LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (4)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (4)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed.Brescia, 1957.

CAPITOLO PRIMO

ITINERARIO SPIRITUALE

II.

CARMELITANA

1) Il suo ideale di Carmelitana — 2) Grazie sensibili  del postulandato — 39 ) Le purificazioni del noviziato — 4) Vita profonda.

Quando Elisabetta Catez fu accompagnata nella sua celletta di Carmelitana, la si udì mormorare: « La Trinità è qui ». Fino dal primo atto comune, in refettorio, tutte poterono notare la pia fanciulla, appena terminato il suo pasto frugale, congiungere modestamente le mani sotto la mantellina e, chinati gli occhi, entrare in profonda orazione. La suora incaricata del servizio, osservandola, disse fra sé: « È cosa troppo bella perché duri ». Ma s’ingannava. Il Carmelo di Digione possedeva una santa – (Notizie intorno al Carmelo di Digione. È noto come la venerabile Madre Anna di Gesù, compagna e collaboratrice di S. Teresa nell’opera di riforma del Carmelo in Spagna, venne in Francia ove poté fondare il primo monastero, a Parigi, nel sobborgo S. Giacomo, il 18 ottobre 1604. Subito nell’anno seguente, 1605, la stessa Madre Anna di Gesù fondava il Carmelo di Digione, che ebbe la gloria di ricevere i primi voti offerti a Dio secondo la riforma Carmelitana stabilita anche in Francia. Fu animato sempre dallo spirito più integro di S. Teresa, fino all’ora in cui le Carmelitane furono espulse lontane dai loro monasteri, durante la grande rivoluzione. Restaurato nel 1854 dalla Rev.ma Madre Maria della Trinità, il Carmelo di Digione riprese con lei lo spirito e le tradizioni dell’Ordine carmelitano in Francia, le quali furono fedelmente mantenute dalle due Madri che seguirono: la Rev.da Madre Maria del Cuore di Gesù, e la Rev.da Madre Maria di Gesù, la futura fondatrice del Carmelo di Paray-leMonial. La Madre Germana di Gesù che le succedette, restò priora dal 1901 al 1906, cioè durante tutto il soggiorno di Elisabetta della Trinità; quindi, per vent’anni, a intervalli regolari, il Carmelo di Digione ebbe la grazia di averla ancora come Superiora. La Madre Germana di Gesù fu una grande figura di Carmelitana. Anima di pace e di orazione, di un iene zelo per l’esatta osservanza, ella fu veramente la priora provvidenziale che doveva offrire a suor Elisabetta della Trinità il piano di vita regolare in cui l’anima sua di contemplativa avrebbe potuto liberamente fiorire, in un’atmosfera di silenzio e di raccoglimento. E, con tutta verità, la serva di Dio, ben consapevole e piena di riconoscenza per quella influenza materna, poteva scrivere in un biglietto intimo trovato dopo la sua morte (e che portava sulla busta questa significativa parola: « Segreto per la nostra Rev.da Madre »): « Io porto la Vostra impronta ». – Fino alla sua prima allocuzione in capitolo, presente tutta la Comunità — e anche suor Elisabetta — la nuova Madre priora così tracciava il programma spirituale del suo governo: « Custodire con ogni perfezione possibile, nello spirito tutto apostolico della nostra santa Madre, questa regola e queste Costituzioni che ella ci ha trasmesse dopo averle osservate con sì grande perfezione ». Tale fu la cornice di perfetta vita religiosa in cui suor Elisabetta poté realizzare tanto rapidamente il suo ideale di Carmelitana.).

1) Il formulario che suor Elisabetta della Trinità riempì, in forma ricreativa, otto giorni dopo la sua entrata al Carmelo, ci rivela il suo stato d’animo alle soglie della vita religiosa. I tratti più caratteristici della sua fisonomia spirituale vi appaiono già nettamente segnati: il suo ideale di santità: vivere d’amore per morire di amore — il suo culto appassionato per la divina volontà — la sua predilezione per il silenzio — la sua devozione all’anima di Cristo — la parola d’ordine della sua vita interiore: seppellirsi nel più profondo dell’anima per trovarvi Dio. Nulla è dimenticato, neppure il suo difetto dominante: la sensibilità. Vi manca soltanto quel lavoro di spogliamento che sarà opera delle purificazioni passive del noviziato, e la grazia suprema che trasformerà la sua vita, dandole il senso della sua vocazione definitiva: essere una lode di gloria alla Trinità.

— Qual è, a vostro parere, l’ideale della santità?

— Vivere d’amore.

— Qual è il mezzo più rapido per giungervi?

— Farsi piccolissima e darsi totalmente, per sempre.

Qual è il santo a voi più caro?

— ll discepolo prediletto che riposò sul cuore del divino Maestro.

— Quale il punto della Regola che preferite?

— Il silenzio.

— Qual è la nota dominante del vostro carattere?

La sensibilità.

— E la vostra virtù prediletta?

— La purità. «Beati i cuori puri, perché vedranno Dio ».

— ll difetto che vi ispira più orrore?

— L’egoismo.

— Date una definizione dell’orazione.

— L’unione di chi non è con Colui che è.

— Qual è il vostro libro preferito?

— L’anima di Cristo: Essa mi svela tutti i segreti del Padre che è nei Cieli.

— Avete grandi desideri del Cielo?

— Ne ho talvolta la nostalgia; ma, tranne la visione di Dio, già lo possiedo nell’intimo dell’anima mia.

— Quali disposizioni vorreste avere nel momento della morte?

— Vorrei morire amando, e cadere così nelle braccia

di Colui che amo.

— C’è un genere di martirio che preferireste?

— Mi piacciono tutti, ma specialmente il martirio di amore.

— Quale nome vorreste avere in Cielo?

— Volontà di Dio.

— Qual è il vostro motto?

– Dio in me e io in Lui.

Secondo la sua grazia personale, ella vive in profondità il suo ideale di Carmelitana. Va dritta all’essenziale: la solitudine, la vita di continua orazione, la consumazione nell’amore. – « La Carmelitana è un’anima che ha guardato il Crocifisso, che l’ha veduto offrirsi come vittima al Padre per le anime, e, raccogliendosi sotto la grande visione della carità di Cristo, ha compreso la passione d’amore dell’anima di Lui e, come Lui, vuole donare se stessa. Sulla montagna del Carmelo, nel silenzio, nella solitudine, in un’orazione non interrotta mai, perché continuata attraverso tutte le occupazioni, la Carmelitana vive già come vivrà in Cielo, « di Dio solo ». Colui che formerà un giorno la sua beatitudine e la sazierà nella gloria, già si dona a lei; non si allontana mai, dimora nell’anima sua; anzi, ancora di più: tutti e due non sono che Uno. Perciò, essa è famelica di silenzio, per ascoltarlo sempre, per penetrare sempre di più nell’Essere Suo, infinito. È immedesimata in Colui che ama e da per tutto Lo trova, in tutto Lo vede risplendere » (Lettera a G. de G… – 7 agosto 1902.). « Questa è la vita al Carmelo: vivere in Lui. Allora, le rinunce, le immolazioni diventano, in certo modo divine. L’anima vede in tutto Colui che ama e tutto la porta a Lui. È un cuore a cuore continuo. L’orazione è l’essenza della vita al Carmelo » (Lettera a G. de G… – 14 settembre 1902.). – Il punto della Regola che preferisce è il silenzio; e, fino dai primi giorni, è entusiasta della massima familiare alle antiche Madri Carmelitane: Sola col Solo.

2) Come per lo più accade, le prime fasi della vita religiosa di suor Elisabetta della Trinità furono caratterizzate da un’onda di consolazioni sensibili. Il Signore avvia lentamente le anime verso le cime. Le conduce al Calvario attraverso il Tabor. Suor Elisabetta, spesso, se ne andava alla sua superiora a dirle: « Madre, non posso reggere a questo peso immenso di grazie ». Appena giunta in coro e inginocchiatasi, sì sentiva compenetrata da un raccoglimento profondo, irresistibile. L’anima sua pareva come immobilizzata in Dio. – Passava nei chiostri, silenziosa e raccolta, senza che nulla potesse distrarla dal suo Cristo. Lo trovava dovunque. Un giorno, mentre attendeva a riordinare la casa, una suora la vide talmente compresa della presenza di Dio, che non osò avvicinarsele. Fuorché nelle ore di ricreazione — in cui suor Elisabetta si mostrava gaia e spontanea, d’una grazia incantevole, parlando con ciascuna delle consorelle di ciò che sapeva far loro piacere — tutto il suo esteriore rivelava un’anima posseduta da Dio. Questo raccoglimento di tutte le sue potenze quasi assorbite in Dio le faceva commettere, anche nella recita dell’Ufficio, delle dimenticanze involontarie di cui si accusava con sincera umiltà. La grazia la portava. – Così trascorsero i mesi del postulandato. L’8 dicembre ebbe luogo la cerimonia della vestizione, presenziata dal Padre Vallée. Tutta presa dalla gioia del dono totale al suo Signore, suor Elisabetta, quel giorno, non si accorse nemmeno di quanto accadeva intorno a lei, interamente, posseduta da Colui che l’aveva rapita. La sera, quando si ritrovò nella sua celletta sola col suo Cristo, era esultante, e dal cuore le saliva a Dio il cantico della riconoscenza. Per tutta una vita d’amore, essa era finalmente « Sola col Solo ».

3) Fino a quell’ora, la grazia divina l’aveva portata. Ma le mancava di assaporare a lungo il suo nulla, di sentirsi miserabile e capace di ogni male, e divenire così, attraverso tale esperienza, più comprensiva della fragilità delle sue consorelle. E il Signore, per un lungo anno, l’abbandonerà a se impotenze, ai suoi scoramenti, ai dubbi sull’avvenire, persino sulla sua vocazione. Sarà necessario che, la vigilia della sua professione, un Sacerdote venga a rassicurarla, e a manifestare la volontà di Dio alla sua anima smarrita. Disparve la soave facilità dell’orazione. Non più colpi d’ala; l’anima si trascinava penosamente; ed essa lo sentiva. La sua natura d’artista rimaneva inerte, la sua sensibilità moriva. Quante volte la povera novizia se ne ritornava dalla sua Madre maestra esponendole candidamente le impotenze, le lotte, le tentazioni, il martirio della sua sensibilità che stava attraversando le notti tremende descritte da san Giovanni della Croce! Per coadiuvare il lavoro di Dio, la Madre Germana di Gesù, che si era resa conto dell’eccessiva sensibilità di Elisabetta fin dalla sua entrata al Carmelo, la conduceva con bontà, ma con fermezza. La giovane postulante godeva di passeggiare sulla terrazza, a tarda sera, durante il silenzio rigoroso; la vista del firmamento dava all’anima sua l’impressione del contatto con Dio. Una sera, mentre il monastero era immerso nel più profondo silenzio, passò di là Madre Germana. E la novizia, l’indomani, si sentì rivolgere queste parole: « Non si viene al Carmelo per sognare contemplando le stelle. Andate a Lui con la pura fede ». – In seguito, per provarla, non lasciava passare alcuna occasione di riprenderla anche delle imperfezioni minime, delle più lievi dimenticanze. Suor Elisabetta baciava umilmente la terra, e se ne andava. Sapientemente, la Madre Germana di Gesù disciplinava una tenerezza che avrebbe potuto facilmente divenire pericolosa; e la coraggiosa figliola lasciava fare, perché comprendeva più di ogni altro e per esperienza quanto aveva bisogno di vegliare continuamente sul suo cuore. Quando era ancora giovinetta, si era attaccata, in modo un po’ esagerato, ad un’amica che incontrava quasi tutti i giorni al Carmelo, e con la quale i colloqui intimi si prolungavano. Aveva bisogno di scriverle spesso, di leggere e rileggere le sue lettere, soprattutto le frasi in cui l’amica sua la assicurava che era lei la più cara. – Questo sguardo retrospettivo, a questo punto, sul suo passato di fanciulla, diffonde una luce singolare sulla sua psicologia religiosa. « Sorellina mia – le scriveva – non siamo che una, non ci separiamo mai. Se credi il sabato faremo la santa Comunione l’una per l’altra; sarà il nostro contratto, sarà l’« Uno » per sempre. D’ora innanzi, quando Egli guarderà Margherita, guarderà anche Elisabetta; quando darà all’una, darà anche all’altra, perché non vi sarà più che una sola vittima, una sola anima in due corpi. Forse sono troppo sensibile, Margherita, ma sono stata così felice quando mi hai detto che sono io la tua sorella più cara! Mi fa tanto bene rileggere quelle righe. Quanto a te, lo sai che sei tu la mia sorella diletta fra tutte; c’è bisogno che te lo dica? Quando eri malata, sentivo che nulla, neppure la morte, avrebbe potuto separarci. Oh, io non so quale di noi due il Signore, chiamerà a sé per la prima; ma neppure allora avrà termine la nostra unione, nevvero? anzi, raggiungerà allora la sua consumazione. Come farà bene parlare a Colui che amiamo della sorella che ci avrà preceduto in cielo, vicino a Lui! Chi sa? Forse ci chiederà di versare per Lui il nostro sangue. Che gioia, subire insieme il martirio! Non posso pensarci; sarebbe troppo bello… Intanto, diamogli il sangue del nostro cuore, & goccia a goccia » (Lettera a M. G… – 1901). – Si sente, attraverso a queste righe, un po’ di esaltazione sentimentale; e la testimonianza raccolta dalle labbra stesse di quest’amica ci obbliga a riconoscere in Elisabetta eccessiva tenerezza di cuore. Ma chi potrebbe meravigliarsi di queste debolezze dei santi? Santa Margherita Maria non si lasciò arrestare anch’essa, un istante, da un affetto troppo umano per una delle sue consorelle, affetto che dal cuore purissimo di Gesù le veniva rimproverato? San Tommaso, che fu un grande dottore e un grande santo, insegna che nessuno sulla terra, può interamente sottrarsi alle colpe della fragilità; ne sfuggono persino ai più perfetti. Ci sarebbe da scrivere un bel libro – e quanto consolante per noi – sui difetti dei santi e sul lavoro compiuto da loro, e dalla grazia in loro, per correggersi. Appena Elisabetta Cadez si accorse che il suo cuore era schiavo, gli ridonò tutta la sua libertà, senza violenza, con delizia squisita, ma con fermezza eroica. « Margherita cara, ho qualche cosa da confidarti; ma non vorrei farti soffrire. Sai, questa mattina. mentre ero vicina a te in Cappella, sentivo che ciò era bello, ancor più bello delle nostre care conversazioni; e, se tu acconsenti, trascorreremo così, accanto a Lui, l’una vicina all’altra, il tempo che passavamo in giardino. Ti dò dispiacere con queste mie parole? Dimmi, sorellina mia, non l’hai sentito tu pure come me? Credo di sì. Oh, dimmelo semplicemente! Sai che alla tua Elisabetta puoi dire tutto » (Lettera a M. G.). – «Dopo questo atto di generoso distacco — ci diceva quest’amica intima — l’ho sentita allontanarsi ». Nella fase delle purificazioni passive subìte da suor Elisabetta durante il noviziato, avvenne qualche cosa di analogo, ma di molto più profondo. Tutti i suoi sensi dovettero passare attraverso questo assoluto distacco, il solo che rende liberi. Ma intorno a lei, nessuno mai, fuorché la sua superiora, suppose questa fase di angoscia purificatrice. Tutto quello che sembrava dovesse consolarla, la lasciava indifferente o la turbava. Un ritiro predicato dal Padre Vallée, del quale ella seppe apprezzare come sempre la bella e profonda dottrina, riuscì a liberarla da quest’agonia intima. Il Padre stesso non la capiva più e ripeteva con tristezza: « Che avete fatto della mia Elisabetta? Me la avete cambiata…. ». Ma le creature non c’entravano. Quel mutamento, per lui incomprensibile, dipendeva da Dio. In quel rude anno di prova, suor Elisabetta acquistò una fede più forte e un’esperienza del dolore che la renderà capace di comprendere e di consolare altre anime provate da Dio; divenne più virile; definitivamente stabilita in una vita spirituale tutta basata sulla pura fede, vita che, d’ora innanzi, scorrerà calma sotto lo sguardo di Dio, al sicuro da ogni ridestarsi della sensibilità; questo, il risultato essenziale di tale periodo di purificazione. Insieme al pieno equilibrio morale, anche le forze fisiche ritornarono. Il Capitolo del monastero l’ammise alla professione; e la bella notizia le fu comunicata il giorno di Natale. Come in tutte le circostanze più importanti della sua vita, suor Elisabetta si rifugia nella preghiera onnipotente di Cristo che s’immola sull’Altare; ma questa volta, con una particolare intensità; e tutta una novena di sante Messe implora dal Sacerdote, amico venerato, che era stato il primo confidente delle sue aspirazioni alla vita religiosa quando, piccina ancora, gli saltava sulle ginocchia. Quindi, sotto il suo velo abbassato, suor Elisabetta disparve. La comunità la vedeva passare per i chiostri come un’ombra, col volto sempre velato, e l’avvolgeva nella sua fraterna preghiera. – Ma quel ritiro in preparazione alla professione, cominciato con una prospettiva tanto lieta, divenne ben presto penosissimo, ridestando il problema dell’avvenire e della vocazione. Bisognò ricorrere a un religioso di profonda esperienza, che la rassicurò; e suor Elisabetta credette alla parola del sacerdote come alla voce di Cristo. Al Carmelo, si usa trascorrere la notte che precede la professione in una veglia santa di preparazione. Suor Elisabetta era in coro, tutta raccolta nel suo Dio, tutta protesa nell’offerta a Lui della propria vita, scongiurandolo di prenderla per la Sua gloria. E il Maestro divino le si fece sentire. « La notte che precedette il gran giorno, mentre ero in coro in attesa dello Sposo, compresi che il mio cielo cominciava sulla terra, il cielo nella fede, con la sofferenza e l’immolazione per Colui che amo » (Lettera al Canonico A… – 15 luglio 1903). – Si iniziava una nuova fase di vita spirituale. Sofferenze di una sensibilità non ancor del tutto purificata, scrupoli e angosce per dei nonnulla, tutto questo è ormai passato; d’ora innanzi, ella procederà sulla via del suo Calvario con la confidenza serena e incrollabile di una sposa che si sa tanto amata; avanzerà, tra le sofferenze più eroiche, con la maestà di una regina.

4) L’indomani della sua professione, suor Elisabetta della Trinità si impegnò decisamente nella conquista della perfezione religiosa, senza esaltazione della sensibilità, ma con slancio nuovo, e con la forza calma ed eroica che la condurrà, di sacrificio in sacrificio, fino alla immolazione del Calvario. Tutto il suo programma di vita interiore fu la realizlazione del suo nome: suor Elisabetta, cioè « Casa di Dio. abitata dalla Trinità ». E veramente, questa presenza di Dio a cui l’anima tende attraverso a tutto, è proprio l’essenza della vita carmelitana vissuta nella più costante tradizione dell’Ordine. Nel suo Castello dell’anima santa Teresa vi ritorna continuamente: « L’intimità con le Tre Persone divine » costituisce la verità centrica della sua dottrina mistica. Suor Elisabetta della Trinità, per una grazia speciale, trovò l’attrattiva più spiccata della sua vita interiore. Le sue lettere, le conversazioni in parlatorio, le sue poesie, le risoluzioni dei suoi ritiri, tutto converge in questa divina abitazione nell’intimo; che fu, lo dice ella stessa, « il bel sole irradiante tutta la sua vita… Dal giorno in cui compresi questa verità, tutto fu luminoso per me » (Lettera alla sienora B…1906). «Il mio continuo esercizio è rientrare in me stessa e perdermi in Coloro che vi abitano » (Lettera a G. de G… – Fine del settembre 1903). Man mano che gli anni della sua vita religiosa scorrevano, l’anima sua si seppelliva sempre più nella Trinità pacifica e pacificatrice che, ad ogni istante, le comunicava qualche cosa della sua eterna vita. C’erano ancora talvolta, è vero; in fondo al suo essere, dei leggeri turbamenti; ma tutto in lei si andava acquetando, e taceva. « Come si è felici quando si vive nell’intimità col Signore, quando la vita si trasforma in un cuore a cuore con Lui. in uno scambio di amore, quando si sa trovare il Maestro divino nel profondo dell’anima! Allora non si è mai soli. e si ha bisogno di solitudine per godere della presenza di questo Ospite adorato. Tutto s’illumina e la vita è tanto bella ». ( Lettera a F. de S… – 28 aprile 1903). « Mi chiedete quali sono le mie occupazioni al Carmelo; potrei rispondervi che, per la carmelitana, non ce n’è che una: Amare, pregare »  (Lettera alla signora A… – 29 giugno 1903.). « La vita della carmelitana è una comunione con Dio dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina. Se Egli non riempisse le nostre celle e i nostri chiostri, come sarebbero vuoti! Ma noi Lo vediamo in tutto perché Lo portiamo in noi; e la nostra vita è un paradiso anticipato » (Lettera a F. de S… – 1904). – Il ritmo soave di questa vita spirituale è semplicissimo e si svolge intorno ad alcuni motivi essenziali, sempre gli stessi; custodire il silenzio e credere all’Amore che è lì, nel profondo dell’anima, per salvarla. Vi sono ancora molte notti oscure e molte impotenze; ma che cosa importano le fluttuazioni involontarie di una anima che vive alla presenza dell’Immutabile? A poco a poco, tutto si calma e si divinizza. – Così trascorreva la vita di suor Elisabetta della Trinità. In quel Carmelo fervoroso in cui tante altre anime grandi vivevano di Dio, per la Sua gloria, non immaginiamocela quasi un essere straordinario, segnata a dito come santa. Nei monasteri, per lo più, non si canonizzano le anime se non quando si sono perdute. A Digione, suor Elisabetta della Trinità era semplicemente la novizia sempre fedele che, come tante altre, da vera carmelitana, passava « tutta nascosta, con Cristo, in Dio » (I Coloss. III, 3).

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (18)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (18)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni

ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO III.

Maria Santissima e il Sacerdote.

« Dio, dice l’Olier (J. J. Olier, Traité de SS. Ordres, III parte, cap. 6) ha fatto due prodigi nella Chiesa : il Sacerdote e la Vergine santissima ». Il pio autore svolge poi il suo pensiero mostrando l’analogia che corre tra l’ufficio del sacerdote e quello di Maria. È ciò che intendiamo di fare qui anche noi ispirandoci alle sue idee. – Pur non avendo ricevuto il carattere sacerdotale, Maria è:

1° la Madre del Sommo Sacerdote, e quindi Madre in modo speciale di tutti i Sacerdoti;

2° la cooperatrice di Gesù nell’opera sacerdotale della Redenzione;

3° ha in grado eminente lo spirito sacerdotale. Onde noi Sacerdoti dobbiamo avere una divozione speciale a questa divina Madre.

Art. I. — MARIA MADRE DEL SOMMO SACERDOTE.

Richiamiamo la scena dell’Incarnazione. Dio invia l’Angelo Gabriele a Maria, a richiederla del suo consenso al doppio mistero dell’Incarnazione e della Redenzione; perché, rispettandone la libertà, non vuole associarsela in questa grand’opera se prima ella liberamente non vi acconsente. Ora, come già sopra dicemmo, il Verbo diviene Sacerdote nel momento stesso che s’incarna nel seno di Maria: l’incarnazione stessa è, a così dire, la consacrazione sacerdotale di Gesù. Illustrata da lume divino, Maria lo conosce: sa che il Figlio di Dio non può adempiere la sua missione di Salvatore se non facendo l’ufficio di Sacerdote e di vittima per tutto il genere umano. Pronunziando quindi il suo fiat, acconsente liberamente a divenir Madre di Colui che, Sacerdote e vittima, offrirà per la nostra redenzione il solo sacrificio degno di Dio. Nel momento stesso che Maria lo concepisce, Gesù è rivestito del Sacerdozio: Ella quindi diventa Madre di Gesù in quanto Sommo Sacerdote. È Lei che gli dà quel corpo e quel sangue, senza di cui non potrebbe essere Sacerdote e vittima; ed è così associata al suo Sacerdozio.

b) Maria, dunque, non è paga di dare il suo consenso, dà pure parte della sua sostanza per formare l’umanità santa del Salvatore, passa qualche cosa di Lei in Colui che sarà insieme Sacerdote e vittima. Risulta quindi formato della sostanza di Maria quel corpo che sarà un dì immolato sul Calvario, quel sangue che sarà versato per noi, quel Sacrificatore che offrirà l’uno e l’altro. – Così Maria viene a fare un ufficio simile a quello del Sacerdote consacratore, un ufficio anzi che è in qualche modo superiore. Nel momento della Consacrazione il Sacerdote produce Gesù sull’altare, dandogli l’essere sacramentale, ma non lo produce già, come Maria, della propria sostanza. Possiamo anche aggiungere che se noi, Sacerdoti cattolici, abbiamo il mirabile potere di dare a Gesù la sua esistenza sacramentale, lo dobbiamo a Maria che, per la prima, e della propria sostanza, concepì e partorì quel sacro corpo che noi riproduciamo sugli altari. (L’aveva capito bene la Madre MARIA DI Gesù, la quale esprime il suo pensiero così: « Essendo necessarie mani immacolate per ricevere il Figlio di Dio e per restituirlo e offrirlo al Padre come il dono sublime e il sacrificio del mondo. Dio elesse la Vergine Maria. È Lei, aureo canale che porta questo dono divino, è Lei che lo recò ai Sacerdoti, e si direbbe che è pur Lei che lo riprende ora dalle loro mani per offrirlo lassù, nella parte più arcana del santuario dei cieli. Oh! Quanto, dunque, il Sacerdote deve essere unito a Maria! Poiché è Lei la via per cui Egli passa nel ricevere il sacro dono dell’altare, e nel restituire a Dio questo dono sublime! » (Manoscritto, di cui alcune parti furono pubblicate da Dom VANDEUR, La sainte Messe et les écrits de la Mère Marie de Jesus, pagina 25). Oh! grazie, eterne grazie, o Madre divina! sempre che consacreremo, vi faremo ossequiosa offerta di quel Gesù eucaristico il quale non discende ora tra le nostre mani se non perché, venti secoli fa, discese nel virgineo vostro seno.

c) Madre del Sommo Sacerdote, la Vergine santissima riceve la missione, come dice il Papa Pio X: di custodire, di nutrire la vittima e di offrirla, a suo tempo, sull’altare. (Enciclica Ad diem illum pel Giubileo dell’Immacolata Concezione, 2 febbraio 1904).

Maria sarà dunque l’educatrice di Gesù, Sacerdote e vittima, e Gesù trarrà da Lei in parte quella squisita sensibilità, quel cuore pieno di tanta compassione e di tanta misericordia che lo renderà il più pietoso degli uomini, che ne farà un Sacerdote il quale prenderà parte ai nostri dolori, piangerà sulle nostre miserie, pregherà per noi con gemiti ineffabili (Heb. V, 2, 7). Maria è dunque la Madre del Sommo Sacerdote, e quindi Madre in modo speciale di tutti i Sacerdoti della nuova Legge. Come dicemmo più sopra, Maria è madre di tutti i Cristiani in quanto sono membri del Corpo mistico del divino suo Figlio. Ora in questo Corpo mistico il Sacerdote tiene un posto d’onore: rappresentante visibile del Sacerdote invisibile, rivestito del suo carattere sacerdotale e dei suoi poteri, mediatore tra il cielo e la terra, il Sacerdote è veramente un altro Cristo, sacerdos alter Christus. A questo titolo partecipa alla dignità di capo o testa del Corpo mistico, non certo per la stessa ragione di Nostro Signore, ma dipendentemente da Lui, come suo rappresentante visibile e suo strumento, e come colui che riceve grazie non solo per sé, ma anche per distribuirle agli altri specialmente coll’amministrazione dei sacramenti. Quindi Maria, che è Madre di tutti i Cristiani in quel grado che sono uniti a Cristo, è specialmente Madre del Sacerdote che di Cristo fa le veci sulla terra, « pro Christo legatione fungimur! ». La materna sua sollecitudine è dunque in modo particolare per loro. Ardentemente bramosa che, per ben adempiere la nobile missione loro affidata, siano copie viventi del suo divin Figlio, li porta, a così dire, nel seno, li partorisce alla vita sacerdotale, formando nel loro cuore Gesù Cristo col suo spirito e colle sue virtù. Onde noi Sacerdoti dobbiamo avere in Lei una confidenza più filiale dei semplici fedeli, dobbiamo andare a Gesù per Maria, pregarla spesso per la santificazione nostra e per quella di coloro che ci sono affidati; specialmente poi per le cause che riputiamo disperate; memori che nulla vi è di disperato quando si ricorre all’intercessione di Colei che è detta da san Bernardo « omnipotentia supplex ».

ART. II. — MARIA ASSOCIATA ALL’OPERA SACERDOTALE DI GESÙ:

A) Madre del Sommo Sacerdote, Maria doveva pure essere associata al suo ufficio di sacrificatore e di vittima.

a) E lo è sino dal primo momento dell’Incarnazione. C’è un’armonia perfetta tra i sentimenti della Madre e quelli del Figlio. Nell’istante in cui Gesù si offre al Padre dicendo: Eccomi pronto a fare la vostra volontà, l’umile Vergine si offre anch’essa al Padre, pronunciando parole assolutamente simili: « Ecco l’Ancella del Signore, sia fatto a me secondo la tua parola » (S. Luca, I, 38). È lo stesso spirito che li anima e li fa vibrare all’unisono. Quindi, in modo secondario ma vero, Maria viene associata a quell’atto di offerta del Verbo incarnato che è già atto sacerdotale, e dà così anch’Ella principio al suo ufficio di sacrificatrice e di vittima.

b) E lo continua nel giorno della presentazione di Gesù al Tempio. Il Verbo Incarnato, che si era già interiormente offerto al Padre nel seno di Maria, vuole ripetere pubblicamente l’offerta nel Tempio di Gerusalemme, che era allora il solo asilo della vera Religione, e vuole esservi presentato per le mani della Madre. « Gesù era proprietà di Maria, nota l’Olier (Explic. des cerem. de la Grand Messe, L. VI, c. 11); ora, avendo Dio proibito che gli si offrissero vittime furtive e volendo che gli fossero offerte da coloro a cui appartenevano, Gesù-Vittima non gli poteva essere presentato che col consenso e per le mani della sua Madre santissima ». Mentre Gesù rinnova pubblicamente la sua offerta, la santa Vergine gli si associa in quest’offerta e consegna il Figlio nelle mani del Padre, dicendogli interiormente: « Gesù si è già offerto a Voi nel mio seno e ha posto nelle vostre mani tutto il diritto che aveva su se stesso. Ma, poiché è mia proprietà, avendolo voi dato a me, vuole che ve lo presenti anch’io e ceda tutto il diritto che ho su di Lui. Cedo dunque il mio tesoro nelle vostre mani, e vi offro ciò che vi è di più grande in cielo e in terra, affinché per questo voto solenne e questa pubblica offerta di Religione Egli sia totalmente vostro ». (J. J. Olier, Vie interieur de la S.te Vierge, ed. Jeard, 1875, p., 143-144). – Il vecchio Simeone, ispirato da Dio, assicura Maria che l’offerta è stata gradita. Egli, che da sì lungo tempo aspettava fiduciosamente il Messia, si dichiara ora pronto a morire, « perché, dice, i miei occhi videro la tua salute, o mio Dio, quella salute che hai preparata al cospetto di tutti i popoli; la luce che deve dissipare le tenebre delle Nazioni e illustrare il popolo tuo Israele ». Ma aggiunge che quel bambino sarà un dì fatto segno di contradizione e che una spada trafiggerà l’anima di Maria! (S. Luc. I, 25-35). Maria dunque verrà associata al sacrificio di Gesù come è associata ora alla sua offerta, ed eserciterà con Lui, benché in modo secondario, gli uffici sacerdotali.

c) È appunto ciò che vediamo sul Calvario. Nel momento che il divino Crocifisso, dopo aver sofferto lunga e dolorosa agonia, si offre vittima sull’altare della croce, Maria se ne sta ritta appiè di quella croce, in atteggiamento di sacrificatrice. Gesù è cosa sua: è quindi necessario che Ella dia il suo consenso all’immolazione della vittima; e lo fa liberamente, unendosi a Gesù stesso, sommo Sacrificatore; offre così, sebbene in modo secondario, la grande vittima, quella che sola può restituire a Dio tutto l’onore toltogli dal peccato, riparare tutte le nostre offese, espiarle, e meritarci tutte le grazie necessarie alla salute. Ma alla parte di sacrificatrice Maria aggiunge quella di vittima; perché tutti i dolori fisici e morali del Figlio hanno un’eco dolorosa nel suo cuore materno. Vedendo così atrocemente patire Colui che ama molto più di se stessa, sostiene tanti martirii quanti sono i colpi e le ingiurie che Gesù riceve; e, se non fosse stata sorretta da virtù superna, sarebbe morta le cento volte prima di veder spirare il Figlio. Avete quindi ragione, o Madre dei dolori, di essere chiamata Regina dei Martiri, perché, non il vostro corpo, ma l’anima vostra, il vostro cuore, fu torturato, fu crocifisso, fu trafitto: « tuam ipsius animam gladius pertransibit ».

d) Associata al sacrificio di Gesù, Maria avrà, come Lui, una pienezza di grazia a cui noi tutti parteciperemo: sarà mediatrice universale di grazia! e per le sue mani verranno distribuite le grazie spirituali meritate dal Figlio.A questo modo la Vergine santissima, pur non avendo il carattere sacerdotale, compì sublimemente uffici pari a quelli del sacerdote. – Il P. Hugon, (La Vserge-Prétre, 30 ed., Paris, 1912, p. 20)? uno dei più autorevoli nostri teologi, spiega molto bene questo punto. « Maria non dà a Cristo la nascita eucaristica e non lo immola sull’altare, ma gli diede la prima volta la nascita corporale, che viene rinnovata dalla consacrazione; lo offrì sul Calvario in quel sacrificio unico di cui la Messa è ricordo e riproduzione. Maria non assolve i peccatori nel tribunale della penitenza, ma per Lei giunge loro il beneficio della giustificazione. Maria non produce la grazia, come i Sacerdoti, coll’efficacia del carattere sacerdotale, ma tutte le grazie, anche le sacramentali, passano per l’universale sua mediazione, in quel modo che tutte un dì le meritò con merito di convenienza. Maria non consacra i Sacerdoti, come fa il Vescovo, ma ottiene loro col suo merito de congruo e coll’attuale sua impetrazione la grazia della sacra Ordinazione e le disposizioni richieste per ricevere con frutto il sacro rito »,

B) Anche noi sacerdoti, associati all’opera sacerdotale di Cristo, dobbiamo essere, come Maria, sacrificatori e vittime.

a) Sacrificatori; studiamoci di offrire la sacra vittima con disposizioni simili a quelle di Maria appiè della croce, non mossi da orgoglio, da vanità o da interesse, ma unicamente perché Dio sia glorificato e le anime santificate. Specialmente all’altare noi siamo i Religiosi di Dio, quando, tenendo fra le mani la Vittima pura, santa, immacolata, la offriamo alla santissima Trinità, appropriandoci i sentimenti di religione profonda che Gesù, il Figlio diletto, offre alle tre divine Persone. Ah! certo, gli ossequi nostri non valgono gran che, ma quelli di Gesù hanno valore infinito, e Dio guarda i nostri come non facenti ormai che una cosa sola con quelli di suo Figlio. Quindi, nonostante la nostra indegnità, noi, col santo Sacrificio della Messa, lo glorifichiamo come si merita. Oh! qual grande efficacia acquistano le nostre preghiere unite a quelle di Gesù che teniamo fra le nostre mani! Gesù appoggia allora con tutto il peso dei suoi meriti infiniti le umili suppliche che porgiamo al Padre per noi e per i nostri fratelli. Allora specialmente si avvera in tutta la sua forza la promessa di Nostro Signore!: « Et quodcunque petieritis Patrem in nomine meo, hoc faciam: ut glorificetur Pater in Filio ». Sì tutto ciò che chiediamo al Padre in nome del Figlio, che sta rinnovando sull’altare la mistica sua immolazione, ci viene certamente concesso, perché altrimenti ne andrebbe dell’onore del Padre e del Figlio. Ed essendo nostro dovere di adorare pure Gesù stesso, vero Dio e vero uomo, rammentiamoci che Maria è la più perfetta adoratrice del Figlio, e che i nostri ossequi, i quali, nonostante la nostra buona volontà, rimangono sempre così imperfetti, hanno bisogno, per riuscire accetti, di passare per il Cuore Immacolato di Maria.

b) Perché le nostre adorazioni e preghiere siano più efficaci, dobbiamo, come Maria a piè della croce, acconsentire anche noi ad esser vittime. Celebrando il santo Sacrificio della Messa, che è poi la ripetizione del Sacrificio del Calvario con la sola differenza che l’immolazione mistica vi prende il posto dell’immolazione cruenta, non dobbiamo dimenticare le parole che il Vescovo ci disse nel giorno della nostra sacerdotale ordinazione: « Agnoscite quod agitis, imitamini quod tractatis, quatenus mortis dominicæ mysterium selebrantes, mortificare membra vestra a vitiis et concupiscentiis omnibus procuretis ». Sì, sta qui la nostra immolazione e il nostro martirio: combattere vigorosamente in noi e nelle anime la triplice concupiscenza; immolar quotidianamente le cattive tendenze della nostra natura, che non scompaiono interamente se non al punto della morte; dichiarare guerra spietata al vizio; lottare energicamente contro le seduzioni e le attrattive del mondo: fare anzi di più, consacrarci, sacrificarci interamente al servizio delle anime, onde far conoscere e amare Gesù, senza cercare noi stessi, bramosi anzi che ci dimentichino, affinché Dio sia meglio conosciuto ed amato: « Dum omni modo Christus annuncietur » (Filip., I, 18). Ecco il martirio quotidiano che il Signore vuole da noi Sacerdoti. Regolandoci a questo modo, avremo, come Maria, lo spirito sacerdotale.

ART. III. — MARIA POSSIEDE IN GRADO EMINENTE LO SPIRITO SACERDOTALE.

Lo spirito sacerdotale consiste nel dimenticar se stessi e non pensare più che alla gloria di Dio e alla salute delle anime, perché non si è Sacerdoti per sé ma per gli altri. Ed è appunto questo lo spirito che ammiriamo in Maria. Come Gesù non cercò la gloria sua ma quella del Padre e diede la vita per le sue pecorelle, così Maria, dimentica di sé, non pensa che a glorificar Dio e a collaborare alla salute delle anime.

a) Questa brama, questo bisogno di glorificar Dio risplende nel giorno della Visitazione. Elisabetta, vedendo gli effetti soprannaturali causati dall’ingresso di Maria in casa sua, la saluta Madre di Dio, benedetta fra tutte le donne. Maria respinge subito ogni sua lode, e, levando in alto la mente ed il cuore, canta la gloria di Colui che solo ha diritto di essere lodato perché solo ha operato queste meraviglie: « L’anima mia, dice nel suo Magnificat, glorifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore ». In cambio di accettare per sé le lodi della cugina, amorosamente benedice Colui che « volse lo sguardo alla bassezza della sua ancella ». Tutte le generazioni la proclameranno certamente beata, ma solo perché l’Onnipotente operò in Lei cose grandi. Ella non c’entra per nulla: Dio solo ne dev’essere benedetto; Dio, che pose in opera la forza del suo braccio; che ha confusi i superbi e innalzati gli umili; che ha colmati di beni gli affamati e lasciati a mani vuote quelli che si credevano ricchi. Tali erano i sentimenti abituali dell’umile Vergine: unica sua ambizione glorificare, benedire, esaltare il Signore; quindi il suo cuore vibrava all’unisono col cuore di Gesù, Sommo Sacerdote, che la sua gloria e la sua vita aveva sacrificato per onorare il Padre.

b) Questa sua piena conformità di volere Maria ben la mostrò quando il divino suo Figlio, salendo al cielo, le chiese di rimanere ancora sulla terra dopo la sua ascensione. È evidente che era questo per lei il più eroico dei martirii. Maria non aveva vissuto che per Gesù, e meglio di san Paolo avrebbe potuto dire: « Per me il mio vivere è Gesù! ». Non aveva quindi che un’unica brama: seguirlo, contemplarlo, amarlo, glorificarlo per tutta l’eternità. Eppure, quando Gesù le affida la missione di rimanere ancora a lungo in mezzo ai discepoli, per edificarli, istruirli, animarli coi suoi consigli e coi suoi esempi, Maria acconsente a questo nuovo martirio e s’immola per le anime come s’era immolata per Dio.

c) Se ne va coi discepoli al Cenacolo, insegna loro a perseverare unanimi nella preghiera, e attira così su di loro una copiosa effusione dei doni e delle grazie dello Spirito Santo. Ritirata nella casa di san Giovanni, che le era stato dato per figlio, vive nella sua intimità e gli rivela i segreti che il Verbo Incarnato le aveva confidati nei trent’anni della sua vita nascosta. Quei tesori Maria li aveva conservati nel suo cuore e amorosamente meditati, e meglio di ogni altro poteva istruire quell’Apostolo che doveva un giorno far conoscere alla Chiesa nascente le glorie del Verbo Incarnato, fonte di luce, di vita e di amore. – Abbiamo buon fondamento di pensare che la Madre della divina Sapienza non sia stata estranea a quella dottrina così sublime che san Giovanni espone nel quarto Vangelo. Del resto anche altri Apostoli e futuri evangelisti, come san Luca, vennero ad attingere alla medesima fonte certi particolari intimi della vita nascosta del Salvatore. Maria fu così la Madre della Chiesa nascente, esercitando l’apostolato, non in modo pubblico e ufficiale, ma in quel modo modesto ed ascoso che si addice alle vergini cristiane, Divenne a questo modo il modello più perfetto dello spirito sacerdotale e meritò di esser detta Regina degli Apostoli, Regina e Madre dei Sacerdoti, Regina et Mater sacerdotum.

c) Se vogliamo quindi progredire nello spirito sacerdotale od apostolico, non possiamo far di meglio che chiederlo istantemente per intercessione di Colei che attirò sui discepoli una sì ricca effusione dei doni dello Spirito Santo. Maria otterrà anche per noi adagio adagio e progressivamente la trasformazione che venne operata negli Apostoli in un sol tratto il dì della Pentecoste. Anche noi dimenticheremo, come loro, i particolari nostri interessi per non pensare più che alla gloria di Dio e alla salute delle anime. In cambio di esser vittime del rispetto umano, di aver paura della persecuzione, di paventare il patire, ci rallegreremo di dover sostenere gli oltraggi, le calunnie, le umiliazioni, lieti di poter soffrire per il nome di Gesù. In cambio di cercare la stima e l’affetto dei mondani, non avremo che un unico pensiero, quello di predicare coll’esempio più ancora che colla parola le massime del Vangelo e l’amore del divin Crocifisso. Così il nostro apostolato riuscirà più fecondo. E poiché piacque alla divina bontà di distribuire tutte le grazie per le mani di Maria, è chiaro che, se chiediamo colla sua intercessione quelle che ci sono necessarie per la santificazione nostra e per quella delle anime a noi care, le otterremo più sicuramente e più copiosamente; perché, come dice san Bernardo, è volere di Dio che riceviamo tutti i favori spirituali per mezzo di Maria: « Sic a voluntas eius qui totum nos habere voluit per Mariam » (Sermone sulla Natività della Beata Vergine Maria, Numero 7). – O Vergine benedetta, voi che, senza avete il carattere sacerdotale, foste eletta ad esse la Madre del Sommo Sacerdote Gesù e dei suoi rappresentanti sulla terra, voi che con spirito eminentemente apostolico esercitaste uffici simili ai nostri, degnatevi di abbassare sui vostri Sacerdoti il materno vostro sguardo, e vedendone la incapacità ad adempiere la nobile loro missione di religiosi di Dio e di santificatori delle anime, formate in noi lo spirito e le virtù di vostro Figlio, affinché con Lui e per lui possiamo glorificar Dio e condurre molte anime al suo seno.

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (3)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (3)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO PRIMO

ITINERARIO SPIRITUALE

Carmelitana:

Tutto, in lei, porta l’impronta di questa predestinazione. Prima di penetrare nelle profondità di quest’anima per analizzarla, uno sguardo d’insieme si impone. Elisabetta della Trinità non è divenuta santa che dopo undici anni di lotta e incessanti ritocchi di cesello. Anche dopo aver trascorsi al Carmelo molti anni di silenzio e di fedeltà, dovrà subire dalla mano divina le supreme purificazioni con le quali Iddio introduce le anime eroiche nella pace immutabile dell’unione trasformante, al di sopra di ogni gioia e di ogni dolore.

I

VITA INTERIORE NEL MONDO

1) Capricci di bimba — 2) Conversione — 3) Feste mondane

— 4) Opere di apostolato — 5) Vacanze estive —

6) L’«agere contra» — 7) Prime grazie mistiche —

8) L’incontro col Padre Vallée.

1) Figlia e nipotina di militari, Elisabetta Catez portava nelle vene un sangue combattivo, pronto alla reazione. Aveva ereditato un’indole focosa. Un giorno — aveva appena tre o quattro anni — si chiuse da sé in una stanza, e percuotendo la porta con tutta la forza dei suoi piedini, strepitava fino all’esasperazione. La sua prima infanzia, fino ai sette anni, fu attraversata da questi grandi scoppi di collera, indomabili. Bisognava aspettare che l’uragano si quietasse da sé. Allora la mamma le faceva capire il suo torto, e le insegnava a vincersi per amore. « Questa bimba ha una volontà di ferro — diceva la sua istitutrice. — Quando vuole una cosa, deve ottenerla, ad ogni costo ». La morte del babbo, quando era tanto piccola ancora, la lasciò sola con la mamma e con la sorella Margherita, creatura timida e soave, che le fu compagna indivisibile di tutte le ore, fino alla sua entrata al Carmelo. Nessun altro grave incidente familiare venne a turbare il corso della sua vita che si svolgeva, sempre a Digione, in un’atmosfera serena e cristiana.

2) La prima Confessione operò nell’anima di Elisabetta ciò che lei chiamerà la sua conversione, quella scossa benefica che risvegliò in lei il senso del divino e ad esso la orientò (« Ricordi »). Da quel giorno, cominciò a lottare risolutamente contro i suoi difetti dominanti: la collera e la sensibilità; e persisterà in questo rude combattimento spirituale fino ai diciott’anni. Il Sacerdote che la preparava alla Prima Comunione e la conosceva bene, diceva ad un’intima amica della mamma sua: « Con un temperamento simile, Elisabetta Catez diventerà una santa o un demonio ». Il primo contatto con Gesù nascosto nell’Ostia santa fu decisivo. « Nelle profondità dell’anima, ella sentì la voce di Lui ». « Il Maestro divino prese così bene possesso del suo cuore che da allora ella non aspirò che a donargli la sua vita» (Poesie – « L’anniversario della mia Prima Comunione », 7-9 aprile 1898). Avvenne allora in lei un mutamento così rapido e profondo, che sorprese quanti l’avvicinavano. Elisabetta progrediva a gran passi verso quel calmo dominio di sé che doveva ben presto emanare da tutta la sua persona. Un giorno, dopo la S. Comunione, le parve di udir pronunciare, in fondo all’anima, la parola: « Carmelo ». Fu una rivelazione. Un’altra volta, ancora nel suo quattordicesimo anno, sentirà una chiamata interiore del divino Maestro, durante il ringraziamento della Comunione; e senza indugio, per essere sua e unicamente sua, fece il voto di verginità. Morirà ad esso fedele, pura come un giglio. – Le poesie che compose dai quattordici ai diciannove anni non risuonano che dei nomi di Gesù tanto amato, della sua Mamma celeste, del suo buon Angelo custode, dei santi, di Giovanna d’Arco, « la vergine che non può essere offuscata » (Poesie – « Giovanna d’Arco», ottobre 1895). Ma l’attrattiva più irresistibile è il Carmelo; e i suoi versi cantano gli attributi della carmelitana; la veste di saio e il bianco velo, il rosario dai poveri grani di legno, il cilicio che martoria le carni, l’anello di sposa di Cristo (Poesie – « Agli attributi della Carmelitana », 15 ottobre 1897). Abitando vicinissima al suo diletto Carmelo, spesso se ne va sulla terrazza, e a lungo « triste e pensosa » (Poesie – « Ciò che vedo dal mio balcone », ottobre 1897) – s’immerge con lo sguardo anelante, nel Monastero. Tutto le parla al cuore: la Cappella ove si cela il suo Signore, il suono dell’Angelus, i mesti rintocchi dell’agonia che si odono talvolta. e le celle dalle finestrine minuscole, dal mobilio poverissimo, le celle che accolgono il riposo delle vergini dopo una lunga giornata di preghiera redentrice. Lontana ancora dal sogno — ha soli diciassette anni — sente che la sua anima langue. Un Sacerdote amico di famiglia si fa mediatore fra lei e la mamma; ed Elisabetta tenta di evadere da questo triste mondo seduttore. Ma non è che un istante. La mamma rimane inflessibile; non le resta che attendere l’ora di Dio nella preghiera e nella fiducia. E l’attenderà.

3) Ricominciano, allora, le feste mondane e le riunioni più svariate che si moltiplicavano ininterrottamente. La signora Catez vi spingeva la figliola, ma con discrezione, pur senza volerla distogliere dalla sua vocazione, forse accarezzando segretamente la speranza che Dio non gliel’avrebbe pesa. Elisabetta non si faceva pregare; le bastava che quella fosse la volontà della mamma, e prendeva parte a tutte le riunioni, con spigliatezza elegante e serena, « non mostrando affatto di annoiarsi », come ripetono concordemente i testimoni della sua vita. Nessuno avrebbe potuto supporre in Elisabetta Catez la futura carmelitana, la cui vita interiore così intensa e tutta celata nell’intimo del suo Cristo doveva dare alla Immutabile Trinità una testimonianza sì commovente di silenzio e di raccoglimento. Elegante sempre, il suo vestire era semplice, ma irreprensibile. Ripetutamente fu chiesta in isposa. Per una delle sue ultime serate, non volendo lasciar supporre la sua partenza, comprerà dei guanti nuovi. Così Elisabetta partecipava serenamente alla vita della società in cui viveva, non rifuggendo che da un’unica cosa: dal peccato.

4) A Digione, nel corso dell’anno, Elisabetta si dedica alle opere parrocchiali: canto corale, catechismo ai bambini o a qualche piccola neocomunicanda un po’ tarda d’ingegno, oggetto di canzonatura da parte delle compagne minori; ed altre opere di beneficenza che sollecitano il suo concorso. S’incarica persino del patronato per le povere bimbe della manifattura tabacchi; e quelle monellucce le si affezionano al punto, che bisogna tener loro nascosto il suo indirizzo perché non le invadano la casa. Divenuta poi suor Elisabetta della Trinità, continuerà a seguirle nella vita e a proteggerle con la sua silenziosa preghiera di Carmelitana. – Con tatto squisito, Elisabetta si adatta a tutto ed a tutti. Ama l’infanzia per la sua purezza, e Dio le ha dato un’attrattiva meravigliosa per interessare i piccoli. In occasione di riunioni familiari, ne ha talvolta una quarantina intorno a sé, e li diverte in tutti i modi. Le piacciono tanto i quadri viventi, specialmente di Gesù fra i dottori; compone lei stessa piccole rappresentazioni musicali, ma soprattutto ha un’arte insuperabile nel combinare danze di bimbi. Ed eccola, intenta ad abbigliare tutto quel mondo che deve comparire sulla scena. Poi, quando i nervi si sono calmati, si preparano le seggiole in giardino, e si incomincia la lettura; tutti i visetti sono intenti ascoltando avidamente. Qualche volta, i più piccoli l’assediano di inviti perché vada a giocare con loro; ed ella accondiscende, sorridendo. Durante il mese di Maria, la schiera piccina che Elisabetta trae seco alle sacre funzioni, la costringe negli ultimi banchi, il più vicino possibile all’uscita. « E appena il Tabernacolo viene rinchiuso — racconta un’amica d’infanzia — la tiravamo fuori, con noi, a passeggio; e allora, con un’immaginazione vivissima, ci raccontava storie fantastiche. Elisabetta Catez era sempre pronta ad adattarsi a tutti ». – Rileviamo quest’ultimo particolare: nel Chiostro, come già nel mondo, suor Elisabetta rifuggirà da ogni singolarità. Insieme agli altri invitati, saprà apprezzare le squisite torte di Francina, la cuoca più brava in tutta Digione, e riderà di cuore degl’interminabili pranzi, così abbondanti da far invocare pietà, perché si faranno sentire almeno per tre giorni.

5) Le vacanze riconducono regolarmente la partenza da Digione e il periodo dei lunghi viaggi. Ed ecco come Elisabetta visitò la Svizzera, le Alpi, il Giura, i Vosgi, i Pirenei, e gran parte della Francia. Le sue lettere ce la mostrano, gaia e festeggiata, nel turbine delle visite di, i familiari ed amici, talvolta più strettamente unita a qualche anima eletta che le è dato incontrare, ma più spesso amica di tutte indistintamente le giovinette della sua età; con tutte, per sentimento di carità e finezza di educazione, ella conversa e ride gaiamente. – « Il nostro soggiorno a Tarbes (Alti Pirenei.) non è stato che un succedersi ininterrotto di divertimenti: concerti, danze, gite. Gli abitanti di Tarbes sono molto piacevoli: ho conosciuto parecchie signorine, tutte carissime, una più dell’altra. Con X…, squisita intenditrice di musica, non sapevamo distaccarci dal pianoforte, e i negozi di Tarbes non bastavano a fornirci nuova musica da leggere » (Lettera alla signorina A. C. – Tarbes, 21 luglio 1898). – « Oggi partiamo per Lourdes; e mi si stringe il cuore al pensiero di lasciare la mia Yvonne. Se sapessi quanto è cara; e che carattere, veramente ideale! Quanto alla signorina X… è guarita perfettamente, anzi è più giovane, più elegante che mai e, soprattutto, è sempre immensamente buona. Ieri l’altro ha festeggiato i miei diciott’anni regalandomi una graziosissima guarnizione per abito, color pervinca. Scrivimi presto. Ora devo lasciarti per chiudere le valigie; ma ti penserò tanto, a Lourdes. Di là, faremo un giro nei Pirenei. Sono innamorata di queste montagne che contemplo mentre ti scrivo; mi sembra che non potrò più rinunciarvi » (Lettera alla signorina A. C. – 21 luglio 1898). – Luchon l’entusiasma più di ogni altra città. « Essa merita davvero la sua definizione di regina dei Pirenei. La posizione è incantevole; vi abbiamo trascorso due giorni, in un entusiasmo sempre crescente. Abbiamo potuto fare la escursione della valle del Lys, in un grande landò a quattro cavalli, con le cugine di R…, le Di-S…, che abbiamo ritrovate a Luch Le signore ci hanno affidato a persona di conoscenza che faceva anch’essa quella escursione fino all’Orrido. Eravamo a 1801 metri, affacciate a quell’abisso spaventoso; eppure, Maddalena ed io lo trovavamo così bello, che desideravamo quasi di lasciarsi portare da quelle acque. Ma la nostra guida, per quanto entusiasta. non era dello stesso parere; e si mostrava molto più prudente di noi che camminavamo sull’orlo del precipizio senza menomamente soffrire di vertigini. Le signore che, durante la nostra escursione, erano state tutt’altro che tranquille, ebbero un sospiro di sollievo, vedendoci tornare » (Lettera alla signorina D. Agosto 898). Elisabetta passa, così, dagli uni agli altri amici, godendo di una vita quanto mai piacevole, come a Lunéville, invitata a colazione dagli uni, a pranzo dagli altri, partecipando a numerose partite di tennis con delle signorine gentilissime » (Lettera alla signorina A. C. – Luglio 1897), ma senza che le rimanga per sé nemmeno un istante. Il 14 luglio, al Campo di Marte, assiste alla rivista cui l’hanno invitata le numerose amicizie di famiglia nell’ambiente militare. Figlia di ufficiali, si entusiasma per le esercitazioni della cavalleria… « Immaginatevi tutti quei caschi e quelle corazze scintillanti al sole… Questo abbagliante spettacolo si completa, a sera, nei boschetti del parco, con un’illuminazione fiabesca, un po’ alla veneziana… ». – Ma in mezzo a queste feste mondane, il suo cuore serba la nostalgia del Carmelo. Partiti gl’invitati, Elisabetta senza sforzo alcuno, si ritrova col suo Cristo che non ha lasciato mai. A Tarbes, per sottrarsi un istante alla rumorosa allegria mondana, si rifugia presso il Carmelo, e la suora commissionaria la trova dietro la grata del parlatorio, in ginocchio. Ella bacerebbe volentieri tutte le mura di quella Casa di Dio. Lourdes è vicinissima, e per tre giorni vi si raccoglie presso la Vergine della Grotta. Vacanze e mondanità si allontanano dal suo spirito senza alcun sforzo; inabissata nella preghiera, immobile dinanzi alla Grotta, supplica a lungo l’Immacolata di custodirla pura come Lei, e si offre vittima per i peccatori (Poesie – « L’Immacolata Concezione  » 8 dicembre 1898.). Niente può distrarla dal suo Dio. Più tardi, dal suo Carmelo di Digione, potrà scrivere alla mamma nel post-scriptum di una lettera: « Venerdì, quando sarai in treno, non dimenticarti di fare orazione; è molto vantaggioso, me ne ricordo » (Lettera alla mamma – Luglio 1906.). Parlerà così per  esperienza. – Le ricchezze profane delle grandi città che attraversa la lasciano indifferente. Per lei, Marsiglia è Nostra Signora della Guardia (Lettera a M. L. M… – 6 ottobre 1898), e Lione si riduce a Fourvières (Lettera ad A. C. – Estate 1898. ). A Parigi, dove si reca con la mamma e la sorella per la celebre Esposizione Universale del 1900, due cose sole attirano la sua attenzione: Montmartre e Nostra Signora delle Vittorie: « Siamo andate due volte all’Esposizione; è molto bella; ma io detesto tutto quel chiasso, quella  folla, Margherita rideva di me e diceva che avevo l’aria di chi viene dal Congo » (Lettera a M. L. M. – Estate 1900.).

6) L’agere contra fu la generosa parola d’ordine di questo primo periodo della sua vita. A diciannove anni, segna ancora nel suo diario: « Oggi, ho avuto la gioia di offrire al mio Gesù molte vittorie sul mio difetto dominante; ma quanto mi sono costate! E proprio in questo riconosco la mia debolezza… Quando ricevo un’osservazione che mi sembra ingiusta… sento il sangue ribollirmi nelle vene, tanto il mio essere si ribella… Ma Gesù era con me; sentivo la sua voce in fondo al cuore, e allora ero pronta a tutto sopportare per amor Suo » (Diario – 30 gennaio 1899). Ogni sera, per constatare se veramente progredisce nella via della perfezione, segna in un quadernetto le vittorie e le sconfitte. Cerca di digiunare all’insaputa della mamma; ma dopo tre giorni, la vigile signora Catez se ne accorge e la rimprovera severamente; e, ancora una volta, Elisabetta obbedisce. Dio non vuole condurla per il cammino delle grandi mortificazioni dei santi, né ora né durante tutto il suo soggiorno al Carmelo. La silente Trinità attende da lei un’altra testimonianza. « Dato che non posso impormi delle mortificazioni devo persuadermi che la sofferenza fisica non è che un mezzo — quantunque eccellente — per giungere alla mortificazione interiore e al distacco completo da se stessi. O Gesù, mia vita, mio amore, mio sposo, aiutami! Bisogna che io giunga, a qualunque costo, a fare sempre, in tutto il contrario della mia volontà» (Diario – 24 febbraio 1899).

7) Dio non poteva tardare a ricompensare con tocchi segreti della grazia i continui sforzi di Elisabetta per trionfare della sua natura. L’ascetica conduce alla mistica e ne costituisce la necessaria salvaguardia. Con l’abituale suo buon senso, santa Teresa diceva: « Orazione e mollezza non vanno d’accordo » (Cammino di perfezione – Capitolo IV.). Ed è naturale. La Viva Fiamma d’amore suppone la dolorosa salita del Monte Carmelo con le sue notti oscure, con le sue purificazioni attive e passive, tali da far tremare i più risoluti. Ma troppo si dimenticano anche le lunghe estasi contemplative dell’autore degli Esercizi Spirituali nella sua cella di Roma, dove sant’Ignazio mormorava, rapito: « O beata Trinitas! ». Non già che si debba negare in modo assoluto ladiversità di tendenze e di indirizzi nelle vie dello spirito;ma la verità evangelica riassume tutte queste sfumature,e i Santi di tutte le scuole si ricongiungono, oltrepassandole.Giunti alla vetta, tutti sono trasformati nel Cristo,immedesimati nella sua beatitudine di Crocifisso.Il combattimento spirituale contro i suoi difetti e iltrionfo sulla natura condussero Elisabetta alle prime manifestazionidi quelle grazie mistiche che dovevano trasformarela sua vita, dapprima lentamente e con tocchi successivi,quasi passo per passo; poi, dopo la sua professione,con movimento calmo e ininterrotto; finalmente, nell’ultimafase dei sei mesi di infermeria, a grandi voli verso lepiù alte cime dell’unione trasformante.Ella stessa non si rese conto di queste prime mozionidivine, (ricevute nel corso di un Ritiro nel gennaio 1899) che parecchi mesi dopo, leggendo le opere di santa Teresa.Questa rivelazione del suo diario è di capitale importanzanella storia della sua vita spirituale; segna, per lei, l’iniziodella vita mistica, dopo un duro combattimento spiritualeche durava da più di quindici anni e che, in realtà, noncesserà mai.« Leggo, in questo momento, il Cammino di perfezione di santa Teresa; m’interessa immensamente e mi fa un gran bene. Santa Teresa dice cose sì belle sulla orazione ela mortificazione interiore, quella mortificazione interiore acui voglio giungere ad ogni costo, con l’aiuto di Dio. Se,per ora, non posso impormi grandi sofferenze corporali,posso almeno, ad ogni istante, immolare la mia volontà…L’orazione! Come mi piace il modo in cui la santa trattaquesto argomento, là dove parla della contemplazione, quel grado di orazione in cui Dio fa tutto, e noi non facciamonulla, in cui Egli unisce a sé l’anima nostra così intimamente,da non essere più noi che viviamo, ma Dio che vive in noi… Oh, io vi ho riconosciuto gli attimi di rapimento sublimea cui il Maestro divino si è degnato elevarmi così spessodurante questo Ritiro e anche dopo. Che cosa potrò dargliio, in cambio di tanti benefici? Dopo queste estasi, questisublimi rapimenti nei quali l’anima dimentica tutto il restoe non vede che il suo Dio, come par dura e penosa l’orazioneordinaria, e quanta fatica ci vuole per raccogliere leproprie potenze! Come costa e come sembra difficile! » (Diario – 20 febbraio 1899). – Dio elevava già Elisabetta Catez ai gradi superiori di orazione; lo si vedeva sensibilmente nell’ora della preghiera. Entrava nella Chiesa parrocchiale; si dirigeva lentamente, per la navata di centro, fino al suo posto; s’inginocchiava e subito appariva invasa da un raccoglimento profondo: e restava a lungo così, immobile, tutta piena di Dio. La sua amica più intima fu sempre colpita dal mutamento improvviso che si manifestava in Elisabetta, appena entrata in Chiesa e in preghiera: « Non era più lei ». Inoltre, da qualche tempo, esprimeva in fondo all’anima dei fenomeni strani che non sapeva spiegarsi. Si sentiva abitata. « Quando vedrò il mio Confessore — diceva — gliene parlerò ».

8) In quest’epoca, incontrò, al monastero del Carmelo, un Religioso Domenicano che doveva dare alla sua vita interiore un orientamento decisivo. La Madre Germana di Gesù, priora e maestra di noviziato di suor Elisabetta, autrice dei Ricordi, ha giustamente notato che « questo incontro provvidenziale » ricorda, per i suoi effetti soprannaturali, quello che riferisce santa Teresa nel Capitolo Castello dell’Anima (Cap. I). La santa scrive, infatti, che un grande teologo dell’Ordine di san Domenico (il celebre prof. Banez dell’Università di Salamanca) nel confermarle, dal punto di vista dottrinale, la presenza di Dio da lei sperimentata nell’orazione, le dette, con la completa sicurezza che porta seco la verità, una grande consolazione. Mentre Elisabetta timidamente interrogava l’eminente Religioso sulla natura dei movimenti della grazia che esperimentava da qualche tempo, e che le davano l’impressione dell’inabitazione divina, il Padre Vallée, con la potenza della parola ispirata che lo caratterizzava, le rispose: « Ma certamente, figliola mia; il Padre è in te; il Figlio è in te, lo Spirito Santo è in te ». E le spiegò, da teologo contemplativo quale egli era, come, per la grazia del Battesimo, noi diveniamo quel tempio spirituale di cui parla san Paolo: e come, insieme allo Spirito Santo, la Trinità tutta intera vi è presente con la sua virtù creatrice e santificatrice, facendo sua dimora in noi, venendo ad abitare nel segreto più intimo dell’anima nostra, per ricevervi, in una atmosfera di fede e di carità, il culto interiore di adorazione e di preghiera che Le dobbiamo. – Questa esposizione dogmatica la rapì. Ella poteva dunque, seguendo con tutta sicurezza l’impulso della grazia, abbandonarsi alla sua attrattiva interiore e abitare nel più profondo dell’anima sua. Durante questo colloquio, si sentì presa da un raccoglimento irresistibile. Il Padre parlava ancora, ma Elisabetta Catez non lo ascoltava più. « Ero ansiosa che tacesse », dirà più tardi, alla Priora. – In questo particolare, c’è già suor Elisabetta della Trinità tutta intera: avida di silenzio sotto l’effusione della grazia. Da parte sua, il Padre Vallée diceva di quest’ora decisiva: « L’ho vista slanciarsi verso la mèta come una freccia ». – Elisabetta era una di quelle anime che, una volta incontrata la luce, non se ne allontanano più. Da quel giorno, tutto si trasforma e s’illumina; ella ha trovato la sua via. D’ora innanzi, la Trinità sarà l’unica sua vita.

(Ricevuto il consenso definitivo della mamma alla sua vocazione religiosa (26 marzo 1899), Elisabetta aveva potuto riprendere le sue visite al Carmelo, interrotte per otto anni; e furono esse, il suo sostegno negli ultimi due anni passati nel mondo. Vi ritrovava, come priora, la Madre Maria di Gesù che, la sera della sua Prima Comunione, le aveva dato in parlatorio un’immagine dove aveva scritto questo pensiero per spiegarle il significato del suo nome: (Elisabetta, cioè « Casa di Dio»). « Nasconde, il tuo nome, un mistero — che in te si compie in questo dì solenne. — Figliola, il tuo cuore è sulla terra, — la casa di Colui che è Dio d’amore ». – La Madre Maria di Gesù era una anima trinitaria. La sua ardente devozione alla Trinità santa era scaturita improvvisamente da una grazia ricevuta a 14 anni, durante una processione delle Rogazioni. Mentre si univa alle prime invocazioni al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, le fu rivelata interiormente questa misteriosa, ma reale presenza delle Tre Persone divine nell’anima. « Da allora — dirà più tardi — ho cercato sempre di raccogliermi nel profondo in cui Esse dimorano ». Fondatrice del Carmelo di Paray-le-Monial, intitolò il suo bel monastero alla SS. Trinità a cui si accede attraverso il Cuore di Gesù. E fu la Madre Maria di Gesù colei che dette a Elisabetta Catez il nome di Suor Elisabetta della Trinità, quel nome di grazia divenuto tutto il programma della sua vita religiosa. Elisabetta si recava regolarmente dalla Madre, come il piccolo gruppo delle postulanti extramuro che si stringevano intorno alle grate del Carmelo. Madre Maria di Gesù le formava allo spirito carmelitano e la futura novizia le rendeva conto della sua vita di orazione. Poi, anche quando poté essere un po’ divezzata da una direzione spirituale continuata e stabile, Elisabetta era però felice di andare a chiedere alla Maria e consigli e lumi per il progresso della sua vita spirituale. Prima di stabilire i suoi propositi del santo Ritiro, la consultava; e le sembrava che le decisioni di Lei venissero da Dio stesso. Così quelle ore re di parlatorio le facevano tanto bene.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (17)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (17)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni

ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO II

Art. III. — GESÙ VIVE NEL SACERDOTE COLLA PARTECIPAZIONE DELLA SUA SANTITÀ.

Poiché il Sacerdote fa sulla terra gli uffici di Gesù Cristo, ne deve pure partecipare le disposizioni interiori e la santità; altrimenti vi sarebbe contrasto tra la sua missione e i suoi atti: se tutto è santo nel suo ministero, potrà forse la sua vita essere una vita volgare? Sarebbe un’incoerenza e una mostruosità! Nostro Signore nol volle; e perché i suoi Sacerdoti fossero santi, nell’ultima Cena pregò il Padre con accenti che ci fanno ancora balzare il cuore di commozione profonda al rileggere quella bella preghiera che è giustamente detta la preghiera sacerdotale di Gesù (S. Giov. XVII). « Per loro Io prego. Non prego per il mondo, ma per quelli che mi hai dati, perché sono tuoi… Padre santo, conservali nel tuo nome quelli che mi desti, affinché siano una cosa sola come noi. Quando ero con loro, Io li conservavo nel tuo nome quelli che mi desti, e li custodii così che nessuno di essi andò perduto, tranne il figlio della perdizione, affinché si adempia la Scrittura… Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li guardi dal male. Non sono del mondo, come neppure Io sono del mondo. Santificali nella verità: la parola è verità. Come tu mandasti me nel mondo, così io pure mandai loro nel mondo; e per loro io sacrifico me stesso, affinché anch’essi siano santificati nella verità ». – Quanto sono consolanti queste parole per noi Sacerdoti cattolici! Dobbiamo vivere in mezzo al mondo, per istruirlo, preservarlo dal male, medicarne e guarirne le ferite. E come potremo sfuggirne il contagio? Avremmo tutto da temere se fossimo soli; ma Gesù pregò per noi, e dall’alto dei cieli e dal fondo del tabernacolo continua pur sempre a pregare per noi. Viene anzi a vivere in noi colle sue virtù e a comunicarcele, purché dal canto nostro sappiamo unirci strettamente a Lui e con pii desideri e con sante preghiere attrarlo nel più intimo dell’anima nostra, e collaborar con lui. – Appunto questo chiede la Chiesa nel conferire gli Ordini sacri. Quando andiamo a prostrarci ai piedi del Vescovo per ricevere la prima tonsura, la Chiesa prega Dio a preservarci da ogni peccato, « eos sine macula in sempiternum custodias », e ci invita a rivestirci dell’uomo nuovo creato nella giustizia e nella santità; il che non possiamo fare se non rivestendoci dello. Stesso Gesù Cristo, fonte di ogni santità. Quando ci conferisce gli Ordini minori, prega perché attraiamo in noi Gesù, il Religioso del Padre; onde, animati del suo Spirito, pratichiamo la virtù della religione nell’esercizio degli uffici sacri che ci vengono affidati. Al suddiaconato, chiede per noi lo Spirito Santo e i suoi doni, onde possiamo serbare perfetta castità e recitare per tutta la vita l’Ufficio divino in nome di tutto il popolo cristiano. Pei diaconi, che diventano cooperatori del Sacerdote nell’offerta del santo Sacrificio, la Chiesa chiede una purità anche più perfetta, perché possano portare fra le mani il Dio di ogni santità. A predicare poi fruttuosamente il Vangelo, esige che vivano conforme alle massime evangeliche e ritraggano in sé le virtù di Gesù Cristo. A questo fine dà loro lo Spirito Santo colla divina sua fortezza, perché resistano a tutte le tentazioni e pratichino tutte le virtù. Quando poi si tratta del Sacerdozio, le sue esigenze si fanno anche più insistenti: vuole che siamo, come Gesù, vittime e sacrificatori nello stesso tempo e che pratichiamo lo spirito di sacrificio e di santità; vuole che meditiamo giorno e notte la legge di Dio per osservarla noi e insegnarla altrui; vuole che la nostra carità sia così ampia che ci avvolga l’anima come la pianeta nella primitiva sua forma avvolgeva il corpo. Ne è da stupire; perché, come nota san Tommaso, che in ciò compendia la dottrina dei Padri: « essendo noi coi sacri Ordini incaricati di fare i più santi uffici del ministero eucaristico, dobbiamo avere una santità interiore più grande di quella richiesta dallo stato religioso ». (Sum. Theol., II.II, q. 184, a. 8). Onde l’autore dell’Imitazione, volgendosi al religioso divenuto Sacerdote, gli osserva: « Non alleggeristi mica il tuo carico, ma sei legato anzi con più stretto vincolo di disciplina e obbligato a maggior perfezione di santità. Il Sacerdote dev’essere ornato di tutte le virtù e dare esempio di buona vita agli altri ». (Lib. IV, cap. V; paragr. 2, IIl part. c. F). A conseguire questo nobile ideale, o almeno accostarvisi sempre più, i sacerdoti « non devono avere altra vita interiore che quella del Figlio di Dio, onde poter dire come san Paolo: Vivo, ma non più io, vive in me Gesù Cristo: vita che richiede che abbiano lo stesso spirito di Gesù Cristo, che ne dà loro le stesse disposizioni, che li anima degli stessi sentimenti, che li applica e li innalza a Dio per porgergli i doveri che Egli peso, come Sacerdote, incessantemente gli porge (J. J. OLIER, Traîté des SS. Ordres). Gesù vive dunque nei suoi Sacerdoti colla comunicazione dei suoi poteri, in virtù del carattere sacerdotale e colla partecipazione delle sue virtù; dobbiamo quindi aver per loro la più profonda venerazione.

ART. IV. — CONCLUSIONE: I NOSTRI DOVERI VERSO IL SACERDOTE.

Si possono compendiar tutti in una parola sola: considerare il Sacerdote come un Gesù Cristo vivente sulla terra: allora soltanto se ne avrà davvero la stima che si merita. Qualunque ne possa essere la nascita, l’educazione, l’aspetto esterno, il Sacerdote è il rappresentante visibile del sommo Sacerdote, è un altro Cristo. Ecco la ragione che gli dà diritto alla stima e alla venerazione di tutti quelli che hanno la fede. Come uomo ha, certo, le sue doti e i suoi difetti; Dio volle così, perché potesse sentir maggior compassione verso le debolezze e le miserie umane. Ma, quando esercita gli uffici del sacro ministero, Gesù vive ed opera in lui; e Gesù quindi bisogna in lui considerare. Avremo allora per lui un religioso rispetto, una sincera ubbidienza; e ci sarà caro il collaborare con lui e pregare per lui.

a) Lo rispetteremo come il rappresentante di Gesù Cristo.

Ecco, per esempio, un sacerdote che predica la parola di Dio: può darsi che sia poco valente nell’arte del dire, ma dacché predica il Vangelo, ha diritto di essere rispettosamente ascoltato; perché può dire in tutta verità: « La mia dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha mandato » (S. Giov, VII, 16), io non sono che Messaggero e il messaggio è tale che esige la vostra attenzione. Non è quindi il caso di criticare la parola di Dio, bisogna ascoltarla con docilità e col sincero desiderio di metterla in pratica: ci si troverà sempre di che edificarsi. Il santo Curato d’Ars non era oratore: ma quante anime non convertì colla sua parola semplice, un po’ antiquata se si vuole, ma pure così evangelica! – Vi presentate al sacro tribunale della penitenza? può darsi che troviate un confessore ancor giovane ed inesperto. Eppure la sua assoluzione vale quella del più abile dei direttori; quando infatti dice: Io ti assolvo, è Gesù Stesso che per suo mezzo vi rimette i peccati. Non è davvero proibito di cercare un direttore saggio ed esperimentato; ma, anche quando l’avrete trovato, rammentatevi che i suoi consigli non valgono se non per quel tanto che nella sua persona voi vedete e ascoltate Iddio.

b) Questo stesso principio ci renderà facile l’ubbidienza ai suoi ordini: quando il Sacerdote comanda in nome di Dio, si ubbidisce allo Stesso Dio: « Chi ascolta voi, ascolta me? » (S. Luca, x, 16). Del resto è questo il modo di attirare sopra di noi le benedizioni divine e di agevolare al Sacerdote il suo così difficile ministero, secondo che nota san Paolo: « Ubbidite alle vostre guide e state sottomessi, perché essi vigilano a pro delle anime vostre, come obbligati a renderne poi conto; onde facciano questo con gioia e non gemendo; il che sarebbe senza alcun vantaggio per voi! » (Heb. XIII, 17). Il riguardo e la deferenza che qui san Paolo raccomanda ai Cristiani verso i superiori ecclesiastici dovrà mostrarsi anche fuori degli atti del ministero sacerdotale. Oggi che tanti nemici della Chiesa infuriano rabbiosi contro il Sacerdote appunto perché è il rappresentante di Dio, i fedeli si faranno un onore di sostenerlo colla loro simpatia, colla loro benevolenza, e colla loro premura di assecondarlo nelle sue opere. Egli è il rappresentante di Dio, è vero, e trova nel tabernacolo il migliore suo conforto; ma è anche uomo, e, come san Paolo, si sente vivamente inanimato quando vede che i fedeli corrispondono al suo zelo con l’affettuosa loro collaborazione: è lieto allora di poter loro dire: « Voi siete il mio gaudio e la mia corona » (Fil. IV, 1). Se egli, che per amor di Dio e delle anime ha rinunziato alle gioie della famiglia, trova nella grande famiglia cristiana che gli sta intorno un compenso ai suoi sacrifici, ne trae maggiore ardore al duro lavoro che deve fare, e la stima di cui gode non fa che aumentare la benefica sua efficacia sulle anime.

c) Ci sarà quindi caro il collaborare con lui. I tempi che corrono esigono dal Sacerdote un lavoro immenso; è lavoro non solo di conservazione ma di conquista. Se si vuole che una parrocchia non muoia, bisogna continuamente rifarla, fondarvi opere per i fanciulli, opere per i giovani e per le giovani, opere per gli uomini e per le madri cristiane. Ora, per formare tutte queste varie associazioni, il Sacerdote ha bisogno del concorso dei migliori tra i suoi parrocchiani, concorso pecuniario, ma anche e soprattutto concorso personale; perché da solo non potrebbe bastare a tante cose. Senza trascurare il grosso del popolo, il sacerdote bada a formarsi un’eletta schiera di persone che possano mettersi ai suoi ordini e praticar l’apostolato con lui e sotto la sua direzione. È questa l’Azione Cattolica, tanto raccomandata in questi ultimi tempi dai Sommi Pontefici, e che consiste nella Partecipazione di laici fervorosi e pieni di buona volontà all’apostolato gerarchico per introdurre lo spirito cristiano nell’individuo, nella famiglia e nella Società. È dunque un dovere per i fedeli il collaborare col Sacerdote sia per l’insegnamento del Catechismo, sia per la visita degl’infermi e dei poveri, sia per le opere sociali come per le opere direttamente religiose. È questa collaborazione del sacerdote e della parte eletta dei suoi parrocchiani e delle sue parrocchiane quella che assicura la buona riuscita del suo apostolato.

d) E pregheremo pure molto per i Sacerdoti. Vi è forse chi crede che i Sacerdoti non ne abbiano bisogno, ma è errore gravissimo. I Sacerdoti, è vero, passano molto tempo in preghiera, glorificando Dio in nome del popolo cristiano e chiedendo per lui copiose grazie: ma hanno tante responsabilità e debbono essere così santi, anche in mezzo ai pericoli che incontrano persino nell’esercizio del loro ministero, che hanno bisogno di essere costantemente sorretti dalle preghiere dei fedeli, e specialmente delle anime pie. Santa Teresa ne era così persuasa che faceva continuamente pregare secondo questa intenzione: e vi sono pure molte comunità religiose e molte anime generose che fanno lo stesso (Così l’intendeva e così praticava la Madre MARIA DI Gesù, la quale scriveva ad una consorella: « Coraggio, sorellina mia! Dedicarsi alle anime è bello, è grande; ma dedicarsi a procurare la pura gloria di Dio nelle anime dei Sacerdoti è così bello, è così grande, che bisognerebbe aver mille vite e mille cuori da sacrificare immolandoli a un sì nobile fine » (Lettere, p. 204). Così pensava pure la Madre LUISA MARGHERITA CLARET de La Touche, fondatrice dell’Alleanza sacerdotale universale degli amici del Sacro Cuore; come si legge nel suo libro: Le Sacre Coeur et le Sacerdoce e negli estratti delle sue opere pubblicati dal P. Heris O. P. sotto il titolo: Au service de Jesus Prétre). – Preghiamo dunque gli uni per gli altri: ci guadagneremo tutti; perché, come dice il Pontificale, navighiamo tutti sulla stessa nave e la sicurezza dei passeggeri dipende dall’abilità del pilota.

e) Questa preghiera deve estendersi anche alle vocazioni ecclesiastiche. In molte diocesi si recita ogni domenica questa semplice preghiera: « O mio Dio, dateci dei Sacerdoti! dateci dei santi Sacerdoti! e fateci docili ai loro insegnamenti! ». Ora che i nostri nemici hanno fatto e fanno di tutto per diminuire il numero e l’autorità dei Sacerdoti, è proprio la più urgente delle preghiere. A Parigi, per esempio, vi sono parrocchie di 15.000 anime che hanno appena sei sacerdoti: uno per ogni 7.500 fedeli; nella provincia poi, un gran numero di parrocchie, quasi diecimila, sono senza sacerdoti, e molti parroci debbono servire due, tre, perfino cinque parrocchie. Il che significa che già fin d’ora vi sono moribondi che non possono ricevere i sacramenti, fanciulli che non sono istruiti nella Religione, e molti adulti che sfuggono interamente alla benefica efficacia del Sacerdote. Il male si va allargando e, se non ci si rimedia, il numero dei pagani e dei comunisti non tarderà a dominare in Francia e i delitti si moltiplicheranno; perché la morale senza la Religione è un’utopia (È veramente doloroso per un cuore cristiano ciò che dice qui l’Autore sopra la grave scarsità di clero in Francia e la progressiva scristianizzazione del popolo. In Italia, dobbiamo vivamente ringraziare la divina Provvidenza che coi Patti del Laterano, col Trattato e coll’inseparabile Concordato, siasi aperta un’era di belle speranze per la Religione; ma occorre anche da noi lavorare alacremente, specialmente alla soda istruzione religiosa della gioventù delle scuole medie. Questo insegnamento religioso nelle Scuole, affermato nel Concordato, deve considerarsi nelle condizioni odierne come uno dei mezzi principali per cristianeggiare la nostra gioventù. Così si potranno adagio adagio riparare le molte rovine religiose accumulate da alcune generazioni per l’opera nefasta di governi infeudati alle sette. E coll’accresciuta Religione nella gioventù cresceranno pure le vocazioni ecclesiastiche scarseggianti anche da noi. – N. d. T.). – L’opera quindi più urgente è di Pregare per le vocazioni ecclesiastiche. E anche di aiutare queste vocazioni con tutti i mezzi possibili. Siete ricco? Perché non fondate nei nostri Piccoli e nei nostri Grandi Seminari posti franchi che diano modo a giovinetti, ben disposti ma poveri di beni di fortuna, di prepararsi al sacerdozio? Avete figli, o vi occupate dell’educazione di giovinetti? E perché non inclinare verso l’altare alcuni di quelli che mostrano animo grande e nobile, che sono pii, attivi, energici, pronti a tutte le generose imprese? Non si tratta già di spingerli contro la loro volontà al Sacerdozio, Dio ne guardi! ma di inclinare i loro pensieri da quella parte, di farli pregare per chiedere la grazia di conoscere bene la loro vocazione e di generosamente seguirla. Quanti giovinetti non presero animo di aspirare a questa sublime dignità se non quando ci si videro incoraggiati da anime benevoli! O genitori cristiani, se mai alcuno dei vostri figli vi chiedesse di entrare in Seminario, badate bene di non ostacolare questa legittima sua aspirazione col pretesto di volerlo poi erede del vostro commercio e della vostra industria. Che gli diciate di riflettere bene e di prender consiglio da persona prudente prima di entrar negli Ordini sacri, questo è vostro diritto e vostro dovere; ma il distorlo con mezzi più o meno abili da questa sublime vocazione, sarebbe un invadere il campo della coscienza, un usurpare i diritti di Dio, un preparare la sventura vostra e quella di vostro figlio. Pensate invece che l’onore più grande che Dio possa farvi è di scegliere un dei vostri per trasformarlo in un altro Cristo; e che si apre con ciò per tutta la vostra famiglia una fonte di copiose benedizioni. – « Se non avessimo il sacramento dell’Ordine, diceva il santo Curato d’Ars, non avremmo Nostro Signore. Chi è che l’ha posto là in quel tabernacolo? È il Sacerdote. Chi è che accolse l’anima vostra al primo suo entrare nella vita? Il Sacerdote. Chi la alimenta per darle la forza di fare il suo pellegrinaggio? Il Sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola nel sangue di Gesù Cristo? Il Sacerdote, sempre il Sacerdote. E se quest’anima viene a spiritualmente morire, chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il Sacerdote. Non vi verrà fatto di richiamarvi un solo beneficio di Dio senza incontrare, accanto a questo ricordo, la figura del Sacerdote ». Se mediteremo bene queste parole piene di tanta efficacia, ripeteremo spesso e con fervore la preghiera approvata dal Papa Pio X per ottenere la santificazione del clero:

« O Gesù, Pontefice eterno e divino Sacrificatore, voi, che, in un incomparabile impeto di amore per gli uomini vostri fratelli, avete fatto scaturire dal vostro Sacro Cuore il Sacerdozio cristiano, degnatevi di versare pur sempre nei vostri Sacerdoti le vivifiche onde dell’infinito vostro amore.

« Vivete in loro; trasformateli in voi; rendeteli colla vostra grazia strumenti delle vostre misericordie; operate in loro e per loro; e fate che, rivestiti di voi colla fedele imitazione delle adorabili vostre virtù, operino in nome vostro e colla forza del vostro Spirito le opere fatte già da Voi per la salute del mondo.

« O divin Redentore delle anime, vedete quanto grande è la moltitudine di coloro che dormono ancora nelle tenebre dell’errore; contate il numero di quelle pecorelle infedeli che camminano sull’orlo del precipizio; considerate la quantità di poveri, di affamati, di ignoranti e di deboli che gemono nell’abbandono.

« Tornate, o Gesù, tornate a noi nei vostri sacerdoti; rivivete davvero in loro; operate per mezzo loro e correte di nuovo il mondo, insegnando, perdonando, consolando, sacrificando, riannodando i sacri vincoli dell’amore tra il cuore di Dio e il cuore dell’uomo. Così sia »

(A tutti i fedeli che reciteranno ogni giorno questa preghiera composta dalla Madre LUISA MARGHERITA (v. sopra), S. S. Pio X ha concesso l’indulgenza di 300 giorni una volta al giorno, e l’indulgenza plenaria la prima domenica o il primo venerdì del mese. Queste indulgenze sono applicabili alle anime del Purgatorio.).

LO SCUDO DELLA FEDE (210)

LO SCUDO DELLA FEDE (210)

LA VERITÀ CATTOLICA (VII)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. E libr. Sales. 1878

Torino, Tip. E libr. Sales. 1878

ISTRUZIONE VIII.

Creazione della terra – delle piante – degli animali. La creazione dell’uomo

Nella dottrina la Chiesa col candor d’una madre sicura d’esser ben compresa da’ suoi figliuoli, ci ha già fatto conoscere che Dio colla sua onnipotenza creò il cielo e la terra, le creature cioè visibili ed invisibili. Io vi ho già parlato di Dio, Che creò gli Angeli; ora vi debbo spiegare che Dio creò la terra e le cose, che vi sono in essa. Voi avrete bene scolpita nel cuore la cara verità, che Dio è Padre, e che ama noi uomini proprio coll’amore di Padre Divino. Ebbene, appunto, come i padri preparano tutto il ben che possono pei loro figliuoli, così Dio prima di creare noi, ebbe le cose per noi preparate: ed è così bella cosa e fa tanto bene sapere come Dio dispone le creature in questa terra, prima di crear noi; che Dio medesimo ha la bontà di raccontar proprio colla sua parola, come creò prima la terra, poi le piante e gli animali; e poi creò noi uomini (Il Belasio dimentica – in Genesi (?!) – che dopo la terra, Dio nel IV giorno, creò i luminari del cielo: il sole, la luna, le stelle, i corpi celesti, quando cioè c’era già il firmamento (II giorno), la terra e il mare (III giorno)! Ma forse il Belasio nel suo zelo di divulgatore non si accorgere della plateale eresia che commette sposando l’idiozia dell’eliocentrismo, teoria antibiblica gnostico-esoterica, poi massonica, e non supportata da nessuna concreta prova scientifica! Secondo il suo esposto, Dio Spirito Santo – Autore delle Sacre Scritture secondo il Concilio di TRENTO – si è sbagliato nel non avere seguito le teorie del big ben, dell’eliocentrismo, della vorticosa rotazione terreste, della superficie curva dell’acqua, delle palle ruotanti nello spazio, della pressione atmosferica in un mezzo aperto…. e dei tanti assurdi enunciati fantasiosi pseudoscientici … forse per questo la terza Persona della Santissima Trinità non ha mai avuto il premio Nobel come tanti kazari Illuminati!? – ndr. -). Ben io vorrei parlare a cuore a cuore con voi, raccontandovi tanta bontà del Padre nostro Celeste. Ma che volete? Io debbo mettervi in guardia contro dei cattivi, che vorrebbero, tristi! che non s’adorasse, anzi neppur si pensasse che vi sia Dio; quasi le cose si fossero fatte da loro sole, per forza di natura, cercando d’imbrogliarvi la mente con parole oscure. Io vi mostrerò col candor della parola divina: come Dio in bell’ordine creata la terra: creò le piante, gli animali; poi creò noi uomini, per adorarlo in nome di tutto il creato nel tempo, e per adorarlo beati per sempre nell’eternità. O Gesù, Salvatore benedetto, datemi la chiarezza e la carità della vostra così santa, tanto sublime, ma tanto chiara parola, da farmi intendere anche ai più semplici. E voi, o Maria SS. fatemi parlare a questi figliuoli colla cara semplicità d’una madre, affinché possa scolpire loro ben in cuore questa grande verità, che ha da farci bene per tutta la vita — che Dio creato il cielo, creò la terra, le piante, gli animali, creò poi noi ad immagine sua, per adorarlo. Io vi ho dunque da spiegarvi in questa dottrina, ripetetemelo in grazia (si fan ripetere Dio creò la terra, le piante, ecc.). La prima cosa che Dio volle insegnarci e che più importa sapere prima di tutto, è che Dio in principio creò il cielo e la terra in principio creavit Deus cœlum et terram. Sentite poi, come ci dice collasua parola stessa, con qual ordine ebbe create e ordinate tutte le cose. Creata che ebbe la terra, la terra era coperta di tenebre e di acque; e Dio creò la luce; e quindi Egli fece uscire fuori delle acque le montagne e il terreno asciutto (si vede che evidentemente la Bibbia del Belasio avesse mancante la pagina delle creazione dei luminari … il sole, la luna, le stelle, non ne accenna mai, forse ha paura di contraddire la pseudoscienza astronomica…! oh il rispetto umano … – ndr. -); poi dopo creò lepiante e gli animali, e finalmente creò 1’uomo. Ecreò tutto in ordine, in sei tempi diversi o giorni, come li chiama la parola-di Dio.Sarebbe pur bene metterci subito qui a considerare con quant’ordine e con quanta bontà Dio creò tutte le cose. Ma io vi ho detto che vi sono dei cattivi, oh i disgraziati! che si mettono dalla parte del diavolo a far la guerra a Dio, per non farlo adorare. Questi nemici di Dio pur troppo imparano dal demonio l’astuzia di mettersi al coperto, come egli si nascose nel serpente, per ingannare gli imprudenti. Anch’essi ingannano la povera gente con parole oscure. Anche voi li avrete sentiti menar sempre per bocca la parola natura; e sovente li udite a dire: che la natura fa questa, e quest’altra cosa…. e che questa; o quest’altra è una legge di natura. Ma che cos’è mai questa natura? Vel dirò io; la parola natura è una parola che esprime un pensiero: della nostra mente, con cui noi immaginiamo come di mettere insieme nella nostra tutte le cose da Dio create, colle leggi con cui sono da Lui conservate e governate. Adesso vi spiegherò il loro inganno. Coloro colla smania di far dimenticare Iddio, non lo nominano  mai; nominano invece tutte le cose insieme colla parola natura. Fanno credere che la natura faccia tutto da sé, quasi che tutte le cose siano sempre state da loro, e colle lor forze facciano andare in ordine l’universo. Così man mano fatto scomparire dal mondo il nome di Dio, fanno poi dimenticare affatto Dio stesso; e invece di Dio Creatore onnipotente si fanno d’una parola quasi un tal dio fantastico, la natura; quasi le leggi e la forza, con cui Dio conserva il mondo da Lui creato, siano l’onnipotenza di questo fantastico dio natura. Eccovi, pur troppo; che si stampano i libri, nei quali (senza un riguardo al mondo e senza rispetto ai cari nostri giovani che ci tradiscano perfidamente), per insegnare a loro, come sono state fatte le cose, cominciano a dire, senza altra ragione (ma colla sola loro parola, che si dan l’aria di far credere infallibile troppo più che la parola di Dio) ed assicurano lì con tutta sfrontatezza, come se lo sapessero essi di certo, che le materiali cose, cioè questa materia colle sue forze è sempre stata regolata dalle leggi della natura. Ora io vi dirò che è vero che vi sono delle cose materiali create, che appunto si chiamano materia; e Dio stesso ci fa intendere che Egli creò questa materia in principio, quasi preparando il materiale da formarne poi le creature della terra. Dio poi creò la materia così fatta e mise dentro in essa tali forze e disposizioni da poter con esse far stare unite le parti dei corpi, e compor con essi e far andare questo mondo universo. Vi è dunque la materia creata con delle forse a lei unite, e disposte da Dio per ordinare tutto secondo la sua volontà. E qui per spiegare più chiaro vi osserverò, che anche voi avrete ben veduto come due goccioline d’acqua, l’una e l’altra vicine vicine, si uniscono insieme, e sapete anche che alcune gocce d’acqua sparse per terra assorbono la polvere e formano pallottoline di fango. Vi è dunque dentro  di quel po’ di acqua, e dentro la polvere una forza, un’attrazione che le fa unire e stare insieme. Ma per poco che abbiamo di ragione, ben intendiam che è Dio, che mise le materiali cose, per formare con quella materia e con quelle forze queste così svariate creature del mondo. E di fatto. immaginatevi di entrare a visitare un qualche gran laboratorio in cui si fabbricano macchine a vapore. Oh! Quanti vedete, e spranghe, e rocchetti, e piuoli di ottoni e di ferro belli in mille belli modi lavorati; e là una caldaia pel vapor preparata. Veramente, sol che osserviate quei denti e quelle incavature e tutti altri oggetti con bel lavorio così finiti, che pare aspettino d’essere congegnati insieme: voi ben vi accorgete subito che tutte quelle cose son preparate dal macchinista, che aveva in prima in mente (il fine prestabilito) di metterle insieme e formar la macchina a vapore. Egli per questo con lungo studio e grand’ingegno lavorò secondo il disegno, che aveva in mente, ad uno ad uno tutti quegli ingredienti, per congegnarli insieme, e poi mettervi dentro la caldaia e l’acqua, e sotto il fuoco: e con tutto quel gran lavoro far andar la stupenda macchina, che è sempre una meraviglia a vedere. A questo modo voi intendete che Dio, Creatore onnipotente e sapientissimo, creò tutte le particelle della materia e granellini o atomi, come li chiamano; e li creò così ben disposti, e diede lor quelle forze e così adattate da stare insieme, e formare queste cose materiali, i corpi; e con tutto questo ben ordinato insieme, far andar in ordine questa ammiranda immensa macchina del mondo universo. – Or via, mi dite voi: se quando, con un piacere, che è incanto! vedete venire fuori a voi innanzi sbuffando la macchina, quasi tronfia della sua potenza, e tirarsi appresso sulle rotaie sì gran numero di carri; vi balzasse davanti uno stordito a dirvi con gran serietà che non è vero che l’abbia costrutta un gran macchinista; ma che quelle ruote e spranghe e quelle scannellature, e denti tanto ben lavorati erano già stati lì nella terra, senza che nessun l’avesse buttati, e che arrabattandosi si trovarono per caso così ben congegnati; e che allora e la caldaia, e l’acqua, e il fuoco vi saltarono dentro da loro stessi (già, però senza saperlo); e che trovassero le strade con quelle filatezze di ben disposte rotaie di ferro, e tutto per caso; voi per tutta risposta, gli direste « il poverino di pazzo ha dato il cervello a pigione. » Or via, mi dite, quando voi contemplate questo gran mondo di meraviglie tutto pieno di miracoli della sapienza e dell’onnipotenza di Dio: se vi venisse davanti un signor tale in berretto e robone da professore, con un’aria da stralunato, per farsi intendere che studiò tanto tanto! e con una serietà da far ridere, e vi leggesse in un suo libro (ascoltate la gran sapienza), che egli sa che tutte le cose in prima erano una nebulosa, e vuol dire un gran nebbione, o un gran polverone di granellini (atomi) e che gira gira, senza però che mai nessuno l’abbia fatto girare, quei granellini si trovarono così ben insieme a caso, da formare il cielo e le stelle, il sole, la terra. A caso poi quel nebbione polveroso fa andare le stagioni tanto bene regolate; e fa formar le piante e gli animali e provvede a tutti in milioni di modi così ammirandi, e tutto a caso, capite! Senza un’anima che vi pensasse, senza un occhio da vedervi dentro: e così far andar in ordine tutto il mondo universo: il dir tutto questo non è la più matta cosa del mondo? Ah! se noi abbiamo già detto che è matto, chi dice che la macchina a vapore non fu fabbricata da un macchinista: chi poi dice che il mondo si fu creato senza l’onnipotenza del Creatore; sarebbe il più gran stordito e matto del mondo. Eh…. non sono io, vedete che lo dico, ma lo dice lo stesso caporione degli increduli, Voltaire, il quale confessa che negare che vi sia il Creatore, è l’ultimo eccesso della follia. (Disc. Univ., vol. 3° pag. 484: Du prétendu ath. des Chinois.) – Fortunati dunque voi, o miei fratelli, che venite alla dottrina, e quest’oggi avete imparato dalla parola stessa di Dio la prima verità, che è necessaria da tener ben ferma nel cuore, per non perder la testa, e diventar poi cattivi: e poi udirete con quant’ordine creò le altre cose della terra, e poi noi uomini. Intanto intendete che la prima verità, più necessaria da ricordarsi è che Dio in principio creò il cielo e la terra. A ditemi, in grazia, ripetendolo (si fan ripetere) « Che la prima verità, da ricordarsi sempre, è che Dio in principio creò il cielo e la terra ». Rendiamo ora gloria a Dio esclamando insieme — « Credo in Dio Padre Onnipotente Creatore del cielo e della terra!… e a Lui solo gloria per sempre. » – Ma ora è della terra, che io ho da parlare: e debbo dirvi che Dio creò la terra, e che quindi creò le piante, dopo le piante creò gli animali; e infine creò l’uomo. Ditemi, in grazia, che cosa vi ho da spiegare adesso (si fan ripetere). « Ci ha da spiegare che Dio creò la terra, e che quindi…. » State attenti. Quando diciamo la terra intendiamo di dire tutto l’insieme delle materiali cose, che noi guardiamo come morte: cioè la materia inorganica, il che vuol dire che non ha quelle disposizioni di parti così ordinate, da far vegetare le piante, e vivere gli animali. Ebbene, Iddio per creare il mondo, come pensava nella sua sapienza, creò il materiale di cui voleva formare le altre cose, e fece ogni particella, così disposta e vi mise nella materia tanto di forze così adattate, da farne poi il suo volere. Con queste forze le particelle stanno unite insieme, e quelle che stanno attaccate più fortemente diventano più dure: e formano il gran corpo solido della terra: di modo che le più leggere e le più molli, come ì gas, l’aria, i vapori, tendono ad uscire da quelle; e le materie più molli, come le acque strette in mezzo sgorgano fuori. Onde la terra restò tutta circondata di acque. Vedete subito qui, che la parola di Dio nella dottrina v’insegna proprio quello che vengono a conoscere, come è vero, con buon giudizio studiando i geologi: che sono coloro che cercano collo studio di conoscere come fu formata la terra. E non l’avevano da trovar vero?… Figuratevi! lo dice la parola di Dio! Udite ora: lo Spirito del Signore girava sopra la terra — Spiritus Dei ferebatur super aquas: Creò la luce e fece saltare fuori dalle acque le montagne e la terra arida. Qui potete anche voi immaginarvi, che tirati fuori in alto i monti, allora restarono scavati abissi smisurati; in cui Dio raccolse le acque; e così formò i mari. Come poi aveva creata la luce, ed infuso così aveva il calore in quelle morte cose, le acque, spinte dal calore in vapori si alzarono in nubi per aria, come vediamo tutto dì. Le nuvole; poi caddero in pioggia, che penetrarono nelle screpolature delle montagne. Allora gorgogliarono in fonti, e giù per le balze i ruscelletti, si raccolsero in grossi fiumi, precipitando in mare; frangendo tra le rupi in fragore che par di udir come acclamassero plauso: « grande è la gloria di Dio? »: e il mare sbattendosi contro i confini segnati dal dito di Dio, pareva che rispondesse tuonando: « Dio è l’onnipotente! » In tanto tutte le cose obbedivano Dio: præceptum posuit et non præteribit (ps. CXLVIII). Ben parve d’allora, e poi,sempre, che terra e fiumi e tutte cose create alzino leloro voci a render chiarissima testimonianza, che l’universofu creato da Dio: « Firmavit orbem terræ… elevaverunt flumina voces… mirabiles elationes maris: mirabilis in altis Dominus. Testimonia tua credibilia facta sunt nimis » (Ps. XXII). Dio allora guardò le cose create e vide che andavano bene; ma ancora non era tutto quello cheEgli voleva. Allora Dio mise dentro nella terra un’altra forza per creare le piante, e le creò colla sua parola. E qui pensate un po’anche voi che questa forza, con cui Dio creò le piante, non era prima nella terra. Dio ve la mise dentro, dopo che la terra si è consolidata e ben disposta. E poi tanto vero che questa forza non era nella terra, che anzi è contraria alla forza che unite le sue particelle; perché questa forza le divide, e scomponendo il terreno cava fuori dal suolo, e tira nell’interno delle piante tutte le materie che le fanno crescere; esse ne assorbono anche dall’acqua e dall’aria e le trasmutano nelle sostanze proprie. – Dio creò poi la forza che fa vegetare le piante, con questa sua parola « terra, germina le piante! » Allora avreste veduto la terra, che era arida e nuda, coprirsi di un bel manto di velluto d’erbette: e ve’ già molte alzarsi su arditelle, e spiegare davanti al Creatore fiori ridenti d’ogni più svariata bellezza; guardare esse il cielo, come gl’innocentini nostri guardano col sorriso in faccia alla mamma. Molte altre. poi ingrossarsi in alberi, slanciarsi colla lor vetta fin fra le nubi; e sui loro rami piegati presentare ricchezza di frutti. Ben noi qui vorremmo dire « o erbe, e piante, e legni fruttiferi, benedite il Signore. » Ma le piante, sì, guardano il cielo; ma sono mute e non sentono niente! – Quindi Dio disse coll’onnipotente sua parola « animali, uscite creati fuori dalle acque. » Egli disse, e furon creati. Allora sì, che unvisibilio di animali saltò fuori sulla faccia della terra. I mari, l’aria e il terreno dovunque brulican tutti d’essi: Oh che meraviglia! Essi vedono, odono, sentono, coi sentimenti del corpo hanno il senso di ciò che loro fa bene, e lo cercano; sentono avversione di ciò che loro fa male, e lo ributtano. Così si conservano. Dio, Che diede la forza di generare i loro piccini, mostrò pure a formarsi i loro nidi adattati, e mostrò a far loro da madre in tante belle maniere, che è una grazia a vedere. Li ha provveduti di vestimenti che van loro sì bene alla vita. Volano, corvettano, corrono, ronzano, fanno i lor versi, e godono tutti del bene, che è loro preparato da Dio. In contemplarli noi vorremmo esclamare: « Su, animali….. almen voi che sentite di goder del bene da Dio, su pesci dalle acque, su uccelli dall’aria, su bestie dai campi, benedite e lodate il Signore Che tutti creò. » Ma qui tra loro non vi è un che intenda re terra e piante e animali non sanno dir niente a Dio; e neppur si accorgono, né intendono che Dio vi sia! E Dio guardò allora la terra, le piante, gli animali, e disse « van bene »; ma tra queste creature mie qualche cosa vi manca. »… Vi mancava l’uomo. Per farvi intendere come Dio nella sua sapienza volesse creare l’uomo che potesse intendere e fare in terra ciò che Egli ordinasse, dirovvi: come a Parigi vi è un grandissimo giardino detto il giardino delle piante. Immaginatevi una estesissima campagna, circondata da mura; e dentro piani e monticelli, boschi e acque; e tra mezzo di loro animali d’ogni specie. Ora pensate voi, se quella grande estensione di terra fosse lasciata chiusa, senza mai che vi entrasse persona, quale sarebbe mai diventata? Arido selvaggio luogo! Scosceso il terriccio, i monticelli irti di sassi come aridi ossami: tra loro le acque scavare burroni, ristagnare in paludi, covacciuoli di rettili schifosi: triste boscaglie cadenti sui boschi già marci: le pianure diventate grillaie: qua e là spine e sterponi: poi un ruggire di belve, e le più feroci divorar le altre. Oh!… lasciate che il re vi mandi un coltivatore di bello ingegno a tutto ordinare. Allora quel gran chiuso diventa il più delizioso soggiorno. Rigogliosi boschetti di pellegrine piante colle chiome di svariati verdi in contrasto: ombrose valli, ed in mezzo ai dolci pendii, ruscelletti che scorrono, baciando l’erbe su loro inclinate, per mantenere quei laghi a specchi di purissime acque: dappertutto fiori i più belli e le più pregiate frutta: e qui e là ricoveri, ove son governati gli animali d’ogni genere. E perché niente manchi a quell’incanto, un palazzo in mezzo a Museo in cui cioè si conservano i più rari oggetti, dall’insettuccio che gira dentro una scatolina come nel suo gran mondo, fino alla smisurata balena capace da contener dentro nel suo carcame, altro che uno! ma una buona dozzina di Gioni. Allora sì che entrano i visitatori sempre nuovi e ammirano la scienza e l’arte del buon coltivatore, e glie ne lodano, a grand’onore del sovrano, al quale tutto quel mondo di meraviglie è dovuto. Ora pensate, come Dio guardando il mondo da sé creato, e vedendo che non vi era in mezzo di quel gran mondo di creature neppure una sola, che intendesse almeno un poco!…. Avrà dovuto dire (per parlar noi qui tra noi, come Egli parlasse da uomo) « qui io debbo creare una persona da poter farle intendere, come voglio che sia tutto ordinato. » Racconterovvi un bel fatto che farà capir meglio. Michelangelo Buonarotti, forse il più grande artista del mondo, colla potenza del genio che ad immagine di Dio inventa, e in certo qual modo crea i grandi pensieri, voleva figurare qual doveva essere, come era in mente di lui, quel gran condottiero Mosè mandato da Dio a proclamare al popolo d’Israele i suoi comandamenti. Allora scolpiva in marmo la più bella statua, che mai sì fosse. In questa statua, ecco come figurò Mosè. Lo mise lì scolpito in atto di comandare in nome di Dio colle due tavole della legge strette sul petto, colla faccia in aria di maestà divina, nell’alta fronte due grandi occhi fissi in atto di contemplare il cielo, e gli rizzò sull’alta fronte, come due raggi di luce, con cui pareva comunicasse con Dio. Michelangelo contemplava quella sua bella statua in sublime incanto…… ma rapito sopra ragione……. alzò il martello e diede giù un colpo sulla spalla di sasso, esclamando: « parlami !… » ma la statua era sasso morto!….. Sì, rimbombò lo studio…. sì, rispose l’eco…. ma né la statua, né studio, né l’eco dicevano niente!…. né gli rispondevan d’un « grazia! » Allora il grande artista gettò per terra il martello, e dovette esclamare « la persona che parla e che ama, la vien solo da Dio?… » Sì, sì, miei cari figliuoli, solleviamoci al gran pensiero di Dio: quando creato l’universo, gettava lo sguardo su quel suo mondo di meraviglie; ma non s’incontrava mai in una persona intelligente che cercasse di Chi lo creò: e di conoscere la sua santa volontà! Né gli era dato di vedersi d’innanzi uno che Gli si offrisse pronto ad obbedire ai suoi comandamenti! No, non s’incontrava in due occhi che guardando il cielo almeno dicessero « vorremmo amarsi… » Dio poi, che ama tanto le cose fatte con tutta giustizia, non vedeva una persona ragionevole che pensasse…. a fare…. a fare un po’ di giustizia! E sapete quale è la prima giustizia da farsi?… Ve lo dirò, udite la gran verità!… La prima giustizia da farsi è riconoscere che Dio è il gran padrone Creatore d’ogni cosa: e che perciò si debba onorare, servire, adorare, insomma rendere tutta la gloria a Lui: ché a Lui solo tutto è dovuta. No, no, non vi era sulla terra finalmente chi amasse teneramente Dio così buono con tutte le creature! Allora Dio non poté far altro, lasciatemi dire così, non poté far altro, che guardare a Se stesso: e raccogliendosi come a consulta nella SS. Trinità sua, dovette dire « una mente che intenda, un cuor che ami bisogna che venga da Noi… facciamo l’uomo ad immagine e similitudine nostra!… » –  Contempliamo, figliuoli, contempliamo adorando con quanto amore Dio impastasse la terra, per formare il corpo nostro, da infondervi dentro quest’anima nostra quasi un soffio di vita, immagine della sua Vita divina!… – Come il sapiente architetto, quando fabbrica un edifizio, vi costruisce dentro tutte le membra della casa in modo, che tutte le parti servano ai bisogni per cui la fabbrica vien finita; e poi sulla facciata dell’edifizio vi mette i più belli ornamenti, e vi scolpisce l’impronta del suo pensiero; sicché al contemplare una bella facciata d’una gran chiesa par che avvisi d’entrar dentro con tutto il rispetto; così Dio formando il corpo umano tutto adattato a servire ai bisogni dell’anima ragionevole, che voleva spirarvi dentro, stampava poi nella faccia umana quasi un lampo della sua divina beltà, che avvisasse di rispettare nell’uomo Lui stesso Creatore di tutto. Quando poi ebbe formato il corpo, col soffio della sua divina onnipotenza infuse nel corpo un’anima intelligente, lasciando scorrere sopra essa un raggio di luce della sua Mente divina. Questo raggio, questo lume di cognizione, è la ragione umana: e questo lume di cognizioni scalda il cuore dell’uomo e gli mette in movimento, i palpiti dell’amore. Così poté l’uomo conoscere il Creatore ed amarlo. Vi spiegherò questa cara verità con più chiare parole. Dio creò noi uomini ragionevoli ad immagine sua in modo che, come Egli conosce tutto, ci creò capaci di conoscere anche noi: in modo che, come Egli conosce ed ama in Se medesimo, il Sommo Bene; anche noi conoscessimo che noi non saremo mai felici, finché non giungiamo a possederlo in Paradiso. Non posso spiegare mai abbastanza!… ma per dire meglio vorrei dirvi ancora che Dio. creato, che ebbe l’uomo, lo sollevò in piedi colla sua mano, e gli disse « ora tu che intendi, e che ami, e sospiri il sommo Bene, per star sempre bene con Lui; guarda al cielo, cerca in Me stesso; ché ti ho creato, per averti beato in Paradiso! » –  Lo capite adunque che cosa è mai l’uomo!……. Quis est homo?… Chi siamo noi? e che mai dobbiamo fare?… Eh, cari mici figliuoli, anche voi avete ben veduto che, quando si è fabbricato un grand’edifizio, vi s’innalza sopra una bella statua ritta verso del cielo, per incoronarlo. Ebbene, cosi che Dio creato il mondo nostro, creò noi per innalzarci sulla cima di tutte le creature e di qui a slanciarci verso di Lui a dargli gloria. Su, dunque, innalziamo gli occhi, le braccia, il cuore, tutta la persona, per dare sempre gloria a Dio, che tutto creò. Voi forse avrete anche veduto con tante pietre ben lavorate, innalzare come una piramide, una torre: e poi sopra di essa mettervi una punta, una fiammella o ancor meglio una croce; ebbene, così pure tutte le creature formano come una piramide, e noi siamo collocati sopra d’essa. Su, su, dunque, attacchiamoci a Gesù innalzatosi in croce, ad elevarci con Lui al cielo, per sommergerci nel Sommo Bene. Sì, sì, figliuoli miei, venitemi appresso, ché la terra, le piante gli animali formano come una grande scala, e noi altri uomini siamo col corpo nostro come coi piedi sull’ultimo gradino della terra; ma coll’anima ci slanciamo verso del cielo. Su, su, ci grida s. Paolo, facciamo presto, per potere dalla terra alla morte volare in Paradiso. Adesso sì che capirete che noi uomini siamo, come un piccol mondo, in noi stessi. Vedete di fatto, come insegna s. Gregorio, che in noi vi è un po’ di tutte le creature. È vero, o no? Ditelo voi, se non siam terra colla terra, con questo grave corpo di terra? E ve’ che come le piante metton le foglie, così noi uomini mettiamo fuori le unghie ed i capelli, e vegetiamo colle piante; noi siamo ancora animati cogli animali. Ma, perché poi abbiamo un’anima che pensa, che ama, per cui siamo capaci di vivere in vita eterna, noi siamo poco meno degli Angeli (Ps. VIII), ché vivono essi, e noi dobbiamo vivere con essi di beatitudine eterna in Dio. Deh! ora che ci siamo sollevati cogli Angeli in sino a Dio, ritorniamo col pensiero alle creature in terra, ed in mezzo a tutte cose create, mentre viviamo qui in basso con loro, prestiamo del nostro amore alla terra, alle piante, agli animali, perché tutti amino Iddio: o meglio, se queste creature non conoscono e non lo possono amare, amiamolo noi anche a nome di tutte, lodiamo, serviamo, adoriamo Dio in terra, come lo adoreremo per sempre in Paradiso. – Così mi par d’avervi spiegato che Dio, creata la terra, le piante, gli animali di questo mondo nostro, creò noi uomini per conoscerlo, amarlo, servirlo, adorarlo qui per sempre Lui Sommo Bene in Paradiso

Esame.

I. O figliuoli, noi siam così fortunati d’essere stati creati per conoscere, amare, servire qui Dio, per essere con Lui beati in Paradiso: adunque questo deve essere il primo nostro dovere, il dovere di tutta la nostra vita, fare tutto per servire e dar gloria a Dio. E ora pensate un po’: abbiam noi mai fatto tutto per servire ed onorar Dio fin ora…

II. Quanto tempo abbiam mai occupato per pensare a far tutto per Dio…

III. Con qual rispetto, con qual amore abbiamo noi trattato con Dio?…

IV. Almeno almeno gli abbiamo consacrato al suo onore i pochi giorni di festa, che Egli si ha riserbato tutti per sé?

V. Come l’abbiamo adorato nelle nostre orazioni?…

Pratica.

Dio creò tutto 1’universo, ma nol creò già buttandolo lì e quasi andandosi via da esso; non creavit et abiit, come dice s. Agostino. Ma Dio è dappertutto,Egli contiene tutto, e tutto sostiene, e conserva. Sicché il mondo, dice Linneo, uno dei più dotti fra tutti coloroche studiano, è un magnifico santuario, in cui cì siedevelata la Maestà di Dio, e diffonde da per tutto, sempre intutte le creature i doni della sua bontà. Egli apre la mano etutte restano ripiene delle sue benedizioni; noi dobbiamo adunquerendergli dappertutto la nostra adorazione.È vero, non lo vediamo coll’occhio di carne; maanche un povero cieco, se fosse nella sala del re, non vedrebbe il re sul trono; ma se qualcun lo toccasse del gomito e gli dicesse all’orecchio « amico, il re ti tien gli occhi addosso, sai?…. eh se lo offendi… poverino, ti può castigar sul momento!… » Al povero orbo parrebbe di sentire il respiro del re, resterebbe come oppresso dalla sua maestà reale. O cari, o cari, fate da amico all’anima nostra, e ditele all’orecchio: Dio ti vede, Dio ti vede! e che fai quando non pensi a servir Dio… Ah ah, tu sei in peccato!… Ma pensa che Egli odia tanto il peccato, che minaccia di abbruciar del suo sdegno ilpeccatore… Ah se sono in peccato davanti a Lui!… Meschino a me, dove mi nascondo? … se fuggo via, da Lui, in Lui mi trovo…. se mi nascondo sottoterra…. Egli è là! se volo sopra dei cieli, incielo sono in Lui….Tremendo Iddio che reggete i mondi!… Santissimo Dio che odiate tanto il peccato fin a sacrificarevostro Figlio, per toglierlo via dal mondo!Ed io commetto il peccato ancora in braccio a Voi!…Gesù mio, nascondetemi Voi, o che io son sprofondato nell’Inferno! Dunque cominciamo subito, edomani mattina appena svegliati; diamo il primo pensiero a Dio… diciamo: Io sono in Dio… Quando ancor siete fra il sonno e la veglia, sentite il galloche sbatte l’ali, e manda il canto al Creatore, è perdirvi « su, figliuoli, il cuore a Dio! Sentite la rondinella,che cinguetta sulla vostra finestra, è per dirvi « svegliatevi,dite subito una parola a Dio offrendovi a servire a Lui!» Vedete un raggio di color di rosa, che vi penetra in istanza, è per dirvi che il mattino della vita èla gioventù: fortunati giovani, se mandate gl’incensi delle vostre adorazioni, come mandano i fiori nell’aurora i loro profumi: e noi già vecchi diciam als. Profeta: « Signore, oggi comincio anch’io questa giornata, che mi concedete, una giovine vita tutta a servire a Voi. »….. Oh un suono?….. che vuol dire questo suono?… È l’Ave, Maria… e vuol dire: « Su, figliuoli, diam la mano alla Madonna che la ci meni col cuore a Gesù in Sacramento che abita qui tra noi compagno del nostro peregrinaggio! La via, andate a casa ai lavori… e se mangiate un boccon di pane, e bevete alla fonte di fresche acque, e segodete ogni ben di Dio baciate, con rispetto col cuorela Mano di Dio, che ve li ha preparati. Se coglietela frutta, raccogliete le spighe, se guadagnate un qualche cosa, dovreste cader in ginocchio con questo sospiro: « Oh quanto è buono il Padre nostroche provvede di tutto i suoi figliuoli! »Voi andate a casa col cuore pieno di questo granricordo, che vi farò dire con queste poche parole,che imparate a ripetere…. « Farò tutto a gloria di Dio! » Questo ricordo nel mondo cristiano fece grandi santi e tanti, che la Chiesa nella sola religione dei Gesuiti, per questa massima lasciata per memoria da santIgnazio, ha la consolazione d’aver più di settemila tra martiri e santi in Paradiso. Ora anche noi ripetiamola insieme « Farò tutto a gloria di Dio. » Questa gran massima popolò il Paradiso di Santi.

Catechismo.

D. Ditemi su dunque, chi creò il cielo e la terra

e tutte le cose che sono in esse?

R. Iddio.

D. Perché Dio creò prima la terra, le piante, gli animali, e poi creò noi uomini dopo?

R. Per preparare le cose create per noi, affinché noi l’adorassimo in nome di tutte le creature.

D. Per qual fine adunque Iddio ci ha creati?

R. Per conoscerlo, amarlo, servirlo, in somma per adorarlo in terra, poi conoscerlo, amarlo, adorarlo per sempre in Paradiso in Lui beati.

D. Per qual fine dobbiamo vivere in terra?

R. Per far tutto a gloria di Dio e servirlo secondo la sua santa volontà, giacché tutto viene dalla bontà di Dio.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (16)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (16)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle MissioniROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO II

In che modo il sacerdote partecipa al sacerdozio di Gesù Cristo.

Gesù, Sommo Sacerdote della nuova Legge, non muore e non ha quindi bisogno di successori: dall’alto dei cieli continua a esercitare il suo sacerdozio. Ma, risalito alla destra del Padre, Ei non è ormai più visibile a noi. Eppure noi, essendo composti di anima e di corpo, abbiamo bisogno di qualche cosa di sensibile per innalzarci a Lui, sacerdote invisibile. Nostro Signore ben lo sapeva; e quindi, prima di lasciare la terra, istituì, come dice il Concilio di Trento (Sess. XXII, cap. I e can. 2), un sacerdozio visibile, per continuare quaggiù il suo sacrificio e i suoi uffici sacerdotali in modo adatto alla natura umana. Con ciò Gesù non cessava già di essere l’unico Sommo Sacerdote, ma veniva a vivere, in quanto sacerdote, in uomini scelti da Lui e dalla sua Chiesa. Vivrà in loro colla comunicazione dei suoi poteri, in virtù del carattere sacerdotale, e colla partecipazione delle sue virtù. Onde avrà non dei successori ma dei rappresentanti visibili. Il Sacerdote cattolico sarà quindi un altro Cristo, sacerdos alter Christus: in nome suo e colla sua autorità farà gli uffici sacerdotali e guiderà le anime al Sacerdote invisibile e, per Lui, a Dio. Quale rispetto, quale venerazione non dobbiamo dunque avere pei Sacerdoti di Cristo!

ART. I. — GESÙ VIVE NEL SACERDOTE COLLA COMUNICAZIONE DEI SUOI POTERI.

.a) Nell’ultima Cena Gesù aveva offerto un vero Sacrificio: cangiando il pane nel suo corpo e il vino nel suo sangue, aveva, sotto le specie del pane e del vino, offerto al Padre e immolato in modo mistico quella vittima che il giorno appresso avrebbe offerta e immolata in modo cruento sul Calvario. Quindi aveva aggiunto: « Fate questo in memoria di me » (S. Luca, XXII, 19). Ora che intendeva Gesù con queste parole? Due cose intendeva: prima di tutto che il Sacrificio eucaristico da Lui offerto doveva essere istituzione permanente e obbligatoria; e poi che gli Apostoli e i loro successori ricevevano il potere di offrire questo medesimo Sacrificio. – Ed è appunto ciò che avvenne, a cominciare dai tempi apostolici ai nostri giorni: i primi Cristiani erano assidui alla preghiera e alla « frazione del pane » (Act. II, 24, 26);  ed oggi ancora dovunque il Sacerdote cattolico porta il Vangelo, ivi pure consacra l’ostia ed offre il divino Sacrificio. – Ma è da notar bene che questo potere di consacrare e di offrire la vittima divina non viene esercitato da un uomo se non in quanto opera in persona di Gesù Cristo. Infatti il sacerdote dice: « questo è il mio corpo »; ora il pane viene cangiato non nel corpo suo ma nel Corpo di Gesù Cristo; è quindi vero che è un altro Cristo, che parla e opera in nome di Lui. Del resto, chi mai potrebbe operare questo mirabile cangiamento di sostanza, questa transustanziazione, come la chiama la Chiesa, se non chi è rivestito del potere stesso di Dio? Ecco perché san Giovanni Crisostomo, parlando della consacrazione eucaristica, dice ai Cristiani del suo tempo: « Non è già un uomo che fa che il pane e il vino da voi offerti diventino il corpo e il sangue di Cristo, ma è Cristo stesso crocifisso per noi. Rappresentante visibile di Gesù, il Sacerdote, ritto in piedi, pronuncia le parole della consacrazione; ma è la potenza e la grazia di Dio che lavora » (In prod. Iudæ, I, 6.). È dunque Gesù vivente nel Sacerdote che opera questa mirabile trasformazione.

b) Ed è pur Gesù che, per mezzo del Sacerdote, rimette i peccati. La sera della Risurrezione gli Apostoli se ne stavano radunati nel Cenacolo, quando il Maestro appare all’improvviso in mezzo a loro e dice: « Pace a voi! ». Quindi diede loro solennemente l’ufficio e il potere di rimettere i peccati: « Come il Padre mandò me, anch’Io mando voi… Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi; e a chi li riterrete saranno ritenuti? ». Sono ormai venti secoli che il Sacerdote cattolico corre il mondo, riceve la confessione dei peccatori pentiti, giudica con autorità suprema della sincerità delle loro disposizioni, e rimette i peccati a quelli che crede sufficientemente contriti. Ora, chi può rimettere i peccati? chi può ridar la vita a chi è spiritualmente morto? chi può restituire insieme coll’amicizia di Dio la grazia e le virtù infuse? Nessuno certo se non Colui in cui vive Gesù sommo Sacerdote, giudice supremo dei vivi e dei morti, e distributore di tutti i doni divini.

c) Per Gesù e con Gesù il Sacerdote amministra i sacramenti. Istituiti da Gesù per comunicare la grazia, i sacramenti non hanno efficacia se non in quanto sono conferiti da Gesù vivente nel Sacerdote; difatti il comunicare come causa principale la vita divina non è cosa propria di uomo mortale, ma soltanto di Dio o dell’Uomo-Dio. Sia quindi Pietro o Paolo colui che battezza, è sempre Gesù che battezza in loro e col battesimo conferisce una partecipazione della vita divina. Si dica lo stesso degli altri sacramenti.

d) Gesù vive pure nei suoi Sacerdoti a predicare il Vangelo. Prima di salire al cielo, il divino Maestro, volendo perpetuare sulla terra il suo ufficio di Dottore, apparso agli Apostoli su un monte della Galilea, disse loro queste parole: È stato dato a me ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque ad ammaestrare tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che Io vi ho comandato. Ed ecco che Io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo » (Matth. XXVIII, 16-20). Gli Apostoli e i loro successori si spargono nel mondo e ammaestrano gli uomini nelle verità divine; insegnano non le scienze umane, non la via che conduce alle ricchezze e agli onori, ma la scienza divina, la via che conduce a Dio. La dottrina che insegnano non è dottrina loro ma è dottrina di Cristo che manda e che parla per bocca loro. « Facciamo ufficio di ambasciatori di Cristo, come se Dio stesso vi esortasse per mezzo nostro » (I Ep. Cor., V, 20). E, secondo la promessa del divino Maestro, lo Spirito Santo stesso viene a insegnar loro tutte le cose, e a richiamare e far loro capire tutto ciò che Gesù insegnò (S. Giov., XIV, 26.). Onde Nostro Signore chiaramente aggiunge: « Chi ascolta voi ascolta me e chi disprezza voi disprezza me » (S. Luca, X, 6). È dunque Gesù che parla per bocca dei predicatori evangelici. Quindi, quando il Sacerdote offre il santo Sacrificio, quando rimette i peccati, quando amministra i sacramenti, quando predica il Vangelo, non è lui che parla od opera, è Gesù che vive in lui; e così il Sacerdote è un altro Cristo. Il che intenderemo anche meglio studiando il carattere sacerdotale.

Art. II. — GESÙ VIVE NEL SACERDOTE IN VIRTÙ DEL CARATTERE SACERDOTALE.

Essere ambasciatore di Cristo, parlare ed operare in suo Nome, sarebbe già alta e nobile missione. Ma il sacerdote è ancora qualche cosa di più: coll’ordinazione sacerdotale non solo riceve i mirabili poteri che abbiamo descritti, ma viene pure interiormente trasformato e consacrato in modo simile a quello onde sono consacrati il pane eucaristico e l’olio della cresima. È san Gregorio Nisseno che lo afferma, adoperando paragoni che non sono da prendersi alla lettera ma solo in senso analogico o proporzionale. « Il pane prima è pane comune; ma, santificato che sia dalla consacrazione, è detto e diviene veramente il corpo di Cristo. Parimenti l’olio mistico, parimenti il vino, cose di poco pregio prima della benedizione, santificati che siano dallo Spirito, operano e l’uno e l’altro mirabili effetti, Questa stessa virtù fa pure che il Sacerdote, per mezzo della consacrazione sacerdotale, diviene augusto e venerando e rimane separato dalla plebe. Ieri ancora confuso col popolo, passa tutto a un tratto ad essere direttore, capo, dottore di pietà, iniziatore agli arcani misteri. E tutto ciò avviene senza che nulla si cangi nel suo corpo e nel suo aspetto esteriore, ma una forza invisibile e la grazia gli hanno trasformato l’anima » (Per il giorno dei lumi, P. G. XLVI, 581.). Questa consacrazione che trasforma il Sacerdote non è se non il carattere sacerdotale che gli viene conferito, e che gli s’imprime nell’anima un indelebile sigillo spirituale. Sant’Agostino lo paragona all’impronta dell’imperatore incisa sulle monete e al segno corporale ond’erano in passato segnati i soldati. Questo carattere aderisce talmente all’anima che non ne può essere separato anche se il Sacerdote venga sventuratamente a perdere lo stato di grazia; egli è, a così dire, incorporato e vi resterà sino alla morte, anzi perfino nell’eternità. – Il carattere sacerdotale, dice san Tommaso (Summ. Theol. III p., q. 63, a, 3 e 4.) è una rassomiglianza col sommo sacerdote Gesù Cristo, è una vera partecipazione al suo Sacerdozio, che rende il Sacerdote simile a Cristo in quanto capo del Corpo mistico, e ne fa un altro Cristo, un riflesso della sacerdotale sua fisonomia. È questa la ragione per cui il Sacerdote può fare, sotto l’azione di Cristo, ma in modo vero e reale, gli uffici che il sommo Sacerdote Gesù fece sopra questa terra: è un altro Cristo e opera per la sua virtù e sotto la sua dipendenza. – Oh! quanto è eminente la dignità del Sacerdote! I Padri non temono di paragonarla alla dignità di Maria santissima. Colui che Maria generò nel suo seno, il Sacerdote lo produce sull’altare; Colui che Maria portò in braccio e diede al mondo, il Sacerdote lo porta in mano e lo dà alle anime; Colui che Maria offrì sul Calvario, il Sacerdote l’offre sull’altare. Onde possiamo dir coll’Olier (Traitè des SS. Ordres, 3 partie, ch. VI): « Dio ha fatto due prodigi nella Chiesa: il Sacerdote e la Vergine santissima ». Conviene quindi che la santità del Sacerdote si avvicini a quella di Maria.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (17)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (2)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (2)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

INTRODUZIONE

«Uno sguardo di teologo sopra una anima e una dottrina ».

I Ricordi che contengono la narrazione della vita e numerosi scritti di suor Elisabetta della Trinità, appena pubblicati, si sono diffusi in Francia, pur senza chiassosa propaganda, con una rapidità straordinaria: più di novantamila copie in meno di trent’anni; senza contare una dozzina di traduzioni in lingue straniere. Se ne sta compiendo, ora, anche la versione in cinese. Inoltre, innumerevoli testimonianze di riconoscenza sono giunte al Carmelo di Digione, dopo la lettura dei Ricordi, da tutte le parti del mondo e dagli ambienti più diversi: da semplici Cristiani, da anime religiose e contemplative, soprattutto, da numerosi sacerdoti e seminaristi, da eminenti teologi, da membri notevoli dell’Episcopato.

Nota – Ecco la date più importanti della sua vita:

Nata a Bourges il 18 luglio 1880

Battezzata il 22 luglio 1880. 1903.

Prima Comunione: 19 aprile 1891.

Prime grazie mistiche: ritiro del  gennaio 1899,

Entrata al Carmelo: 2 agosto 1901.

Vestizione: 8 dicembre 1901.

Professione perpetua: Epifania 1903

Entrata nella infermeria: marzo 1906

Sua Eminenza il Cardinale Mercier, nel suo viaggio di ritorno da Roma dopo la canonizzazione di santa Giovanna d’Arco, volle fermarsi in pellegrinaggio al Carmelo di Digione. Quando gli fu mostrato, al capitolo, un ritratto di suor Elisabetta della Trinità, chiese:

— Quanto tempo trascorse al Carmelo?

— Cinque anni, Eminenza — rispose la Madre Priora. E il Cardinale, abbozzando un sorriso: — Si diventa sante in fretta, qui. Entrando poi nella celletta della giovane carmelitana, trasformata in oratorio, lo stesso pensiero tornò sulle sue labbra: — Ha fatto presto, lei, a diventar santa; mentre noi ci trasciniamo. E i Ricordi furono, a più riprese, per l’illustre e santo Prelato, il suo libro preferito. In una riunione sacerdotale, raccomandandolo vivamente, espresse il desiderio che esso si trovasse nella biblioteca di tutti i suoi sacerdoti. A quali cause va attribuita una tale irradiazione? Appartiene alla Chiesa — e ad essa sola — pronunciarsi intorno alla santità dei servi di Dio; e fin d’ora ci inchiniamo filialmente e senza riserva al suo giudizio. Quanto a noi, ci siamo posti in altro punto di vista. Esaminando, nel Carmelo di Digione, la corrispondenza ivi ricevuta dopo la pubblicazione dei Ricordi, e moltiplicando nelle comunità religiose le indagini sulla natura dell’influenza esercitata da suor Elisabetta della Trinità,  si è venuta delineando una conclusione che ci si impone come un’evidenza di fatto: ciò che maggiormente ha colpito negli scritti della santa carmelitana, è il loro carattere dottrinale. Il P. Sauvé aveva ragione e non faceva che esprimere un’impressione generale quando scriveva: « Forse proprio per questo i Ricordi faranno il più gran bene ». E si potrebbero moltiplicare le testimonianze analoghe che confluiscono da scuole delle più diverse spiritualità (I « Ricordi » citano: il R. P. Foch, S. J. — Dom Vandeur, O. S. B. — il Ch. Sauvé, S. S. — il R. P. Luigi della Trinità, C. D. — Il R. P. Vallée, O. P. — alcuni Certosini, ecc.); ma due, fra tante, ci sembrano specialmente rivelatrici. Il R. P. Arintero O. P. scriveva al Carmelo di Digione, il 16 giugno 1927: «  Questo libro (i Ricordi) mi incanta per la sua bella dottrina che è destinata a fare un bene immenso alle anime… Ciò che ammiro soprattutto in questa Serva di Dio è il suo senso profondo dei grandi misteri della vita cristiana: della nostra incorporazione al Cristo del quale dobbiamo continuare la missione, dell’abitazione della Trinità nei nostri cuori… Questo senso dei grandi misteri, identico a quello dell’Apostolo, le ha dato di poter interpretare fedelmente i punti più belli delle grandi epistole di san Paolo. Quando suor Elisabetta le spiega nelle sue lettere familiari — sia pure soltanto di passaggio — spande torrenti di viva luce, attirando innumerevoli anime alla vita interiore… ». – S. E. Mons. Sagot, a sua volta, scriveva: « Ciò che mi sembra più notevole nella vita di suor Elisabetta è l’esatta conformità delle sue vedute, delle sue attrattive, della sua vita interiore, delle sue parole, coi principî più sicuri della teologia mistica. Ella non sa sottilizzare; non si lascia trasportare dall’immaginazione al di là degli spazi dove risiede la sana ragione illuminata dalla fede e vivificata dall’amore. Le considerazioni sottili, vaghe o nebulose, le sono estranee; poiché, essendo il suo pensiero sempre preciso, così è precisa l’espressione che spontaneamente le scorre dalla penna. Come bene conosce e penetra il senso delle sacre Scritture, e particolarmente delle Epistole del grande san Paolo, per il quale il suo cuore ardente nutre una predilezione che non ci sorprende! E come interessanti e giusti i commenti coi quali illumina gl’insegnamenti più sublimi di san Giovanni della Croce! Ma di chi sono queste dissertazioni condotte con tanta elevatezza e fermezza di spirito? Forse di un sacerdote abituato da lungo tempo allo studio della teologia e all’orazione mentale? In queste soluzioni semplici e luminose, ma insieme di una logica virile, si esiterebbe a riconoscere l’anima di una fanciulla, se il calore e la grazia di uno stile sempre delicato e puro, spesso gaio e vivace, non effondesse una soavità incomparabile su tutti gli scritti di Elisabetta. Questa cara giovane amava anzitutto, ad esempio, di santa Teresa, la vera, la forte, la bella dottrina » (da Ricordi). Questa « esatta conformità di vedute coi principî più sicuri della teologia mistica » è davvero la nota più caratteristica di tale spiritualità essenzialmente dottrinale. Ed è questa l’impressione dominante che sempre ci accompagnava nell’esame dei testi e dei documenti lasciati da suor Elisabetta della Trinità, impressione che ci ha determinato a tentare di scoprirne ed esplicarne il significato profondo. Vorremmo poter definire così questo nostro lavoro: uno sguardo di teologo sopra un’anima e una dottrina. Benché il nostro scopo principale non fosse di compiere un lavoro di storiografo, pure abbiamo cercato di mantenerci rigorosamente oggettivi nella interpretazione dei fatti. Non si trattava di costruire a priori una tesi mistica e di farvi entrare per forza delle testimonianze e dei documenti; ma piuttosto di rintracciare, con le leggi del metodo storico, il loro senso autentico, secondo le circostanze di tempo, di luogo, di destinazione, di ambiente religioso e sociale, e determinarne quindi l’integro significato in relazione alle condizioni psicologiche, alle influenze ricevute, umane o divine. Per garantire l’oggettività di questo sguardo, un lungo lavoro si imponeva, di documentazione e di ricerca positiva. Abbiamo confrontato tutti gli scritti sugli stessi autografi, eccettuata qualche rara lettera di cui, però, abbiamo potuto avere una copia che ci è stata accertata conforme all’originale. Abbiamo utilizzato numerosi testi che compaiono qui per la prima volta. Con la penna alla mano, abbiamo interrogato il maggior numero possibile di testimoni, particolarmente le tre amiche più intime di Elisabetta Catez prima della sua entrata in Convento; la sua stessa sorella, a lungo; alcune Religiose sue contemporanee al Carmelo, una delle quali le era unita da profonda amicizia; il suo confessore che la diresse dai 15 ai 21 anni; altre persone che la conobbero; un sacerdote della sua famiglia che l’aveva avvicinata molte volte; finalmente e sopra tutti, il testimonio più autorevole della sua vita: la madre Germana di Gesù, che durante tutto il soggiorno di suor Elisabetta al Carmelo di Digione, fu per lei Maestra delle novizie, prima, quindi Superiora. Quest’ultimo testimonio è di così straordinario valore, che merita una speciale menzione. Ora che una morte santa l’ha richiamata a Dio, sentiamo come un dovere di riconoscenza il bisogno di dire che nulla poteva esserci di più prezioso, per l’elaborazione di quest’opera, delle confidenze ricevute e delle lunghe ore d’intimità con madre Germana intorno a colei che fu veramente « la sua figliola ». L’abbiamo consultata su tutti i punti con la massima cura; e più volte abbiamo avuto l’inapprezzabile consolazione di trovare in lei conferma piena alle conclusioni che ci sembravano scaturire dalla attenta analisi dei documenti. Tutti i punti essenziali di questo libro furono fissati perfettamente d’accordo con lei. Terminato questo lavoro critico di discernimento, restava quello che era lo scopo primo, fondamentale dell’opera: rilevare, alla luce dei fatti e delle confidenze ricevute, il senso dottrinale della vita e degli scritti di suor Elisabetta della Trinità. Per rispettare anche qui una perfetta oggettività, bisognava sorprendere la dottrina di suor Elisabetta alla sua viva sorgente e seguirne lo svolgimento, il progresso. Bisognava cioè, secondo il buon metodo giungere a spiegare la dottrina attraverso la psicologia concreta di cui quella è il frutto. La dottrina mistica di suor Elisabetta della Trinità non è infatti l’esposizione astratta e didattica di un professore di teologia, ma è, prima di tutto, onda che zampilla da un’anima contemplativa. Il compito di una carmelitana non è di insegnare dottrinalmente le vie spirituali, ma di viverle nel silenzio di un’anima « tutta nascosta in Dio col Cristo » (Coloss. III, 3). Libero poi Lui, il Maestro, di far risplendere, quando gli piaccia, per l’utilità della sua Chiesa, le ricchezze dottrinali di una tale testimonianza. È così che irradia viva luce il messaggio dottrinale di santa Teresa di Gesù Bambino e, quantunque in altra maniera, senza magnificenza, ma con profondità, come addice ad un apostolo della vita interiore, anche quello di suor Elisabetta della Trinità. « Divisiones gratiarum, idem Spiritus » (I Cor., XII, 4). Ecco, quindi, la necessità di iniziare questo lavoro dottrinale, con un lungo capitolo preliminare che si presenti come lo schizzo di un’anima e ne segni le ascensioni, dai primi tocchi mistici all’età di 19 anni, fino alla consumazione dell’unione trasformante sulla croce. Esso mostra l’evolversi della sua dottrina mistica parallelamente al suo progresso. Senza un tale sguardo in quest’anima, sarebbe impossibile comprendere bene come la dottrina del silenzio non assuma in lei un valore di ascesi universale che dopo la sua entrata nella solitudine del Carmelo e dopo le purificazioni passive del noviziato; né si potrebbe capire come il mistero dell’inabitazione divina divenga, con un crescendo continuo, il punto centrico che tutto illumina nella sua vita, al quale ella fa risalire la sua vocazione suprema di « lode di gloria alla Trinità » ma nell’intimo, « nel cielo dell’anima sua ». – Dopo tutto questo, sempre rispettando con la massima cura gli aspetti storici dello svolgimento del suo pensiero, si rendeva possibile stabilire con certezza e precisione, su ogni punto di dottrina da analizzare, a quali principî della teologia mistica si riallacciassero i movimenti di quest’anima privilegiata, e quali aspetti del dogma avessero più profondamente alimentata la sua vita interiore (Lo stesso metodo teologico, misto, storico e dottrinale insieme, potrebbe essere applicato allo studio di tutte le vite dei Santi. Un lavoro di questo genere recherebbe, mi sembra, una sorgente di grandi tesori e una conferma preziosa alla teologia mistica. Con lo stesso procedimento — alla luce, cioè, dei princìpi direttivi della teologia mistica — sarebbe facile rilevare i grandi pensieri dottrinali di cui viveva l’anima di una S. Teresa d’Avila, di una S. Teresa di Gesù Bambino, di una S. Bernardetta, ecc., ecc…. I grandi mistici fornirebbero i casi di privilegio: una S. Caterina da Siena, una S. Margherita Maria, una Maria dell’Incarnazione. Un caso più complesso, particolarmente ricco, sarebbe quello di un Santo mistico e teologo insieme: un S. Giovanni della Croce. È tutto un mondo da esplorare; profitto immenso per il discernimento. Delle diverse correnti di spiritualità nella vita della Chiesa e per la storia della teologia mistica.). – Elevata dalla grazia nel ciclo della vita trinitaria, suor Elisabetta della Trinità ha vissuto sino in fondo il suo battesimo, secondo la forma propria della sua vocazione carmelitana. Tra le umane influenze ricevute, domina quella di san Giovanni della Croce; aveva assimilato i principî più elevati della sua teologia mistica nella lettura assidua del « Cantico » e della « viva fiamma ». Giovinetta e novizia, si era appassionata per le formule spirituali, un po’ oratorie, del Padre Vallée; ma presto le sorpassò per stabilirsi in Dio, al di sopra di tutte le formule umane, nella nudità della fede. Come in tutti i grandi artisti, si riscontra in lei una prima fase di imitazione un po’ servile dei modelli; poi una seconda di una specie di incertezza che corrisponde ai primi tre anni, durante il Noviziato, e sfocia d’un tratto nel magnifico periodo di creazione personale che stupendamente si annunzia con la sua sublime preghiera alla Trinità, scritta tutta di getto e senza correzioni. Ormai, lo Spirito Santo possiede in lei uno strumento perfetto. Ella canta l’inabitazione divina e la lode di gloria in uno stile che ha un’impronta inimitabile, definitiva, e la costituisce uno dei maestri spirituali della Francia. La meditazione delle Epistole di un san Paolo e delle opere mistiche di san Giovanni della Croce, le lunghe ore di silenzio contemplativo, hanno compiuto questo miracolo. Ma, sopra tutto, il Verbo è divenuto il Maestro interiore della sua vita; lo dice ella stessa: « Ciò che mi insegna nell’intimo, è ineffabile ». E nell’intimo, si cela la vera sorgente della sua dottrina e della sua vita. Fu l’ora del trionfo supremo della grazia nell’anima sua, fu il pieno fiorire in lei delle ricchezze trinitarie della sua vocazione battesimale. Il ritmo soave di questa vita « consumata nell’unità » (S. Giov. XVII, 26) si riduce ormai ad alcuni movimenti essenziali, sempre gli stessi, ma di un’estrema profondità. Ascesi del silenzio, inabitazione della Trinità e preoccupazione unica di lavorare « alla lode della Sua gloria », immedesimazione col Cristo e conformità alla sua morte, imitazione della vita silenziosa e adoratrice della Vergine dell’Incarnazione: questi furono i grandi pensieri dottrinali che avviarono rapidamente questa vita semplicissima, ma fedele, ai più alti gradi dell’unione divina. Sono le verità più fondamentali del Cristianesimo; e come è bello incontrare un’anima santa che si eleva fino a Dio senza miracoli, senza mortificazioni straordinarie (Questi particolari mi sono strati riferiti dalla sua stessa superiora), ma nella pura linea del battesimo e dell’obbedienza perfetta alla volontà divina, attraverso la banalità degli avvenimenti quotidiani! – Un monaco di Solesmes scriveva all’amica più intima di suor Elisabetta della Trinità: « Mi piacerebbe, ai suoi scritti il commento di un teologo ». Ed è proprio l’intento di questo libro, scritto per la gloria della Trinità.

S. Maximin, il 7 marzo 1937 –

Festa di san Tommaso d’Aquino.

Fr. Maria-Michele PHILIPON, O; P.

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (3)

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (15)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (16)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni

ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO I

Gesù nostro sommo sacerdote!

ART. III. — I NOSTRI DOVERI VERSO GESÙ SACERDOTE E VITTIMA.

Il primo di questi doveri, quello che compendia tutti gli altri, è di unirci spesso a questo Sommo Sacerdote con una specie di comunione spirituale, intima ed abituale quanto più sia possibile alla nostra debolezza, entrando nel suo spirito di sacrificatore e di vittima, vale a dire offrendoci, immolandoci, consumandoci di amore con lui. Il che ci riesce anche più facile perché, in tutti questi atti, Gesù non solo è nostro modello ma anche nostro collaboratore. E ne verrà una confidenza assoluta nel nostro Sommo Sacerdote.

1) Dunque, prima di tutto viviamo in una specie di comunione abituale con lui.

A) Nostro Signore, come osserva l’Olier Cathec. Chret., 1° parte, lez. 20), nel giorno santissimo dell’Incarnazione, offrì al Padre tutta la vita sua e quella di tutti i suoi membri, e continua quest’offerta nel cielo e nell’Eucaristia. Né poteva essere altrimenti: essendo il capo di un corpo mistico di cui noi siamo le membra, Gesù opera sempre non solo in nome suo ma anche in nome nostro, e causa in noi, se corrispondiamo alla sua grazia, disposizioni simili alle sue. « Si offre sempre a Dio in sé e in tutti i suoi membri, in tutte le occasioni che hanno di servirlo, di onorarlo e di glorificarlo. Nella divina sua Persona, Nostro Signore è un altare su cui tutti gli uomini sono offerti a Dio con tutte le loro azioni e tutti i loro patimenti; è questo quell’altare d’oro ove si consuma ogni sacrificio perfetto; la natura umana di Gesù Cristo e quella di tutti i fedeli ne sono la vittima; il suo Spirito ne è il fuoco; e Dio Padre è Colui a cui il sacrificio viene offerto e che vi è adorato in ispirito e verità! », – Quanto è consolante questa dottrina! Le azioni nostre e i nostri patimenti sono certo offerta ben poco degna dell’infinita Maestà di Dio, ma ecco che il nostro Sommo Sacerdote li presenta egli stesso insieme coi suoi, li avvalora col valore dei suoi meriti e delle sue soddisfazioni; e Dio, per ragione del suo Figlio, li guarda benignamente, li accetta e ci dà in ricambio copiosissime grazie. Ecco perché dobbiamo non solo operare, ma, come dice Bossuet (Sermon sur l’Ascension, p. 534-535, ed. Lebarcq.), anche pregare con Gesù Cristo: « Gesù è il Mediatore generale; nessuno è accetto se non viene presentato per mano sua; se la preghiera non è fatta in nome suo, non sarà neppur ascoltata; nessun beneficio viene concesso se non per Lui… per cui tutte le preghiere sono esaudite, per cui tutte le grazie sono firmate, per cui tutte le offerte son bene accolte, per cui tutti coloro che vogliono accostarsi a Dio sono sicurissimi di essere ammessi… Onde io non temerò di asserire che, sebbene la Chiesa di Dio sulla terra e gli spiriti beati nel cielo preghino assiduamente, non c’è che Gesù Cristo solo che sia esaudito, perché tutti gli altri non lo sono che per riguardo suo ».

B) Dobbiamo pure immolarci con Lui e per Lui: perché nell’Orto degli Ulivi e sul Calvario Egli ci immolò tutti con sé. Gesù aveva predetto che, innalzato che fosse da terra (alludendo al supplizio della croce – S. Giov. XII, 32), avrebbe tratto tutto a sé. La profezia si è avverata: vedendo ciò che fece e patì per loro, i cuori generosi s’infiammano di amore per il divino Crocifisso e quindi per la sua croce; anch’essi, nonostante le ripugnanze della natura, portano valorosamente le loro croci interiori ed esteriori, sia per rassomigliare di più al divino Maestro, sia per dimostrargli il loro amore patendo con Lui e per Lui, sia per avere più larga parte ai frutti della redenzione e collaborare con Lui alla santificazione dei fratelli. È ciò che si vede nella vita dei Santi, che corrono dietro alle croci con maggiore avidità che non i mondani dietro i piaceri. Noi, che non siamo santi, abbiamo, ahimè! orrore dei patimenti e delle umiliazioni. Rammentiamoci che il divin nostro Capo fu incoronato di spine e inchiodato alla croce, e diciamo a noi stessi: sta forse bene che un discepolo, che un membro vivente di Cristo sia nelle delizie e vada in cerca di applausi, quando il nostro Salvatore è disteso sulla croce? Non volge Egli forse a tutti i Cristiani quell’invito: « Chi vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua? » (S. Matt., XVI, 24.) Non ci sono due vie per andare al cielo, una seminata di rose e l’altra di spine; non ce n’è che una sola per tutti i Cristiani, senza distinzione, ed è la via della croce, dove crescono le spine; sebbene ogni tanto il Signore vi faccia fiorir qualche rosa per sollevar la nostra debolezza, e alleviare i nostri dolori, versandoci in cuore il suo amore. Se vi fosse stata un’altra via, Nostro Signore ce l’avrebbe insegnata; ora non ce ne indicò altra da quella che tenne Egli stesso. Gli Apostoli intesero così bene questa verità, che ci dicono, con San Paolo, che « se vogliamo aver parte alla sua gloria, è necessario aver parte ai suoi patimenti:  « si tamen compatimur, ut et conglorificemur » Rom. VIII, 17); con S. Pietro, che « se Cristo ha patito per noi, lo fece perché anche noi seguiamo le sue orme » (I Piet. II, 21); con S. Giovanni, che, « avendo Gesù data per noi la sua vita, anche noi dobbiamo esser pronti a dare la nostra pei nostri fratelli » (I Ep. S. Giov., III, 16), a dare cioè le nostre fatiche, i nostri sudori, le nostre sostanze per il nostro prossimo. Chi vuol vivere nelle delizie, è discepolo di Epicuro, non di Gesù Cristo. E che vuol dire immolarsi? Vuol dire operare per dovere e non per piacere, vuol dire fare la volontà di Dio e non la nostra, vuol dire adempiere i doveri del nostro stato e non seguire i nostri capricci, vuol dire insomma praticar le virtù cristiane. Infatti, come dice l’Olier, i chiodi di cui Gesù si serve per attaccarci alla croce accanto a Lui, « sono le virtù che infrenano il nostro amor proprio e i nostri desideri sensuali ». La croce che dobbiamo portare non è dunque lontana da noi, è vicina a noi, è in noi; e vivere da Cristiani è imitare Gesù Cristo, è partire con Lui, onde morire con Lui e risuscitare con Lui.

C) La risurrezione è infatti il fine a cui dobbiamo tendere, come sarà la ricompensa dei nostri sforzi e dei nostri patimenti: risurrezione del corpo alla fine dei tempi, ma specialmente risurrezione spirituale che si viene quotidianamente compiendo. È il fuoco dell’amor divino quello che, consumando tutte le imperfezioni e tutte le impurità dall’anima nostra, la verrà sempre più spiritualizzando e la farà entrare in comunione con le disposizioni e con le virtù di Gesù; ed è pur questo fuoco quello che ci rende più facile il grande dovere dell’immolazione. È da molto tempo che sant’Agostino disse che, quando si ama non si patisce, o, se si patisce, torna dolce il patire. Osservate quella madre che passa le lunghe notti al capezzale del figlio infermo, colla speranza, colla brama ardente di salvargli la vita. Si direbbe che non sente la fatica, perché ama il figlio, lo ama teneramente, generosamente, e, per salvargli la vita, è pronta a qualunque sacrificio. Avviene lo stesso in noi. Quando teneramente e generosamente amiamo Gesù, sacerdote e vittima, vogliamo assomigliargli in tutto, anche nello spirito di sacrificio. Vengono le malattie, vengono i dolori fisici e morali, vengono gli infortuni, le disdette, le umiliazioni, le contraddizioni, le persecuzioni, la povertà: e noi diamo uno sguardo al divino Crocifisso, ci distendiamo amorosamente sulla croce accanto a Lui, e dal fondo dell’anima ripetiamo con san Paolo: « Chi ci separerà dall’amore di Cristo? La tribolazione o l’angustia o la persecuzione o la fame o la nudità o il pericolo o la spada?… Ma in tutte queste cose noi stravinciamo coll’aiuto di Colui che ci amò. Sono certo infatti che né la morte né la vita, né il presente né il futuro… né altra creatura alcuna potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù Signor Nostro ». (Rom., VIII, 35).

2) Da questa comunione sorgerà una confidenza assoluta nel nostro Sommo Sacerdote.

A) San Paolo vi ci invita premurosamente: Appressiamoci dunque con fiducia al trono della grazia per ottener misericordia e trovar grazia ad aiuto opportuno ». (Ebr., IV, l6). E difatti Gesù, nostro sacerdote, non è nostro giudice ma nostro Salvatore: venne, non per condannarci, ma per perdonarci. Persuaso che sono gl’infermi che hanno bisogno del medico, va difilato ai peccatori per guarirli delle loro piaghe spirituali. È la sua preveniente bontà che va incontro alla Samaritana e la converte; è lei che perdona alla donna peccatrice i molti suoi falli; che prega sulla croce per i carnefici e che perdona al ladrone pentito. Occorrendo, Gesù lascia le novantanove fedeli pecorelle per correre dietro alla pecorella smarrita e riportarla sulle spalle all’ovile. A tutti quelli che soffrono offre consolazione e forza: « Venite a me, o voi tutti che siete stanchi ed oppressi, ed io vi ristorerò » (S. Matt,, XI, 28).

B) Questa confidenza la mostreremo specialmente quando vorremo glorificar Dio, chiedere le grazie di cui abbiamo così urgente bisogno e praticare le cristiane virtù.

a) Quando vogliamo adorare, amare, lodare e ringraziare Dio, sentiamo la nostra impotenza a farlo degnamente. Ebbene, perché non far nostri sentimenti di adorazione, di amore, di lode e di ringraziamento che Gesù offre al Padre per noi? Sono sentimenti che ci appartengono, perché Gesù è nostro sacerdote, nostro mediatore di religione, nostro supplemento. Non abbiamo da far altro che appropriarceli per offrirli a Dio e Dio sarà glorificato come si merita. – Non c’è, dice l’Olier (Cath. Chret. 2 p.., l. XI), nulla di più facile: « Sappiate che Nostro Signore è dentro di noi e ci aspetta a braccia aperte: non si ha che da cercarlo con tutta semplicità e darsi a Lui… Dice a tutti per bocca di David: Magnificate il Signore con me ed esaltiamo il suo nome tutti insieme. Non abbiamo quindi che a dirgli senz’altro: O Signor mio Gesù Cristo, che siete la mia lode, io mi compiaccio e godo di tutte le lodi che date a Dio vostro Padre, mi unisco e mi dò a voi, per adorarlo e pregarlo per voi e con voi; non voglio esser che una sola ostia di lode con voi per glorificar Dio per tutta l’eternità. E basta purché abbiamo in cuore l’affetto e il desiderio che gli esprimiamo colle parole ». –

b) Parimenti, quando si tratta di ottener grazie, non sappiamo neppure quello che dobbiamo chiedere né come dobbiamo chiedere; ma ecco che lo Spirito di Gesù, sommo Sacerdote, viene in aiuto alla nostra infermità e chiede per noi ciò che è più utile alla nostra santificazione con gemiti inesplicabili (Rom. VII, 25). Ora le preghiere di Gesù sono sempre esaudite. Possiamo quindi ottener tutto, purché lo domandiamo in suo nome, vale a dire uniti a Lui: « In verità, in verità, vi dico: quanto chiederete al Padre in nome mio, ve lo concederà (S. Giov., XVI, 23).

c) Continuamente ostacolati dalle tentazioni, dalle insidie del nemico e dalla propria incostanza, noi ci sentiamo incapaci di far progressi nella pratica delle cristiane virtù, Ma Gesù, sommo Sacerdote, sarà per noi, secondo l’espressione di S. Teresa del Bambin Gesù, l’ascensore che ci solleverà nelle sue braccia su fino a Dio. La qual cosa l’Olier esprime in altra guisa dicendo (l. c. 2° p. l. V): « Badiamo sempre a questa grande verità che Gesù è in noi per santificarci, è in noi e nelle opere nostre, e tende a riempir di sé tutte le nostre facoltà; vuol essere la luce delle nostre menti, l’amore e la fiamma dei nostri cuori, la forza e la virtù di tutte le nostre potenze, onde in Lui possiamo conoscere, amare e adempiere i voleri del Padre suo, sia per operare in suo onore, sia per patire e sostenere ogni cosa a gloria sua ». Badiamo però di non concluderne che diventi utile ogni sforzo da parte nostra. Per unirci a Gesù, nostro sacerdote, per fare nostri i suoi sentimenti e le sue virtù, bisogna staccarci da noi stessi e dalle creature, disciplinare le nostre facoltà, metterle nelle mani di Gesù, collaborare con Lui alla preghiera e alla pratica delle virtù. Potremo allora dire con San Paolo: « Non sono io pero, è la grazia di Dio con me » (1 Cor., XV, 10). – Sorretti allora dal divin Crocifisso, offriremo di gran cuore con Lui e il nostro corpo e l’anima nostra, con Lui porteremo da forti tutte le croci che gli piacerà di mandarci, con Lui ameremo ogni di più il Signore.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (16)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (1)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Tu puoi credere alla mia dottrina, perché non è mia

(alla mamma, giugno 1906)

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

DICHIARAZIONE

Autore ed editore dichiarano di sottomettersi pienamente ai decreti d’Urbano VIII del 13 marzo 1624 e 4 giugno 1631, e di non volere prevenire, in qualsiasi modo, il giudizio della Chiesa.

Nihil obstat: Sac. Tullus Goffi Can. Brixiæ, 22-XI-1956

Imprimatur: Angelus Bertelli, V. G. Brixiæ, 4-XII-1956

Tipografia Editrice « Morcelliana » – Brescia

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A JANUA CŒLI «PORTA DEL CIELO » PER LA QUALE CONTINUA L’ASCESA DELLE ANIME VERSO LA TRINITA’

OMAGGIO FILIALE

« Questo mistero dell’abitazione della SS. Trinità nel più intimo del suo essere, fu la grande realtà della sua vita interiore ».

R. GARRIGOU LAGRANGE

Le verità più elementari della fede, come quelle espresse nel Pater, ci appaiono le più profonde, quando si sono meditate a lungo, con amore, quando si sono vissute portando la croce, per lunghi anni, così che sono divenute oggetto di una contemplazione quasi ininterrotta. Basterebbe ad un’anima vivere profondamente una di queste verità della nostra fede, per essere condotta fino alle vette della santità. – Fra queste verità, bisogna mettere in prima linea quella della presenza particolare di Dio nell’anima dei giusti, secondo la parola di Gesù: « Se alcuno mi ama, osserverà i miei comandamenti; e il Padre mio l’amerà; e noi verremo in lui, e porremo in lui la nostra dimora » (Giov. XIV, 23). Con queste parole, e promettendo di inviarci lo Spirito Santo, nostro Signore ci ha insegnato che la vocazione più fondamentale di ogni anima battezzata, è di vivere in società con le Persone stesse della Trinità santa. Allora realmente si può dire, secondo la espressione sovente ripetuta da san Tommaso, che la vita cristiana è, fin dalla terra, in un certo senso, la vita eterna incominciata: « Quædam inchoatio vitæ aeternæ ». La grazia del battesimo ci dona una vera partecipazione alla natura divina, quale sussiste in seno alla Trinità. Dio ci ha amati nel Figlio suo, fino a volerci partecipi del principio stesso della sua vita intima, del principio della visione immediata che Egli ha di Se stesso, e che comunica al Verbo e allo Spirito Santo. In tal modo, i  giusti entrano nella famiglia di Dio e nel ciclo della vita trinitaria. – La fede viva, illuminata dal dono della sapienza, li assimila alla luce del Verbo; la carità infusa li assimila allo Spirito Santo. Il Padre genera in essi il suo Verbo, in essi il Padre e il Figlio spirano l’Amore sostanziale che li unisce. In ciascuno dei giusti, la Trinità abita come in un tempio vivente; in un tempio oscuro quaggiù; in una luce senz’ombre e in un amore senza fine in cielo. – La serva di Dio Elisabetta della Trinità fu una di queste anime luminose ed eroiche che sanno attaccarsi fortemente ad una delle grandi verità della fede, le più semplici e le più vitali e, sotto le apparenze di una vita ordinaria, sanno trovarvi il segreto di una profonda unione con Dio. – Questo mistero dell’abitazione della Trinità santa nel più intimo del suo essere, fu la grande realtà della sua vita interiore. Non diceva ella stessa: « La Trinità! Ecco la nostra dimora, la nostra cara intimità, la casa nostra paterna donde non bisogna uscire mai… Ho trovato il mio cielo sulla terra, poiché il cielo è Dio, e Dio è nell’anima mia. Il giorno in cui l’ho compreso, tutto si è illuminato in me… » ? – Il pernio di questa vita soprannaturale è chiaro che si trova nell’esercizio delle virtù teologali. La fede è la luce soprannaturale che ci rende atti a ricevere la rivelazione del mondo divino. La speranza, appoggiandosi sull’onnipotenza soccoritrice di Dio, ci fa tendere con intima certezza verso l’eterna beatitudine. La carità ci stabilisce immutabilmente nell’amicizia e nella società delle divine Persone, secondo la dottrina dell’apostolo san Giovanni: « Dio è amore. Chi rimane nell’amore, rimane in Dio, e Dio in lui ». In fondo, è la stessa vita soprannaturale che comincia sulla terra col battesimo, e fiorirà in cielo, nella visione beatifica. – La fede è alla base di tutta questa attività nuova; è la «sostanza », il principio, il germe « delle cose che speriamo » e che contempleremo un giorno svelatamente. Il minimo raggio di fede è dunque infinitamente superiore alle intuizioni naturali dei più grandi genî e degli stessi Angeli più sublimi; e del medesimo ordine della visione beatifica, ordine essenzialmente soprannaturale; perciò, la fede viva, illuminata dai doni dell’intelletto e della sapienza, è la sola luce proporzionata a questa vita d’intimità con le Persone divine. – Così, suor Elisabetta della Trinità ci si manifesta innanzi tutto come un’anima di fede, in comunione sempre più intima col mondo invisibile, a misura che, sotto la mano di Dio, le purificazioni dei sensi e dello spirito si susseguono, attraverso gli avvenimenti della sua esistenza. Da vera figlia di san Giovanni della Croce, si rendeva conto della parte importantissima che ha la fede nell’ordine soprannaturale. « Per avvicinarsi a Dio —. scriveva — bisogna credere ». « La fede è sostanza delle cose che dobbiamo sperare e convinzione di quelle che non ci è dato vedere ». San Giovanni della Croce dice che « la fede è per noi il piede che ci porta a Dio; anzi, è il possesso di Dio nell’oscurità. Soltanto la fede può darci lumi sicuri su Colui che amiamo; e l’anima nostra deve sceglierla come il mezzo per giungere all’unione beatifica ». Senza trascurare la pratica delle virtù morali, si applicò con sempre maggior diligenza all’attività interiore delle virtù teologali. « La mia sola occupazione è rientrare nell’intimo mio e perdermi in Coloro che vi abitano ». – Ma la fede, la speranza e la carità non possono raggiungere la loro pienezza senza una speciale assistenza di Dio; e la via mistica è caratterizzata appunto dall’azione sempre crescente e predominante dei doni dello Spirito Santo. Le virtù teologali, infatti, quantunque superiori ai doni che le accompagnano, ricevono da questi una perfezione nuova, come l’albero è più perfetto coi suoi frutti che privo di essi. San Tommaso insegna che colui il quale non possiede ancora se non imperfettamente un principio di azione, non può agire come sì conviene, senza essere aiutato da un agente superiore. Nella vita spirituale, il principiante ha bisogno di avere vicino a sé un maestro esperto, proprio come lo studente in medicina o in chirurgia ha bisogno di essere diretto dal maestro che lo forma. Ora l’anima del giusto, pur possedendo le virtù teologali e morali, non possiede però ancora se non imperfettamente quella vita divina della grazia che la introduce nella famiglia della Trinità. Bisogna dunque che le divine Persone stesse vengano ad aiutarla, secondo le parole di san Paolo ai Romani: « Tutti quelli che sono condotti dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio » (Rom. VIII, 14). Bisogna vivere nell’intimità delle divine Persone, non alla maniera di creatura umana, ma alla maniera di Dio, per essere « perfetti come il Padre celeste che è perfetto ». Come giudicare delle cose tutte, divine ed umane, nel modo in cui le giudica Dio stesso, senza una comunicazione speciale della scienza e della sapienza divina? Come, in mezzo alle situazioni spesso inestricabili della vita quotidiana, prendere una decisione rapida che coincida col piano della Provvidenza, senza una speciale mozione del dono del Consiglio? Come, infine, restare indissolubilmente uniti alla divina volontà, tra le difficoltà a volte tremende della vita, senza un’assistenza speciale della forza stessa di Dio, sola capace di trionfare di tutte le potenze del male? – Questi doni dello Spirito Santo, poi, si manifestano con infinita varietà nel mondo delle anime, secondo le circostanze in cui Dio le pone e secondo la loro missione. In alcune si notano maggiormente i doni intellettuali, in altre quelli del timore, della pietà, della forza; e la loro azione ha toni e sfumature infinite. Inoltre, uno stesso dono assume forme diverse secondo i santi. Negli uni, come in un sant’Agostino, la sapienza si manifesta prevalentemente in forma contemplativa; in altri, come in un san Vincenzo De Paoli, in forma pratica, tutta orientata verso le opere di misericordia. Ai primi lo Spirito concede di penetrare nelle profondità di Dio gustandole ineffabilmente, e di luminosamente esprimerle; agli altri fa vedere, quasi sotto una luce diffusa, le membra sofferenti di Cristo e ispira come dedicarsi efficacemente alla loro salvezza. Nella Serva di Dio di cui si parla in queste pagine, colpisce il grado elevato dei doni dell’intelletto e della sapienza che le danno una così grande penetrazione del mistero della Trinità e glielo fanno così profondamente gustare, in maniera quasi continua. – Anche prima della sua entrata al Carmelo, era tutta compresa della presenza delle divine Persone nel profondo dell’anima sua. Al termine della vita, nella festa dell’Ascensione, l’ultima che passò sulla terra, a tal punto sentì che la Trinità santa prendeva possesso dell’anima sua, che intravide le tre Persone divine tenere in lei il loro consiglio d’amore; e da quel giorno, quando le veniva raccomandata qualche particolare intenzione, rispondeva: « Ne parlo subito al mio onnipotente Consiglio ». La vigilia della sua morte, ella poteva scrivere in tutta verità: « Credere che un Essere che si chiama l’Amore, abita in noi tutti gl’istanti del giorno e della notte e ci chiede di vivere in società con Lui, è, ve lo confido, ciò che ha fatto della mia vita un Paradiso anticipato ». – Restiamo pure ammirati nel vedere a quale grado ella ricevette il dono della forza. Si può constatarlo ad ogni passo, nella fermezza con la quale la Serva di Dio accettava le più dure prove, particolarmente durante la sua malattia. Non potendo darsi alle mortificazioni straordinarie che l’obbedienza alla sua superiora le proibì sempre, ella passò coraggiosamente, senza piegare mai, durante tutto un lungo e penoso anno di noviziato, attraverso alle dolorose e inevitabili purificazioni passive di una sensibilità ancora troppo viva. Percorse valorosamente il cammino della notte oscura, sempre più rifugiandosi nella nuda fede, non cessando di elevarsi a Dio, al di sopra di tutte le sue grazie e di tutti i suoi doni. Ma soprattutto nel corso dell’ultima malattia, si rivelò stupendamente in lei il dono della fortezza. Mentre tutto il suo essere andava consumandosi, l’anima rimaneva immutabile, sotto le purificazioni divine più crocifiggenti, immobile al di sopra della stessa sofferenza, per non pensare, in ogni gioia ed in ogni dolore, che al suo ufficio di « lode di gloria della Trinità ». Ella ricorda con quale divina maestà Cristo Re coronato di spine ha salito il Calvario; e proprio un riflesso di tale maestà si ritrova in questa coraggiosa sposa del Salvatore che ha lavorato con Lui, in Lui, per Lui, con gli stessi mezzi usati da Lui, per la salvezza delle anime. Dio ha veramente esaudito il suo supremo desiderio: « Morire, non solo pura come un Angelo, ma trasformata in Gesù Crocifisso ». – Finalmente, una delle note più caratteristiche della fisionomia spirituale di suor Elisabetta della Trinità è certamente il suo senso dottrinale, alimentato alle migliori sorgenti del pensiero cristiano, nei suoi due Maestri preferiti: san Paolo, l’apostolo del mistero di Cristo, e san Giovanni della Croce, il dottore mistico del Carmelo. Senza essere teologo nel senso formale della parola, essa, la vera figlia di santa Teresa, aveva il gusto della soda dottrina; e sapeva farne l’alimento sostanziale della sua vita interiore, assaporando, nel silenzio e nell’orazione, le grandi verità della fede, sotto la luce di vita che cresce in noi con l’amore di Dio e delle anime. Occorreva dunque rilevare, alla luce dei principî direttivi della teologia mistica, i movimenti essenziali di questa anima contemplativa, e discernere le verità fondamentali di cui ha vissuto la serva di Dio, secondo la sua grazia personale, in una forma carmelitana. Dopo aver segnato le tappe principali della sua ascesa, era di sommo interesse mettere in risalto i punti della dottrina di cui la sua vita spirituale si era specialmente nutrita: l’ascesi del silenzio, l’inabitazione della Trinità, la lode di gloria, la conformità al Cristo; come pure la sua devozione tutta personale alla Vergine della Incarnazione, l’azione dei doni dello Spirito Santo in lei, il senso profondo della sua preghiera divenuta celebre, e della sua missione.

Il Padre Maria-Michele Philipon ha scritto queste pagine dopo avere a lungo meditato la vita e gli scritti di suor Elisabetta della Trinità. Se ne è veramente compenetrato per molti anni, e ha cercato di spiegarli alla luce dei principî della teologia, quali sono formulati da san Tommaso e applicati alla direzione delle anime contemplative da san Giovanni della Croce. Egli ha compiuto questo lavoro con una grande pietà e un senso dottrinale che gli hanno permesso di mantenere lo slancio soprannaturale e insieme la giusta misura, l’equilibrio, in questi problemi così delicati, specialmente dove la serva di Dio ha dovuto praticare simultaneamente virtù in apparenza contrarie: la forza e la dolcezza, la prudenza e la semplicità, la compassione per gli erranti e i peccatori e insieme lo zelo ardente per la gloria di Dio.

Sarà letto con grande profitto, questo studio illuminato e profondo, in cui la teologia « della grazia delle virtù e dei doni » si manifesta in maniera concreta e vivente, svelando le ricchezze in essa contenute. Possa la SS. Trinità ricevere da questo libro un nuovo raggio di gloria! E le anime che lo leggeranno vi attingano la vera umiltà così intimamente connessa con le virtù teologali che ci danno il senso delle alte cime. Quanti poveri esseri umani, fatti per la vita immortale e per la società con le divine Persone, si trascinano nella agitazione sterile di un mondo disorientato! Si degni, il Signore, far trovare a molti, in queste pagine, l’orientamento per dirigersi e riconquistare la via della verità che conduce all’intimità divina, alla « luce di vita » che mostrandoci «l’unico necessario » tutto illumina dall’alto.

Roma-Angelico, 12 luglio 1937.

Fr. Recinaldo Garrigou-Lagrange, O. P.

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (2)

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (14)

ADOLFO TANQUEREY

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE CHE GENERANO NELL’ANIMA LA PIETÀ (14)

Vers. ital. di FILIPPO TRUCCO, Prete delle Missioni

ROMA DESCLÉE & C. EDIT. PONTIF. – 1930

NIHIL OBSTAT – Sarzanæ, 8 Maji 1930 J. Fiammengo, Rev. Eccl.

IMPRIMATUR Spediæ, 8 Maji 1930 Can, P. Chiappani, Del. Generalis.

SECONDA PARTE

CAPITOLO I

Gesù nostro sommo sacerdote!

ART. II- GESU SACRIFICATORE E VITTIMA

Negli antichi sacrifici il sacerdote era distinto dalla vittima. Nei sacrifici cruenti, considerati come i più perfetti, si sceglieva per vittima un essere vivente, specialmente un animale domestico, il quale, appartenendo all’uomo, gli si poteva più legittimamente sostituire. Veniva dapprima offerto a Dio col separarlo da ogni uso profano e consacrarlo al servizio e all’onore della divinità. Poi era immolato, per indicare che il peccatore, avendo offeso Dio, non ha più il diritto di vivere e merita la morte. Bruciata, in certi sacrifici, una parte della vittima, si mangiava l’altra, per mettersi, a questo modo, in comunione colla vittima e per lei colla divinità. L’unione con Dio, rotta dal peccato, era dunque, dopo la glorificazione della divinità, lo scopo a cui tendeva il sacrificio. – Il sacrificio era dunque costituito da tre atti principali: l’offerta, l’immolazione, la comunione, che era anche detta consumazione. Questi antichi sacrifici non erano che figure e simboli che preparavano il vero sacrificio, quello che doveva essere offerto dall’Uomo-Dio, dal sommo sacerdote della nuova Legge, per glorificare Dio e salvare i fratelli. Ora, avendo Dio diritto ad ossequi infiniti, a porgerglieli e a riparare l’offesa fattagli col peccato, occorreva un Sacrificio di valore morale infinito. Perché tale fosse il suo sacrificio, Gesù, nostro sommo Sacerdote, volle esserne non solo il sacrificatore ma anche la vittima; onde, sotto questo doppio aspetto, il sacrificio da lui offerto venne veramente ad avere un valore infinito. Infatti la dignità di un sacrificio dipende dalla dignità della persona che l’offre e della vittima che viene offerta: ora Gesù, sacerdote e vittima, è Uomo-Dio, cioè Persona infinita. Il che ci si farà anche più chiaro se considereremo a parte ognuno dei tre grandi atti che costituiscono questo sacrificio: l’offerta, l’immolazione e la consumazione o comunione.

1° L’offerta della vittima.

A) II Figlio di Dio, come già sopra dicemmo, fu costituito sommo Sacerdote in quello stesso istante in cui s’incarnava nel virgineo seno di Maria. Ben sapendo che i sacrifici dell’antica Legge non potevano glorificar suo Padre come si merita, gli si presenta dinanzi e si offre vittima, prendere il posto di tutti gli antichi olocausti: Non volesti né vittime né offerte, mi formasti invece un corpo… Allora dissi: ecco io vengo a fare, o Dio, la tua volontà » (Hebr. X, 5-9). E comincia così il primo sacrificio degno veramente di questo nome: sull’altare purissimo del seno di Maria il Verbo incarnato offre, come sacrificatore, una vittima: se stesso. Offre il suo corpo, che un giorno immolerà sulla croce e che intanto sacrificherà colla pratica della mortificazione. Offre la santa sua anima con tutti i suoi pensieri, i suoi desideri, i suoi affetti, i suoi voleri, che assiduamente immolerà colla spada dell’ubbidienza fino al dì che compirà sul Calvario il suo Sacrificio con un atto supremo di ubbidienza e di amore.

B) Tutta la sua vita è ormai rivolta a quell’immolazione finale che costituirà l’atto essenziale del suo Sacrificio; onde l’autore dell’Imitazione dice che fu un perpetuo martirio: « Tota vita Christi crux fuit et martyrium ». Gesù è già martire nella piccola prigione del seno di Maria ove se ne sta rinchiuso per nove mesi. Là il primo suo sguardo è per il Padre, cui assiduamente offre, in nome suo e nostro, i più perfetti atti di religione: l’adorazione, la lode, la riconoscenza, l’amore; e vi aggiunge l’espiazione in nome degli uomini suoi fratelli. Il secondo suo sguardo è per tutti i suoi fratelli: sguardo di commiserazione e di amore pei peccatori, che viene a salvare a costo dei suoi sudori e del suo sangue; sguardo di affettuosa tenerezza pei giusti, che già ama come membra del suo Corpo mistico e in cui vuol crescere e divenir adulto, onde comunicar loro i tesori della sua vita divina. Per gli uni e per gli altri offre ardenti suppliche che non possono non essere esaudite a causa della dignità della sua persona, « exauditus est pro sua reverentia » (Hebr. V, 7). Ecco le sue occupazioni per nove mesi. C’è forse bisogno di aggiungere che l’umile Vergine, che lo porta in seno, si associa alle sue adorazioni e alle sue Preghiere, e inizia così il suo ufficio di collaboratrice secondaria nell’opera della redenzione, il suo ufficio di mediatrice universale di grazia? – I nove mesi sono ormai trascorsi e il Verbo fatto carne compare finalmente agli occhi degli uomini. Si daranno essi premura di accoglierlo? San Giovanni fa questa mesta osservazione, che i suoi, quelli stessi che costituivano il popolo eletto, non l’accolsero: « In propria venit et sui eum receperunt? »; e san Luca fa dolorosamente rilevare che nasce in una Stalla, perché per sua Madre e per Lui non c’era posto nell’albergo: «Quia non erat eis locus in diversorio ». Nel suo ingresso nel mondo, deve dunque patire il freddo della stagione, le privazioni della povertà, e, che è più, l’ingratitudine degli uomini. – E continuerà ad esser vittima: nel giorno della circoncisione versa le prime gocce di sangue per affermare la sua volontà di versarlo un dì tutto per noi. Perseguitato da Erode, è costretto a prender la via dell’esilio; e quando, dopo la morte del tiranno, torna in Palestina, va a rinchiudersi in una casetta di Nazareth, ignoto paesello della Galilea, e vi passa trent’anni nell’oscurità, nell’ubbidienza, nel lavoro manuale, tanto che i suoi compatrioti lo considerano come un falegname ordinario. – La sua vita pubblica non sarà, salvo poche gioie  e qualche passeggero trionfo, che un lungo martirio. Subito, fin da principio gli Scribi e i Farisei lo inseguono coi loro sospetti, colla loro gelosia, e presto col loro odio; gli tendono continuamente insidie; e lavorano a screditarne l’autorità presso il popolo e ad ostacolarne l’apostolato. Riesce, è vero, a farsi alcuni discepoli e a convertire alcuni peccatori insigni, ma il grosso del popolo rimane indifferente ed ostile, perché, aspettandosi un Messia glorioso e potente, non può ravvisarlo in quel piovane Rabbi così umile, così modesto, che, in cambio di bazzicar coi grandi e preparare il trionfo temporale suo popolo, frequenta i piccoli, gli afflitti, i poveri, persino i pubblicani e i peccatori. Che strazio per il cuore di Gesù vedersi così frainteso e così misconosciuto, nonostante i miracoli che andava moltiplicando a provare la divinità della sua missione e della sua Persona! Eppure, questo non è che il preludio del suo sacrificio!

2° L’immolazione della vittima.

Quest’immolazione ha principio colla dolorosa passione del Salvatore nell’orto degli Olivi e finisce sul Calvario.

A) Ma, prima di lasciarsi immolare dai carnefici, Gesù vuole offrirsi di nuovo vittima, questa volta però in un vero sacrificio accompagnato da riti misteriosi, nel Sacrificio della Cena. Celebrata che ebbe cogli Apostoli la Pasqua antica, vuole celebrare la nuova e istituire un sacrificio che si perpetuerà sui nostri altari sino alla fine del mondo. Prende del pane, lo benedice, e lo dà agli Apostoli, dicendo « Mangiate: questo è il mio corpo, dato, rotto per voi ». E, prendendo la coppa del vino, aggiunge: « Bevetene tutti: è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza, che è versato per voi e per molti in remissione dei peccati ». Si notino le espressioni « corpo dato » e « sangue versato », perché dicono abbastanza chiaramente che Gesù si dà e si consegna come vittima, che versa già misticamente il suo sangue a remissione dei nostri peccati. Ei sa infatti, che dimani sarà immolato e offre anticipatamente al Padre quell’immolazione, quell’effusione di sangue, quella morte, per affermare pubblicamente dinanzi agli Apostoli che liberamente e volontariamente si consacra alla morte espiatrice e ai tormenti fisici e morali che l’accompagneranno. La Cena è quindi un vero sacrificio, perché Gesù v’immola incruentamente la vittima che cruentamente immolerà il giorno appresso. Come ben osserva il De la Taille (Squisse du mistère de la Foi, Paris, 1924, p. 10.), « C’è già nella Cena il sacrificio del Calvario: la Cena guarda la Croce e vi consacra il divino Agnello ». È anzi per questa ragione che Nostro Signore è chiamato sacerdote secondo l’ordine di Melchisedecco; questi, infatti, aveva offerto a Dio del pane e del vino, ora appunto sotto queste stesse specie del pane e del vino il Salvatore si offre al Padre e si dà agli Apostoli. La santa Messa, che oggi si celebra sui nostri altari, è la ripetizione del sacrificio della Cena, con questa differenza che il sacerdote ora offre la vittima che fu immolata sul Calvario tanti anni fa, mentre Nostro Signore nel Cenacolo offriva la vittima che doveva essere immolata sul Calvario il domani.

B) Gesù può dunque principiare la dolorosa sua Passione; anzi deve, perché colle parole della Cena si è votato alla morte.

a) Eccolo, infatti, che varca il torrente Cedron e si apparta nell’Orto degli Ulivi. Qui si scatena nell’anima sua quella lotta terribile che è detta l’agonia dell’Orti. Gesù permette alla sua immaginazione di vivissimamente rappresentargli tutti i tormenti e le umiliazioni che patirà il giorno appresso; la sua sensibilità ne è così fieramente scossa che è invaso dalla paura, dalla nausea, dalla noia, dalla più profonda tristezza (S. Marco, XIV, 33). Ma in modo più particolare, quale capo di un corpo mistico di cui noi siamo le membra, si vede carico del peso dei nostri peccati, si sente come travolto da quella crescente marea di tutte le umane iniquità, e ciò al cospetto di quel Dio la cui santità Egli profondamente conosce: una mortale tristezza si impadronisce dell’anima sua e un sudore di sangue gli scorre pel corpo e bagna la terra. Volentieri allontanerebbe da sé quell’amaro calice! Va per due volte a cercare un poco di consolazione presso i tre suoi più cari discepoli: ahimè! li trova addormentati. A confortarlo, gli è inviato un Angelo dal cielo, il quale certamente gli rappresentò le molte anime generose che avrebbero un giorno compatito i suoi dolori; e la dolce visione gli solleva il cuore addolorato dalla chiara visione delle ingratitudini degli uomini. Si rassegna quindi una seconda volta alla volontà di Dio e dice; « Padre mio, se non può questo calice passare senza ch’io lo beva, sia fatta la tua volontà » (S. Matt., XXVI, 42).

b) E il martirio incomincia. Tradito da Giuda, rinnegato da Pietro, capo dei dodici; abbandonato da quasi tutti i discepoli; Gesù è schernito, insultato, percosso dai servi del pontefice; sentenziato reo di morte dal Sinedrio per essersi detto Figlio di Dio; condannato alla croce da Pilato che pure ne aveva pochi istanti prima proclamato l’innocenza. Flagellato, coronato di spine come re da burla, carico di pesante croce, Gesù sale penosamente il Calvario, stende sulla croce le doloranti sue membra, si sente traforare da chiodi le mani e i piedi, ode gli insulti e i motteggi degli Scribi e dei Farisei che ironicamente lo invitano a scendere dal patibolo se è davvero il Messia e il Figlio di Dio; e, in cambio di vendicarsi, come avrebbe ben potuto fare, supplica il Padre di perdonarli, perché, dice, non sanno quello che fanno (S. Luc. XXIII, 34). E che fa sull’altare della Croce il sommo sacerdote Gesù mentre il suo corpo è tormentato dai carnefici e l’anima è oppressa al pensiero che molti non trarranno vantaggio dal suo sangue così generosamente versato? Gesù rinnova l’offerta della sua vita, fatta già tante volte: « Io sono il buon Pastore. Il buon Pastore dà la vita per le sue pecorelle… Nessuno me la toglie, ma sono io che la dò da me stesso; sono padrone di darla e sono padrone ,di riprenderla: questo è l’ordine che io ebbi dal Padre mio » (S. Giov. X, 11, 18), E quest’ordine Gesù eseguì così bene che può ora dire con ogni verità: « Tutto è compiuto, consummatum est » (S. Giov. XIX, 30). Sì, tutto è compiuto: i sacrifici figurativi dell’Antica Legge sono ormai sostituiti dal solo vero ed unico Sacrificio; le profezie sono avverate; avverata è specialmente la profezia d’Isaia che prediceva i patimenti e la morte dell’uomo dei dolori. Gesù ha fatto bene l’opera sua: adempì ogni giustizia; soffrì senza lamentarsi i tormenti più orribili del corpo e dell’anima; li tollerò per amore, per amore del Padre che voleva glorificare, e per amore di noi che voleva salvare. Non resta più se non ch’Ei permetta alla morte di ghermire la volontaria sua preda; e lo fa offrendosi un’ultima volta come ostia a suo Padre: « Padre, nelle tue mani raccomando lo spirito mio: Pater, in manus tuas commendo spiritum meum » (S. Luca XXIII, 46).E spira. Dio è glorificato come non fu mai,gli uomini sono salvati. Salvati almeno in diritto;non rimane se non che, colla fede, collacarità, colle opere buone, colla frequenza dei saramenti,si approprino i meriti e le soddisfazionidel divin Redentore: sarà questa per Gesù laconsumazione del suo sacrificio e per loro la comunionecon Gesù vittima.

3° La consumazione del sacrificio e la comunione.

A) Nei sacrifici antichi, immolata la vittima, si desiderava un segno che mostrasse che l’ostia era stata accettata da Dio e che gli era riuscita gradita. Il Signore si degnava di inviare talora fuoco dall’alto a consumar la vittima, che saliva allora al cielo come sacrificio di grato odore, in odorem suavitatis. Vi fu qualche cosa di simile dopo l’immolazione del Calvario. Ma, in cambio di inviare fuoco materiale dal cielo a consumar la vittima, Dio risuscitò suo Figlio e consumò col fuoco dell’amore le imperfezioni del suo corpo mortale conferendogli in sommo grado tutte le doti dei corpi gloriosi, cosicché questo corpo, divenuto in qualche modo spirito vivificante, potesse avere sulle anime un’efficacia santificatrice 1 Specialmente nell’Eucarestia si vede questa efficacia santificatrice: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno » (S. Giovanni, VI, 54). Ecco quindi che Gesù risorto appare in modo mirabile in mezzo agli Apostoli nel Cenacolo, a porte chiuse; poi rapidamente scompare; indi torna a riapparire, sempre in modo mirabile, in diversi tempi e in diversi luoghi, onde compiere la sua missione di confermare gli Apostoli nella fede e dare ad essi tutte le spiegazioni e tutte le istruzioni necessarie intorno a un quel regno di Dio che dovevano diffondere per tutta la terra, sotto la guida e coll’aiuto dello Spirito Santo. – Passati così quaranta giorni sulla terra, spicca il volo al cielo e si asside alla destra del Padre, dove perora continuamente la nostra causa e prega continuamente per noi. Tale è la dottrina di san Paolo, il quale, dopo aver osservato che i sacerdoti antichi avevano bisogno di successori perché erano mortali, aggiunge: « Ma Gesù, perché dura in eterno, ha un sacerdozio che non si trasmette; onde può anche perfettamente salvare quelli che si accostano per suo mezzo a Dio, sempre vivo ad intercedere per loro, semper vivens ad interpellandum pro nobis » (Hebr. VII, 24). Gesù adunque continua ad essere in cielo il nostro sommo Sacerdote; e continua pure ad esservi in istato di vittima. Non che vi offra Sacrificio in quel senso che già fece sul Calvario e fa ora sui nostri altari; ma sta dinanzi al Padre come immolato per l’addietro, vi sta con le gloriose cicatrici delle sue piaghe, e con quella tal qualità di vittima che non può perdere come non può perdere quella di Sacrificatore : « Vedete, dice Bossuet (Sermon pour l’Ascension, ed. Lebarcq., t. I, p. 529,), come si appressa al trono del Padre, mostrandogli le ancor fresche ferite, tutte colorite, tutte vermiglie di quel sangue divino, di quel sangue della nuova alleanza, versato per la remissione dei nostri delitti ». Il sacrificio di Cristo inaugurato sulla terra consegue dunque nel cielo la sua consumazione, in questo senso che Gesù non solo vi riceve la ricompensa dei suoi patimenti, ma vi continua il suo ufficio di mediatore e di sacerdote, offrendosi continuamente e continuamente intercedendo per noi (Ep. Hebr., VII, 25.). E fa pure dal cielo scendere su di noi una pioggia di celesti benedizioni che ci dà modo di entrare a parte dei frutti della redenzione.

B) In certi sacrifici antichi i sacerdoti e i fedeli che avevano presentato la vittima, mangiavano una parte di questa vittima, onde entrare in comunione con essa e colla divinità a cui fra stata consacrata. Era un puro simbolo, che non si trova perfettamente avverato se non nel sacrificio offerto da Nostro Signore. Se Gesù è risalito al cielo, lo fece, secondo la sua promessa, per prepararci un posto e comunicarci intanto le innumerevoli grazie che ci ha meritate. Queste grazie noi otteniamo coi sacramenti e specialmente coll’Eucaristia, che dandoci Gesù, nostro Sacerdote e nostra Vittima, ci fa entrare in comunione coi suoi pensieri, coi suoi sentimenti interiori, colle sue virtù. Ma le otteniamo pure con quella comunione spirituale che perenna gli effetti della Comunione sacramentale col farci, in tutto il corso della giornata, pensare, parlare, operare in unione con Gesù. Di questa comunione parla san Paolo quando scrive: « La mia vita è Cristo (Gal. II, 20). Vivo, ma non più io, vive in me Cristo » (Fil. I, 21). Beate le anime che vivono a questo modo in unione abituale con Gesù sacerdote e vittima! Si vedono ben presto trasformate: in cambio di lasciarsi guidare da pensieri egoisti, dal desiderio di piacere, dalla curiosità, dalla vanità e dalla sensualità, tengono lo sguardo abitualmente fisso sul divino Sacrificatore: a Lui, a lui solo vogliono piacere; è Lui il centro dei loro pensieri e dei loro affetti; con Lui e per Lui pregano, lavorano, si sacrificano; diventano così simili a Lui e adempiono i loro doveri verso il Sommo Sacerdote.

LE GRANDI VERITÀ CRISTIANE (15)