all’idea dell’universalità del regno e della dedizione nostra alla battaglia conquistatrice, si unisce l’idea dell’amore. Cristo vuol vincere il mondo col suo Cuore. Egli sceglierà ad apostoli della devozione, due anime che sanno amare: l’una, Margherita Maria nel convento della Visitazione, la quale rappresenta l’amore che prega silenziosamente e si immola; l’altro, il P. De La Colombière, un figlio di una Compagnia che sa cos’è l’amore, che combatte e che con Ignazio di Loyola, ne’ suoi Esercizi, addita il Regno di Cristo ed invita alla contemplatio ad amorem. Non era amore il pecca fortifer et crede firmiter di Lutero; non cantava l’amore l’Augustinus di Giansenio; non conosceval’amore il gelido ed astratto intellettualismo razionalistico ed illuministico. La più grande forza del mondo — è stato detto — è il cuore. Sì, è vero: è il Cuore di un Dio umanato che ci spiega Betlemme, il Cenacolo ed il Golgota, e che ad una società dimentica degli abissi del suo Amore infinito si presenta col suo Cuore in mano,sussurrando con voce irresistibile: Ecco il Cuore che ha tanto amato gli uomini…”?.Ogni pratica, in onore del S. Cuore, ha questo speciale colorito dell’Amore. Se Gesù in un venerdì fisserà la festa del Suo Cuore, è perché il venerdì è il giorno dell’Amore,nel quale dal costato trafitto il Suo Cuore ha lanciato ai secoli il suo grido ineffabile;se chiederà Comunioni, specie nel primo venerdì del mese, è perché non si può scindere il Sacramento dell’Amore dal Cuore che l’ha istituito e che freme nascosto sotto i candidi veli; se la devozione al S. Cuore domanderà riparazioni, immolazioni,sacrifici, è perché l’Amore non è amato, e perché sia riconosciuto quel Cuore da cui viene la nostra salute. Agli individui,alle famiglie che a lui si consacrano, alle nazioni che a Lui si volgono, il S. Cuore non parla se non di Amore. Il mondo sarà vinto dall’Amore e solo mediante l’Amore. E le braccia stese in croce dal Re dell’amore stringeranno l’avvenire, che si avanza verso il suo Cuore» (Cfr. OLGIATI, 0. c., pag. 138-9).

IL FINE DELLA DEVOZIONE AL SACRO CUORE: VIVERE CON GESÙ.

Il fine della devozione al Sacro Cuore, dopo quanto abbiamo detto, non può essere se non questo: attingere, da questo Cuore SS. la sacra influenza della grazia e dell’amore per vivere della stessa sua vita; sentire la gioia di riprodurre in noi i suoi sentimenti e le sue opere per raggiungere il frutto della salvezza eterna, in noi e nelle anime che avvicineremo; l’intima adesione del cuore nostro al Cuore di Gesù Amore, e per avere l’immedesimazione assoluta della nostra vita con la sua. Un dotto gesuita, il P. Giuseppe Petazzi, in un aureo opuscolo su l’apostolato della preghiera e la devozione al S. Cuore (Cavarzere, 1926. Cfr. OLGIATI, 0. c.), scrive: « Meditando attentamente gli scritti della discepola eletta del Cuore SS. Di Gesù, santa Margherita Maria, noi vediamo che il culto al Cuore SS. di Gesù tende tutto a far sì che noi ricopiamo in noi stessi l’interiore di Gesù. Ed è naturale: la devozione ad un Cuore non può propriamente risiedere se non nel cuore; la devozione ad un Cuore divino deve tendere a divinizzare per virtù d’amore i nostri cuori trasformandoli in quel Cuore divino. Dobbiamo far nostri i suoi sentimenti, far nostra la sua vita. In mille modi Nostro Signore manifestò alla Santa questo suo disegno: in mille modi la fedele discepola ce lo comunicò. Riassumendo e compendiando quei preziosi divini insegnamenti, ci sembra di poter dire che la devozione al Sacro Cuore, come fu da Gesù stesso insegnata, si riduce alla pratica della vita interiore, vita eminentemente e intensamente soprannaturale, vita di immolazione, vita di riparazione, vita di apostolato; col che non intendiamo propriamente di indicare cose diverse, ma piuttosto di segnare e sottolineare i caratteri propri di una vita trasformata, per virtù d’amore, nell’interiore vita di Gesù». La devozione al Cuore di Gesù così intesa, ci guida a comprendere la dottrina del Corpo mistico di Gesù ch’è luminosa, profonda, centrale nella vita cristiana. Intendere questa dottrina vuol dire capire tutto il Cristianesimo, tutta la sua multiforme attività che, pure, si esprime in una mirabile unità. La varietà dell’unità è, del resto, la legge fondamentale dell’universo, tanto che vi fu chi nello studio del nucleo cellulare ha ritrovato Dio e nell’immensamente piccolo ha adorato l’Infinito. – Così Gesù, nella conoscenza e bontà del suo Cuore, ci guida alla unione con Dio, alla pratica della vita interiore.

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