LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (5)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (5)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO II

LA VITA IN GESÙ CRISTO

1. Il Corpo Mistico

Si è già accennato a Gesù Cristo nostro Signore come a capo del genere umano, e al suo Corpo mistico al quale tutti i Cristiani sono incorporati. Ma questa espressione, del Corpo mistico, va studiata particolarmente per poter arrivare a meglio comprendere la vita spirituale e la Chiesa Madre secondo i Cattolici. Poiché per essi il Corpo mistico è assai più che una metafora, assai più che una felice espressione dei nostri rapporti con Gesù Cristo nostro Signore. Alcune parole di Lui, spesso ripetute, e altre di chi, come S. Paolo o S. Pietro, fu tra i suoi migliori interpreti non possono lasciarci alcun dubbio che questa incorporazione non sia in un certo senso una realtà. Il Corpo mistico del quale Cristo è il capo e i suoi seguaci sono le membra ha un’esistenza vera viva e vitale i cui frutti sono visibili sia nell’anima di ogni Cattolico che nel mondo circostante. – Possiamo innanzi tutto considerare l’insegnamento di Cristo stesso. E qui notiamo che nello studiare le parole di Lui, in questo caso come in altri, non cerchiamo tanto l’interpretazione letterale, quanto il pensiero che le dettò. A considerarle isolatamente è facile esagerarne o attenuarne la portata, ma raggruppandole e confrontandole possiamo sperare ch’esse ci diano il substrato del suo pensiero, vale a dire quanto maggiormente ci interessa. Incominciamo dall’ultimo episodio sul pendio del monte Oliveto, quando la predicazione di Gesù era ormai terminata ed Egli la concluse preannunciando ai dodici la fine del mondo e il giudizio universale. I giusti saranno separati dagli empi e riceveranno il premio: “Venite, benedetti dal Padre mio”, perché lo hanno servito. “Perchè ebbi fame e mi rifocillaste;. Ebbi sete e mi deste da bere; fui pellegrino e mi ricoveraste; ignudo, e mi copriste; infermo, e mi visitaste; carcerato, e veniste da me”. (Matt. XXV, 35, 36). – I giusti chiederanno quando mai fecero a Lui tali cose, quando mai lo videro in quelle condizioni, ed Egli risponderà: « In verità vi dico: quante volte avete fatto qualche cosa a uno di questi minimi tra i miei fratelli l’avete fatto a me ». (Matt. XXV, 40). Sono forti parole che aprono un nuovo orizzonte sulle relazioni fra uomo e uomo, fra il beneficato e il benefattore, e li pongono sopra un piano affatto nuovo. Anche se considerate isolatamente, esse significano, né più né meno, che Cristo ritiene fatto a se stesso ogni atto di bontà compiuto verso il povero e il sofferente, ed è già cosa meravigliosa che basta a dare un significato nuovo alla carità. Ma se riavviciniamo quelle parole ad altre pronunciate da Cristo in occasioni diverse, vi scorgiamo facilmente un’importanza ancor maggiore, un’intenzione che va più lontano. Disse un giorno Gesù ai dodici a parte: « Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me ». E non fu mai più esplicito che nel discorso dell’ultima cena, in cui diede ai suoi discepoli quello che chiamò “un comandamento nuovo”. “Vi dò un nuovo comandamento, d’amarvi scambievolmente; amatevi l’un l’altro così come Io v’ho amato ». (Giov. XIII, 34). È molto più di quanto finora fosse stato detto, molto più del precetto generale che ci impone di amare il nostro prossimo come noi stessi. ,Questo precetto ci offre a modello lo stesso amore disinteressato che ridusse Cristo ad annientarsi per amore di noi. Amare il mio prossimo come me stesso è una cosa, amarlo come mi ha amato Cristo è ben altro, poiché Egli mi ama assai più di quanto io non ami me stesso, ha fatto per me assai più di quanto io abbia mai fatto o mai possa fare. Mi domanda un amore per gli altri superiore a quello che da me posso dare: vuole ch’io li ami col suo stesso amore. Ma subito, per mostrarmi dove troverò il mezzo di fare l’impossibile e per metterlo alla mia portata, Cristo fa la nota similitudine. « Rimanete in me, e io in voi. Come il tralcio non può da sé dar frutto, se non rimane nella vite, così nemmeno voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Se uno rimane in me e Io in lui, questo porta molto frutto; perché senza me non potete far niente…. Come il Padre ha amato me, così ho amato voi. Perseverate nell’amor mio”. (Giov. XV: 1,9). Così ci rende possibile l’osservanza del suo “comandamento nuovo”. Dobbiamo amare il nostro prossimo non solo come noi stessi ma come ci ama Cristo, e, cosa ancor più sublime, come Cristo è amato dal Padre. “Come il Padre ha amato me, così Io vi ho amato. Come io vi ho amato, amatevi l’un l’altro”. Cosa impossibile alle nostre povere forze; possibile solo se “rimaniamo in Lui*, se “rimaniamo nell’amor suo”, se amiamo col suo amore, se viviamo della sua vita. – In una maniera mistica, ma non per questo meno reale, altrimenti le parole ora citate non significherebbero più nulla, noi siamo uniti a Gesù Cristo, al Verbo Incarnato, all’Uomo-Dio, così che la sua vita e il suo amore diventan nostri. Come il tralcio è unito alla vite e fatto con essa una cosa sola, come la vita di questa diventa la vita di quello, così noi siamo uniti a Lui, con questo risultato, che mentre da noi soli nulla potremmo, ora, uniti a Lui, possiamo fare ciò che fa Cristo stesso. “Il Verbo si fece carne e abitò noi…. pieno di grazia e di verità… e della pienezza di Lui tutti abbiamo ricevuto”, (Giov. I, 14, 16) non solo nella elargizione di un dono, come da amico ad amico, ma per una vera e propria comunicazione di vita. E non solo di vita, ma anche di ciò che la contiene, che è il corpo: se facciamo una sola vita con Cristo, faremo anche un corpo solo con Lui. Siamo incorporati a Cristo, siamo membri di quell’organismo di cui Egli è il capo; in un senso affatto nuovo, ma altrettanto reale, in Lui “viviamo e ci muoviamo e abbiamo il nostro essere”; viviamo, non più noi, ma Egli vive in noi; portiamo sul nostro corpo le stimmate di Cristo. – E sullo stesso concetto il Signore insiste nella solenne preghiera con cui termina l’ultima cena. Prima domanda che ai suoi venga concessa la vita eterna, e dicendo “i suoi” fa capire che non intende solo gli Apostoli ma anche i loro discepoli, tutti i Cristiani, tutti i credenti in Lui, sino alla fine del mondo; poi prega il Padre così: “Né soltanto prego per questi, ma anche per quelli i quali per la loro parola crederanno in me, che siano tutti uno, come tu sei in me, Padre, e Io in te: siano anch’essi uno in noi, sicché creda il mondo che tu m’hai mandato. E la gloria che tu mi desti io ho data ad essi, affinché siano uno come uno siamo noi. Io in essi, tu in me; affinché siano perfetti nell’unità, me affinché conosca il mondo che tu mi mandasti e amasti essi come amasti me”. (Giov. XVII, 20, 23). “Come Tu, Padre, in me ed Io in Te”. “Affinché siano uno in noi”. “ Affinché siano uno come uno siamo noi”. “Affinché siano perfetti nell’unità”. Affinché questa perfezione nell’unità convinca il mondo “che Tu mi mandasti, e che amasti essi come amasti me”. Non si tratta qui di una semplice metafora; non è il solito linguaggio iperbolico dell’amore, ma qualche cosa di più, assai di più; ha troppo l’accento della verità ed è concetto ripetuto con troppo calore e con troppa insistenza per poter essere l’invenzione di uno scrittore umano. – È un insegnamento positivo, ripetuto perché non venga frainteso, è come l’idea fissa nella mente e nel cuore di Cristo al momento cruciale della sua vita; e l’unione di cui parla è arditamente paragonata all’unità che esiste tra Dio Padre e Dio Figlio, “come Tu ed io siamo uno”. Due persone, eppure un Dio solo; due persone: Cristo e me, eppure una sola vita, un corpo solo che è il corpo stesso di Cristo. Tutti possiamo affermarlo, ogni vero credente e fedele seguace di Cristo può vantare questo privilegio; perciò in Lui, fatti membri del suo unico corpo, tralci eguali di una stessa vite, ricevendo ciascuno da Lui la medesima vita, noi siamo membri l’uno dell’altro. Siamo amati dal Padre precisamente come ne è amato Cristo, perché siamo il suo corpo, apparteniamo alla famiglia del Padre quali coeredi di Cristo, veniamo innalzati a una dignità che dà un significato nuovo alla vita e alla creazione tutta. Siamo nobilitati, e perciò invitati e impegnati a sforzarci di vivere all’altezza di tale onore, rendendoci migliori. Comprendiamo meglio ormai perché Cristo ci pose dinanzi fin dal principio della sua predicazione, con espressione ardita, un modello che sembrava irraggiungibile: “Siate dunque perfetti com’è perfetto il Padre vostro nei cieli”. (Matt. V, 48). Così la dottrina dell’unione mistica, ma non perciò meno reale, del fedele con Cristo è parte essenziale dell’insegnamento di Lui. San Paolo se la appropria e ne fa la base di tutto il suo sistema, la considera fulcro del Cristianesimo e della vera Chiesa. – Per lui, più che un’organizzazione, la Chiesa è un organismo; più che una istituzione, è una cosa viva; e quanto più esperto diviene delle vie di Dio e della vita umana, tanto più l’Apostolo insiste su questo concetto. È degno di nota ch’egli lo intuì fin dall’istante della conversione, come risulta — e sempre con maggior evidenza — da ciascuna delle tre narrazioni che ce ne rimangono. Saul fu gettato a terra tramortito e la voce che udì non diceva: “Perché perseguiti i miei fedeli?” ma: “Perché mi perseguiti?” E quando Saul chiese chi parlasse, la risposta fu: “Io sono Gesù che tu perseguiti”. (Atti, IX, 9). Saul non dimenticò più la lezione implicita in quelle parole; si direbbe anzi che ne facesse soggetto speciale di meditazione per tutta la vita, di modo che sempre meglio ne penetrò la portata e le conseguenze. Esser cristiano voleva dire essere una cosa sola con Cristo; esser membro della Chiesa significava esser membro di quel corpo vivo di cui Cristo era il capo. Con ciò è detto quasi tutto quel ch’è necessario per comprendere l’anima del grande Apostolo dei Gentili. Così scrive a quei di Corinto, tuttora incerti, che pare non abbiano ancora afferrato la necessità dell’unione fra loro: “Come il corpo è uno e ha molte membra e tutte le membra del corpo pur essendo molte il corpo è uno, così anche Cristo. Poiché noi tutti, sia Giudei sia Gentili, sia schiavi sia liberi, in unico Spirito siamo stati battezzati sì da formare un corpo solo e tutti siamo stati imbevuti di unico spirito. Anche il nostro corpo non è un membro solo, ma molte membra….. Orbene, voi siete corpo di Cristo e partitamente siete membra di esso ». (I Cor. XII, 12, 27). – E il suo pensiero si fa ancora più esplicito in seguito, nell’Epistola agli Efesini. Qui è bene rilevare la diversità fra le circostanze di queste due lettere. In quella ai Corinti trattava con dei Cristiani non completamente formati, ed egli stesso non aveva ancora trovato le parole atte ad esprimere perfettamente la verità che pur possedeva. Nell’Epistola agli Efesini, invece, si rivolge a dei fedeli conosciuti fin dall’inizio del suo apostolato. Non può dubitare della loro costanza ed è egli stesso ben certo ormai di poter dar loro il meglio della sua dottrina senza pericolo di venir frainteso: tutta l’Epistola vibra della commozione di un cuore profondamente affezionato, ansioso di far parte a chi tanto ama del più e del meglio di quanto possiede. E bisogna notare inoltre che, nel frattempo, Paolo ha vissuto parecchi anni di prigionia. Molte e lunghe ore di silenzio gli hanno permesso di meditare a suo agio sulla visione avuta, osservando lo sviluppo di quell’organismo vivo che si è diffuso tutt’intorno all’Impero romano non per effetto di organizzazione e di sistema, ma precisamente come un albero che cresce in virtù di una sua forza interna. E l’Apostolo ha finalmente trovato parole tali da poter esprimere con sufficiente efficacia i suoi pensieri. Perciò in questa Epistola non descrive più il Corpo mistico solo come un vincolo magnifico di unità, ma come una consumazione, una meta accessibile anche in questo mondo, un modello, un ideale che, raggiunto, costituisce la sua stessa ricompensa ed è l’uomo perfetto. Scrive così: “Io dunque vi esorto, io, il carcerato nel Signore, di condurvi in modo degno della chiamata che avete ricevuto, con tutta umiltà e mansuetudine e con longanimità, tollerandovi a vicenda con amore, sforzandovi di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace: un corpo solo, un solo spirito, come in unica speranza siete stati chiamati. Uno è il Signore, una la fede, uno il battesimo, uno Iddio e Padre di tutti, Colui che è sopra tutti e per tutti e in tutti”, (Efes. IV, 1, 6). – Questo è l’ideale; come raggiungerlo? Lo dice chiaramente il seguito dell’Epistola. Con “l’edificazione del corpo di Cristo, fino a tanto che ci riuniamo tutti nell’unità della fede e nel riconoscimento del Figlio di Dio, giungendo alla maturità d’uomo fatto, alla misura di età della pienezza di Cristo; affinché non siamo più dei bambini sballottati e portati via da ogni vento di dottrina…. Ma seguendo il vero con amore, progrediamo in tutto verso di Lui ch’è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo ben composto e connesso per l’utile concatenazione delle articolazioni, efficacemente, nella misura di ciascuna delle sue parti, compie il suo sviluppo per l’edificazione di se stesso nell’amore” (Efes. IV, 12, 16). – A questo modo San Paolo sviluppa il pensiero enunciato in un capitolo precedente, quando ha detto di Nostro Signore: “E tutta pose sotto i suoi piedi e Lui costituì capo supremo alla Chiesa che è il corpo di Lui, il complemento di Colui che tutto completa in tutti”. (Efes. I, 22, 23). Tutto ciò è abbastanza esplicito. Per San Paolo, e per la Chiesa tutta che gli era umita, oltre al Cristo storico che ha vissuto i suoi trentatrè anni su questa terra ed è morto, c’è anche un Cristo mistico, identico al primo eppure distinto, (come son deboli le parole e le idee umane quando si tratta di esprimere il soprannaturale!) che continua nel mondo, vivo fra gli uomini e negli uomini, un Cristo con un capo, un’anima, delle membra che formano tutte insieme un unico corpo vivente spirituale. “Benedetto Iddio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo, il quale ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale, celeste, in Cristo, in quanto ci ha eletti in Lui, “prima della fondazione del mondo, a esser santi e irreprensibili nel suo cospetto, per amore avendoci predestinati a esser figli suoi adottivi per mezzo di Gesù Cristo, secondo la benignità del suo volere, sì che ciò torni a lode della gloriosa manifestazione della grazia sua, di cui ci fece dono nel suo diletto Figliolo”. (Efes. I, 3-6).

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (6)

LA GRAZIA E LA GLORIA (41)

LA GRAZIA E LA GLORIA (41)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VIII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. — I SACRAMENTI, E SPECIALMENTE L’EUCARISTIA, SECONDO MEZZO DI CRESCITA.

CAPITOLO III

Altre due caratteristiche del frutto proprio dell’Eucaristia sono: la trasformazione dell’uomo in Gesù Cristo e la carità divina. Come tutti questi effetti siano in realtà un solo e medesimo effetto, al quale partecipa anche il corpo.

1. – Un terzo carattere sotto il quale ci viene costantemente presentato l’effetto principale dell’Eucaristia è che si tratti di una trasformazione del comunicante in Cristo Gesù. Già le parole unione, incorporazione, ci preparano a concepirlo in questa forma: essere così intimamente uniti a Gesù Cristo da entrare come membro nel suo Corpo mistico, non è forse trasformarsi in Lui? Ma sarà dolce per noi sentirlo affermare in questi termini espliciti. Impariamo, allora, dal grande Papa San Leone: « La partecipazione al corpo e al sangue di Cristo non ha altro effetto che quello di trasformarci in ciò che prendiamo. Nihil aliud agit participatio corporis et sanguinis Christi quam ut in id quod summus, transeamus » (S. Leone M., Serm. 63, de Passione, 12, c. 7). Dionigi l’Areopagita parla di questo mistero in modo ancora più incisivo. Egli aveva insegnato che l’Eucaristia, tra tutti i sacramenti, è la sinassi per eccellenza: infatti, gli altri senza di essa rimangono incompleti. Se essi preparano, tra l’Unità divina e noi, la santa ed intimissima unione che è la nostra gloria, è l’Eucaristia che la completa; e « di conseguenza, i Pontefici, chiamandola sinassi (comunione), l’hanno designata con un nome che le si addice mirabilmente, poiché è tratto dalla natura stessa delle cose » (Dionigi, Areop., de Hierar. eccl., c. 3, § 1. P. Gr., t. 3, pp. 423-424). Come se temesse di averne detto troppo poco: « Chiunque – aggiunge – si accosta al banchetto divino con purezza, ottiene partecipandovi di essere trasformato nella divinità » (Id. Ibid.). Sono espressioni molto audaci, ma nel contesto portano con sé il correttivo necessario per rimanere nei giusti limiti della verità. – La trasformazione dei fedeli in Gesù Cristo è stata promessa a Sant’Agostino da questa parola che ha ascoltato uscire dal tabernacolo poco dopo la sua conversione: « Io sono l’alimento per i forti. Credimi e mangiami. Ma non mi cambierai in te; sarai tu a trasformarti in me » (S. August, Confess, L., VII c. 10). Non vediamo qui una di quelle esagerazioni che possono sfuggire all’entusiasmo degli oratori o all’ardente pietà dei mistici.  I teologi scolastici, il cui linguaggio è il più esatto e il cui pensiero è il meno fluttuante, non hanno temuto di prendere in prestito espressioni simili dai Padri. Testimone San Tommaso d’Aquino: ecco come si esprime nel suo commento alle Sentenze. « La regola per arrivare ad una buona conoscenza dell’effetto proprio di un sacramento è quella di giudicarlo per analogia con la materia del sacramento stesso… Pertanto, poiché la materia del Sacramento eucaristico è il cibo, il suo effetto proprio deve essere analogo a quello del cibo. Ora, il cibo corporeo inizia ad essere trasformato nella persona che lo assume; ed è attraverso questa conversione che ripara le perdite dell’organismo e gli dà la giusta crescita. Ma il cibo spirituale, invece di essere convertito in colui che lo mangia, lo trasforma lui stesso in esso. Da ciò consegue che l’effetto proprio di questo sacramento è la conversione dell’uomo in Cristo, affinché egli possa veramente dire: « Io vivo; non sono io che vivo, ma Cristo che vive in me » (S. Thom. in IV, D 12, q. 2, a. 1. Sol. 1). – Siamo quindi avvertiti che, da una parte, l’analogia non è completa. Nella manducazione comune, è l’essere vivente che assimila il cibo e lo rende, da morto che era, partecipe di una vita superiore; qui, invece, è il cibo che trasforma in esso colui che lo ha mangiato. Ho detto che sotto un certo aspetto l’analogia non è completa. Ma da un punto di vista più elevato, la somiglianza è impressionante. Non è forse una legge delle assimilazioni che di due elementi che sono in presenza, spetta al più energico, al più vivace afferrare il più debole? Questa è l’osservazione fatta da S. Alberto Magno sul testo di Sant’Agostino. Quindi, conclude questo Dottore, « poiché questo cibo celeste è incomparabilmente più virtuoso per coloro che lo mangiano, è ad esso che tocca trasformarli in se stesso » (Albert. M., in 1V, D. 9, a. 4, ad 1). Così, nella mescolanza dei popoli, è il privilegio della razza più forte per vigore, numero e genio, di assorbire la più debole nella sua potente unità. Così, per usare un esempio volgare, il fuoco divora il legno e la paglia, e li trasforma in fuoco (Un opuscolo a lungo attribuito a San Tommaso sviluppa a lungo le stesse idee. « Quando il corpo del Signore viene mangiato degnamente dal fedele, non è lui che, come un cibo ordinario, si converte in chi lo mangia; al contrario, è lui che si trasforma spiritualmente in questo cibo divino. Il Signore, infatti, rende il fedele che lo riceve membro del suo corpo, se lo incorpora con l’unione della carità e lo assimila all’immagine della sua sovrana bontà. » –  « Ora, tre considerazioni ci aiutano a capire perché, quando mangiamo il corpo di Gesù Cristo, la conversione non avviene da Lui in noi, ma da noi in Lui. Il primo deriva dalla natura del nostro amore. In effetti, l’amore ha la virtù di trasformare il cuore di chi ama nell’oggetto amato. Poiché è necessario che diventiate simile a ciò che amate. La seconda ragione va ricercata nella virtù preponderante di uno degli elementi che si uniscono. Se si lascia cadere una goccia d’acqua in un grande vaso pieno di vino, essa pure diventerà vino. Così l’immensità della dolcezza e della virtù di Cristo, unendosi al cuore umile e piccolo dell’uomo, se ne impadronisce e lo trasforma in essa; così che nei nostri pensieri, nelle nostre parole e nelle nostre azioni non siamo più simili agli uomini del mondo o a noi stessi, ma a Cristo. – L’influenza dell’innesto ci fornisce la terza ragione. È proprietà del germoglio di un albero eccellente, quando viene innestato su un albero selvatico, convertire con la sua virtù naturale l’amarezza di quest’ultimo nella propria dolcezza e fargli produrre il proprio frutto. In questo modo Cristo, per così dire, innestato nella nostra natura, ne corregge i difetti e le comunica la sua bontà, cosicché noi portiamo attraverso di Lui le foglie, i fiori ed i frutti che Egli stesso produce. » – Opuscul. de sacr. alt., c. 20.). – Questo è ciò che Voi fate, o mio Salvatore, nella santa Comunione, quando nulla ferma la vostra operazione, che è allo stesso tempo così dolce e così forte. In questa misteriosa fusione, non siete Voi a rivestirvi delle mie infermità morali e delle mie debolezze; Dio non voglia! Sono io che divento partecipe delle vostre perfezioni, delle vostre virtù, della vostra vita e infine di tutto Voi stesso, nella misura in cui lo permetta la mia disponibilità a ricevervi. Quando guardo questa sorprendente conversione avvenuta sull’altare, dal pane alla sostanza del vostro corpo e dal vino alla sostanza del vostro sangue divino, vedo in essa un’immagine di ciò che vi degnate fare in me col tocco sacro di questa stessa carne e di questo stesso sangue. Da entrambe le parti, il cambiamento è ugualmente un’opera così alta e grande che solo la forza del vostro amore può bastare. Più felice della materia inerte, transustanziata dal ministero dei vostri Sacerdoti, mi è dato di conoscere il vostro beneficio e di goderne. – Tuttavia, so che se in me, come in essa, avviene una conversione che supera tutto ciò che la mia intelligenza potesse sospettare, la vostra parola mi avverte di non eguagliare ciò che è solo simile. Io conservo la mia sostanza e non cesso di essere me stesso nel diventare Voi; mentre la sostanza stessa degli elementi materiali si trasforma totalmente nella vostra sostanza. Ma se la conversione del pane è maggiore, sotto questo aspetto, di quella che avviene nei vostri fedeli, quest’ultima ha il privilegio di essere il fine a cui tende la prima, e di essere incomparabilmente più duratura grazie alla nostra fedeltà, sostenuta dalla vostra grazia. Essa ha questo ulteriore privilegio che nel Sacramento, sia prima che dopo la celebrazione dei misteri, c’è sempre lo stesso aspetto esteriore: la stessa forma, la stessa dimensione, lo stesso colore e lo stesso sapore; tanto che all’occhio umano non c’è nulla che distingua un’ostia consacrata da una non ancora consacrata. Ma, o Dio, se siamo veramente trasformati dalla partecipazione della vostra carne sacra, Voi producete, non solo nella parte più intima della nostra natura, ma persino nel nostro essere esteriore, “un non so che” che vi rivela e dice agli uomini che Voi siete l’unico che ha il potere di trasformarci, che vi rivela e dice agli uomini che siamo vostre membra e che d’ora in poi viviamo della vostra vita. –  Entriamo ancora di più nella contemplazione di un frutto sì mirabile. I Padri, illuminati dallo Spirito di Dio, ci invitano a farlo, quando ci mostrano, nella comunione del corpo e del sangue di Gesù Cristo, il complemento della sua divina incarnazione. « Mangiami, bevimi; per la tua natura divenuta la mia, ti ho portato nella mia Persona fino alle altezze del cielo; ed ecco, Ti unisco a me nell’umile dimora in cui tu abiti. Io ho le tue primizie lassù, ma non sono state sufficienti a soddisfare il tuo desiderio; ebbene! Eccomi quaggiù con te, unendo e mescolando la mia sostanza alla tua sostanza » (S. J. Crisostomo, hom. ad popul., 2. P. Gr., t, 49, p. 45). Così parla Gesù Cristo in San Giovanni Crisostomo; così parla anche il grande Vescovo di Poitiers, quella gloria della nostra Gallia, Sant’Ilario; e più tardi, San Cirillo  di Alessandria (S. Hilar., de Trinit,, L. VIH, n. 13-17; S. Cyrill. Al, Com. 1. Joan. XV, L. P. Gr., t. 74, p. 331 sqq. Cfr. Lessium, De perfect. di. L, XII, n. 75, 108, cfr. alibi passim). Non è certo che questi Dottori abbiano immaginato un’altra unione ipostatica che non sia quella del Verbo con la natura individuale che ha assunto nel grembo della Vergine immacolata. Ma a loro piace guardare a Gesù Cristo, nell’unione del capo con le membra, come ad una Persona di cui ciascuno di noi è parte, secondo la misura della sua grazia. Egli è ai loro occhi l’uomo Cattolico, che racchiude nella sua unità la varietà universale dei giusti; ed è soprattutto all’Eucaristia che attribuiscono questa trasfusione dei fedeli in Gesù Cristo, il Verbo incarnato.

2. Siamo giunti all’ultima carattere che riveste del Sacramento dell’altare, considerata in relazione al suo frutto. È il principio e l’alimento della carità divina. Partendo dall’amore infinito di Dio per l’uomo, dove potrebbe esso finire meglio che nell’amore dell’uomo per il suo Dio? Il Signore aveva detto nella sua vita mortale: « Sono venuto a portare il fuoco sulla terra. E cosa desidero se non che si infiammi? » (Luca, XII, 49). Questo è ciò che Egli fa in modo molto efficace nell’Eucaristia. Lui, il carbone ardente, entra con l’incendio di amore che lo consuma, nel profondo del nostro essere attraverso la Santa Comunione. Un serafino toccò una volta le labbra di Isaia con un carbone misterioso, e questo tocco consumò tutti i resti dell’iniquità nel cuore del Profeta (Is. VI, 6). Cosa non dobbiamo aspettarci da questa carne di Gesù Cristo, tutta ardente e bruciante, quando l’abbiamo nelle nostre stesse viscere? Il cuore di Gesù è così vicino al mio cuore che il battito dell’uno e dell’altro mi arriverebbero all’orecchio, se potessi sentirlo, e questo mio povero cuore rimarrebbe forse senza calore e senza amore? Non è il fuoco che devo biasimare, ma l’ostacolo che si frappone alla sua azione, la mia resistenza e le mie infedeltà. Se mi chiedo perché il mio divino Maestro abbia riservato all’ultima cena la predicazione più pressante del comandamento dell’amore, l’istituzione che Egli ne fa della santa Eucaristia si presenta come la risposta a questa domanda. Egli ha voluto darci in una sola volta queste due cose che sono l’anima della Legge evangelica: il precetto dell’amore, questo nuovo precetto, il suo precetto come lo chiama Lui, e il Sacramento che contiene e conferisce ogni virtù nell’osservarlo. – Noi abbiamo visto che il singolare privilegio dell’Eucaristia è quello di trasformarci in Colui che vi si dona. E non è questo se non l’effetto della carità? « In virtù di questo Sacramento – scrive il Dottore Angelico – avviene una certa trasformazione dell’uomo in Cristo per mezzo della carità…. E questo è il suo frutto proprio » (San Tommaso, IV, D. 12, q. 2, a. 2. Sol. 1). Chi non sa che l’amore ha questo potere di trasformazione? San Tommaso lo afferma e lo spiega proprio nel luogo da cui ho tratto la mia ultima citazione. « Il proprio della carità è che essa trasforma colui che ama nell’oggetto del suo amore, perché produce l’estasi, cioè come un’uscita da se stessi per passare in ciò che si ama. La sua vita diventa la nostra vita; i suoi gusti e le sue preferenze, i nostri gusti e le nostre preferenze; i suoi interessi, i nostri interessi; le sue volontà, la nostra. Ecco perché San Paolo non ha vissuto della propria vita, ma solo della vita di Gesù Cristo: è perché egli era posseduto dalla divina follia dell’amore. – Io ho letto nelle Vite dei Santi i favori concessi dal Maestro divino ad alcune anime privilegiate. Egli ritirava il cuore degli uni per immergerlo nel suo cuore, e lo restituiva loro bruciante come il ferro uscito dalla fornace; ad altri aprì il petto per sostituire il suo cuore al loro cuore con un misterioso scambio; a volte era questo stesso cuore che mostrava loro come se fosse incastonato nel suo, in modo che questi due cuori sembrassero formare un unico cuore. (Ho raccontato queste comunicazioni divine nel mio lavoro sulla “Devozione al Sacro Cuore di Gesù”, per spiegarne meglio la natura e il simbolismo. L. III, c, 2). Sono simboli toccanti e misteriosi, in cui possiamo leggere ciò che, in misura maggiore o minore, il Sacro Cuore di Gesù fa in ogni fedele che lo riceva con la giusta preparazione, il Sacramento della carità divina. – Ora, notiamolo con maggiore attenzione, perché questa proprietà dell’Eucaristia è meno evidenziata, « la cosa di questo Sacramento, cioè l’effetto da esso prodotto e da esso significato, è la carità, non solo in quanto all’abitudine, ma anche quanto all’atto » (S. Thom.., 3 p., q 79, a. 4). Quando il santo vecchio Simeone accolse tra le sue braccia il bambino che la Vergine Madre era venuta ad offrire nel tempio; quando Gesù e Giovanni Battista si incontrarono, entrambi ancora chiusi nel grembo delle loro madri, non ci fu forse un brivido nel cuore del vecchio e del precursore, causato dalla visita o dal contatto del Dio fatto uomo? Come allora, penetrando per amore con la sua carne nella nostra carne, questo non farebbe scaturire la fiamma luminosa dell’amore? Un carbone che brucia non porta con sé solo la virtù di riscaldare più tardi il materiale in cui è nascosto: entrando, lo infiamma. Così la Santa Eucaristia non solo produce la carità come principio d’amore, ma la attiva, la stimola e la mette in atto. E questa è la ragione più profonda per cui la negligenza e le distrazioni deliberate nella ricezione di questo Sacramento sono più colpevoli di quanto lo sarebbero altrove, perché esse si oppongono direttamente all’effetto attuale che deve naturalmente produrre (S. Thom, Ibid., a. 8 in corp. et ad 4). – E questo frutto della carità è così certo che i migliori teologi, seguendo il Dottore Angelico, lo indicano come loro causa prossima della maggior parte degli effetti secondari attribuiti all’Eucaristia. Se in certe circostanze rimette, in via eccezionale, anche il peccato mortale; se purifica l’anima dalle colpe leggere; se estingue o diminuisce il debito della pena temporale contratto per i peccati già perdonati; se è fonte di fervore, di gioia spirituale e di santi desideri; se inebria, per così dire, con la dolcezza della bontà divina, secondo le parole del Cantico: Mangiate, bevete, inebriatevi, miei diletti (Cant., V, 1. Cf. S. Thom., 3 p., q. 79. a. 1, ad 3 a. 6, ad 3); se purifica la nostra carne e modera gli ardori della concupiscenza, se, dico, produce tutti questi effetti, è principalmente perché, per sua natura, è il principio e lo stimolo della carità. – Tuttavia, le persone veramente pie non devono cogliere l’occasione in questa dottrina di rimproverarsi oltre misura, le divagazioni ostinate che possono, nonostante i loro sforzi, sfuggire alla loro debolezza. Indubbiamente, per il momento, esse ostacolano il frutto attuale della Carità. Quando l’attenzione è focalizzata su oggetti estranei, come possiamo produrre gli atti? Ma, dice S. Alberto Magno, a proposito di una difficoltà simile, il pane celeste è dotato di volontà. « Panis iste voluntarius est ». Esso può quindi riservare la pienezza della sua azione. Questi moti d’amore che Egli non suscita in voi, perché la vostra infermità non è pronta a riceverli ora, saprà produrli in un momento più opportuno, quando la vostra anima si sarà calmata e sarà in grado di volgersi più attentamente verso di Lui (È qui che bisogna ammirare la sicurezza della dottrina che si trova ovunque in San Tommaso d’Aquino. Ai suoi tempi, molti teologi ritenevano che qualsiasi peccato veniale, almeno se commesso nell’atto della Comunione, ne impedisse totalmente il frutto. S. Bonaventura sembra essere stato troppo influenzato da questa opinione. Si sono affidati ad una parola di Sant’Agostino che richiede che la manducazione dello spirito si accompagni e ravvivi la manducazione sacramentale. Al che S. Tommaso risponde: « Colui che si accosta al sacramento con un atto presente di peccato veniale, pur non mangiando attualmente il corpo del Signore per mezzo dello spirito, lo mangia abitualmente, poiché vive della vita della grazia: per questo riceve l’effetto abituale ma non l’effetto attuale. » – 3 P., q. 79, a. 8, ad 1; col, a. 1 ad 2). – Questi, dunque, sono i principali frutti che la Santa Eucaristia produce nelle anime. Diciamo meglio: il frutto principale, il frutto proprio. Perché, in fin dei conti, non si tratta che di uno stesso frutto, presentato in forme diverse e da punti di vista diversi per fare più luce su di esso. Infatti, non si può concepire la carità senza la trasformazione, di cui è in qualche modo l’operatrice, né la trasformazione senza l’unione, né queste tre cose senza vita soprannaturale e divina. E questo è ciò che nostro Signore ci fa capire molto chiaramente, nel sesto capitolo del Vangelo secondo San Giovanni, con queste ed altre formule simili: Io sono il pane della vita; chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me; chi ne mangia vivrà grazie a me e – secondo un’interpretazione molto comune – per me.

3. – Possiamo credere che a questi effetti sull’anima corrispondano analoghi effetti sul corpo? Sì, senza dubbio, e dobbiamo spiegarle brevemente, perché anch’esse confanno al nostro tema. La prima è un’unione molto intima di questo corpo con il sacro Corpo di Gesù Cristo. Non dimentico ciò che abbiamo mostrato in una delle pagine precedenti: l’unione sacramentale non ha altra durata che quella delle specie sacramentali. Ma oltre a questa unione fugace, ce n’è un’altra che, contratta nella Comunione, persiste dopo di essa. San Paolo, parlando del matrimonio cristiano, raccomanda agli sposi di « amare la propria moglie come il proprio corpo »: infatti, in virtù del sacramento che li unisce, « sono due in una sola carne » (Efesini V., 28, 31). Esiterei a fare questo paragone, o mio Salvatore, se dovessi basarmi sui miei pensieri. Ma tante volte ho sentito i Padri affermare che la comunione della tua sacra carne mi rende concorporeo (concorporeus), non solo con i fedeli, miei fratelli e sorelle, ma con Voi e che non posso fare a meno di riconoscere nelle loro espressioni un grande mistero. È scritto: « Il corpo della sposa non è in suo potere, ma in quello dello sposo » (I Corinzi VII, 4); e come ho già meditato, ogni anima che porti in sé la grazia è una sposa per Gesù Cristo. Quindi, il mio corpo, se ho la felicità di possedere la sua grazia nel mio cuore, appartiene a Gesù Cristo: gli appartiene attraverso il Battesimo, dove l’alleanza è stata stipulata con impegni reciproci; esso gli appartiene in modo più perfetto attraverso il dono reciproco che si fa nell’Eucaristia. La sposa, una volta che i giuramenti sono stati scambiati davanti agli altari, appartiene allo sposo; ma chi non sa quale forza dia alla loro unione la consumazione del loro patto? Così la Comunione stringe e perfeziona l’unione del nostro corpo con il Corpo del Signore. Questo è il mio corpo, prendetelo, dice Gesù. E i fedeli che la ricevono per goderne, rispondono a loro volta accettandola e con il dono di sé che l’accompagna. A voi anche il mio corpo con tutte le sue membra e tutto ciò che sono. « Il mio amato è mio e io sono del mio diletto » (Cantici II, 16.). L’unione principale avviene attraverso lo spirito; ma poiché l’unione dei corpi è il principio di questa unione spirituale, deve esserne anche la conseguenza. Sì, queste membra del Cristiano, santificate dal contatto più intimo con la carne di Gesù Cristo, diventano in modo più speciale le membra di questo stesso Salvatore: sono ossa delle sue ossa e carne della sua carne. Io non faccio che ripetere, in forma abbreviata, le forti espressioni dei Padri e dei Dottori. Leggiamo S. Efrem, S. Giovanni Crisostomo, S. Lorenzo Giustiniani, Teodoreto sul Cantico, S. Giovanni Damasceno e molti altri, e vedremo se stia esagerando! (S. Giovanni Crisostomo, hom. 10 in Efesini, n. 3; S. Giovan. Damas. de F. Orth, L. IV, c. 13; S. Efrem cujus hæc verba sunt: “Est anima nostra sponsa sancta facta immortalis sponsi, nuptiarum autem copulæ sunt divina mysteria” de Extr. Jud. et Compunct.; S. San Lorenzo. Justin, de Triumph. Christi agone; Teodoreto in Cant., L. II, ecc. Cfr. Franzel, de Euchar, tesi 19; Bossuet, Meditazione sull’Ultima Cena, 24° giorno.). – C’è da meravigliarsi se a questi corpi, che sono diventati suoi attraverso la comunione della sua carne, Gesù Cristo prometta la vita; non questa vita che deve presto passare sotto il soffio della morte, ma una vita senza fine, gloriosa come quella del suo stesso corpo? « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e Io lo risusciterò nell’ultimo giorno » (s. Joan, VI, 55). I Cristiani sono sempre stati profondamente penetrati di questa virtù vivificante dell’Eucaristia. Potrei chiamare a testimoniare gli Uffici liturgici di ogni rito e di ogni nazione: dappertutto si ritrovano, nella celebrazione dei funerali, le promesse di resurrezione attribuite dal Salvatore alla comunione del suo divin corpo e del suo sangue divino. Questa persuasione era talmente viva, che a volte portava ad abusi e persino ad errori. – Il terzo Concilio di Cartagine condannò una strana usanza che era stata introdotta in alcune parti dell’Africa. Si depositava sulla lingua dei morti un’ostia consacrata, la Vita, come veniva chiamata, per essere nel cadavere consegnato alla decomposizione, un seme vitale, un germe di resurrezione (S. August., de Peccat. mer. et rem., L I, c. 24; col. Conc. Carth. III, c. 6). Questo è stato l’abuso. Eccone l’errore: basandosi sulla parola di Gesù Cristo: Chi mangia la mia carne ha la vita eterna, alcuni interpreti fuorvianti pretendevano di assicurare la salvezza eterna ad ogni Cristiano che avesse ricevuto una volta la Comunione in modo degno; come se fosse impossibile perdere per colpa propria il diritto acquisito nel Sacramento, se lo si fosse santamente ricevuto. (S. Thom, Supplem., q. 99, a. 4, ad 2). – Affinché tutti gli effetti dell’Eucaristia sull’anima abbiano il loro analogo nel corpo del comunicante, dobbiamo ancora trovare un frutto che corrisponda alla carità. Se si trattasse solo di ciò che produce nei Santi, particolarmente privilegiati da Dio, non sarebbe difficile trovarlo. Chi non ha letto del tremore del cuore, delle fiamme che si accendono nel petto al contatto con la carne di Gesù, della deliziosa dolcezza che la stessa carne lascia alle labbra socchiuse per riceverla, delle estasi e dei rapimenti in cui il corpo, seguendo il movimento dell’anima, sale con essa verso il suo Dio? Ecco la carità tradotta, per così dire, nel corpo per virtù della divina Eucaristia. Ma stiamo cercando effetti meno straordinari e più comuni. Ora, una di quelle che troviamo più spesso riportate negli scritti dei Santi è la placazione della lussuria e la vittoria sulle sue tendenze disordinate. Come avverrebbe questo? Innanzitutto, con l’aumento della carità, perché è legge che quanto più l’amore di Dio si impadronisce del governo della nostra vita spirituale, tanto minore è la forza e l’influenza delle passioni malvagie in noi. Nate dalla ribellione dell’uomo contro Dio, si direbbe che esse siano morte dove la carità perfetta abbia ristabilito pienamente il regno di Dio. È a malapena possibile vedere che in rare occasioni respirino ancora. So che questo trionfo completo non sia frequente; ciò che è infinitamente più frequente è la vittoria della carità nella lotta ed il progressivo indebolimento della resistenza. – L’Eucaristia, questo vino che fa germogliare le vergini, non conduce forse più direttamente alla stessa meta? Questo è il segreto di Dio. Solo Lui può dirci se non ci sia una virtù che, uscendo dal suo corpo, agisca immediatamente sul nostro per moderare il suo pericoloso ardore. Senza dubbio, ha fatto questa meraviglia più di una volta. È secondo una legge costante che l’Eucaristia produca un tale effetto? È possibile almeno dubitarne (Suar. de Euchar., D. 64, S. 1). Tuttavia, non è improbabile che il Sacramento del corpo e del sangue del Signore eserciti questo influsso immediato sul corpo, nella misura in cui la bontà divina lo ritenga utile al fine principale, cioè alla santificazione dei fedeli. L’Estrema Unzione non ha effetti simili per il sollievo corporeo degli infermi? In ogni caso, la presa di possesso che Gesù Cristo fa di tutti noi attraverso la Comunione santificata ricevuta, ci dà un titolo speciale alla protezione che ci salvaguarda dagli attacchi del nostro grande nemico domestico. Ciò che non permise mai in quella carne di Maria che un giorno sarebbe stata la sua carne, non permetterà che prevalga nella nostra, dal momento che il Sacramento la unisce così strettamente alla sua. – Perciò non c’è arma migliore per vincere la lotta contro lo spirito impuro che la Comunione frequente e ricorrente. « Chi dunque – si chiede San Bernardo – sarà in grado di spezzare i furiosi assalti di questo mostro? Chi potrà guarire questa ulcera e questa cancrena della nostra povera natura? Abbiate fiducia: avete l’aiuto della grazia; e per darvi una certezza maggiore di successo, Dio mette a vostra disposizione il Sacramento del corpo e del sangue del Signore. E questo Sacramento ha due effetti ugualmente mirabili su di noi: diminuisce i nostri sentimenti negli attacchi più lievi, e toglie ogni consenso in quelli più gravi » (S. Bernardo, Serm. de Cœna Domini, n. 3). Questa carne di Gesù Cristo è una rugiada che scende dal cielo. « La rugiada non rinfresca forse il caldo torrido del giorno? » (Ecclesiastico, XVI, 16.2). « Il sacro Eulogio, che dovrebbe liberarci dalla morte, è ancora un rimedio efficace per le nostre malattie. Il Cristo, una volta che sia in noi, calma nelle nostre membra la legge della carne, vi mortifica le passioni moleste, vivifica il nostro amore per Dio e cura tutti i nostri mali » (S. Cyrill. Alex, L. IV in Joan., VI, 57. P. Gr., vol. 73, p. 585).

LA GRAZIA E LA GLORIA (42)

LO SCUDO DELLA FEDE (226)

LO SCUDO DELLA FEDE (225)

MEDITAZIONI AI POPOLI (XIII)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE XIV

Il Santissimo Sacramento (1)

Inveni quem diligit anima mea.

Io ho rinvenuto il mio Bene amato, dice la santa Sposa della Cantica, che significa l’anima in cerca di Gesù. Io, sì l’ho trovato il mio unico Bene. E qual è il mio e il vostro Bene amato, o fratelli? Il cuor ce lo dice: è Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento qui con noi, che non ci abbandona più mai. Per poco possiamo dire come la Sposa santa: girai pei campi, errai pei monti, ma in tutti i luoghi non trovò che solitudine e disinganno il mio povero cuore. Scontrai le scolte per la città e le pregai: Deh mi dite, io vi scongiuro, dove è mai Colui che io sento di amare tanto, e non mi è dato di ritrovare in questo povero mondo? Le guardie poste al santuario del suo amore m’introdussero nella tenda delle sue tenerezze; ed io riposai in seno al ben amato nostro Gesù! Ah, miei fratelli, finiamo di tradirci lusingando questa povera anima nostra! La mente, il genio, il cuore, l’umanità tutta sente bisogno di Dio. Il filosofo nelle speculazioni, allorquando sì slancia nell’indefinito e cerca quel Sommo Vero, quel Sommo Bene, quell’Ente fonte di tutti gli esseri, quella prima Cagione insomma che sostiene tutte le cose, e che vi deve pur essere, il filosofo, senza pur nominarlo, va in cerca di Dio. L’uomo di genio, che sull’ali dell’ispirazione errando, alla lontana vagheggia un bello ideale col suo pensiero; e ognun col cuore ansioso di un amore infinito, se nella foga del desiderio lo cerca coll’avido sguardo sulle bellezze in terra, se si slancia nelle creature per ritrovarlo in esse è costretto di ripetere presto a se stesso: Ei non è qui!… e cadere in lena affannata!… O uomini dalla potente parola, i quali dite ai popoli: venite con noi, e troverete i bene che sospirate, vedeteveli ora con voi come si trovano! Eglino s’arrovellano nella rabbia del disinganno, sorgono come i marosi in tempesta … si battono in rivoluzioni, e i fratelli i fratelli trafiggono senza forse sapere la ragione. Ah la somma delle ragioni e perché li avete traditi allontanandoli da Dio; è perché  supremo Bene dei popoli è Dio; e Dio vogliono compagno del loro peregrinaggio, amico nelle loro famiglie, alla testa dei loro eserciti: a lui la gloria delle loro vittorie; Dio costituire protettore dei loro diritti: da tutti i punti dell’universo essi lo sospirano e chieggono di averlo in mezzo di loro. Quindi tutti i popoli vogliono avere un sacrario, un tempio, e, se non fosse altro, una cella, un bosco, un antro per trattare con Dio e versargli nel seno tutti i loro bisogni. Da per tutto erigono altari per trovarlo sopra essi. Ma nel salirvi manca loro il coraggio; e si sentono troppo meschini: il proprio cuore li accusa tutti, tutti sentono di esser colpevoli. Per questo si affannano a portar vittime, a scannarle, ad arderle nei sacrifici, affinché, accoltele Iddio in odore di soavità, resti placato con essi. Ma che è mai?… Corrono tutte le genti sugli altari, e vogliono mangiare delle offerte istesse, che credono di aver posto in mano del loro Dio! E tutti i popoli fecero sempre così. Come ciò non potevano satollarsi nelle lor case? E perché  correre a cibarsi nei templi? E che ha mai da fare il mangiare coi riti delle religioni? Ah! Miei fratelli, è che gli uomini in fondo al loro cuore sentivansi dire da una primitiva parola, che avrebbero trovato sugli altari Iddio. L’umanità ha bisogno di unirsi con Dio, ha una santa fame della Divinità; e piglia quindi di quelle cose offerte, se le mangia per metterle nel proprio petto, riporle sul proprio cuore, e coll’inviscerarsi quella cosa diventata sull’altare santa con Dio, vedere così di stare al contatto e come cuore a cuore con Dio… Benedetto Gesù Cristo, il quale provvede a tutti i bisogni degli uomini, e a questo supremo bisogno provvede da Uomo Dio, sì veramente nel santissimo Sacramento! Egli, Dio col Padre in cielo, Uomo con noi in terra, ci chiama tutti: venite ad me omnes, e come una madre ci vorrebbe sempre attorno; onde ci viene ripetendo: Vi porterò con me al cielo: omnia traham ad me ipsum (Giov. XII, 32). Poi quando noi ci facciamo a Lui appresso, quando gli stendiamo le braccia, quando gli allarghiamo il cuore, Egli ci abbraccia divinamente; e questo amplesso, in cui si abbondona Dio e si unisce personalmente cogli uomini, è la santissima Comunione!… Miei figliuoli, aprirovvi il mio cuore. In tutto che io dissi, che io feci con voi io mirava sempre qui, ad unirvi con Gesù nel santissimo Sacramento!… Ora ci siamo giunti!… è qui Gesù, che sta in mezzo di noi. Di che io non posso fare altro che esclamare: eccovi, Egli è proprio qui con noi sull’altare! eccovi, eccovi che vuol venire con noi nella santissima Comunione! È questa la nostra più cara Meditazione che divideremo in due punti. I. punto: Gesù è qui con noi nel Santissimo Sacramento colla sua Presenza reale; e noi come lo trattiamo? e noi come lo dobbiamo trattare? II. punto: Gesù Cristo dà tutto se stesso nella santissima Comunione; e a noi non resta che di gettarci in seno a Gesù, e far quello che vuole il cuor Suo amantissimo, il che vuol dire salvarci. Gesù adunque colla sua Presenza Realr nel SS. Sacramento qui con noi, Gesù che si dà a noi nella santa Comunione, ecco tutto il nostro argomento. Io per me mi gitterei col volto sul pavimento appiè dell’altare, e nel silenzio del labbro sfogherei l’animo mio non con altro che col pianto. Ma dovendovi parlare, datemi il vostro cuore che io ne ho bisogno per dirgli con voi: Gesù, Gesù! col tremito della tenerezza noi vi baciamo col cuor tutti insieme nel vostro Cuore amantissimo. E giacché ci lasciate fare, io metto la mia bocca al vostro Costato!… Deh che io mi risenta dell’esservi così vicino! Deh che io palpiti dei vostri palpiti; e che dal vostro Cuore mi fluisca quella parola calda del vostro Sangue, la quale pur passando su questa mia lingua di terra, infonda nei nostri figliuoli la vita eterna. O Maria, benedetta Madre di Gesù e Madre nostra, io ho bisogno di tutto il vostro Cuore e della vostra materna parola, per trattare il vostro più caro interesse, che è quello, di fare amare, come già voi in terra, Gesù nostro nel SS. Sacramento. –  Intanto io respiro già in mezzo di voi, consolato più che una madre la quale ha intorno alla mensa i suoi figliuoli tutti pieni di vita, a cui ella dà proprio volentieri il cuore… Oh sì, che io vi amo tanto; e troppo più che io non vi dica!… Nel vedervi correre tutti per ricevere Gesù io tranquillizzo il mio cuore per voi (vel confesso, già sempre agitato) colla consolante confidenza che nessuno di voi, sì, proprio nessuno di voi, uniti essendo con Gesù, si abbia da perdere ancora. No, Gesù mio, ve l’assicuro: sempre uniti con voi nel Sacramento li avremo tutti salvi in paradiso! – Deh, che mai ci dice la fede del santissimo Sacramento? Che Gesù è proprio qui in Persona. Santa fede!… Noi, per goder meglio della nostra sorte, fermiamoci col cuore a Lui, e contemplandolo guardiamo in quel suo Costato aperto; poi, quasi non credessimo nemmeno a noi stessi tanta nostra fortuna, fissiamogli come gli occhi in volto, col cuor che credendo l’ama tanto, consoliamoci rassicurati, esclamando: Gesù nostro!… Voi siete proprio qui?… Rendiamocene come più consapevoli col sentirlo dalla sua bocca stessa che ci sicura. Parla Gesù; e noi ascoltiamo, adorando la sua parola. Sono mille ottocento anni i quali provano che Gesù dice sempre la verità. Difatti, sono ben mille ottocento e più anni dacché Gesù là dinanzi alla maestosa mole del tempio di Gerusalemme fissando di mezzo ai discepoli quella smisurata montagna di marmi sclamava: Tempio, sarai distrutto; e prima che passi questa generazione: né di te rimarrà pur una pietra sopra altra pietra. — Ora sono mille ottocento anni che il tempio restò distrutto là così, da non poter fissarsi esattamente il luogo, in cui s’innalzava quel superbo edifizio. Ciò prova che Gesù Cristo son mille ottocento anni che dice sempre la verità. Fan mille ottocento anni che Gesù così piangeva: Povera Gerusalemme! tu non mi ascoltasti! Resterai sepolta sotto le tue rovine, e i Giudei saranno dispersi per tutta la faccia della terra, senza tempio, senza sacerdozio, senza esser un popolo, in mezzo a tutte le nazioni a fine di render testimonianza alla mia parola. — E i Giudei restano dispersi da per tutto tra le genti, senza mai confondersi con esse, senza mai potersi raccogliere a formare un popolo; e qui, là provano in faccia a tutto il mondo che sono mille ottocento anni che Gesù dice sempre la verità. – Tristi ai Giudei cui l’imperator Giuliano, nemico feroce di Gesù Cristo, chiamava da tutto il mondo, ed aiutava di forza a far risorgere dalle spaventose rovine più bello il tempio in onta della parola di Gesù Cristo! Allora i Giudei a portar tesori per la sospirata impresa; le donne offrire i gioielli e gli ori, e fin le proprie braccia a rifabbricarlo. Si scavano le fondamenta, rimossa pietra di sopra pietra; ma sbucano fuori le fiamme che, consumandoli, danno tale lezione, che più non ritenteranno per tutti i secoli la sacra impresa contro la parola di Gesù, il quale da mille e ottocento anni dice sempre la verità. – Su su, io vorrei dire agli increduli, volete un bel miracolo, che provi vera la parola di Gesù? Ve lo avete davanti; e pensate che concorrete voi stessi a farlo risaltare in faccia all’universo. Voi,  i quali colla potenza delle vostre sette scoronate a voglia i monarchi che non vi servono, voi che annettete i popoli, cambiate la carta geografica, create i regni, voi, dico, potreste dar la mentita a Gesù Cristo. Raggranellate i vostri giudei, formate un piccolo regno, sia pur microscopico: comprate un palmo di terra in quella squallida Gerusalemme, da erigervi su il tempio… – Che vi pare? Il Gran Turco, che è il padrone, lasciossi già vender l’Egitto, ed ora va cedendo le provincie: egli vi venderebbe anche il serraglio, perché non ne può più pel bisogno di danaro. I vostri Giudei tengono in lor cassa i denari di mezzo il mondo. Dei governi d’Europa sono indifferenti per Gesù Cristo, altri malignamente desidererebbero che la sua parola fosse smentita. Ma non è questo un miracolo! si vorrebbe vendere, nessuno impedirebbe di vendere; si hanno danari da comperare, è il desiderio il più ardente di tanti secoli di far questa compera; eppur non si compera mai… Questo miracolo lo fa la parola di Gesù che disse, da mille ottocento anni or sono: Tempio, resterai distrutto. Giudei, non regnerete più fino alla fine dei secoli. — E son mille ottocento anni che Gesù Cristo dice sempre la verità. – Era Gesù Cristo sulle rive di un laghetto in mezzo a pescatori poverini, i quali rattoppavano le reti, e loro con amabil parola diceva: Ma io vi farò pescatori di anime per tutto il mondo; tu poi, o Pietro, sarai la Pietra sopra cui edificherò la mia Chiesa, e neppur le potenze d’inferno ti abbatteranno. — E fu veramente così. Quei villanelli della Giudea eccoli dispersi per tutto l’universo: hanno successori a raccogliere anime, e sopra la prima Pietra il successore di Pietro sta a dispetto di tutte le eresie, a dispetto di tutte le potenze, a dispetto di tutte le rivoluzioni, immobile in mezzo a regni che cadono, tra le rovine del tempo sopra la terra: a scorno dell’inferno il Papa sta da mille ottocento anni, per la parola di Gesù Cristo che dice sempre la verità. – Ma se Gesù Cristo disse fino prima di nascere, e continua per mille ottocento anni a dire sempre la verità, ascoltate, ché ne dovrete intenerire alle lagrime. Un dì una povera donnicciola, a vederla, sposa di un artigiano andava su per una montagna a fine di visitare una sua parente. Quella vecchiotta, che vide venire a sé la donnina, esclama in giubilo: Oh che fortuna!… La madre del mio Signore che viene a me? — Allora l’ospite come rapita esclama: Magnificat anima mea Dominum: L’anima mia esalta il Signore!… Quia respexit humilitatem ancillæ suæ, ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes. Ma, sentite che diceella? « Perché il Signore guardò l’umiltà dellasua servetta, ecco che mi diranno beata tutte le generazioni! » Avrebbero detto gl’increduli: Donninamia, che di’ tu mai?… Che tutte le generazionidel mondo si abbiano ad interessarsi per te,meschinella?… Che tutte le generazioni dell’universoti abbiano a chiamare beata: beatam me dicent?…Oh vaneggia la poverina!… — Profani… tacetelà: quell’umile vergine è l’Eletta dall’eterno CreatorePensiero di Dio; è la più grande di tutte lecreature nella sua umiltà… è Maria Santissima, laquale ha in seno Gesù che le spira sul vergine labbro l’eternasua verità!… Figliuoli, voi l’avetein mano nel vostro uffizio la Sua profezia, e lacantate sempre nei vesperi: beatam me dicent omnes generationes.Ora guardate voi se d’allora sino aquesti dì non dice sempre la verità! Increduli e credenti, dite: non è egli vero che dal sommo Pontefice nel più gran tempio dell’universo,dai re,  dalle regine, fino alla povera figlia appié della Madonnina di gesso, tutti acclamano alla benedetta:« Oh Maria, tu sei beata! » Mettete pure tutti i monarchi ed i conquistatori, tutti i grandi eroi delmondo insieme, sì che mostrino se banno tantimonumenti eretti alla lor propria gloria quantiMaria ha santuari e chiese; altari e tabernacoletti.Sino sopra il letticciuolo del tapinello sta laimmaginetta appesa; e dappertutto tutte le genti delmondo la acclamano: Beatam me dicent omnenerationes… Maria SS. era inspirata da Gesù cheaveva in seno: e noi lo ripeteremo sempre, e doponoi tutti i secoli ripeteranno che Gesù Cristo dicesempre la verità. -Che dice adunque Gesù del Santissimo Sacramentocolla sua parola? Sentite la verità di Dio! QUESTO È IL MIO CORPO!… QUESTO È IL MIO SANGUE! …splendor di chiarezza del Verbo Divino sfolgora la  mente umana; e Se voi, o increduli, potete non credere, come potete anche morire senza speranza,  pur crede il mondo cattolico con tutti i suoi piùgrandi uomini dell’universo. Noi tutti adunqueadoriamo nel Santissimo sacramento il Corpo e ilSangue di Gesù Cristo.Meditiamo qui in prima come è qui proprio Gesùpresente di una presenza vera, reale, sostanziale inAnima e in Corpo; come vi è Dio-Uomo nellasua Persona divina. Meditiamo poi che Egli è quicon quel suo Corpo che combatté per noi sino all’ultimo sangue; meditiamo eziandio consolati che Egli è qui con quelle piaghe, con quel Cuore apertoe che ci vuole seco d’intorno in comunione di vitaper condurci salvi in paradiso.Nessuno mai; e neppure i popoli di tutte le falsereligioni che si creavano i loro déi a fantasia, e seli facevano a seconda delle loro passioni, no, nongiunsero ad immaginarsi che un Dio si potesse abbassarea questo modo. I Giudei provocavano arditamentele nazioni a mostrare se mai avessero unDio, il quale si fosse avvicinato a loro come il Diode’ cieli a trattar col popolo d’Israele era disceso.E per vero una volta re Salomone e tutto il popoloinsieme, dedicatogli il più gran tempio dell’universo,videro una maestosa nube discendere dalcielo, ingombrar tutto il gran santuario, e teneresopra di esso adombrata la gloria di Dio. Allora ree popolo in ispavento caddero bocconi per terragridando: Eh si deve pur credere ergo ne putandum est… che Dio si degni di abbassarsi così? —Anche là nel deserto, quando scorsero altra voltauna gran nube avvolgere intorno la montagna del Sinaiin tenebrore, e guizzarne lampi, rombare tuoni,traballare il monte in sussulto, la vetta andare infaville, ed una tempesta di folgori e di saette tenerliin pauroso rispetto davanti alla Maestà di Dio chesi mostrava presente, caddero tutti come un soluomo colla faccia nella polvere alle radici di essomonte, mettendo costernati le strida: Tremendo Dio,cui non osiam nominare, non parlate a noi, chénoi cadremmo morti alla vostra parola: parlate alvostro servo Mosè; ed ei ci ridica li vostri comandamenti!…— Passata poi la visione, gridavanoin vanto di gloria: No, no, non vi è nazione cosìgrande che abbia come noi così avvicinato Iddio! —Anzi, benché poi Dio si fosse lasciato intendereper mezzo dei profeti, e detto avesse come preparandoagli uomini un grandissimo dono, farebbe delconversare cogli uomini la sua delizia: Deliciæ meæ esse cum filiis hominum. (Prov. VIII, 31): eglino al tuttoal tutto non potevano giungere ad immaginarsi ilgran miracolo, d’ogni aspettazione maggiore, dellabontà del Salvatore nostro Dio, di volere cioè rimanere per tal modo nel Santissimo Sacramento. –  Deh! noi spargiamo la terra di fiori, vestiamo diarazzi preziosi le auguste magioni di Dio. Mille e mille, sul candor di quelle candele, svavillino lefiammelle tremolanti come i cuori nostridel santo amore; si slancino al cielo le cupole sublimi come la fede che le inspira… giacchéDio, è qui Dio con noi. Su su, verginelle e figliuoledi Maria; su, giovinetti dal puro cuore,attorno in terra quei cantici che gli ricantano gliangioli in cielo…. È qui Dio? E in qual contegnosta Dio?!! Gran Signore, dov’è quella destragettò, come una manata di polvere, i mondi nelfirmamento e li sorregge nell’ordine e nell’armoniadei moti? Dove è quel piede che, se tocca, riduce incenere i monti? Dove quella voce che chiamò fuoridal nulla l’universo, che se intimerà all’universo diritornare al nulla, l’universo non sarà più? Onnipotenza d’amore! Egli scorona dei raggianti baleniil volto divino e stassene qui muto: annichila pelpensiero nostro l’immensità, e rimane sotto le apparenze del pane mutato, dove gli uomini lo vogliono, o meglio, dove vuole Egli trovarsi, cioèdappertutto dove sono i suoi cari. Sia pure raccolto in poche capanne e catapecchie un piccologruppo di povera gente; ed Egli là si contenta didimorare in un ripostiglio a mezzo di loro. In unachiesuola coperta di edera, tappezzata di muschio, eziandio grommata di muffe, dentro untabernacoletto meschino, sotto poveri cenci è sempre Gesù,il quale accarezza l’anima più meschinella del mondose viene a Lui; ed è il vero tesoro di tutti, anche dei più piccoli cuori. Qui egli è l’amico, qui loSposo delle anime nostre: qui il Padre che accoglie a qualunque ora i suoi figliuoli… Ma non basta,  Egli è come il capo, il quale raccoglie intorno intorno noi come le più care membra del suo Corpo.Ed oh per miracolo d’amore quanto sa farsi piccino!Nol direi io, mai no!… Ma lo dice la suaamabile bocca. Sentite: Io sono come la chiocciasull’aia che chiama i suoi pulcini sotto dell’ali. Perriscaldarli col proprio petto! Quemadmodum gallina congregat pullos suos sub. alas (Matt. XXVII, 37). Tenerissimospettacolo, dice s. Agostino, è il contemplarecome la gallina madre in mezzo dell’aia stende leali, crocchia, crocchia e chiama in crocchiando tuttii pulcini intorno. I pulcini a lei si fan sotto, e voglionostarvi proprio tutti; ed ella arruffa le piume,la si fa grossa grossa a far il posticino per tutti.Quando se li tien insieme in se stessa ripiega il collo,se li accarezza e pipila pipila con essi sul cuore!Buon Gesù! Voi fate proprio così: « Venite, venite ad me omnes, venite a me, venitemi tutti, ci andateripetendo, reficiam vos; vi scalderò io tutticoi miei palpiti, vi ristorerò col Sangue mio! — AGesù adunque il pensiero, il cuore, a Lui intornotutta la nostra vita.Del sicuro, per un fedele, il quale ha cuore, nonv’è nel mondo santuario più devoto, né più caro diuna chiesuola dove dimora in Persona il nostro benamato Gesù. Vanno i devoti ai santuari, massime ,a quelli di Maria Santissima. In essi nel dì dellavisita sentonsi come in casa propria di nostra santaMadre; e appendono con cura amorosa quei lorovoti d’argento, quasi vi attaccassero il cuore, dall’unae dall’altra parte dell’Immagine sacra alla divozionedei popoli. Bene sta: è una tenerezza versoalla nostra beata Madre in cielo. Ma per me e pervoi, il santuario più caro è il tabernacoletto in cuialberga il Santissimo Sacramento. Si, Gesù, buonDio nostro, quanto è dolce cosa abitare nella vostratenda! Chi ci concede che noi vi troviamo, etroviamo Voi solo? che godiamo di Voi, né creaturaalcuna da Voi ci allontani; né guardi pure anoi, ma che Voi ci parliate come amico ad amico? (Imit. Di G. C. lib. 4).Deh, vi preghiamo, trasformateci in Voi; poiché, sesiamo cuore a cuore con Voi, si ristora la nostra persona,e respira in seno a voi il profumo di unavita migliore; e un giorno, un’ora goduta insieme con Voi solo consola l’anima più che mille anniperduti per questo mondo che finisce di non accontentarenessuno: Quam dilecta tabernacula tua, Domine! (Ps. LXXXIII, 2). Cerchiamo, fratelli, di stare col cuorein Gesù, e cesseremo di essere infelici!Ai tempi di fede più viva si vedevano principi ere, lasciate le mollezze dei loro palazzi, a capo deiloro eserciti, cavalieri a capo di popolazioni intieree fino schiere folte di giovanetti, come in Ungheriaed in Polonia, muovere alla volta di Terra Santa.Pigliata che avevano la croce sul petto, sfidavanopericoli di viaggi più disastrosi; e con una fedeche comanda ai venti, cimentavansi attraverso ai mari, montavano sulla testa alle tempeste, e intimavanoai furenti marosi di gettarli sulle turchecoste marine. Là sbarcati, rizzavano alto il Crocifisso, sventolavangli sotto lo stendardo della Madonna;poi, serratisi intorno con una selva di lance,brandendo con una mano la spada, col Rosario nell’altra pregavano e combattevano. I Turchi in agguato dalle giogaie del Tauro irrompevano lor addosso; ed essi aprivansi il varco in mezzo ai feroci, seminavano di ossa il deserto, ma sempre col grido di guerra: avanti! ché chi muore per Gesù, trionfa sempre! Si sentivano contenti che pochi potessero giungere alla Terra Santa a compiere il voto del devoto peregrinaggio. Arrivati sotto le mura delle città liberate dai Turchi fuggiti dall’assedio al sopraggiungere dei prodi crociati, uscivano fuori respirando i Cristiani, e correvano in mezzo alle loro tende per medicare le piaghe ai loro liberatori. Quindi: venite, dicevano a quei bravi, qui giù in questa grotta di Betlemme. Questo è il Presepio, li la greppia, e in fondo su quel sasso la Madonnina santa depose il Bambino Gesù nella più bella notte del mondo. — Quei guerrieri cadevano per terra ginocchioni con quelle ispide facce riarse dalle battaglie; baciavan quel sasso in singhiozzi come le femminette, e pareva lor di baciare i piedi al Bambino Gesù! Poi conducendoli in giro: è questo il villaggio dove abitava sovente Gesù; questo il pozzo, e su quel davanzale lì Ei si sedette a convertire la Samaritana. — Quei guerrieri nelle loro estasi popolavano quei cari luoghi immaginandosi le turbe su per quei poggi correre appresso a Gesù coi cuori affamati del pane della vita. Entrati nell’orto di Getsemani indicavano: Qui sotto questi olivi, su quelle antiche ceppaie, che sono ancora le stesse, Gesù sudava Sangue pei nostri peccati!… — E quei prodi caduti per terra si battevano i petti coperti dell’usbergo di ferro, gridando misericordia! Pareva loro di fissare gli 0occhi a Gesù nello spasimo della sua agonia; e facevano atti di contrizione unendo il proprio al suo dolore divino. Poi in Gerusalemme loro si diceva: eccovi la via per cui passò Gesù Cristo portando la croce; e di li gli correva appresso Maria. Ancora adesso, vedete, fino i Turchi la chiamano la via di tutti i dolori… Ah la Madre addolorata vedeva su quei sassi le strisce di Sangue che perdeva il suo Gesù… Questo ceppo di colonna è quello che segna il luogo dove ella giunse ad abbracciarlo sotto la croce!… — Quei valorosi si protendevano colle braccia larghe sulla strada, e coi gemiti: Gesù e Maria! sospiravano, quasi baciassero a loro i santissimi piedi! — Levatevi su, dicevan loro, venite nella chiesa al santo Calvario. Qui pigliando per mano quei trepidanti: montate su, dicevano, sopra questo santo Monte. Vedete? questa è la rupe che si spezzò nell’ora dell’agonia e restò qui così. Proprio in questo buco era piantata la croce: Maria Santissima dovette star li; e il Sangue di Gesù pioveva su questi sassi!… e l’addoloratissima nostra Madre, pensate! … restava tutta bagnata di Sangue!… — A tutti scoppiava il cuore; tremavano le loro ginocchia; e buttatisi bocconi col fremito di compunzione e con acuto dolore baciavano quella roccia bagnata del Sangue di Gesù, la riscaldavano col proprio ardore, e parlavan coi palpiti del cuore sopra essa. Ma: eccovi il santo Sepolcro qui, il quale non ha più cadaveri da gettar fuori pel di del giudizio. Di li Gesù risorse glorioso: mettete dentro il capo ad osservarlo. — A quei buoni campioni pareva di metter proprio la testa sulla porta del paradiso: poi raccoglievano un po’ di polvere, staccavano un sassolino da quei luoghi consegrati dal Sangue di Gesù portandoli quali preziosa reliquia per le loro famiglie, le quali li riabbracciavano salutandoli: oh i fortunati! Fortunati, noi pure ripetiamo, fortunati i discoli e le turbe che poterono avvicinare Gesù, e toccargli fino le vesti. E Maddalena non fu fortunata? la benedetta sedevasi proprio ai piedi di Gesù, e beveva estatica le parole che piovevano celesti consolazioni da quel labbro divino. E gli Apostoli, che sempre d’intorno venivano pascolati di celeste dottrina da quell’amabilissima bocca? Ma più di tutti fortunata Maria. Ella è ben la cara divozione dei popoli quella di contemplare la Verginella Madre beata col divin Bimbo in grembo; né il genio dei pittori restò mai esaurito nel presentarla nelle più amabili e devotissime forme: ché la Madonnina col Bambino Gesù attrae sempre gli occhi e il cuore dell’uomo a contemplarli. Eppure io qui vorrei dirvi, e fatene pur le meraviglie, ché ne avete ragione, anche noi essere fortunati con Essa. Poiché abbiamo proprio Gesù medesimo qui con noi. Anzi, se si può parlare così di Dio, il quale merita di essere amato sempre sopra ogni tosa, pare che qui abbia maggiore merito, ove possibil fosse, di essere amato di più, essendo Egli qui con noi dopo di averci salvati a costo della propria vita. Ora meditiamogli sulle sue Piaghe. Ma giova innanzi osservare che, siccome Gesù è Dio eterno, così i tempi sono in Lui come un solo momento. Quindi noi possiamo adorarcelo, o come Bambino, o là come era nella casa di Nazaret, o in passione sulla croce, o col cuore squarciato e tutto una piaga sulle ginocchia di Maria, ovvero com’è nel cielo. In questo momento facciamo noi di contemplarcelo Bambino a guisa di quell’anima tenera di s. Bernardo, il quale gli diceva: Gesù mio, quando vi contemplo piccino di più, e più amabile mi siete. — Or via. datemi voi, o fratelli, qui tutti il vostro cuore, e facciamo di baciare tutti il Bambino Gesù, perché ce lo permette Maria Santissima, la quale lo lasciò baciare ai pastori. O Bambino nostro Gesù, deh lasciateci baciare la vostra Testina… Oh ve’… sotto questi ricciolini dorati vi sono ancora i fori che vi fecero le spine, quando siete venuto su grande a morire per noi… O Bambino Gesù, lasciateci baciare le vostre Manine!… Oh ve’… in queste vostre Manine vive vive ancora appaiono le Piaghe che vi fecero quei chiodi per noi!… Gesù nostro! vi vorremmo baciare nel Cuore… Ah questo Cuoricino geme ancor Sangue tra quelle vampe d’amore e palpita tutto per noi!… – Dite ora voi, o fratelli, se non si debba amare, troppo più che non si possa, nel Sacramento Gesù, solo che ridestiate la fede. Pensate infatti, quando un prode guerriero, dopo di aver combattuto per la patria; per le spose, pei figliuoli e per gli altari, ritornava in trionfo tra i suoi diletti, come era una festa per tutti. Tutto il popolo intiero muoveva ad incontrarlo in folla; e al vederlo comparire era un evviva unanime. Ristavansi poi tutti un istante… e lasciavano andare innanzi chi? il vecchio padre tremolante. Ei gettavaglisi tra le braccia, e pareva a lui di ringiovinire alla vita in gloria sul petto del figliuol glorioso. Poi la vecchierella madre, la buona madre lo mostrava ad ognuno trionfante, com’era, e felice di quel suo gran figliuolo: i suoi Tarchi a strincersi alle ginocchia di lui, e su a baciargli le mani; e la sposa in estasi di gioia stracciare i veli più fini per medicargli sul petto le piaghe onorate; e tutti a disputarsi una parolina da lui, un sorriso almeno, un’occhiata, un cenno di saluto. Era una consolazione ed un gaudio che mai lo maggior per tutti. Deh, deh! meglio noi colle lacrime della più viva gioia festeggiamo Gesù trionfante dalla battaglia, la quale dall’inferno ci liberò. Egli è qui risorto, e porta sulla divina Persona quelle Piaghe gloriose che ebbesi a toccare nel battersi per noi: egli è qui, e ci porge quelle membra che si son battute a nostro vantaggio fino all’ultimo Sangue. Egli è qui con quel Sangue, cui egli ha versato fino all’ultima goccia. Oh cara vita del nostro Gesù, e dove ho il mio cuore, quando non l’ho qui tutto con voi? Ah quando si pensa che lo lasciamo tanto tempo senza dargli un pensiero, per non sentirne disdegno bisogna proprio avere compassione delle povere anime nostre, cui tanti nonnulla del mondo portano lontano dal Sommo Bene nostro Gesù! Ridestiamo la fede, fermiamo un poco il pensiero; ed il nostro cuore allora dovrà troppo più teneramente che io non dica amare Gesù. Fate voi questa prova.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (4)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (4)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO I

LA VITA IN DIO

3. – Gesù Cristo Uomo.

Può meravigliare che il Cristo e la sua Passione occupino tanta parte dei pensieri, delle parole, della vita stessa di chi, come il Cattolico crede con tutta l’anima e con tutta la convinzione quanto è stato esposto fin qui sul conto di Cristo nostro Signore? “La mia vita è Cristo e la morte mi è guadagno” asserisce San Paolo; e il Cattolico comprende perfettamente il suo pensiero, “Io non conosco che Gesù Cristo, e questo crocifisso” così si esprime in altro luogo; e i Santi gli fanno eco di continuo con un calore che dà alle loro parole l’accento stesso della verità. Dice ancora l’Apostolo: “Vivo, non già io, ma Cristo vive in me” e il Cattolico vorrebbe appropriarsi questa affermazione per farne l’ideale della propria vita. Potranno taluni rimaner stupiti o increduli; per molti Cristo è pietra d’inciampo, per altri scandalo e follia, ma non mancano quelli che sanno, e per costoro Egli è “il Cristo, la forza e la gloria di Dio”. Cristo, figlio di Dio fin da tutta l’eternità, ma insieme vero Figlio dell’uomo nel tempo, nato su questa terra da una donna della nostra stirpe, rimasto vero Dio, ché non avrebbe potuto mutar natura, ma diventato anche vero uomo, questo Cristo è venuto fra gli uomini perché li amava in quanto Dio, mi amava, di un amore eterno. Per me ha vissuto la sua vita umana ed è risuscitato da morte. E perché continua ad amarmi in quanto Dio e in quanto uomo, per me vive tuttora nel cielo dinanzi al Padre comune, “sempre vive a fare intercessione per me”, e quaggiù sulla terra, rinnovando di continuo l’oblazione che per me fece una volta per tutte. Vive in me realmente come io sono in me stesso, e nutre la mia vita della Sua, se io voglio, ogni giorno. Mi chiama fratello, figlio del suo stesso Padre, suo intimo amico, abolendo la distanza che ci separa. Mi fa partecipare alla sua eredità, supplica il Padre per me, uno dei “suoi”, affinchè “ov’Egli è io pure sia” qualunque sia la sentenza che merito. Ogni mio dolore trasforma in gaudio, e ogni mio gaudio in uno ancor più grande. E mi dimostra con metodi, evidenze, argomenti assai più convincenti e decisivi di quelli della ragione umana, eppure da essa ovunque confermati, che tutto ciò è vero e reale, è opera che Dio solo poteva compiere, è amore che Dio solo poteva mostrare, opera e amore ineffabili, ma in tutto degni di Lui. “Dio è fedele”. Tutto questo e più è Cristo per me; come potrebbe non esser l’oggetto primo dei miei pensieri e del mio amore? Che cosa non dovrò essere, che cosa non dovrò fare, che cosa non dovrò sopportare per questo Cristo che si è dato tutto per me, che tanto ha operato e patito per me? Vero è che fintanto che vivrò sulla terra avrò necessariamente da occuparmi di altre cose. Dovrò tenere il mio posto fra gli uomini e assolvere il compito che mi spetta. Il mio amore dovrà necessariamente riversarsi su altri; ma vada pure a tanti quanti si vuole e con tutta la ricchezza  ch’essi mi lasceranno prodigar loro: ciò non potrà che rendermi più simile a Lui, il grande amico dell’umanità. E comunque, i miei pensieri, le mie intenzioni, i miei affetti non potranno arrestarsi in loro: se voglion trovar riposo e soddisfazione debbono andare oltre, perché scoprono Lui che trascende ogni altro essere. Egli si è rivelato e ormai tutto in me deve aver fame e sete di Lui, come il cervo assetato brama le acque. La mente e l’anima l’hanno trovato e non possono più abbandonarlo, ché in Lui solo ormai troveranno la loro pace definitiva. – In verità, una volta incontrato e conosciuto Cristo, Egli diventa il nostro tutto. Vi sono altre belle, buone, desiderabili, degne di essere amate e perseguite, e noi possiamo apprezzarle e coltivarle tutte. Vi sono creature umane ammirevoli, nobili, amabili, degne di quanto di meglio possiamo dar loro e della nostra stessa vita. Anche l’amor di patria ci è lecito e doveroso non meno dell’amore ai fratelli, come lo dimostra in vari cimenti l’evidenza dell’eroismo e del sangue. Ma dietro a tutte queste cose, sopra di esse, sta la figura del nostro Signore ed amico che tutte le trascende e a tutte dà il massimo splendore a cagione della luce su di esse riversa. – Il Cattolico sa leggere il Vangelo. Altri potranno superarlo nella conoscenza tecnica di esso; potranno avere maggiori nozioni intorno alla terra di Palestina, agli usi e costumi degli Scribi e dei Farisei, alla forma delle pietre su cui Cristo passò e intorno all’esatto significato di qualche vocabolo del sacro testo.  Ma Colui che palpita nel Vangelo e ne balza fuori vivo e operante attraverso i secoli, e Chi con noi “ieri, oggi, lo stesso in eterno”, soltanto il vero Cattolico lo conosce e lo può conoscere come uno dei suoi, meglio di quanto non conosca la propria madre; e questa, che pure l’ha istruito, è ben lieta di cedere il poste al Maestro. – E poiché lo conosce, il Cattolico lo segue, ne ascolta ogni parola e la interpreta non a modo proprio ma al modo di Cristo stesso. Medita i suoi detti, cerca il significato ch’Egli vi racchiuse, non quello che desidererebbe lui e che una generazione ipercritica ed egoista suggerisce. Studia la sua vita e in essa riconosce l’ideale dell’umanità, sia o meno in poter suo il raggiungerlo. E quando deve agire, quando si trova di fronte a una decisione da prendere o a un giudizio da dare sulle cose della vita, istintivamente, quasi inconsapevolmente, guarda l’Ideale e si chiede: « Che cosa vorrebbe il Maestro  ch’io facessi? Come vorrebbe che mi comportassi? Qual è il consiglio con cui mi guida? Come avrebbe Egli parlato e agito in questa circostanza”? Poiché Egli è la verità infallibile, e al giudizio umano più è giusto allorché più armonizza con quello di Cristo. – E ancora, se il Cattolico vuol pregare, esulare per un momento da questa valle di lagrime e sospinger lo sguardo alle altezze donde viene l’ aiuto, sollevare la mente e il cuore a Dio e mettersi in contatto Con Lui, istintivamente si avvicina a Gesù. “Nessuno va al Padre se non per me”.  I suoi pensieri si uniscono a quelli di Lui; insieme, “per lo stesso Gesù Cristo Signor nostro”, come la liturgia non si stanca mai di ripetere, essi salgono al trono del Padre che è nel cielo, pregando affinché il suo nome sia santificato, affinché la sua volontà si compia sempre e dovunque. Insieme a Gesù Cristo, sollevando le nostre mani insieme alle Sue, noi meschine creature, cantare la gloria del nostro Dio come merita di esser glorificato, possiamo adorarlo, ringraziarlo e domandargli il nostro pane quotidiano, il perdono delle nostre colpe, la protezione da ogni male e da ogni minaccia, con una fiducia di bambini e di figli. – E quando non si tratta più di pregare, ma di applicarsi al lavoro quotidiano, sia questo per il Signore o per il prossimo, il Cattolico ha dinanzi agli occhi il lavoratore modello, il fabbro di Nazaret che si guadagna la vita fino all’età di trent’anni come un mortale qualunque ed è sottomesso a sua madre e l’ama e la riverisce, e rende servigi agli abitanti del suo villaggio. Oppure vede il maestro affaticato dalle peregrinazioni attraverso le colline della Galilea e della Giudea, il viandante che conobbe la fame, la sete, il sonno e non ebbe ove posare il capo, e che, una volta al meno, fu “triste fino alla morte”. – Quando s’incontra con altri e ha occasione di parlare e di trattar con loro, il Cattolico non può dimenticare tutto ciò ch’è inerente alla loro umana natura, ma può anche ricordare che, come Cristo dimora e vive in lui, così dimora o desidera dimorare nel cuore di queste altre sue creature. E quindi, parlare e trattar con esse e servirle, è trattare con Cristo e servir Lui. “Ogni volta che farete ciò al minimo di questi, lo farete a me” è l’incentivo che ha dato origine alla lunga teoria dei martiri della. carità, all’esercito permanente della Chiesa di Dio. – Così, in Gesù Cristo suo Signore e suo ideale si accentrano i pensieri del Cattolico, come tutti i suoi affetti. Poiché se fra noi, uomini di buon volere, conoscere un buono significa amarlo, quanto più ciò sarà vero per Gesù Cristo, Colui che nessuno poté convincer di peccato e del quale la folla, contemplandolo, disse che faceva bene tutte le cose, Colui che i nemici stessi non poterono a meno di chiamare “Maestro buono”. Egli è la Bellezza, la Bontà, la Verità per essenza. Mite ed umile, perché tutti possano avvicinarlo come uno dei loro, in Lui tutte le perfezioni della divinità si uniscono alle attrattive dell’uomo perfetto. L’ha dimostrato in ogni azione della sua vita sulla terra, ce lo dimostra ancora ogni giorno, sol che vogliamo leggere “i segni” con esattezza. “Chi di voi mi convincerà di peccato?” – “Io sono la luce del mondo; chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”. – “Io sono la via, la verità, la vita”. – “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e Io vi ristorerò”. “Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me che sono mansueto e umile di cuore e troverete riposo alle anime vostre”. “ Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete”. Queste parole che risuonarono nel cortile del Tempio o per le vie della Giudea hanno echeggiato nei secoli. Ora, come allora, cade ogni accusa lanciata contro di Lui, convinta di falsità al solo venir pronunciata. I testimoni non sono andati d’accordo; l’unica imputazione trovata sufficiente per condannarlo a morte è ch’Egli “si è detto Figlio di Dio”. Ora, come allora, le moltitudini lo seguono, mentre alcuni privilegiati attirati e ammessi alla sua intimità esperimentano in modo ineffabile la verità di ogni sillaba della sua promessa. – E davvero ha mantenuto la promessa, e non ci ha lasciato orfani: è ritornato a noi, e con noi rimane fino alla consumazione dei secoli. Solo chi sa il segreto del suo fascino può parlarne; gli altri, quelli che non sanno, che non hanno mai minimamente capito che cosa sia il Cristo, come potranno osar di negare o ripudiare ciò di cui nulla conoscono? Che i seguaci di altre dottrine a quelle si attengano, e noi non potremo che rispettarli per ciò, disposti anche ad ascoltarli con deferenza. Ma che non si azzardino, in forza della loro dottrina, a dettar dogmi su ciò di cui, secondo la loro stessa confessione, sono affatto profani. — Ne sutor ultra crepidam. — Ché non mancano i veri intimi di Cristo, quelli che conoscono Lui direttamente e non solo ciò che di Lui si dice; e li troviamo in ogni ceto, dal più umile al più alto, fra gli intelletti più ottusi e i più dotti. Se la diversità degli aderenti e l’universalità del consenso son prove di verità, la verità di Gesù Cristo e della Chiesa da Lui fondata balza evidente al disopra di ogni altra. E gli intimi son quelli che esperimentano il suo amore e lo ricambiano, che lo hanno sempre presente allo sguardo e si sentono guidati dalla sua mano e sanno di non essere nell’illusione. Una sola parola loro sul conto del Maestro val più di tutte le negazioni e dei vani tentativi di giustificarle da parte di chi non sa quello che si dice e perciò dev’essere perdonato, di chi non si è mai avvicinato a Lui e perciò va compatito, di chi si trova separato da Lui da duemila anni di storia, non essendo ancor riuscito a trovarlo qual è, se pure non lo consideri come un semplice mito. – Il Cattolico degno del suo nome sa “in chi ha creduto” e vive alla sua presenza e in sua compagnia. Ascoltiamo San Bernardo, scelto a caso fra i tanti che gli rendon testimonianza, poiché fu uno di “color che sanno”: “Signore, fa che col tuo aiuto possiamo seguirti, che per mezzo tuo possiamo venire a Te, poiché Tu sei la Via, la Verità, la Vita. Tu ci sei Via col tuo esempio, Verità con la tua promessa, Vita coi doni che ci elargisci. Tu hai detto che sei la Via che dobbiamo percorrere, la Verità che dobbiamo cercare, la Vita in cui dobbiamo rimanere; la Via che non conosce deviazione, la Verità che non conosce errore, la Vita che non conosce morte; la Via diritta, la Verità infallibile, la Vita eterna, la Via larga e spaziosa, la Verità forte e universale, la Vita dilettevole e per sempre gloriosa. – Ascoltiamo Santa Teresa. Sebbene il suo linguaggio trascenda l’esperienza della maggioranza, pure il Cattolico ne comprende ogni parola e vi consente. La sua opera per la gloria di Dio è ostacolata, sembra che tutto l’avversi e l’accusi, ma la certezza di Gesù Cristo, oggettivamente reale per lei quanto essa lo è a se stessa, è una perenne consolazione nelle sue pene e un incoraggiamento nelle difficoltà e una inesauribile sorgente di forza. Ecco come esprime ciò che Cristo è per lei e per ogni Cattolico, a ciascuno nella propria misura: “Sola com’ero, senza un amico che mi consigliasse, non potevo né pregare né leggere; ma rimanendo per ore ed ore turbata di mente e afflitta di spirito a cagione della gravità delle mie pene, incominciavo a temere di essere in balia del demonio e mi domandavo che cosa mai potessi fare per liberarmi. Pareva che nessun raggio di speranza mi arridesse né dalla terra né dal cielo, nulla all’infuori di una sola certezza che non mi abbandonò mai fra tutti i miei timori e pericoli, che Gesù Cristo mio Signore sicuramente sapeva il peso della mia afflizione. “O mio Signore Gesù Cristo, che amico fedele Tu sei, e come potente! Poiché quando vuoi esser con noi Tu lo puoi, e lo vuoi sempre purché noi siamo disposti ad accoglierti. Che tutto il creato ti lodi e ti benedica, o Signore dell’universo! O se io potessi percorrere il mondo intero proclamando ovunque con tutte le mie forze che amico fedele Tu sei per chiunque ti voglia essere amico! Mio diletto Signore, tutto passa e tutto vien meno; ma Tu, il Signore di tutto, non vieni mai meno, Tu non passi. Ciò che fai soffrire a quelli che ti amano è sempre troppo poco. Come benevolmente e nobilmente, (alla lettera: da vero signore) con quale tenerezza e soavità riesci a trattare e a provare le anime che son tue! Se si potesse esser ben certi di non amare nulla e nessuno all’infuori di Te! Si direbbe, mio dolce Signore, che Tu voglia mettere alla prova con flagelli e torture l’anima che ti ama, sol perch’essa comprenda, quando l’hai ridotta all’estremo, le sconfinate proporzioni dell’amor tuo”.

LA GRAZIA E LA GLORIA (40)

LA GRAZIA E LA GLORIA (40)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VIII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. — I SACREMENTI, E SPECIALMENTE L’EUCARISTIA, SECONDO MEZZO DI CRESCITA.

CAPITOLO II

I principali effetti del cibo eucaristico: la vita divina e l’unione sempre più stretta dei comunicanti nell’unità della stessa Persona morale con il Figlio di Dio fatto uomo.

.1. Questo titolo indica due dei tratti principali sotto i quali l’effetto proprio dell’Eucaristia divina è presentato dalla rivelazione. Dopo averli meditati, considereremo gli altri e potremo vedere come tutti contribuiscano insieme allo stesso obiettivo di crescita. – Il primo effetto del cibo eucaristico è la vita. Chi ci insegna questo? Colui stesso che ce l’ha donato così liberamente. Raccogliamo con amore ciò che Egli stesso si è degnato di raccontarci nel Vangelo di San Giovanni. Parlò alla folla che, deliziata dal miracolo della moltiplicazione dei pani, era andata a cercarlo oltre il lago di Tiberiade: « Io sono il pane di vita; i vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti. Io sono il pane disceso dal cielo, perché chiunque ne mangi non muoia. Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Chi mangia di questo pane vivrà in eterno, e il pane che Io darò è la mia carne per la Darò la mia carne per la salvezza del mondo » (S. Giov., VI, 48-52). I Giudei, a questo linguaggio, esclamano: « Come può egli darci la sua carne da mangiare? » E Gesù disse loro: « In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete la vita in voi. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e Io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda » (S. Giov. VI, 53-56). – È dell’Eucaristia che Gesù Cristo parlava; e farei un torto al lettore se mi soffermassi a dimostrargli una verità così evidente. Ma vedete con quale insistenza Egli afferma il frutto di vita che questo pane dal cielo debba produrre in colui che lo riceve. Non gli basta fare una sola affermazione, anche se questa affermazione, uscendo dalla sua bocca, è infallibile nella sua certezza; occorre che Egli ne ritorni sopra più di dieci volte nel corso della stessa conversazione, tanto vuole che la sua dottrina entri profondamente nel nostro cuore. Fa anche di più. « Come mio Padre – Egli dice – che è vivente (la Vita stessa), mi ha mandato, e Io vivo per il Padre mio, così anche chi mangia me vivrà per me » (Ibid. 58). Questa è la ragione ultima che rende la carne di Cristo viva e vivificante: essa è la carne dell’eterno Figlio di Dio. « Come il Padre ha la vita in sé, così ha dato al Figlio la vita in sé » (S. Giov. V, 26). E questa carne, che con l’Incarnazione è diventata la carne del Figlio di Dio, è dunque la carne della Vita. Come può non essere vita e vivificante? Ma per chi sarà così, se non per coloro che lo ricevono come cibo divino e che se ne nutrono? – È qui che dobbiamo ricordare la legge che presiede ai Sacramenti della Nuova Alleanza: ciò che essi significano con simboli esterni, lo producono. Ora, il cibo è il mezzo naturale per mantenere o conservare la vita in noi; un mezzo così indispensabile che, secondo il corso ordinario delle cose, non mangiare più significa essere morti o avanzare rapidamente verso la morte. Pertanto, l’effetto del cibo eucaristico, per essere analogo a quello del cibo comune, le cui apparenze rivelano la carne di Gesù Cristo, deve essere anche la vita: non più, ovviamente, la vita sensibile e mortale nutrita dalla manna nel deserto, ma la vita soprannaturale, immortale e divina. Innanzitutto, vita dell’anima perché questa è la vita dei figli di Dio; ma anche vita gloriosa del corpo risorto, coronamento e corollario della vita spirituale. – Di tutti gli effetti dell’Eucaristia, questo è forse quello che compare più spesso negli scritti dei Padri e dei Dottori. Cominciamo con il grande campione dell’unità della persona in Gesù Cristo, san Cirillo di Alessandria, il vittorioso avversario di Nestorio che, con il pretesto di salvaguardare la distinzione delle nature, separava Dio dall’uomo, il Figlio dal Padre e il figlio dalla Vergine, privando così quest’ultima della gloria della sua maternità divina. Ecco l’argomentazione inoppugnabile con cui il nostro grande Dottore sconfiggeva l’eresiarca: « La carne di Cristo non è solo carne viva, ma carne che dà vita. Da dove lo sappiamo? Da Lui stesso, perché ha detto: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna”. Se il ferro penetrato dal fuoco diventa esso stesso fonte di luce e di calore, come può essere non credibile che il Verbo del Padre, che è vita per essenza, renda vivificante la carne che si è unita? Perché essa è davvero la sua carne e non quella di un uomo distinto e separato da Lui. – « Ma se, rompendo l’unione reale, si separa questa stessa carne dal Verbo di vita, come si potrà mai dimostrare che essa possiede la virtù di vivificare? Poiché dunque il corpo del Verbo è vivificante, questo corpo, diventato suo con un’unione ineffabile ed incomprensibile; noi, che l’Eucaristia rende partecipi di questa carne divina, riceviamo la vita: perché in noi il Verbo abita, non solo come Dio attraverso lo Spirito Santo, ma anche come uomo attraverso il suo sacro Corpo e il suo preziosissimo Sangue » (S. Cirillo. Alex, L. IV, c. Nestor. P. Gr., vol. 76, p. 189, ss; col. Apolog. c. Orieut, ibid. p. 373 ss.). – Così il Sacramento produce vita in noi, perché contiene il vero Corpo di Dio fatto uomo. La stessa influenza vivificante della carne di Cristo Gesù è ancora un’arma che è servita ai Padri per combattere vittoriosamente altre eresie. Nessuno l’ha impugnata in modo più affidabile e prepotente di Sant’Ireneo di Lione, nella sua lotta contro gli gnostici. Egli Scrive: « Quanto sono vani coloro che, disprezzando l’economia universale del nostro Dio, rifiutano di credere nella salvezza della carne e si fanno beffe della sua futura rigenerazione, con il pretesto che non sia in grado di ricevere mai l’incorruttibilità. No, se non c’è salvezza per la nostra carne, né il sangue del Signore ci ha riscattato, né il calice dell’Eucaristia è la comunione dello stesso sangue, né il pane che spezziamo, quello del suo stesso corpo. Il legno della vite piantato nella terra porta frutto a suo tempo; il chicco di grano, caduto in terra e passato attraverso la corruzione, esce moltiplicato dalla benedizione di Colui che conserva tutte le cose, per servire agli usi dell’uomo. E questi frutti della vite e del grano, in virtù della parola onnipotente di Dio diventano l’Eucaristia, cioè il corpo e il sangue di Cristo. Così i nostri corpi, nutriti dall’Eucaristia e deposti nella terra per tornare alla polvere, risorgeranno a suo tempo, a gloria di Dio Padre (S. Iren, c. Hæres, L. IV, c. 33 n. 2, e L V. c. 3, n.2 e 3 P. Gr. t. 7, p. 1073, 1125, sqq.).

2. – Un altro carattere degli effetti dell’Eucaristia: l’unione del capo con le membra e delle membra tra loro, nell’unità del Corpo mistico di cui Gesù Cristo è il Capo. – Che l’Eucaristia sia un principio di unione tra Gesù Cristo che vi si dona e il Cristiano che ne viene nutrito, è il Salvatore stesso che ce lo insegna, proprio nel luogo in cui ce lo propone come fonte di vita: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui » (S. Joan. VI, 37). Può esistere un’alleanza più stretta? S. Agostino, fondando sulla parola del Maestro, vuole che si riconnetta a questo effetto la vera manducazione del corpo di Gesù Cristo: « Il segno che un uomo ha mangiato il corpo e bevuto il sangue del Signore è che egli dimora e rimane in Cristo, e che Cristo dimora e rimane in lui. Signum quia manducavit et bibit, hoc est; si manet et manetur; si habitat et inhabitatur » (S. August. In Joan. Tract. 27, n. 1; 26, n. 18; col. Serm. 227e 272). I peccatori non ricevono il corpo e il sangue di Gesù Cristo? Sì, essi lo ricevono; ma nel riceverlo non mangiano e non bevono come bisogna bere e mangiare. È una comunione solo corporea, laddove dovrebbe esserci una comunione secondo lo spirito. E poiché il mangiare spirituale deve essere il necessario coronamento di ogni mangiare sacramentale, da ciò consegue che per il santo Dottore unirsi corporalmente all’Eucaristia, senza che l’unione passi alla parte più intima del cuore, non è aver mangiato questo cibo divino (Questo è ciò che lo stesso Sant’Agostino scrisse contro i Donatisti il cui scisma stava allora frantumando l’unità del Corpo mistico di Gesù Cristo in Africa. Nella sua controversia con i pelagiani che, negando il peccato originale, promettevano la vita eterna ai bambini morti senza battesimo, e non rifiutando che il regno di Cristo lo stesso santo non teme di invocare contro di loro la parola del Signore: « Se non avrete mangiato la carne del Figlio dell’uomo, non avrete la vita in voi ». Non che egli consideri la ricezione effettiva e sacramentale dell’Eucaristia come universalmente necessaria per la salvezza: San Fulgenzio, suo illustre discepolo, lo vendicò di tale accusa; ma è che non c’è giustificazione per coloro che non sono entrati nel Corpo mistico di Gesù Cristo. Il Battesimo, che ci rende figli di Dio, ci inserisce come nuovo membro in questo corpo spirituale e vivente. « Ora – si chiede San Fulgenzio – colui che diventa membro del corpo del Cristo, come fa a non ricevere ciò che egli diviene? Perciò, con la rigenerazione del santo Battesimo, egli diventa ciò che deve ricevere, nel Sacrificio dell’altare. Pertanto, non si può dubitare che ogni fedele partecipi al corpo e al sangue del Signore, quando il Battesimo lo unisce a Gesù Cristo come suo membro; e anche se lascia questo mondo prima di aver realmente mangiato questo pane e bevuto questo calice, vi comunica, poiché questo è ciò che l’uno e l’altro significano. » S. Fulgent, ep. 12, n, 24-26; col. s. August, de Peccat. merit, et remiss, L III, c. 4; L. I, c. 2, 3; etc.). – La stessa virtù dell’Eucaristia ci viene dimostrata anche dalla legge del simbolismo sacramentale. Come abbiamo detto, i nostri Sacramenti non sono solo segni; hanno anche la virtù di produrre ciò che significano. Se Gesù Cristo si dona a noi sotto forma di cibo è perché vuole unirci a sé in un’unione non identica, è vero, ma analoga all’unione del cibo con colui che lo incorpora. – Questa stessa conclusione è necessaria anche se consideriamo la fonte da cui scaturisce il Sacramento dell’altare. –  « Prima della festa di Pasqua – dice il discepolo prediletto – Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre suo, come aveva amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine ». (S. Joan. XIII, 1); fino all’eccesso, traducono alcuni interpreti. E cosa ha fatto per mostrare loro questo amore incomparabile? Senza dubbio, Egli va incontro alla morte per loro, e « nessuno può avere un amore più grande che dare la vita per i suoi amici » (S. Joan. XV, 14).  Tuttavia, queste parole del racconto evangelico, venendo immediatamente prima della narrazione della cena in cui fu istituita la Santa Eucaristia, devono riferirsi ad essa, e quindi significano che essa ha come principio un eccesso di amore. – Ora, la prima esigenza dell’amore è l’unione; perché esso è per natura e per eccellenza « una virtù unitiva », per usare la nota espressione del grande Areopagita (Dionigi, de Div., nom., c. 4). Chiedete alle madri, chiedete agli amici, chiedete a ogni cuore amorevole se non sia così. L’amore umano desidera costantemente la presenza di coloro che ama; e quando la separazione è necessaria, non ha industrie sufficienti a mitigarne gli effetti. Da qui questi pegni di ricordo, queste rappresentazioni di persone care che vengono scambiate, questo commercio di lettere, questa ansia di tornare e queste gioie del ritorno (Lessius, de Summo bono, L. II, c. 12). – Ma ancora più veementi sono le aspirazioni dell’amore soprannaturalizzato dalla grazia. Non è stato forse questo che ha fatto dire a San Paolo: « Ho sete della mia dissoluzione per essere con Cristo » (Fil. I, 23), esso che rende la terra un luogo di esilio, una valle di lacrime, un soggiorno così intollerabile per le anime santificate dall’amore divino, che solo questo amore può ispirare loro pazienza per sopportarne le tristezze. – Gesù Cristo Nostro Signore stava per lasciare i suoi discepoli; stava tornando da Colui che lo aveva mandato e li stava lasciando in un mondo malvagio e corrotto dal quale sarebbero stati perseguitati, come Lui stesso era stato perseguitato. Altri discepoli che, nel corso del tempo, si sarebbero uniti in gran numero a questo primo nucleo della Chiesa, non avrebbero avuto nemmeno la consolazione di aver goduto per qualche giorno della sua presenza visibile. Fate questo – dice – in memoria di me, ed ecco, io rimango con voi fino alla consumazione dei secoli. Questa è l’istituzione e il fine dell’Eucaristia. Egli se ne va, ed Egli resta; sale al cielo e resta sulla terra; assente e presente. Non solo Egli resta con noi, ma vuole essere in noi. Mangiate, bevete, saziatevi della mia carne e del mio sangue: la mia carne è cibo e il mio sangue è bevanda. Ciò che è impossibile all’uomo è possibile a Dio, che può mettere l’onnipotenza al servizio dell’amore. – Ecco l’unione corpo a corpo e cuore a cuore. Se amo il mio Salvatore Gesù come Lui ama me, devo ringraziarlo infinitamente per questo grande dono, e non ho desiderio o felicità più grande che sedermi a questo banchetto di unione così divinamente preparato per me nell’Eucaristia. – Ma, per quanto possa essere dolce per il mio amore avvicinare la carne di Cristo alla mia carne, è comunque una cosa da lasciarmi dei rimpianti. Perché è molto fugace. Non dobbiamo pensare che la Comunione ci metta in possesso permanente del corpo e del sangue di Gesù Cristo. La loro presenza in noi dipende, come abbiamo notato, dal destino delle specie sacramentali. Quando, quindi, l’azione dell’organismo ha fatto perdere loro le proprietà costitutive, il corpo e il sangue di Gesù Cristo possono anche essere in un altro petto, ma non saranno più nel nostro. Immaginare che la sacra carne del Salvatore sia permanente nel corpo del comunicante, una permanenza che corrisponderebbe o alla conservazione della grazia o all’eccellenza della carità, è alimentare una pura chimera, che nulla autorizza e che tutto ci obbliga a rifiutare. È vero che, essendo stato battezzato, ho ancora il diritto di partecipare al Sacramento, se ne sono degno, e questa è la mia felicità e la mia gloria; ma non posso illudermi di essere sempre la teca dove riposa la carne del mio Salvatore. Ancor meno potrei ammettere, come alcuni con più pietà che conoscenza immaginavano un tempo, che non avendo più il corpo, io conservi in me l’anima del Cristo, se almeno l’ho meritata con l’intensità del mio fervore. Questo significherebbe dimenticare che l’anima sia nel sacramento solo per concomitanza. Gesù Cristo non ha detto, e il sacerdote sull’altare non ripete in suo nome: Questa è la mia anima; oppure: Questo è il mio corpo e la mia anima. Egli dice: Questo è il mio corpo; e poiché il corpo di Cristo è vivo di vita immortale, l’anima segue, per così dire, il corpo, dal quale è ormai inseparabile. Ora, se l’anima è nell’Eucaristia solo per la sua unione con il corpo, è evidente che essa non vi rimarrà senza di esso. Ne deriverebbe, inoltre, un’altra conseguenza che il buon senso e la filosofia rifiutano: è che quest’anima, inseparabile da un corpo immortale, sarebbe allo stesso tempo separata da esso, poiché rimarrebbe dove ha cessato di essere. – Per essere nel vero, rappresentiamo la carne di Gesù Cristo, nell’Eucaristia, come lo strumento con cui la divinità ci tocca nel modo più profondo del nostro essere per comunicarci la sua vita. Ora, a questo scopo, un contatto è sufficiente. Non fu forse in questo modo che il Salvatore risuscitò la figlia di un principe della sinagoga e che operò quell’altra guarigione che gli faceva dire: una virtù è uscita da me? Ma allora, mi direte, l’unione eucaristica non è più un’unione; è al massimo una visita di pochi istanti, un contatto transitorio. Sì, senza dubbio, se si guarda solo all’unione corporea; no, se si tiene conto del fine per il quale Gesù Cristo ci ha donato il suo corpo come cibo e il suo sangue come bevanda e l’effetto che producono: l’unione della carne di Gesù Cristo con la nostra carne ha il suo compimento nell’unione permanente dello spirito, che essa realizza simboleggiandola. – Questo è ciò che spiega mirabilmente il nostro grande Bossuet in una magnifica pagina che trascriverò interamente, tanto essa getta luce sulla questione che ci occupa. Egli voleva mostrare, a gloria di Maria, quanto l’alleanza spirituale, questa alleanza che si realizza con la grazia, sia stretta e perfetta, tra Gesù e la sua divina madre, « poiché deve essere giudicata in proporzione a quella del corpo ». Ecco come parla: « Permettetemi, vi prego, di approfondire un sì grande mistero e di spiegarvi una verità che non sarà meno utile per la vostra istruzione di quanto sarà gloriosa per Maria. Questa verità, Cristiani, è che Nostro Signore Gesù Cristo non si unisce mai a noi con il suo corpo se non con l’intenzione di unirsi più strettamente nello spirito. Tavole mistiche, banchetto adorabile, e voi, altari santi e sacri altari, vi chiamo a testimoniare la verità che vi sto proponendo. Ma siate voi stessi testimoni, voi che partecipate a questi santi misteri. Quando vi siete avvicinati a questa mensa divina, quando avete visto Gesù Cristo venire a voi nel suo stesso Corpo, nel suo stesso Sangue, quando in voi lo ha messo la bocca, ditemi, avete pensato che volesse fermarsi al corpo? Dio non voglia che tu lo abbiate creduto, e che lo abbiate ricevuto solo nel corpo Colui che corre da voi per cercare la vostra anima. Coloro che l’hanno ricevuto in questo modo, che non sono uniti nello spirito a Colui di cui hanno ricevuto la carne adorabile, hanno invertito il suo proposito, hanno offeso il suo amore. Ed è questo che fa dire a san Cipriano queste belle ma terribili parole: Vis infertur corpori et sanguini (Lib. de lapsis). – « E cos’è, fratelli miei, questa violenza? Anime sante, anime pie, voi che sapete gustare Gesù Cristo in questo adorabile mistero, voi intendete questa violenza: Gesù cercava il cuore, ed essi lo hanno fermato nel corpo ove Egli non voleva passare; essi hanno impedito a questo Sposo celeste di completare nello spirito la casta unione a cui aspirava: essi lo hanno costretto a trattenere il flusso impetuoso delle sue grazie con cui voleva inondare le loro anime. Così il suo amore subisce violenza; e non dobbiamo stupirci se, violato in questo modo, passa all’indignazione e al furore: invece della salvezza che ha portato loro, opera la loro condanna in loro; e ci mostra con la collera, la verità che ho esposto, cioè che quando si unisce corporalmente, vuole che l’unione dello spirito sia proporzionata all’unione del corpo. (Bossuet, de serm. sur la nativ, de la sainte Vierge, 2° part.). L’ultima parola del mistero è che Cristo è nella sua umanità la via che ci conduce alla sua divinità; lo è con la sua dottrina, con i suoi esempi, con i suoi meriti; lo è, in modo più forte e dolce, con la comunione della sua carne e del suo sangue nel Sacramento eucaristico.

3. – L’Eucaristia, principio di unione tra il Dio-Uomo e ciascuno dei fedeli, è anche la causa dell’unione che deve legare le membra nell’unità del Corpo mistico di cui Gesù Cristo è il capo. Il Salvatore stesso ce lo fece capire quando, dopo aver istituito questo adorabile Sacramento e averlo distribuito ai suoi Apostoli, pronunciò questa memorabile preghiera: « Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi siamo una cosa sola; Io sono in loro e Tu in me, perché siano una cosa sola . Io sono in loro e voi in me, perché si consumino nell’unità » (S. Giov. XVI, 11, 21-23). Questo è il frutto naturale dell’Eucaristia che Egli chiede al Padre per loro. Il grande Apostolo lo aveva capito bene, perché così parla di questo Sacramento dell’unità nella sua prima lettera ai Corinzi: « Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse la comunione del sangue di Gesù Cristo, e il pane che spezziamo non è forse la partecipazione al corpo del Signore? Poiché c’è un solo pane, siamo tutti un solo corpo, tutti noi che partecipiamo allo stesso pane » (1 Cor. X., 16-17). – Ammiro questa meravigliosa unità che regnava nei primi tempi della Chiesa, « quando la moltitudine dei credenti era di un sol cuore e di un’anima sola, e nessuno considerava come proprio ciò che possedeva » (Atti IV, 32). Ma da dove pensate che provenisse questa concordia e questa unità? Ascoltate: « Erano perseveranti nell’insegnamento degli Apostoli, nella comunione della frazione del pane e nelle preghiere. E coloro che credettero, vissero insieme, e avevano tutte le cose in comune… Continuavano ogni giorno nel tempio, uniti nel cuore e nella mente, e spezzavano il pane nelle loro case » (Atti II, 42-46). La comunione della frazione, ricordata sia all’inizio che alla fine di questo delizioso quadro, ci dice abbastanza chiaramente da dove ha avuto origine questa comunità, senza pari nella storia del mondo. Non mi sorprende, quindi, sentire il Santo Concilio di Trento chiamare l’Eucaristia « segno dell’unità, vincolo della carità, simbolo della pace e della concordia » (Sess. XIII, c. 8), e presentarcela «come l’emblema divino di quell’unico corpo di cui Gesù Cristo è il capo, e al quale noi dobbiamo essere legati come membri dal più stretto vincolo di fede, speranza e carità” (ibid. c. 2). Questo è stato anche il pensiero del IV Concilio Lateranense quando ha insegnato che Cristo ci ha dato il suo corpo e il suo sangue « affinché, per completare il mistero dell’unità, ricevessimo dal suo ciò che lui ha ricevuto dal nostro » (Conc. Later. IV, cap. Firmiter). – I Padri sono inesauribili quando celebrano questo evento così importante del sacramento dell’altare. Si compiacciono di mostrarla visibilmente espressa dalle sostanze materiali, i cui accidenti esterni sono l’elemento sensibile della divina Eucaristia. Queste migliaia di chicchi di grano pestati insieme per formare un’unica pagnotta, tutti questi grappoli che versano il loro delizioso succo per riempire un’unica coppa, rappresentano per loro quell’unità dei fedeli che, nell’intenzione del Salvatore Gesù, il sacramento deve produrre simboleggiandola: perché, non bisogna mai dimenticarlo, ciò che il sacramento simboleggia, lo fa. (S. Gaudent, Brix, serm. 2, Pat. L., 120, p. 860, e S. August, passim). Un’altra immagine efficace dell’unione dei Cristiani. Quale altra efficace immagine dell’unione dei Cristiani tra loro se non questo « banchetto comune delle anime » (“Mensa communis animarum“, Gulielm. Paris, de sacr. alt., 2), dove tutti vengono a sedersi, ospiti dello stesso Dio, figli della stessa madre, mangiando lo stesso pane e bevendo la stessa bevanda. In tutte le epoche storiche, le feste hanno avuto il privilegio di essere segno e principio di unione. L’antichità sacra e profana ce ne offre infiniti esempi (Fustel de Coulanges. La cité antique, c. 7. La religion et la cité, p. 179, ss). Condividere lo stesso cibo, bere la stessa coppa, soprattutto quando questa coppa e queste carni erano state consacrate come un’offerta alla divinità, era di stipulare un’alleanza che non poteva essere infranta senza una specie di sacrilegio. Questo è ciò che producono i banchetti della terra. Quale deve essere allora, mio Dio, la virtù di questo cibo divino che hai preparato per noi nel tuo infinito amore per unirci tutti, poveri e ricchi, grandi e piccoli, nell’unità dello stesso cuore e dello stesso corpo? Alla vostra tavola non si condivide un cibo ordinario, ma il vostro unico Corpo e il vostro unico Sangue, che tutti ricevono per intero: il Corpo e il Sangue di un Dio. – Oserò dire ciò che ho letto nel più grande e più santo dei nostri e il più santo dei nostri Dottori? Con il potere di questo cibo sacro diventiamo concorporei e consanguinei tra di noi. « Perché riceviamo il santo elogio? Non è forse così che Cristo può abitare in noi corporalmente, attraverso la comunione della sua sacra carne? L’Apostolo ha scritto divinamente delle nazioni che sono diventate concorporee, co-partecipanti e coeredi di Cristo (Efes. III, 6). E come sono diventati concorporei? Attraverso la partecipazione all’Eulogio mistico, cioè l’Eucaristia (S. Cirillo Alessandrino L. IV, c. 4, c. Nestor, P. Gr; t. 76, D. 193). Così parla San Cirillo di Alessandria. Ora, fa notare a sua volta San Cirillo di Gerusalemme, questa unione dei fedeli poggia su un’altra unione: infatti, ricevendo il corpo e il sangue di Cristo, siamo con Lui dello stesso corpo e dello stesso sangue, noi diventiamo veramente cristofori, attraverso l’ingresso nelle nostre membra di quella carne e di quel sangue divino (S. Cyrillus Hieros, Catech. 22, n. 3, P. Gr. 33, p. 1100).

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (3)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (3)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO I

LA VITA IN DIO

2. – Gesù Cristo, il Verbo Incarnato.

L’eterno Figlio di Dio si è incarnato sulla terra nella persona dell’uomo Cristo Gesù per darci tutto se stesso, per farsi una cosa sola con noi e per potere, una volta associata a sé l’umanità, risollevarla all’altezza da cui era caduta e restituirle la dignità di vera figlia di Dio. È questa la dottrina che troviamo alla radice del credo cristiano, senza la quale esso non differisce in nulla da qualunque altro credo fondato unicamente sulla natura e sulla ragione. Gesù Cristo, l’Uomo-Dio, vero Dio e vero uomo, e non semplicemente uomo dotato di una particolare unione con Dio, ha vissuto su questa terra la nostra vita, ha reso a Dio suo Padre che è nel cielo il perfetto ossequio di un uomo perfetto. Si è fatto capostipite della razza umana e se ne è addossato i dolori, perfino i peccati e le iniquità. Quei peccati ha portato al Padre e, umiliato dinanzi a Lui, se ne è confessato colpevole. Siccome da sé l’uomo non poteva espiarli, Egli si è offerto per espiarli in sua vece in quanto uomo. Dio ha accettato l’offerta, e Cristo l’ha consumata fino all’ultima stilla del calice amaro. Così Cristo Gesù è il nostro benefattore, il nostro amico, e il debito che abbiamo verso di Lui è incommensurabile: per tutta l’eternità dovremo cantare le lodi di Colui che ha tanto fatto per noi. – Il Cattolico si compiace nel pensare a quanto deve a Gesù Cristo, a quanto Egli ha fatto e continua a fare a suo vantaggio, “sempre vivo a intercedere per noi”. Vede in Lui non solo il Cristo storico limitato nel tempo e nello spazio, ma il mediatore eterno fra il peccatore, e il Padre offeso, « ieri e oggi e per sempre lo stesso ». E mediatore Egli è, non solo per concessione ma anche di diritto, ché, unendo in Sé la natura di Dio e quella dell’uomo, Egli nacque proprio per questo ufficio. Lo dice il suo stesso nome, impostogli prima che nascesse: « Lo chiamerai Gesù perché Egli libererà il suo popolo dai suoi peccati ». Come capo del genere umano, “il primogenito di ogni creatura”, Egli ha il diritto e la prerogativa di agire quale intermediario presso il Padre. Ma di ciò non fu pago; non volle essere solo un superuomo che fa atto di degnazione verso i suoi sudditi; volle esser “fatto in tutto simile all’uomo eccetto che nel peccato”, volle “addossarsi tutti i nostri dolori”, volle prender sulle sue spalle la nostra croce per poter trattare col Padre come uno di noi. Una simpatia e una compassione infinita per l’umanità, un amore che doveva essere eterno, intensificato, se così ci è lecito esprimerci, dall’esperienza della sua vita umana, tutto doveva influire e premere su Lui perché intercedesse in favor nostro. Tale è il significato di quello “spogliamento di se stesso” su cui San Paolo tanto insiste. D’altra parte, come Dio Egli è uguale al Padre e allo Spirito Santo e ha libero accesso ad entrambi. Può andare al Padre come Figlio diletto in cui il Padre stesso si è compiaciuto, può parlargli per diritto suo proprio e pretendere di essere ascoltato. Perciò, sia dalla parte dell’uomo che da quella di Dio, Egli sta, unico mediatore degno e sufficiente fra i due. È questo per il Cattolico il significato primo della vita di Cristo sulla terra. Egli ha voluto prender su di sé anche il terribile peso delle tentazioni dell’uomo: “Noi non abbiamo un sommo sacerdote che non possa compatire le nostre debolezze; ma invece è stato provato in tutto a somiglianza di noi, salvo il peccato” (Ebr. IV, 15). Precisamente perché l’uomo aveva ceduto a tutte quelle tentazioni Cristo si è offerto come vittima. Ha consumato un olocausto perfetto, assoluto, col sacrificio di Sé sul Calvario, nell’obbedienza e nell’amore fino alla morte, e amore di cui maggiore non esiste, pagando di persona la disobbedienza dell’uomo, il suo difetto di amore. E il valore espiatorio di questo sacrificio risulta infinito, in primo luogo per l’infinito valore della vittima che spontaneamente si immolò, in secondo luogo per la misura stessa della espiazione. Poiché non era affatto necessario arrivare a tali estremi. Un semplice atto d’ossequio di Cristo Signore sarebbe stato sufficiente a soddisfare ogni giustizia. Se fosse perito fanciullo, vittima di Frode a Betlemme, se anche fosse morto appena nato, fra le braccia della Vergine, agli occhi del Padre questo Figlio del suo amore avrebbe fatto abbastanza per redimere il mondo. Ma non sarebbe stato abbastanza per soddisfare la sete di amor divino che ardeva nel cuore di Cristo.  “Cristo mi ha amato e ha dato se stesso per me”. Non volle offrire una soddisfazione qualsiasi; volle soddisfare finché non gli rimanesse più nulla; volle “spogliarsi di se stesso”, darsi tutto fino ad annientarsi. Per esser pago dové darsi fino all’estremo, affinché “dove abbondò la colpa più abbondasse la grazia… per Gesù Cristo nostro Signore”. (Rom. V, 20) e siccome “non esiste amore più grande di questo, dare la vita per l’amico” Egli doveva eguagliare il suo amore a tale prova suprema anche se non lo esigeva la stretta giustizia. – Così, a questo prezzo, il nostro mediatore ha ottenuto all’uomo non solo perdono e re.denzione: gli ha conquistato anche tutte quelle altre grazie e possibilità che lo innalzeranno ad una più intima unione con Dio. In questa luce San Paolo riassume più volte l’opera del suo Signore e Salvatore: “Benedetto Iddio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo, il quale ci ha benedetto con ogni benedizione spirituale, celeste, in Cristo, in quanto ci ha eletti in Lui, prima della fondazione del mondo a esser santi e irreprensibili nel suo cospetto, per amore avendoci predestinati a esser figli suoi adottivi per mezzo di Gesù Cristo, secondo la benignità del suo volere, sì che ciò torni a lode della gloriosa manifestazione della grazia sua di cui ci fece dono nel suo diletto Figliolo. In Lui noi abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia” (Efes. I, 3, 7.). Tutto questo ha fatto Nostro Signor Gesù Cristo con la sua vita e la sua morte, tutto questo ha ottenuto all’umanità, quale mediatore di essa. Ma ha fatto di più. Per incoraggiare e sostener l’uomo nello sforzo verso le cose più alte, per dargli maggior forza e fiducia di quelle che gli siano naturalmente possibili, Cristo ha istituito e ci ha lasciato quello che conosciamo col nome di sistema sacramentale. Ha dato al Padre, come provenienti dall’uomo, la propria vita e il proprio sangue; ha dato all’uomo, come provenienti dal Padre, quei doni gratuiti di forza soprannaturale, quei sette segni esteriori atti a conferire realmente le grazie che significano. – Perché l’uomo possa meglio affrontare ogni momento importante della vita, perché più sicuramente adempia in Gesù Cristo ai doveri inerenti ad ogni condizione, perché viva sulla terra per quanto è possibile la vita stessa di Cristo, questi gli ha offerto quei canali di grazia che gli saranno prontamente aperti se vorrà e ogni volta che vorrà. Il sangue di Cristo è stato dato al Padre, e dal Padre vien restituito all’uomo per mezzo dei sacramenti. Essi sono come le vene del Corpo mistico di Cristo, che portano e dispensano ad ogni membro il sangue di Lui e con esso la vita. Di più, purché gli uomini lo vogliano, Cristo ha dato a ciascuno il potere che da sé non avrebbe di dare al Padre una soddisfazione degna e di acquistar meriti per se stesso. Sappiamo che nell’ordine soprannaturale l’uomo naturale non può, da solo, far nulla di meritorio; ma egli “tutto può in Colui che lo conforta”. Incorporato a Cristo nel vero senso che considereremo più innanzi, l’uomo partecipa alla vita di Lui, le sue azioni sono identificate a quelle del suo Signore e Maestro allo stesso modo che nostre sono le opere delle nostre mani. Così, come il tralcio è alimentato dalla linfa stessa della vite e dà per ciò frutti che da sé solo mai potrebbe dare, le azioni dell’uomo innestato in Cristo sono tutte impregnate è principio di quella carità divina di cui Egli e sorgente. Con Lui, in Lui e per Lui, esse diventano azioni soddisfattorie in se stesse, ossia accette a Dio non nell’ ordine della natura ma nell’ordine della grazia, degne di merito, feconde di bene. – In terzo luogo, Cristo è mostro mediatore nel campo dei nostri doveri di religione, ossia dei doveri che abbiamo verso Dio. È fine funzione propria della creatura dar gloria al suo Creatore, come l’opera d’arte dà gloria all’artista che con la propria mano la foggiò. – “I cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento”. (Sal. XVIII, 1). Ma per la creatura dotata di facoltà superiori, come l’intelligenza e il libero arbitrio, sarà doveroso dare a Dio una gloria ancor più grande e corrispondere alla fiducia che in lei ha posto il suo Creatore, allo stesso modo che un ministro del re, depositario delle insegne e dei pieni poteri di lui, tanto più lo onora quanto più di lui sa rendersi degno, ovunque si trovi. E come il quadro consegue la sua gloria massima mel procurar gloria all’artista che lo dipinse, come il libro vale a cagione dell’autore ch’esso rivela, altro non essendo la sua sapienza se non il riflesso della mente che lo concepì, come un ministro del re è maggiormente onorato quando più è degno di lui, così la creatura trova la sua gloria più alta nel rifletter la gloria di Dio suo Creatore, l’uso più degno della sua ragione nel manifestare il pensiero di Lui, e il miglior impiego della sua esistenza nel viverla a servizio di Lui. Eppure, anche quand’è più splendida, che cosa meschina è mai la gloria che da sé la creatura può dare al Creatore! E quanto più meschina, se si considera la condizione decaduta dell’uomo! Ma ecco che Cristo viene in suo aiuto. Ora finalmente, unita a Lui, la creatura può lodare e onorare il suo Dio, può rendergli omaggio e servizio con labbra e con mani degne, con un’anima e una volontà, un amore e una testimonianza d’amore degni di Dio. La creatura può esprimere il proprio cuore in unione al cuore di Cristo, e Dio Padre trova tale espressione degna di essere ascoltata. Anzi, dato che Cristo vive nella sua creatura, Egli le comunica il suo stesso potere di render lode e reverenza e gloria. E allora, quando la creatura parla, non son più parole sue quelle che pronuncia, ma in lei parla lo stesso Cristo Gesù. Egli non è soltanto il nostro Mediatore sommo e sufficiente che in sé rinnova tutte le cose: è anche il nostro Sacerdote, il Sommo Sacerdote della nuova legge. Alla lettura del Vecchio Testamento ci colpisce il fatto che la religione ivi descritta si accentrava tutta nel sacerdote e nel suo sacrificio. E non meno ci sorprende il vedere come la profezia di Colui che doveva venire lo annuncia “sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec”. – Dopo la sua venuta e la sua dipartita, non conosciamo commento migliore all’opera sua dell’Epistola agli Ebrei, ed è precisamente quella che verte tutta sul sacerdozio di Cristo nostro Signore. Anzi lo considera non solo come Sacerdote, ma come l’unico vero Sacerdote della nuova Alleanza e mostra il suo Sacrificio come unico. Prima di Lui tutti i sacrifici non erano stati che simboli, ma il Sacrificio di Cristo fu molto di più, fu Sacrificio reale, fu addirittura il Sacrificio di se stesso. E non potendo morire che una sol volta, il Sacrificio offerto non poté essere che uno, ma tale da compensare ampiamente ogni debito. Sotto questa luce, l’Epistola agli Ebrei e varie altre riassumono l’opera e il significato di Cristo sulla terra. “Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi, oblazione e sacrificio a Dio, profumo di soave odore”. (Efes. V, 2). “Poiché uno è Iddio, uno anche il mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo, colui che diede se stesso prezzo di riscatto per tutti; testimonianza fatta nel suo proprio tempo”. (I Tim. II, 5, 6). “Cristo, essendo venuto come sommo sacerdote dei beni avvenire, attraverso un più grande e più perfetto tabernacolo, non fatto da mano d’uomo, cioè non di questa creazione, né per il sangue di capri e di vitelli, ma mediante il proprio sangue, entrò una volta per sempre nel Santuario, ottenendoci una redenzione eterna. Se il sangue di capri e di tori e la cenere d’una giovenca sparsa su quelli che sono immondi li santifica rispetto al procurare la purità della carne, quanto più il Sangue di Cristo il quale per via dell’Eterno Spirito offrì se stesso immacolato a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché rendiamo culto al Dio vivente? Per questo Egli è mediatore d’un nuovo patto, affinché, avvenuta la sua morte allo scopo di redimere i trascorsi commessi sotto il patto di prima, i chiamati ricevano l’eredità eterna loro promessa”. (Ebr. IX, 11, 15). – In altre parole, Nostro Signore Gesù Cristo, il nostro Sommo Sacerdote espiò i peccati del mondo col sacrificio di se stesso, l’olocausto del proprio sangue. Egli ha stretto un patto nuovo fra Dio e l’uomo; per Lui che si è immolato Dio e l’uomo sono riavvicinati. Ecco il significato e la portata della Passione e Morte di Gesù Cristo secondo il pensiero cattolico, ecco perché i Cattolici tengono in sì gran conto il segno della croce e il crocifisso. Per loro la Passione è assai più che un atto sovrumano di coraggio morale e di amore, assai più che la massima fra le tragedie umane. È il solenne sacrificio, nel senso più stretto del termine, di una vittima spontaneamente immolata. “Fu offerto perché lo volle”, “da un sommo sacerdote misericordioso e fedele perché fossero espiate le colpe del popolo”. (Ebr. II, 17). L’effusione di quel sangue ha purificato il mondo, ha cancellato la sentenza che pesava sull’uomo decaduto. Sul Calvario si compì l’opera della riparazione, la Redenzione: “Ecco l’Agnello di Dio che cancella i peccati del mondo”. Sul Calvario, con un atto spontaneo di perfetta obbedienza e di amore perfetto, si compì un sacrificio perfetto e completo da un sacerdote perfetto in una vittima pure perfetta. La giustizia fu completamente soddisfatta e l’amore perfettamente appagato: per la prima volta si diede a Dio sulla terra gloria perfetta e l’uomo fu salvo e redento. Il senso intimo e pratico di tutto ciò per i Cattolici fu espresso magnificamente da S. Bernardo in uno dei suoi sermoni: – “Gesù piange, ma non come gli altri o almeno non per lo stesso motivo. Negli altri prevale il sentimento, in Lui l’amore. Gli altri piangono per ciò che soffrono; Egli piange per compassione di ciò che gli altri soffrono o soffriranno. Essi deplorano il giogo pesante che grava sui figli di Adamo; Egli geme per quello che gli stessi figli d’Adamo si sono imposti volontariamente, per il male che hanno commesso. Per quel male, anzi, Egli versa ora le sue lagrime e più tardi verserà il suo sangue. “Oh, durezza del mio cuore! Volesse Iddio che, come il Verbo si fece carne, il mio cuore divenisse un cuore di carne invece che di pietra qual è adesso! È questa la tua promessa secondo il profeta che disse: “Strapperò dai loro precordi il cuore di sasso e vi sostituirò un cuore di carne » (Ezech, XI, 19). Fratelli, le lagrime di Cristo mi riempiono di confusione e di dolore. Io banchettavo fuori nel cortile, mentre nel segreto della dimora del Re si firmava la mia sentenza di morte. Il Figlio unigenito del Re ne ebbe sentore: depose la corona, si vestì di sacco, si cosparse il capo di cenere, si tolse i calzari e uscì piangendo e gemendo per la condanna di questo povero piccolo schiavo. Lo vedo comparire improvvisamente e la stranezza di questo spettacolo mi sbalordisce. Domando di che si tratta e apprendo la verità. Che cosa debbo fare? Potrò continuare nelle mie vanità, rendendo vane così le sue lagrime? Sicuramente non posso che esser sciocco e insensato se non voglio seguirlo, se non voglio piangere con Lui. – “Ecco il motivo della mia vergogna; che dire del dolore e del timore?….. “Io ignoro tutto di questa tremenda verità. Mi ritenevo tranquillo e sicuro, ed ecco è mandato il Figlio di una Vergine, il Figlio dell’Altissimo, e vien messo a morte perché le mie piaghe sian risanate col balsamo del suo Sangue prezioso. “Il Figlio di Dio è tutto tenerezza e compassione e piange: potrà l’uomo esser testimonio della Passione e ridere?”. – Rimaneva e rimane per ogni uomo che viene in questo mondo da accettare e da applicare a se stesso i frutti di quel Sacrificio, la carità, la soddisfazione, i meriti del Redentore divino. E perché  l’uomo possa far ciò nel modo più completo e possa, in ogni tempo e in ogni luogo, sempre dar gloria a Dio in modo degno di Lui e applicare a se stesso la sovrabbondanza dei meriti della Redenzione, Cristo istituì alla vigilia della sua Passione, un memoriale di essa. In questo “memoriale” o sacrificio, sotto le specie o apparenze del pane e del vino, il “sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec” continua ad offrirsi come vittima per noi tutti e continuerà ad offrirsi sino alla fine dei secoli. – Così Cristo ha riconciliato l’uomo con Dio. Ma per l’uomo ha fatto ancor di più. Non avrebbe potuto venire nel mondo e per il mondo, per poi lasciarlo a dibattersi come prima nella sua desolata oscurità. Egli è la luce che deve venire in questo mondo a illuminare ogni uomo che in Lui crede. Egli stesso più di una volta si definì in questo modo: era la luce; e la luce è la vita dell’uomo. Se osserviamo bene possiamo constatare com’Egli abbia sempre assolto il suo compito: fin dalla venuta di Cristo sulla terra, dovunque è giunta la sua influenza, la vita del mondo si è rinnovata. E anche ora, vediamo come questa diffusione di luce continua. Quando Cristo venne sulla terra, la cultura pagana, tanto sostenuta dalla ragione, aveva ormai fatto il suo tempo; i suoi stessi filosofi non vi credevano più, i suoi addetti l’avevano sorpassata, le superstizioni si succedevano, gli uomini non sapevano più che cosa credere, né se ne preoccupavano gran che. Le forme erano mantenute, ossia l’apparato esteriore della religione, perché sembrava che senza di quello la civiltà stessa dovesse soccombere. Ma le forme non avevano più alcun significato, o, se ne avevano, era spesso il contrario di quello primitivo. Anche fra i Giudei si verificava un regresso, un pervertimento di ideali, una sostituzione di convenzioni alla verità. Credevano ancora nell’unico vero Dio, ma era soltanto il Dio di Abramo. La legge aveva divorziato dalla religione, si era fatta fine a se stessa e non più mezzo, e ne era seguita una schiavitù intollerabile. – In questo ambiente venne Cristo. Ergendosi al disopra del legalismo, parlò “come uno avente autorità e non come gli Scribi” e l’autorità ch’Egli si arrogava era quella di messaggero diretto di Dio stesso. Egli restituì all’uomo quella religione dello spirito che ne formava l’aspirazione spontanea. La razza umana era miope per natura, errante “come gregge senza pastore dà come è sempre stata e sempre sarà, se lasciata a se stessa. Cristo le diede una guida sicura, la sua stessa infallibilità che stabilì per sempre nel suo Corpo mistico, la Chiesa vivente. Essendo Cristo Dio, e quindi “ieri e oggi il medesimo per sempre, la sua infallibilità è conseguenza logica della sua divinità. – Non si tratta semplicemente di storia e di evoluzione che sono, esse stesse, fallibili, ma poiché l’infallibilità è cosa più che umana deve necessariamente appoggiare sopra una base sovrumana. Si basa non sulla storia, ma su Cristo in persona che non può ingannarsi né ingannare, che ha promesso di essere coi suoi “sempre, fino alla consumazione dei secoli”, che visse e morì e risorse “per dare testimonianza alla verità”. Se ci avesse dato di meno, nulla avrebbe fatto più di quanto l’uomo già fece nella sua affannosa esitante ricerca della verità. La sua intera dedizione, invece, ci fa riconoscere l’unico sigillo degno della Parola di Dio nella perenne infallibilità di Lui. Veritas Domini manet in æternum: “La verità del Signore per mane in eterno”. – E il suop insegnamento è venuto a rispondere in ogni punto alle ansiose interrogazioni dell’anima umana. Che cos’era essa? Quale la sua origine e la sua ragione d’essere? Quale la sua meta, il suo fine? Cristo le rispose, come uno avente autorità e in nome di Dio stesso, che veniva da Dio e a Lui doveva ritornare, quel Dio che voleva esserle padre, che l’ aveva creata per Sè, che l’aveva santificata e benedetta oltre ogni possibile aspirazione, che con la sua Provvidenza si prendeva cura di lei ad ogni istante. Era venuta da Dio che l’amava di un amore eterno, l’aveva adottata e beneficata come figlia, le aveva infuso la sua stessa vita per farla capace d’innalzarsi al disopra di sé, oltre il limitato orizzonte di questo mondo sensibile, e di diventar membro della sua casa, del suo regno. Che cos’era dunque in se stessa? Arricchita di questa vita nuova l’anima acquistava una dignità e un’importanza tali che al loro confronto il mondo intero perdeva ogni valore. “Che cosa darà l’uomo in cambio della sua anima?” Non era più un essere qualsiasi, ma figlio adottivo della famiglia stessa di Dio, fratello del Verbo incarnato, membro del suo Corpo mistico, tralcio di Lui che è la vite, figlio della sua Chiesa fondata su una rocca che nulla potrà abbattere, creatura preziosa agli occhi stessi di Dio, perché acquistata col sangue del Figlio suo, l’eterno diletto Unigenito. Ecco l’anima umana come Cristo la vedeva e come la rivelò all’anima stessa. Era una concezione che superava quella di tutti i filosofi e i profeti venuti prima di Lui. L’uomo guardò in alto, dalle proprie tenebre, verso le altezze donde veniva la nuova luce, e fu un’esistenza nuova. Poiché, illuminata e rivelata da quella luce, la vita stessa assumeva altro significato e altro valore. Che cosa doveva essere, e per quale scopo? Non era più la tomba la sua meta, ma la casa di Dio Padre, non la conquista di beni effimeri, ma quella di una corona incorruttibile. La sua perfezione stava precisamente nella conoscenza di Dio, nell’amor di Lui accettato e ricambiato, nella rassomiglianza con Lui, come di figlio al padre, ogni giorno più accentuata e più perfetta; e tutto ciò faceva di questa vita meschina una cosa affatto diversa, ricca di significato e d’ideali nuovi, con una nuova meta e con la splendida certezza di un’altra vita in cui la morte sarà assorbita nella vittoria. Nessuna meraviglia che chi ascoltava Cristo rimanesse “stupito della sua dottrina”. (Matt. VII, 28.) Era dottrina umana e divina insieme, perfettamente consona alle aspirazioni dell’uomo, vera risposta alle sue domande, appagamento dei suoi sogni più alti, verità soprannaturale eppur sempre a portata della sua vita quotidiana. “Beati voi, o poveri, perché vostro è il regno di Dio”. “Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati”. “Beati voi che ora piangete, perché riderete”. « Sarete beati quando gli uomini vi odieranno e vi bandiranno dalla loro compagnia e vi caricheranno di obbrobrio, e ripudieranno come abominevole il vostro nome per causa del Figliuol dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno e tripudiate perché il vostro premio sarà grande nei cieli (Luca VI, 20, 25). – Nessuna meraviglia che i suoi nemici, avendolo udito, si allontanassero dicendo: “Nessuno mai ha parlato come quest’uomo”. (Giov. VII, 45). Perché parlava come uno che vedeva e sapeva cose che nessun altro poteva vedere e sapere, e ne discorreva con un linguaggio che nessuno ha mai uguagliato, con una chiarezza, un calore, una convinzione, una sicurezza, perfino con una padronanza di parola e di frase che di per sé era garanzia di verità. Egli era la Via, la Verità, la Vita. Si attribuì questi titoli e nessuno osò contestarglieli. Unico fra tutti gli uomini, Egli poté chiedere: “Chi di voi mi convincerà di peccato?” Egli solo poté promettere ed invitare: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò”. E non si trovò nessuno che osasse accusarlo di presunzione. Da ultimo, poiché non possiamo continuare all’infinito, notiamo che Cristo non si limitò alle parole. Fu modello perfetto di tutto ciò che insegnò, perfetto soprattutto forse perché  appropriato ed accessibile ad ogni uomo che viene in questo mondo. Di nessuno si potrebbe asserire altrettanto, neppure dei migliori fra gli uomini. Incarneranno questo quell’ideale, saranno fulgidi esempi di questa o di quella virtù, ma se vogliamo esser giusti dobbiamo conceder loro, anche ai più grandi, il margine che è comune a tutta l’umanità. Cristo resta unico e solo. Non ha bisogno di nessuna concessione. La sua perfezione non è ristretta ad una qualità o ad una virtù; per quanto vi si cerchino limiti, non se ne troveranno. Si fece uomo, visse fra gli uomini la sua vita umano-divina, uguale in tutto agli altri, nascosto come si nasconde per lo più ogni vera grandezza obbediente come tutti dobbiamo esserlo quaggiù, mostrando in ogni suo atto come preghiera ed azione ogni siano intimamente unite, come l’uomo possa santificare e quindi render perfetta ogni prova e ogni avversità, ogni sconfitta come ogni successo. Insegnò con l’esempio e con l’esperienza, oltre che con la parola, la pazienza, la perseveranza e la speranza nell’afflizione, sopportò tutti i torti ch’Egli sapeva esser riserbati ai suoi futuri seguaci. Agonizzò nel corpo e nell’anima, sopportò il disprezzo degli uomini, l’ingratitudine, l’abbandono, il tradimento, il bisogno, l’insolenza, la crudeltà, l’ingiustizia, la vergogna, l’ignominia, ogni forma di male che può colpire l’umanità. Nessuno doveva mai poter dire che il suo destino fosse più crudele di quello di Cristo. – Eppure, sebbene la figura completa di Cristo sia quella di “verme, non uomo” in cui “non era apparenza che attirasse il nostro sguardo”, il suo esempio attrae irresistibilmente. “Quando sarò innalzato attirerò a me tutte le cose”. Così aveva detto una volta di Sé e, nel tempo, la profezia si è avverata. – Quella vittima innocente che tutto sopportò per puro amore di coloro che avrebbero dovuto soffrire in sua vece ha fondato una nuova civiltà; i suoi patimenti hanno portato frutto in questo mondo come nell’altro. La croce è apparsa nel cielo, e sul Cristo, sul Cristo crocifisso, è sorto il Cristianesimo. Attraverso i secoli Egli ha attirato a sé uomini e donne innumerevoli pei quali, a motivo di Lui, la sofferenza è diventata una gioia perché li ha resi tanto più simili a Lui, una cosa sola con Lui. E li ha fatti capaci di compiere in loro stessi “ciò che manca” alla passione di Lui, ha insegnato loro il modo di dargli prova d’amore, il mezzo medesimo con cui Egli dimostrò l’amor suo per essi. Ha reso loro possibile di partecipare alla sua vita e compiere, in Lui e con Lui, l’opera per la quale Egli visse e morì. Né il miracolo è esaurito: Cristo e la sua croce rimarranno l’ideale di milioni di esseri fino alla consumazione dei secoli; ché in quell’ideale, più che in ogni altro, è riposta la salvezza dell’uomo anche su questa terra.

LA GRAZIA E LA GLORIA (39)

LA GRAZIA E LA GLORIA (39)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VIII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. — I SACREMENTI, E SPECIALMENTE L’EUCARISTIA, SECONDO MEZZO DI CRESCITA.

CAPITOLO PRIMO

I sacramenti e l’Eucaristia. Cosa Essa  sia in se stessa.

1. . – Il secondo principio da cui procede l’aumento della grazia e la nostra crescita spirituale è nei Sacramenti, e tra i Sacramenti, nel più augusto e più santo di tutti, l’Eucaristia. Andremmo oltre i limiti del nostro piano se abbracciassimo la questione in tutta la sua portata. Inoltre, tutti i Sacramenti, come vedremo in seguito, non mirano direttamente all’aumento della grazia come fine proprio. La producono, come ho detto, da soli, in virtù dell’efficacia che deriva da Gesù Cristo, di cui sono strumenti, e come diciamo nella Scuola con il santo Concilio di Trento, “ex opere operato“. Indubbiamente, tutti possono anche aumentare la grazia e, di fatto, tutti la perfezionano, quando la trovano già viva in un’anima. Di conseguenza, da tutti loro abbiamo il diritto di aspettarci uno sviluppo dell’uomo interiore. Ma solo all’Eucaristia, in virtù della sua istituzione originaria, appartiene il procurare questo intimo progresso. È per questo, che essa ha la sua ragion d’essere, ed è per questo che, dicendo solo una parola sugli altri sacramenti, ci occupiamo di questo sacramento per eccellenza, la santa Eucaristia. – Ma, prima di spiegare il modo veramente divino in cui produce questo effetto meraviglioso, e di mostrare quale sia la causa del suo frutto essenzialmente proprio, è importante ammirare la Provvidenza molto saggia e misericordiosa di Dio, nostro Padre, nei confronti dei suoi figli adottivi. Un giorno, avendo raggiunto la misura dell’uomo perfetto, essi entreranno, o mio Dio, nello splendore eterno dei vostri tabernacoli e siederanno alla vostra mensa per mangiare con Voi il cibo ineffabile che è la beatitudine degli Angeli e della Trinità. Questa è la festa misteriosa di cui San Giovanni, nella sua Apocalisse, ci ha descritto le meraviglie, dove voi stessi sarete, senza intermediari e senza veli, il pane che li sazia, il vino che li inebria. Ma questo cibo non può essere quello dei bambini in formazione: è troppo forte e troppo sostanzioso per la loro debolezza. Eppure, è necessario che essi debbano mangiare e bere ed essere nutriti? Questa è la legge che regola lo sviluppo di ogni essere vivente e respirante. Dio, che fornisce così generosamente il cibo per i piccoli degli uccelli, non può lasciare le sue amate creature senza il cibo adatto alla loro condizione presente. Quale sarà questo cibo per i figli di Dio durante il periodo della loro crescita? Incorporati nella materia, e quindi incapaci di raggiungere immediatamente le cose immateriali, invisibili ed intangibili, chiedono un cibo che rientri nei loro sensi esterni, che possano vedere, odorare e toccare. Ma questi figli non sono che una cosa sola con Voi, mio Dio, membra di un solo e medesimo Corpo mistico, di cui vostro Figlio è il Capo. Pertanto, tutti hanno bisogno di una stessa tavola, di uno stesso cibo, a qualsiasi periodo appartengano, in qualsiasi punto del mondo abitino. Infine, non dimenticate, o Signore mio Dio, che i commensali non sono più schiavi o semplici servi: per la vostra grazia sono diventati vostri figli, che portano incisa sul volto della loro anima la vostra stessa immagine, di dei deificati. Pertanto, ciò che vi chiedono è un alimento divino. Qualsiasi altra cosa sarebbe al di sotto della loro dignità. Il banchetto che preparate per loro deve essere il banchetto degli dei, come quello del cielo. Chi potrà mai soddisfare queste richieste? La saggezza, l’amore, la potenza del nostro grande Dio.

2. – Andiamo all’Ultima Cena. Gesù Cristo, l’unico Figlio di Dio, « prende del pane, lo benedice, lo spezza e lo dà ai suoi discepoli: Prendete e mangiate, dice loro: Questo è il mio corpo. Poi prende il calice e lo dà loro, dicendo: Bevetene tutti. Questo è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza. Fate questo in memoria di me » (Mt. XXVI, 26, 29; Lc. XXII, 19, 21; 1 Cor. XI, 24, ecc.). L’opera è completa; il banchetto è come lo desideravamo: tutte le condizioni, per quanto sembrassero impossibili, sono state soddisfatte. Questo è il cibo e la bevanda adatti ai figli di Dio negli anni della loro formazione: è un cibo sensibile, un cibo che è sempre e ovunque lo stesso per tutti, un cibo in cui Dio stesso, il Dio fatto uomo, è ciò che mangiamo e ciò che beviamo. – Per convincersene, basta meditare con devota attenzione il testo evangelico. Colui che è la Verità eterna non può mentire. Se, dunque, prende degli alimenti comuni e su di essi dice: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”, e poi li presenta come il proprio corpo e il proprio sangue, le sue parole devono aver prodotto per una virtù onnipotente ciò che significano: il cambiamento totale dal pane al corpo, dal vino al sangue. Il cambiamento, dico: perché le parole di Gesù Cristo cesserebbero di essere vere, se le sostanze materiali del pane e del vino rimanessero nelle loro qualità sensibili. Il cambiamento totale: perché le parole di Gesù Cristo cesserebbero di essere vere, se le sostanze materiali del pane e del vino rimanessero nelle loro qualità sensibili con il corpo e il sangue del Signore. Il cambiamento totale: se non raggiungesse fino alle ultime parti della sostanza, qualcosa di basso e di vile si mescolerebbe a questo cibo celeste, e l’affermazione di Gesù sarebbe incompleta. Questo è ciò che la Santa Chiesa esprime felicemente con la parola di  parti. – Ma chi è colui che parla? Il Cristo vivente e Figlio del Dio vivente. Perciò, poiché in Lui né il corpo è separato dal sangue, né il sangue dal corpo; poiché il corpo e il sangue sono uniti all’anima nell’unità della natura, e questa stessa natura è unita alla divinità nell’unità della persona, Gesù Cristo è interamente sotto ciascuna delle parti e i Padri poterono dirgli in uno slancio di santa ammirazione: « Siete Voi, Signore, che mangiamo e che beviamo » (« Te Domine comedimus. Te bibimus non ut consumamus Te, sed ut per Te vivamus ». S. Efrem, Hymn. De fide, apud Assemani Biblioth. Orient. T. I, p. 101). – Mistero della fede « mysterum fidei » che ci offre altre meraviglie per credere. Ma nulla è impossibile per Dio, soprattutto quando è l’amore a guidare la sua mano. Gesù Cristo, integro sotto ciascuna delle specie, lo è anche sotto ciascuna delle loro parti: perché non è solo dell’insieme, ma di tutte le parti della sostanza manifestata dagli accidenti esterni, che Gesù ha detto: Questo è il mio corpo e questo è il mio sangue. Perciò, anche se ciascuno degli Apostoli prese solo un frammento del pane consacrato e bevve solo una parte del calice, tutti ricevettero ugualmente il loro Signore. E non crediate che, per non essere diviso da sé stesso, Egli si moltiplichi secondo il numero delle specie sacramentali o la moltitudine delle parti che le compongono. Cristo avrebbe dunque diversi corpi, o dobbiamo adorare diversi Cristi? Questo è il mio corpo – Egli dice – non i miei corpi. Aggiunge: « Fate questo in memoria di me »; e l’Apostolo delle genti, dopo aver riportato queste parole del Maestro, gliene mette in bocca altre: « Poiché ogni volta che mangerete di questo pane e berrete di questo calice, proclamerete la morte del Signore, finché Egli venga » (1 Cor. XI, 26). Noi, dunque, che non eravamo a quel primo banchetto dell’Eucaristia, lontani da esso nel tempo e nello spazio, possiamo parteciparvi come discepoli del Salvatore. Egli li ha consacrati Sacerdoti e, attraverso di loro, tutti i loro successori in questo ministero divino. « Finché non verrà », cioè fino alla fine dei giorni, ci saranno uomini che, rivestiti per così dire della sua Persona, prenderanno il pane e il vino e nella sua Persona pronunceranno la parola onnipotente: Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue. E nulla potrà impedire l’effetto di queste affermazioni ripetute in tutto il corso nei secoli; nulla, dico, se non la mancanza di consacrazione in colui che le pronuncia in suo nome; perché, se è veramente Sacerdote, è Gesù Cristo Sommo Sacerdote, Gesù Cristo nostro Pontefice, a pronunciarle attraverso di lui. – E siccome nessuna indegnità può togliere forza alle parole del ministro, perché egli è solo un ministro, così nessuna contaminazione, nessun accidente, può separare il corpo di Gesù Cristo dalle specie sacramentali, purché esse mantengano intatta la loro natura. Quando Nostro Signore ha detto: Questo è il mio corpo, è come se avesse detto più diffusamente: Quello che vedete e potete toccare sotto queste apparenze di pane, quello che vi rendono sensibile, è il mio corpo. Ora, questo non sarebbe più vero se, per un motivo o per l’altro, la carne del Salvatore cessasse di essere lì, mentre le specie sacramentali fossero ancora lì. Ma se queste stesse specie si corrompono a tal punto da non essere più quelle del pane, questo corpo sacro non le accompagna più: non è né su questo altare, né in questo tabernacolo, né in questo scrigno dove è avvenuta questa trasmutazione degli accidenti eucaristici. Non è che si ritragga da se stessa, né che subisca alcun cambiamento: l’unica causa è nel cambiamento della specie a cui la parola del Consacratore l’aveva unita.

LO SCUDO DELLA FEDE (225)

LO SCUDO DELLA FEDE (225)

MEDITAZIONI AI POPOLI (XIII)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

Il Rosario meditato e recitato col popolo.

PARTE SECONDA

MANIERA DI RECITARE IL ROSARIO.

MEDITAZIONE XIII.

Il Rosario meditato e recitato col popolo

MISTERI GLORIOSI

PRIMO MISTERO, — La Risurrezione.

Nel primo mistero glorioso si contempla come il nostro Signor Gesù Cristo il terzo giorno dopo la sua morte risuscitò glorioso e trionfante per non mai più morire.

CONSIDERAZIONE.

Che cosa vuol dire recitare il Rosario?

Vuol dire mettersi col cuore in Gesù Sacramentato, e contemplarlo quasi si vedesse lì, come dice il mistero; e il mistero ci dice che Gesù risuscitò glorioso. Ora contempliamolo un istante il nostro Gesù morto come era là nel sepolcro; ed innanzi a Lui non altrimenti che le pie donne, ardiamo profumi della nostra tenerissima devozione intorno intorno a quel Corpo che combatté per noi fino all’ultima goccia di sangue. – Ma oh! ci par di vederlo in questo momento morire nell’aspetto di celestiale bellezza. Gli occhi brillano di luce di paradiso: si trasfigura la carne in isplendor di gloria celeste: cadono a terra squarciate le bende mortuarie: fugge, diremmo, la morte da Lui, come le guardie atterrite: il Redentore trionfante risorge ….. Alleluia! alleluia! gridiamo nell’estasi del gaudio giubilanti, come la Chiesa, la quale ripete palpitante di gioia: Lode a Dio: alleluia! È risorto, è risorto il Salvatore nostro: via tutte paure! Cadiamogli ai piedi come la Maddalena, giubiliamo cogli Apostoli, acclamiamogli intorno: o Maestro, o Salvatore nostro, o Figliuol di Dio, re nostro che ci guidate alla risurrezione ed alla gloria!

Pater noster. O Padre nostro: al cielo, al cielo con voi. Ecco, che vi ci guida il vostro Figlio. Noi vi daremo sempre con Lui gloria nella nostra vita; regnate intanto qui fra noi in terra, e tirateci tutti in paradiso; e noi qui, quali vostri figli, desideriamo compiere la vostra santa volontà come i beati in cielo (si reciti la prima parte del Pater noster). Padre santo, dateci il pane della vita che troveremo in Gesù. (Qui si fa la Comunione spirituale). Per Gesù perdonateci, e dateci la carità verso tutti. Deh, nelle prove e nelle battaglie teneteci sempre con Gesù risorto alla nostra testa; e così non ci perderemo. (Si reciti la seconda parte del Pater noster).

1. Ave Maria. Redentore Gesù, noi vi contempliamo come là nel sepolcro con quelle vostre piaghe da cui deriva la nostra eterna vita. O Maria madre nostra, a quel modo che il santo profeta Eliseo si stendeva col suo santo corpo sul corpo del fanciul morto e gli ridonava la vita, così voi metteteci colla bocca, colle mani, coi piedi, col cuore sul Cuore di Gesù nel Sacramento; ché risorgeremo a vita eterna. Dio vi salvi, o Maria.

2. Oh istante beato!… Gesù nel sepolcro apre gli occhi brillanti di luce di paradiso… si trasfigura in gloria il santo Corpo suo; il Cuor aperto ve’ che palpita dell’immortale vita di Dio!… Risorge!… Oh Maria! sì, o Maria, verrà il giorno in cui risorgeremo anche noi, in cui il cuor nostro palpiterà del palpito del Cuore di Gesù. Allora, allora quanto ci sarà caro l’aver patito con Gesù. Ma intanto voi, Madre, confortateci a soffrir con pazienza in questa breve vita. Dio vi salvi, o Maria.

3. Mondo, demonio, cattive persone, andatevi lungi da noi come fuggivan le guardie che credevano di tener nel sepolcro Gesù. Noi vogliamo la bocca, gli occhi, le mani, i piedi, il cuore nostro tenere crocifissi con Gesù, lontani dai peccati; e di qui in poi grideremo sempre in ogni tentazione: Gesù e Maria! Dio vi salvi, o Maria.

4. O Maria, qual gaudio per voi, quando vi comparve risorto glorioso il vostro Gesù, che voi deponeste con tanto dolore nel sepolcro! O Maria, quale gaudio, quando risorgeremo anche noi, e nell’orizzonte dell’immortalità ci smarriremo nel gaudio di Dio in paradiso. O paradiso! o paradiso!… e noi vedremo caduto a nulla il tempo dei patimenti di quest’ora di vita in terra. Deh, non lasciateci mandar a male il gaudio dell’eternità per questo istante del tempo presente. Dio vi salvi, o Maria.

5. E risorto! è risorto! alleluia, lode a Dio! È qui con noi! Vengano pure le tentazioni, le prove e le battaglie; il nostro grido del combattimento sarà alleluia. Lode a Dio; Egli è risorto, e noi combatteremo colla fiducia del trionfatore sulla fronte. Avvenga pure quel che Dio permette: Gesù ci precede risorto, e c’incoraggia alla vittoria col dirci: confidate; io vinsi il mondo. O Maria, ci ravvivate la speranza del trionfare appresso a Gesù con voi in gloria. Dio vi salvi, o Maria.

6. Maddalena quando sel vidde risuscitato, mise un grido per dirgli tutto il cuor suo: oh Maestro! — Gli Apostoli in contemplandolo estatici posero la mano sul suo Cuore aperto; e Gesù li faceva padroni del suo Sangue per pagare i peccati in confessione; e gl’invitava a cercar tutti la pace nel suo Cuore in comunione. O Maestro e Salvator nostro, noi ci butteremo ai vostri piedi in confessione; e voi ci proverete nell’anima il vostro Sangue, e ci accoglierete nel vostro Cuore santissimo in comunione. Maria, dateci mano voi. Dio vi salvi, o Maria.

7. L’abbiamo qui con noi Gesù trionfante; ma è come il prode che combatté, ed ha ancora aperte le piaghe, le quali dicono quanto gli costi la sua vittoria e l’altrui salvezza. Santo Capo, ancora veggiamo i fori che vi fecero le spine: Care Mani, ancora gli squarci che vi fecero i chiodi! Piedi benedetti, ancora i buchi! O Membra sante, che avete versato sino all’estrema goccia di Sangue per noi; o Cuore dolcissimo, che gemi ancora Sangue! Caro Gesù, qui è con Voi il nostro cuore: noi vi voleremo coll’anima le mille volte al giorno intorno, perché qui è tutto il nostro tesoro. O Gesù, o Maria, vi mettiamo in seno la vita nostra. Dio vi salvi, o Maria.

8. Gesù dice a noi come già agli Apostoli: beato chi crede in me: confidate, poiché io ho vinto il mondo: pigliatevi la vostra croce, fatevi dietro a me, ed io vi guiderò a vittoria. Gli Apostoli giurarono di credergli, e seppero morire per la loro credenza. Maria, in tutte le tentazioni, in tutte le disgrazie, nelle più tremende prove noi grideremo: Gesù! e grideremo a voi, Maria; e se moriremo con voi, la morte sarà un trionfo di paradiso. Dio vi salvi, o Maria.

9. Gesù risorto apparve in Emmaus ai discepoli, i quali nol conobbero in sulle prime solo con parlargli; ma quando lo videro benedire il pane, allora si aprirono i loro occhi. Ah Gesù, per comprendere bene i misteri del vostro amore non basta essere istruiti; bisogna ricevere i Sacramenti. Oh Maria, aiutateci a gustare le cose di Dio col fare le opere di divozione e di carità. Dio vi salvi, o Maria.

10. Gesù disse agli Apostoli: andate ad insegnare a tutti gli uomini quanto io insegnai a voi stessi. Gli Apostoli andarono, e i loro successori anderanno finché duri il mondo, colla verità diffondendo la carità divina. Da questo comando vien mandata la salvezza per l’universo. Oh Maria, fate voi che i poveri figliuoli degli uomini così miserabili comprendano come la dottrina, i Sacramenti e la grazia di Gesù Cristo solo li possano consolare e salvare. Dio vi salvi, o Maria.

Gloria Patri. Padre santo, noi ci consoliamo; imperciocchè a Voi rende gloria per noi il vostro Gesù. Gesù, gloria a Voi trionfante: date gloria al vostro Padre collo stendere il vostro trionfo di misericordia sopra tutti gli uomini. Spirito Santo, gloria a Voi: da Voi speriamo che si rinnovelli il mondo, e risorga a vita vera l’umanità. (Si reciti il Gloria Patri). Requiem æternam. Gesù glorioso, spezzate i vincoli che tengono in patimenti le care anime del purgatorio. Sono, ben lo sapete, le figliuole care di vostra Madre. (Si reciti il Requiem æternam).

SECONDO MISTERO. — L’Ascensione al cielo.

Nel secondo mistero glorioso si contempla come nostro Signore Gesù Cristo quaranta giorni dopo la sua gloriosa risurrezione, sali in cielo alla presenza di Maria SS. e dei suoi discepoli.

CONSIDERAZIONE.

Gesù risuscitato è qui in mezzo di noi nel Sacramento, siccome là sul monte dell’Ascensione. Qui, come gli Apostoli, contempliamolo giubilanti del suo trionfo. Egli ci mostra le sue Piaghe gloriose, e pare che ci dica: queste sono ancora per voi aperte; ma andate con coraggio, pigliate anche voi la croce vostra, e seguitemi su al cielo, al cielo, alla gloria di beatitudine eterna col Padre in paradiso. – Prima di ogni cosa cadiamogli ai piedi, e guardandolo in quelle Piaghe con parole piene del pianto della gratitudine ringraziamolo d’averci salvati a tanto costo. Ora poi versiamogli il cuore in tenerezza, e diciamogli: Redentore nostro pietosissimo, vero principe di pace, Voi avete riconciliato il cielo colla terra, avete rotta quella barriera che gli uomini teneva lontani dal paradiso. Voi squarciaste la scritta di perdizione su cui erano registrate con caratteri orribili le nostre colpe. Questa carta voi l’attaccaste alla vostra croce, e dalla croce scorre giù il Sangue che cancella i peccati nostri. Trionfatore della morte, Voi avete portato il terror nell’inferno, rovesciato il trono del demonio, e lui incatenato a pié della croce, spezzando i ceppi della schiavitù; ed avete tirato fuori dal limbo le anime dei Santi che Vi sospiravano. Ah gli Angioli nel vedervi salire al cielo alla testa di questa legione trionfante, guardano con rispetto la terra che innaffiata del Sangue vostro è divenuta la scala del paradiso! Al paradiso dunque salite in gloria. Aprite le porte, o principi delle sfere celesti; Egli è il Salvatore degli uomini, il quale prende possesso del regno celeste per noi conquistato, e porta per la prima volta la carne umana in paradiso. O Gesù, Gesù glorioso! Voi salite al cielo, e vi accompagnano i nostri cuori tra lo splendore della eterna gloria; ma Voi non ci lasciate orfani in terra. Qui avete i vostri interessi, qui avete noi che siamo figli del vostro Sangue, e che vi costiamo tanti dolori; qui voi quindi restate compagno del nostro peregrinaggio, e fate causa comune con noi: qui nel Sacramento Voi siete carne della nostra carne, ossa delle nostre ossa: Voi siete il Capo e noi le membra vostre. Voi qui, e Voi in seno al Padre nello splendore della maestà di Dio in paradiso. Gesù, Gesù, dove è il capo, speriamo, vi devono essere eziandio le membra….. Ah stretti del cuore con Voi, con Voi dunque grideremo: Pater noster… O Padre nostro, che siete in cielo, e noi qui in terra guardate col vostro Figlio a darvi gloria, deh stendete il vostro regno su tutti gli uomini. Che se non possiamo farvi conoscere ed amare da tutti colla predicazione, almeno ci uniremo col Cuor di Gesù nell’Apostolato della preghiera e grideremo con Gesù: Venga il vostro regno; fatevi conoscere, o Signore, ed amare da tutti: pigliateci tutti tra le braccia della vostra bontà, e portateci a far tutto il bene, giacché tutto il bene è fare la volontà vostra. (Si reciti la prima porte del Pater noster). Buon Gesù, riceveteci nel vostro cuore, teneteci con voi in terra nel Sacramento. (Si fa la Comunione spirituale). Pagheremo del vostro Sangue i nostri peccati, con Voi faremo tutto il bene possibile ai nostri fratelli; con Voi vinceremo tutte le prove e le tentazioni. Ah sì, si, Voi ci libererete dal peccato, e da ogni male, per farci con Voi beati in paradiso. (Si reciti la seconda parte del Pater noster).

1. Ave Maria. Madre nostra benedetta, come voi già sull’Oliveto, noi ora in vostra compagnia contempliamo Gesù nostro glorioso nell’istante che ascende al cielo. Ah quelle Piaghe e quel Cuore lacerato ci fanno intendere quanto poté operare la potenza dell’amore del Figliuol di Dio, del Figliuol vostro Gesù! O Maria, noi non sappiamo dirgli tutto il cuor nostro: ditegli Voi di quelle parole che sapete dire voi sola, e portateci tra le vostre braccia a Lui vicini a baciargli le Piaghe per segno di ringraziamento. Dio vi salvi, o Maria.

2. Piaghe santissime e gloriose, voi ci guadagnaste il paradiso! Oh se i mali, le disgrazie, le tribolazioni e tutte le altre piaghe di questa povera vita ci rendono simili al nostro Gesù, deh, Maria, aiutateci a patire ben volentieri, poiché il patire lavora la eterna gloria. Dio vi salvi, o Maria.

3. Quanto era il gaudio che provavano gli Apostoli nel contemplarsi in mezzo di loro Gesù! Ma Gesù disse loro: andate a predicare ciò che io v’insegnai; e gli Apostoli percorsero il mondo, e lo fecondarono fino del loro sangue. O Maria, vi preghiamo come gli Apostoli intorno a Voi, teneteci fissi col cuore in Gesù; e noi anderemo a fare i doveri nostri dove ci manda il volere di Dio per servire sempre il nostro Re della gloria. Dio vi salvi, o Maria.

4. Gesù, ci par di sentirlo dire: io vado al cielo, vi porto le mie Piaghe gloriose, e le tengo là aperte per voi. Oh Maria, quale conforto gli è mai per noi di avere il nostro Gesù colle Piaghe aperte per noi in cielo! Ma aiutateci a medicargli le sue piaghe in terra, trattando con carità ì poveri nostri fratelli e bisognosi. Dio vi salvi, o Maria.

5. Buon Gesù Salvatore nostro, noi vi contempliamo nell’istante che salite al cielo, e con un grido di giubilo ci slanciamo col cuore ad abbracciarvi nel Sacramento. Caro Gesù, è proprio vero che non ci lasciaste orfani qui sulla terra! O Maria, Maria, teneteci stretti con Gesù nel Sacramento, fintantoché non ci accoglierete in paradiso. Vogliamo spirar l’anima in una Comunione spirituale. Dio vi salvi, o Maria.

6. Gesù disse ai discepoli: andate, siete pochi, ma vincerete il mondo; io sono qui con voi fino alla consumazione dei secoli. Passarono già mille ottocento anni, e Gesù mantiene la sua promessa, e la Chiesa vince sempre, e cammina tra le ossa de’ suoi nemici. Maria, in tutte le prove, in tutte le tentazioni, in tutte le battaglie fatte contra la Chiesa noi grideremo: Dio è con noi, e chi può vincere Iddio? Dio vi salvi, o Maria.

7. Un capitano, il quale guida alla vittoria i suoi soldati, se si slancia colla bandiera in mezzo ai nemici, strascina i suoi commilitoni nel vortice della battaglia e li vede pugnare fino alla morte. Gesù trionfante, Voi ci precedeste col vessillo della vostra croce; e noi combatteremo, vinceremo fino alla morte, e sarà il nostro grido: Gesù, Gesù e Maria. Dio vi salvi, o Maria.

8. Oh Gesù, oh Gesù! Voi volate in gloria Dio col Padre e volate con quel vostro Corpo nello splendore della Divinità, il quale è Carne della nostra carne e Sangue del sangue nostro… O Madre purissima, fate da Madre qui con noi, che vogliamo questo nostro corpo portarci pure alla gloria del paradiso. Dio vi salvi, o Maria.

9. Voi Gesù, Voi Maria siete in paradiso, che ci aspettate. Ah siamo adunque concittadini del cielo; ma qui tuttavia in peregrinaggio ancor in terra! Ci affretteremo per giungere lassù alla patria nostra. Voi proteggeteci nei pericoli del nostro esilio. Dio vi salvi, o Maria.

10. Il nostro cuore diamo a Gesù, la nostra mano a Maria nell’istante della nostra vita che passa. Col cielo aperto che ci aspetta, con Gesù e Maria che ne aiutano, non vogliamo perderci, no, in questi inganni del mondo; ma affrettarci verso del cielo, e dar la destra ai nostri fratelli per condurli con esso noi. O Maria, vi raccomandiamo tutti, perché nessun si perda degli uomini salvati col Sangue del vostro Figlio. Dio vi salvi, o Maria.

Gloria Patri. Voi, Voi, o Gesù glorioso alla destra del Padre, dategli Voi la gloria che gli è dovuta dall’universo, ma specialmente da questa povera terra, abitazione vostra. Gloria a Voi, Gesù Dio-Uomo, e gloria in seno a Dio alla vostra Umanità divinizzata. Spirito Santo, gloria a Voi sempre, a Voi Amore del Padre e del Figlio in cielo, e qui tra noi in terra. Tirateci con Gesù in paradiso. (Si reciti i Gloria Patri). – Requiem æternam. O Gesù nostro! anche le Anime del purgatorio, guardano su in cielo alle vostre Piaghe; e Voi dal Costato vostro versate il Sangue glorioso nel purgatorio su di esse poverette che sono in tanti patimenti. (Si reciti il Requiem æternam).

TERZO MISTERO. — La discesa dello Spirito Santo.

Nel terzo mistero glorioso si contempla come Gesù Cristo mandò lo Spirito Santo sopra gli Apostoli che stavano con Maria Vergine congregati dentro del Cenacolo in orazione il giorno di Pentecoste.

CONSIDERAZIONE.

Quando Gesù salì in trionfo alla gloria del paradiso, che cosa potevano mai fare gli Apostoli per provvedere alla loro debolezza, e prepararsi a ricevere lo Spirito Santo loro promesso? Essi seppero ben fare il meglio. Si raccolsero intorno a Maria Santissima come intorno alla più cara speranza, ed insieme con Lei si abbracciarono a Gesù nel Sacramento, celebrando la santa Messa; e col cuore in Gesù, sotto la protezione di Maria perseveravano in orazione. Giunge il dì della Pentecoste; si sente come un turbine, che scuote il Cenacolo; ed ecco scendere lo Spirito del Signore nell’apparenza di colomba; e sotto la forma di lingue di fuoco diffondersi su quei fortunati. Gli Apostoli non possono più trattenersi, invasi di virtù dall’alto; rompono i cancelli del Cenacolo presentandosi a predicare Gesù ad un popolo contraddicente, e gli rinfacciano il delitto di avere dato la morte al Salvatore. Predicano la penitenza e la salute, e predicano nelle lingue di tutte le genti convenute a quella solennità in Gerusalemme… Sono incatenati, battuti affinché tacciano; ma essi predicano più alto ancora. Martoriati, strascinati sul patibolo muoiono col sorriso sul labbro, nella fiducia che lo Spirito del Signore susciterà nuovi prodi decisi a dare la vita per salvare le anime a gloria di Dio. Anche noi poveri di spirito ed umili seguaci di Gesù Cristo, anche noi come i discepoli, in mezzo ad un mondo nemico di Dio e dei suoi servi pigliamo coraggio, qui ci raccogliamo intorno a Gesù nel Santissimo Sacramento sotto la protezione di Maria, e duriamo perseveranti nella preghiera, recitando devotamente il santo Rosario. Gridiamo al Padre. Pater noster. O Padre santo, che avete in cielo con Voi il Figlio vostro e nostro Gesù, mandateci lo Spirito di santa adozione. Collo Spirito vostro daremo gloria a Voi, Voi regnerete nel nostro cuore, e noi saremo figli del vostro amore. (Si reciti la prima parte del Pater noster). Gesù, venite con noi coll’abbondanza del vostro Spirito. (Qui si fa la Comunione spirituale). Spirito di carità, purificate col vostro amore i nostri cuori, ci infondete la carità inverso di tutti, la forza a combattere; e tirateci in fine al trionfo della vostra bontà in paradiso.

1. Ave Maria. Gli Apostoli, quando una nube tolse agli sguardi loro Gesù che saliva al cielo, paurosi si strinsero intorno alla Madre, sperando tutto dal suo amore. Anche noi in questa povera vita chiamiamo Voi, o Maria, e a Voi sospiriamo piangendo. Deh volgete lo sguardo, e date la mano a noi per menarci da questo esilio nella patria insieme con Gesù. Dio vi salvi, o Maria.

2. Gli Apostoli nel Cenacolo intorno a Maria, confortati da Lei eseguirono il caro comando di Gesù Cristo; consacrarono cioè il Corpo ed il Sangue di Lui nel Sacramento, e si gettarono sul suo Cuore. O Maria, noi non siamo degni di tanto; ma Gesù ci chiama, ci comanda a riceverlo in Sacramento: deh, imprestateci il vostro cuore per riceverlo nel nostro seno. Dio vi salvi, Maria.

3. Standosi gli Apostoli nel Cenacolo in orazione con Maria e con Gesù nel Sacramento, ricevettero la pienezza dello Spirito Santo. O Maria, colla vita raccolta, colla divozione a Voi, coll’anima a Gesù in Sacramento riceveremo eziandio noi, lo speriamo, l’abbondanza dei doni dello Spirito Santo. Dio vi salvi, o Maria.

4. Erano ben poveri di cuore gli Apostoli, che tutti abbandonarono Gesù in mano ai Giudei, e Pietro il più ardente di loro giunse puranco a negarlo. Spaventati dall’esperienza della loro miseria, si misero intorno a Maria, si nascosero nel Cenacolo, e là pregavano Gesù che era in mezzo di loro. O Maria, tirateci fuori delle occasioni pericolose in cui abbiamo provata tante volte la nostra debolezza, teneteci devoti a voi, e noi uniti con Voi e Gesù, grideremo in tutte le tentazioni: Gesù e Maria!… Dio vi salvi, o Maria.

5. Adoriamo in santo timore! Scende lo Spirito Santo sopra gli Apostoli; ed eglino diventano coraggiosi in predicare alto Gesù ad un popolo di contradditori. I Farisei li incatenano, li flagellano, loro comandano di non parlar più oltre di Gesù; ma essi predicano più alto ancora, e col dare la vita vincono il mondo e fanno adorare Gesù. O Maria, aiutateci a servire Dio, a dar gloria a Lui senza rispetto umano sino a dare il sangue, se è mestieri, pel nostro Signore! Dio vi salvi, o Maria.

6. Gli scribi e i farisei volevano farli credere ubbriachi e matti frenetici; ma tutta la gente grida: miracolo! miracolo! essi parlano proprio nell’istesso tempo in tutti i nostri linguaggi; e siamo di tante nazioni… Oh egli è proprio vero che tutti i popoli intendono il linguaggio della carità! O Maria, otteneteci dallo Spirito Santo il dono della carità; ed allora ben potranno dirci che siamo matti, perché siamo devoti, ma la carità finirà col farci conoscere, e col far rispettare la divozione. Dio vi salvi, o Maria.

7. Lo Spirito Santo che discende negli Apostoli, aveva già parlato ad Adamo per non lasciarlo perdere in disperazione e parlato aveva ai Patriarchi, ai Profeti dell’antico Testamento per mantenere viva in loro la fede nel Redentore venturo. Lo Spirito Santo discese pure in voi, o Maria, e per Gesù si diffonde nella Chiesa, e le mantiene la vita che non può mancare: da Lui viene ogni verità, ogni virtù, ogni ben sulla terra. O Maria, teneteci come membra in un sol corpo uniti alla Chiesa affinché ci vivifichi dei suoi doni lo Spirito del Signore che giammai l’abbandona. Dio vi salvi, o Maria.

8. Sono mille ottocento e più anni che la Chiesa sempre infallibile e santa, insegna tutte le verità, condanna tutti gli errori, fa sola il vero bene agli uomini nell’universo, e salva i figli che le si affidano interamente, perché ha lo Spirito Santo che la inspira. Sono da sei mila anni che gli uomini, i quali vogliono far tutto da loro senza di Dio, non fanno che male alla povera umanità, e tutto che toccano, in man di loro si guasta, tantoché fin l’istruzione li fa diventare peggiori. O Maria, teneteci attaccati alla Chiesa, perché non c’inganni e non ci perda il malo spirito. Dio vi salvi, o Maria.

9. Gli Apostoli corsero a conquistare il mondo ed a salvare gli uomini per Gesù Cristo; e milioni e milioni di Cristiani diedero il sangue per la fede cattolica. Il mondo non può resistere a tanta virtù: è lo Spirito di Dio che rende invincibile la Chiesa. O Maria, mentre ci sentiamo così meschinelli, e non siamo che miseria e peccato, se voi ci pigliate per figli e ci ottenete la forza dello Spirito del Signore, anche noi diverremo capaci di fare tutto il bene che Dio vorrà da noi. Dio vi salvi, o Maria.

10. Solleviamoci col pensiero a Dio. O  Maria, o Maria, Gesù vostro Figlio e Figlio del divin Padre è qui con noi. Deh, unite tutte le nostre persone in Gesù; e fate che lo Spirito Santo, amor sostanziale del Padre e del Figliuolo, ci compenetri, vivifichi, ci trasporti in paradiso. Dio vi salvi, o Maria. Gloria Patri. Grande Iddio, Voi siete Padre e ci mandaste di cielo dal vostro seno il vostro Figliuolo. Spirito Santo, Amore eterno del Padre e del Figlio, santificateci con Gesù, sì che siamo degni di darvi gloria in terra, per potervi poi glorificare con Gesù e col Padre in cielo per tutti i secoli nella vita eterna. Gloria Patri. Requien  æternam. Spirito Santo, divino Paracleto,consolatore di tutti, amore eterno, vita di tuttii cuori, refrigerio delle anime, padre dei poveri,sommo bene di tutti, tirate in gaudio eterno le povereanime del purgatorio. Requiem æternam.

QUARTO MISTERO, — L’Assunzione di Maria SS.

Nel quarto mistero glorioso si contempla come Maria Santissima, dodici anni dopo l’Ascensione di Gesù Cristo suo Figliuolo, passò di questa vita, e dagli Angeli fu assunta al cielo.

CONSIDERAZIONE

Oh raccogliamoci piamente a piè dell’altare e con Gesù contempliamo la Santissima Madre nostra. Ella è caduta nel languore della morte, e pare un fiore di mattina troppo carico di rugiada piovutagli dal cielo in grembo, che languendo sulle le ride ancora verso il cielo; od un fiore della sera che pel calore che lo consuma espandendo i suoi effluvii si ripiega dolcemente sullo stelo. Deh, posiamoci appresso a Lei senza tema, benché morta… Piangeremo su questa tomba?… Gloria a Dio!… e che cerchiamo fra li morti Colei che è la Madre della vita?… Contempliamola nell’istante che risorge… A quel modo che sopra della vetta di altissima montagna, mentre il cielo s’indora e fiammeggia della luce color rosa in oriente, si alza una nube del candore di puro argento, e leggera leggera vola innanzi, e pare si fermi a vagheggiare il sole nascente; e il sole l’investe e la compenetra tutta, l’incorona di raggianti baleni, cui ella spezza, rinfrange e spande intorno in liste di vaga luce riflessa, e fa risplendere sì bellamente di quella luce color di rosa le nugolette di che è cosparso il cielo; così con quel Corpo spirituale sopra degli Angeli si eleva a Dio Maria gloriosa. Dio l’ammanta di sua luce divina, la compenetra e l’incorona di splendore celeste; sicché risplende della bellezza di che è bello Iddio in cielo. Ella poi manda da quella gloria lo splendore di virtù che ci indirizza in paradiso. Per noi, solo al contemplarla in quel candore di luce divina, si purificano i nostri pensieri, coi pensieri si purifica il nostro cuore, e si riflette anche sui nostri corpi un riverbero di quel candore di purità, per cui Maria fissa in Dio, ci solleva e ci attira a Dio.

Pater noster. Oh grande Iddio e Padre nostro; Voi nella vostra grande misericordia ci avete data così cara Madre che vi siete assunta in cielo; quindi anche per questo noi vogliamo darvi gloria, eterna gloria dare vogliamo al vostro nome. Deh, voi regnate nella famiglia dei vostri figli, e lasciate che Maria ci metta come tanti bimbi suoi in seno al vostro amore a fare sempre la vostra volontà. (Si reciti la prima parte). Ah per Maria date in seno a noi il Figliuol vostro (qui sì fa la Comunione spirituale), e per Gesù dateci tutti i beni, specialmente la carità verso tutti come a figli del vostro amore: sosteneteci nelle tentazioni, liberateci dal male e chiamateci con Gesù e Maria in paradiso.

1. Ave Maria. Maria, Maria!… Adoriamola che spira… Ella è tutta in Dio… e l’anima santissima si smarrisce, s’inabissa, S’imparadisa in Dio… e con un palpito del cuore spirando trovasi in cielo. Deh Maria, di seno a Dio aiutateci a consumare la vita nostra in opere sante tutta per Dio, sicché spiriamo l’anima nella Comunione spirituale in seno a Gesù, per cui vogliamo vivere e dare la vita. Dio vi salvi, o Maria.

2. Come fiore di paradiso caduto in terra appassito cade il corpo di Maria, nel cui seno pigliò la carne il Figliuol di Dio. Ma la morte non ardisce di guastarlo; esso tosto risorge immacolato, e poi s’innalza in paradiso. O Maria, deh serbateci così puri anche del corpo, si che lo portiate con Voi in cielo quando risorgeremo a vita eterna. Dio vi salvi, o Maria.

3. Benedetta fra tutte le donne, dal Signore voi foste destinata a nascere nel seno di famiglia reale, ma decaduta in povertà; viveste povera dal mondo non curata, e foste ridotta a correre sotto il patibolo dove inchiodavano il vostro Figlio, là disprezzata come la madre del condannato. Foste adunque la più umile di tutti, ed ora risorgeste trasportata in cielo Regina dell’universo. Oh Maria, noi saremo con Voi, e vivremo disprezzati volontieri: non vogliamo che la gloria di Dio, e con Voi essere in gloria in paradiso. Dio vi salvi, o Maria.

4. Contempliamola appena spirata… Oh via, non cerchiamola fra i morti. Ella risorge più bella degli Angioli del paradiso, e il suo cuore palpita di vita tutta divina. Deh Madre, fate che i nostri cuori, affamati di ben di Dio, non palpitino che d’amore di Dio per vivere assorti in Dio in paradiso. Dio vi salvi, o Maria.

5. O Maria, o Madre, o Madre, Voi andate in cielo… Ah noi vi piangiamo appresso, lasciati qui esuli in questa valle di lagrime. Tirateci appresso di Voi e di Gesù in paradiso. Dio vi salvi, o Maria.

6. O Maria, nel contemplarvi assunta in cielo ci pare di sentirvi a dire intenerita cogli occhi in basso rivolti fino a noi: Orsù, su, figliuoli, conservatevi in purità, vivete disprezzati in umiltà, fate tutto per Dio, ed avviatevi su su appresso di me: dove va la Madre, debbono venire anche i figliuoli. O Maria, dateci la mano per seguirvi in questa via. Dio vi salvi, o Maria.

7. Deh, che non mi perda tra le vanità, né mandi a male il tempo della vita in queste cose di un mondo, che durano un momento. La vita non è che un’ora da prepararci, un momento da incamminarci verso il paradiso. Maria, non lasciateci perdere in questi inganni del tempo che passa via rapido come baleno. Dio vi salvi, o Maria.

8. Avete un bell’andare in cielo, o Maria; ma qui in terra voi tenete il vostro cuore. È qui il vostro e il nostro Gesù in Sacramento. O Maria, sarete ben contenta che ve lo trattiamo bene fra noi, che ve lo amiamo teneramente; ma dunque imprestateci il vostro cuore. Dio vi salvi, o Maria.

9. A noi, a noi da bravi figli, o Maria, qui nel mondo dove voi ci lasciaste, si aspetterà di fare ben tutto ciò che voi desiderate. Ameremo Gesù; porteremo appresso a Lui le croci nostre, daremo la mano ai nostri fratelli, e faremo di venire cogli altri figli con voi, o Madre carissima, in paradiso. Dio vi salvi, o Maria.

10. Dio vi salvi, o Regina del cielo e della terra, Madre speranza nostra. Consolate di un vostro pietoso sguardo questi poveri figli gementi in questa valle di guai, e tirateli di vostra mano ad essere beati eternamente in seno a Dio. Dio vi salvi, o Maria. Gloria Patri. Gloria a Voi, o Padre celeste, gloria a Voi, o Gesù Redentor nostro; Spirito Santo, gloria a Voi che ci amate d’amor divino in terra, finché verremo a darvi gloria perpetuamente intorno alla nostra Madre in paradiso. Gloria Patri.

Requiem æternam. Maria, Maria, nell’alzarvi che fate al cielo, piacciavi guardare alle poverine anime là in fondo tra quei tormenti del purgatorio; e tiratevele intorno a Voi in paradiso. Requiem æternam.

QUINTO MISTERO. — L’Incoronazione di Maria SS. e la gloria di tutti i Santi in paradiso.

Nel quinto mistero glorioso si contempla come la SS. Vergine fu in cielo coronata dalla SS. Trinità Regina degli Angeli, Avvocata dei poveri peccatori, Madre di tutti: e si contempla la gloria di tutti li Santi che ci aspettano in paradiso.

CONSIDERAZIONE.

Ancora, ancora qui noi raccolti con Gesù nel Santissimo Sacramento teniamo dietro coll’animo a Maria in mezzo alla sua gloria. Passiamo sopra le nubi, varchiamo le sfere, i secoli; e giacché tanto ci è dato, accompagniamola nella gloria del paradiso, spingendo lo sguardo della nostra mente tra le fulgori di quella luce divina. Nel vederla incoronare, Gabriele la saluta Corredentrice degli uomini, come Colei che portò al mondo il Salvatore, e Michele le si prostra innanzi, come alla grande Vergine, la quale schiacciò il capo al serpente ed abbatté lo spirito ribelle già da lui combattuto e scacciato dal paradiso. Raffaele la benedice come Colei che ha un rimedio a tutti i mali della povera umanità, cui accompagna pietosa fino al cielo, sol che Le porga la mano. Le sante Vergini, i Martiri generosi, gli umili penitenti e gli eroi della carità la salutano per loro Regina. Il Padre la accoglie in seno come la primogenita del suo amore, il divin Figlio l’ama e l’onora come la Madre sua, e lo Spirito Santo la beatifica coll’Amor sostanziale: Ella è da Dio incoronata Regina dell’universo in paradiso. O Paradiso, o paradiso, città eterna, dove la verità è la luce, la carità è la vita, l’eternità il termine della beatitudine!… Che fulgori d’intelligenze! Che ratti di delizie! che trascendimenti di interminabile gaudio!… Anche noi, associati all’immortale adunanza dei Beati, concittadini della celeste Gerusalemme, sull’ali dell’amore di Dio corriamo da questa bassa terra appresso a Maria; e a’ piedi di Lei, quasi sentendo la mano sua sul capo nostro, fissiamo lo sguardo in Gesù sostanziale Verbo, sole eterno di giustizia, splendore della eterna gloria. Dal nostro cuore passino gli affetti infuocati nel suo Cuore santissimo, siccome li raggi corrono al centro; e noi andiamo ribaciando le mani a Maria, e contempliamo i Beati, cui Dio alimenta di sua beatitudine eterna. Oh da questa altezza in abbassando lo sguardo alla terra, quale pensiero allora faremo delle frivole cose che sono le miserie di questo mondo d’un’ora!… E queste turbano tanto la pace a noi che siamo aspettati da qui a un istante in paradiso?… Oh è troppo miserabile chi si pascola in vanità, quando è creato per essere felice con Dio e con Maria in paradiso!

Pater noster. O Padre, noi siamo figli del vostro Figlio, abbiamo la Madre in cielo, sospiriamo sempre la vostra gloria: oh dunque a vostra gloria compite il numero degli eletti, coronateci tutti nel vostro regno; e così con tutti i vostri figli beati in paradiso sia adempiuto il volere vostro nell’eterno trionfo della vostra bontà. (Si reciti la seconda parte del Pater noster). Signor della misericordia, uniteci con Gesù qui in terra (si faccia la Comunione spirituale): per Gesù dateci il perdono delle nostre miserie e la carità verso tutti, sicché, vinte le tentazioni, liberati da tutti i pericoli e dal male, siamo in fine accolti con Voi, sommo Bene, in paradiso.

1. Ave Maria. Madre nostra, gloria a Dio! Voi siete Regina in paradiso col vostro Figlio; ma avete noi figli in terra; e noi vi siamo proprio figli di sangue, perché abbiamo dentro di noi il Sangue del divin Figlio che è Sangue vostro. Dal trono del vostro Figlio, Signore della eterna gloria, abbassate gli occhi sui vostri figli gementi in questa valle di lacrime. Dio vi salvi, o Maria.

2. Confortiamoci della più cara speranza pensando di aver noi una Madre che è regina in cielo. Che se una madre fosse così fortunata di avere il suo figlio primogenito per ventura diventato re sul più gran trono del mondo, e poi avesse altri suoi figliuolini dispersi per la terra in abietta miseria, chi, chi vorrebbe al figliuol suo re in tanta storia raccomandare? L’intendiamo, i suoi figli. Salve, o Regina, Madre della misericordia: Voi, voi, a Dio Figliuol vostro raccomandate noi poverini figli pure del vostro Sangue. Dio vi salvi, o Maria.

3. Madre divina! Ella contempla in paradiso nello splendore della divinità il Figlio suo in seno al Padre, e guarda in basso noi meschinelli di figli in tante miserie sulla terra, li lì per perderci ad ora ad ora; e, o Figliuol mio, gli dice: sono di sangue nostro quei poverini. — Gridiamo, gridiamo noi! Dio vi salvi, o Maria.

4. Maria contempla in cielo le piaghe gloriose del suo Figlio; e par che dica: Figliuol mio, queste piaghe vostre 😮 le ho sofferte nel mio cuore. — È in guardando le piaghe nostre, Ella mi è avviso che gli soggiunga; O Gesù mio, mi par di sentire nella mia persona le miserie di questi poveri figli! — Mira il Costato ancor aperto; e, mio Gesù, gli dirà ancora: questa ferita nel vostro petto l’ho sentita io sola nel mio cuore. — Deh, deh gridiamo noi, o Maria, salvate i figli di tanti vostri dolori! Dio vi salvi, o Maria.

5. Maria regina dei Beati contempla i Santi in paradiso; Madre felice, gode tante volte moltiplicati i gaudi del paradiso, quanti sono là tutti quei figli del suo sangue. Ma non sono li tutti, o Maria, in beatitudine i vostri figli: vi mancano i più meschinelli che siamo noi. Deh, pregate che si compia il numero degli eletti con noi, ed affrettate il tempo che veniamo a farvi corona in cielo! Dio vi salvi, o Maria.

6. O paradiso, o paradiso! e perché ci perdiamo in queste miserie del mondo, in questa vita di un momento, concittadini che siamo del cielo, figliuoli di Gesù e di Maria! O Maria, non lasciateci perdere miseramente qui. Dio vi salvi, o Maria.

7. Siamo è vero ancor fuori del paradiso; ma su su gridiamo da basso verso del cielo; battiamo alla porta: là è Maria. Gridiamo forte, gridiamo sempre: Gesù e Maria; ed essi ci apriranno la porta del paradiso sicuramente: siamo i loro figliuoli! Dio vi salvi, o Maria.

8. Maria da madre ci mostra la strada, e par che ci dica: figliuoli miei, fui povera anche io, fui disprezzata, ma fui tutta pura, e tutta col cuor in Dio: figliuoli, contemplatemi beata in gloria con tanti fratelli che furono come voi poverini. Fate coraggio, veniteci appresso: dove è la madre e gli altri figli devono venire i loro confratelli. Pigliate su le vostre croci, e col Salvator mio Gesù, giungerete tutti in paradiso! — Sì, Maria, si, vi raggiungeremo se voi ci date la mano. Dio vi salvi, o Maria.

9. O Gesù, o Maria, o Beati del paradiso, noi gridiamo piangendo: noi vogliamo venirvi; ma ahi che cadiamo tante volte! ah che non possiamo che piangere! Deh aiutate noi poverini in tanto affanno e così ancor lontani dalla patria nostra. O Maria, vi piglieremo per la mano, ve la baceremo mille volte, e non cesseremo mai di gridare: Dio vi salvi, o Maria.

10. Oh! ci par giunto l’istante in cui entreremo nel gaudio del Signore in paradiso. O come allora dalla beatitudine del paradiso vedremo il nulla delle cose importanti di quaggiù, delle fortune del mondo! Ben diremo allora: o beati patimenti, che ci hanno meritato con Gesù tanta gloria. Sia benedetta sempre la volontà di Dio, che mira a condurci ad esser beati in paradiso. Dio vi salvi, o Maria.

Gloria Patri. Gloria adunque, e sempre gloria al Padre, il quale ci creò pel paradiso: gloria al Figlio, il quale ce lo guadagnò: gloria allo Spirito Santo, il quale ci santifica pei meriti di Gesù, e ci porta in paradiso. Osanna, osanna, benedizione e gloria a Dio per tutta la eternità. (Si reciti il Gloria Patri). Requiem æternam. Deh per Gesù Salvatore, per Maria nostra madre, e per tutti li Beati compite, o Signore, il trionfo della vostra misericordia dando la pace dei giusti e. la requie eterna e la gloria del paradiso anche all’anime del purgatorio! (Si reciti il Requiem æternam).

CONCLUSIONE.

La Salve Regina — Le Litanie — L’Oremus.

Che ci rimane ora ancor di fare? Ci getteremo ai piè di Maria. Così in fine, per versare il cuore nostro tutto in seno alla divina nostra Madre, ringrazieremo ad un tempo la Chiesa che c’insegna una preghiera proprio fatta per dire tutto con Lei a Maria. Recitiamo adunque la Salve. (Si reciti la Salve Regina come un sospiro d’amore a Maria). Dio vi salvi, o Regina, Madre della misericordia, vita, dolcezza e speranza nostra, Dio vi salvi! A Voi gridiamo noi figliuoli di Eva qui nell’esilio: a Voi sospiriamo gementi e piangenti in questa valle di lacrime. Ah su via, o nostra Avvocata, volgeteci i pietosi vostri occhi; e dopo questo esilio mostrateci Gesù benedetto frutto del vostro seno, o clemente, o pia, o dolce Vergine Maria.

Degnatevi di aiutarci a darvi lode, o Vergine sacratissima, e dateci virtù contra i nemici vostri. Poi ricordatevi, o pietosissima Vergine Maria, che non si è inteso mai al mondo che alcuno abbia ricorso alla vostra protezione, implorato il vostro aiuto e chiesto il vostro santo patrocinio, il quale sia stato abbandonato. Animato io da una tal confidenza a Voi ricorro, o Madre delle madri, o Vergine delle vergini: a Voi vengo colle lacrime agli occhi, reo di mille peccati, e mi prostro ai vostri piedi a domandare pietà. Non vogliate, o Madre del Verbo, disprezzare le mie voci, ma benigna ascoltatemi ed esauditemi. Così sia. E qui cadendo col volto a terra adoriamo Iddio Signore, benedicendo al Salvatore, e chiedendogli pietà nel Kyrie eleison: Poi cominciamo le invocazioni e le lodi alla Vergine. Oh per poco che noi non vorremmo mai finire di venerare Maria SS. Invocandola coi più belli nomi che ci mette sui labbro l’amor di Dio e di Lei nelle Litanie. No, non vorremmo mai rifinire di esaltarla e di ribaciarle la mano ogni volta che diciamo: ora, ora pro nobis: pregate, pregate, o Maria, sempre per noi. Terminiamo coll’orazione della Chiesa. (Si recitino le Litanie della B. V. M., e l’Oremus). Viva Gesù! Viva Maria! Viva Giuseppe; che tutto ci può da loro ottenere.

LA GRAZIA E LA GLORIA (38)

LA GRAZIA E LA GLORIA (38)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. – IL MERITO COME PRIMO MEZZO DI CRESCITA

CAPITOLO VI.

Le cause da cui dipende per le nostre opere la misura del loro merito.

Il merito ha per oggetto la grazia e la gloria; per meglio dire, l’aumento di entrambe, poiché presuppone, in colui che lo acquisisce, lo stato di grazia con le sue appendici inseparabili, le virtù infuse. Non ci resta quindi che, dopo aver determinato i fattori, le condizioni e la portata del merito, indagare sulla sua misura. Fatto questo, possiamo poi apprezzare il grado di crescita che vi corrisponde nei figli adottivi di Dio. Per fare questo con maggiore chiarezza, stabiliamo quattro principi o regole, che derivano dalla dottrina dimostrata in precedenza.

1) Primo principio. – A parità di condizioni, più un atto è libero, più è meritorio (S. Thom, II, D. 29, q. 4, a. 4). La prova di ciò è evidente: poiché i nostri atti sono nostri per la libertà, daremo tanto più del nostro a Dio quanto più la volontà che li offre è libera da ogni impedimento.

Secondo principio. – A parità di altre condizioni, più un figlio di Dio è tale, più intima è la presenza dello Spirito Santo nel suo cuore; in altre parole, più perfetta è la grazia santificante, più grande è il merito delle opere e l’incremento che ne deriva. Questa regola, è vero, non è approvata da tutti i teologi che concordano con noi sulla sostanza della dottrina. Ma è sostenuta da una base così solida che mi rimprovererei di doverla passare sotto silenzio. Questo, credo, è il significato da attribuire a queste parole del Dottore angelico, San Tommaso d’Aquino: « Quanto maggiore è la grazia di cui un atto è informato, tanto più meritorio è quell’atto (« Quanto majori gratia actus informatur, tanto magis est meritorius. – S. Thom, II, D. 29, q: 1, a. 4). È noto, infatti, che per lui, come per tutta la Scolastica antica, la parola grazia esprime la grazia santificante, quella che perfeziona l’anima e la unisce a Dio. Suarez approva il principio e lo dimostra con Gregorio di Valencia ed altri teologi di grande autorità (Suar., de Gratia, L. XII, c. 22: Gregor. a Valent.. in 1. 2, q-6, p. 3). Ora, tra le ragioni che portano a sostegno del loro sentimento, ce ne sono due che sembrano assolutamente convincenti. In primo luogo, in base a che cosa giudichiamo che ogni singolo atto con cui il Salvatore Gesù ci ha redenti avesse di per sé un valore non solo pari al prezzo richiesto dalla giustizia divina, ma sovrabbondante, semplicemente infinito? Sul fatto che la dignità soprannaturale della persona sia come la forma suprema che determina il valore delle azioni soddisfattorie e meritorie. Se, nel caso delle offese, la grandezza dell’insulto aumenta con l’eccellenza della persona a cui è stato rivolto, quando si tratta di onore, la regola deve essere invertita, e deve essere valutato non in base alla condizione di chi lo riceve, ma in base a quella di chi lo dà. Che una creatura, vile e umile com’è l’uomo, osi scagliare il proprio disprezzo su Dio, suo Signore e Maestro, è un’offesa di tipo infinito, perché la distanza tra il ribelle e la maestà divina supera ogni misura finita. Ma se questo stesso uomo, con la sua dignità nativa, cerca di rimediare all’oltraggio nello stesso modo, non ci riuscirà mai. Infelici come siamo, potenti all’infinito per oltraggiare Dio, restiamo impotenti fino al nulla per riparare al nostro disprezzo e per restituirgli la gloria. Infatti tutto ciò che possiamo fare da soli non supererà mai i limiti della nostra bassezza. Per questo, solo un Dio fatto uomo poteva offrire a Dio, ferito nella sua gloria, l’onore e la rigorosa soddisfazione di cui aveva bisogno per restituire al genere umano prevaricatore le sue grazie e il suo antico amore. E questo basterebbe anche a spiegare i terribili colpi con cui la giustizia di Dio colpisce eternamente i peccatori ostinati, che non hanno voluto applicarsi né i meriti né le espiazioni del Redentore. – Ora, per tornare al nostro principio, ciò che conferisce una dignità veramente divina alla persona del giusto è la grazia, poiché essa lo rende figlio di Dio, un “dio per partecipazione”. Pertanto, quanto più avremo questa nobiltà soprannaturale, tanto più questa aureola divina risplenderà sulla nostra anima, tanto più parteciperemo alla divinità; tanto più il nostro omaggio glorificherà la suprema maestà e, di conseguenza, tanto più sarà meritorio ai suoi occhi. – La semplice considerazione del ruolo della grazia santificante nella questione del merito ci porterà direttamente alla stessa conclusione. Come abbiamo già visto, è in questa grazia che dobbiamo cercare la prima e fondamentale ragione del merito: essa è la sua causa primordiale. Ne deriva, come conseguenza molto naturale, che la grazia non può crescere in un’anima senza che il merito cresca in essa. Così, poiché uno dei principi che rendono meritevoli i nostri atti è il dominio in virtù del quale sono nostri, il loro valore è ineguale a seconda che li compiamo con libertà più o meno intera. Certo, c’è molto da consolare chi, con una lunga perseveranza al servizio di Dio Nostro Signore, ha sviluppato ampiamente in sé questo incomparabile tesoro di grazia. A volte non possono, senza un profondo senso di desolazione, pensare a quanto poco sembrano fare per glorificare il giusto Ricompensatore delle nostre opere. Questi atti di così scarso valore in sé hanno un peso immenso, se c’è l’abbondanza della grazia interiore a nobilitarli e a renderli forse incomparabilmente più vantaggiosi per chi li compie, di quanto non lo sarebbero per altri con opere apparentemente più belle e più gloriose. E questa consolazione crescerà nelle loro anime quando avranno compreso e meditato il principio assolutamente certo che stiamo per esporre.

2Terzo principio. – Quanto più un atto, al di là di ogni altra considerazione, appartiene propriamente alla carità, tanto più partecipa al suo influsso vivificante, tanto più si presta a meritare un aumento di grazia e di gloria. Questa regola deriva naturalmente dalle conclusioni tratte nel capitolo precedente. Se nessun’altra virtù può produrre atti meritori indipendentemente dalla carità, è perché il primato del merito è la sua sorte speciale e il suo privilegio incomunicabile. Perché dunque dovrebbe essere la prima delle virtù, la più nobile, la più eccellente, una regina tra il suo seguito, se ci fosse qualcuno che compie opere superiori alle sue nella stima di Dio? Essa può dire allora: « Io, che faccio partorire gli altri, non potrei partorire io? Io, che do agli altri la loro posterità, resterò sterile » (Is., LXVI, 9. Questa è una sicura applicazione dell’antico adagio: Propter quod unumquodque tale, et illud magis). Perciò, tra tutte le opere, la più meritoria di per sé è quella della carità; tanto più meritoria perché è un’operazione più intensa e più elevata. Pertanto, man mano che la carità entri più profondamente negli atti delle altre virtù, e le assimili maggiormente, esse toccheranno più fortemente il cuore di Dio (« Premium respondens merito ratione charitatis, quantumcunque sit parvum, est majus quolibet præmio respondente actui ratione sui generis ». S. Thom, IV, D. 49. q. 5, a. 5, a.d. 5). Per una madre nulla è più gradito, dopo l’amore dei figli, degli atti in cui la virtù di questo amore filiale si manifesti più chiaramente. Un esempio preso in prestito dalla teologia morale farà ancora più luce sul nostro pensiero. Appropriarsi dei beni altrui è un’offesa a Dio, tanto più grave quanto più alto è il valore degli oggetti ingiustamente sottratti. Se un uomo, spinto da una diabolica malizia, commette un furto non solo per amore dell’oro, ma per odio e disprezzo formale di Dio, non è forse vero che il suo demerito e la sua colpa saranno ben diversi da quelli del semplice furto? Perché? Perché se l’uno e l’altro furto sono contrari all’amore di Dio, questo amore è incomparabilmente più oltraggiato nel secondo che nel primo: perché in un caso l’opposizione è direttamente voluta, mentre nell’altro caso non lo è che per contraccolpo. (Ogni peccato mortale è contro la carità, e proprio per questo è mortale. Infatti appartiene alla carità porre l’ultimo fine dell’umanità praticamente in Dio. Ora, peccare mortalmente significa essere talmente attaccati al bene creato da sceglierlo come ultimo fine, a scapito della bontà sovrana. Ogni uomo che pecca mortalmente preferisce, in virtù del suo atto, il bene che brama per se stesso, al bene per eccellenza, Dio suo ultimo fine, e di conseguenza all’amicizia divina. Cfr. S. Thom, de Malo, q. 7, a. 1). Da questo principio derivano diverse conclusioni di grande importanza per la nostra vita spirituale. Non indagherò, come si fa in un trattato di teologia morale, su quando siamo assolutamente tenuti a compiere atti di carità; in altre parole, a riferire formalmente noi stessi, tutto il nostro essere e tutte le nostre azioni alla gloria di Dio: una questione molto oscura, su cui si può dissertare a lungo senza arrivare, in mancanza di autorità sufficienti, ad una piena certezza. Ma ciò che è importante considerare qui è che quanto più frequentemente si ripetono gli atti di amore di Dio e quanto più fervidamente un’anima vi si dedica, quanto più si applica a diffondere il motivo della carità divina su tutte le sue opere, cioè a farle per piacere a Dio, per puro amore della suprema bontà, tanto più rapida è la sua crescita spirituale e il suo progresso nella santità. – Se la dilezione è ardente, potente ed eccellente in un cuore, essa arricchirà e perfezionerà anche tutti gli atti di virtù che ne derivano. Si può soffrire la morte e il fuoco per amore di Dio senza avere la carità, come presuppone San Paolo e come dichiaro altrove; a maggior ragione si può soffrire con un po’ di carità. Ora io dico, Teotimo, che può darsi che una piccolissima virtù sia più preziosa in un’anima dove regni ardentemente l’amore sacro, che non il martirio in un’anima dove l’amore sacro è debole e lento. Così le virtù minori della Madonna, di San Giovanni e degli altri grandi Santi, avevano un valore maggiore davanti a Dio, rispetto a quelle più elevate di molti santi inferiori; così come molti dei piccoli slanci amorevoli dei Serafini sono più infiammati che quelli dei più elevati tra gli Angeli dell’ultimo ordine; così come il canto degli usignoli principianti è incomparabilmente più armonioso di quello dei cardellini meglio impostati. – Così, Teotimo, le piccole semplicità, le abiezioni e le umiliazioni in cui i grandi Santi si sono tanto compiaciuti per fortificare e per proteggere i loro cuori dal pericolo della vana gloria, essendo state fatte con una grande eccellenza di parte e con l’ardore dell’amore celeste, sono state trovate più gradevoli davanti a Dio che le grandi o illustri opere di molti altri che sono state fatte con poca carità e devozione » (S. Fr. de Sales, Trattato dell’amor di Dio, L. XI, c. 5). Chi non ha riconosciuto l’enfasi di San Francesco di Sales e non ha visto quanto questa dottrina sia consolante e vera? – Certamente, non si può negare, la nostra vita sarà tanto più perfetta, e di conseguenza tanto più meritoria, quanto più sarà formata sul modello della vita beata, dalla quale speriamo di morire un giorno con Dio. Ora, in questa vita benedetta, ameremo soprattutto tutto ciò che amiamo in Dio per se stesso; lo ameremo al di fuori di Lui e faremo tutto per Lui. Le altre virtù, se escludo quelle che, come la speranza e la fede, presuppongono essenzialmente uno stato di imperfezione, non saranno assenti dal cielo: poiché sono nel dolore, è giusto che un giorno siano nell’onore: ne avremo atti compatibili con la gloria e la gioia di cui sarà piena la nostra anima; ma, in tutto e sempre, con l’intenzione di piacere a Dio, per il suo beneplacito e perché li approva. Non tutto sarà un atto esplicito di carità; ma poiché tutto sarà fatto sotto il moto più amorevole e universale della carità, sarà veramente la vita dell’amore puro. Lavoriamo, dunque, camminiamo, mortifichiamo il nostro corpo o diamogli un adeguato riposo; siamo giusti, casti e obbedienti, con l’intenzione sempre più presente e viva di piacere al cuore di Dio; nulla può contribuire più efficacemente alla crescita del figlio di Dio in noi, perché nulla aggiunge di più alla dignità dei nostri meriti. – Da ciò si evince cosa dobbiamo pensare della pratica così urgentemente raccomandata da tutti i maestri di vita spirituale: offrire le nostre azioni a Dio e protestare che vogliamo portarle interamente alla sua gloria. Non si tratta di un precetto, ma di un consiglio; né di una condizione necessaria per il merito, ma di un mezzo sovranamente utile per aumentarlo senza misura. –  San Francesco di Sales, che mi piace tanto citare in questa materia, e del quale forse nessun autore ha parlato in modo così dotto e chiaro, non si stanca di lodare questa pratica e di insegnarne il metodo: « Per progredire in modo eccellente nella devozione, dobbiamo, non solo all’inizio della nostra conversione, e poi ogni anno (con i pii esercizi) dedicare a Dio la nostra vita e tutte le nostre azioni; ma dobbiamo anche offrirgliele ogni giorno, secondo l’esercizio mattutino che abbiamo insegnato a Filotea: Infatti, in questo rinnovamento quotidiano della nostra oblazione, riversiamo sulle nostre azioni il vigore e la virtù della dilezione attraverso una nuova applicazione del nostro cuore alla gloria divina, per mezzo della quale viene sempre più santificato. – « Inoltre, applichiamo la nostra vita cento e cento volte al giorno all’amore divino con la pratica delle preghiere giaculatorie, delle elevazioni del cuore e dei ritiri spirituali: perché questi santi esercizi lanciano e fissano continuamente la nostra mente su Dio, e quindi portano a Lui tutte le nostre azioni. E come potrebbe essere, vi prego, che un’anima, che aspiri sempre alla bontà divina e sospiri incessantemente parole di devozione per mantenere il suo cuore sempre nel seno di questo Padre celeste, non sia stimata che compia tutte le sue buone azioni in Dio e per Dio? – Colei che dice: “Ehi Signore, sono tuo”. La mia amata è tutta mia e io sono tutto suo (Cant., IV, 16). Mio Dio, tu sei il mio tutto. O Gesù, tu sei la mia vita… Non dedica forse, dico, continuamente le sue azioni allo Sposo celeste? » (S. Franç. de Sales, Trattato dell’amor di Dio, L. XI, c, 9, 2). Si realizza così alla lettera, e nel modo più eccellente, ciò che San Paolo raccomandava ai Corinzi: « Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto a gloria di Dio » (1 Cor. X, 31). Ecco, quindi come l’influenza della carità contribuisca non solo all’esistenza, ma anche alla perfezione dei meriti. – Dal libro dei Cantici, vi mostrerò che questa carità divina ha davvero la virtù di trasformare tutto in oro. Leggete e vedrete come tutto ciò che è presente nella sposa inebri e delizi il cuore dello Sposo celeste. Lei parla: « Le tue labbra – le dice – sono come una fascia di scarlatto e la tua conversazione è più dolce del latte e del miele ». Lei cammina: « O figlia del principe – dice lui – come sono belle le tracce dei tuoi piedi ». Lei dorme, e il suo sonno è così incantevole per lui che proibisce alle figlie di Gerusalemme di disturbarlo: « Vi prego, per i caprioli e i cervi della montagna, lasciate che la mia amata dorma, finché non si sveglierà da sola ». Tutto in lei ha un fascino per lui, una grazia ineguagliabile, uno sguardo, un gesto, un niente. Da qui le esclamazioni dell’amata: « Hai ferito il mio cuore, sorella mia, sposa mia, hai ferito il mio cuore con uno dei tuoi occhi, con un pelo del tuo collo » (Cant. IV, 3, 11; VI, 1; III; V 5, IV, 9). È perché essa è l’amante, perché è tutta intera nel diletto: « Ego dilecto meo »; è perché la grazia del suo fervore e la purezza del suo amore comunicano alle sue minime opere un valore incomparabile. Con quanto ardore lo Sposo che lei ama in modo unico la chiama a godere della sua presenza e dei suoi beni. « Alzati, mia colomba, mia bella, e vieni. Vieni dal Libano, mia sposa, vieni dal Libano; vieni e sarai incoronata » (Ibid. V, 8). Notiamo un altro influsso della carità che porta ad un aumento dei meriti. Come già sappiamo, le nostre azioni sono tanto più meritorie quanto più spontanee, volontarie e libere provengano dall’anima. Ora, cosa fa la carità quando regna e governa come sovrana in un’anima? Che quest’anima, essendo condotta dall’amore alle cose di Dio, agisce con meno ripugnanza, con un cuore migliore; in una parola, più spontaneamente e più liberamente. – La vita dei santi ce lo dimostra chiaramente. Dal modo in cui accettano, o meglio, cercano, i sacrifici più ripugnanti per la natura, sembrerebbe che questi non siano né difficili né amari per loro. Laddove chi ha come movente la paura piuttosto che la carità, esita, indietreggia o avanza solo con rammarico, spinto dal terrore dei giudizi di Dio, essi si precipitano in avanti, trascinati dal peso dell’amore. Hanno mille cuori e mille vite che darebbero per il loro Signore e Maestro. Per questi uomini non c’è bisogno di una legge. La loro legge è il loro amore. Infatti, « l’amore è una grande cosa. Solo esso fa luce su tutto ciò che è pesante. Appesantisce un peso senza esserne gravato; rende piacevole e dolce ciò che è più amaro. Chi ama, corre, vola; è felice, è libero, nulla lo ostacola » (Imit. J. C. G. L. III c. 5). – Per questo l’Angelo della Scuola, dopo aver dimostrato la necessità della carità per rendere meritorie le nostre opere indirizzandole verso Dio, nostro sommo Bene, aggiunge subito: « È evidente che facciamo una cosa più volentieri quando è l’amore a condurci ad essa. Pertanto, poiché il merito richiede la volontarietà, esso deve essere attribuito principalmente alla carità » (S. Thom, 1. 2, q. 114, a. 4, in corp.). – Posso ben prevedere l’obiezione che può essere fatta: come può la carità, più attiva e più intensa, essere causa di un aumento del merito nelle nostre opere, se lungi dall’aumentare le difficoltà, le diminuisce? Infatti, insegnarci, come fa l’Apostolo, che ciascuno riceverà la sua ricompensa in proporzione al suo lavoro (II Cor., III, 8), significa dirci equivalentemente che la grandezza del merito è proporzionale allo sforzo, alla fatica, alla violenza che ci imponiamo, in una parola, alla difficoltà del lavoro. Basta una semplice osservazione per ribaltare l’obiezione. Un’opera può essere laboriosa in molti diversi modi. È faticosa per sua natura, come il martirio o come l’olocausto offerto a Dio nella professione religiosa. Da questo punto di vista, la difficoltà del lavoro contribuisce ad aumentare il merito. Non è in questo modo che la carità diminuisce il lavoro, che ci fa intraprendere cose così grandi per l’onore di Dio. Un’opera è faticosa per la mollezza della volontà di chi la deve compiere: il minimo sacrificio sembra troppo duro per un Cristiano così imperfetto; ed è solo questa difficoltà che diminuisce il merito, e che l’amore fa svanire con la paura. Si rallegrino dunque coloro ai quali la lunga abitudine a portare la croce del Signore Gesù ha reso quasi amabili le loro fatiche, le loro penitenze e le loro rinunce. L’olio che li addolcisce è quello dell’amore; e proprio questa dolcezza è il segno e la causa di un merito più abbondante, di una penitenza più fruttuosa (S. Thom., 1. 2. D. 114, a. 4, ad 2; de Verit., q. 26, a. 6, ad 12).

3. – Quarto e ultimo principio. – Più la virtù che l’amore informa è di ordine superiore, più il suo atto è meritorio. Suppongo che il merito, pur appartenendo principalmente alla Carità, non sia una sua prerogativa esclusiva. Mille luoghi della Scrittura e dei Concili confuterebbero chiunque pretendesse di affermare questo: ora queste virtù, le cui opere la carità fa proprie, non sono dello stesso rango. Seguono le orme della carità, ma a distanze diseguali. Tutti i seguaci di una regina non sono ugualmente vicini al suo trono, né partecipano ai suoi privilegi nella stessa misura. È il caso delle virtù in questo impero spirituale dove la carità, sostenuta dalla grazia, è la regina. Alcune, come la speranza e la fede, sono quasi del suo sangue, poiché hanno Dio come oggetto immediato; altre, senza andare direttamente a Dio, sono tuttavia legate in modo più prossimo alle sue perfezioni: come, ad esempio, la religione, la pietà e la penitenza. Chi oserebbe sostenere, con quegli antichi eretici, che non ci sia differenza tra la castità coniugale e la verginità, tra il buon uso delle ricchezze e l’abnegazione volontaria, tra qualche giorno di digiuno e il martirio? E questa disuguaglianza che trovo tra le virtù, la ritrovo anche tra i loro atti. Che io faccia una piccola elemosina o che mi spogli delle mie ricchezze a favore del mio prossimo, è la stessa virtù a fare entrambe le cose; ma sarebbe una cecità affermare che questi due atti abbiano di per sé lo stesso valore. – È vero che tutti gli atti virtuosi debbano essere vivificati dalla carità per essere meritori, ma questo da solo non basta a metterli sullo stesso piano. Gli organismi viventi non sono tutti paragonabili per vigore e finezza di forma, anche se l’anima che li anima è ugualmente perfetta in tutti. E, per prendere a prestito da San Francesco di Sales uno dei suoi paragoni più graziosi, il sole, pur dando a tutti i fiori la colorazione brillante di cui erano privi nell’oscurità, non ne eguaglia tuttavia i colori o la bellezza. Illuminati diversi tipi di fiori nella stessa luce, la rosa e il giglio manterranno i loro privilegi. Così come la carità per quei fiori profumati dell’anima che sono le virtù. Lungi dal privarli del posto d’onore che spetta loro in virtù della loro natura, essa li perfeziona ciascuno secondo la sua misura e il suo grado; così che, sotto la stessa luce, il merito non è lo stesso, mentre l’eccellenza nativa è diversa. Ciò non impedisce, tuttavia, come abbiamo già spiegato, che un atto particolare della virtù più umile possa prevalere su un’opera di una virtù superiore, quando sia una più grande carità a darle vita. Così, questo piccolo fiore ci affascinerà di più con il suo alone di luce rispetto ad un altro, sarà più elegante nella forma e più ricco di colori, appena illuminato da un debole chiarore. (Ecco come il Dottore Angelico riassume in un unico testo tutta la questione della misura del merito: « Quanto majori charitate et gratia actus informatur, tanto magis est meritorius; similiter, quanto magis est voluntarius, plus habet de ratione meriti; similiter etiam, quanto magis objectum est arduum, tanto magis actus est meritorius. » II, D. 29, q. 1, a. 4).

4. – Non concluderò queste spiegazioni senza aggiungere qualche parola sulla gloria di questo Stato religioso oggi così perseguitato nel mondo. Il Dottore Serafico, San Bonaventura, d’accordo in tutto e per tutto con il suo amico Angelico, sembra aver pensato che la sola presenza della carità non sia sufficiente a trasformare in merito le azioni più ordinarie della vita. Per lui, come per la Scuola Francescana in generale, ci sono atti deliberati che sono indifferenti, non solo per la loro natura specifica, su cui tutti concordano, ma nella loro realtà individuale. Si tratta, per esempio, delle azioni del mangiare, del bere, del camminare per svago; tutte quelle, in una parola, che l’infermità della natura ci richiede. Tali azioni, non avendo alcun carattere di moralità per un uomo ragionevole, non potrebbero diventare meritorie che per il fatto stesso che l’agente porta in sé la grazia e vive nell’amicizia di Dio (S. Bonav., in II, D. 41, a. 1, q. 3). Ma accanto a questa dottrina, che è in contrasto con il sentimento più comune delle altre scuole, ne insegna un’altra che eleva infinitamente il privilegio della vita religiosa. Traduco il brano parola per parola, per non indebolirne il significato e la forza. – Il Santo parla del rapporto che le nostre opere devono avere con l’onore di Dio per essere meritevoli. « Questa relazione – egli dice – si trova nei religiosi per il fatto stesso che, all’inizio della loro vita religiosa, hanno fatto professione di portare il giogo del Signore per amore di Dio. Infatti, tutte le loro opere senza eccezione, intendo quelle che appartengono all’osservanza religiosa, sono, in virtù della loro prima intenzione, meritorie di salvezza, a meno che, Dio non voglia, non si verifichi un’intenzione contraria » (Id. Ibid.). Vogliamo sapere fino a che punto può estendersi il dominio dell’osservanza religiosa? Impariamo questo da San Tommaso d’Aquino, dato che San Bonaventura non l’ha detto esplicitamente. Contro la tesi secondo cui l’intera perfezione della vita religiosa consista nell’osservazione dei tre voti, sorge una difficoltà. È che, tra la povertà, l’obbedienza e la castità che rientrano nel voto, ci sono per i religiosi molti altri esercizi: il lavoro, la preghiera, le veglie ed il resto. – Al che il santo Dottore risponde: « Tutte le osservanze della vita religiosa sono ordinate a questi tre voti principali. Infatti, se ci sono azioni che si riferiscono al sostentamento della vita corporea, come lavorare o chiedere l’elemosina, esse sono collegate alla povertà, poiché è per conservarla che i religiosi si procurano le necessità della vita. Se altre pratiche, come il digiuno, la veglia e simili, servono a macerare il corpo, chi non vede che abbiano come fine diretto l’osservanza del voto di castità? Infine, se ci sono pratiche istituite per ordinare gli atti dei religiosi al fine della religione, cioè all’amore di Dio e del prossimo, come la lettura, lo studio, la preghiera, la visita agli ammalati e cento altre cose dello stesso genere, tutto questo è compreso nel voto di obbedienza, la cui funzione propria è quella di dirigere, sotto la direzione di un altro, sia la volontà che l’azione dei religiosi verso il fine comune. » (S: Thom, 2. 2, q. 186, a. T7, ad 2). È dunque a tutto questo che si estende per il religioso l’influsso della carità primordiale che gli ha dettato i suoi voti, sia per rendere meritoria ciascuna di queste azioni, secondo il sentimento di San Bonaventura, sia per dare loro un merito più abbondante, secondo la dottrina di San Tommaso d’Aquino. Vogliamo anche sottolineare che gli stessi atti, oltre al valore meritorio che deriva loro dalla virtù particolare a cui appartengono, ricevono universalmente un altro valore ancora più eccellente dalla virtù della religione, che li ha fatti propri attraverso i voti? Infine, devo dire che c’è un altro punto di vista sotto cui la professione religiosa porta a coloro che l’hanno giurata un ammirevole aumento di merito? Ricordiamo che un atto è tanto più nostro, e quindi più degno di premio o di punizione, quanto più proviene da una volontà più ancorata al male o più fissata nel bene. – Ecco perché i peccati più grandi, quelli che più di ogni altra cosa distolgono la fonte delle grazie, sono i peccati di pura malizia. Chiamo con questo nome i peccati in cui la passione, l’ignoranza, la debolezza, l’allenamento e la sorpresa hanno una parte minore; quelli che vengono commessi freddamente, deliberatamente, con pieno possesso di sé e con una chiara visione dell’ingiuria fatta a Dio. Tale fu il peccato degli angeli ribelli; e tale è anche la ragione per cui, per una sola ribellione, essi meritarono un castigo più terribile degli uomini sfortunati che scendono all’inferno dopo una lunga serie di peccati inescusabili. Ora, cosa fa la professione religiosa, o meglio, cosa diventa la volontà sotto l’influenza e la virtù dei voti religiosi? È liberamente fissata nella necessità morale di fare bene, di agire secondo le regole della perfezione: così fissata che toglie a se stessa il potere di omettere senza prevaricazione ciò che altri possono, liberamente e senza dispiacere, rifiutare al loro Dio. – Dopo questo, che si dica che la professione religiosa conti poco per la perfezione; che si aggiunga addirittura che dove non c’è voto, l’omaggio offerto alla maestà divina è più spontaneo, più volontario, e di conseguenza altrettanto meritorio, se non di più; ascolterò i nostri due grandi Dottori da cui ho tratto la mia dottrina, e considererò falso e pernicioso ogni sentimento contrario (S. Thom, Opusc. de perfectione vitæ spirit…), Questo opuscolo è scritto contro vari errori, uno dei quali è formulato in questo modo: « È più meritorio compiere le opere di virtù di propria volontà, senza la necessità imposta dall’obbedienza o dal voto, che compierle sotto la pressione dell’una o dell’altra. » Allora San Tommaso emette questo giudizio: « È evidente che questa tesi è contraria a ciò che la Chiesa universalmente pratica e insegna! Perciò deve essere rimproverata come eresia » (Ibidem). Riassumiamo con una bella esortazione dell’Apostolo tutto ciò che abbiamo scritto sulla crescita spirituale per mezzo del merito. « Cresciamo in ogni cosa in Colui che è il nostro capo e la nostra testa, Cristo, operando la verità nell’amore. – Veritatem autem facientes in caritate, crescamus in illo per omnia, qui est Caput Christus » (Ef. IV, 15). – San Paolo ha mostrato come il fine di tutte le grazie, i privilegi e i ministeri comunicati con tanta liberalità alla Chiesa di Dio sia la consumazione dei Santi e l’edificazione del Corpo mistico. Membri di Cristo in formazione, cosa dobbiamo fare? Questo è l’incoraggiamento alla crescita spirituale ed è anche la sua legge fondamentale: non crescerà in Cristo chi non è ancora parte di Cristo. Pertanto, se vogliamo meritare questa crescita dell’uomo interiore, del membro di Gesù Cristo, viviamo prima in Gesù Cristo, cioè conserviamo in noi quella grazia santificante e unificante che ci rende membra vive di Cristo. Crescamus in illo….. qui est caput Christus. – Ma con quali movimenti avverrà la nostra crescita; facciamo, pratichiamo la verità. Sta a noi praticare e fare; questi movimenti devono quindi essere nostri, liberi. Pertanto, poiché solo la libertà può portarli sotto il nostro dominio, Facientes veritatem; facciamo la verità, cioè opere rivestite di bontà morale. Nelle nostre Sacre Lettere, il peccato è la menzogna. Ogni uomo è bugiardo, cioè, in misura maggiore o minore, è soggetto a peccare, soggetto al peccato (Sal. CXV, 11).  « Figli di uomini. Perché seguite le vanità e abbracciate la menzogna? » (Salmo, IV, 3. Vedi il Commento di Sant’Agostino, L. I, c, 4, p. 48). Quindi, per necessaria opposizione, praticare la verità significa compiere azioni buone e virtuose, in conformità alla regola della ragione e a quella della fede. Veritatem facientes. Fare la verità nella carità; Veritatem facientes in charitate. Non vedete un’altra condizione necessaria perché le nostre opere siano meritorie? Infatti, agire nella Carità non è forse agire sotto la sua influenza, la sua direzione, il suo impulso benefico? Così, facendo liberamente la verità nella carità, cresciamo in Cristo. E quale sarà la portata di questa crescita? Crescamus per omnia. Cresciamo in tutte le cose e attraverso tutte le cose: nessuna eccezione. In tutte le opere, se operiamo la verità nell’amore. Un piccolo aumento nel piccolo, un grande aumento nel grande, ma sempre un aumento, per omnia. – Infine, non ci sono limiti fissi ai quali dovremmo dire: “Basta così, mi fermo”. Crescamus in illo. Quando il membro di Cristo sarebbe così perfetto da eguagliare la perfezione della testa, o che il corpo non potrebbe ammettere, senza disgrazia, questo sviluppo in una delle sue parti? Il limite finale sarà fissato solo dalla nostra negligenza o dalla morte, che sola ci immobilizzerà per l’eternità nel Corpo glorioso del Cristo.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (2)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (2)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO I

LA VITA IN DIO

1. Dio e la sua creatura

Debbo definire il pensiero cattolico; da dove incominciare? o quale dei suoi numerosi aspetti dovrò tentar di analizzare? In ogni caso, dovunque conducano in definitiva le mie riflessioni, posso incominciare dal fatto di Dio. So che Dio esiste, Dio uno e vero, oggettivamente reale, che contiene in se stesso tutto quanto intendiamo con la parola “personalità” e più ancora. So ch’Egli è al difuori della creazione e da essa indipendente, mentre la creazione, con tutto quanto contiene, da Lui dipende e deve dipendere: so ch’Egli è vicino ad essa e a ciascuna delle sue creature, vicino a me quanto lo sono io stesso. So che nulla gli è impossibile perché è l’Onnipotente, è quello che i teologi dicono immenso, intimamente essenziale a tutte le cose, di modo che nulla gli è ignoto, neppure i più segreti pensieri dell’uomo, non il passato né il futuro, non le cause né gli effetti. So che il mio Dio è infinito in sapienza e non può che far sempre il meglio secondo i suoi disegni, che è perfetto nella giustizia pur essendo la sua misericordia superiore ad ogni sua perfezione; so che la sua provvidenza regge e cura ciascuna cosa da Lui fatta, e soprattutto gli uomini affinché in Lui siano salvi. So che il mio Dio è non solo reale, più reale di quanto lo siamo noi, non solo giusto e misericordioso e infinitamente veritiero, fedele e immutabile. Egli è anche un Dio d’amore. Infinitamente amoroso e infinitamente degno di amore: è l’amore stesso dal quale deriva ogni amore e al quale ogni amore ritorna. Se sono coerente, non posso pensare a Dio senza che il mio pensiero si risolva in amore; non posso giudicare i suoi atti se non li considero con gli occhi dell’amore; se qualche cosa di Lui voglio scoprire, l’amore; soltanto potrà rivelarmelo. So che in questo Dio sono tre Persone che noi mortali chiamiamo Padre, Figlio e Spirito Santo precisamente perché son questi i nomi che per amore ci furon rivelati insieme alle reciproche relazioni delle tre Persone divine; e quando arriviamo a una qualche comprensione della essenza della SS. Trinità, vediamo ch’Essa altro non è che la perfetta espressione di un amore infinitamente perfetto. Il Padre e il Figlio, il Padre che dà al Figlio tutto ciò che ha e che è: se stesso; il Figlio e il Padre, il Figlio che restituisce al Padre tutto ciò che è e che ha; lo Spirito Santo, — come debolmente lo esprimiamo! — l’amore reciproco del Padre e del Figlio, infinito, e perciò unico. È questo il nostro Dio, veduto da questa oscurità ed in maniera oscura, ma che speriamo di contemplare un giorno a faccia a faccia. – E se l’amore è l’unica chiave alla conoscenza di Dio in se stesso, non ne esiste altra neppure per la comprensione dei suoi rapporti con le creature. Questo mio Dio mi conosce assai meglio di quanto mi conosca io stesso, assai meglio di quanto possan conoscermi gli altri, e ciò nonostante mi ama. Conosce il mio nulla, la mia miseria, le mie colpe, eppure, e forse per ciò stesso, Egli non ha per me che compassione ed amore. Fin da tutta l’eternità — mi esprimo come umanamente posso — io ero nella sua mente ed Egli mi amava; e nel tempo, proprio perché mi amava, mi volle e mi diede la vita. Quell’amore medesimo lo spinse non solo a far di me un essere umano, ma anche a farsi uomo Egli stesso come me e per me: dopo avermi dato me stesso, l’amore lo portò a darmi anche se stesso. Divenne uomo per me, ma ciò non gli parve abbastanza. Doveva continuare a dare, doveva darmi tutto ciò che aveva, la sua stessa vita: e come visse per amore di me, per amore di me morì. E per amor di me risuscitò; ma, risorto, essendo “passato da questa vita al Padre” ancora mi amò. Per amor mio ascese al cielo, per prepararmi un posto, come aveva detto, affinché dov’Egli era fossi io pure, quando il tempo non sarà più, per tutta l’eternità. Ma neppur questo bastava al suo amore infinito. Quando passò da questa terra non volle lasciarci orfani, volle ancora venire a noi. Era necessario che andasse, ma volle ritornare in questa valle di lagrime e dimorarvi finché vi resteremo noi. In quanto al mezzo di questa permanenza quaggiù, il suo amore l’avrebbe escogitato, e lo trovò in un po’ di pane e in un po’ di vino. L’amore lo indusse a darsi nuovamente tutto; a me si diede tutto intero nel Sacramento dell’Altare e non solo come compagno, ma come cibo. Se avesse voluto semplicemente dimorare con me sulla terra, avrebbe potuto farlo in altro modo, rimanendo accanto a me come uomo, trasfigurato magari, e in tutta la sua gloria attuale. E io l’avrei riconosciuto e adorato, amorosamente, come il povero cieco nato ch’Egli guarì a Gerusalemme. Invece Egli volle far di più: l’amore richiedeva qualche altra cosa e questa non gli fu negata. Per amor mio volle unirsi a me, venire a me, in me, nascosto in quel sacramento divino, e nutrir la mia vita della Sua. “Colui che mangia di me vivrà per me. Colui che mangia di questo pane vivrà in eterno ”. Né questo è tutto, ché l’amore non è mai pago quaggiù, e sempre vuol darsi e sempre brama un contraccambio. Perciò Egli volle unirsi ancor maggiormente a me: come aveva trovato il mezzo di venire in me, volle che ancor io fossi attratto a Lui. E per questo volle vivere sulla terra in un altro modo ancora: il suo spirito, la sua vita dovevano dimorare fra gli uomini come la linfa della vite circola nei suoi tralci, come il calore del fuoco rimane nel ferro arroventato, come l’anima vive nel corpo dell’uomo. Volle dimorare in un nuovo corpo, Corpo mistico è vero, ma non per questo meno reale, che avrebbe chiamato la sua Chiesa. E mi volle membro di quel corpo, parte di se stesso, inserito in Lui come il tralcio è inserito all’ albero, e volle che da Lui attingessi vita. Volle che io vivessi, no non più io, volle Egli stesso vivere in me per mezzo di questo organismo vivente suo che è la Chiesa. Così, dal principio alla fine, la storia dei rapporti fra questo Dio d’amore e me è perfettamente coerente, tutta degna di un Dio. Ammesso l’amore, amore ineffabile e sconfinato di un Dio che tutto dà e tutto chiede e tutto può, io vedo susseguirsi i suoi doni che lo abbassano fino a me e mi attirano a Lui, finché tutto il resto svanisce e io sono accolto, sol che lo voglia, nel suo tenero amplesso. –

Dio mi ha amato prima ch’io fossi, perciò Egli mi fece.

Dio mi ha amato dopo che m’ebbe creato, perciò si fece uomo per me.

Dio mi ha amato dopo essersi fatto uomo per me, perciò Egli morì per me.

Dio mi ha amato dopo esser morto per me, perciò risuscitò per me.

Dio mi ha amato dopo che risuscitò per me, perciò ascese al Cielo per me.

Dio mi ha amato dopo la sua, ascensione, perciò Egli ritornò a me.

Dio mi ha amato dopo che ritornò a me, perciò Egli venne in me.

Dio mi ha amato dopo che venne in me, perciò mi fece una cosa sola con Sé, membro del suo stesso corpo “che è la Chiesa”.

Quel che Dio sarà per me quando lo incontrerò a faccia a faccia “occhio non vide, orecchio non udì, né fu dato al cuor dell’uomo di Intendere”, ma intanto tutto questo e più ancora è per me il mio Dio anche quaggiù e in questa vita. O per lo meno, questo e più Egli sarebbe per me se io lo lasciassi fare. Poiché, ecco un’altra manifestazione del suo amore: Egli mi lascia libero di accettare o di rifiutare il suo dono. L’amore perfetto, come sappiamo, ha tre prerogative: desidera di possedere, anela di darsi e brama un contraccambio d’amore da parte del suo diletto. Ma perché questo avvenga, perché l’amore sia perfetto, deve essere spontaneo, e l’amato deve esser libero. Dio ama tutte le creature che fece, e in cambio esse dicono incessantemente la sua gloria. “Cœli enarrant gloriam Dei, et opera manuum suarum annuntiant firmamentum”. Ma non potrebbe essere altrimenti: l’amore di queste creature non è proprietà loro, allo stesso modo che l’immagine non appartiene allo specchio che la riflette. Questi esseri del creato sono specchio di Dio, sono belli perché lo riflettono, degni di amore appunto perché e in quanto rivelano l’amor suo, ma per se stessi non sono che creature, opera delle sue mani, senz’alcuna libertà o volontà propria con cui offrirgli quel dono spontaneo che fa dell’amore un olocausto perfetto. – All’uomo solo, su questa terra, fu concessa la facoltà di volere liberamente e di liberamente donare. Per ottenere questo olocausto e la gloria di un amore liberamente ricambiato e offerto a Lui dalla sua creatura, direi — se l’espressione non suonasse irriverente — che il mio Dio ha voluto tentare la prova. Ha dato la vita a una creatura che fosse libera, ha dato a me ch’Egli ama il potere di dire se voglio o no riamarlo. Mi ha manifestato tanta della sua bellezza, ha voluto che i cieli mi narrino la sua gloria, mi ha svelato il suo segreto, mi ha attratto e allettato in mille modi. Ha domandato esplicitamente il mio amore, me ne ha fatto un vero precetto, il suo unico grande comandamento, lasciandomi libero di mangiare del frutto di tutti gli altri alberi del suo paradiso. E libero davvero mi ha lasciato: malgrado tutti gli inviti, tutti gli allettamenti coi quali mi ha attirato e vincolato a Sè, io ho ancora in me il tremendo potere di respingerlo, di rinnegarlo, di dire che non voglio amarlo, che amerò invece di Lui qualche altra cosa, magari me stesso. – E l’uomo libero lo ha tradito. Io l’ho tradito. Egli ha messo alla prova affinché gli dimostrassi il mio amore, poiché l’amore non si accontenta di parole; e io non ho dato buona prova. Gli ho detto “Signore, Signore”, ma non sono entrato nel suo regno. A Lui ho preferito me stesso, ho posposto il suo infinito preziosissimo amore a un misero orpello, a qualche effimera soddisfazione. Quella stessa capacità d’amore, che era il suo dono sovrano a me e per la quale più gli rassomigliavo e di cui Egli solo era perfettamente degno, io l’ho distolta da Lui e l’ho rivolta ad altre cose, e in esse l’ho sperperata. Ecco il peccato. Per quanto è dipeso da me, mi sono distolto dall’amore di Dio, ho dichiarato al suo cospetto che non volevo saperne di Lui e che gli preferivo altri. Gli ho fatto l’ingiuria e l’insulto non solo di relegarlo a un secondo posto, ma anche di rifiutargli un posto qualsiasi, di lasciarlo al di fuori e al di dietro di me. Gli ho voltato le spalle, l’ho disprezzato, dichiarandomi pronto a subirne le conseguenze. Ho fatto ciò, e deliberatamente. Per quanto cerchi di scusarmi adducendo la mia profonda ignoranza, la mia cecità, la mia debolezza, l’attrattiva del momento, la pressione delle circostanze contrarie, non posso negare che, alcune volte almeno, sapevo benissimo quel che facevo. Avevo coscienza del suo sguardo amoroso posato su me, della sua mano tesa ad aiutarmi, eppure ho preferito continuare per la mia strada e abbandonarlo per seguire il mio capriccio. E una volta abbandonato Lui e fatta deliberatamente la mia scelta, era naturale che io non potessi da me tornare indietro. Non potevo riprender da me il bene cui avevo così liberamente rinunciato. Fin da principio non potevo vantare alcun diritto su di esso, ché tutto era suo dono gratuito; e tanto minor diritto poteva rimanermi ora che l’avevo respinto. Non mi era dato neppure di implorarne la restituzione: avevo peccato contro il cielo e contro il Padre mio. Tutt’al più, conoscendo l’amore costante di quel Padre, avrei potuto supplicarlo di accettarmi qual servo. Ma il mio Dio era pur sempre il Dio dell’amore e ancora mi amava d’immenso amore. Sebbene io lo avessi abbandonato e mi fossi recato in terra straniera per sfuggirgli, la sua misericordia non si stancava d’inseguirmi: Egli non poteva cambiare. Gli avevo rifiutato quanto gli dovevo non solo in qualità di beneficato, oggetto di un così tenero amore, ma anche in qualità di creatura sua; eppure Egli non volle castigarmi. Se un altro mi avesse fatto quel che io avevo fatto a Lui, mi sarei sentito in diritto di ripudiarlo; ma Egli non volle trattarmi così. Se pure il pentimento mi fosse stato possibile, io non avevo nulla con cui ripagare il mio Dio. Avevo offeso l’Infinito e commesso quindi una offesa infinita che nessuna creatura finita avrebbe potuto riparare. Avevo sperperato i miei tesori d’amore e non potevo aspirare ad altra sorte che a quella da me scelta. Ma Egli trovò la soluzione, per Sé come per me. Infinito e costante nella misericordia e nell’amore, Egli trovò il mezzo con cui pagare il mio debito. Giustizia si farebbe nei suoi riguardi, e al tempo stesso mi verrebbe reso l’amore sol ch’io lo volessi. E sarei perdonato, restituito alla perduta dignità, rigenerato sulle mie stesse rovine, e mi verrebbe dato un cuor puro e nuovo, anzi più di prima capace d’amore. E come poteva farsi tutto ciò? Debbo ancora servirmi di espressioni umane, ché altre non ne conosco. Debbo rendere la verità nell’unico modo in cui essa mi appare, “in maniera oscura e come in uno specchio”, ma io so che l’ombra che vedo è reale, sebbene non altro che ombra di una realtà assai più grande. Un giorno conoscerò anche la realtà, così come sono conosciuto io stesso. Dio Padre guardò dunque la sua creatura, diletta per quanto ostinata, la guardò e ancora l’amò. Dio Figlio, la Sapienza, il Verbo del Padre, guardò pure la creatura sua poiché “per Lui tutto fu fatto e nulla fu fatto senza di Lui”. E vide l’offesa recata dall’uomo al Padre, offesa che l’uomo non avrebbe mai potuto da sé riparare. Lo Spirito Santo Dio, l’amore del Padre e del Figlio, vide l’ingiustizia del peccato; e l’ingiustizia doveva esser riparata. Non poteva quel disaccordo durare per tutta l’eternità: fosse pur necessaria per ciò una riparazione divina, l’amore e l’onnipotenza di Dio ne troverebbero il mezzo. L’uomo sarebbe salvo, sol ch’Egli volesse accettare la salvezza offertagli. Dio stesso lo salverebbe, anche a costo di farsi uomo per pagarne il riscatto, fino all’ ultima stilla del suo sangue. – Ecco, in sostanza, ciò che costituisce pel Cristiano la dottrina della riparazione e della Redenzione. Considerata da un punto di vista umano e coi soli mezzi umani, essa ci appare incredibile, fantastica addirittura, null’altro che un sogno poetico; lo stesso San Paolo sembra talvolta sbalordito che si sia compiuta così grande meraviglia. Ma considerandola dalla visuale di Dio, guidati dalla visione e dall’amore di Lui, riconosciamo in questa sua immolazione l’espressione più completa della sua natura, e dobbiamo dire che era proprio degno di Dio fare tal cosa e in modo talmente magnifico. Egli è l’amore essenziale, e se mai fu compiuto atto di vero amore esso è precisamente la Redenzione. Quell’atto superò qualunque sogno umano anche il più ardito, ma fu atto ben degno di un Dio amorosissimo e in perfetta armonia col suo amore infinito. L’uomo non sarebbe mai giunto a concepirlo, e, misurandolo alla sola stregua delle sue facoltà umane, dubita che un tale eccesso d’amore sia possibile. Ma nell’accettarlo perché Dio stesso ha detto che così è, per l’autorità e sulla parola di Colui che l’ha compiuto, l’uomo deve dichiarare che solo un Dio d’amore poteva concepirlo e compierlo. « Dio ha talmente amato il mondo da dare il Figlio suo Unigenito ». (Giov. III, 16). “Cristo mi ha amato e ha dato se stesso per me”. (Gal. II, 20). “Da questo abbiamo conosciuto la carità di Dio, perché Egli ha dato la sua vita per noi”. (I Giov. III, 16). – “In questo si manifesta la carità di Dio verso di noi, che Dio mandò il suo Figlio Unigenito nel mondo affinché per mezzo di Lui abbiamo vita. In questo è la carità; che senza aver noi amato Dio, Egli per primo ci ha amati e ha mandato il suo Figliolo come propiziazione per i nostri peccati ”. (I Giov. IV, 9, 10). Eppure l’amore non ha ceduto per nulla affatto sul debito d’ onore contratto verso Dio stesso. Poiché dobbiamo ricordare che, oltre che infinitamente amoroso e misericordioso, Dio è infinitamente giusto, giusto verso tutte le sue creature come verso se stesso, e l’opera del Figlio di Dio è opera di amore infinito ma anche di infinita giustizia. L’offesa della colpa commessa contro un Dio infinito è offesa infinita nelle sue conseguenze in ragione della dignità dell’offeso, ma per la soddisfazione dell’Uomo-Dio la riparazione è completa: infinito per infinito. Anzi, considerando la Persona che ha compiuto la riparazione, troviamo che questa è sovrabbondante: il sacrificio dell’Uomo-Dio infinito dà al Padre una gloria ancor più grande di quella che il peccato dell’uomo finito gli ha tolta. – “Dove abbondò il peccato, ivi sovrabbondò la grazia, affinchè, come aveva regnato il fallo nella morte, così regni la grazia propria della giustizia, in eterno, per opera di Gesù Cristo nostro Signore”. (Rom. V, 20, 21). Così la misericordia infinita di Dio ha potuto applicarsi in pieno, pur rimanendo completamente soddisfatta la sua infinita giustizia. “La misericordia e la verità si sono incontrate, la giustizia e la pace si sono baciate. La verità è spuntata su dalla terra e la giustizia ci ha mirati dal cielo”. (Sal. LXXXIV, 11,12). Il Verbo di Dio fatto carne, vero Dio e vero Uomo, l’unica Persona del Verbo, il Figlio eterno di Dio, Nostro Signore Gesù Cristo Uomo e Dio, ecco la verità essenziale su cui si fonda il Cristianesimo. Per difenderla esso combatté attraverso secoli, per essa i suoi figli morirono a migliaia. Per essa e su di essa, il Cristianesimo ha edificato la nostra civiltà; senza di essa non esiste Cristianesimo. Modificatela, e d’un colpo modificherete l’essenza stessa del Cristianesimo. Sopprimete la divinità di Cristo e subito il Cristianesimo perde tutta quella visione, quella speranza e quell’amore, quell’energia che trascina, tutta quella gloria nella sofferenza e quella forza nella morte, tutto quello slancio verso un ideale che, fin dal tempo di Cristo, ha dato alla vita un significato nuovo ed è stato il contrassegno sicuro del suo progresso. Senza questo fondamento la civiltà che ancora si dice cristiana non differisce in nulla da qualsiasi altra civiltà o professione di fede: Senza di esso, non può vantare nessuna priorità, non può in alcun modo giustificare la propria influenza sulla storia dell’umanità, non ha nulla da replicare all’infedele. che le rinfaccia sdegnosamente l’unica superiorità dei suoi cannoni e delle sue navi da guerra. Invece, una volta accettata la fede nella divinità di Cristo, sino a farne la base della nostra vita, tutto diventa subito chiaro. E non è necessario perciò oltrepassare la nostra esperienza naturale, ché anche su questa terra gli effetti di questa verità sono abbastanza visibili. Il primo, naturalmente, è che la stessa natura umana ne risulta nobilitata. Perché il Figlio di Dio, anch’Egli Dio come il Padre, si fece uomo, la condizione dell’uomo fu riabilitata. Il fatto che il Verbo di Dio, vero Figlio di Dio, per amore dell’uman genere ne abbia assunto la natura e rivestito la carne, e per esso abbia dato la vita, innalza subito la natura umana a una dignità affine a quella di Lui. Per amore il Verbo incarnato ha dato la propria personalità alla natura umana e con ciò l’ha sollevata fino a Sé; e se tale è la misura dell’amore di Dio per l’uomo quanto deve risultarne accresciuto l’amore dell’uomo stesso per il suo simile! “Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci l’un l’altro… Se ci amiamo l’un l’altro, Dio abita in noi e la carità di Lui è perfetta….. – “Noi dunque amiamo Dio, poiché Egli per il primo ci ha amati. Ma se uno dirà: “Io amo Dio” e odierà il suo fratello, è mentitore. Infatti, chi non ama il suo fratello che vede, come può amare Dio che non vede?” (1 Giov. IV, 11, 20). – In queste parole San Giovanni riassume il risultato pratico dell’Incarnazione e della Redenzione nella vita dell’uomo in questo mondo. Così, egli ci dà la chiave della storia del Cristianesimo. Ma in secondo luogo, non solo la natura umana nel suo insieme è tanto nobilitata ed esaltata; noi pure, ogni singolo essere umano che partecipa della nostra natura è nobilitato in se stesso. Poiché questo Cristo che è Dio è anche nostro fratello nella carne e in un certo senso possiamo dire che ogni uomo è imparentato con Lui. Ma non basta: come speriamo di considerare con maggior agio in un prossimo capitolo, sappiamo che Cristo ha lasciato sulla terra il suo Corpo mistico. Ad esso Egli ha incorporato tutti coloro che in Lui credono e che lo amano. Li ha resi tutti partecipi della sua stessa nobiltà divina. Proprio come il Verbo di Dio si è dato al Cristo uomo e in Esso vive, così, vedremo, sebbene in un ordine inferiore, Nostro Signore si è dato a noi e ci ha fatti una cosa sola con Lui. San Paolo non si stanca mai di ripeterlo. Noi siamo membri di quel Corpo mistico vivente; come tali ci è stato dato il diritto di appropriarci la sua soddisfazione, i suoi meriti, la sua stessa preghiera, affinché come cosa nostra possiamo offrirla a Dio in espiazione delle nostre colpe per ottener da Lui misericordia e favori. Così le nostre deboli petizioni umane, i piccoli atti di riparazione che possiam compiere, i poveri sacrifici che possiamo offrire, acquistan valore in e “per Cristo Signor Nostro”, poiché il Padre non disdegnerà preghiere e sacrifici per quanto meschini commisti al sangue del suo diletto Unigenito e animati dalla vita stessa di Lui.