LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (7)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (7)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle MissioniROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

PARTE PRIMA

Gesù vivente in noi per comunicarci la sua vita

CAPITOLO II.

La nostra partecipazione alla vita divina

ART. III. — IL NOSTRO ORGANISMO SOPRANNATURALE.

L’ospite divino che abita l’anima nostra, non vi dimora solo per ricevervi le nostre adorazioni e i nostri ossequi, ma vuole anche darsi a noi e innalzarci a Lui. Dio è vita e fonte di vita: « In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini » (Giov. I, 4). Ora, per innalzarci a Lui, Dio vuole comunicarci una partecipazione della sua vita divina. Ma, deboli creature quali siamo, in che modo potremo noi ricevere questa partecipazione della vita di Dio? È evidente che nol potremo se non quando piaccia alla sua bontà di compiere e perfezionare l’anima nostra dotandola di un organismo soprannaturale di molto superiore a quello che possono esigere le creature anche le più perfette; e questo appunto Egli fa venendo ad abitare in noi. Come uomini, abbiamo già per natura una vita intellettuale che ci fa capaci di conoscer la verità e di amarla; ma è conoscenza imperfetta, acquistata con molta fatica, per via di riflessione, di analisi, di ragionamento, di lunga serie di induzioni e di deduzioni, ov’è facile che rimaniamo ingannati. È questa la vita che Dio trasforma: senza toglierci nulla di ciò che abbiamo di buono, inserisce in noi un organismo soprannaturale perfetto.

1° Nella sostanza stessa dell’anima nostra Dio infonde la grazia abituale, che fa in noi l’ufficio di principio vitale soprannaturale, ci rende simili ma non eguali a Dio, e ci prepara, sebbene remotamente, a conoscer Dio come Egli conosce se stesso e ad amarlo come Egli stesso si ama.

2° Da questa grazia abituale o santificante procedono le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo, che rendono soprannaturali le nostre facoltà naturali, e ci danno l’immediato potere di fare atti meritori della vita eterna.

3° A mettere in moto queste facoltà ci concede le grazie attuali, che ci illuminano l’intelletto, ci fortificano la volontà, ci infondono energie superiori di molto alle nostre forze, onde veniamo abilitati a compiere atti che si possono chiamare deiformi. Non sono infatti atti puramente umani, ma atti che, pure essendo nostri, sono anche di Dio; perché Dio vuole veramente essere nostro collaboratore e operare in noi il volere e il fare (Fil. II, 13). Ora, notiamolo bene fin da principio, la vita della grazia, sebbene distinta dalla vita naturale, non è già che le si sovrapponga, ma la penetra tutta, la trasforma, la eleva e la rende deiforme, vale a dire simile alla vita di Dio. Si assimila tutto ciò che è di buono nella nostra natura, nell’educazione, nelle abitudini acquisite; perfeziona tutti questi elementi e li rende soprannaturali, piegandoli verso Dio, il Dio unitrino, che un giorno contempleremo in cielo faccia a faccia, come Egli contempla se stesso, e l’’ameremo come Egli stesso si ama. Intanto lo possediamo già sulla terra per mezzo della fede e dell’amore, in modo molto inferiore alla visione beatifica, ma molto superiore alla conoscenza naturale che abbiamo per mezzo della ragione. È un punto che ha bisogno di più minuta spiegazione.

L’ufficio della grazia abituale.

Per innalzarci a sé, Dio ci inserisce innanzi tutto nella sostanza dell’anima un principio soprannaturale o deiforme che si chiama grazia abituale. È una grazia, cioè un dono essenzialmente gratuito, ossia tale che nessuna creatura può pretenderlo, né l’uomo né l’Angelo anche il più perfetto. È anche una grazia perché ci rende graziosi, ossia accetti agli occhi di Dio, e fa di noi un luogo di delizie ov’Ei gode di riposare. È una grazia abituale, ossia un modo di essere, uno stato dell’anima che viene quindi detto stato di grazia. È dunque una qualità inerente all’anima nostra, che la trasforma e molto la innalza al di sopra di tutti gli esseri creati anche i più perfetti. È una qualità per sé permanente, nel senso che rimane in noi finché non la cacciamo dall’anima con un peccato mortale commesso volontariamente. Ora questa qualità inerente all’anima nostra, che penetra nel più intimo della nostra sostanza, che si imprime nel più segreto delle nostre anime, ci rende simili a Dio o deiformi.

.A) La grazia abituale ci rende infatti, secondo la bella e vigorosa espressione di san Pietro (II Ep. di S. Pietro, I, 4), partecipi della divina natura; ci mette, come dice san Paolo (II Ep. Cor., XII, 13), in comunione collo Spirito Santo; ci fa entrare, come aggiunge san Giovanni (I Giov. I, 3), in società col Padre e col Figlio. Ma è mai possibile? Ma è proprio vero che per la grazia noi siamo, a così dire, della famiglia di Dio? Sì, risponde san Paolo (Efes. II, 19): « Voi non siete più stranieri, né ospiti, ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio ». Ed è, del resto, una conseguenza dell’essere noi per la grazia figli adottivi di Dio, come abbiamo già provato. Quale sublime dignità è mai la nostra! e quanto ne dobbiamo ringraziare Dio per tutta la vita e per tutta l’eternità!  A schivare ogni esagerazione, notiamo bene che la vita della grazia non è una vita identica ma simile alla vita di Dio; che non ci fa uguali a Dio ma deiformi, ossia simili a Dio, atti a conoscerlo come Egli conosce se stesso e ad amarlo come Egli stesso si ama. Con queste dichiarazioni, noi evitiamo ogni pericolo di panteismo e possiamo intendere meglio in qual senso partecipiamo alla vita divina.

B) La vita propria di Dio è di veder direttamente se stesso e di amarsi infinitamente essendo Egli infinitamente amabile. Ora nessuna creatura, per quanto perfetta, può da sé stessa contemplare la divina essenza che abita una luce inaccessibile a ogni creatura (Tim. VI, 16). L’uomo poi non percepisce Dio, con le sue facoltà naturali, se non in un modo indiretto, con una serie di ragionamenti, partendo dalle creature per arrivare al Creatore. Ma Dio, con un privilegio interamente gratuito, chiama l’uomo a contemplarlo a faccia a faccia nel cielo così come Dio contempla se stesso, non già nello stesso grado perché noi rimaniamo sempre esseri finiti, ma nello stesso modo, direttamente, senza ragionamenti, senza cose frapposte. Tale è il senso di quella parola di san Paolo (I Ep. Cor., XIII, 12.13) « Vediamo ora per lo specchio (cioè per cose frapposte), in enigma (cioè in modo oscuro), ma allora faccia a faccia; ora conosco in parte, ma allora conoscerò appieno in quel modo che sono conosciuto io ». È questo pure il pensiero di san Giovanni (I S. Giov., III, 2) quando dice: « Noi siamo ora figli di Dio e non si è ancora manifestato quel che saremo: sappiamo che, quando si manifesterà, saremo simili a lui, perché  lo vedremo com’è ». Ora veder Dio quale è, vederlo come Egli vede se stesso, senza immagine, senza nube, senza cose frapposte, è diventar simili a Dio nella sua vita intellettuale; è partecipare, in modo finito ma reale, alla vita stessa di Dio; è conoscerlo come Egli conosce se stesso e amarlo come Egli stesso si ama. Che fine sublime è mai il nostro! che inebriante letizia il veder Dio così com’è, e vedere in Lui tutto ciò che ci può in qualche modo interessare! Ma soprattutto quale felicità l’amarlo come Egli stesso si ama, amarlo senza divisione, senza riserve, senza timore di perderlo, e godere così della sua presenza e del suo amore per tutta l’eternità! Oh! non c’è qui di che appagare tutte le brame nostre più ambiziose, tutte le più profonde nostre aspirazioni, tutta la nostra insaziabile sete di conoscere e di amare? Ora, riteniamolo bene, la grazia abituale è in sostanza della stessa natura della gloria del cielo: è, come dicono i Padri e i Teologi, un pregustamento della beatitudine celeste, l’aurora della visione beatifica, la gemma che contiene il fiore, benché questo debba sbocciar più tardi. La grazia ci fa dunque partecipare, sebbene in modo meno perfetto, alla natura e alla vita di Dio.

C) Vediamo di scrutar la cosa più a fondo. In cielo vedremo Dio; sulla terra comunichiamo già col suo pensiero per mezzo della fede. Quando io credo al mistero della santissima Trinità, non è già la mia ragione naturale che me ne manifesta la esistenza e la natura, è la fede, vale a dire una luce divina che Dio si degna di comunicare al mio intelletto. Colla ragione io conosco l’esistenza e l’unità di Dio. Ma Dio, dopo aver parlato agli uomini per bocca dei profeti, volle benignamente inviarci suo Figlio, che ci rivelò gli arcani della vita divina. In virtù della irrefragabile testimonianza di Colui che da tutta l’eternità vive nel seno del Padre, io credo che Dio è un Dio vivente, uno nella natura ma trino nelle Persone. Credo che la prima Persona, cioè il Padre, genera da tutta l’eternità un Figlio in tutto e per tutto uguale a Lui, un Figlio che è la viva e sostanziale sua immagine, lo splendore della sua gloria, il suo Verbo, l’intimo sussistente suo pensiero. Il Padre ama il Figlio come se stesso e ne è infinitamente riamato. Da questo mutuo amore sorge una terza Persona, lo Spirito Santo, mutuo vincolo del Padre e del Figlio, Amore sostanziale che verrà a diffondere nelle anime nostre la divina carità. Tutte queste verità che io credo restano certamente misteriose; ma pure ci rivelano l’interiore vita di Dio e ci fanno quindi partecipare alla conoscenza che Dio ha di se stesso. Il nostro amore per Lui ne prende mirabile aumento: Dio non è più per noi un Dio freddo ed astratto, è un Dio vivente, un Dio amante, il quale, pur bastando pienamente a se stesso, si abbassa a noi, si dà a noi, vive ed opera in noi. È un padre, è un amico, è un collaboratore; e il nostro cuore si slancia amorosamente verso di Lui, di una cosa sola dolente, di non poterlo amare quanto si merita. – È dunque verissimo che per mezzo della fede e della carità cominciamo già a conoscere Dio come Dio conosce se stesso e ad amarlo come Dio stesso si ama, sebbene in grado molto inferiore; e che a questo modo diventiamo partecipi della vita di Dio.

D) Ma non è partecipazione sostanziale, è partecipazione accidentale, che si distingue quindi dall’unione ipostatica del Verbo con la natura umana, Il Verbo si unisce alla natura umana con unione sostanziale, di guisa che la natura divina e la natura umana, pur rimanendo perfettamente distinte, non formano che una persona sola che è la Persona del Verbo. Avviene altrimenti dell’unione prodotta dalla grazia tra Dio e noi: quest’unione è certamente unione realissima, ma non è sostanziale, serbando noi la nostra personalità. Quindi la vita divina, che è sostanzialmente in Dio, ci viene comunicata accidentalmente, sotto forma di divina somiglianza impressa nell’anima nostra: « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza » (Gen. I, 26).

E) A intendere meglio questa misteriosa partecipazione alla vita di Dio, i Padri e gli autori spirituali ricorsero a diversi paragoni, tutti imperfetti, ma di cui ognuno serve per aiutarci a cogliere qualcuno degli aspetti di questa consolante verità.

a) L’anima nostra, dicono, è un’immagine, una somiglianza della santissima Trinità, una specie di ritratto in miniatura che lo Spirito Santo viene a dipingere in noi, imprimendo se stesso nell’anima come sopra una molle cera: « Lo Spirito Santo, dice S. Cirillo 2 Thesaurus, Assert., 34), non fa come un pittore comune che dipingesse in noi la divinità senza ben conoscerla e senza appartenere a lei… ma, essendo Dio e procedendo da Dio, imprime se stesso nel cuore di coloro che lo ricevono, vi s’imprime come sigillo sulla cera; e comunicandosi così a noi, ridipinge la nostra natura sul modello dell’ideale divino e ristabilisce nell’uomo l’immagine di Dio ». S. Ambrogio (In Hexaemeron, 1 VI c, 8) ne conclude che l’anima in istato di grazia è di una bellezza incantevole, perché l’artista che vi dipinge questa immagine è artista di prim’ordine, essendo Dio stesso. Altri paragonano l’anima a quei corpi riflettenti che, ricevendo la luce del sole, ne sono tutti investiti e brillano di incomparabile fulgore che diffondono tutt’intorno; così l’anima nostra, simile a un globo di cristallo illuminato dal sole, riceve la luce divina, risplende di vivo splendore e lo riflette sugli oggetti circostanti (S. Basil., De Spiritu Sancto, IX, 23 – S. Teresa, Cartello interiore, Prime mansioni).

b) Questa divina somiglianza non rimane alla superficie dell’anima ma la compenetra tutta. A spiegarla i Padri ricorsero alla seguente similitudine: come un ferro, posto in un braciere ardente, acquista subito il fulgore, il calore, la duttilità del fuoco, così l’anima nostra, immersa nella fornace dell’amor divino, si spoglia delle sue scorie e diviene risplendente, ardente d’amore e indocile alle divine ispirazioni della grazia.

c) Essendo vita la grazia abituale, i Padri adoperano un ultimo paragone per esprimere quest’idea. Paragonano la grazia a un innesto divino che, applicato sul tronco selvatico della nostra natura, le comunica vita e qualità nuove, onde viene abilitata a produrre frutti di specie molto superiore. Ma, come l’innesto non conferisce al tronco selvatico tutta la vita dell’albero onde fu preso, ma solo questa o quella delle vitali sue proprietà, così la grazia santificante non dà tutta la vita divina, ma solo una partecipazione a questa vita. – Sono paragoni che non spiegano certamente il mistero, ma ci danno una grande idea della grazia e ci aiutano a intendere la bella descrizione che ne fa il Catechismo del Concilio di Trento (Catech. Cone. Tr., P. II, de Baptismo, 86): « Questa grazia non consiste soltanto nella remissione dei peccati; ma è anche una qualità divina inerente all’anima, e come una luce il cui splendore, investendo le anime, ne cancella le macchie e comunica loro una fulgida bellezza ». Illustrano pure il concetto più filosofico che della grazia dà il P. Garigou-Lagrange (Perfection chrétienne et contemplation, T, 56). « La grazia è realmente e formalmente una partecipazione della natura divina, appunto in quanto è divina… una partecipazione della sua vita intima ». Or questa vita non può attuarsi senza corrispettive facoltà; e appunto di facoltà le virtù infuse e i doni fanno ufficio nell’anima cristiana.

2° L’ufficio delle virtù infuse e dei doni.

Nell’ordine naturale abbiamo bisogno di facoltà per operare: conosciamo il vero coll’intelletto e tendiamo al bene colla volontà. Ma queste facoltà, lasciate a se stesse, non potrebbero far mai atti soprannaturali e meritorii della vita eterna. Occorreva quindi un elemento nuovo per innalzare, per soprannaturalizzare, per divinizzare, a così dire, le nostre facoltà naturali e farle capaci di produrre atti deiformi, corrispondenti alla vita divina che ci veniva comunicata. Questo nuovo elemento si ha nel complesso delle virtù e dei doni soprannaturali che la liberalità divina generosamente ci largisce nel momento stesso che riceviamo la grazia abituale. Il Catechismo del Concilio di Trento (Catech. Conc. Trid., de Baptismo, 42). amorosamente descrive il glorioso corteggio delle virtù infuse che accompagna la grazia; e il Papa Leone XIII (Encicl. Divinum illud munus, 9 maggio 1897) aggiunge che, a rendere perfetta la nostra vita spirituale, occorrono pure i sette doni dello Spirito Santo.

A) La cosa riuscirà più chiara, spiegata che avremo la differenza che corre tra le virtù e i doni. È differenza che sorge dalla diversità delle operazioni divine nell’anima. Dio, dice san Tommaso (Liber Sent., III, dist. XXXIV, q. I, a. I), può colla sua grazia operare in noi in due modi: o coll’adattarsi al nostro modo umano di operare, aiutandoci, per esempio, a riflettere, a ricercare i mezzi migliori per conseguire il nostro scopo, secondo le ordinarie regole della prudenza; oppure coll’operar nell’anima nostra direttamente, da se stesso, in modo superiore al nostro modo umano, guidandoci per mezzo di istinti divini ai quali a noi non resta che acconsentire. Nel primo caso operiamo sotto l’influsso delle virtù, e siamo più attivi che passivi; nel secondo, operiamo sotto l’influsso dei doni e siamo più passivi che attivi. Chi volesse un paragone, potremmo dire che nel primo caso navighiamo coi remi, e nel secondo colla vela ottenendo con sforzo minore migliore effetto. Coi doni facciamo pure atti eroici, perché l’azione dello Spirito Santo si associa più efficacemente alla nostra. Possiamo con questi doni giungere alla contemplazione, perché, sotto l’azione e l’impero dello Spirito Santo, siamo mossi e maneggiati da Lui e riceviamo dalla sua liberalità luce ed amore.

B) Vediamo praticamente che cosa sono le principali virtù e che cosa vi aggiungono i doni. La fede ci fa entrare in comunicazione col pensiero divino, facendoci liberamente aderire alle verità che Dio si degnò di rivelarci. Ma i doni dell’intelligenza e della scienza perfezionano l’esercizio di questa virtù, il primo col farci penetrare più addentro nelle verità della fede a scoprirne le recondite armonie; il secondo coll’innalzarci dalle creature a Dio e col mostrarci in modo quasi sperimentale che Dio ne è il principio, la causa esemplare e il fine. La speranza rivolge a Dio i nostri desideri e le nostre aspirazioni e ci fa fiduciosamente aspettare la beatitudine del cielo e i mezzi per conseguirla. Il dono del timore filiale aumenta questo ardore col distaccarci dai falsi beni di quaggiù, che potrebbero ritardare le nostre ascensioni verso Dio. La carità ci fa amar Dio come infinitamente buono in se stesso e stabilisce tra Lui e noi una santa amicizia. Il dono della sapienza aumenta quest’amore per Dio col farcene sperimentalmente assaporare l’amabilità. Se la prudenza ci aiuta a scegliere i mezzi migliori per conseguire il nostro fine soprannaturale, il dono del consiglio ci fa partecipare alla divina sapienza e ci fa immediatamente e in un tratto vedere il meglio che s’ha da fare per noi e per gli altri. – La virtù della religione, che ci fa dare a Dio ciò che gli è dovuto, è singolarmente agevolata dal dono della pietà, che ci fa vedere in Dio un Padre amantissimo, cui siam lieti di poter glorificare e benedire. Se la virtù della fortezza ci dà il coraggio di fare e di sopportare per Dio grandi cose, il dono della fortezza porta questo coraggio fino all’eroismo. Le virtù sono dunque energie attive; e i doni sono docilità o ricettività che rendendo l’anima più passiva sotto la mano di Dio, la fanno nello stesso tempo, più atta a seguire le divine mozioni a produrre atti più perfetti, atti eroici. Ma ad eccitarli occorre la grazia attuale

3° L’ufficio della grazia attuale.

Come nell’ordine naturale per operare abbiamo bisogno del concorso di Dio, così nell’ordine soprannaturale non possiamo esercitare le nostre facoltà, le virtù e i doni, senza una mozione divina che si chiama grazia attuale.

A) Questa grazia opera sull’intelletto e sulla volontà. Talora Si presenta sotto forma di illustrazione interiore. Leggo, per esempio, il seguente passo di san Paolo (Gal. II, 20): « Il Figlio di Dio mi amò e diede se stesso per me »; e subito un raggio di luce interiore me ne fa intendere bene senso: io vedo Gesù, l’Uomo-Dio, che ama me in particolare, nonostante i miei difetti e le mie miserie, e mi ama fino ad immolarsi per me; lo vedo che continua a darsi a me nella santa Comunione; e non rifinisco dall’ammirare un tale amoredivino: ecco una grazia d’illustrazione, che riguarda l’intelletto. Ma, pensando a tanto amore divino, io mi sento vivamente stimolato a ricambiargli amore per amore, a darmi a Lui, a patire e occorrendo a morire per Lui: ecco una grazia di ispirazione, che opera sulla volontà e la muove all’amore e all’azione.

B) La grazia attuale opera su noi in modo morale ed in modo fisico: in modo morale, con la persuasione, con le attrattive che ci inclinano dolcemente al bene, come la madre che, per aiutare il bambino a camminare, gli si pone dinanzi e lo adesca con qualche ninnolo; in modo fisico, aggiungendo nuove energie alle nostre facoltà troppo deboli per il bene, come la madre che, sorreggendo il suo bimbo per le braccia, lo aiuta non solo colla voce e col gesto ma anche colla forza delle mani a fare qualche passo. Dio anzi fa ancora qualche cosa di più: penetra con la sua grazia nel più intimo delle nostre facoltà, e, mettendole in moto, opera in noi e con noi, senza mai violentare la nostra libertà. Si dice grazia preveniente quando precede il nostro libero consenso. Se, per esempio, mi viene in mente di fare un atto di amor di Dio senza che io abbia fatto nulla per eccitarlo, è una grazia preveniente, è un buon pensiero che mi viene da Dio. Se lo accolgo bene, Dio vi aggiungerà una grazia adiuvante o concomitante, che mi aiuterà a fare quest’atto di amore, che accompagnerà la mia volontà nel farlo dandole la forza necessaria di eseguire quel buon pensiero, perché Dio opera in noi e con noi il volere e il fare.

C) Ne viene quindi che la grazia, per produrre in noi i benefici suoi effetti, richiede la nostra libera cooperazione. Dio rispetta tanto la nostra libertà che, pur avendoci creati senza di noi, non ci santifica e non ci salva senza di noi, cioè senza la nostra libera cooperazione. Ecco perché san Paolo (II Ep. Cor., VI, 1), esorta così spesso i fedeli a non ricevere invano la grazia di Dio, ma a servirsene bene cooperandovi generosamente. Grande onore ci fa Dio col precederci e col prevenirci con la sua grazia, coll’aiutarci ad acconsentirvi, coll’accompagnarci in tutte le nostre vie e in tutte le nostre difficoltà fino al momento della morte, onde assicurare la nostra perseveranza. Tocca a noi a non fare i ritrosi, ad accogliere lietamente le prime illustrazioni della grazia, a seguirne docilmente le ispirazioni nonostante gli ostacoli, e metterle in pratica a qualunque costo. Diventiamo veramente allora i collaboratori di Dio; e l’opera nostra è nello stesso tempo il risultato della sua grazia e del nostro libero arbitrio. Così sviluppiamo in noi quell’organismo soprannaturale di cui Dio ci ha tanto liberalmente dotati; ed è questo per noi uno stretto dovere. Se la bontà divina volle infonderci nell’anima una vita nuova, una partecipazione della divina sua vita; se ci diede le virtù e î doni per fare atti soprannaturali e deiformi; se colla grazia attuale ci stimola a fare il bene e a progredire nella virtù, non sarebbe decoroso che rifiutassimo queste divine cortesie, che conducessimo una vita mediocre e che facessimo solo frutti imperfetti, mentre Dio ci chiama a una vita nobile, a una vita eroica, e a produrre copiosi frutti di salute. Esporremo dunque i nostri doveri verso la vita soprannaturale.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (8)

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA (2)

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA (2)

P. Andrea Oddone s. j.

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA SECONDO LA COSTITUZIONE PASTOR ÆTERNUS – S. E. I. MILANO, – 1937

II.

IL PRIMATO DI S. PIETRO

La Chiesa è una società gerarchica, cioè una società ineguale, il cui potere fu conferito da Cristo non già a tutti i fedeli, ma al Collegio degli Apostoli e ai loro successori. (La società nella quale tutti i soci godono per riguardo all’autorità degli stessi diritti, in modo che nessuno possa esercitare l’autorità se non per delegazione degli altri, si dice uguale o democratica. Se invece il governo della società per uno speciale diritto appartiene ad uno o a più soci; si ha la società ineguale, la quale, se è sacra, si dice società gerarchica. La parola gerarchia etimologicamente considerata significa principato sacro o sacro impero: se si prende in astratto significa la stessa potestà sacra; in concreto denota la persona o il ceto di persone che tengono ed esercitano l’autorità. La società gerarchica può avere la forma aristocratica o monarchica.). Nella Chiesa quindi vi sono i sudditi e vi sono i capi, ma questi capi governano non per delegazione dei sudditi, ma per istituzione divina. Solo ai Dodici e ai loro successori legittimi, Gesù Cristo conferì i poteri, che Egli aveva ricevuti dal Padre, cioè il potere di dirigere, di santificare, d’insegnare. – Sorge ora la questione intorno alla forma di questa gerarchia ecclesiastica, cioè se la Chiesa per volere divino sia una società aristocratica, nella quale l’autorità somma risieda presso il Collegio degli Apostoli uguali tra di loro, oppure sia una società monarchica, in cui Cristo abbia designato un capo al Collegio Apostolico. Il Concilio Vaticano afferma che Gesù Cristo ha istituito la Chiesa in forma monarchica: « Insegniamo e dichiariamo, secondo la testimonianza del Vangelo, che il primato di giurisdizione su tutta la Chiesa di Dio, fu promesso e dato da Cristo Signore immediatamente e direttamente al beato Apostolo Pietro ». (Costituzione « Pastor afernus », cap. I) – Già S. Leone IX aveva rivendicato, contro Michele Cerulario (1053), i privilegi di Pietro. (DENZINGER, n. 351) Giovanni XXII aveva condannato (1327) la concezione oligarchica sostenuta da Marsilio da Padova nel suo Defensor pacis. Più tardi Innocenzo X fece censurare come eretica dal S. Officio (24 gennaio 1647), una proposizione gallicana che tendeva a stabilire un’eguaglianza assoluta tra S. Pietro e S. Paolo. (DENZINGER, n. 1901). Ma era riservato al Vaticano di formulare a questo riguardo una definizione. –

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La parola « primato » indica in generale una qualunque preminenza. Si suole distinguere in modo speciale un triplice primato: il primato di onore, il primato di direzione o di ispezione e il primato di giurisdizione. Il primato di onore non importa alcuna autorità né  alcuna direzione, ma soltanto una mera precellenza di onore fondata in una certa equità. Colui che gode di questo primato viene nominato per il primo nelle assemblee, siede al primo posto e per il primo dice il suo parere, ma non influisce in alcun modo. nel reggere o nel dirigere, se non forse con il suo esempio. Il primato di direzione o di ispezione è privo anch’esso di ogni potestà veramente precettiva, ma non è limitato da confini soltanto onorifici. Benché infatti non diriga gli altri propriamente come sudditi, possiede tuttavia il potere di procurare che ogni cosa proceda convenientemente in un determinato affare. Questo primato compete per esempio nei Parlamenti ai Presidenti delle due Camere, che concedono o tolgono o restringono la facoltà di parola, stabiliscono l’ordine delle cose che devono trattarsi, pongono termine all’assemblea, reggono con la parola e applicando gli statuti, lo svolgersi di ,una seduta parlamentare. – Il primato di giurisdizione include una vera e suprema potestà di giurisdizione, alla quale tutti i soci sono tenuti ad ubbidire. Non è tuttavia contro la ragione di questo primato che vi siano nella stessa società altri membri forniti di vera e propria potestà di comandare, anzi la ragione del primato non richiede che questi altri veri superiori ricevano il loro potere dal capo supremo. La ragione del primato esige soltanto questo che colui che ne è investito, non abbia nella società nessuno superiore e nessuno pari, ma che tutti i soci, sia singolarmente sia collettivamente presi, a lui ubbidiscano come veri sudditi. – Il primato di cui parla il Vaticano non è altro quindi che la potestà di giurisdizione, estensivamente universale ed intensivamente somma, concessa immediatamente da Cristo a Pietro, di reggere e ammaestrare tutta la Chiesa. Più brevemente si potrebbe dire che il primato è la giurisdizione gerarchica monarchica. Si tratta perciò di un primato di governo, di un’autorità reale, esigente da tutti i membri della Chiesa, senza alcuna eccezione, non solamente la deferenza e il rispetto, ma anche la sottomissione propriamente detta, l’ubbidienza esteriore ed interiore. – Questo potere tuttavia, se implica l’unità di comando, non trae seco né la soppressione né l’assorbimento delle giurisdizioni secondarie, e nemmeno la centralizzazione di tutta l’amministrazione ecclesiastica.

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Avversari del primato sono dapprima tutti coloro che sostengono la costituzione democratica della Chiesa. Marsilio da Padova afferma che Pietro non ebbe maggiore autorità degli altri Apostoli né fu in alcun modo loro capo e che Cristo non lasciò nella Chiesa alcun suo vicario. (DENZINGER, n. 496.). I Protestanti collocano ogni autorità sacra nella comunità cristiana, nel popolo: ogni fedele è sacerdote. Gli Anglicani e gli Orientali separati ammettono la forma gerarchica della Chiesa, ma non monarchica: il primato fu concesso da Cristo a tutto il Collegio Apostolico: Pietro ebbe un primato soltanto di onore. I Giansenisti e i Gallicani ammettono il primato di Pietro, ma vogliono che gli sia stato conferito non direttamente e immediatamente dallo stesso Cristo, ma dalla Chiesa, in nome della quale Pietro ricevette la potestà. Secondo i Modernisti infine « Pietro non sospettò nemmeno che a lui fosse affidato da Cristo il primato sopra tutta la Chiesa », (DENZINGER, n. 2055). – Contro questi errori lancia la condanna il Vaticano, dopo avere esposta la dottrina cattolica: « Se qualcuno dice che il beato Pietro Apostolo non fu costituito da Cristo Signore principe di tutti gli Apostoli e capo visibile di tutta la Chiesa militante, oppure che il medesimo Pietro ha ricevuto direttamente e immediatamente dallo stesso Gesù Cristo Signor nostro solamente un primato d’onore, e non di vera e propria giurisdizione, sia anatema ». (Pastor Æternus; cap. I). Bisogna quindi riconoscere a Pietro un primato effettivo e di diritto divino.

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PRIMATO DI PIETRO NEL VANGELO. — Il Vangelo contiene con indiscutibile chiarezza la dottrina del primato di Pietro. Nel Vangelo Pietro occupa un posto privilegiato, emerge sopra gli altri Apostoli ed è messo in evidenza in tutte le occasioni importanti. Da Gesù egli riceve un nome simbolico: «Tu sei Simone, figlio di Giuda. Ti chiamerai d’ora innanzi Cefa, che vuol dire Pietra ».(S. Giov. I, 42). Pietro appare spesso come interprete degli altri Apostoli e Gesù Cristo e i suoi compagni sembrano accettarlo come tale. Nella Trasfigurazione S. Pietro parla a Gesù ed è come in risposta a lui che la voce si fa udire attraverso alla nube: « Questi è il Figlio mio diletto: ascoltatelo ». (S. Mrco IX, 7). Nel racconto del giovane ricco è San Pietro che dice: « Ecco. che noi abbiamo lasciato tutto, e ti abbiamo seguito ». (S. Marco X, 8) Pietro richiama l’attenzione del Salvatore sul fico sterile e domanda: « Maestro, quante volte devo perdonare il fratello che mi offende? ». (S. Matt. XVIII, 21). Gesù espone, alla domanda di Pietro, la parabola delle cose che contaminano l’uomo; (S. Matt. XV, 5) lo stesso avviene per la parabola del fattore buono e di quello infedele. (S. Luc. XII, 41). Nella Sinagoga di Cafarnao Gesù tiene un discorso e parla in modo profondo e insinuante dell’Incarnazione e dell’Eucaristia, la quale sarà un prolungamento di essa. Alla fine del discorso, allontanandosi molti suoi discepoli da Gesù, egli chiede ai Dodici: « Anche voi ve ne volete andare? ». San Pietro allora, a nome anche degli altri Apostoli, fa una solenne professione di fede intorno a quelle due verità: « Signore, da. chi andremo noi? Tu hai parole di vita eterna. E noi abbiamo creduto e sappiamo che tu sei il Cristo Figliuolo di Dio ». (S. Giov. VI, 68). E a Cesarea di Filippo, quando Gesù domanda ai suoi Apostoli che cosa pensino di lui, Pietro risponde: « Tu sei il Cristo Figlio del Dio vivente ». (S, Matt. XVI, 15) In tutte queste circostanze Pietro si fa sempre innanzi, ma in modo così naturale e normale, che non trova una ragione sufficiente nel suo carattere impetuoso, ma suppone una disposizione di Gesù e un tacito riconoscimento della sua superiorità da parte degli Apostoli. (Vernon Ionnson: Un solo Dio, una sola fede). – Si aggiunga che Pietro appare frequentemente associato a Gesù nella manifestazione taumaturga della sua potenza, e suo compagno e confidente nelle più solenni occasioni. Pietro infatti presiede alle due pesche miracolose. Nella prima Gesù sale sulla barca di Pietro; a lui ordina di spingersi al largo e di gettare le reti; a lui dice: « Non temere, d’ora innanzi tu sarai pescatore d’uomini ». Nella seconda Pietro dirige la barca, si slancia alla riva, tira fuori della barca la rete piena di pesci (S. Luca, V; S. Giov., XXI, 6). Al comando di Gesù, Pietro cammina sulle acque per andare a Lui e viene sorretto dallo stesso  Salvatore, che stendendogli la mano, gli dice: « Uomo di poca fede, perché hai dubitato? ». (Matt., XIV, 28.) A Cafarnao Gesù opera il miracolo della moneta estratta dal pesce, con la quale paga il tributo a Cesare per sé e per Pietro. (S. Matt., XVII, 24). Tra gli Apostoli privilegiati scelti da Gesù per essere testimoni della risurrezione della figlia di Giario, (S. Marco, V, 37), della sua trasfigurazione, (S. Marco, IX, 1) della sua agonia (S. Marco, XIV, 33; S. Matt., XXVI, 37) e per preparare l’ultima cena, (S. Luca, XXII, 8) figura sempre Pietro e sempre in primo luogo. Dopo la sua risurrezione Gesù ha un pensiero speciale per S. Pietro e tra gli Apostoli gli concede il favore, nonostante la sua negazione, di essere il primo testimonio del grande avvenimento. (S. Luca, XXVI, 12-34; I Cor., XV, 5). Come dalla barca di Pietro Gesù tenne il suo primo discorso alle turbe, così nella casa di lui fece il primo miracolo sugli ammalati, risanando la « suocera di Pietro » dalla febbre, e spesso era ospite in questa casa. Per Pietro Gesù prega in modo speciale e a lui predice il genere di morte. (Ballerini: La Chiesa: Il primato di Pietro). Osserviamo infine che nelle quattro liste del collegio apostolico, che ci hanno tramandato gli Evangelisti, l’accordo non è uniforme per gli altri Apostoli, ma Pietro è sempre nominato il primo. (In qualche caso, in cui questo non si verifica, gli Evangelisti non intendono darci l’elenco, diciamo così, ufficiale dei Dodici, né parlare della loro dignità) Nulla autorizza a pensare che Pietro fosse il più anziano degli Apostoli o che fosse stato chiamato per il primo alla sequela di Gesù, ma questa qualificazione di « primo » non può avere altro senso che quello di una preminenza. Non si può semplicemente vedere in questo un numero di ordine, che sarebbe stato superfluo o avrebbe richiesto di poi un altro numero davanti a ciascun Apostolo. Questi fatti, benché siano indizi da non trascurarsi, non ci dànno tuttavia per sé una prova diretta ed evidente del primato di Pietro. Sono piuttosto qualche cosa di accessorio e preparano in certo qual modo la via all’argomento principale, che si deduce da tre importanti testi evangelici, cioè il « Tu es Petrus », il « Confirma fratres » e il « Pasce oves meas ».Pietro in questi telebri passi è revocato in dubbio da due sistemi interamente opposti. L’uno ammette come autentiche e storiche le parole indirizzate da Gesù a Pietro, ma sostiene che esse non significano affatto che Pietro sia costituito capo della Chiesa di Cristo. L’altro invece concede la forza probativa dei testi per riguardo al primato, ma nega la loro autenticità e storicità. Il punto di vista è comunemente quello degli scismatici e dei protestanti ortodossi; il secondo punto di vista è per lo più quello della critica liberale, cioè dei razionalisti, dei protestanti liberali e dei modernisti. L’esegeta cattolico deve quindi affrontare due quesstioni differenti; i testi sono autentici e storici, non apocrifi; i testi manifestano chiaramente il primato di Pietro. Noi supponiamo provata l’autenticità e storicità dei testi, e ci limitiamo ad una breve spiegazione teologica quale è richiesta da questo lavoro. (Per l’autenticità e storicità dei testi, oltre i lavori scritturali sì confronti il Dict. Théol.: « Primauté » e la rivista Etudes, anno  1909, Vol. 119).

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LA PROMESSA DEI. PRIMATO. — Nei dintorni di Cesarea di Filippo, Gesù interroga i suoi discepoli che cosa si dica in mezzo al popolo del Figlio dell’uomo. Varie sono le congetture dei Giudei. Per gli uni Gesù è Giovanni Battista; per altri è Elia; per altri ancora è Geremia o qualche altro profeta risuscitato. « Ma voi, riprende Gesù, che pensate di me?» — « Tu sei il Cristo, il figlio di Dio vivente », risponde immediatamente S. Pietro. Gesù allora ricompensa la fede del suo apostolo con queste parole: « Te beato, o Simone, figlio di Giona, perché non è la carne né il sangue che te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. Ed io dico a te, che tu sei Pietro (Pietra), e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte. dell’inferno non prevarranno contro di essa; Ed Io darò a te le chiavi del regno dei cieli, e tutto quello che tu legherai sopra la terra, sarà legato nei cieli, e tutto quello che tu scioglierai sopra la terra, sarà sciolto nei cieli ». (Matt., XVI, 17). Le parole di Cristo vengono indirizzate al solo Pietro e non a tutti gli Apostoli. Ciò appare innanzi tutto dal testo e dal contesto del discorso. Infatti, alla duplice interrogazione di Cristo viene data una duplice risposta, la prima da tutti gli Apostoli, la seconda dal solo Pietro. Ora Cristo rispondendo alle parole di Pietro, si rivolge non a tutti gli Apostoli, ma a Pietro solo e lo chiama con il nome di Pietro, che Egli stesso gli aveva imposto, e vi aggiunge espressamente il nome del padre. Del resto tutto il tenore del discorso designa chiaramente la persona singolare di Pietro. Giustamente osserva il Caietano: « Con quali parole avrebbe dovuto l’Evangelista indicarci che il discorso era rivolto al solo Pietro? I notai non nominano le persone eredi o legatarie con maggiore precisione di quella usata dall’Evangelista per designare la persona di Pietro ». (De Rom. Pontif. institutione, c. 4). Nelle parole di Cristo è contenuta la promessa del primato di giurisdizione sopra tutta la Chiesa. Questo è evidente per gli stessi razionalisti; anzi l’affermazione perentoria di una vera supremazia gerarchica riconosciuta nel testo a S. Pietro, è il motivo principale e dichiarato che li induce a negarne l’autenticità e la storicità. Pietro è la rocca, il fondamento sopra cui sarà edificata la Chiesa, cioè tutta la comunità visibile dei discepoli di Gesù, e come il fondamento dà unità e coesione, fermezza e stabilità a tutto l’edificio, così Pietro deve essere il principio primo visibile dell’unità e della fermezza della Chiesa. Ma essendo la Chiesa una società, il principio efficiente della sua unità e stabilità non può essere altro che l’autorità piena e suprema. Come nell’edificio materiale ogni cosa si appoggia sopra il fondamento, così nella società ogni cosa dipende dall’autorità. (Zapelena: De Ecclesia, pag. 92). Gesù Cristo promette in secondo luogo di dare a Pietro le chiavi del regno dei cieli. Le chiavi nell’uso biblico e profano significano la potestà suprema nel suo genere: presso i popoli antichi specialmente orientali, dare le chiavi della casa o della città a qualcuno, significava consegnargli il potere sulla stessa casa o città. Il regno dei cieli, di cui si parla qui, è evidentemente la Chiesa militante. Certo a Pietro non si promette l’autorità nel regno della gloria, perché nello stadio finale della Chiesa trionfante, non vi sarà l’esercizio delle chiavi, non dovendosi più nulla aprire o chiudere. Perciò Cristo espressamente soggiunge: « ciò che legherai sulla terra ». Nella Chiesa cristiana quindi, che costituirà quaggiù il regno di Dio sotto il suo aspetto esteriore e sociale, che preparerà il regno di Dio sotto il suo aspetto escatologico e glorioso, l’Apostolo Pietro sarà colui che in nome di Cristo eserciterà la suprema autorità. In nessun altro luogo del Vangelo si legge che Cristo abbia consegnato le chiavi del regno dei cieli agli altri Apostoli. Il senso della metafora delle chiavi viene meglio spiegato dalle parole della terza metafora. Poiché Pietro avrà la suprema giurisdizione nella Chiesa, verrà ratificato in cielo, cioè presso Dio, tutto quello che Pietro legherà o scioglierà sulla terra. Si tratta di vincoli di ordine morale; perciò « legare » significa imporre una obbligazione, « sciogliere » vuol dire togliere l’obbligazione. – Questa potestà sarà universale: « ogni cosa », in ordine, s’intende, all’indole della Chiesa e al fine per il quale fu istituita. Potrà quindi Pietro stabilire tutte quelle cose che sono necessarie o utili al governo di tutta la Chiesa. « Fondamento della Chiesa; chiavi del regno dei cieli; potere di legare e slegare con sentenza efficace »; le tre metafore si completano e si rischiarano a vicenda. Nessun equivoco è possibile: Pietro sarà il capo supremo della Chiesa.

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CONFERMA DEL PRIMATO. — Il primato effettivo promesso a Cesarea viene solennemente confermato da Gesù Cristo, quando affida a Pietro l’incarico di stabilire i suoi fratelli nella fede. « Simone, Simone, ecco che satana ha richiesto che gli siate dati per vagliarvi come il grano. Ma Io ho pregato per te, affinché la fa fede non venga meno, e tu, quando sarai convertito conferma i tuoi fratelli ». (S. Luca, XXII, 31) In questo passo è assicurato a Pietro il privilegio di una fede indefettibile. Preservando Pietro, la cui rovina avrebbe trascinato tutti gli altri, Gesù ha preservati in certo modo tutti. Questo discorso di Gesù presuppone che Pietro fosse il primo degli Apostoli; la sua resistenza o caduta, avrebbe deciso più o meno della resistenza o caduta degli altri. Il testo di S. Luca, se si isolasse, potrebbe riferirsi solamente alla circostanza dello scandalo prossimo degli Apostoli. Ma il suo tenore è assoluto: il che ci autorizza a riallacciarlo alla promessa già fatta a Pietro, roccia incrollabile sulla quale sarà costruita la Chiesa. La nuova dichiarazione di Cristo determina che questa solidità della roccia è quella di una fede, che nulla può scuotere, perché appoggiata sulla preghiera di Cristo. (LAGRANGE: L’Evangile de Jésus Christ, pag. 512)-

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CONFERIMENTO DEFINITIVO DEL PRIMATO. — Il Vangelo di S. Giovanni ci narra il conferimento definitivo del primato a Pietro. Apparendo Gesù un po’ prima dell’Ascensione ai suoi discepoli, chiede a Simone Pietro: « Simone di Giovanni, mi ami più di costoro? — Sì, o Signore, gli risponde: tu sai che io ti amo. — Gli dice: Pasci i miei agnelli. — Gli chiede ancora per la seconda volta: Simone di Giovanni, mi ami tu? — Sì, o Signore, gli risponde: tu sai che io ti amo. — Gli dice: Pasci i miei agnelli. — Gli domanda per la terza volta: Simone di Giovanni, mi ami tu? Si rattristò Pietro, perché  per la terza volta gli avesse domandato: — Mi ami tu? — e gli rispose: Signore, tu sai tutto ; tu conosci che io ti amo. — E Gesù gli disse: Pasci le mie pecorelle ». (S. Giovanni, XXI, 15). Non v’è alcun dubbio che mediante queste parole venga conferito a Pietro il primato di giurisdizione sopra tutta la Chiesa. Gli agnelli e le pecorelle di Cristo non possono significare altro che la Chiesa universale: il verbo pascere, quando si adopera per esseri razionali, equivale al verbo reggere o dirigere: anche i re sono qualche volta chiamati pastori dei popoli. Se quindi al solo Pietro, in quanto è distinto dagli altri Apostoli, viene imposto l’ufficio di reggere tutta la Chiesa di Cristo, ne segue che egli è investito della vera giurisdizione sopra tutti coloro che appartengono alla Chiesa. Come potrebbe adempiere il suo ufficio senza di essa? Aggiungiamo infine che i testi sopra citati furono intesi in tal senso dalla tradizione costante della Chiesa; il che toglie ogni dubbio, che potesse ancora rimanere, dopo la discussione che ne abbiamo fatto. (De Journel: Enchiridion Patristicum. — Cf. Hervé: Théol. Dogm., pag. 331. — Zapelena: De Ecclesia, pag. 103).

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La storia della Chiesa primitiva ci dimostra Pietro nell’esercizio del primato di cui è investito. Dopo l’Ascensione di Cristo, S. Pietro effettivamente parla e opera come capo e dottore della Chiesa universale. Lo dicono chiaramente gli Affi degli Apostoli. Pietro invita i suoi compagni ad eleggere un altro al posto di Giuda e a completare il collegio apostolico, e presiede all’elezione di Mattia. (Atti Apostolici, I, 15). Il giorno di Pentecoste, presentandosi come capo della comunità evangelica, inaugura la predicazione apostolica ai Giudei. (Atti Apost., II, 14) È bensì circondato dagli altri Apostoli, ma è nominato per il primo, come loro capo. Per il primo esercita il dono dei miracoli nella guarigione dello storpio. (Atti Apost., III, 1). Davanti al Sinedrio Pietro rende testimonianza a Gesù Cristo, in nome degli Apostoli e della Chiesa, dichiara ufficialmente la divinità di Colui che il Sinedrio ha condannato a morte. Questa affermazione fatta dinanzi ad una tale assemblea, è la prima grande manifestazione dell’assoluta indipendenza della Chiesa cristiana dalla religione ufficiale dei Giudei. (Atti Apost., IV, 12). Quando si tratta di punire Anania e Safira, questa missione è riservata a San Pietro, come pure a lui tocca di condannare il primo simoniaco Simon Mago. (Atti Apost., V, 1) Egli per il primo con autorità apre le porte della Chiesa ai Gentili, ammettendo al battesimo il centurione Cornelio e i suoi dipendenti senza farli passare per il Giudaismo. (Atti Apost., XI, 1). Pietro ci appare come capo venerato e amato, quando prigioniero del re Erode Agrippa e poi miracolosamente liberato, è oggetto di pena e di preghiere di tutti i fedeli, e anche causa della loro gioia. (Atti Apost.,, XII). Infine nell’assemblea apostolica di Gerusalemme prende per il primo la parola nella questione delle osservanze legali ed esercita manifestamente un primato che nessuno gli contesta. (Atti Apost., XV, 6) Per chi ammette il valore storico degli Atti degli Apostoli, queste testimonianze sono decisive. S. Paolo nelle sue Lettere fa spesso allusione a San Pietro e alla sua autorità. Nella Lettera ai Galati egli dice: « Mi recai a Gerusalemme per visitare lo stesso Pietro e vi rimasi presso di lui quindici giorni. Ma non vidi nessun altro degli Apostoli, eccetto Giacomo, il fratello del Signore ». (Galat., 1, 18) Lo scopo quindi del viaggio di Paolo è quello di incontrarsi con Pietro e intrattenersi con lui. Questo modo di procedere, presentato ai lettori come la cosa più naturale, senza una sola parola di spiegazione, suppone che i fedeli riconoscessero a Pietro un’autorità a parte. Il conflitto di Antiochia tra Pietro e Paolo, che è stato così spesso sfruttato contro il primato di Pietro, è anzi una bella prova dello stesso primato. Perché l’intervento piuttosto rude di Paolo? Perché appunto Pietro non è un Apostolo come gli altri, e l’esempio venuto da lui, collocato in una speciale autorità, sarebbe stato quanto mai dannoso. La reazione di Paolo si spiega quindi per il prestigio unico di Pietro, per il suo grande ascendente sopra i fedeli. Se Paolo non fa maggiori dichiarazioni sul primato di Pietro, ciò si deve al carattere proprio delle sue Lettere, che erano composte per rispondere a qualche situazione particolare e supponevano una chatechesi già esistente. (Galat., II,11.— Cf. Oppone: Teoria degli Atti umani, pag.180). Il primato di Pietro è per così dire impresso anche sui monumenti dell’arte cristiana. (Cf. Ermoni: Il primato del Vescovo di Roma, pag. 13). Questo breve studio è sufficiente per fondare una adesione ragionevole, anche per un razionalista, al primato di Pietro. Ogni altra spiegazione o ipotesi opposta all’esegesi cattolica, si presenta fragile e priva di sana critica storica. E sarebbe poi irragionevole esigere nell’esercizio del primato di Pietro quell’estensione che oggi troviamo nel Pontefice di Roma. Questo non era necessario né opportuno al tempo degli Apostoli, tutti eletti da Gesù Cristo come colonne della sua Chiesa. Il dogma del primato di Pietro si andò, come gli altri dogmi del Cristianesimo, sviluppando e precisando nei suoi successori.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (6)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (6)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle MissioniROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

PARTE PRIMA

Gesù vivente in noi per comunicarci la sua vita

CAPITOLO II.

La nostra partecipazione alla vita divina

Incorporati a Cristo, veniamo a parteciparne la vita, perché è una medesima vita quella che circola nel capo e nelle membra. Ora la vita di Gesù è vita veramente e altamente divina: come Verbo, possiede la pienezza di questa vita che attinge da tutta l’eternità nel seno del Padre; come uomo, riceve un’abbondante partecipazione di questa stessa vita, la maggior pienezza possibile; da questa pienezza attingono tutte le sue membra, secondo la parola di san Giovanni: E il Verbo si fece carne e abitò tra noi, e abbiamo contemplata la gloria di lui… pieno di grazia e di verità… E dalla pienezza sua noi tutti abbiamo ricevuto e grazia sopra grazia » (Giov. I, 14). Noi dunque partecipiamo per mezzo della grazia alla vita di Gesù Cristo e quindi alla vita di Dio. Dio, secondo la vigorosa espressione di san Pietro, per riguardo di suo Figlio, « ci fece dono di grandissime e preziose promesse a fine di renderci per esse partecipi della natura divina » (II, Petr. I, 4). Che grandezza, che nobiltà è mai la nostra! Fratelli di Gesù, a cui siamo incorporati, partecipiamo alla stessa sua vita e diventiamo quindi figli adottivi di Dio. – Sono verità che è necessario approfondire, perché, oltre ad essere consolantissime, hanno il loro influsso sulla vita quotidiana. È infatti evidente che, se siamo fratelli di Gesù e figli adottivi di Dio, non possiamo condurre una vita ordinaria come i figli del secolo, ma dobbiamo elevarci al Padre celeste e vivere una vita che non sia di Lui troppo indegna. La nobiltà impone dei doveri: figli di Dio dobbiamo essere « perfetti come è perfetto il nostro Padre celeste » (Matth. V., 48) . Per studiare a fondo questa vita divina in noi, mostreremo:

1° che la stessa santissima Trinità viene ad abitare in noi per comunicarci una partecipazione della sua vita;

2° che abbiamo doveri speciali da adempiere verso questo ospite divino;

3° che Dio pone in noi un organismo soprannaturale per farci vivere una vita simile alla sua;

4° che dobbiamo quindi vivere una vita soprannaturale, una vita deiforme.

ART, I. — ABITAZIONE DELLA SANTISSIMA TRINITÀ NELL’ANIMA,

.1° Che le tre divine Persone abitino nell’anima in istato di grazia è una di quelle verità che Nostro Signore volle insegnarci prima di lasciar questa terra, onde consolarci delia sua assenza e darci un pregustamento del cielo. Si era all’ultima Cena, Gesù aveva promesso agli Apostoli la venuta dello Spirito Santo, del divino Paraclito o consolatore, che sarebbe rimasto sempre con loro (Giov. XIV, 16); aveva detto che tornerebbe Egli stesso in mezzo a loro per vivere in loro (ivi, 19-20). Ed ecco che aggiunge quella promessa e sarà l’eterna consolazione delle anime giuste: « Chi mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e verremo a lui e faremo dimora presso di lui (ivi, v. 23) ». Dunque ogni anima che ama Gesù e osserva i suoi comandamenti è amata dal Padre, e il Padre viene in lei col Figlio e collo Spirito Santo, non per una semplice visita ma per fissarsi in lei e far di lei la sua dimora. Abbiamo più di una volta invidiato certamente la fortuna dell’umile Vergine di Nazareth, che per trent’anni possedette nella sua casetta l’eterno Figlio di Dio; ma, se ben riflettiamo, nulla abbiamo da invidiarle, perché noi nell’anima nostra non riceviamo soltanto il Figlio ma con Lui il Padre e lo Spirito Santo, riceviamo tutta la SS. Trinità, e non per un dato tempo ma per sempre, fino a che non ci colga la disgrazia di cacciare col peccato mortale questo ospite divino.

2. Ma in che modo viene in noi la santissima Trinita? – Dio, dice san Tommaso (Summ. Theol., I, q, 8, a. 3), è naturalmente nelle creature in tre modi diversi: per la sua potenza, nel senso che tutte le creature sono soggette al suo impero; per la sua presenza, in quanto vede tutto, fino i più secreti pensieri dell’anima nostra; per la sua essenza, perché opera da per tutto ed è da per tutto la pienezza dell’essere e la causa prima di quanto è di reale nelle creature, e continuamente comunica loro non solo il moto e la vita ma l’essere stesso: « poiché in Lui abbiamo la vita, il moto e l’essere » (Atti, XVII, 28). –  Ma la sua presenza in noi per la grazia è di ordine assai più alto e assai più intimo. Non è la sola presenza del Creatore e del Conservatore che regge gli esseri da Lui creati: è la presenza della santissima e adorabilissima Trinità quale ci è rivelata dalla fede. Il Padre viene in noi e continua a generarvi il suo Verbo; con Lui riceviamo il Figlio, perfettamente eguale ai Padre e sua immagine vivente e sostanziale, che ama continuamente e infinitamente il Padre e ne è parimente riamato; da questo mutuo amore sorge lo Spirito Santo, Persona eguale al Padre e al Figlio, mutuo vincolo tra i due, ma distinto da entrambi. Quante meraviglie in un’anima in istato di grazia! – Questa unione – dice Bossuet (Médit. sur l’Ecangile, La Cène, Ie Partie, 93° jour) – è intimissima. « Chi ci dirà quale sia quella segreta parte dell’anima, di cui il Padre e il Figlio fanno il loro tempio e il loro santuario? Chi ci dirà quanto intimamente vi abitino; come la dilatino, quasi a spassarvisi, e, da questo intimo fondo dell’anima, diffondersi per tutto, occupar tutte le potenze, animare tutte le azioni? Chi ci indicherà questo luogo segreto, onde vi ci possiamo continuamente ritirare e trovarvi il Padre e il Figlio? ». – Volendo esprimere in due parole la essenziale differenza che corre tra la presenza di Dio in noi per la natura e la sua abitazione in noi per la grazia, possiamo dire che per la sua presenza naturale Dio è ed opera in noi; ma che per la sua presenza soprannaturale dà se stesso a noi perché godiamo della sua amicizia, della sua vita e delle sue perfezioni: « L’amor di Dio è diffuso nei nostri cuori per lo Spirito Santo che ci fu dato » (Rom. V, 5). – Dunque lo Spirito Santo ci è dato e con Lui tutta la santissima Trinità, perché le tre divine Persone sono inseparabili; Egli è nostro, e se ne avessimo coscienza viva e profonda, intenderemmo che la grazia è già un principio della vita eterna, di quella gioia ineffabile che si gode nel possesso di Dio.

3° A indagare questa intima divina presenza, raccogliamo qua e là dai nostri Libri santi i passi che ne parlano, e vediamo quali relazioni ponga la grazia tra noi e ognuna delle tre divine Persone.

a) Per la grazia il PADRE ci adotta per figli. Questo insigne privilegio deriva dalla nostra incorporazione a Gesù Cristo; essendo noi le membra di Gesù Cristo e quasi un prolungamento e un’estensione della sua Persona, il Padre ci abbraccia col medesimo sguardo paterno che ha per il Figlio, non con amore uguale ma con amore simile. È quanto dichiara il discepolo prediletto, san Giovanni, che più degli altri aveva penetrato i segreti del Maestro: « Vedete quale amore ci diede il Padre, che siamo chiamati e siamo anche di fatto figli di Dio ? » (1 Ep. Giov., III, 1). –  Dio dunque, secondo la testimonianza di san i Giovanni, ci adotta per figli in modo assai più perfetto di quello che facciano gli uomini con l’adozione legale. Gli uomini possono certo trasmettere ai figli adottivi il nome e le ricchezze, ma non il sangue e la vita. L’adozione legale, come osserva bene il Cardinal Mercier (La Vita interiore, Società editrice « Vita e Pensiero », Miano, 1921), è una finzione. Il figlio adottato viene considerato dai genitori adottivi come se fosse loro figlio e ne riceve quell’eredità a cui avrebbe avuto diritto il frutto della loro unione: la società riconosce questa finzione e ne sanziona gli effetti; però l’oggetto della finzione non si trasforma in realtà… Ma la grazia dell’adozione divina non è una finzione, è una realtà. Dio largisce a coloro che credono nel suo Verbo la filiazione divina, dice san Giovanni. Cotesta filiazione non è nominale ma effettiva: « siamo chiamati figli di Dio e lo siamo di fatto » (1 S. Giov., I, 12.). Certo questa vita divina non è che una partecipazione, una somiglianza, un’assimilazione, che ci fa, non dei, ma esseri deiformi, ossia simili a Dio. Non è però men vero che questa vita è, non una finzione, ma una realtà; è una vita nuova, pari no ma simile a quella di Dio, e che, secondo la testimonianza delle Sacre Scritture, suppone una nuova generazione o una rigenerazione: « Chi non rinascerà di acqua e di Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio » (S. Giov. III, 5). Onde il battesimo viene chiamato sacramento della rigenerazione, perché ci fa nascere alla vita della grazia, alla vita divina (Tit. III, 5). Tutte queste espressioni ci dicono che la nostra adozione non è puramente nominale ma vera e reale, sebbene distinta dalla filiazione del Verbo incarnato. Onde noi diventiamo di pieno diritto eredi del regno celeste e coeredì di Colui che è il nostro fratello primogenito (Rom. VIII, 17). Dio avrà dunque per noi la premura e la tenerezza di un padre. Si paragona Egli stesso a una madre che non può mai dimenticare il figlio. « Una donna dimenticherà forse suo figlio? Non avrà ella pietà del frutto delle sue viscere? Ma quand’anche le madri dimenticassero i loro figli io mai ti dimenticherò » (is. XLIX, 15). — « Dio ha tanto amato il mondo che diede il Figlio suo unigenito, affinché ogni credente in Lui non perisca ma abbia la vita eterna » (S, Giov. III, 16). Poteva Dio darci una maggior prova di amore? e potremo noi ricusar mai nulla a Colui che, per salvarci e santificarci, ci dà il proprio Figlio, l’unico suo Figlio, un altro se stesso?

b) Questo FIGLIO viene Egli pure ad abitare nell’anima nostra, e, Figlio eterno del Padre, Verbo generato da tutta l’eternità, in tutto uguale al Padre, non esita a chiamarci fratelli e trattarci da intimi amici.

1) Apparendo, dopo la risurrezione, a Maddalena che lo aveva seguito fino al Calvario e parlandole dei discepoli, le dice: « Va dai miei fratelli e di’ loro: Ascendo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro » (S. Giov. XX, 17). Dunque Gesù risorto ci considera come suoi fratelli. Ne è da meravigliarne; se siamo sue membra, dobbiamo pur essere figli dello stesso Padre, fratelli suoi e suoi coeredi. Onde l’apostolo san Paolo lo chiama « il primogenito di molti fratelli ». Avrà quindi per noi quella tenerezza, quella premura che un primogenito ha pei fratelli minori; giungerà persino a sacrificarsi per loro, affinché, lavati e purificati nel suo sangue (Apoc. I, 5), possiamo partecipare alla sua vita ed entrare un giorno con Lui nel regno di suo Padre. Che ventura per noi di avere un tal fratello! Se Egli diede il sangue e la vita per sentificarci, potremo noi ricusargli l’intiero dono di noi stessi e i piccoli sacrifici che ci chiede per renderci conformi a Lui?

2) Gesù vuole anche essere nostro amico. Nell’ultima Cena dichiara agli Apostoli, e in essi a quanti crederanno in Lui; « Voi siete miei amici se fate quello che vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa che cosa fa il suo padrone, ma vi ho chiamati amici, perché v’ho manifestato tutto quello che udii dal Padre mio » (S. Giov. XV, 14-15). Gesù non ha dunque segreti per noi; ci comunicò quelle verità che attinse nel seno del Padre; queste verità verrà a ripetercele nel segreto del cuore, ce le farà intendere e gustare, sarà veramente la luce che illumina ogni uomo di buona volontà; ascoltandolo, saremo i figli della luce ed entreremo in comunione col suo pensiero. – Ma Gesù ci diede una prova anche più grande di amore: « Non c’è, Egli dice, amore più grande che il dar la vita per i propri amici » (ivi, XV, 13). Ora Gesù diede appunto la vita per noi e la diede proprio quando, per il peccato, eravamo suoi nemici. Che cosa non farà dunque per noi ora che siamo con Lui riconciliati per la virtù del suo sangue? – Ascoltiamo la dolce sua parola: « Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno sente la mia voce e apre la porta, io entrerò in casa sua e cenerò con lui ed egli con me » /Apoc. III, 20). Avremmo mai osato pensare a tanta intimità? Gesù batte delicatamente alla porta del nostro cuore. Avrebbe diritto di entrarvi da padrone; ma aspetta che noi gentil.mente gli apriamo; non vuole sforzare l’ingresso, vuole che gli apriamo noi liberamente, Aperto che gli abbiamo, entra da amico. E avvengono allora le effusioni della più tenera amicizia, i dolci colloqui che durano fino a tarda notte. Ben le conosceva queste intime relazioni l’autore dell’Imitazione quando descriveva le frequenti visite che Gesù fa alle anime interiori, le dolci conversazioni con loro, le spirituali consolazioni che loro concede, la pace che fa regnare in loro, la familiarità stupenda con cui le tratta! (Imit. Lib. II, cap. I). Queste meraviglie le ritroviamo tutte nella vita di santa Teresa del Bambin Gesù, che diceva con graziosa ingenuità: « Gesù io vorrei amarlo tanto, amarlo come non fu amato mai ». (L’Esprit de sainte Thérèse de l’Enfant Jésus, p. 3). Senza pretendere di levarci tant’alto, oh perché, nelle nostre meditazioni, nelle comunioni, nelle visite al santissimo Sacramento, non tentare di conversar dolcemente coll’ospite divino, col fratello affettuosissimo, coll’amico intimo, che viene, per dir così, a mendicare un po’ di amore da noi: « Figlio, dammi il tuo cuore » (Prov. XXIII, 26).

c) Appunto per aiutarci in questa via di amore viene lo Spirito Santo ad abitare nel nostro cuore, onde santificarlo e lavorar con noi a ornarlo di tutte le virtù. Vi spande la divina carità e dà a noi se stesso: « L’amor di Dio è diffuso nei nostri cuori per messo dello Spirito Santo che ci fu dato (Rom. V, 5). Non gli basta compartirci i suoi più preziosi doni: ci dà pure se stesso, perché possiamo godere della sua presenza e della sua amicizia.

1) Dandosi a noi, trasforma l’anima nostra in un tempio santo. « Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?… Santo è il tempio di Dio, che siete voi » (1 Cor. III, 16-17). Egli è infatti il Dio di ogni santità e quando viene nell’anima, l’anima diventa un sacro recinto riservato al culto di Dio, diventa un santuario ove Dio vuol essere adorato e dove gode di spandere le sue grazie con santa profusione.

2) Lo Spirito Santo si fa dunque nostro collaboratore nell’opera della nostra santificazione e ci aiuta a coltivar quella vita soprannaturale che ci ha comunicata. Da noi non possiamo nulla nell’ordine della grazia, ma viene lo Spirito Santo a supplire alla nostra impotenza. Abbiamo bisogno di luce? Ecco che, secondo la promessa di Gesù, viene a farci capire e gustare gli insegnamenti del Maestro: « Il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel Nome mio, vi insegnerà ogni cosa e vi rammenterà tutto quanto già vi dissi Io » (S. GIOV. XIV, 26). Abbiamo bisogno di forza per mettere in pratica le sue divine ispirazioni? Lo stesso Spirito « opera in noi il volere e il fare » (Fil. III, 13), ossia ci dà la grazia non solo di volere ma anche di eseguire le fatte risoluzioni. Se da noi non sappiamo neppur pregare, « lo Spirito sostiene la nostra debolezza; perché quello che abbiamo convenientemente da chiedere non sappiamo; ma lo stesso Spirito sollecita per noi con gemiti inesplicabili » (Rom. VIII, 25). Ora le preghiere fatte sotto l’azione dello Spirito Santo e da Lui avvalorate non possono essere rigettate. – Se abbiamo da combattere le nostre passioni e da vincere le tentazioni che ci assediano, è pur Lui che ci darà la forza di resistere e di trarne partito per rassodarci nella virtù: « Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre quel che potete, ma con la tentazione darà anche la via di uscita, onde la possiate sopportare » (1 Cor. X, 13). Quando, affaticati e stanchi nel fare il bene, ci sentiremo tratti allo scoraggiamento e trepidanti della nostra perseveranza, Egli ci si avvicinerà a sorreggerci l’animo affranto, sussurrandoci affettuosamente: « Chi ha cominciato l’opera buona, la compirà anche, fino al giorno di Cristo Gesù » (Fil. I, 5). Non abbiamo dunque nulla da temere, purché mettiamo la nostra confidenza in queste tre divine Persone che vivono e operano in noi appunto per consolarci, per fortificarci, per santificarci. Non siamo mai soli: abbiamo in noi Colui che è la beatitudine degli eletti! Ecco perché, se avessimo fede viva, potremmo ripetere con suor Elisabetta della Trinità: « Ho trovato il paradiso sulla terra, perché il paradiso è Dio e Dio è nell’anima mia. Il giorno che capii questa verità tutto divenne luce in me, ond’io vorrei ridir questo segreto a tutti coloro che amo ». Quante anime vennero, come questa pia Carmelitana, trasformate il giorno in cui, per virtù dello Spirito Santo, capirono che Dio abita in loro! Un nuovo indirizzo si scorse nella loro vita, una continua ascensione verso Dio e verso la perfezione, un principio della beatitudine celeste, specialmente quando vi aggiunsero lo studio di vivere nell’intimità dell’Ospite divino.

ART. II. — I NOSTRI DOVERI VERSO L’OSPITE DIVINO.

Poiché le tre divine Persone abitano in noi e ci ammettono alla loro intimità (Fil. I, 5), è evidente che dobbiamo porgere loro i doveri religiosi che loro spettano. E quali sono questi doveri? Li possiamo dedurre dalle relazioni che esse hanno con noi. Ora esse:

1° pensano costantemente a noi e si occupano dei nostri spirituali interessi; quindi noi dobbiamo spesso pensare riconoscenti ad esse;

2° ci trasformano l’anima in un tempio, e richiedono quindi le nostre adorazioni;

3° non ristanno dall’amarci coll’amore più disinteressato, quindi noi dobbiamo ricambiarle di amore;

4° sono il più compito modello di perfezione, quindi noi dobbiamo imitarle, per quanto ce lo permette la nostra debolezza.

Il primo dei nostri doveri è di pensare spesso a quel Dio che vive in noi e tenergli compagnia. Quando una Persona di riguardo ci fa l’onore di visitarci, noi siamo tutti premura per consacrarle il meglio del nostro tempo e ci studiamo di renderle più gradito che sia possibile il soggiorno. Or non dovremo fare altrettanto verso l’Ospite divino che ci fa l’insigne onore di visitarci e di fissare in noi la sua dimora? Ei s’occupa assiduamente degli interessi dell’anima nostra e noi avremo il coraggio di dimenticarlo? – Santa Teresa si rimproverava di aver per troppo tempo vissuto senza pensare frequentemente ala santissima Trinità. « Ben sapevo, ella scrive, di avere l’anima, ma che cosa meriti quest’anima e chi stia dentro di lei io non capiva, perché mi tappavo gli occhi con le vanità della vita per non vederlo. Mi pare che, se avessi capito, come capisco ora, che in questo palazzo piccolino dell’anima alloggia un Re così grande, io non l’avrei lasciato tante volte solo e avrei cercato che la mia anima non fosse tanto sudicia! » (Camino de Perfeccion, Cap. XXVIII, n. 11, p. 466, delle Obras de Santa Teresa de Jesus, edizione minore curata dal P. Silverio; e T. II, p, 214-215 delle Opere di S. Teresa, trad. dal P. Federico di S. Antonio). Quanti lettori dovranno farsi il medesimo rimprovero e si studieranno ormai di tenere compagnia all’Ospite divino dal mattino alla sera.

a) Il mezzo è semplice, consiste nel raccogliersi al principio di ogni azione, nel dire a se stesso: Dio vive in me, e nel consacrare alle tre divine Persone l’azione che si sta per incominciare. Ciò in sostanza è poi quello che viene suggerito dalla Chiesa. La Chiesa fin dai primi secoli raccomanda ai fedeli di farsi il segno della croce al principio delle principali azioni, dicendo: « Nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo ». Il che è quanto dire: io voglio che questa azione ridondi a gloria del Padre, il quale non solo mi creò, ma anche mi adottò per figlio; a gloria del Figlio, che si fece uomo per me e mi riscattò a prezzo del suo sangue; a gloria dello Spirito Santo, che viene nell’anima mia, a spandervi colla carità tutte le grazie meritatemi da Gesù Cristo.

b) Ma le anime interiori vanno ancora più oltre: riflettendo che l’Ospite divino è per noi fonte di luce, di forza, di consolazione, nel corso delle loro azioni gli volgono spesso gli occhi della mente e del cuore. Quando l’oscurità invade l’anima e pare che le verità della fede non facciano più impressione, ricorrono subito al Padre dei lumi, dicendogli dal fondo del cuore: « Fino a quando mi nasconderai la tua faccia? Guarda, o mio Dio, rispondimi, dà luce ai miei occhi! » (Ps. XII, 2-4). – Se si sentono deboli e impotenti, invocano Colui che è la loro forza e la loro protezione: « In te ho posto il mio rifugio: deh! ch’io non sia confuso in eterno!.., Sii per me rupe protettrice, fortezza ov’io trovi scampo » (Ps. XXX, 2-3). Se la desolazione e l’aridità ne straziano l’anima, corrono all’orto degli ulivi, e inginocchiandosi accanto al Salvatore che patì per loro l’angoscia, la paura, la tristezza mortale, si offrono con Lui vittime, pronte a fare la sua santa volontà: « Padre, se questo calice non può passare senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà » (Matt. XXVI, 42).

c) Specialmente nelle preghiere richiamano la parola di Gesù: « Tu poi, quando preghi, entra nella tua camera, e, chiuso l’uscio, prega tuo Padre che è presente nel segreto » (Matt. VI, 6). La camera ove si ritirano è la celletta del loro cuore: qui trovano queste anime la santissima Trinità; qui, unite e incorporate al Verbo incarnato, adorano e pregano in silenzio.

Il secondo dovere è infatti quello dell’adorazione. E come non glorificare, benedire, lodare, ringraziare quest’Ospite divino che, essendo Dio, trasforma l’anima nostra in un vero santuario? « Magnificat anima mea Dominum: l’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore… perché grandi cose ha fatto in me Colui che è potente, e il cui nome è santo » (S, Luc. I, 47-48). Tali devono essere i sentimenti di un’anima che diviene consapevole dell’abitazione in lei delle tre divine Persone; capisce che, essendo tempio di Dio, deve continuamente offrirsi ostia di lode alla gloria della santissima Trinità. Con quale amore quindi ripete nel cuore quella dossologia che i primi cristiani recitavano così volentieri: « Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo ». Non è questa per lei una vana formola, ma vi trasfonde tutti i suoi sentimenti di lode, di adorazione e di amore, riconoscendo con ogni sincerità che Dio solo merita di esser glorificato, perché Egli solo è l’autore di ogni bene. Quando assiste alla santa Messa, si diletta di recitar posatamente, di assaporare, a così dire, tutte le preghiere che riguardano l’adorabile Trinità: il Kyrie eleison, flebile grido del peccatore che implora la pietà e la misericordia delle singole tre Persone divine; il Gloria in excelsis, che esprime così bene i sentimenti religiosi verso queste tre divine Persone e specialmente verso il Verbo incarnato; il Sanctus, che proclama la ineffabile santità di Dio in unione con gli Angeli e coi santi del cielo. Il Pater le rammenta ci sto Dio è suo padre, onde lo recita con tutta filiale confidenza, associandosi a Colui che, avendocelo insegnato, continua a ripeterlo con noi. E quando, alla fine della Messa, il sacerdote china il capo sull’altare per supplicare la santissima Trinità che si degni di accettare il sacrifizio da lui offerto, l’anima pia vi unisce l’offerta del proprio cuore e ne risente conforto per tutto il giorno.

3° E allora più facile le diviene l’AMORE; si sente echeggiar spesso all’orecchio quel dolce invito di un Padre amantissimo che, chinandosi verso di lei, le dice: « Figlia mia, dammi il tuo cuore » (PROV. XXIII, 26). E lei, piena di confidenza e di abbandono tutto filiale, spontaneamente risponde: « Eccomi, o Signore, perché mi avete chiamata; eccomi con tutto ciò che posseggo; tutto volentieri io consegno a voi ». – Essendo l’amore che Dio ci porta essenzialmente generoso e attivo, il nostro non dovrà manifestarsi soltanto con pii sentimenti ma con atti e con sacrifizi. Sarà un amor penitente, per espiare le nostre troppo numerose infedeltà; un amor riconoscente, per ringraziare l’insigne benefattore, il collaboratore devoto, che lavora in noi e con noi con tanta attività e costanza; e per ringraziarlo dei suoi benefici, gli prometteremo di usar meglio delle copiose grazie che così largamente ci concede. Sarà un amor di amicizia, che alle divine premure ci farà corrispondere con santa letizia, e conversar dolcemente col più fedele e più generoso degli amici; che ci farà caldeggiare tutti i suoi interessi, procurarne la gloria, benedire e far benedire il santo suo Nome. Sarà infine un amor generoso, che arriva fino al sacrifizio, all’oblio di se stesso, alla cordiale accettazione di tutte le prove che gli piacerà inviarci. Diremo sinceramente con santa Teresa del Bambin Gesù: « Non sono egoista io : amo il Signore e non me stessa… L’anima mia è sempre tra gli affanni, ma io ne sono lieta, sì, molto lieta di non avere nessuna consolazione… Teresa, la fidanzatina di Gesù, ama Gesù per se stesso ». (L’Esprit de saînte Thérèse de l’Enfant Jésus, p. 35-36).

L’amore generoso conduce all’IMITAZIONE, perché si vuole assomigliare il più possibile a Colui che si ama. Ma in che modo imitare la santissima Trinità la cui santità è infinita? In doppio modo: coll’evitare premurosamente tutto ciò che potrebbe appannare la purità dell’anima nostra; e coll’ornarla di tutte quelle virtù che ci fanno rassomigliar di più a Dio.

a) Essendo tempii vivi della santissima Trinità, è chiaro che dobbiamo serbar gelosamente la purità del corpo e dell’anima. Questo inculcava san Paolo ai discepoli, richiamando il gran dogma dell’abitazione dello Spirito Santo nell’anima loro: « Non sapete che siete il tempio Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno profanerà il tempio di Dio, Dio disperderà costui, perché santo è il tempio di Dio, che siete voi » (1 Cor. III, 16-17).  Quando dunque ci sentiamo assaliti dalla tentazione, quando la tentazione si fa più insistente e più perfida, diamo uno sguardo alla celletta dell’anima nostra abitata dalla santissima Trinità, e, fidenti nell’aiuto divino, diciamo con santa energia: « Piuttosto morire, o mio Dio, che macchiare il vostro santuario! piuttosto morire che cacciarvi dal mio cuore coll’introdurvi il peccato e il demonio! ». L’esperienza dimostra che, per le anime nobili e generose, non c’è motivo più potente di questo per allontanarle dal peccato.

b) Ed è pure stimolo efficacissimo per indurle alla pratica delle virtù. Non è infatti dicevole che si adorni il tempio ove risiede il Dio tre volte santo? ma come ornarlo senza accostarci a questo divino Esemplare con la pratica delle virtù? Questo ci chiede Nostro Signore nel proporci a modello lo stesso suo Padre: « Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste » (Matt. V, 48). A prima vista pare ideale troppo alto per noi; ma dacché Dio è nostro Padre per adozione, non dobbiamo forse rassomigliargli? Del resto, a facilitarci il lavoro, il Figlio di Dio si fece uomo come noi, visse la nostra vita, assunse le nostre miserie e le nostre debolezze eccetto il peccato, e diventò così la via che dobbiamo battere per andare al Padre. Si potrebbe dire che Dio è troppo alto da poterlo noi imitare, ma non possiamo più addurre questo pretesto quando si tratta del Figlio, il ,quale, nella vita nascosta, nella vita pubblica, nella vita dolorosa, ci diede l’esempio di tutte le virtù che dobbiamo praticare nelle varie condizioni in cui la Provvidenza ci pone. Ora imitare il Figlio è imitare il Padre, perché il Figlio opera sempre in perfetta conformità col Padre.

c) Vi è poi una virtù di cui Nostro Signore ci raccomanda in modo particolare la pratica onde imitare l’unità perfetta che regna tra le tre divine Persone; è la carità fraterna. Fatta l’ultima Cena, nel momento in cui Gesù, prima di lasciar gli Apostoli, rivolge per loro al Padre una speciale preghiera, una delle grazie che chiede pei suoi discepoli è l’unione fraterna fra loro: « Che siano tutti una cosa sola, come tu, o Padre, sei in me e Io in te, che siano anche essi una cosa sola in noi » (S. Giov. XVII, 21). Tenera preghiera che san Paolo ripeterà un giorno, supplicando i cari suoi discepoli di non dimenticare che, essendo un sol corpo e un solo spirito, avendo un solo e medesimo Padre che abita in tutti i giusti, debbono serbare l’unità dello spirito col vincolo della pace (Efes. IV, 3-6). – Nei primi secoli della Chiesa questa preghiera fu esaudita; sappiamo infatti che i pagani stessi non potevano tenersi dal dire: Vedete come questi Cristiani si amano fra loro! Deh! che, in questi tristi tempi in cui le menti ed i cuori sono così divisi, possiamo appagare anche noi il più caro desiderio del Cuor di Gesù, ed esser talmente uniti coi vincoli di una santa carità che i nostri stessi avversari siano obbligati a riconoscerlo! Del resto, sarebbe pur questo il mezzo migliore per far rispettare i nostri diritti, perché l’unione fa la forza. – È dunque chiaro che non c’è nulla di più santificante quanto il pensiero frequente e affettuoso delle tre divine Persone che abitano in noi. Non c’è nulla che più ci muova alla virtù della religione, alla vera e soda pietà; non c’è nulla che ci faccia meglio praticare le virtù, specialmente quella carità fraterna che è il distintivo dei veri Cristiani, e il pegno più sicuro che siamo figli di Dio.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (7)

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA (1)

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA (1)

P. Andrea Oddone s. j.

IL PRIMATO SPIRITUALE DI ROMA SECONDO LA COSTITUZIONE PASTOR ÆTERNUS

S. E. I. MILANO, – 1937

IMPRIMI POTEST:

P. Josephus Peano, Præp Prov. Faur., Sol. Die VII Aprilis MCMXXXVII

Nihil obstat quominus imprimatur :Sac. Carolus Figini, Cens. Eccles.

IMPRIMATUR – In Curia Arch. Mediol.; die IV Maii MCMXXXVII

+. Pi Castiglioni, Vie. Generalis

INTRODUZIONE

Pio IX apriva solennemente il Concilio Vaticano l’8 Dicembre del 1869, e per le dolorose circostanze della presa di Roma, lo sospendeva il 20 Ottobre con la Bolla Postquam Dei munere. (A.Oppone: Concili-ecumenici e vicende del Concilio Vaticano). Il Concilio promulgò due Costituzioni dogmatiche importantissime, che sono tra i più insigni documenti del Magistero straordinario della Chiesa: la Dei Filius e la Pastor Æternus. Za prima condanna le dottrine razionaliste intorno a Dio, alla creazione, alla rivelazione, alla fede e ai rapporti tra fede e ragione. – « Questa Costituzione, scriveva il Card. Manning, è l’affermazione più larga e più ardita del soprannaturale e spirituale, che si sia mai gettata sino al presente in faccia al mondo ». Fu votata all’unanimità il 24 Aprile del 1870 e approvata solennemente dal Papa. – La seconda determina e dichiara la dottrina rivelata riguardante la podestà pontificia. Fu animosamente discussa con la più ampia libertà, fu oppugnata e tenacemente contrastata sopra alcuni punti, sino all’ultimo, da una minoranza battagliera, e usciva infine vittoriosa il 18 Luglio con. 532 placet, e soli 2 non placet.

Il Concilio Vaticano verrà ricordato e apprezzato sopra tutto per la definizione dell’infallibilità pontificia, con la quale restaurò negli animi il principio di autorità scosso dal razionalismo, senza degenerare in oppressione delle legittime libertà. « L’autorità del Romano Pontefice, diceva Pio IX concludendo quel grande dibattito, non opprime, ma solleva; non rovina, ma edifica, e spesso conferma la dignità, riunisce nell’amore e difende i diritti dei fratelli ».

Presento agli studenti dell’Università Cattolica del S. Cuore una breve analisi della Costituzione Pastor Æternus. Spero in tal modo di colmare qualche lacuna delle mie lezioni e di invogliare, anche mediante riferimenti bibliografici, a studi più profondi intorno a questo argomento, che mira a promuovere sempre più l’attaccamento e la devozione della coscienza cristiana al Romano Pontefice.

P. ANDREA ODDONE S.I.

Professore nell’ Università Cattolica del S. Cuore.

I.

RELAZIONE TRA CRISTO E LA CHIESA

La Costituzione Pastor Æternus consta di un breve prologo e di quattro capitoli. Nel prologo si accenna in generale all’istituzione divina della Chiesa, alla sua natura e al suo scopo. I dottori cattolici, i Padri della Chiesa, i teologi, gli asceti, hanno scrutate le Scritture e la Tradizione per conoscere il posto che Gesù Cristo occupa nel piano divino. Essi hanno sopprattutto studiato S. Paolo, che nelle sue magnifiche Lettere parla così frequentemente e così entusiasticamente di Cristo, e ci dà la più alta idea della pienezza della sua perfezione e della eccellenza della sua missione. « Egli, dice l’Apostolo, è l’immagine di Dio invisibile, generato prima di ogni creatura, poiché in Lui tutte le cose furono create, e quelle che sono nel cielo e quelle che sono sulla terra, le cose visibili e le cose invisibili, e i Troni e le Dominazioni e i Principati e le Potestà. Tutto è stato creato da Lui e per Lui; ed Egli è prima di tutte le cose, e ogni cosa sussiste in Lui. Egli è il capo del corpo, che è la Chiesa, come è il principio, il primogenito di tra i morti, affinché tenga in ogni cosa il primato. Poiché a Dio piacque di fare abitare in Lui tutta la pienezza, e riconciliare per mezzo suo tutte le cose » (Coloss., cap. 1, 15-20). Queste sublimi parole di S. Paolo delineano magistralmente la trascendenza divina di Gesù Cristo, il suo dominio e il suo influsso sopra tutta la creazione. Tutto si riferisce a lui come a modello, a salvatore, a capo. (Prat.: Teologia di S. Paolo, Vol. 1, pag: 278: « Il primato di Cristo ») Egli è il perno, l’asse di rotazione, il centro di tutta la storia; attorno a Lui si aggira il mondo morale come il mondo fisico si aggira attorno al sole. Egli comprende tutte le epoche, dirige e modera tutti gli avvenimenti, che senza di Lui non si possono pienamente spiegare, perché, secondo il motto di Tertulliano, Gesù Cristo è la soluzione di ogni questione, la chiave di ogni mistero religioso e profano: Omnis quæstionis solutio est Christus. Gesù Cristo è il principio di ogni armonia nell’universo, è la pace tra il cielo e la terra, è il bacio di Dio con la creatura, dice eloquentemente Vito Fornari: a L  ui tutto deve far capo, tutto deve servire a Lui, alla sua gloria. (Vita di Gesù Cristo, Proemio, pag. 27). L’attento e imparziale filosofo della storia scorge facilmente la conferma di questa verità nello svolgersi delle vicende puramente profane, che senza di Gesù Cristo sono per lui come un libro da cui si toglie il principio e il fine. Ma nella storia religiosa e nella storia della Chiesa il fatto è di una evidenza impressionante. Cristo è soprattutto il fondamento incrollabile, l’anima e il compendio di tutto l’edificio religioso. Tutta la teologia s’ impernia in Lui e in Lui si sintetizzano tutti i dogmi. Egli è il fonte unico di ogni grazia, il maestro unico degli uomini, l’unica via di salvezza per il genere umano. Gesù Cristo è come un faro, che attira gli sguardi dell’umanità tutta intera. Domina i secoli che hanno preceduto la sua venuta: l’Antico Testamento è ripieno di Lui, è tutto un’ombra, una figura, una profezia del Messia futuro; Il Nuovo Testamento è la luce vivida del sole atteso, è la realtà, è la storia della vita umana e mortale di Gesù Cristo in mezzo a noi. Dopo la sua morte sul Calvario, Gesù Cristo vive di una vita personale e trionfante in cielo, di una vita mistica, ma reale, nell’Eucaristia, di una vita provvidenziale nella società umana, di una vita soprannaturale nella Chiesa, che è l’opera sua più grande e meravigliosa. (Jesus Christus heri et hodie; ipse et in sæcula. – S. Paolo; Heb., XIII, 8).

* * *

Gesù Cristo è fondatore immediato della Chiesa, cioè di quella società di Cristiani uniti dalla professione della medesima fede e dalla comunione degli stessi Sacramenti, e governati dal Papa e dai Vescovi. E quando si dice che Cristo fondò immediatamente la Chiesa non si vuole significare che Egli con la sua dottrina e con la sua condotta abbia soltanto suscitato un movimento religioso, che poi per evoluzione naturale provocò la formazione della Chiesa, o che abbia semplicemente dato ad altri la potestà di fondarla, ma che di fatto. Egli stesso determinò la natura della Chiesa, cioè i suoi elementi essenziali e la sua forma specifica. – I Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le Lettere di S. Paolo e degli altri discepoli, sono i documenti autentici e oggi incontestati; almeno per la vera scienza, dove si legge la storia dell’origine della Chiesa. Da questi documenti risulta chiaramente che la formazione della Chiesa è la prima e, quasi oserei dire, la principale preoccupazione di Gesù Cristo. Nella creazione soprannaturale della Chiesa possiamo distinguere due periodi, l’uno di preparazione, l’altro di organizzazione propriamente detta. Gesù esprime nettamente il pensiero e il proposito di volere fondare una società distinta e separata dalla Sinagoga giudaica. A Simone muta il nome in quello di Pietro, o meglio di Petra, e promette che sopra di lui innalzerà un nuovo edificio: « Tu sei Pietro, e sopra questa Pietra (sopra di te Pietra) edificherò la mia Chiesa ». (Matt. XVI, 18). La promessa fu solennemente fatta da Cristo nella sua qualità di Messia e di Figlio di Dio, ed ebbe una qualche relazione remunerativa per Pietro, che aveva pubblicamente affermato la divinità di Cristo; la promessa fu assoluta, non condizionata. Anche se mancassero altre prove, potremmo dunque legittimamente conchiudere che Cristo deve aver mantenuto la promessa. (Batiffol: La Chiesa nascente, pag. 94-113. — TANQUEREY: De Ecclesia, p. 613, nota). E l’idea sociale della nuova istituzione si ripete sotto altre forme non meno evidenti. Gesù vagheggia un ovile, una casa, una famiglia, una città, un regno. Specialmente l’idea di regno è quella che domina nella predicazione di Gesù. Egli è venuto a stabilire il regno di Dio, il regno dei cieli; attorno al tema di questo regno si aggira il suo insegnamento per un triennio; a questo regno ritorna ancora il suo pensiero negli ultimi colloqui che tiene con i discepoli. E in tutte queste figure e immagini è sempre l’idea sociale che si afferma in modo chiaro, sempre qualche cosa di visibile e di esterno, che deve attuarsi primieramente quaggiù in mezzo agli uomini. (Oddone: La Costituzione sociale della Chiesa, pag. 74). Per innalzare l’edifizio mistico della sua Chiesa, Gesù, come un abile architetto, incomincia a raccogliere i materiali, cioè a scegliere alcuni suoi discepoli, che dovranno essere il fondamento e le colonne dell’edifizio. « E chiamò a sé quelli che egli volle… e ne stabilì dodici che stessero con lui ». (Marco, III, 14. — Cf. Etudes, Anno 1916, Vol. 148-149: Jésus et son oeuvre éducatrice, pag. 51). I dodici non solo dimoravano con Gesù, ma lo accompagnavano dappertutto nelle sue missioni: « E Gesù percorreva le città e i villaggi annunziando la lieta novella del regno di Dio, e lo accompagnavano i Dodici ». (Luca; VIII, 1) Gesù li vuole vicini a sé, specialmente quando compie i suoi miracoli, perché i suoi miracoli insieme con le sue affermazioni, costituiscono la grande prova della divinità della sua missione. Avendoli abitualmente in sua compagnia, Gesù può compiere sopra i Dodici una speciale opera educatrice e impartire ad essi una cultura più intensa. A loro tiene particolari esortazioni, e per loro ha spiegazioni complementari e rivelazioni dei suoi più sublimi misteri. « Parlava alle folle in parabole, dice S. Marco; ma in disparte spiegava poi ogni cosa ai suoi discepoli ».(Marco, IV, 33) Li ammaestra intorno alle più importanti virtù; li adopera in particolari mansioni; promette loro l’ufficio di giudici; li informa separatamente della sua passione e morte e mangia con loro la Pasqua. (FONTAINE: L’Eglise ou le Christianisme vivant, pag. 35). – Al periodo di preparazione tiene dietro il periodo di attuazione. La società è « l’unione stabile di più individui che tendono di comune accordo ad uno stesso fine ». Non ogni moltitudine di uomini quindi costituisce la società, ma solo quella che cospira in modo stabile allo stesso fine. Questa costante cospirazione o tendenza di molti, risulta da alcuni vincoli, che uniscono le volontà e gli sforzi della moltitudine, tra i quali tiene il primo posto l’autorità. Perciò la materia della società è la moltitudine, la forza sono i vincoli e principalmente l’autorità, l’autore è colui che ponendo i vincoli unisce la moltitudine. Ora Gesù Cristo unì e associò i suoi seguaci con un triplice vincolo, cioè con la professione della stessa fede, con i medesimi riti e con lo stesso governo: un vincolo simbolico, un vincolo liturgico, un vincolo gerarchico. A tutti impose la professione della stessa fede: « Andate per tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura: chi crederà e sarà battezzato sarà salvo; chi non crederà sarà condannato ». (Marco, XIV, 15) Per tutti stabilì la comunione degli stessi riti, specialmente del Battesimo e dell’Eucaristia: « Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo. Nessuno se non nasce per acqua e Spirito, può entrare nel regno dei Cieli. (Marco, XIV, 15) — Il pane che io darò, è la mia carne per la vita del mondo. Se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo e non berrete il suo sangue, non avrete in voi la vita ». (Giovanni, VI, 52.) Tutti sottopose allo stesso governo, perché ai soli Apostoli, ai quali aveva innanzi promessa la facoltà di legare e di sciogliere, affida la podestà di predicare, di battezzare, di governare e di assolvere. (Matteo, XVIII, 18. — Matt., XXVIII, 19) Inoltre al solo Pietro dà l’incarico di pascere le sue pecorelle. (Giov., XXI, 15). Se creare una società significa raccogliere un gruppo, un corpo di persone, ordinarle tra loro e destinarle ad uno scopo, dar loro una legge e un capo e determinati mezzi di che devono valersi per raggiungere l’intento; allora la Chiesa è evidentemente opera di Cristo. Egli attrasse a sé alcuni pescatori della Galilea, li formò alla sua scuola, trasfuse in essi il suo spirito e diede loro l’incarico di predicare, di presiedere, di dirigere, di condurre le anime al cielo con il soccorso della sua grazia, di continuare insomma la sua missione. Ecco la piccola società di Gesù, la Chiesa, con la sua forma gerarchica nella quale sono bene designate e messe in rilievo le parti dell’autorità. In essa vi sono maestri e vi sono discepoli; vi sono pastori e vi sono pecorelle; vi sono governanti e vi sono governati. Non alla moltitudine, ma a pochi fu detto: Andate, ammaestrate, insegnate le cose che Io ho insegnate a voi, battezzate. Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me. Queste testimonianze del Vangelo già così chiare di per sé, sono avvalorate e confermate dalla interpretazione autentica e non interrotta degli Apostoli e di tutti i secoli cristiani. Gli Atti e le Lettere degli Apostoli ci dicono che si costituì subito, sino dal principio del Cristianesimo, la Chiesa, cioè una moltitudine di chiamati, con un fine determinato, fornita di speciali mezzi, governata da un’autorità istituita da Cristo. I primitivi Cristiani, infatti, attendono alla santificazione delle anime per mezzo dell’esercizio della Religione cristiana. Ai Giudei che domandano a Pietro che cosa devono fare, egli risponde: « Fate penitenza e si battezzi ciascuno di voi nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; e riceverete il dono dello Spirito Santo ». (Atti, II, 37). Viene descritta nei più interessanti particolari la vita della nuova società. « Erano assidui alle istruzioni degli Apostoli e alla comune frazione del pane e all’orazione… E ogni giorno trattenendosi lungamente tutti d’accordo nel tempio, e spezzando il pane per le case, prendevano cibo con gaudio e semplicità di cuore, lodando Dio ed essendo ben veduti da tutto il popolo. Il Signore poi aggiungeva alla stessa Società ogni giorno gente, che si salvasse ». (Atti, VI, 43.). La società è retta dall’autorità degli Apostoli, che dicono espressamente di avere ricevuto da Dio autorità sui fedeli, di predicare la parola di Dio, per comando di Cristo e si chiamano ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio. ((I Cor., 4) « È Gesù Cristo stesso, dice S. Paolo, che alcuni costituì Apostoli, altri profeti, altri evangelisti, altri pastori e dottori… affinché non siamo più fanciulli, sbalzati e portati qua e là da ogni vento di dottrina per la malizia degli uomini e per la loro abilità nello spargere l’errore. » (Efes, IV, 11). Gli Apostoli attribuiscono esplicitamente a Cristo l’istituzione della Chiesa. Essi insegnano che i fedeli formano « una casa spirituale » edificata « sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti, con Gesù Cristo stesso come pietra maestra angolare »; (I Pierro, II, 4. — Efes., Il, 20) che Cristo è « capo supremo della Chiesa, la quale è il suo corpo, il complemento di Lui »; (Efes.,.1, 22) che Cristo acquistò la Chiesa « con il suo sangue »; (Atti, XX, 28.) che la Chiesa è la sposa di Cristo, da lui amata, per la quale diede se stesso, « a fine di santificarla e farla comparire davanti a sé  rivestita di splendore ». (Efes., V, 25). Non sono dunque gli avvenimenti politici abilmente sfruttati che abbiano dato origine alla società della Chiesa, così fortemente organizzata sino dai primi giorni della sua esistenza. Essa è già nelle pagine divine del Nuovo Testamento, che rispecchiano esattamente le idee e i voleri di Cristo: essa è opera diretta di Cristo. – Il Concilio Vaticano asserisce solennemente che « il Pastore eterno e il Vescovo delle anime nostre, per rendere perpetua l’opera salutare della sua redenzione, decretò di edificare la Santa Chiesa, nella quale, come nella casa del Dio vivente, tutti i fedeli si mantenessero uniti con il vincolo di una sola fede e di un solo amore ». Lo stesso Concilio riprende coloro che « pervertono la forma di governo costituita da Cristo nella sua Chiesa ». E precedentemente, nella Costituzione De fide, aveva già detto che « affinché noi possiamo soddisfare al dovere di abbracciare la vera fede e di perseverare in essa costantemente, Dio mediante il suo Figlio Unigenito istituì la Chiesa ». (Anzi nel Concilio Vaticano si era già preparata una definizione a questo riguardo. Il che chiaramente significa quale fosse la mente dei Padri del Concilio.). Nel Decreto Lamentabili viene esplicitamente condannato l’errore del Loisy: « Fu alieno dalla mente di Cristo il costituire la Chiesa come società che dovesse durare sulla terra una lunga serie di anni ». (DENZINGER, n. 2052. — CAVALLERA, THESAURUS., N. 309. — Enciclica « Pascendi ». — DENZINGER, N. 2091) Nel Giuramento antimodernista si professa la stessa verità: « Credo fermamente che la Chiesa fu prossimamente e dirittamente istituita dallo stesso Cristo vero e storico ». L’affermazione quindi che Cristo sia autore immediato della Chiesa è storicamente certa e dogmaticamente di fede. Avvertiamo tuttavia che con questo non intendiamo dire che Cristo abbia formato con le sue mani tutte le ruote dell’organismo, che abbia istituiti tutti gli uffici, che la Chiesa avrebbe disimpegnato nel corso dei secoli per adattarsi ai diversi bisogni della società: ma diciamo che ha incaricato gli Apostoli di continuare la sua missione, di predicare la sua dottrina, di applicare alle anime per mezzo dei Sacramenti l’efficacia della sua Redenzione, e che per tutti i secoli li ha investiti di poteri sufficienti per bastare a tutte le esigenze. La Chiesa deriva da Gesù Cristo come l’albero dalla radice, come il fiume dalla sorgente viva e perenne: la Chiesa è l’espansione dello spirito di Gesù in una forma visibile, di cui Egli stesso in molti e vari modi ha dato lo schema e le linee essenziali. (Dieckmann: De Ecclesia, Vol. II, 223).

***

Gesù Cristo ha con la Chiesa la relazione di autore e fondatore divino; ma ben diversa dalla relazione di un fondatore di una società umana. L’autore di una società puramente umana, scomparendo dalla scena del mondo, abbandona l’opera sua, e viene spezzato il vincolo giuridico con la società da lui fondata. Forse rimane in qualche modo nei suoi seguaci l’indirizzo che egli ha dato; ma alla sua morte cessa ogni relazione di fondazione. Nessuna società meramente umana sfugge a questa sorte; sono perciò scomparse le società politiche antiche, le false sette religiose e le scuole dei sapienti della Grecia. – La Chiesa cattolica per volontà assoluta ed efficace di Cristo deve invece essere universale e perenne. Questa volontà di Cristo importa una seconda relazione di Cristo con la sua Chiesa, cioè una relazione di assistenza e di presidio perenne, affinché la Chiesa in mezzo a gravissimi pericoli e a lotte continue non solo rimanga sino al termine dei secoli, ma adempia con ogni fedeltà i suoi uffici. « Poiché conveniva, dice Leone XIII, che la missione divina di Cristo fosse perenne, Egli si aggregò dei discepoli della sua dottrina e li fece partecipi del suo potere; e avendo sopra di essi chiamato lo Spirito Santo, comandò loro di percorrere tutta la terra, predicando fedelmente quanto Egli aveva insegnato e comandato, nell’intento che tutto il genere umano potesse conseguire la santità in terra e la felicità sempiterna nel cielo. » (Enciclica. « Satis cognitum ».). – La perennità della Chiesa significa che essa rimarrà sino al termine dei secoli; la indefettibilità indica inoltre che non muterà sostanzialmente in sé, che sarà sempre come Cristo l’ha stabilita, che non verrà mai meno alla missione che le fu affidata. Gesù Cristo ha detto ai suoi Apostoli che le porte dell’inferno non prevarranno contro la Chiesa e che Egli sarà con loro fino alla consumazione dei secoli. (Matt., XXVIII, 20.) Sono espressioni che nei Libri Santi rappresentano una protezione sicura e invariabile di Dio. Quindi nessuna violenza, nessuna seduzione, nessun vizio, nessun errore, potrà mai nuocere agli Apostoli e ai loro successori, nell’insegnare in virtù del loro magistero, nell’amministrare i Sacramenti in virtù del loro ministero. Gesù sarà sempre con il potere insegnante, sarà sempre con il potere santificante, e né l’uno e né l’altro potranno mai venir meno o variare, in mezzo ai pericoli, che vengono dalla violenza esteriore, che nascono dall’incomprensione o dal falso zelo dei discepoli, o che sono creati dall’orgoglio e dalle passioni. (Ollivier: L’Eglise: sa raison d’étre, pag. 106). Lo stesso Gesù Cristo promette ai suoi Apostoli l’assistenza dello Spirito Santo: « Io pregherò il Padre e vi darà un altro Avvocato, affinché rimanga per sempre con voi, lo Spirito di verità, che il mondo non può ricevere ». (Giovanni: XIV, 16) Se la Chiesa non fosse indefettibile, non sarebbe vero che lo Spirito Santo le fu dato sino alla fine dei tempi, per stabilirla incrollabilmente nella verità e nella santità. – Sono eloquentissime le testimonianze dei Padri a questo riguardo. « Non allontanarti dalla Chiesa, dice S. Giovanni Crisostomo, perché nulla vi è più forte della Chiesa. La tua speranza è la Chiesa: essa è più alta del cielo, più vasta della terra. Non invecchia mai, ma è sempre giovane ». (Hom. « De capto Entropio », n. 6.). E S. Agostino scrive: « Fino a tanto che durerà il volgere dei secoli, non verrà meno la Chiesa di Dio o il Corpo di Cristo sulla terra…. Verrà meno la Chiesa se verrà meno il fondamento: ma come può mai venir meno Gesù Cristo? Non declinando Cristo neppure la Chiesa declinerà in eterno ». (In Psalm. LXXI, n. 8. — Enarratio in Ps. CIII, Serno II, n. 5).

La Chiesa fu istituita per la salvezza degli uomini, per indicare loro la via del cielo e somministrare loro i mezzi. Se essa non fosse indefettibile, se essa potesse variare cambiando dottrine e istituzioni, non sarebbe più la vera arca di salvezza. I fedeli dei diversi tempi muterebbero l’oggetto della loro fede e più non aderirebbero alla Chiesa fondata da Cristo.

Questo è l’insegnamento del Concilio Vaticano:

« Cristo volle che nella Chiesa vi fossero pastori e dottori sino alla consumazione dei secoli… e istituì un perpetuo principio di unità e di comunione; affinché sopra di esso si costruisse un tempio eterno ». (DENZINGER, D. 1821).

Sino alla fine del mondo rimarrà quindi la Chiesa, rimarranno le sue funzioni e le sue potestà. Non si esauriranno mai i tesori della Chiesa e le sorgenti delle sue grazie; la Chiesa sarà sempre la colonna e il fondamento della verità; non andrà mai soggetta a mutazione la sua forma di governo. (Dieckmann: De Ecclesia. Vol. 225; n. 924.). Per questa ragione la Chiesa è veramente, come dice il Vaticano, « un perpetuo motivo di credibilità e un testimonio irrefragabile della missione divina di Cristo… uno stendardo levato in alto tra le nazioni… un sigillo della sua origine soprannaturale e divina ». Gesù Cristo non solo è autore della Chiesa, non solo la protegge continuamente, ma rimane sempre, anche dopo la sua Ascensione, il suo Capo vivo e vivificante, al quale essa è soggetta. Pietro e i suoi successori, infatti, sono soltanto Vicari di Cristo, non nel senso che non godano di una potestà propria, ma nel senso che qui in terra fanno le veci di Cristo, il vero e proprio Re e Capo della Chiesa, e nel suo Nome e con la sua autorità governano i fedeli cristiani. – Tra Gesù Cristo e la Chiesa esiste non solo una relazione morale e giuridica, ma anche una relazione più intima e più corrispondente. ai disegni divini e all’indole della Chiesa, una relazione cioè di perenne flusso vitale nella Chiesa, considerata come società religiosa santificatrice delle anime. S. Paolo, volendo illustrare questo concetto, ci presenta spesso la Chiesa come « corpo di Cristo ». Nella I Lettera ai Corinti dice: « Voi siete il corpo di Cristo e ciascuno poi individualmente, sue membra…. Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?».(Lettera I Cor., cap. XII, 27; cap. VI, 15) Scrivendo agli Efesini dice nuovamente: « Ed egli alcuni costituì apostoli, altri profeti, altri evangelisti, altri dottori e pastori, per rendere atti i santi all’opera di ministero, per l’edificazione del corpo di Cristo ». (Efes., IV, 1 segg. — Cf. .V, 23) E ancora nella Lettera ai Colossesi: « Egli è il capo del corpo che è la Chiesa ». (Coloss., I, 18). Questo modo di considerare la Chiesa come « corpo di Cristo » dopo S. Paolo, divenne comune non solo presso i SS. Padri e i Dottori, ma presso il popolo cristiano e si può dire la definizione cristiana della Chiesa, come osserva il Franzelin. (De Ecclesia, pag. 308). L’Apostolo, parlando della Chiesa come corpo di Cristo, non intende certamente il corpo di Cristo fisico,  formato da Maria Vergine per opera dello Spirito Santo, offerto per noi nel sacrificio del Calvario, presente anche adesso in terra nell’Eucaristia; né intende un corpo morale, con il qual nome viene designata qualunque società; ma lo considera in un senso speciale, che non si verifica in nessun altro organismo. Gesù Cristo è Capo vivificante della Chiesa suo Corpo. La vita che Egli comunica alla Chiesa è la vita soprannaturale, la vita della grazia e della filiazione divina, (Rom. VI, 1 segg., VIII, 1. — Tit, IV, 5), una vita quaggiù nascosta sotto il velo del mistero, ma che sarà poi manifestata in cielo. (1 Cor., XIII, 10; 27 Cor., IV, 16). Questa vita viene comunicata, secondo la volontà di Cristo, ai singoli uomini, come a membri del Corpo di Cristo, cioè della Chiesa. Da Cristo, Capo e fonte unico, discende quindi questa vita nell’organismo e si diffonde in tutte le parti; dalla pienezza di lui noi tutti riceviamo. Il fine della Chiesa perciò consiste nel rendere gli uomini partecipi dei frutti della Redenzione di Cristo e insieme nel formare con essi un organismo soprannaturale, quasi la famiglia di Dio, (Efes., II, 19; II, 6; III, 6.) anzi un corpo vivo, congiunto con il capo vivo « dal quale tutto il corpo ben fornito e ben compaginato per mezzo di giunture e di legamenti, riceve l’aumento di Dio ». (Coloss., II, 19: — Cf Efes, II, 21; IV; 15) A questo corpo e alla sua vita servono tutti i carismi e i ministeri, che Cristo diede alla sua Chiesa, la quale è la pienezza di Cristo. (1 Cor., XII. — Rom; XII. — Efes., IV, 11). Nel suo Vangelo Gesù Cristo aveva paragonato se stesso alla vite e i suoi discepoli ai tralci inseriti nella vite, dalla quale traggono il succo vitale. (Giov. XV, 1). S. Agostino commentando questo passo del Vangelo di S. Giovanni osserva: « Quando il Signore dice di essere Egli la vite e i discepoli i tralci, lo dice secondo che Egli è capo della Chiesa e noi siamo suoi membri… La vite e i tralci sono della stessa natura. Perciò essendo Dio, la cui natura noi non siamo, si fece uomo, affinché in esso fosse vite, cioè natura umana, della quale anche noi uomini possiamo essere tralci ». (Tract. in Jo., 80,1. — S. Tomaso, seguendo le orme dei Padri, trattò spesso e profondamente di questo tema nelle sue opere, e specialmente nella Somma Theol. (III q. 8) e nella questione De Veritate (q. 29 a. 4). Giustamente quindi la Chiesa è chiamata Corpo mistico di Cristo, cioè non fisico, non soltanto morale, né del tutto maturale, ma soprannaturale, il mistero cioè della Chiesa, della sua vita e della sua unione con Cristo. Questo concetto non solo ci fa meglio comprendere la natura della Chiesa, ma diffonde anche splendidissima luce sulle altre dottrine della nostra fede, specialmente su quelle che concernono i sacramenti. (Dorsch: De Ecclesia, pag: 355.— Cf. Enciclica « Satis cognitum » di Leone XIII).

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (5)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (5)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni, ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF.1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

PARTE PRIMA

Gesù vivente in noi per comunicarci la sua vita

CAPITOLO II.

ART. II. — SINTESI PRATICA.

La nostra incorporazione a Cristo, che si inizia col Battesimo, prosegue poi con l’uso dei vari Sacramenti, i quali, aumentando in noi la grazia, aumentano pure la nostra unione con Gesù; e specialmente con la frequenza della santissima Eucaristia, che ci dà non solo la grazia ma Gesù stesso. Anzi, questa incorporazione viene crescendo coi singoli atti meritori che facciamo; poiché, dandoci ognuno di essi un aumento di vita divina, ci unisce più perfettamente a Cristo. Il che si avvera specialmente quando ci studiamo di fare tutte le nostre azioni in unione con Gesù, lasciandoci muovere e dirigere da Lui, come s’addice a coloro che gli sono incorporati. Allora infatti i nostri atti partecipano alla stessa virtù, alla fecondità, al valore morale degli atti di Cristo, dacché, secondo che abbiamo già detto, è Lui che opera in noi, mentre noi dal canto nostro ci appropriamo, quali sue membra, le disposizioni e il valore morale degli atti di Colui che è nostro Capo. Ce lo dice anche Nostro Signore: « Se uno rimane in me e Io in lui, questi porta molto frutto » (Giov. XV, 5). Conclusione pratica della nostra incorporazione a Cristo deve quindi essere una comunione spirituale permanente con Lui, in tutto il complesso della nostra vita: 1° nelle nostre pratiche spirituali; 2° nei vari nostri stati interiori; 3° nelle nostre relazioni col prossimo.

I. Nelle nostre PRATICHE SPIRITUALI bisogna, fin da principio, unirsi a Gesù mediatore di religione, il solo vero Religioso del Padre, perché  Egli solo lo può glorificare in modo infinito ed Egli solo ha diritto di essere esaudito. Ma perché s’intenda meglio il nostro pensiero, verremo qui al particolare.

1° Nello svegliarci, uniamoci a Gesù vivente in noi col suo spirito di religione, e offriamoci con Lui in vittime per fare in tutto la santa volontà di Dio, come si offrì Lui al suo entrare nel mondo: « Vittime e offerte non volesti, olocausti e sacrifizi espiatori non gradisti. Allora io dissi: Ecco io vengo… a fare, o Dio, la tua volontà » (Hebr. X, 5-7).

2° Nella meditazione, dopo esserci uniti a Gesù per adorare, benedire e ringraziar Dio, fissiamo affettuosamente questo divino modello per studiare e ritrarre in noi qualcuna delle sue virtù; supplichiamolo di persuaderci che questa virtù ci è necessaria, di comunicarcela, di imprimercela nell’anima; e risolviamo di praticarla umilmente e fermamente con Lui nel corso della giornata.

3° Alla santa Messa, rechiamoci in ispirito ai piedi del Calvario, accanto alla nostra madre Maria, e contempliamo amorosamente Gesù, sommo Sacerdote, che si offre in vittima per glorificare il Padre in nome nostro, espiare i nostri peccati e comunicarci i frutti della sua redenzione; offriamoci e immoliamoci con Lui, specificando il sacrificio che faremo nel corso del giorno onde compiere in noi la passione del Salvatore; adoriamo con Lui e domandiamo perdono in nome di tutto il popolo cristiano.

4° Alla santa Comunione, desideriamo ardentemente di unirci a Colui che tanto brama di unirsi a noi; umiliamoci profondamente alla vista di tante nostre iniquità, debolezze, imperfezioni, miserie; adoriamo in silenzio questo Dio nascosto che si dà a noi; diamoci tutti a Lui, diamogli specialmente il cuore, promettendo di fare tutte le nostre azioni per amor suo e per piacere a Lui; uniamoci a Maria, la più perfetta adoratrice di Gesù, per adorare, benedire, amare questo Figlio divino, come fece Lei per tutta la vita, specialmente dal momento in cui si incarnò nel virgineo suo seno; e ripetiamo come Lei: « L’anima mia magnifica il Signore… perché ha fatto in me grandi cose » (Luc. I, 46 segg.). Uniamoci a Gesù e a Maria per glorificare la santissima Trinità, che nel momento della santa Comunione si dà a noi in modo speciale; tratteniamoci in dolci e affettuosi colloqui con l’Ospite divino, aprendogli il cuore per palesargliene le miserie e i desideri, ascoltandolo rispettosamente onde adempierne anche i più piccoli voleri e ritrarre in noi le interiori sue disposizioni, le sue virtù, il suo spirito. Gli potremo allora più efficacemente presentare le nostre domande (Molti cominciano con chiedere grazie, dimenticando che il primo e principale dei nostri doveri è l’adorazione; e che, otteniamo favori tanto maggiori quanto più ci studiamo di adempiere innanzi tutto i nostri doveri verso Dio.) non solo per noi e per i nostri, ma per tutta la Chiesa, essendo tutti membri di un medesimo Corpo mistico. Ma non dimenticheremo di chiedergli soprattutto la grazia di rimanere in Lui come Egli rimane in noi, e di far tutte le nostre azioni con Lui in ispirito di ringraziamento e di amore.

5° Nei nostri lavori, quali che siano, anche i più comuni, rammentiamoci che Gesù fu operaio, e che in tutto quel tempo lavorava efficacemente alla salute delle anime; con Lui e con le stesse sue intenzioni offriamo a Dio tutti i nostri lavori, facendoli amorosamente e fervorosamente come suoi collaboratori.

6° I nostri pasti e le nostre ricreazioni si santificano prendendoli con lo spirito stesso di Gesù, col desiderio di impiegare alla gloria di Dio le forze che vi ricuperiamo: ce le dà Lui queste forze e noi dobbiamo applicarle al suo servizio.

5° Quando, per avvivar la divozione, facciamo pie letture o del Vangelo o di opere scritte dai santi, cerchiamo Gesù nei libri: « Jesum quærentes in libris ». Conoscerlo meglio, per meglioamarlo e farlo meglio amare dai nostri fratelli,questa dev’essere l’unica nostra ambizione.

8° Se per vocazione o divozione recitiamo l’Ufficio Divino, con che gioia ci uniamo al grande Religioso del Padre che ci invita a lodar Dio con Lui! con che confidenza gli prestiamo il cuore e le labbra, onde venga a pregare in noi come prega nei santi del cielo e della terra, onde si glorifichi per mezzo nostro le treo divine Persone e ottenga per tutta la Chiesa le grazie di cui le anime hanno così urgente bisogno!

9° Se non recitiamo l’Ufficio Divino, facciamo collo stesso spirito altre preghiere; e l’intiera nostra vita diventa come una perenne preghiera, perché dal nostro cuore, unito a quello di Gesù, partono frequenti giaculatorie che dicono a Dio il nostro amore e il sincero desiderio di conformare la volontà nostra alla sua.

10° Soprattutto ci deliziamo di visitare il divino Prigioniero del tabernacolo che giorno e notte intercede assiduamente per noi (Hebr. VII, 25); lo sentiamo dirci dal fondo del tabernacolo: « Venite a me, o tutti voi affaticati ed oppressi, ed Io vi ristorerò » (Matth. XI, 28). Gli apriamo allora con tutta semplicità il nostro cuore; ecco, o Signore, quel povero figlio che Voi amate, ecco il dolorante membro del vostro Corpo mistico (S. Giov. XI, 5): siete voi che dovete medicarne le piaghe, guarirlo, consolarlo, fortificarlo. O Gesù, che vivete in me nonostante le tante mie miserie, venite ad assodarvi il vostro regno e la vostra vita e proteggete questo membro così debole contro i potenti suoi nemici.

11° Quando recitiamo il rosario, ci è dolce l’unire i sentimenti nostri a quelli di Gesù, nostro fratello, e onorare la madre sua che è anche la nostra, ridirle la nostra venerazione, il nostro amore, la nostra confidenza, e porgerle pure le nostre suppliche.

12° Quando, la sera, ci esaminiamo la coscienza, lo facciamo sotto lo sguardo di Gesù, nostro capo, e confrontandoci con lui. Ci vediamo allora così poco simili al divino modello che, pieni di confusione e di contrizione, umilmente lo supplichiamo di vivere più intimamente in noi, onde farci partecipi delle sue virtù e della sua vita e fortificarci la volontà contro le nostre continue debolezze.

13° Prima di abbandonarci al sonno, che è l’immagine della morte, ci è di conforto l’unirci a Gesù moribondo in Croce ripetendo con Lui: « O Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito » (S. Luc. XXIII, 46). Se ci coglie l’insonnia, con quale affetto pregheremo l’Angelo custode di portare il nostro cuore ai piedi del tabernacolo, perché almeno là, unito al Cuore eucaristico di Gesù, possa adorare, amare, soffrire e riparare! Ecco come trascorre la giornata di chi è veramente incorporato a Cristo.

II. Certo, nell’avvicendarsi dei giorni, il Cristiano passa per VARI STATI INTERIORI che lo turberebbero se non fosse profondamente unito a Gesù, ma che altro non fanno se non fornirgli una nuova occasione di incorporarsi più intimamente a Lui. Ricorrono in Lui alternative di gioie spirituali e di desolanti aridità, di filiale confidenza e di scoraggiamento: è infatti in piacere di Dio di consolarci per attirarci a sé e di tribolarci per rassodarci nella virtù e mostrarci che da parte nostra non meritiamo che desolazione ed affanno. Ora chi è veramente incorporato a Cristo sa egualmente giovarsi di queste alternative.

1) In mezzo alle gioie, pensa che non le merita; che vengono dalla infinita bontà di Colui che, con la sua presenza e coi suoi doni, allieta il cuore dell’uomo; che hanno per fine di staccarci dalle creature; onde se ne serve per amare il Dio delle consolazioni più che le consolazioni di Dio. Ripete coi santi: « Grazie, o Gesù: fate che tutte le gioie della terra mi riescano insipide, che Voi solo siate dolce al mio cuore, e che io riponga la mia felicità unicamente nel piacere a Voi! ».

2) Nelle aridità, negli affanni, negli scoraggiamenti, si unisce a Gesù che, nell’orto degli ulivi, volle soffrire la tristezza, la noia, l’angoscia: « l’anima mia è triste fino alla morte! »; che mandò sul Calvario quel doloroso grido: « Mio Dio, perché m’hai abbandonato? » (S. Matth. XXVI, 37-38. Pensa che tutti questi dolori interiori Gesù li sopportò per nostro amore; e dice umilmente con Gesù: merito questo, o Signore, e anche di peggio; accetto tutto di cuore per amor vostro e nelle stesse vostre intenzioni; solo vi chiedo la grazia di sopportar queste pene santamente; con Voi mi sottometto alla divina volontà e « abbandono l’anima nelle vostre mani » (ivi, XXVII, 46).

3) Nelle tentazioni, specialmente se lunghe e penose, si getta ai piedi di Gesù: « O Signore, salvatemi! non lasciate che un membro del vostro Corpo mistico perisca! E tradirei dunque quel Gesù che ha versato il suo sangue per me, che vive in questo stesso momento in me e mi colma dei suoi doni? Oh! piuttosto mille volte morire che macchiarmi l’anima! Piuttosto mille volte morire che separarmi da Voi!

4) Se si tratta di umiliazioni penose, pensa che Gesù, per essersi caricato dei nostri peccati, volle soffrire tutte le calunnie e tutte le ingiurie; che, accusato ingiustamente, taceva; e che noi peccatori non saremo mai umiliati abbastanza: Grazie, o mio Dio, che vi degnaste farmi partecipe delle vostre umiliazioni. Voi solo meritate ogni onore e ogni gloria; io mi rallegro che se non altro le mie umiliazioni e il mio disonore servono a far campeggiare la infinita vostra grandezza: « Tibi soli omnipotenti omnis honor et gloria, mihi autem ignominia et confusio! ».

5) Se si sente invece agitato da moti di orgoglio, riflette che quanto di buono è in lui viene da Gesù, il quale, non pago di avergli meritate tutte le grazie che riceve, lo aiuta ancora ad acconsentire a queste grazie e opera in lui il volere e il fare. Ode quindi echeggiargli continuamente all’orecchio quelle così vere parole di san Paolo: « Che cosa hai che non abbi ricevuto? È se l’hai ricevuto, perché gloriartene quasi non l’avessi in dono? » (ICor. IV, 7). Come già più sopra dicemmo (Cap. II, art. I) quanto è di buono in noi ci viene da Colui che essendo nostro Capo, ci dà il moto e la vita; a Lui solo ne appartiene ogni gloria. Questi vari stati interiori ed altri simili non fanno dunque che avvicinar continuamente il Cristiano al divino suo Capo; e lo stesso avviene delle sue relazioni col prossimo.

III. Nelle nostre RELAZIONI COL PROSSIMO, il principio generale che ci deve guidare è di vedere Gesù in tutte le persone con cui abbiamo da trattare, perché veramente Gesù vive in tutti come già abbiamo spiegato (Cap. II, art. I).

1) Gesù vive nei nostri Superiori con la sua autorità. Egli stesso disse loro: « Chi ascolta voi ascolta me e chi disprezza voi disprezza me » (S, Luc. X, 16); ubbidiamo quindi a Gesù quando ubbidiamo ai nostri superiori. Questo principio rende più facile l’ubbidienza, specialmente se si consideri che i trent’anni della vita nascosta di Gesù si compendiano in queste tre sole parole: « Erat subditus illis: stava loro sottomesso » (S. Luc. II, 51). Conviene quindi richiamarle specialmente quando, per una ragione o per un’altra, l’ubbidienza torna più difficile e i nostri superiori credono di dover mettere alla prova la nostra virtù.

2) Gesù vive in tutti i Cristiani e tanto si immedesima con ognuno di essi che considera come fatto a sé ciò che facciamo al minimo dei suoi fratelli (S. Matt. XXV, 40). Parola veramente divina che trasformò la società! Chi potrebbe infatti ricusare di render servigio al prossimo quando è convinto che questo prossimo è Gesù? Schiviamo dunque tutto ciò che, contristando il prossimo, contristerebbe Gesù; studiamoci di essere dolci, cortesi, servizievoli con Lui come saremmo con Gesù. Evitiamo però con ogni diligenza quelle amicizie sensibili che, predominando l’anima, ci allontanerebbero il cuore da Gesù, perché Gesù sopra ogni altra cosa dobbiamo amare nel prossimo.

3) Se vi sono uomini nei quali Gesù attualmente non vive perché separati da Lui per il peccato o per l’infedeltà, pensiamo che Gesù li insegue col suo amore, che se li vuole incorporare, che ci chiede di aiutarlo in quest’opera, e che nostro vivo desiderio dev’essere di cooperare con Lui alla loro conversione colla preghiera, colla parola e coll’esempio: « Splenda la vostra luce dinanzi agli uomini, affinché vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli? ». Siamo dunque dolci e premurosi verso di loro per guadagnarli a Cristo. Non dobbiamo escludere dal nostro affetto neppure i nostri nemici e i nostri persecutori: « Amate i vostri nemici e fate del bene a coloro che vi odiano, e pregate per coloro che vi perseguitano e vi calunniano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; il quale fa spuntare il suo sole sui buoni e sui cattivi » (S. Mattr. V, 16).

Ripensando dunque alla nostra incorporazione a Cristo e quindi alla nostra filiazione divina, ci riesce facile rendere soprannaturali tutte le nostre relazioni col prossimo; tutte allora diventano occasione di progredire nell’amore di Nostro Signore. Amare il prossimo come membro di Cristo è amare lo stesso Cristo; rendere servizio al prossimo è rendere servizio a Gesù, servizio che ci sarà un dì centuplicatamente ricompensato. A questo modo, come bene osserva san Tommaso, noi amiamo i giusti perché Dio vive in loro, e quelli che non sono giusti affinché Dio viva in loro. Ora amare Dio e il prossimo è un adempiere tutta la legge, è un vivere il Vangelo. Tale, dunque, è il programma del Cristiano incorporato a Cristo. La sua vita è quella di Gesù, egli è un Gesù vivente sulla terra, secondo l’espressione di san Paolo: « Vivo non più io, vive in me Gesù Cristo ». Oh! che nobile vita è mai questa, è una vita divina, è, come vedremo, una partecipazione alla vita di Dio.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (6)

LO SCUDO DELLA FEDE (206)

LO SCUDO DELLA FEDE (206)

LA VERITÀ CATTOLICA (III)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. E libr. Sales. 1878

ISTRUZIONE III

La Santissima Trinità

Voi ben sapete che, quando volete pregare, quasi per entrare nel miglior modo a trattare con Dio, la prima cosa, fate il segno della santa Croce. Bene: ce lo mostra la santa Madre Chiesa, la quale nell’atto di presentarci alla Maestà di Dio, tenendoci fra le braccia, per far coraggio a noi, e per farci da Lui ascoltare, ci dice subito quello che più le preme insegnarci. E così nel farci segnare, col cuor sulle labbra la ci viene a dire: « o figliuoli voi dovete sapere che l’Onnipotente Creatore del cielo e della terra Egli è gran Padre in Se stesso, ed ha il Figliuolo suo Unigenito in Se medesimo, collo Spirito Santo suo Amore eterno. Ebbene, ora pensate voi, bontà di Dio! Il Padre celeste mandò il suo Figliuolo a salvarci coll’Amor suo, collo Spirito Santo; il Figliuolo si è fatto uomo come siam noi; e per salvarci morì sulla Croce, risuscitò, salì al cielo. Ma pur là in gloria di paradiso, tien sempre vive le Piaghe ancor aperte per domandare misericordia per noi. Per ciò, deh! facciam presto, col far il segno della santa Croce, a nasconderci sotto la sua Croce, e a imprimere le sue sante Piaghe sulle nostre povere persone. Su, dunque, tenendoci raccolti al Cuor di Gesù, gettiamoci col segno della Croce tra le braccia di Dio santissimo, dicendo tutti compunti: Nel nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo. – Ora mi preme tanto farvi capire tutto ciò; sicché non posso andare più innanzi in queste istruzioni, senza spiegarvi subito con l’anima intenerita come il Creatore Santissimo è Dio solo in tre Persone eguali e realmente distinte, che sono il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo. Così intenderete che uno è Dio che ci creò, uno è Dio che ci salvò, uno è Dio che ci raccoglie in carità per farci beati in Paradiso. Qui comincio a domandarvi in grazia, perché mi cale tanto di spiegarmi meglio che per me si possa; che mi vogliate ripetere (si fan ripetere) che io ho da mostrarvi: come in Dio vi sono tre Persone eguali e realmente distinte che sono Padre ecc., e che perciò è uno Iddio che ci creò, uno è Dio che ecc. Oh Gesù, quest’oggi abbiam maggior bisogno che Voi ci tiriate vicini vicini a Voi nel Santissimo Sacramento, e che facciate, più che non possa io colle mie parole, Voi coi palpiti del vostro Cuore a noi intendere sì grandi e care verità. Oh Maria Santissima, Figlia dell’Eterno Padre, Madre dell’Eterno Figlio, sposa dell’Eterno Amore, lo Spirito Santo, e Madre nostra, Voi innalzateci fra le vostre materne braccia a contemplare il mistero della Santissima Trinità. –  Noi abbiam detto, e direm sempre di tutto buon cuore: « io credo in Dio; » ma già vorremmo Un po’ conoscer Dio in Se stesso, per quanto ci fosse concesso. Io poi vi ho ben già accennato, e ricordatevi sempre questo avviso, che quei disgraziati i quali perfidiano, e non vogliono lasciarsi ammaestrar dalla Chiesa, ed hanno la pretenzione di spiegar chi sia Dio colla propria testa, danno in tali stranezze da andar in confusion disperati. Voi invece venite qui per impararlo dalla Madre Chiesa. E siccome le madri, senza tanto ragionare, dicono subito le più persuasive parole che fanno il più gran bene ai figliuoli, parole che sa dire solamente il cuore delle mamme; così anche la Madre Chiesa, unita a Dio Santissimo, con confidenza di sposa, senz’altro ci fa conoscere di Dio fino i più grandi secreti della sua Vita Divina. Ecco di fatto che ci dice subito come in Dio vi sono tre Persone, Padre, Figliuolo e Spirito Santo; e perciò dopo d’averci insegnato a dire: « io credo in Dio, » ci fa subito dire che Dio è Padre con queste parole: « io credo in Dio Padre. » Oh che diciam noi mai! Si, Dio è Padre, figliuoli…, nessuna scuola, nessuna filosofia, nessuna religione avrebbe mai sognato d’insegnare che Dio, purissimo Spirito, fosse Padre. Neppure i Giudei, benché adorassero il vero Dio, conobbero così chiaramente che Dio fosse tanto buon Padre, come l’avete da conoscere voi. Ben conobbero che Dio è onnipotente in sapendo che creò il cielo e la terra colla sola sua parola; e sì, che dovettero anche credere che Dio è tremendamente giusto, e che castiga i peccatori, quando mandò il diluvio universale, e fece piovere il fuoco sulle cinque città a fine di sperdere quei peccatori infangati nelle più luride sozzure della carne. E vel dico io, che dovettero troppo ben conoscere che Santissimo è Iddio; e dovettero capire che colla santità di Dio non è da pigliarsi gabbo o trattar a fidanza, alla spensierata senza rispetto, quando Dio stese morti di un colpo mille e mille Betzamiti, perché guardarono con sacrilegio da sfacciato fin nell’interno dell’arca santa! Sicché gli Israeliti ebbero di Dio più che un santo timore, una tremenda paura, da non ardir neppure di pronunziare il suo santo Nome; e ancora adesso gli Ebrei, quando nella santa Scrittura leggendo, incontrano il nome di Dio, lo passan via in silenzio, chinando il capo per adorarlo. Voi poi sapete che quando tutti insieme, quel gran popolo del Signore, erano raccolti alle radici del monte Sinai, e videro il monte coprirsi di tetra oscurità, e negro il cielo, e guizzar lampi, e rombar tuoni, e cader una tempesta di folgori, di saette, di carboni ardenti, e tremar la montagna in sussulto, rimasero atterriti sotto la presenza di Dio. Allora, altro che chiamar Dio col nome di Padre! si gettarono anzi colla faccia nella polvere urlando a grandi gemiti: « tremendo Iddio!…. non parlate a noi; ché noi cadremmo morti ad una vostra parola! Parlate al vostro servo Mosè, ed ei ridica a noi i Vostri comandamenti… » Essi adunque stavano tutti sotto la nube del terrore — omnes sub nube fuerunt. — È a noi, è a noi sì veramente che Dio si è lasciato conoscere che eziandio in mezzo all’eterna gloria di Creatore onnipotente, in fondo Egli è proprio Padre. Sì che l’abbiam conosciuto che Dio è Padre quando mandò in terra il suo Figliuolo a farsi uomo e a farsi nostro fratello. D’allora poi sì che noi Cristiani l’abbiamo ben bene dovuto conoscere; poiché Esso Gesù, Figliuol di Dio, venuto in terra, pigliò  tutte le occasioni per mostrarci come è buono con noi  il Padre Celeste: « Io son venuto, dice Gesù, di Cielo, così di cielo perché mi ha mandato a voi il Padre mio. Eh se  sapeste quanto è buono il Padre mio!… Vedetelo sol  dal giglio del campo cui Egli veste coll’amor di madre: vedetelo dagli augellini che non valgon due soldi, eppure Ei se ne piglia cura di padre. Pensate poi quanto vuol bene a voi il Padre celeste, il quale vi ha creati per amarvi come figliuoli in Paradiso. Egli vi tien da conto fino al capelli della testa. Anzi è sua volontà ch’io vi doni questa mia vita da uomo per pagare per voi i debiti vostri come vostro fratello, e portarvi poi salvi in braccio a Lui. Ecco adunque che starò sempre in terra qui con voi; cosicché voi se state uniti con Me, io ed il Padre mio e e il nostro Spirito consolatore, staremo proprio dentro di voi. » Sono queste pressoché proprio tutte parole di Gesù Cristo; e confortati da queste parole noi possiam gridare su questa bassa terra: « Oh grande Iddio, oh buon Padre, tutta la gloria a Voi come in Cielo così in terra….; a noi tutta la vostra misericordia!…. » Ora che abbiamo conosciuto che Dio è Padre, abbiamo da conoscere che, e Dio Padre, e il suo Figliuolo, e lo Spirito Santo sono un solo Dio in tre Persone uguali e realmente distinte. Ripetetelo in grazia (si fan ripetere): Ora abbiamo da conoscere ec. Comincio a dirvi che Dio si è fatto bene intendere e si rivelò alla nostra madre la Chiesa, e che la Chiesa insegna a noi come Egli, Dio Padre, ha e genera il suo Figliuolo per via dell’Intelligenza. Cioé: Dio Padre, la prima Persona, conosce Se stesso perfettamente, ha l’Idea, la immagine di Sé perfetta ma sostanziale, uguale a Se stesso. Ora questa sua immagine, eguale a Se stesso, della sua Sostanza, è Dio con Lui, è il Verbo Eterno, il suo Figliuolo, la seconda Persona. Il Padre così nel conoscere Sé stesso genera il Figliuolo, il Figliuolo riflette l’immagine del Padre, il Padre e il Figlio si amano di Eterno Amore; e come l’immagine sostanziale eguale al Padre è la seconda Persona cioè il Figliuolo; così l’Eterno Amore sostanziale, che spira dal Padre e dal Figlio, eguale al Padre ed al Figlio, è lo Spirito Santo cioè la terza Persona, che procede dal Padre e dal Figliuolo; quindi sono tre Persone un solo Dio.

(Ora farò di spiegarvelo in qualche maniera; e considerando come siamo noi creati ad immagine di Dio, cercheremo di elevarci per conoscere alla lontana come sia Dio a cui somigliamo alla lontana sì, ma pure in qualche modo assomigliamo. Adunque consideriamo noi medesimi. Noi pensiamo, e quando noi pensiamo, non è vero che ci formiamo nella mente un pensiero, concepiamo in noi una cognizione, e generiamo nella mente un’immagine che vediamo dentro di noi, sicché siamo soliti di dire: « Lo vedo ben io quello che ho in mente? » Abbiamo adunque anche noi un’immagine nella nostra mente. Quest’immagine è una cosa distinta dalla nostra mente stessa: questa immagine è tutta cosa spirituale e mentale, è della natura della nostra mente; ma pure è distinta dalla nostra mente stessa; poiché la nostra mente e l’anima nostra è una cosa, e un’altra cosa è il pensiero prodotto dall’anima. Venitemi ora appresso attenti; ché io andrò adagino. Adunque noi fin quì abbiamo conosciuto come nell’anima nostra vi sono due cose, una distinta dall’altra, e sono una la mente nostra, l’altra il pensiero: e sono però tutte due spirituali, e direi quasi dell’istessa sostanza. Così voi avete ben capito come l’anima nostra colla sua potenza che ha di conoscere, si formi e generi il suo pensiero. Ora Dio Padre conoscendo Se stesso ha in Sé medesimo l’immagine di Se stesso, la forma, lo splendor sostanziale della sua Divinità: e così genera il suo Figliuolo. Ma notate bene però che il modo di pensare di Dio è tanto diverso dal modo di pensare della piccola nostra mente poverina, e che troppo più è diverso che non sia il ritratto a colore; cioè l’immagine morta è tutt’altro dalla persona viva che rappresenta. Dio, dice s. Basilio (Adv. Eum. 5) ha in Sé l’immagine di Se stesso; ma la sua non è un’immagine morta come quella dell’uomo, ma sebbene in Dio è l’immagine viva proprio della sua Sostanza perfettamente eguale a Se stesso. Ora quest’immagine viva stanza una col Padre perfettamente eguale al Padre, è il suo Figliuolo. Così spero, che abbiate, se non un poco conosciuto, almeno imparato, troppo però alla lontana, e che così voi sappiate, o meglio crediate come il Padre conoscendo Se stesso genera il Figliuolo, per via di cognizione e d’intelligenza. Ora vi prego di venirmi appresso ancora con attenzione viva; ché come posso, tenterò non di spiegare ma di dirvi che dal Padre e dal Figliuolo procede lo Spirito Santo per via di amore. Ritorniamo ancora a pensare dentro di noi. Non è vero che quando l’anima nostra conosce una cosa proprio buona, noi sentiamo dentro dell’anima muoversi e saltar su la volontà, un’inclinazione ad amare quella cosa buona? Gli è perché la volontà nostra ama, e vuole il bene che ella conosce. Ora voi intendete che la volontà nostra viene e come diremmo salta fuori dall’anima nostra per la cognizione della cosa da noi amata: e noi con questa morta immagine di quello che sentiamo in noi, possiamo in qualche modo dire che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figliuolo. – Ecco adunque che diremo, come la nostra mente che pensa, rappresenta in noi una piccolissima immagine del Padre: il quale, conoscendo Se stesso genera il Figliuolo: come la nostra intelligenza generata dalla nostra mente, rappresenta una poverissima immagine del Figliuolo generato dal Padre: come la nostra volontà, e l’amore che vien dalla nostra mente, e dalla cognizione ed intelligenza nostra, rappresenta una troppo misera immagine dello Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figliuolo. E voi perdonate a me l’insufficiente modo di spiegar con parola umana tanto altissime cose di Dio). Questo, secondo il povero modo del pensare nostro, può in qualche maniera significare che in Dio il conoscere ed amare Se stesso forma l’inesauribile Vita Divina. Dico inesauribile Vita di Dio, perché la Intelligenza e cognizione di Sé medesimo in Dio e il suo amore non hanno fine alcuno…. Deh non pretendiamo mai però d’intendere cose tanto divine! Per capirle bisognerebbe colla povera mente umana abbracciare, comprendere tutto l’Essere infinito che è Dio. Ma basta credere in Dio che ce lo ha manifestato, e alla Chiesa, che ce lo insegna. Come adunque c’insegna la Chiesa, crediamo che sempre da tutta l’eternità Dio Padre conosce ed ama Se stesso: che perciò da tutta l’eternità genera il suo Figliuolo: che dal Padre e dal Figlio, i quali si amano d’eterno Amore, procede lo Spirito Santo. Onde è eterno il Padre, eterno il Figlio, eterno lo Spirito Santo; però non sono tre eterni, ma Dio solo eterno. Il Padre da nulla è fatto, il Figliuolo non è fatto né creato dal Padre, ma dal Padre è generato. Lo Spirito Santo non è fatto, né creato, né generato, ma procede dal Padre e dal Figliuolo. E così adunque è onnipotente il Padre, onnipotente il Figliuolo, onnipotente lo Spirito Santo; però non sono tre onnipotenti, ma Dio solo onnipotente. Così Dio è il Padre, Dio è il Figlio, Dio è lo Spirito Santo: però non sono tre Dei, ma un Dio solo in tre Persone; perché in tutte le tre Persone una è la Divinità, eguale la gloria; e tutte tre insieme sono l’eterna Maestà di Dio (Simb. ATANAS.) che noi adoriamo nel Mistero della SS. Trinità. Ora che abbiamo imparato come il Signor nostro si è fatto conoscere; che Egli è un Dio solo in tre Persone eguali e distinte in Sé medesimo, vi debbo spiegare come Dio sì fa conoscere di essere Dio in tre Persone distinte anche in quello che fa con noi. Così vi manterrò la parola datavi in sul principio di questa istruzione, di spiegarvi che uno è Dio Padre che ci creò, uno è Dio Figlio che ci salvò, uno è Dio Spirito Santo che ci unisce in carità per immergerci nella beatitudine di Dio in paradiso. — Qui nos creavit unus est Deus: qui mos redimit unus Christus: qui nos consociare potest unus est Spiritus, dice s. Agostino (Epist. post collat.) Che cosa adunque vi ho da spiegare adesso? Ripetetemelo in grazia per la vostra bontà (sì fan ripetere). Vi ho da spiegare che uno è Dio Padre che ci creò, uno è Dio Figlio, ecc. – State attenti; ché sono cose così sante e care, da intenerircifino alle lacrime per amore di Dio. Voigià sapete come vi spiegai, e come il Concilio Vaticano insegna, che Dio eternamente beato in Sé stesso, creò il mondo per mostrarci la sua bontà. Ma appunto il miglior modo di far conoscere a noi la sua bontà è di farci comprendere che Egli è Dio Padre. È da intendere ora come Dio si è comportato con noi per chiarirsi nostro Padre. Noi appelliamo padre chi dà la esistenza ai figliuoli generandoli ad immagine sua; si mostra poi di essere un gran buon padre colui che ama tanto i suoi figliuoli fino ad esser disposto di sacrificarsi per loro. Ebbene (è utile dirvelo ancora) creando noi uomini, Dio ci creò ad immagine sua, cioè ci diede la vita capace di vivere eternamente ad immagine di Lui Padre; ci diede la ragione, la intelligenza, e ci creò capaci di conoscerlo ad immagine di Lui Figliuolo; ci diede infine la volontà capace di amarlo ad immagine di Lui Spirito Santo. Ci creò adunque a sua somiglianza. Sicché Dio vede in noi, come in piccolo specchio, ridergli davanti tante care immaginette viventi; vede che abbiamo anche noi bisogno di vivere in Lui, di partecipare della sua Vita Divina in qualche modo, e di essere con Lui beati. Dio adunque par che ci dica: « creaturine mie, care immagini mie, vi ho create ad immagine di me coll’amor di Padre; ed allora sarà contenta la mia bontà, quando vi avrò fatte con me beate in Paradiso. » Poiché vediamo bene anche noi, che allora un padre è contento, quando ha dato di tutto il suo bene ai suoi figliuoli….. Ne’ che è padre Iddio ?…. Ma lo intenderete meglio ancora. – Siccome noi uomini ci andiamo a perdere pei nostri peccati, così Dio pigliò cagione dal vederci così miserabili, di manifestare a noi tutta la sua misericordia, la vera bontà di padre, di mostrarsi insomma capace di sacrificare di Sé medesimo, dandoci dal suo seno, per dir così, il Figliuolo che è della stessa sua Sostanza. Oh qui sì che l’abbiam proprio veduta la gloria della bontà del Padre, al tutto bontà divina, nel veder la gloria della bontà del Figliuol suo Unigenito Dio con Lui! — vidimus gloriam eius, gloriam quasi Unigeniti a Patre. Perché, mandato dal Padre, viene a noi il Figliuol suo divino a salvarci. Nel Figliuol suo, che venne a morire per noi, abbiamo conosciuta la bontà del Padre. E non è vero che con noi si mostrò Padre ma veramente Padre di una bontà da Dio? Ma perché desidero che queste così sante e care vi penetrino bene addentro nel cuore, voglio spiegarvele in una maniera più chiara; e così intenderete come Dio Padre si mostri e si faccia conoscere distintamente a noi col suo Figliuolo. Io ora vi dirò di Dio come Egli parlasse da uomo; ché non è poi malcontento Iddio che io vi dica come Egli parlasse quasi da uomo, essendosi, per farsi conoscere meglio, fatto uomo anch’Esso. Dio adunque, vedendo come noi uomini andavamo miseramente a dannarci, disse al Figliuolo suo: « Questi poveri uomini da noi creati, eccoli lì come pel loro peccare si vanno a perdere! Non si curano più di Noi che li abbiamo creati e si guastano tanto di cuore, che paiono nostri nemici per la loro natura — eramus natura fili iræ! — Eppure benché così peccatori nostri nemici — cum adhuc inimici essemus, — più che provocarmi a sdegno, meschini! mi fanno tanto pietà!… Figliuol mio, salviamoli!… andate Voi sulla terra, pigliate umana carne, mettetevi in mezzo di loro; fate loro capire le più care cose del come li amiamo, sacrificatevi per loro, fatemeli buoni e fateli degni figliuoli del nostro amore. » E il Figliuol suo, mi par di sentire che rispondesse: « Si, Padre, andrò, mi farò uomo, mi addosserò tutte le loro miserie, pagherò Io la pena pei loro peccati, vi darò Io soddisfazione per loro, farò che vi amino con me, con me vi adorino, con me ve li porterò salvi in seno alla vostra bontà; n’andasse pure la mia vita d’uomo che io piglierò per soddisfarvi, per servirvi con loro! Non è vero, o Padre, che Voi siete contento e d’accordo con me che io mi sacrifichi così?… — proprio filio suo non pepercit. Pare insomma che gli dicesse: « a me, a me! ché darò Io il mio Sangue per portarveli in braccio come figli del mio Sangue, ut filii eius…. simus?» Deh! deh! che è cosa da piangere al pensare come discese di Cielo e nacque bambino da Maria Santissima; e come morì per noi….; come risuscitò …. e sali al Cielo ma come poi là anche in Cielo, Dio come Egli è col Padre, è sempre uomo con noi. Proprio là in Paradiso conserva un Cuore da uomo, fa causa comune con noi, e tiene le sue Piaghe vive vive le quali col loro Sangue sempre domandano per noi misericordia — semper vivens interpellans pro nobis. Così se Dio si è mostrato Creatore Padre, il suo Figliuolo si mostra fratello di nostro sangue per essere nostro Salvatore. E qui io non posso a meno di dirvi che, fattosi uomo come noi, Egli è Gesù Cristo il quale, come è in Paradiso col Padre, e collo Spirito Santo, è anche qui in terra con noi nel Santissimo Sacramento; e tiene qui con noi il suo Cuore aperto, come lo tiene ancora in cielo squarciato per significare al Padre tutti i nostri bisogni. E appunto appunto la Chiesa, da buona madre, piglia il momento più santo, quando le palpita in seno Gesù quando nella Messa tratta col suo Sangue i nostri interessi davanti al Padre, per dirci: « fate coraggio, o figliuoli! sia pur grande Iddio, qui con Gesù chiamatelo col nome di Padre. E chiamar Dio col nome di Padre vuol dire recitare il Pater noster « audemus dicere : » Pater noster. Sì, sì che noi oseremo dire, massime nella Messa: O Padre nostro! L’intendete bene dunque, che Dio si mostrò Padre col crearci, mostrò d’aver il Figlio per salvarci; e che quindi uno è Dio che ci creò, il Padre; uno è Dio che ci salvò, il Figliuolo. Mi resta ora a spiegarvi che uno è lo Spirito Santo, Dio col Padre e col Figliuolo, che ci raccoglie in carità per farci beati in Paradiso. – Ma io vorrei qui adesso aver una lingua da Angelo innamorato per dirvi le più care cose che convengono allo Spirito Santo, il quale è detto il Sommo Amore, ed anche è chiamato il Paracleto, che vuol dire Dio Consolatore; poiché a Lui si attribuiscono le operazioni dell’amore e della bontà di Dio. Pensate voi se non debba esser buono! è la bontà personale di Dio! Vi dirò subito ancora che se Dio si mostra Padre, la prima Persona della SS. Trinità nella creazione; se si mostra Figlio, la seconda Persona, nel salvarci; si mostra bene lo Spirito Santo essere l’ Amor Eterno nel volere far tutto il bene alle creature. Difatti, dice la parola santa di Dio, che era appena creata la terra, e ancor nelle tenebre avvolta e sprofondata dentro le acque quando lo Spirito Santo vi girava già intorno a suscitare un po’ di movimento e di vita; affinché le creature godessero alquanto di ben di Dio. Quando poi Dio impastava la terra da formare l’uomo, lo Spirito di Dio v’infuse coll’anima la vita, ed elevolla ai palpiti dell’amore: ché i palpiti sono tanti slanci del nostro cuore irrequieto sempre, finché non giunga ad essere beato in Dio. I palpiti adunque del nostro cuore che ama, sono un continuo movimento che lo Spirito Santo suscita in noi, col quale noi ci slanciamo a cercar il bene, che ci manca, in Dio Sommo Bene nostro, per immergerci in Lui nella beatitudine in Paradiso. Quando poi la giustizia di Dio fulminava i castighi contro gli uomini in peccato, – lo Spirito dell’Amore nell’istesso momento, per non lasciarli disperare, prometteva loro che verrebbe il Salvatore. Poi ora da un Patriarca, ora da un altro; e poi dal tale e tal altro Profeta faceva ripetere colla sua ispirazione: « parola di Dio! il Salvatore verrà! ». Anzi lasciatemi dire: pareva fino impaziente di far conoscere agli uomini misteri nascosti fino agli Angeli; e a loro già prediceva che sarebbe venuto il Salvatore come un agnello innocente a farsi sacrificare, per addossarsi la pena dei peccati di tutti…; E fa che contassero gli anni a settimane, per fissare il tempo preciso in cui sarebbe venuto il Figliuolo di Dio a morire pel genere umano. Ma quando poi giunse il momento in cui voleva farsi uomo il Figliuol di Dio ricevendo il nome di Gesù, altro che io, neppur gli Angioli vi potrebbero dire, come lo Spirito Santo discese nel fiore più bello dell’umana natura in Maria Vergine Santissima Immacolata. L’adombrò, e dal puro Sangue di Maria Santissima formò il Corpicino del bamboletto Gesù …… Silenzio!…… adoriamo tremando tutti compunti……. quel benedetto momento, in cui lo Spirito Santo cominciò a formar quel Cuoricino di uomo che in Gesù palpitò d’amore da Dio…. Adunque in quel cuoricino palpitò con Gesù Esso l’Eterno Amore del Padre e del Figliuolo; e come quel cuore di Gesù fu il primo principio e la radice, da cui doveva uscire, quasi pianta nuova, la famiglia dei figliuoli di Dio: così noi da Lui, e per Lui rinasciamo di Spirito Santo nel Battesimo di Gesù Cristo. Lo Spirito Santo palpitò adunque con Gesù nel Cuore, quando Gesù nasceva e cresceva per sacrificarsi: palpitò nel Cuor di Gesù, quando predicava con tanto amabil parola, palpitò nel Cuor di Gesù quando spargeva il Sangue per tutte le piaghe in agonia; palpitò. da quando fu squarciato e continua a palpitare tuttora, quando Gesù nel Sacramento trasfonde e comunica in noi la sua grazia, fa rivivere le anime nostre della vita che è il principio della vita eterna. Così lo Spirito Santo, nelle persone particolari spira la vita della grazia per i meriti del Redentore, ma nella Chiesa resta in permanenza con noi i quali tutti uniti insieme formiamo il corpo della Chiesa. La parola di Dio ce lo dice le tante volte a nostra consolazione; essa ci ripete che lo Spirito Santo è in noi, che abita nei fedeli; come ce lo promise Gesù che resterebbe continuamente in permanenza mansionem faciemus. — Ora, come Gesù non è unito con noi solo colla dottrina, ma vive in noi e ci comunica della sua vita divina, e resta qui nel SS. Sacramento; così resta anche lo Spirito Santo nella Chiesa, la vivifica, la inspira e le mantiene quella vita che non mai in ella vien meno. Quindi pare che si possa dire, per esprimerci più chiaramente, che se la Chiesa è un corpo, Gesù nel Sacramento è come il cuore, lo Spirito Santo è come l’aura vitale, la comunicazione dell’Amore, l’attività della vita spirituale che si diffonde in tutte le membra col Sangue di Gesù Cristo. Onde noi siamo membra di Gesù e templi vivi dello Spirito Santo: e noi figliuoli del Sangue di Gesù siamo vivificati e spinti innanzi nei movimenti della vita per giungere a vita eterna dallo Spirito del Signore Quicumque Spiritu Dei aguntur ii sunt fili Dei (ad Rom. VIII), Sicché collo SpiritoSanto, Amor Eterno, possiamo gridare in Gesù Cristo:« Abba, Pater, Voi, Dio Padre, Figliuolo e SpiritoSanto, ci siete Padre. Siamo difatti diventati suoi figliuoli….. Ipse Spiritus testimonium reddit ecc., quod sumus filii Dei.Ebbi dunque ben ragione di accennarvi fin da principio che la Chiesa ci dice subito da Madre tutto quello che ha da far più bene a noi suoi figlioli, quando ci induce fare il segno della Croce. Perché dicendo nel nome, e non nei nomi, diciamo che crediamo in Dio solo: e che crediamo che in Dio vi son tre Persone realmente distinte, il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo.Insomma sapete che cosa vogliam dire quando ci facciamo il segno della Croce? Vogliamo dire: Grand’Iddio,Voi non siete più il terribile (Ieowa), il Dio dell’anticotestamento; con noi siete Padre. Creatore dell’universo,avete un bell’esser grande; ma vi siete lasciato conoscere che siete Padre. Allora vi abbiamo conosciuto che siete Padre, quando avete mandato il vostro Figliuolo a farsi uomo per noi; e se noidi sotto la sua Croce vi adoriamo in timore, però di sotto le sue Piaghe possiamo spingere il nostro sguardo fino in seno alla vostra Divinità; e, sì, sì!ei par di vedervi tra lo splendore della eterna gloria dissipare colla vostra mano istessa i raggi della luce che non possiam fissare; di modo che vi lasciate scorger col sorriso di Padre. Diciamo adunque: « nel nome del Padre . . . Grande Iddio, ci siete Padre…Oh Padre.. oh Padre nostro! — Nel Nome del Figlio.Oh Gesù, eterno Figliuol di Dio; Voi siete in seno al Padre nella eterna gloria; ma pure a Voi ci rivolgiamo con tutta confidenza, perché, anche in mezzo alla gloria di paradiso, avete qualche cosa del nostro avete della Carne della nostra carne, del Sangue del nostro sangue, anzi avete un Cuor che dà ancora Sangue: siete insomma il Salvator nostro.— Nel nome dello Spirito Santo. O Amor del Padre e del Figliuolo, che come dal Padre, procedete dal Figlio che è qui in terra con noi, Voi che da Lui vi diffondete in tutte le nostre persone, tirateci alla beatitudine del Paradiso con Dio che si è fatto conoscere a noi. Così ci salveremo; così sia!Deh! col cuor pieno di così santi sentimenti facciamo un po’ d’esame sulla nostra povera vita.

Esame.

1. Pensiamo: bisogna ben dire che il Signore ci ama tanto, se con tanta benignità si è fatto conoscere fin dentro nel secreto della sua Vita Divina. Eh, se Dio ci avesse fatto sapere solamente che Egli è il Creatore onnipotente del cielo e della terra, noi dovremmo tremare davanti alla maestà di Dio Santissimo; ma dicendoci subito, che Dio è Padre, pigliamo coraggio, massime nel sentirci dir subito dalla nostra madre che, se Egli è Dio che ci creò, Egli è Padre che ci porta in braccio con Lui; è il Figliuolo suo che ci salvò; è lo Spirito Santo che ci vuole il più gran bene di Dio.

2. Consideriamo un po’ attentamente come dobbiamo, in quel povero modo che possiamo trattare con Dio, il quale si fa conoscere con tanta bontà: e se noi lo abbiamo fatto finora.

Pratica.

Cominciamo adunque la giornata quasi cominciassimo una vita nuova in quel primo momento in cui ci svegliamo (Ego dixi nunc cœpi); e nascondendoci subito sotto la croce di Gesù col fare il segno della santa Croce innalziamo la mente, allarghiamo il cuore; fin col corpo nostro medesimo slanciamoci in braccio a Dio, gridandogli col Cuor Santissimo di Gesù: « Nel Nome del Padre ecc. » Sempre così, massime quando dobbiamo presentarci a Dio santissimo colla preghiera a metter in salvo l’anima nostra, col segno di Croce chiameremo la benedizione di Dio sopra tutto che facciamo, tutto facendo a gloria di Dio. – Andiamo a casa coll’anima consolata da questi grandi pensieri. — Abbiamo in Dio un Padre che tutto può e vuol tutto il bene per noi: abbiamo in Dio il Figliuol suo Salvator nostro, che fa tutto per noi, come pei suoi fratelli di Sangue: abbiamo in Dio lo Spirito Santo, che ci vuol sempre beati in paradiso. Adunque ci salveremo sicuramente, se ci monderemo delle nostre miserie nella confessione, e se ci uniremo con Gesù nella Comunione; e quando preghiamo, preghiamo col Cuor di Gesù con filial confidenza dicendo: Pater noster… Oh Dio, oh Padre, tutta la gloria a Voi, tutta la vostra misericordia. Tutto poi che non sappiam dire, ditelo Voi per noi, o nostra Madre Maria Santissima. Ave Maria ecc.

Catechismo.

D. E quanti Dei vi sono?

R. Vi è un solo Dio.

D. E quante Persone vi sono in Dio.

R. In Dio vi sono Tre Persone eguali e realmente distinte: il Padre, il Figliuolo, e lo Spirito Santo.

D. Come si chiama questo mistero?

R. Il mistero della SS. Trinità!

D. Che cosa vuol dire SS. Trinità?

R. SS. Trinità vuol dire Tre Persone in un Dio solo.

D. Si potrebbe un poco spiegare come sonvi Tre Persone in Dio solo?

R. Non si può spiegare questo altissimo mistero: ma sappiamo però che Dio Padre, la Prima Persona, genera la seconda Persona, il Figliuolo, per via di Intelletto; e che dal Padre e dal Figliuolo procede  la terza Persona, lo Spirito Santo.

LA VITA INTERIORE (29)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (29)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

TENEBRE DISSIPATE

VOGLIO TE SOLO, O GESÙ!

TI DESIDERO…

Mio caro Gesù! Permetti che al termine di queste pagine nelle quali ho cercato di parlare di Te, parli, ora, un poco, a Te!

Sento vivissima, forte, insistente, la necessità di vivere con Te, perciò di venire a Te! Sento ch’è grave l’angustia di questa vita mortale: la mia debolezza mi confonde; la lotta d’ogni giorno mi fiacca! Oh! Signore Gesù, abbi pietà di me! Chiamami a Te, o Gesù! Ho bisogno del tuo amore! Solo del tuo amore! Del tuo amore solo! Più ti penso, più ti desidero, o Gesù! Sei l’amore infinito. Come si può vivere senza di te? Come posso stare, senza desiderare di gettarmi, tremante d’amore, fra le tue braccia paterne, per appoggiare il capo sul tuo cuore, per dirti che t’amo tanto e che non posso dire e fare altro che amarti, mio vero amore? – E che m’importano le meschine glorie, le vane soddisfazioni degli uomini che tanto facilmente s’adombrano; si contrastano, s’incensano, s’abbattono?

TI AMO…

Capisco, o Gesù; sì, capisco! È necessario soffrire tutta la vita, perché Tu hai voluto che non fossero qui il gaudio e la pace… Hai voluto che accettassimo, nell’abbraccio, la Croce…; che seguissimo il Tuo esempio. Dovrò tenerla, adunque, ancora, per molto tempo, nelle mie braccia, questa croce? Il seme di grano deve morire per poter dare nell’àrista mille frutti d’oro! Sì, o Gesù, voglio morire anch’io, ai miei desideri, anche ai più santi, per rinascere sempre più vivo e rivivere sempre con Te e in Te. – Gesù dolce! Gesù amore! se penso che Tu mi ami, sento che il cuore mio non resiste più. So che m’hai dato tutto il Tuo amore quando spasimasti e moristi, per me, in Croce; so che me l’hai conservato nella SS. Eucarestia…, ed io mi sento commosso e provo la gioia più inebriante! Sento che tu hai posto nel mio cuore il desiderio di un amore senza confini, e mi fai sentire, continuamente, che tu solo sei l’unico amore, che tu solo sei l’unica realtà! Ah! caro Gesù! Com’è dolce il Tuo amore! Che conforto inesprimibile! Oh Gesù! io ne sono insaziabile. Vieni, Gesù dolce, Gesù amore! Deh! Gesù vieni; e non tardare! senza Te io non posso stare!…

TI VOGLIO!

Gesù, Tu solo sei tutto. Per questo Ti voglio! Maestro insuperabile, venerato, caro! padre affettuoso; fratello dilettissimo; sposo dell’anima mia; amico fedelissimo; unico e vero Redentore! Per Te, tutto e solo per Te! Sì, o Gesù. Perché la mia vera gioia, la mia più grande gioia è di sapermi amato da Te, e perciò dal Padre celeste e dallo Spirito Santo. – Sapermi amato da Te che sei il tutto, mentre io sono il nulla! Meno che nulla.

Eppure… Sì, fa’ coraggio, anima mia, Iddio mi ama. Me, così esiguo, debole, effimero, deforme, cattivo, perfido, inetto, incostante. Ama me d’un amore infinito sin dall’eternità, questo Signore e Creatore di tutto lo sterminato universo che S. Agostino ha definito: «Sommo, ottimo, più che potente, più che onnipotente, sovranamente misericordioso e giusto, nascostissimo e presentissimo, bellissimo e fortissimo, stabile e incomprensibile ». Oh! Gesù. Perdonami se me ne meraviglio! Dovrei ricordare sempre che il Tuo amore è degno della Tua Bontà infinita, della Tua gloria, della Tua onnipotenza! Grazie, o Gesù! Accoglimi, dunque, fra le Tue braccia, poiché sono la pecorella smarrita, sono la dramma ruzzolata sotto la tavola, sono il figliuolo prodigo che si stringe al Tuo seno e non vuole più separarsi da Te! – Sento un bisogno irresistibile, o Gesù, di dimenticarmi, di scomparire, di consumarmi per adorare Te nel Padre Celeste ininterrottamente, per radicarmi in Te, immobile, come se fossi già nell’eternità, per ascoltarti in un profondo silenzio…

BEATI GLI OCCHI…

« Beati gli occhi che ti veggono, o Dio amore! O quando giungerò colà ove sei tu, Dio, vera luce?… So che alfine ti vedrò coi miei occhi, o Gesù, mio salvatore! Beati gli orecchi che ti ascoltano, o amore, verbo di vita! Quando la tua voce piena di tanta dolcezza mi consolerà chiamandomi a te? Oh! ch’io non abbia a temere una dura parola, ma ascolti presto la tua voce gloriosa! Beate le nari che sentono il tuo olezzo, o Dio, dolce profumo di vita! O venga io presto ai fertili e ameni pascoli della tua eterna visione! Beata la bocca, o Dio, che gusta le tue parole di consolazione, più dolci d’un favo di miele! Quando si nutrirà l’anima mia della sostanza della tua divinità, e si inebrierà dell’abbondanza delle tue delizie? Oh, possa io qui sentire quanto soave tu sei, Signore, in modo da goderti poi in eterno e pienamente, o Dio della mia vita. – Beata l’anima che si è unita a Te con amplesso di amore inseparabile, e beato il cuore che sente il bacio del cuor tuo, stringendo teco un patto di indissolubile amicizia. Oh! quando mi stringerai tu con le tue braccia, o Dio del mio cuore, e ti scorgerò senza velame?

Presto, tratta fuori da questo esilio, possa io vedere il tuo dolce volto nella gioia!» (Esercizi di Santa Geltrude la Grande).

O MARIA!

O Maria, Ausiliatrice, Immacolata, compi l’opera, soddisfa il mio desiderio. Voglio, per le tue mani verginali e materne, essere presentato, offerto e consacrato, per sempre, a Gesù. Degnati, o Vergine e Madre purissima, di esaudire la mia preghiera.

FINE

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (4)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (4)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni

ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF.1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

PARTE PRIMA

Gesù vivente in noi.per comunicarci la sua vita

CAPITOLO II.

La nostra incorporazione a Gesù Cristo!

Essendo il Verbo incarnato la fonte della vita soprannaturale, a coltivar questa vita non possiamo far di meglio che unirci a Gesù Cristo, entrare in comunicazione col suo spirito e colle sue virtù, o, per dirla coll’energica espressione di san Paolo, incorporarci a Lui, giacché siamo membra di un Corpo mistico di cui Cristo è capo. – Questa verità, che abbiamo rapidamente toccata nel capitolo precedente, dobbiamo ora esporre un po’ più distesamente, a fine di rilevarne meglio il valore dottrinale e le principali applicazioni.

Art. I. — SINTESI DOTTRINALE.

1° I fondamenti di questa benefica dottrina furono posti da Nostro Signore stesso. Descrivendo anticipatamente la scena del giudizio finale, Gesù si congratula coi giusti perché lo nutrirono, lo vestirono, lo visitarono; e perché questi, stupiti, gli rispondono: ma quando vi abbiamo nutrito, vestito, visitato infermo o in carcere? Gesù risponde: «  quante volte avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli, dei più ‘piccoli, l’avete fatto a me  » (Matth. XXV, 40). Gesù dunque s’identifica, a così dire, cogli uomini suoi fratelli, si nasconde, vive in loro, così che ogni servigio reso al minimo di essi lo considera come fatto a se stesso. Mirabili parole, che trasformano ogni atto di carità fraterna in un atto di carità divina! Se indaghiamo la ragione profonda di questa sublime affermazione, la troviamo appunto nella dottrina della nostra incorporazione a Cristo; se è vero che Gesù è il Capo di un Corpo mistico di cui noi siamo le membra, è evidente che far del bene al minimo dei nostri fratelli, è farlo al Capo di detto Corpo, allo stesso Nostro Signore. Interpretare altrimenti questo testo sarebbe un fargli violenza. Del resto Gesù, nell’ultima Cena, volle esporci il suo pensiero in modo anche più chiaro. Aveva poco prima dato ai discepoli un comandamento nuovo: « … che vi amiate a vicenda, così come io ho amato voi » (Giov. XV, 12): cosa anche più perfetta dell’amare il prossimo come se stesso, perché Gesù ci amò con amore disinteressato e si sacrificò e immolò per salvarci. Rinnova poco appresso questo stesso comandamento (Giov. XV, 12); ma, a farlo capir meglio, adopera un paragone: « Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore » (Ivi, v. 1). Gesù è la vera vite, non la vite d’Israele mostratasi infedele a Dio, ma la vite sempre fedele e sempre feconda. Il Padre è l’agricoltore, che coltiva la vite, tronca i rami sterili e pota i rami fecondi, affinché diano maggior frutto. E i tralci di questa mistica vite siamo noi, che, per portar frutto, dobbiamo restare uniti al ceppo che è Gesù medesimo: « Come il tralcio non può portar frutto se non rimane nella vite, così neppur voi se non rimanete in me » (XV, 4). Noi siamo dunque uniti a Gesù, vale a dire al Verbo incarnato, all’Uomo-Dio, come i tralci sono uniti al ceppo della vite: scorre dunque in noi e in Lui la medesima vita. Colui che da tutta l’eternità possiede la pienezza della vita divina si fece uomo e volle che la sua anima umana fosse riempita di quella grazia creata che altro non è se non una partecipazione alla vita stessa di Dio; e a questa pienezza di grazia creata partecipiamo noi finché rimaniamo uniti di mente e di cuore a Colui che è nostro Capo, come i tralci rimangono uniti al ceppo della vite. È quello che dice san Giovanni all’inizio del suo Vangelo: « E il Verbo si fece carne e abitò tra noi… pieno di grazia e di verità… E dalla pienezza sua noi tutti abbiamo ricevuto » (Giov. I, 16). C’è dunque tra Gesù e noi comunanza di vita; il che – dice Bossuet – suppone « tra Lui e noi una unione così intima da fare un medesimo corpo con Lui, come i tralci e i rami della vite fanno uno stesso corpo col ceppo… suppone un influsso interno di Gesù su di noi, come quello del ceppo sui tralci, che ne traggono la linfa onde si alimentano »  (Meditations sur l’Evangile, La cène, 2° partie, I jour). Siamo dunque innestati a Cristo e incorporati a lui: in altre parole, Gesù è il nostro Capo e noi ne siamo le membra; e da Lui riceviamo il moto e la vita. Gesù quindi, nella preghiera sacerdotale dell’ultima Cena, si immedesima già, non solo con gli Apostoli, ma anche coi loro discepoli, con tutti i Cristiani; e in uno slancio sublime dice al Padre: « Io non prego solamente per questi (gli Apostoli), ma anche per quelli che per la loro predicazione crederanno in me, perché siano anche essi una cosa sola, come Tu sei in me, o Padre, e Io in te… E la gloria che tu desti in me Io la diedi ad essi, affinché siano una cosa sola come una cosa sola siamo noi. Io in essi e tu in me affinché siano perfettamente uniti e conosca il mondo che Tu mi mandasti e amasti loro come amasti me! ». Eccoci dunque, per il fatto della nostra incorporazione a Cristo, intimamente uniti a tutte e tre le divine Persone, perché queste sono inseparabili e risiedono l’una nell’altra; eccoci strettamente uniti a tutti i Cristiani, che sono come noi, membra di Gesù Cristo; eccoci amati dal Padre come ne è amato Gesù medesimo, non essendo noi che una estensione della sua Persona e una porzione del mistico suo Corpo. Oh pensiero che conforta e che santifica! Noi siamo della famiglia di Dio; ora la nobiltà impone dei doveri : dobbiamo quindi essere perfetti come è perfetto il Padre celeste, almeno in quel grado che è possibile alla nostra debolezza. « Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste: Estote ergo vos perfecti sicut et Pater vester cælestis perfectus est ». (Matt., V, 48). Se siamo incorporati a Cristo e suoi fratelli e partecipi dellastessa sua vita, il Padre suo è Padre nostro, ondedobbiamo accostarci alla divina sua perfezione.

2° Questa stessa dottrina san Paolo riprendesotto altra forma e la svolge in tutte le sue conseguenze.

A) Vediamo innanzi tutto come afferma questa dottrina.

a) Mentre perseguitava i Cristiani, una lucelo atterra sulla via di Damasco e una voce glidice: « Io sono Gesù che tu perseguiti » (Act. IX, 5). Gesùdunque viveva in quei Cristiani da Saulo odiati e perseguitati e non faceva con loro che una cosasola. Ora come è ciò possibile se non si ammetteche tutti i membri della Chiesa formano insiemeun corpo solo, che è il Corpo mistico di Cristo? Ed è questa la conclusione a cui, dopo lunghe meditazioni, sotto la efficace ispirazione dello Spirito Santo, arriva il grande Apostolo.

b) Nella Lettera ai Corinti, san Paolo, richiamato il principio generale che tutte le membra del corpo umano, nonostante il loro numero, non formano che un corpo solo, aggiunge: « Voi siete Corpo di Cristo, siete rispettivamente le suemembra » (I Cor. XII, 12-27. Questa incorporazione comincia colBattesimo: « Tutti infatti in uno Spirito fummo battezzati a formare un sol corpo, sia Giudei, siaGreci, sia schiavi, sia liberi, e tutti di uno Spirito abbeverati ». Questo spirito altri non è che lo Spirito Santo, il quale, vivendo in Gesù, vive pure nelle sue membra.

c) Ma specialmente nella Lettera agli Efesini san Paolo inculca questa dottrina; « Vi è un sol corpo è un solo spirito, come anche foste chiamatia d una sola speranza della vocazione vostra » (Ephes. IV, 4). Ora questo unico corpo è il Corpo diCristo, di cui noi siamo le membra e nel quale dobbiamo crescere fino a toccare la misura della statura perfetta di Cristo: « Da lui tutto il corpo, ben compaginato e connesso, per mezzo di ogni giuntura sostentatrice, secondo l’attività fissataa ciascun membro, prende il suo incremento asvilupparsi nell’amore » (ivi, 13-16). Il capo di questo corpoè Gesù, il Corpo è tutta la Chiesa con tutti i membri che la costituiscono: « Dio pose tuttosotto i suoi piedi e lo diede Capo su tutte le cosealla Chiesa, la quale è il Corpo di Lui, il complemento di Lui, che si compie tutto in tutti ». (Ep. Efes., I, 22, 23).Vi è dunque, oltre il Cristo storico che vissetrentatré anni in Palestina, un Cristo mistico che si estende nel tempo e nello spazio e di cui siamo le membra; un Cristo che ha un’anima, un capo e delle membra che non formano se non un solo e medesimo corpo spirituale. E non sono già due Cristi, ma due aspetti del medesimo Cristo poiché è Gesù, il Gesù storico, Colui che è Capo del Corpo mistico.

B) Spieghiamo questo concetto attenendoci a san Paolo:

a) Innanzitutto, Gesù, il Verbo incarnato, èil Capo del Corpo mistico, di cui noi siamo lemembra. Il capo fa sul corpo umano un triplice ufficio:di preminenza, perché ne è la parte principale; di centro unitivo, perché riannoda tutte le membra; di influsso vitale, perché partono da Lui il moto ela vita che animano l’intiero corpo. E appunto questo triplice ufficio fa Gesù sulle anime nella Chiesa.

1) Gesù ha certamente la preminenza su tutti gli uomini, Egli che, come uomo-Dio, è il primogenito di tutte le creature, l’oggetto delle compiacenze divine, il modello perfetto di tutte le virtù, la causa meritoria della nostra santificazione;è Egli che fu, pei suoi meriti, esaltato sopra tuttele creature e sopra gli Angeli stessi, e dinanzi al quale si piega ogni ginocchio in cielo, sulla terra e nell’inferno.

2) Ed è pur Lui il centro di unità nella Chiesa. Due cose sono essenziali a un organismo perfetto: la varietà degli organi e delle funzioni;la loro unità in un principio comune che li coordinaa un fine che è il medesimo per tutti. Oraè pur sempre Gesù Colui che, dopo avere stabilitonella Chiesa la varietà degli organi coll’istituzione della gerarchia ecclesiastica, ne rimane ilcentro di unità, perché è Lui, Capo invisibile mareale, quello che imprime ai capi gerarchici la direzioneche essi trasmettono alle membra. È Gesùche mette unità in ciascuno di noi, aiutandoci conla sua grazia ad assoggettare il corpo all’anima, le facoltà inferiori alle superiori e queste a Dio.Così, per grazia sua, regna dovunque l’armonia el’unità.

3) Gesù è pure il principio dell’influssovitale che anima e vivifica tutte le membra. Anchecome uomo, riceve la pienezza della grazia percomunicarcela, e, dopo la caduta di Adamo, nonc’è grazia che non ci venga da Gesù Cristo. Nonè forse Gesù la causa meritoria di tutti i doni spiritualiche riceviamo e che ci sono compartiti dalloSpirito Santo? Onde san Paolo si sente mossoa ringraziare « il Padre del Signor Nostro GesùCristo, che ci benedisse in Cristo di ogni benedizione spirituale, celeste, e che ci elesse in Lui prima della creazione del mondo ad esser santi e immacolati agli occhi suoi, avendoci nell’amor suo preordinati all’adozione di figli per Gesù Cristo » (Ephes. I, 3-5 tutto questo bellissimo capitolo è daleggersi e meditarsi più col cuore che con la mente). Noi siamo dunque predestinati perLui e in Lui, per Lui e in Lui siamo santificati, purificati dalle colpe, ornati della grazia acquistata col suo sangue, e diveniamo figli adottivi di Dio. Non è forse questo il profondo significato diquella parola di Nostro Signore: « Io sono la via, la verità e la vita? ». Gesù è la via che dobbiamo seguire, la verità che dobbiamo credere,ma è soprattutto la vita che dobbiamo vivere, perché, essendo la fonte di ogni vita soprannaturale,copiosamente la comunica a tutti Coloroche gli sono incorporati. Tanto dichiara il  Concilio di Trento, il quale, ripigliando l’allegoriadella vite e compiendola con quella delCorpo mistico, ci insegna che Gesù opera su noicome il capo sulle membra, come la vite suitralci, e trasfonde la sua vita e la sua virtù in tuttii giusti (1 Sess. VI; cap. VIII).

b) Ad ogni corpo è necessaria non solo una testa ma anche un’anima. Ora è lo Spirito Santo l’anima di quel Corpo mistico di cui Gesù è la testa. È infatti, secondo la testimonianza di san Paolo (Rom. V, 5), lo Spirito Santo che diffonde nelle anime la carità e le grazie meritate da Nostro Signore, e che ci dà pure se stesso per operare in noi le disposizioni di Gesù. Ecco perché lo Spirito Santo è così spesso chiamato lo Spirito di Gesù; tale è per una doppia ragione: perché viene da Gesù, che, come Dio, ce lo invia e, come uomo, ci merita e ci ottiene la sua venuta; ma poi anche perché questo divino Spirito, che risiedeva nell’anima umana di Gesù, risiede pur nella nostra e vi produce disposizioni simili a quelle di questo divino modello. Ond’è che sant’Agostino non teme di affermare che lo Spirito Santo è al corpo della Chiesa quel che l’anima è al corpo naturale (Quod est in corpore nostro anima, id est Spiritus Sanctus in corpore Christi quod est Ecclesia – sermo 187 de tempore); e Leone XIII canonizza, a così dire, questa dottrina affermando che se Cristo è il capo della Chiesa, lo Spirito Santo ne è l’anima (Encicl. Divinum illud munus, del 9 maggio 1897). Queste due azioni, di Cristo e dello Spirito Santo, non solo non si ostacolano ma si compiono a vicenda. Solo Gesù, perché uomo, può essere il Capo di un Corpo mistico composto di uomini, dovendo il capo e le membra essere della stessa natura; ma, come uomo, Gesù non può conferire da sé la grazia necessaria alla vita delle sue membra, perché cotesta grazia, essendo una partecipazione della vita stessa di Dio, non può essere direttamente data che da Dio. A compiere quindi quest’ufficio viene lo Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio per via d’amore; ma, facendolo in virtù dei meriti e della potente intercessione di Gesù, si può dire con tutta verità che l’influsso vitale parte da Gesù per giungere alle sue membra.

c) Quali sono dunque le membra di questo Corpo mistico? Tutti coloro che sono battezzati. Per il Battesimo infatti noi veniamo incorporati a Cristo, come dice san Paolo  (« Etenim in uno Spiritu omnes nos in unum corpus baptizati summus ». (7 Ep. Cor., XII, 13)); e riceviamo una seconda nascita, come dice san Giovanni. (« Nisi quis renatus fueriti ex aqua et Spiritu Sancto non potest introire in regnum Dei » – S. Giov., III, 5). A capir meglio questa dottrina, rammentiamo che una volta il Battesimo era amministrato per immersione: il catecumeno veniva immerso nell’acqua battesimale, a significare che, per virtù di Cristo, moriva al peccato e si seppelliva con Cristo; poi veniva tratto fuori dall’acqua, a significare che con Cristo risorgeva di tra i morti per vivere di una vita nuova, cioè della vita medesima di Cristo, al quale era stato incorporato: « Non sapete, scrive san Paolo ai Romani, che quanti fummo battezzati in Gesù Cristo, nella morte sua fummo battezzati? Fummo dunque per il Battesimo consepolti con Lui alla morte, affinché, come fu risuscitato Cristo da morte dalla gloria del Padre, così anche noi camminiamo in novità di vita » (Rom. VI, 3.4). Per il Battesimo quindi noi moriamo al peccato, riceviamo una nuova nascita, una vita nuova, la vita stessa di Cristo; « Quanti foste battezzati in Cristo, di Cristo vi siete rivestiti » (Gal., III, 27); ora rivestirsi di Cristo è partecipare alla sua vita, alle sue disposizioni interiori, alle sue virtù: « Hoc enim sentite in vobis quod et in Christo Jesu? » (Fil. II, 5). In altre parole, è diveniremembri vivi di Cristo ed essere a Lui incorporati,come viene ufficialmente dichiarato nelDecreto agli Armeni (Questo Decreto, che fa parte del Concilio di Firenze, si trova riferito in DENZINGER, Enchiridion, n. 696); « Per ipsum (baptismum) enim membra Christi ac de corpore efficimur Ecclesiæ ». ,Ne segue che tutti i battezzati sono membra diCristo ma in grado diverso: i giusti gli sonouniti per mezzo della grazia abituale o santificante;i peccatori, che hanno perduto lo stato digrazia, per mezzo della fede e della speranza checonservano nel cuore anche quando abbiano avutola disgrazia di commettere un peccato mortale;i beati, per mezzo della visione beatifica. Gli infedelipoi non sono attualmente membra del Corpomistico di Cristo, ma, finché vivono sulla terra,sono chiamati ad esserlo; e, se non resistono allagrazia, un giorno lo diverranno. Solo i dannatisono esclusi per sempre da questo ineffabile privilegio,perché avendo, nonostante i premurosi invitidella grazia, ostinatamente ricusato di tornarea Dio anche in punto di morte, si sono irreparabilmenteseparati da Cristo Salvatore: « Seuno non rimane in me, sarà gettato via come iltralcio, e seccherà, e lo raccoglieranno e butterannonel fuoco e brucerà » (S. Giov. XV, 6).

C) LE CONSEGUENZE di questa bella dottrina sono tanto numerose che appena un volume basterebbe a spiegarle. Ecco le tre principali:

a) I Cristiani sono il compimento e l’estensione del Cristo mistico, poiché questo non è compito se non quando è unito alle sue membra Lo afferma san Paolo dicendo: « Dio lo diede capo su tutte le cose alla Chiesa, che è il Corpo di Lui, il compimento di Lui che si compie tutto intutti! ». L’Apostolo è così persuaso di questopensiero che non esita a dire; « che compie coipatimenti suoi ciò che manca alla passione diCristo » (Ephes. I, 23). La Passione di Cristo è certamentecompita in sé e perfetta, ma Gesù, capo di unCorpo mistico, deve pure patir nelle sue membracome patì in se stesso; ecco in che senso i patimentidi coloro che gli sono incorporati compionoe perfezionano quelli di Cristo. Che onore ci faGesù di associarci così alla sua opera redentrice!e chi ricuserebbe di patire con Gesù per una causacosì nobile? Uniti a quelli di Gesù, i patimentinostri contribuiscono non solo a santificar noima anche a santificare le anime per le quali lioffriamo. Ecco perché i Santi amarono sempretanto la croce; non l’amarono certo per se stessama per Gesù Cristo, al Quale erano lieti di associarsi,come sono liete le membra di patire peralleviare il capo; e per le anime riscattate col divinosuo sangue, alla cui salute noi cooperiamopraticando liberamente e generosamente alcunipochi sacrifizi onde collaborare alla loro santificazione. ,Non solo i patimenti ma tutte le azioni dellemembra di Cristo diventano, per il fatto dellanostra incorporazione, azioni di Cristo. È sempresan Paolo che ce lo insegna: « Vivo non piùio, ma vive in me Cristo » (Gal. II, 20). Quindi, quando preghiamo,non siamo noi che preghiamo ma è lo  Spirito di Gesù che prega in noi: « Lo Spiritosostiene la nostra debolezza; perché quello cheabbiamo convenientemente da chiedere non sappiamo,ma lo Spirito stesso sollecita per noi congemiti inesplicabili » (Rom. VIII. 26). Il che è tanto vero chesant’Agostino dice (in Psal. X, 4): « Quando si parla dellapreghiera di Gesù Cristo, si può intendere o lapreghiera di Gesù stesso o la preghiera del Cristiano: è una sola preghiera, perché il Capo e ilCorpo di Cristo formano insieme tale unità chele due parti non possono venir separate l’unadall’altra ». Quando operiamo soprannaturalmente,è Gesù che opera in noi e dà alle nostreazioni un valore incomparabile: « Se uno rimanein me, e Io in lui, questi porta molto frutto » (Giov. XV, 5).Si deve dire lo stesso di tutte le virtù che pratichiamo: se siamo dolci e umili di cuore, poveri,misericordiosi, caritatevoli, è Gesù che vive innoi con queste virtù e che ce ne fa parte. Vivein noi come il capo vive nelle membra dandoloro il moto e la vita e comunicando un incomparabilevalore alle loro azioni; perché questeazioni partecipano alla dignità e al valore soprannaturaledi Colui che ne è l’ispiratore e il primomotore. Ma anche noi viviamo in Lui; incorporatia Lui, liberamente riceviamo da Lui il motoe la vita, liberamente aderiamo a Lui come itralci al ceppo della vite, liberamente apriamol’anima nostra alla vita che ci comunica e liberamente.corrispondiamo alla sua grazia per imitarnele virtù.« Prestiamo dunque le anime nostre allo Spiritodi Gesù, dice l’Olier (Pensées choisies, pubbl. da LETOURNEAU, p. 15-19), affinché venga crescendo in noi. Se trova soggetti ben disposti, ei si dilata, si accresce, si diffonde nei cuori e li profuma con quell’unzione spirituale di cui è Egli stesso profumato ». b) In virtù di questa incorporazione a Cristo noi entriamo nella famiglia di Dio. Ah! certo noi non siamo né possiamo essere se non figli adottivi. Ma che onore per noi di essere adottati dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo! Membra viventi di Cristo, fratelli di Gesù, diventiamo figli di Dio per adozione, partecipiamo alla divina sua vita, onde acquistiamo il diritto di aver parte alla sua eredità che è il regno dei cieli: e siamo chiamati a contemplarlo un giorno faccia a faccia, a possederlo, a godere della sua presenza e del suo amore per tutta l’eternità. « Infatti, dice san Paolo, non riceveste spirito di schiavitù per essere di nuovo nel timore, ma riceveste spirito di adozione nel quale gridiamo: Abba, Padre! È lo Spirito stesso che rende testimonianza insieme con lo spirito nostro che siamo figliuoli di Dio. Se figliuoli, anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se per altro patiamo con Lui onde essere pure con Lui glorificati » (Rom. VIII, 16-17). Questo punto è di tale importanza che ne tratteremo più a fondo nel capitolo seguente.

c) Da questa incorporazione a Cristo scende pure il dogma della Comunione dei santi: i giusti che vivono quaggiù, le anime del purgatorio, i santi del cielo, fanno tutti parte del Corpo mistico di Gesù: perché tutti ne partecipano la vita, ne ricevono l’influsso vitale, cantano insieme la gloria di Dio e sono chiamati tutti a regnare col divino loro Capo nella città celeste. Onde i santi del cielo, che rammentano le lotte sostenute in terra, sono pieni di compassione per noi e premurosamente intercedono per la salvezza nostra, nulla più vivamente desiderando che di vedere quelli che sono, come loro, membra di Cristo, unirsi a loro per glorificar Dio e godere del suo amore per tutta l’eternità. Si volgono pure pietosamente alle anime del purgatorio e intercedono per la pronta loro liberazione. E queste anime purganti, pur chiedendoci suffragi per alleviare il loro doloroso esilio, fanno voti e preghiere perché noi, trionfando delle tentazioni contro cui dobbiamo lottare, andiamo ad aumentare le schiere dell’esercito celeste. E la premura che si prendono di noi è tanto maggiore quanto più ferventi sono le preghiere e soddisfazioni nostre per loro e le indulgenze più numerose. – Così Gesù Cristo, vivendo in noi come vive in loro e nei santi, è il vincolo che delle tre chiese, militante, purgante e trionfante, fa una sola Chiesa e un unico Corpo mistico. Per questa stessa ragione tutti i Cristiani sono fratelli; non vi è più né Giudeo né Greco, né libero né schiavo, siamo tutti una cosa sola in Cristo, tutti solidari, nel senso che ciò che giova a uno giova pure agli altri, perché ogni membro si avvantaggia dei beni dell’intiero corpo, così come ogni membro patisce quando patiscono le altre membra. Il che è egregiamente esposto da san Paolo: « Non può l’occhio dire alla mano: non ho bisogno di te; né la testa dire ai piedi: non ho bisogno di voi. Anzi, quelle che paiono tra le membra del corpo esser più deboli, sono le più necessarie… e se patisce un membro, patiscono insieme tutte le membra ; se è elorificato un membro, ne congioiscono tutte le membra » (I Cor. XII, 21-26). – Sta qui il vero fondamento della cristiana carità. Ecco perché i santi furono sempre i grandi benefattori dell’umanità: vedendo Gesù stesso nella persona dei poveri, degli infermi, dei prigionieri, di tutti i loro fratelli in Cristo, si dedicarono interamente al loro servizio e adempirono alla lettera la parola di san Giovanni. « Gesù diede la vita per noi; e anche noi dobbiamo dar la vita per i fratelli » (I Giov. III, 16). I santi in molti casi diedero letteralmente la vita con l’esporsi alla morte per salvare il prossimo; ma più spesso la diedero a goccia a goccia, spendendo le ricchezze, le forze, le fatiche, onde aiutarlo così sotto l’aspetto corporale come spirituale; tanto erano persuasi della parola del Maestro: « Ciò che fate al minimo dei miei fratelli lo fate a me ».

LA VITA INTERIORE (28)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (28)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

TENEBRE DISSIPATE

LUI SOLO, GESÙ!

L’ATTRAZIONE DI GESÙ

QUATTRO MISTERI DI UNIONE.

San Tommaso d’Aquino ci ha indicato, con grande e insuperabile precisione, i quattro misteri di unione di Gesù con le nostre anime (Cfr. Inno alle Lodi nell’Ufficio del Corpus Domini (Breviario Romano):

1) Se nascens dedit socium.

Nel santo mistero dell’Incarnazione Gesù si fa nostro socio, nostro compagno, e così, di riverbero, noi diventiamo i compagni suoi.

2) Convescens în edulium.

La santa Eucaristia nel mistero della Cena fa di Gesù Cristo il nostro cibo e, di noi, i cibati da Gesù.

3) Se moriens in pretium.

Morendo in Croce, Gesù fu personalmente il prezzo del nostro Riscatto; e noi i riscattati, i liberati della schiavitù.

4) Se regnans dat in præmium.

Gesù salendo alla gloria del Cielo diventò la nostra ricompensa, e noi diventammo i suoi premiati in eterno. Ideo attraxi te, miserans… Avendo compassione, ti attrassi a me.

GESÙ NOSTRO COMPAGNO.

Portiamoci a Betlemme, e contempliamo Gesù Bambino. Dio, figlio di Dio, onnipotente… si è ridotto volontariamente all’impotenza, alla miseria, simile a noi, in tutto, tranne che nel peccato. È una persona storica, nel tempo, nel luogo, nelle azioni, nelle parole… Visse come gli uomini vivono, immerso in tante miserie, pressato da mille necessità…; abbeverato di dolori, mortificato da mille incomprensioni. Non importa. Volle essere nostro compagno, lo fu realmente, non soltanto con la sua autopresentazione, con la volontà di vederci e di conoscerci, ma con la sua più forte e più avvincente simpatia. Conosciamo, e ci ripetiamo con gioia, la sua dolce dichiarazione: Le mie delizie le ho riposte nello stare coi figli degli uomini. Ma, se questa è la sua dichiarazione d’amore per noi, qual è la nostra risposta? Come abbiamo cercato di lasciarci attrarre, di vivere uniti con lui?

TENDENZA DEL NOSTRO CUORE.

Per la corrispondenza del nostro cuore umano alle manifestazioni d’amore di Gesù, Dio ha posto ne’ nostri cuori una tendenza che li volge e indirizza e getta nel Cuore di Gesù. Questa tendenza è umana. e divina.

1) – Umana. – Tertulliano parlò dell’anima naturalmente cristiana. Gesù stesso ci presentò il fanciullo non ancor guasto dal convenzionalismo e dalle ipocrisie del vivere sociale come prototipo del cittadino del suo regno, che è quanto dire perfetto compagno suo. C’è un’attrazione naturale, una dolce simpatia insita nel cuore umano, per il Cuore di Gesù. Ne fu preso Pilato, fin dove poteva arrivare con la sua anima scettica di politico. Sembra ne fosse preso Tiberio, se è vero che lo abbia voluto nel numero degli dèi. La maggior parte dei nemici della Chiesa, ha avuto sempre una misteriosa ripugnanza a coinvolgerne nel suo odio anche il Fondatore; si sono trovati termini di separazione, come quello di Cristianesimo e di clericalismo, teorie le più strane per risparmiare Cristo dalla lotta contro l’opera sua; certe sette di sovversivi; come i comunisti, se lo sono preso e fatto addirittura proprio. Schierarsi contro Gesù, prendere di mira direttamente Lui è cosa che sempre ha ripugnato. E chi è giunto a farlo si è visto d’un tratto condannato all’isolamento dal disgusto dell’opinione pubblica. Del resto, giungere al punto di attaccare direttamente il Cristo ha sempre significato due cose: o uno stato di fobìa, di degenerazione che discende a toccare i confini dello squilibrio: o, più spesso, come ben giunse a notare di se stesso il Papini, il fondo di un grande amore che incosciente tumultua soffocato da un inconcepibile odio (legge ben strana questa di quel povero guazzabuglio che è il cuore umano, per cui ben spesso un’amicizia ed un fidanzamento cominciano con le più dispettose antipatie) ma, niente paura in tal caso: Saulo ben facilmente diventerà un Paolo.

2) Divina. – E con questo esempio siamo senz’altro passati dall’umana alla divina, dalla naturale alla sovrannaturale tendenza con cui Dio Padre polarizza i cuori degli uomini al Cuore del suo figlio diletto. Il Compagno chiama i compagni: se nascens dedit socium. Quest’opera di attrazione amorosa viene pur giustamente attribuita allo Spirito Santo: sono tratti di amore che ben si riferiscono all’Amore increato. « Nessuno viene a me, se il Padre che mi ha mandato non lo attira » diceva Gesù. E tutti noi sacerdoti ricordiamo lo splendido commento che sant’Agostino fa a queste parole: ce lo fa leggere la Chiesa nel mercoledì fra l’ottava di Pentecoste: « Non vi è solo una volontà che ci attrae a Gesù e ce ne fa desiderare la compagnia, ma pure una celeste voluttà. Egli nella mano del Padre (o se vogliamo, dello Spirito Santo) è come il ramo verde che trascina la pecorella, come le noci che fanno correre il fanciullo. Perciò la sposa della Cantica, si raccomandava di godere di queste divine attrattive per lo Sposo: Trahe me post te! ». Così a un di presso il santo dottore Agostino (A. CANESTRI, Rivista del Clero, VIII, 1936 – 423-4). Terminiamo con alcuni pensieri di sant’Alberto il grande (L’unione con Dio). « L’amore ha la virtù di unire e di trasformare: trasforma colui che ama in colui che è amato, e colui che è amato, in colui che ama. L’uno diviene l’altro quanto più è possibile. E prima di tutto, con quale pienezza di intelligenza trasporta l’oggetto amato nel soggetto che ama! Con quale dolcezza, quale soavità il primo vive nel ricordo del secondo; e come colui che ama si sforza di sapere, non in modo superficiale, ma fino nell’intimo, ciò che riguarda l’oggetto amato, e di entrare il più possibile nella sua vita interiore. Dopo viene la volontà. Forse che il primo non si trova in questa compiacenza amorosa, in questa dolce e intima gioia del possesso? Colui che ama si trova pure nell’oggetto amato, coi suoi desideri, la sua conformità con Lui di brame e di ignoranze, di gioie e di tristezze. Si direbbe che è una cosa sola con Lui ».

Come un organismo naturale riunisce nella sua unità

la diversità delle sue membra, così la Chiesa,

che è il Corpo mistico di Cristo, è considerata

come formante col suo Capo una sola persona morale.

S. Tommaso, III, q. XLIX, a. 1.

Cristo si forma în noi.

S. Paolo, Efes., IV, 15.

Noi dobbiamo crescere in lui.

S. Paolo, Cor., XII, 15-20.

GESÙ NOSTRO FRATELLO

GESÙ NON È CONOSCIUTO.

« E non ti bastava, o dolce mio Salvatore, l’abbassarti come Dio verso di noi per ridonarci la perduta immagine della tua divinità, che Tu volesti divenire anche nostro fratello? Per rinforzare la nostra fiducia per la energica elevazione di noi tutti sopra la debolezza dell’umana natura, volesti Tu stesso farti simile a noi in ciò che è essenzialmente umano, nell’impotenza e nella piccolezza; nel lottare e nel soccombere; nella tentazione e nell’abbandono — fuori che nel peccato, che questo non è umano (Hebr. IV, 15) — per darci un modello imitabile di perfezione veramente degno dell’uomo » (P. Schneep, Solo con Dio, II, pag. 143. Torino, S.E.I.). – È proprio questa una grande e bella e consolante verità; Gesù è il nostro fratello. « Ma la più grande sventura di questi nostri giorni è appunto quella di non conoscere Gesù: non solo da parte de’ nemici dichiarati del suo santo Nome, ma pure da tanti, da troppi Cristiani. Non vi dovrebbero essere uomini che si dicono increduli… Purtroppo, però, vi sono, e hanno la faccia tosta di dichiarare che, per essi, Gesù Cristo fu un grande uomo, un uomo eccezionale. Null’altro! » Molti poi fra i credenti in Gesù, non credono abbastanza alla divina umanità di Gesù. Lo considerano come un Dio distante, differente da loro stessi e talmente al di sopra di loro, che non è più loro fratello. Sopprimono la sua incarnazione e il contatto sublime — voluto dall’amore — della sua rassomiglianza con noi» (P. Matteo Crawley-Borvey, Incontro al Re d’Amore.). Persino tra le anime pie, vi sono alcune che non conoscono, rettamente, Gesù, poiché si creano un Gesù impicciolito, un Gesù sfigurato, un Gesù… che non è più Gesù. – Noi vogliamo, invece, dire, affermare, ricordare e presentare Gesù tutto intero, vero, integrale, figlio di Maria SS., il Gesù del Vangelo, Dio e Uomo, Uomo e Dio. Quale prova migliore delle parole di San Giovanni?: Et Verbum caro factum est, et habitavit in nobis (Giov. I, 14). E il Verbo si è fatto carne, cioè nostro fratello, simile a noi che siamo di carne; e si degnò di abitare fra di noi che gli siamo fratelli.Ancora: Apparuit benignitas et humanitas salvatoris Domini nostri Jesu Christi (Tim., III, 4).Apparve, Gesù, sotto l’aspetto della benignità, anzi, fu la benignità stessa, solo per attrarci a Lui più facilmente, più visibilmente. Infatti, per essere nostro fratello realmente, ha preso il nostro modo di parlare, le nostre affezioni, le nostre infermità, la nostra morte. Perché ci ha amato, perché ci ama. Per amore discese dal Cielo su la terra, per amore visse in mezzo di noi, per amore visse come noi, in tutto; tranne che nel peccato, per amore volle morire, e volle morire per dare a noi, suoi fratelli, la vita.

EBBE LE NOSTRE DEBOLEZZE.

Come noi, ebbe tutte le debolezze della natura umana, tranne il peccato. Consideriamo, per un istante brevissimo, le sue condizioni nella capanna di Betlemme… Ecco come si esprime il Crawley: « Piccolo, impotente, nascosto nei suoi pannolini, non cammina, non parla. Ha bisogno quasi d’aiuto, di soccorso, e ne chiede; è nutrito con un po’ di latte, portato sulle braccia di sua madre, prova i suoi primi passi: è veramente, veramente il nostro fratello ». Come Dio, sa tutto; come uomo, vuole imparare, e siccome usano gli uomini, comincia a balbettare… – È onnipotente come Dio. Come uomo, fanciullo perseguitato, fugge l’ira degli uomini e, di ritorno a Nazareth, si dà al lavoro manuale, esercita il rude mestiere del falegname nella povera officina del suo Padre putativo, e sarà chiamato anche, con ironia, il figlio del falegname, il falegname. Conobbe tutte le sofferenze della povertà: quelle fisiche e quelle morali. Queste ultime causate dalle insolenze e dal disprezzo della gente danarosa! In barca cogli Apostoli nel lago di Tiberiade, si lascia prendere dal sonno. Assetato chiede da bere alla Samaritana al pozzo di Giacobbe. Assetato dell’anima della Samaritana, delle nostre anime, di tutte le anime, le segue, le perseguita col suo amore! Sempre così fino al Calvario, sulla Croce, quando si addormenterà nella sua sete bruciante ». Come noi, adunque, ha provato la fame, la sete, la fatica, il bisogno del riposo. S’è lasciato vincere, appositamente per incoraggiare noi, per attrarci a Sé, perché vivessimo con Lui, dalla fede della Cananea, e compì per essa il miracolo desiderato; s’è lasciato vincere da Simone, come un ospite qualunque. E ha steso la mano… Volle provare il dolore intimo dell’isolamento, e si trovò solo, separato dai suoi amici, nel doloroso momento della cattura, fino al Calvario. Si lascia insultare, schiaffeggiare, flagellare, coronare di spine… e, pur sempre onnipotente, accetta d’essere aiutato dal Cireneo… Permette che lo crocifiggano, che si prendano beffe di Lui… Desideroso d’essere compreso, fa suo un modo di dire tutto nostro, puramente umano: Che si dice di me? — Che vuoi che ti faccia? — Venite da me, voi tutti, che siete stanchi ed oppressi, ed Io vi ristorerò.

I SUOI SENTIMENTI…

Furono quelli d’un fratello. Amò come noi, a modo nostro, quello e quanto noi, secondo le leggi divine ed umane, possiamo amare. Pensiamo all’amore per la Mamma sua, Vergine purissima, santa! Amò la sua patria; ebbe le tenerezze più accorate per i discepoli, per gli amici, pei… piccoli, per i poveri. Ebbe, pure, le sue preferenze: Pietro, Giovanni. A Pietro chiese: M’ami tu più di costoro: Come noi ebbe bisogno di amicizia. Ed ecco Gesù a Betania presso Maria, Marta, Lazzaro… Fece, come noi facciamo a chi ne crediamo degno, le sue confidenze. Maria, Marta, Lazzaro sapevano… Qui è opportuno ricordare per nostro conforto quanto dice S. Paolo: Christus heri, hodie, et in sæcula (Hebr. IX, 12), cioè: Com’era allora Gesù, è oggi, e sarà sempre… Che dire poi della sua compassione? Fu profondamente umana, Verso i poveri, gli ammalati, e, soprattutto, verso i peccatori… Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma gli ammalati (Matth. IX, 12). Commosso per la prova di fedeltà dimostratagli dalle folle che l’avevano. seguito, assorbite dal fascino della sua parola dolce e raggiante, lascia sfuggire dal suo Cuore le parole più ricche di bontà compassionevole ed esclama: Misereor super turbam (Marc. VIII, 1). E moltiplica il pane ei pesci per tutti quelli che così fedelmente l’avevano seguito… Ancora. Dovunque è chiamato, guarisce, risuscita, consola. Non chiamato, provoca l’incontro per trovare l’occasione del miracolo. Così risuscita il figlio della vedova di Naim. Di fronte a Lazzaro morto, piange… Poi, con voce schiantata dal dolore, chiama il caro amico, lo invita a uscire dalla tomba e l’accoglie nelle sue braccia. – Ebbe, come molto bene fu detto, l’ineffabile debolezza delle lagrime: nella mangiatoia; presso il sepolcro di Lazzaro; sulla sorte della città di Gerusalemme; sulle conseguenze del peccato; nel Getsemani e sul Calvario. Tutto questo non bastò, perché tutto questo fu soltanto una parte della manifestazione del suo amore. Il suo amore completo, senza riserve, Egli ce lo diede, dandoci tutto se stesso… nella S. Comunione, perché noi dessimo tutto il nostro io a Lui e con Lui per sempre potessimo vivere, e fare una cosa sola con Lui!… « I pastori ed i Magi non poterono che baciare i piedi del piccolo Re che Maria loro porgeva. Maria e Giuseppe, essi stessi, non potevano che contemplarlo e abbracciarlo… Mille volte più felici, noi lo riceviamo in noi, e secondo la bella espressione di Bossuet, noi possiamo divorarlo. » Oh, non lo cambiate Gesù! » (CRAWLEY, o. c., pag. 126). È come noi, di carne, di sangue, di lagrime, di dolore! È Gesù delle anime nostre. È, veramente, il nostro fratello.

LA NOSTRA ASSIMILAZIONE GESÙ CIBO…

Nell’Inno all’Eucaristia per la festa del « Corpus Domini » , San Tommaso, dopo di avere affermato che Gesù Cristo se nascens dedit socium, aggiunge: convescens in edulium; e cioè: la SS. Eucaristia, nel Mistero dell’ultima Cena, fa di Gesù Cristo il nostro cibo e, di noi, i cibati da Gesù. – Sì. Venendo dal Cielo sulla terra si fece nostro compagno, nostro fratello. Abbiamo già considerato l’altissima degnazione, l’immensa bontà, la profonda condiscendenza verso le nostre anime! Ma, così, come fratello, come compagno, Gesù ci stava, ci è vicino… Come nostro cibo, invece, sappiamo che si identifica con noi, nella assimilazione più completa, e noi in lui col totale abbandono.

LA PROMESSA.

Due volte Gesù parlò della SS. Eucaristia: la prima volta, per prometterla; la seconda volta, per darla. « La promessa è avvolta negli splendori della potenza divina; la consegna si compie nei crepuscoli della più melanconica tenerezza. Gesù impegnandosi a fare un dono che sul momento non dava e d’altra parte era così straordinario, doveva far vedere che la potenza di mantenere la sua parola non gli mancava; perciò, preparò il suo discorso con la moltiplicazione dei pani: chi aveva la virtù di moltiplicarli sarebbe anche stato capace di trasformarli » (CANESTRI, Rivista del Clero, 1936, pag. 483). – Ed ecco la promessa di Gesù fatta a quelli stessi che pure avevano visto il miracolo della moltiplicazione dei pani: — Io sono il pane di vita. I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e sono morti: Patres. vestri manducaveruni manna in deserto, et mortui sunt (GIOV., VI, 48, 9). — Questo è quel pane disceso dal Cielo, affinché chi ne mangerà non muoia: Hic est panis de coelo descendens, ut si quis ex ipso manducaverit, non moriatur (Giov., VI, 50).— Io sono il pane vivo, che sono discesodal Cielo: chi mangerà un tal pane, vivràeternamente: Ego sum panis vivus, qui de cœlo descendi: si quis manducaverit ex hoc pane, vivet in æternum! (Ib., 51, 52).Questa. chiara, cordiale, generosissima promessa non fu compresa…, e Gesù lavolle riconfermare subito, nonostante il fuggi fuggi degli ascoltatori: « In verità, inverità vi dico: se non mangerete la carne delFigliuolo dell’uomo e non berrete il suosangue non avrete la vita in voi: Amen, amen dico vobis: Nisi manducaveritis carnem Filii hominis, et biberitis eius sanguinem, non habebitis vitam in vobis » (Ib., 54). Lamia carne è veramente cibo e il mio sangueè veramente bevanda: Caro mea vere est cibus, et sanguis meus vere est potus » (Ib., 56).Dopo il ripetuto miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci per saziare la momentanea necessità di cibo di alcune migliaia di persone, nessuno avrebbe dovuto, o potuto, dubitare delle parole di Gesù.

L’ISTITUZIONE.

Passati circa 18 mesi dal giorno della promessa, ecco Gesù nel Cenacolo circondato dagli Apostoli, poche ore prima dell’inizio della sua Passione. Egli, in un atto di profonda umiltà e di sublime carità, quasi a meglio preparare i presenti al grande atto cui stava accingendosi, volle prima lavare i piedi dei suoi Apostoli. Indi, a cena iniziata, Gesù prese un pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede agli Apostoli dicendo: « Prendete e mangiate: questo è il mio corpo: Accipite et comedite: hoc est corpus meum » (Matt., XXVI, 20). Così pure prese il calice, e levati gli occhi al cielo, lo benedisse e lo diede ai medesimi, dicendo: « Bevete di questo, tutti; ché questo è il sangue mio del nuovo Testamento: Bibite ex hoc omnes: hic est enim sanguis meus novi Testamenti » (MAtT., XXVI, 27-28).La promessa era stata preceduta da ungrande miracolo che doveva manifestare lapotenza di Gesù. Il mantenimento della promessa non fu, invece, accompagnato danessun prodigio. Tutto fu accolto in un’atmosfera di dolore sereno, di forte commozione per il prossimo distacco, per l’imminente sacrificio di Gesù Redentore nell’offertato tale di se stesso al Padre Celeste per la nostra salvezza.

DUE SPECIALI CIRCOSTANZE.

San Tommaso nel richiamarci il momento speciale di cui stiamo trattando nell’Inno all’Eucaristia, fa presenti due speciali circostanze: una di tempo, l’altra di fatto:

Verbum supernum prodiens,

Nec Patris linquens dexteram,

Ad opus suum veniens,

Venit ad vitæ vesperam.

Ad vitæ vesperam. Cioè: la vita di Gesù stava per finire, era al suo vespro. Ci diede, Gesù, se stesso, in quel momento, vicino alla sua morte, come Suo ricordo, come eredità, come suo testamento. Chi può intendere di quale battito pulsasse, in quegli ultimi momenti, per noi, il Cuore di Gesù? Non solo al vespro della sua vita, ma anche al vespro di un giorno, cioè di sera. Nei dolci momenti dell’intimità famigliare, quando vivo ritorna il ricordo dei lontani, quando forte affiora il dolore dell’isolamento, quando potente erompe il desiderio di quelli che sono in attesa e di quelli dai quali noi ci siamo separati; la sera ch’è l’ora dei dolci e dei mesti ricordi… Pensate: Era già l’ora che volge il disio/ ai naviGanti e ’ntenerisce ’l core/ lo dì c’han detto ai dolci amici addio… (Purg., VIII, 1-3).

Ma v’era ancora qualche cosa di più che rendeva melanconico e tenero il momento dell’Istituzione dell’Eucaristia: la circostanza di fatto. Mentre Gesù mantiene la sua promessa e si dà in cibo agli Apostoli, ecco il doloroso contrasto: Giuda, il traditore, consegna Gesù ai suoi nemici. Al dono di Gesù viene, cioè, contrapposto il tradimento. Ecco le vive e precise espressioni di san Tommaso:

In morte a discipulo,

Suis tradendus æmulis,

Prius in vitæ ferculo

se tradidit discipulis.

Contrasto dolorosissimo che strappa non solo la commozione, la compassione, ma fa stillare le lacrime a chi vi rifletta.

GLI EFFETTI DELL’EUCARISTIA.

Gesù venendo in noi ci nutre e fortifica. Alla stessa guisa del cibo materiale per la vita fisica, il cibo spirituale per eccellenza, Gesù stesso, nell’Eucaristia, ci nutre di se stesso, della sua grazia, della sua carne, sotto le specie del pane e del vino. La carne e il sangue di Gesù ci danno la vita, perché noi, cibandocene, assimiliamo il cibo!… Non basta. Se ci nutrono, ci fortificano. Propriamente come il cibo materiale, passato al triplice traguardo della digestione chimica, nella parte della quantità e della qualità che viene assimilata, aumenta le energie, rinnova il sangue che torna a pulsare più veemente, e, perché  più fresco e più puro, più efficacemente fluisce ed irriga tutto il suo campo d’azione.

IL NOSTRO ABBANDONO…

Se Gesù dà se stesso a noi, sotto le specie del pane e del vino, affinché ci nutriamo di Lui, e noi così veniamo attratti e assimilati da Lui; s’Egli si abbandona interamente, con piena fiducia in noi, è doveroso che noi ci abbandoniamo, a nostra volta, in Lui, senza sottintesi, senza limitazioni. L’abbandono in Gesù è la via regia, come già abbiamo detto, che conduce all’unione con Dio, al possesso della vita interiore. « Lo spirito del vero abbandono è un prezioso dono di Dio, è un cuscino di piume sul quale l’anima pia dolcemente riposa… Chi non si abbandona interamente alla Provvidenza viene a staccarsi da se stesso da questo seno divino » (Groachino SEILER, Lo spirito di Gesù Cristo. – Torino 1936, pag. 149). Chi si abbandona in Gesù, non esiste più con la sua personalità, poiché vive in Lui Gesù stesso… ch’è diventato, padrone e direttore de’ suoi atti, dei suoi movimenti, delle sue intenzioni… In tal modo Gesù può richiedere. qualunque sacrificio all’anima che si è abbandonata in Lui essendo certo di ottenerlo generosamente. Concludiamo con la bella e saggia definizione che la beata Gemma Galgani dà della SS. Eucaristia: « L’Eucaristia è un’Accademia di Paradiso, dove s’impara ad amare; la scuola è il Cenacolo, il maestro è Gesù, le dottrine da impararsi sono la sua Carne e il suo Sangue ». Oh! Gesù! degnati di ascoltare e di esaudire la nostra preghiera: che tu continui ad attrarci e a trasformarci in Te, ora e sempre!

Dopo la Comunione, e mentre siamo davanti al tabernacolo, la santa Umanità di Cristo (che è il vincolo fra noi e il Verbo) ci avvicina sempre più a Lui e con maggiore efficacia

C. MARMION

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (3)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (3)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni – ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

PARTE PRIMA

Gesù vivente in noi per comunicarci la sua vita

CAPITOLO I.

Art. III. — IL VERBO INCARNATO NELLE SUE RELAZIONI CON NOI.

« Il Verbo era nel mondo…

e il mondo non lo conobbe…

Ma a quanti lo accolsero diede potere

di diventar figliuoli di Dio:

ai credenti nel suo nome,

î quali non dal sangue,

né dal volere della carne, né dal volere dell’uomo,

ma da Dio son nati  » (Giov. I, 10-13).

Se il Figlio eterno di Dio, se il Verbo si è incarnato, lo fece per abitare in mezzo a noi, anzi per vivere in ognuno di noi. Come Dio, vive realmente in noi con la sua grazia; viene a noi per comunicarci una partecipazione della divina sua vita. Come uomo, vive in noi moralmente, avendo con noi le relazioni più intime, più affettuose, più santificanti. Gesù è:

.1° il capo di un Corpo mistico di cui noi siamo le membra.

2° il mediatore tra suo Padre e noi.

3° il sacerdote che, in nome di tutta la umana società, offre a Dio ii sacrificio per eccellenza.

4° il dottore infallibile che insegna ogni verità.

5° il modello perfetto che ci trae dietro a sé nelle vie della perfezione.

Poche parole basteranno a farci intendere questi gloriosi titoli del Verbo incarnato.

1° Il Verbo Incarnato è il Capo di un Corpo mistico che si chiama la Chiesa, Capo quindi di tutti i membri che la costituiscono? Tre qualità, dice san Tommaso (Sum. Theol., III, q. 8, a. I), distinguono la testa nel corpo umano: la preminenza, perché domina su tutte le altre membra; la perfezione, perché riunisce tutti i sensi esterni ed interni; l’influsso vitale, perché imprime a tutte le membra il moto, la direzione, la vita. Ora anche Gesù compie sotto l’aspetto spirituale questo triplice ufficio in ciascuno di noi. È infatti evidente che Egli ha la preminenza su tutti gli uomini, perché, essendo insieme Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, è il primogenito di ogni creatura, l’oggetto delle divine compiacenze, la fonte di ogni santità, Colui innanzi al quale si piega ogni ginocchio in cielo, in terra e nell’inferno. A Lui parimenti conviene ogni perfezione, perché riceve la pienezza della grazia, pienezza assai superiore a quella della Vergine SS.ma e dei santi. Maria è il canale che conduce alle anime nostre le vivificanti acque della grazia; i santi ricevono una pienezza di grazia più o meno grande secondo l’indole della loro missione; ma solo Gesù è la fonte onde si alimentano e il canale e i rivoletti. Gesù, quindi, ha una pienezza speciale, una soverchiante pienezza. Onde quell’influsso vitale che ha su tutti i suoi membri, perché tutti ricevono da Lui il moto e la vita. – Gesù medesimo, nell’ultima Cena, espone ai discepoli questa dottrina, quando dice ; « Io sono la vite, voi i tralci » (Giov. XV, 5). Perché, come i tralci ricevono dalla vite la linfa vivificante che si trasforma in fiori e in frutti, così le anime nostre ricevono da Gesù la grazia che lor fa produrre i frutti di salute. Quest’unione con Cristo raccomanda pure san Paolo a quelli che vogliono crescere in grazia e in virtù : « Attuando la verità nell’amore, cresciamo in Lui in tutto, in Lui che è Capo, Cristo; dal quale tutto il Corpo, bene compaginato e connesso, per mezzo d’ogni giuntura di somministrazione, secondo l’operazione stabilita per ciascun membro, prende incremento pe svilupparsi nell’amore! » (Ephes. IV, 15-16). La nostra vita spirituale deriva dunque da Gesù, nostro Capo, ove ella risiede nella sua pienezza, per diramarsi in ciascuno di noi; la nostra grazia, la nostra santità, è come un’estensione della santità di Cristo; onde il vero Cristiano può dire come san Paolo: Vivo, ma non più io, vive in me Cristo ? » /Gal. II, 20). O Salvatore benedetto, quanto siamo felici di essere così incorporati a Voi e partecipare alla vostra vita! E poiché la misura del nostro progresso dipende in gran parte dalla nostra corrispondenza alla vostra grazia e dalla nostra docilità a seguire il moto e la direzione che voi ci date, degnatevi di operare in noi il volere e il fare, affinché, sotto il vostro impulso, cresciamo in voi coll’imitazione delle vostre virtù.

2° Capo dell’umanità, il Verbo incarnato è, per così dire, il mediatore nato tra Dio e l’uomo. E chi mai può far questo ufficio meglio di Colui che riunisce in una sola e medesima per sona le due nature, la divina e l’umana? Uomo capo della umana stirpe, ha il diritto di rappresentarci dinanzi a Dio, e la sua infinita pietà, la sua inclinazione per noi vivamente lo spronano a compiere tale ufficio. Uguale poi al Padre e allo Spirito Santo, ha libero accesso presso Dio a rendercelo propizio. Sarà quindi il nostro mediatore, mediatore di redenzione e mediatore di religione.

A) Innanzi tutto Gesù è il nostro mediatore di redenzione. Come capo dell’umanità peccatrice, assume sopra di sé il peso delle nostre iniquità e s’incarica di espiarle in nome nostro. Si offre fin da principio come vittima, e, dopo una lunga vita di fatiche e di patimenti, compie sul Calvario il suo Sacrifizio, riparando con l’ubbidienza sua e col suo amore, l’offesa fatta dalla disubbidienza dei nostri progenitori. Questi atti di ubbidienza e di amore hanno un valore morale infinito, per ragione della dignità della persona del Verbo che fa suoi i patimenti della natura umana: e si può dire con tutta verità che rendono a Dio gloria maggiore che non glie ne abbia tolta il peccato. Un solo di questi atti sarebbe bastato a riparare interamente i peccati degli uomini. Ora Gesù ne ha fatti di innumerevoli, e tutti ispirati all’amore più puro, e li ha coronati col sacrifizio più sublime e più eroico, coll’intiera immolazione di sé sul Calvario. Possiamo dunque ripetere la parola di san Paolo: « Dove abbondò il peccato, là sovrabbondò la grazia; affinché, come regnò il peccato per la morte, così anche la grazia regnasse per la giustizia e per la vita eterna, per Gesù Cristo Signor Nostro » (Rom. V.,20). Gesù, espiando i nostri peccati, merita pure per noi tutte le grazie di cui abbiamo bisogno a riconquistare il cielo: grazie di conversione, grazie di perseveranza, grazie per resistere alle tentazioni, grazie per trar profitto dalle nostre prove, grazie di rinnovamento spirituale, grazie per praticar le virtù, anche in grado eroico, grazie di unione intima con Dio, grazie mistiche. Possiamo quindi dire con san Paolo: « Benedetto Dio e Padre del Signor Nostro Gesù Cristo, che benedisse con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo; conforme ci elesse in lui prima della creazione del mondo, ad essere Santi e immacolati agli occhi suoi, avendoci nell’amor suo predestinati all’adozione di figli, per Gesù Cristo. secondo il beneplacito della sua volontà, onde si celebri la gloriosa grazia sua, della quale ci ricolmò in ogni sapienza e saggezza »(Ephes., I, 3). – Ad ispirarci maggior confidenza, Gesù istituì i sette Sacramenti, segni visibili che ci conferiscono la grazia in tutte le principali circostanze della vita e ci danno diritto a grazie attuali per far bene a tempo opportuno tutti i nostri doveri cristiani e tutti i doveri del nostro stato. Ma fece anche di più: ci diede pure il potere di sodisfare e di meritare. Incorporati a Cristo ne partecipiamo la vita, e i nostri atti, uniti ai suoi e informati dalla divina carità di cui Egli è il principio, sono nello stesso tempo sodisfattorii, meritorii e impetratorii. Se abbiamo la sventura di peccare dopo il battesimo, i nostri atti di penitenza e di contrizione fecondati dalla virtù del sangue di Gesù, muovono il cuore di Dio e ci ottengono il perdono: il sacramento della Penitenza ci agevola ancor più la remissione dei peccati, perché Gesù stesso, vivente nel sacerdote, viene ad assolverci. Anche le più piccole azioni fatte in istato di grazia e in unione con Gesù, sono meritorie della vita eterna e aumentano ad ogni istante, se vogliamo, il nostro capitale di grazia abituale sulla terra e di gloria nel cielo. – Quando preghiamo, lo Spirito di Gesù viene pregare con noi con gemiti inesplicabili (Rom. VIII, 26); il che spiega la fecondità delle nostre preghiere; poiché tutto quello che chiediamo al Padre in Nome di Gesù, cioè incorporandoci a Lui e fondandoci sui Suoi meriti, siamo sicuri di ottenerlo! (S. Giov., XVI, 23.). Siano dunque rese grazie al Verbo incarnato, che, non pago di riparar le nostre offese e di espiare i nostri peccati, ci colma di beni Spirituali così abbondanti, che possiamo ripetere con la Chiesa; « O fortunata colpa di Adamo che ci ha meritato un così nobile Redentore! » (Ufficio del Sabato Santo, Exsultet…).

B) Gesù è anche il nostro mediatore di Religione. Noi siamo obbligati a glorificar Dio ma ne siamo incapaci, come siamo incapaci di salvarci da noi stessi: Dio ha diritto ad ossequi infiniti e gli ossequi nostri sono meschini e finiti. Ma il Verbo incarnato, il grande Religioso del Padre, ha porto e porge continuamente a Dio adorazioni infinite: come uomo, si umilia ed adora: come Verbo, dà a queste adorazioni una dignità ed un valore morale infinito. Possiamo quindi dirgli col Cardinal di Bérulle (De l’état et des grandeurs de Jésus, Discours II, p. 129.): « Voi siete quel servo eletto che solo servite Dio come merita di esser servito, cioè con servizio infinito: e solo lo adorate con adorazione infinita, come è infinitamente degno di essere adorato. Prima di voi questa suprema Maestà non poteva, né dagli uomini né dagli Angeli, essere servita e adorata con quella specie di servizio con cui è ora amata e adorata secondo l’infinità della sua grandezza, secondo la divinità della sua essenza, secondo la maestà. delle sue Persone. Da tutta l’eternità c’era, sì, un Dio infinitamente adorabile, ma non c’era ancora un adoratore infinito, non c’era ancora un uomo o un servo infinito capace di rendere un servizio e un amore infiniti. Siete Voi, Gesù, ora, questo adoratore, questo uomo, questo servo, infinito nella potenza, nella qualità, nella dignità, da sodisfare pienamente a questo dovere e porgere a Dio questo divino ossequio. Oh! grandezza di Gesù, anche nel suo stato di abbassamento, di essere il solo degno di porgere perfetto ossequio alla divinità! Oh! grandezza del mistero dell’Incarnazione che pone uno stato, una dignità infinita entro l’essere creato! Oh! divino uso di questo divino mistero, avendo noi ormai per Lui un Dio servito e adorato senza alcuna sorta di difetto in questa adorazione! » . Ora questo stesso Gesù vive in noi col suo Spirito e per mezzo suo ci comunica la sua religione, onde abilitarci a glorificar Dio come si merita. Secondo la bella dottrina dell’Olier: « Gesù viene in noi e si lascia sulla terra tra le mani dei sacerdoti come ostia di lode, per parteciparci il suo spirito di immolazione, per associarci alle sue lodi, per interiormente comunicarci i sentimenti della sua religione. Si diffonde in noi, si insinua in noi, profuma l’anima nostra riempiendola delle interiori disposizioni del suo spirito religioso, di guisa che dell’anima nostra e della sue ne fa una sola, che anima di uno stesso spirito di rispetto, di amore, di lode, di sacrifizio interno ed esterno di tutte le cose, per la gloria di Dio suo Padre; e mette così l’anima nostra in comunione con la sua religione per far di noi in Lui, come abbiam detto, veri religiosi del Padre suo » Quale consolazione per noi di potere, unendoci a Gesù, glorificar Dio come si merita!

3º Con Gesù noi offriamo pure il sacrificio più eccellente, perché Gesù è sacerdote (Esporremo più ampiamente questa dottrina sul sacerdozio e sul sacrificio di Gesù nella seconda parte), e il sommo sacerdote della nuova Legge; anzi, a dire il vero, è il solo e unico sacerdote, perché, non morendo, Egli non ha successori ma solo rappresentanti visibili. Tale è la bella dottrina esposta da san Paolo nell’Epistola agli Ebrei. – Il Verbo incarnato diviene sacerdote nel giorno dell’Incarnazione; fintanto che rimane nel seno del Padre, non può abbassarsi né adorare. Ma, appena si riveste della nostra natura umana, il Verbo viene consacrato sacerdote da Colui che lo ha scelto da tutta l’eternità a questo ufficio, e che attua in questo giorno il suo disegno dicendogli: « Tu sei sacerdote secondo l’ordine di Melchisedech » (Hebr. V, 6). Inizia quindi fin da questo primo istante il suo ufficio sacerdotale: « Entrando nel mondo, Cristo dice al Padre: Vittima ed offerta non volesti, ma mi formasti un corpo; olocausti e sacrifici espiatori non gradisti. Allora io dissi: Eccomi… Vengo a fare, o Dio, la tua volontà… E in questa volontà noi siamo santificati per l’offerta del suo Corpo che Gesù fece una volta per sempre » (Ebr., X, 5-7, 10). Gesù sarà dunque nel medesimo tempo il sacrificatore e la vittima. In tutto il corso della vita immola la volontà con la spada dell’ubbidienza; ma sul Calvario, propriamente parlando, compie il suo sacrifizio immolando, per mezzo dell’ubbidienza e dell’amore, il suo corpo e la sua anima con la maggior perfezione possibile, e adempiendo così ogni giustizia. Per la prima volta Dio fu allora perfettamente glorificato secondo tutte le condizioni da Lui stesso fissate, e gli uomini furono in diritto salvati, non restando ad essi che appropriarsi, per mezzo della fede, della carità e delle buone opere, le soddisfazioni e i meriti del Redentore divino. La Risurrezione e l’Ascensione verranno, certo, a consumare il sacrifizio; ma l’immolazione reale e cruenta avvenne sul Calvario. – A fine di darci il modo di glorificar Dio come si merita e applicarci i frutti della redenzione, Gesù istituì nell’ultima Cena il sacrificio della Messa, nella quale più non cesserà, sino alla fine del mondo, di offrirsi vittima per noi sotto le specie del pane e del vino. Oh! quanto dobbiamo essergliene grati! Noi infatti, sia pure indegni, possiamo, offrendo il sacrificio della Messa oppure assistendovi, appropriarci gli interni sentimenti di Gesù sull’altare, offrire a Dio i suoi atti di religione e ottenere per noi e per quelli che ci son cari tutte le grazie che ci occorrono.

4° Se l’atto principale del sacerdote è il sacrifizio, uno dei suoi doveri essenziali è anche quello di insegnar la dottrina sacra, di essere dottore. Ufficio che il Verbo incarnato adempie in modo eminente. Gesù è la luce che, venuta in questo mondo, illumina tutti gli uomini (S. Giov., I, 9) Oh! Quale immenso bisogno essi ne hanno! Le religioni pagane erano degenerate in tali superstizioni che i filosofi più non vi credevano, e, stanchi di errare da sistema in sistema, erano caduti in una specie di scetticismo. La religione giudaica aveva conservato il monoteismo e il culto del vero Dio, ma gli Scribi e i Farisei la interpretavano così grettamente, che pareva ormai divenuta una meschina casuistica. Ed ecco Gesù che sgombra la Legge dalle false interpretazioni e, innalzandosi molto al disopra delle piccine concezioni dei Giudei, predica quella religione dello spirito che, costituita in un perfetto corpo di dottrina. Affida quale sacro deposito alla custodia e alla interpretazione di una Chiesa infallibile, a cui promette la divina sua assistenza sino alla fine dei secoli. – Questa dottrina risponde a tutti i problemi che affannano l’anima umana: donde veniamo? Chi siamo? dove andiamo? Donde veniamo? Veniamo da Dio, che ci ha creati e santificati e colla sua Provvidenza si occupa paternamente di noi. Non è un Dio solitario: è un Dio vivente in tre Persone, che trova in se stesso tutto ciò che occorre per essere infinitamente beato. Nondimeno, per puro amore, per farci partecipi della sua felicità, ci trae dal nulla, ci adotta per figli. ci comunica la sua vita; e avendo noi perduti, per la colpa del nostro primo padre, i nostri diritti al Paradiso, non esita ad inviarci suo Figlio per redimerci. Chi siamo? Siamo figli adottivi di Dio, fratelli del Verbo incarnato, membra del mistico suo corpo, figli della santa Chiesa; abbiamo un’anima immortale, riscattata dal sangue dell’eterno Figlio di Dio. Dove andiamo? A Dio nostro Padre, al quale un giorno saremo eternamente uniti con la visione beatifica e con un amore indissolubile; e andiamo a lui, incorporandoci a Gesù, nostro mediatore; imitandone le virtù, specialmente il suo amore per Dio e per gli uomini: e avvicinandoci ogni giorno più alla perfezione del nostro Padre celeste. Queste verità si consertano mirabilmente tra loro e corrispondono così bene ai bisogni della nostra mente e del nostro cuore, che anche i ragazzi del Catechismo le capiscono e le gustano. E con che autorità Gesù insegna! « Le turbe stupivano della sua dottrina, perché le istruiva come avente autorità e non come i loro Scribi! ». Gli stessi suoi nemici furono obbligati a confessarlo: « Nessuno ha mai parlato come quest’uomo » (S. Giov. VII, 46). Gesù, infatti, parla con potenza di affermazione assoluta: è un Veggente che contempla nel seno del Padre le verità che annunzia; è un Maestro che ha tutta l’autorità di Dio: « Io sono la via, la verità e la vita » (S. Giov. XIV, 6). Parla con fulgida chiarezza, facendosi tutto a tutti, adoprando popolo i paragoni più semplici, le immagini graziose, e argomentando contro gli Scribi e i Farisei con logica inflessibile. Ma ha specialmente una forza di persuasione irresistibile: conosce tutte le segrete vie del cuore e per quelle spera con quel dono di affettuosa intuizione che è proprio di coloro che amano. Gesù infatti può e con tutta verità: « Venite a me, o voi tutti che siete affaticati ed oppressi, e io vi ristorerò »(Matth. XI, 28).

5° Questa forza di persuasione è mirabilmente rinvigorita dai divini esempi di Gesù; Egli è veramente il modello più perfetto che si possa da noi imitare. Figli di Dio per adozione, siamo obbligati ad avvicinarci con la santità della vita alla perfezione del nostro Padre celeste. Ma in che modo conseguire questo ideale? L’eterno Figlio di Dio, sua vivente immagine, si fa uomo, vive sulla terra una vita umana e divina, e ci invita a calcar le sue orme. È un perfetto modello di tutti gli stati di vita. Visse per trent’anni la vita nascosta, ubbidiente a Maria e a Giuseppe, lavorando da semplice operaio, e dandoci così l’esempio di quelle umili virtù che dobbiamo praticare ogni giorno. Nella sua vita pubblica, c’insegna il modo di conciliare la preghiera con l’azione; di santificare le relazioni sociali e le opere di apostolato; e come comportarci così nella prospera come nell’avversa fortuna. La sua vita dolorosa ci dà l’esempio della pazienza più eroica in mezzo a tormenti fisici e morali: dotato di una sensibilità squisita, sentì più vivamente di noi l’ingratitudine degli uomini, l’abbandono dei discepoli, il tradimento di Giuda, gl’insulti dei nemici e i tormenti che gli inflissero; eppure tutto sopportò senza lamentarsi, lieto di soffrire per Dio e per gli uomini.-  Ed è un modello pieno di attrattiva: vedendo Gesù, vittima innocente, che pena e soffre per nostro amore, osservando che i suoi patimenti sono tanto fecondi in frutti di salute, ci sentiamo tratti ad amare il divino Crocifisso, ne abbracciamo amorosamente la croce, e siamo noi pure lieti di patire per Lui, onde meglio assomigliargli e partecipare alla fecondità del suo apostolato, aspettando il momento di parteciparne pure la sua gloria: « Si tamen compatimur, ut et conglorificemur » (Rom. VIII, 17). Ecco perché, nonostante l’istintivo orrore che abbiamo al patire, tante anime si offrono a Gesù in vittime e sono liete di patir con Lui, per amor suo e secondo le sue intenzioni. – Ma poi Gesù ci ha singolarmente agevolato il lavoro meritandoci la grazia di imitarlo: ognuno degli atti fatti da Gesù prima di morire ci meritò la grazia di fare atti simili; non si contenta quindi di attirarci a sé con l’efficacia dell’esempio, ma vi aggiunge una forza interiore che opera sulla nostra volontà. Siate dunque eternamente benedetto, o Verbo incarnato, perché così efficacemente ci sorreggete coi vostri esempi e colla vostra grazia. Fratelli vostri e membri del mistico vostro Corpo, noi vogliamo, nonostante la nostra debolezza, camminare sull’orme vostre, portare con voi la piccola nostra croce quotidiana, imitare i vostri sentimenti interiori e le vostre virtù. Ne siamo da soli incapaci; ma ci attaccheremo a Voi, e, come Santa Teresina, ci abbandoneremo nelle vostre braccia o meglio sul vostro sacro Cuore, che sarà come dolcemente confidiamo, l’ascensore che ci porterà fino a Dio.

ART. IV. — CONCLUSIONE: GESÙ DEVE ESSER IL CENTRO DELLA NOSTRA VITA.

« Per me infatti il vivere è Cristo! » (Fil. I, 21)

« Vivo, ma non più io,

« Vive in me Cristo » (Gal. II, 20).

Quando un dotto è talmente assorto negli studi da non pensar più ad altro che alla scienza e non vivere più che per essa, ripete continuamente agli amici; la mia vita è la scienza. Quando un commerciante è talmente ingolfato negli affari che dimentica tutto il resto, esclama spesso: gli affari sono la mia via. Così quando un Cristiano, degno veramente di questo nome, ha capito che il Verbo incarnato è tutto per lui, quando non pensa, non ama, non vive più che per Lui, ripete spesso nel suo cuore come san Paolo: la mia vita è Gesù. – Gesù diviene allora il centro dei suoi pensieri e dei suoi affetti; Gesù è per lui la via, la verità e la vita. Vediamo di capire, di gustare, di praticar questi pensieri.

1° Gesù centro dei nostri pensieri e dei nostri affetti. 

Come sopra dicemmo, Gesù è il capo di un Corpo mistico di cui noi siamo le membra, è il nostro mediatore presso il Padre, è il sacerdote che offre per noi il solo vero Sacrifizio, è il dottore che ci insegna le verità eterne, è il modello perfetto che ci trae dietro a sé nelle vie della perfezione e della felicità infinita. Gesù è dunque tutto per noi, e noi dobbiamo ripetere con l’Olier: Chi ha Gesù ha tutto.

A) E allora non dovrà Gesù essere veramente il centro di tutti i nostri pensieri? A chi potremo noi pensare se non a Colui che è il nostro tutto? Così fanno i pii lettori del Vangelo; e che cercano essi in questo libro divino se non quel Gesù che è la delizia del loro cuore? Con quale amore rileggono quelle pagine che ritraggono così fedelmente i fatti, i detti, i gesti del divin Salvatore! Si pascono talmente della sua dottrina, delle sue massime, delle sue virtù, che non pensano più che a Lui. Quando debbono dar giudizio su qualche cosa importante, chiedono a sé stessi; che m’insegna il Maestro su questo punto? Sanno infatti che i nostri giudizi, per esser veri, debbono esser conformi a quelli di Colui che è la verità infallibile. Se vogliono pregare, pensano istintivamente a Colui che, essendo il grande Religioso del Padre, solo può glorificare Dio come si merita, e si uniscono a Lui per adorarlo e domandargli grazie. Vanno al lavoro? Rammentano che Gesù aiutava la madre nelle umili cure domestiche e lavorò con le sue mani nella povera bottega di Nazareth. Se fanno qualche visita, se conversano col prossimo, non dimenticano che Gesù vive nel cuore dei nostri fratelli come vive nel nostro, e conversano con Lui nella persona del prossimo.

B) Gesù diviene così il centro dei nostri affetti.

Come infatti pensare a Gesù senza amarlo? Non è egli forse la Bellezza e la Bontà infinita? Non raduna forse nella sua persona tutte le perfezioni della divinità e tutte le grazie della più compita umanità? Oh! come impallidiscono tutte le umane bellezze di fronte alla Bellezza Infinita! Dacché conobbi Gesù Cristo, diceva il Lacordaire, nulla mi parve più abbastanza bello da guardarlo con passione ». Se gli Apostoli sul Tabor, vedendo l’umanità di Nostro Signore trasfigurata, furono così rapiti di ammirazione da esclamare: « È buono per noi lo star qui » (Matth. XVII, 4), quanto più dobbiamo esser rapiti noi di fronte alla bellezza sovrumana che risplende in Gesù risorto? E chi potrà dirci la sua bontà per noi? San Tommaso, in una strofa mirabilmente sintetica, compendiò le grandi manifestazioni dell’amore divino verso di noi.

Nel presepio si fa nostro fratello,

Nell’ultima cena nostro alimento, —

Sulla croce nostro riscatto,

In cielo nostra ricompensa.

Nel suo nascere, Gesù si fa nostro compagno di viaggio su questa terra di esilio, nostro amico, nostro fratello, nostro consolatore, e ormai non ci lascerà più soli. Istituendo l’Eucaristia, diviene nostro alimento, e sazia del suo corpo, del suo sangue, della sua anima, della sua divinità, le anime amanti che hanno fame e sete di Lui. Morendo sulla croce, sborsa il prezzo del nostro riscatto, ci libera dalla schiavitù del peccato, ci ridona la vita spirituale e ci dà il più grande Segno di amore che si possa dare ad amici. Finalmente nel cielo, sarà Egli stesso la nostra ricompensa, vedremo faccia a faccia la sua divinità, contempleremo estasiati la sua umanità glorificata, lo possederemo interamente, e la nostra felicità si confonderà quindi innanzi colla sua, perché parteciperemo alla sua gloria. Chi mediti queste verità non può non amare generosamente Colui che tanto ci ama e che solo è degno del nostro amore. Gesù è veramente il miglior nostro amico, il solo che abbia per noi dato la vita, il solo che possa appagare il nostro cuore fatto espressamente per Lui. Chi ha Gesù ha tutto, chi non ha Gesù non ha nulla. – Ecco ciò che aveva capito un valoroso Cristiano, Augusto Cochin (Espérances chrétiennes, P. 339), il quale diceva a coloro che non hanno la fortuna di essere credenti: « Voi, o filosofi, non potete capire che cosa è Gesù per noi e quanto noi lo amiamo. Ei ci sta sempre dinanzi agli occhi, ci tiene, a così dire, la mano sulla spalla, nel lavoro come nel riposo, alla tribuna come al banco, a mensa come al capezzale. Ogni Cristiano che intende ciò che crede vive alla presenza e in compagnia di Gesù. Partitevi dunque, partitevi pure, o visioni di poeti, o divinità ispiratrici, o incantatrici bellezze della vita! Partitevi pure anche voi, o santi affetti! Non c’è poesia, non c’è passione, non c’è grazia, che possa mai pareggiare il verace e tenero amore che la Persona di Gesù Cristo ci ispira ».

2° Gesù, via verità e vita.

Amando Gesù a questo modo, noi facciamo di Lui il centro delle nostre azioni, il centro di tutta la nostra vita. Gesù è per noi la via, la verità e la vita.

A) Gesù è la via che dobbiamo seguire per andare a Dio: Egli infatti, come abbiamo detto, è il nostro mediatore di religione e di redenzione. Vogliamo offrire a Dio i nostri atti di adorazione, di riconoscenza e di amore? Ne siamo da per noi incapaci; ma, incorporandoci a Gesù veniamo ad appropriarci gli ossequi che in nome nostro Egli offre al Padre e uniamo le nostre lodi a quelle del nostro Mediatore divino; e Dio le gradisce per ragione di suo Figlio. – « Eravamo, dice l’Olier (Catéch. chrétien, 2 part, lez. IX), debitori a Dio di un milione di doveri religiosi, ma eravamo incapaci di pagarglieli da soli: dovevamo adorarlo, amarlo, lodarlo, ringraziarlo e pregarlo come merita e come siamo obbligati a fare: Magnus Dominus et laudabilis nimis (Psal. XCV, 4; CXLIV, 3). Avevamo quindi bisogno che il grande nostro Maestro con la sua carità servisse pure di supplemento ai nostri doveri e fosse il mediatore della nostra religione; per questo volle risuscitare e salire al cielo ed essere sempre vivente, ad interpellandum pro nobis, dice san Paolo, per pregare e lodare il Padre in vece nostra e supplendo al nostro difetto ». Abbiamo avuto la disgrazia di offendere Dio? Gesù, mediatore di redenzione, pérora Egli stesso la nostra causa e si offre in vittima propiziatoria per i nostri peccati: « Se qualcuno ha peccato abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo, dl giusto. È Egli stesso la vittima di propiziazione per i nostri peccati, e non solo per i nostri, ma per quelli di tutto il mondo » (Act. XI, 5). Vogliamo implorar nuove grazie? Ecco Gesù pronto ad appoggiare le nostre preghiere con tutto il valore dei suoi meriti infiniti: « In verità in verità vi dico: quanto chiederete al Padre in Nome mio, ve lo concederà » (S. Giov. XVI, 24). Gesù infatti prega allora per noi e con noi; e Gesù è sempre esaudito per la dignità della sua persona: « exauditus est pro sua reverentia » (Hebr. V, 17). Anche lo Spirito Santo riceviamo per mezzo del Figlio; come Dio, Gesù si unisce al Padre per inviarcelo; come uomo, ci merita la grazia di ricevere questo divino Spirito e di profittar dei suoi doni. « È conveniente per voi che io me ne vada, perché, se io non vo, non verrà a voi il Consolatore; ma, andato che sarò, ve lo manderò… Quando verrà quello Spirito di verità, vi guiderà ad ogni verità… Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel Nome mio, Egli vi insegnerà ogni cosa e vi rammenterà tutto quello che io già vi dissi ». Pei meriti del nostro Salvatore Gesù lo Spirito Santo « sostiene la nostra debolezza, perché quello che abbiamo convenientemente da chiedere non sappiamo; ma lo stesso Spirito sollecita per noi con gemiti inesplicabili » (Rom. VIII, 26). Il Verbo incarnato è dunque la via che conduce al Padre e allo Spirito Santo, ond’è pur la via che ci mena alla più alta perfezione. È anche la nostra via nel senso che, come abbiamo già dimostrato, è il modello perfetto di tutte le virtù che dobbiamo praticare. Seguiamolo dunque amorosamente, perché, seguendo lui, non ci smarriremo ma cammineremo nella luce.

B) Gesù è l’infallibile verità che dobbiamo credere e amorosamente abbracciare. Come Verbo, è l’infinita sapienza, la luce che illumina tutte le menti. Come uomo, possiede una triplice scienza: la visione beatifica, per la quale vede faccia a faccia Dio e in Dio tutto il dominio del reale, il passato, il presente e il futuro; la scienza infusa, che si estende a tutte le realtà dell’ordine naturale e soprannaturale; la scienza sperimenta ch’ei venne progressivamente acquistando e senza essere universale come le altre due, finì coll’abbracciare tutte quelle verità a cui mente umana può arrivare. – Gesù è dunque il nostro Maestro per eccellenza: « Voi avete un solo maestro, Cristo!  » (Matth. XXIII, 10). Altri si scelga pure, se vuole, « una folla di maestri a solleticare i propri orecchi, e si allontani pure dalla verità voltandosi alle favole » (II Tim. IV, 3-4). noi andremo a Colui che ha parole di vita eterna, a Colui che venne in questo mondo per rendere testimonianza alla verità. Andremo a Lui con tutta l’anima, col doppio lume della ragione e della fede. « Noi, come ben dice il P. Lacordaire ci moviamo entro due sfere, quella della natura e quella della grazia; ma l’una e l’altra hanno il Verbo, Figlio di Dio, per autore e per fiaccola. Onde la Chiesa, infallibilmente assistita da quello Spirito che l’ha messa al mondo, non rinunzia mai alla difesa della ragione, e sempre la tenne come una porzione della sua eredità… Non fate di Gesù Cristo, nostro Maestro, una eccezione al corso generale delle cose; della Chiesa una piccola società sperduta in mezzo ai secoli e alle nazioni… Figli di Dio, abitazione del nosttro Corpo è l’universo, e i secoli la misura dei nostri giorni… La ragione è la nostra illuminatrice; la fede uno splendore irradiato dallo splendore eterno; la Chiesa un mondo che abbraccia il passato, il presente e l’avvenire, i popoli della terra e gli spiriti del cielo, e tra questi due estremi tutto ciò che il Verbo di Dio ha potuto concepire senza dircelo e fare senza mostrarcelo ». Il Concilio Vaticano confermò le nobili idee del P. Lacordaire, mostrando che la ragione e la fede sono due sorelle, figlie dello stesso Padre, che non si possono contradire. – Il Verbo incarnato sarà dunque la nostra luce nello studio di tutte le scienze sacre e profane: non dimenticheremo che ogni verità è come una particella della divina sapienza, e riferiremo tutte le nostre cognizioni alla gloria del Verbo incarnato. Ma lo cercheremo specialmente nel Vangelo, che leggeremo e rileggeremo, amorosamente baciando le pagine del sacro libro, affezionandoci alla dottrina del Maestro, che è il dottore infallibile; di questa dottrina faremo la regola della nostra vita, memori che il miglior mezzo per conoscere la verità è di praticarla: « qui autem facit veritatem venit ad lucem! » (S. Giov. III, 21).

C) Gesù è anche la vita. Questa vita ei la attinge interamente come Dio nel seno del Padre; come uomo, ne possiede una così copiosa partecipazione da essere la fonte onde la dobbiamo attingere tutti noi. E ve l’attingiamo per mezzo dei sacramenti, arcani canali della grazia, che, usciti dal sacro Cuore di Gesù, vengono a spanderla nelle anime nostre. Qualunque sia il sacramento che riceviamo, rammentiamoci sempre che la vita divina di cui ci fa partecipi è il frutto del sangue di Gesù e del suo amore per noi. Ma soprattutto quando riceviamo l’Eucaristia, riflettiamo bene entro di noi che riceviamo Gesù medesimo, cioè il Verbo incarnato con tutti i tesori della sua divinità, come pure la santa sua umanità, col Padre e collo Spirito Santo che gli sono inseparabilmente uniti (Per lo svolgimento di questo pensiero, vedi il sostanzioso opuscolo del P. Barnadot, De l’Eucharistie è la Trinité.); e che, se sappiamo allargar l’anima, la vita divina vi fluirà a torrenti: « Ego veni ut vitam habeant, et abundantius habeant (S. Giov. X, 10) ». Ma non dai soli sacramenti attingiamo questa vita, sì ancora da tutte le azioni fatte in istato di grazia e in unione con Gesù. Tutte allora divengono una specie di comunione spirituale: innestati a Cristo, noi partecipiamo alla sua vita come i tralci partecipano alla linfa della vite, e ognuno delle nostre azioni accresce in noi la grazia santificante, cioè la partecipazione alla vita divina che è già in noi. – Beate le anime che assaporano e praticano queste belle e sublimi dottrine che san Paolo e San Giovanni insegnavano continuamente ai primi Cristiani e che trasformarono il mondo! Beate le anime che, secondo il bel pensiero dell’Olier, hanno abitualmente Gesù dinanzi agli occhi, nel cuore e nelle mani! (Introduction à la vie chrétienne, cap. IV) Studiamoci di aver Gesù dinanzi agli occhi contemplandolo come perfetto modello di tutte le virtù che dobbiamo praticare. Quando preghiamo o meditiamo o studiamo o adempiamo i doveri del nostro stato, domandiamoci, come san Vincenzo de’ Paoli: « Che farebbe Gesù al mio posto? Adoriamolo nello stesso tempo è supplichiamolo di aiutarci a imitare le sue disposizioni interiori . « e quando il nostro cuore si sarà sfogato in amore, in lodi e in altri doveri, stiamocene in silenzio innanzi a lui con queste medesime disposizioni e sentimenti religiosi in fondo all’anima » (Olier, l. c.). Studiamoci di avere Gesù nel cuore, vale a dire supplichiamo lo Spirito Santo che animava l’anima umana del Salvatore e che è pur sempre l’anima del suo Corpo mistico, che si degni di venire in noi per renderci conformi a Gesù Cristo. « Ci daremo a Lui perché Egli ci possieda e ci animi della sua virtù; dopo di che resteremo ancora un po’ di tempo in silenzio presso di Lui, per lasciarci interiormente penetrare dalla divina sua unzione » (Olier, l. c.). Studiamoci di avere Gesù nelle mani, cioè preghiamolo di fare in modo « che la divina sua volontà si adempia in noi, che ne siamo le membra, che dobbiamo star soggetti al nostro Capo e che non dobbiamo avere altro moto se non quello che ci dà Gesù Cristo, nostra vita e nostro tutto, il quale, empiendo l’anima nostra del suo Spirito, della sua virtù e della sua fortezza, deve operare in noi e per noi tutto quello che desidera » (Olier, l. c.). Tale è la pratica di questa comunione spirituale, che si può fare non solo davanti al santissimo Sacramento, ma in ogni luogo e in ogni tempo, da chiunque sia in stato di grazia. Allora Gesù è veramente il centro della nostra vita, dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti, delle nostre azioni; allora Gesù ci si fa ad ogni istante una fonte d’acqua viva, perché trova nelle anime nostre la docilità e la generosità che desidera. « Accostiamoci dunque confidentemente al trono della grazia, per ottenere misericordia e trovar grazia ad aiuto opportuno: Adeamus ergo cum fiducia ad thronum gratiæ, ut misericordiam consequamur et gratiam inveniamus in auxilio opportuno » (Hebr. IV, 16).E ripetiamo di gran cuore con san Paolo: « La mia vita è Gesù! ».