LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (12)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (12)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO IV

LA VITA DELL’UOMO IN SE STESSO

2. – Suoi caratteri.

Se tale è l’ideale dell’uomo perfetto, come Cristo nostro Signore ce lo ha rivelato e come, in ispirito almeno, il Cristianesimo lo ha sempre accettato, sarà utile per noi cercar di vedere in che modo esso si rifletta sulla vita pratica e in che modo la determini, studiare insomma più da vicino i suoi lineamenti essenziali. San Tommaso d’Aquino ce li riassume in una sola frase: “La perfezione della vita cristiana consiste intrinsecamente ed essenzialmente nell’amore; in primo luogo amore verso Dio, in secondo luogo amore per il prossimo.” In questa frase e in altre simili che spesso ricorrono nell’opera dell’Angelico Dottore, egli dichiara, come fatto evidente così da non richiedere delucidazioni, che la perfezione cristiana è interamente fondata sulla carità, che, all’infuori di essa, nulla può formare l’uomo perfetto, non tutti i doni della natura, non l’educazione delle scuole, né le virtù, né i successi del mondo, mentre avendo la carità in un grado di perfezione ogni altra cosa viene di conseguenza, E per carità, come spiega qui e altrove, S. Tomaso intende innanzitutto l’amor di Dio. Dio è per lui la grande realtà, l’Essere che in sé contiene tutto ciò che è degno di amore, che l’amor suo ci ha dimostrato in mille modi meravigliosi e che merita quindi d’esser riamato con tutta l’anima. Ricambiare dunque Iddio con amore, non foss’altro per gratitudine, apprezzare sempre più tutto ciò ch’Egli ha fatto e ch’Egli è, amarlo di conseguenza ogni giorno più, ed essere finalmente consumati da quell’amore in modo che nessun’altra cosa possa intromettersi fra l’uomo e Dio, è questo, secondo S. Tomaso e secondo tutti i Santi che hanno reso gloriosa la storia del mondo, il fondamento primo della perfezione umana. Ma in secondo luogo e senza prescindere dall’amor di Dio, egli mette l’amore dell’uomo per i suoi simili; non può separare i due affetti: l’uno è il completamento dell’altro. All’amor di Dio deve seguire l’amore pel prossimo non solo come un frutto dell’albero, ma come sua diretta, anzi più diretta manifestazione. San Giovanni esprime efficacemente lo stesso pensiero: “Noi dunque amiamo Dio poiché Egli per il primo ci ha amati. Ma se uno dirà: “Io amo Dio” e odierà il suo fratello, è mentitore. Infatti chi non ama il suo fratello che vede, come può amare Dio che non vede? E questo comandamento abbiamo da Dio: che chi ama Dio ami anche il proprio fratello.” (I Giov. IV, 19, 21). – E San Paolo così riassume il suo insegnamento: “Fatevi dunque imitatori di Dio come figli bene amati, e vivete amandovi, come anche Cristo amò voi e diede se stesso per noi, oblazione e sacrificio a Dio, profumo di soave odore.” (Efes. V, 1.2). – Quando parliamo di amore riguardo a Dio e, come dice il comandamento, “con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze”, e quando parliamo dell’amore pel prossimo “come te stesso”, la parola amore è evidentemente usata in un senso che trascende quello del linguaggio ordinario. Ciò spiega perché S. Paolo preferisse a quella la parola “carità”; ai suoi tempi, come ai nostri, il termine corrente era stato così diminuito, avvilito e profanato che non esprimeva più la gemma pura e splendida di cui egli intendeva parlare. Eppure la sua. “carità” non voleva in nessun modo distruggere l’amore naturale, ché anzi la carità di Cristo perfeziona l’amore dell’uomo, lo innalza ad una sfera superiore, lo stimola con motivi ancor più nobili, gli insegna migliori metodi di espressione e gli offre più vasti campi d’azione. Difende l’amore umano, essenzialmente buono e vero in sé, da tutti quei pericoli che sempre minacciano ciò che è semplicemente naturale, mette in moto tesori d’amore che per semplici motivi naturali non si sarebbero mai neppur rivelati. Poiché il Dio che amiamo non è una divinità astratta, separata e lontana da noi; non è solamente il Dio che la ragione può scoprire, supremo, indipendente, padrone di tutto. È il Dio della SS. Trinità che la Rivelazione ci fa conoscere; e la SS. Trinità è l’espressione dell’amore essenziale di Dio, della sua essenziale vita d’amore. È il Dio che si chiama Padre in tutto il significato del termine, poiché Egli è davvero per noi quale vuole che noi lo pensiamo. È il Dio che chiamiamo Gesù Cristo, Verbo Incarnato, la testimonianza dell’amore del Padre, la testimonianza dell’amore umano divinizzato. È il Dio che chiamiamo Spirito Santo, l’amore personificato. Noi quindi amiamo Dio non solo per ciò che la ragione c’insegna, che pur sarebbe motivo sufficiente di affetto, di gratitudine e di generosità, lo amiamo infinitamente di più perché sappiamo per fede essere Egli infinitamente amabile e amoroso, esigente e condiscendente insieme, fino ad abbassarsi sino a noi senz’altro chiederci che un contraccambio d’amore. E lo amiamo con qualche cosa di più del nostro povero, piccolo amore umano, lo amiamo con un amore perfezionato, divinizzato, fatto degno di Lui perché unito all’amore stesso di Cristo. È un amore che passa attraverso il suo Cuore ed è corroborato dalla grazia ch’Egli stesso ci dà perché possiamo amare sempre più e sempre meglio. Questo amore per Iddio non è un fatto sentimentale, non è un semplice esercizio di sensibilità e di emozioni, non è una sottile compiacenza di sé. Basta considerare la vita di coloro che ne sono stati maggiormente infiammati, che si sono letteralmente innamorati di Dio, per capire la forza, l’ardore divorante di quella passione. Vero è che, finché vive quaggiù, l’uomo rimane sempre uomo, con un corpo oltre che con un’anima. Di conseguenza anche i suoi affetti più nobili e più generosi di rado andranno esenti da qualche emozione; perfino il Santo che ha dato tutto se stesso senza nulla chiedere in cambio, sospirerà qualche volta di poter sentire che il suo diletto gradisce e ricambia tanto amore. Tuttavia, l’emozione o amore sensibile, se così possiamo chiamarlo, in nessun campo è garanzia sicura di vero amore, e tanto meno sarà condizione, sintomo o prova dell’amore dell’uomo per Iddio. L’emozione non è affatto richiesta dall’essenza dell’amore. Piuttosto, l’amore, in ogni suo grado, è dedizione, e ne sarà quindi miglior garanzia la volontà di dare, la gioia del dare, nell’unica considerazione di Colui al quale si dà. E così è dell’amore per Iddio; a Lui l’amore dà tutto con entusiasmo e, se occorre, anche tutto se stesso, per Lui e per la sua maggior gloria, preferendo il suo beneplacito al proprio e a quello di ogni altra creatura. È questo, nella sua origine, nel suo oggetto, nella sua manifestazione, l’amore del Cattolico per il Dio che gli si è così meravigliosamente manifestato; e lo stesso sarebbe da dirsi, nelle debite proporzioni, del suo amore per il prossimo. Per noi, come già abbiamo avuto frequenti occasioni di osservare, il prossimo è assai più di un nostro simile. Chiunque esso sia, è immagine di Dio, fatto a sua somiglianza, un riflesso delle sue perfezioni divine, e capace di rifletterle sempre meglio. È la dimora di Dio, o, se non altro, un’anima in cui Dio desidera dimorare; in Dio e con Dio in sé, è anch’egli capace di ogni perfezionamento di bellezza e di amore. Amare e servire questo prossimo è amare Cristo stesso, è rendere servizio a Colui che merita ogni servigio. Per questa ragione sopra ogni altra, per amore di Dio più che per amore dell’uomo in sé, o piuttosto perché l’amor di Dio ha assorbito, trasformato e soprannaturalizzato l’amore pel prossimo, i Cattolici si amano come fratelli. E vedendo in ciascun fratello un essere prezioso riscattato da Dio col sangue del proprio Unigenito Cristo Gesù, essi hanno per Lui quella tenerezza viva che desidera all’amato tutto il più ed il meglio, non solo la prosperità e la felicità sulla terra, ma anche il bene soprannaturale, la perfezione della vita, la beatitudine eterna. Così l’amore per l’uomo è un vero riflesso dell’amore per Iddio. Non sono due amori distinti, due virtù di carità, una per Iddio e una pel prossimo; non vi è che una sola carità che entrambi li abbraccia, Dio per amor suo, e il prossimo, anzi tutto il creato nella debita scala, per se stesso in quanto è visto con gli occhi di Dio. Ma se la perfezione dell’uomo si basa essenzialmente sull’amore di Dio e del prossimo, ne deriva di necessità che la via della perfezione deve seguire la direttiva di questo amore. L’anima che vuole esser perfetta deve molto amare, intensamente e generosamente, deve lasciarsi guidare dall’amore, ma da un amore puro, sincero, disinteressato, altruista. Un amore che ricerchi se stesso non è più amore; il vero amore si misura dal suo contrario. Né l’amore vero potrà esaurirsi o appagarsi con un semplice atto di carità, sia pur compiuto, in parola o in azione, col massimo fervore. « E se anche distribuissi tutto il mio ai poveri e dessi il mio corpo per essere arso, è non avessi la carità, a nulla mi gioverebbe » (I Cor. XIII, 3). – L’amore va oltre gli atti; questi non sono che germogli dell’amore, segni della sua esistenza, e null’altro. Poiché l’amore è veramente vita e mezzo di vita, permea tutto ciò che siamo e tutto ciò che facciamo; è una maniera di pensare, di sentire, di volere. Quando amiamo, immediatamente l’oggetto amato assume per noi nuovi colori, diventa più reale, più bello, più amabile, più degno di esser servito con tutto ciò che abbiamo e che siamo. Quando amiamo, non viviamo più noi, ma in noi vive l’essere amato. Ogni nostro atto diventa un adempimento della sua volontà, non della nostra; viviamo per piacere a lui, non più a noi stessi, e ad ogni istante esprimiamo il nostro amore per colui che a tutto e a tutti preferiamo. E così avviene che ogni cosa che facciamo, la nostra vita con tutte le sue minime azioni, può esser trasformata in un continuo atto d’amor di Dio, contribuendo alla formazione dell’uomo perfetto; e il progresso sarà tanto più reale quanto più l’amore sarà intenso, dimentico di sé, generoso, energico e costante. Ciò che vale agli occhi di Colui che amiamo non è l’offerta dell’atto in se stesso. Che cosa potrebbe per sé valere qualunque atto di noi meschine creature dinanzi a Dio onnipotente? Ma quello che conta è la volontà con cui l’atto si compie e si offre, è lo sforzo d’amore ch’esso rivela, indipendentemente dalla propria consolazione o soddisfazione o speranza di premio. – E identico è il carattere del vero amore per il prossimo, poiché, essendo esso una cosa sola con l’amore di Dio, dimostrarlo in qualunque modo efficace a un fratello qualsiasi è dimostrarlo a Dio stesso. “Quante volte avete fatto qualche cosa a uno di questi minimi dei miei fratelli l’avete fatto a me”. In verità, come appare evidente dalla vita dei grandi Santi, spesso l’amore di Dio più e meglio si manifesta nell’amore per il prossimo; l’amor di Dio, quand’è genuino e generoso, facilmente e necessariamente si effonde sul prossimo. Chi ama Dio, riconoscendo nei fratelli un riflesso di Lui, anzi lo stesso Gesù Cristo, si prodiga nel servirli, si dà a loro con quello slancio e con quella instancabile generosità con cui servirebbe l’adorabile suo Signore. Poco importa alla Piccola Suora dei Poveri che il vecchio ch’essa cura e serve sia per lei un perfetto estraneo e forse ingrato e malato e ripugnante. Egli è amato da Cristo, porta in sé, anche se nascosta e velata, la sua divina rassomiglianza; servir lui è servir Cristo, e la Piccola Suora è completamente paga. Né importa al missionario che il suo messaggio sia respinto dai sapienti e dai prudenti, ch’egli debba annunciare la buona novella solo agli umili, ai diseredati, ai rifiuti dell’umanità. In essi, non meno che in altri, è l’immagine di Gesù Cristo; anch’essi son capaci di amor di Dio quanto gli uomini più raffinati; in essi il servo vede il suo Padrone e ciò gli basta. Tale amore costituisce l’uomo perfetto secondo la concezione cattolica e anche secondo i criteri umani di questa vita. – Ma la vita umana quaggiù non è uno stato perfetto in sé. Abbiamo già osservato che, anche redento, l’uomo conserva le proprie tendenze al male; c’è una legge nelle sue membra, come dice l’Apostolo, che continuamente lo spinge a compiere il male che non vorrebbe. In parole diverse, c’è nell’uomo un altro amore in contrasto con quello di cui abbiamo or ora parlato. In cielo saremo liberi e sciolti da qualunque impedimento, ameremo come siamo amati, senza pericoli e senza timori. Ma qui sulla terra, come è provato dalla nostra esperienza quotidiana, è tutt’altra cosa. Nel nostro stato attuale di natura decaduta, non è possibile amare di un amore sincero e fattivo senza sacrificio, senza cioè la soppressione di un amore inferiore che s’intromette e accampa i suoi diritti. E ciò è tanto più vero nei riguardi dell’amor di Dio. Essendo umani, e con aspirazioni e inclinazioni umane verso le cose di quaggiù, non possiamo amar Dio completamente senza lotta, senza qualche genere di rinuncia. La natura inferiore dev’essere soggiogata, l’amore illecito dev’essere bandito; dal primo albeggiare della ragione fino al nostro ultimo respiro, sempre ci troveremo nell’occasione di lottare. È vero che non sarà lotta continua, si daranno per tutti momenti di tregua, si verran formando delle abitudini che potranno render la lotta facile e quasi connaturale. Tuttavia, l’uomo che vuol esser perfetto non potrà mai deporre le armi, dovrà sempre stare all’erta. È questa la ragione di quell’ascetismo che fa parte dell’insegnamento cristiano. Non è crudeltà, non è fanatismo, non è un andar contro natura; è il generoso perseguimento di un ideale che vuole combattere tutto quanto gli ostacola la via. È un riconoscimento della gloria dell’uomo e della grandezza della vita umana, ma è allo stesso tempo il prezzo che si deve pagare per conseguire quella grandezza e quella gloria.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (13)

LA GRAZIA E LA GLORIA (50)

LA GRAZIA E LA GLORIA (50)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO VIII

Sulla gioia beatifica. – Ciò che essa sia nelle sue immagini, nella sua natura e nelle sue proprietà. – Il fine ultimo.

1. La Sacra Scrittura, volendo farci pregustare le gioie che Dio riserva in cielo ai suoi figli adottivi, accumula le immagini più vivide e varie per dipingerle. E poiché tra tutte le espressioni di un’esultanza comune la più evidente è forse quella di un banchetto gioioso, è soprattutto sotto questo emblema che Dio ci ha rappresentato la felicità eterna dei suoi eletti. Ma vedete come tutto contribuisca ad elevare la magnificenza e le delizie del banchetto celeste al di sopra di tutto ciò che la terra possa offrirci e l’immaginazione possa concepire. Questo è il banchetto preparato dal grande Re del cielo per le nozze del suo diletto Figlio. Gli splendori del palazzo in cui esso si svolge sono di una ricchezza incomparabile. San Giovanni, che li ha contemplati in una visione meravigliosa, non riesce a trovare nel linguaggio umano parole abbastanza forti per descriverle. L’oro più puro, le pietre preziose di ogni genere vi sono profuse. Il nostro sole, nel suo mezzogiorno più radioso, non è che un’oscurità in confronto alla gloria di Dio che inonda con i suoi fuochi questa nuova Gerusalemme ed i beati conviviali (Apoc. XX, XXI). Vogliamo parlare del cibo con il quale Dio nutre gli ospiti di questa magnifica dimora? Ci basti sapere, per prevederne l’eccellenza, che sarà Lui stesso che, « dopo averci fatto sedere alla sua mensa, si cingerà i lombi e ci servirà con le sue mani divine » (Lc. XII, 37). Il vino che Voi verserete per loro, o mio Dio, non sarà né meno abbondante né meno delizioso delle carni celesti con cui li nutrirete, perché « essi saranno inebriati dall’abbondanza della vostra casa e li inonderete al torrente delle vostre delizie » (Sal. XXXV, 2). Lasciamo che il Cantico descriva gli aromi che profumano il banchetto nuziale. Profumi dello Sposo: « Io sono venuto nel mio giardino, sorella mia, sposa mia; ho raccolto la mia mirra con i miei profumi… Mangiate, amici miei, e bevete; inebriatevi, miei diletti ». (Cant. V, 1). Profumo della sposa: « L’odore delle tue vesti, sposa mia, è come il profumo della tua pelle, l’odore dell’incenso e la fragranza dei tuoi profumi al di sopra di tutte gli aromi ». (Ib. IV, 10-11). Che altro dire delle conversazioni della divina Sapienza con i suoi conviviali, essa « la cui conversazione non porta né amarezza né noia, ma gioia e contentezza senza mescolanza » (Sap. VIII, 16). Là non c’è nessuno che non indossi senza macchia l’abito nunziale. « Nessuno entrerà di quelli che commettono abominio e menzogna, ma solo chi è scritto nel libro della vita dell’Agnello » (Ap. XXI, 27): tutti amici e fratelli, perché tutti figli dello sposo e della sposa. Così io mi spiego ciò che San Giovanni ha sentito, « come il brusio di una grande moltitudine, e come voce di grandi acque e come la voce di tuono, che dicevano: Alleluia. Rallegriamoci, esultiamo e rendiamo gloria al nostro Dio, perché è giunto il tempo delle nozze dell’Agnello. Posso anche spiegarmi le parole rivolte dall’Angelo dell’Apocalisse allo stesso Apostolo: « Scrivi: beati i chiamati alla cena delle nozze dell’Agnello » (Apoc., XIX, 6, 7, 9).

2. – È tempo di lasciarsi alle spalle le immagini e di formarsi, per quanto la nostra debolezza lo consenta, un’idea più precisa delle delizie eterne di cui speriamo di godere un giorno. Che cos’è l’appagamento interiore, la delizia, il piacere o la gioia? Tralasciamo le sfumature che distinguono questi diversi termini e consideriamo solo ciò che hanno in comune, e possiamo rispondere che è il riposo nel possesso del bene. Supponiamo una soluzione a lungo cercata che trovo dopo mille sforzi; essa brilla con certezza agli occhi della mia intelligenza. Sono gioioso, perché possiedo il Bene che è la verità e sono consapevole di possederlo. Un avaro, che non dà tanto valore a nulla se non alla ricchezza, improvvisamente scopre di avere appena ricevuto la più magnifica delle eredità: ha oro al di là non dei suoi desideri, ma delle sue aspettative: questa è ancora gioia; gioia del tutto imperfetta. Una gioia imperfetta, è vero, ma che per il momento è sufficiente per il suo cuore. Questi, dunque, sono gli elementi della gioia: un bene che si ama, un bene che si possiede, con la consapevolezza di possederlo. Di conseguenza, quanto più prezioso è ciò che si possiede, quanto più ardentemente lo si è desiderato, quanto più perfetto e sicuro ne è il possesso, tanto più intensa e viva è la gioia che ne deriva. – Una volta stabiliti questi evidenti principi, chi non vede che la gioia delle gioie per il figlio di Dio derivi essenzialmente dalla chiara visione delle ineffabili bellezze di suo Padre e dall’amore di cui è infiammato per Lui? Il Bene che possiede non è un bene limitato, e nemmeno l’universalità dei beni finiti, ma tutto il bene, perché è il Bene per essenza e la fonte inesauribile da cui scaturiscono tutti gli altri beni. E questo bene egli lo ama con tutta la forza della sua anima: tanto che nessuna forza può staccarlo da esso. Ma il modo in cui lo possiede, è si tutti il più perfetto; non solo ne è penetrato nel profondo del suo essere, ma egli lo contempla faccia a faccia nella sua viva realtà, con la certezza che il suo possesso non subirà mai diminuzioni né termine. Non è forse evidente che nessuna gioia possa essere paragonabile alla sua? – Presentiamo la stessa verità da un altro punto di vista. L’uomo, intendo l’uomo nel suo stato più essenziale, è intelligenza e cuore. Pertanto, la pienezza della gioia per lui sarà misurata dalla sazietà di queste due parti di sé. Cosa serve per saziare la mente? Conoscere tutta la verità che è in grado di raggiungere e di conoscerla in modo sempre attuale e sempre perfetta. Conoscere: questo è lo scopo dell’intelletto. Da qui la sete di vedere, di imparare, da cui ogni essere ragionevole è affetto. Conoscere tutta la verità: finché è nascosta ai miei occhi in qualche luogo, non ho la perfezione del riposo, perché io sono fatto non per “una” verità ma per “la” Verità. E questo è uno dei motivi per cui moltiplicare la conoscenza è, in questo mondo, moltiplicare il dolore (Eccl. I, 18): perché più si conosce, più si vedono gli orizzonti dell’ignoto aprirsi davanti agli occhi. Conoscere in modo sempre attuale: infatti, ciò che soddisfa pienamente l’anima non è semplicemente la capacità o l’abitudine acquisita della scienza, ma l’atto che ci fa cogliere il suo oggetto. Conoscere finalmente nel modo più perfetto; non in modo confuso ed in penombra, non con ragionamenti dolorosi e più o meno mescolati all’ansia, ma direttamente, senza errori o fatica, nello splendore dell’evidenza e della luce. Questa sazietà completa, che la natura non è in grado di darci, Dio, rivelandosi nella sua gloria, la concede ai suoi figli. Infatti, se ben ricordiamo, attraverso la visione beatifica essi contemplano, con sguardo eterno ed in eterna estasi, tutte le bellezze create. Quali sono allora le gioie di quegli spiriti beati sui quali, una volta sorto, il sole della verità non tramonterà mai più, rivelando ai loro occhi estasiati gli orizzonti sconfinati, dove fino a quel momento tutto era oscurità o mistero per loro! – Cosa serve ancora per soddisfare il cuore? Dire che amare ed essere amato non è che una risposta che possa soddisfare: se l’amore ha le sue soddisfazioni, ha anche, come ben sappiamo, le sue battute d’arresto e i suoi tormenti. Chiedetelo piuttosto a tante anime che sono tristemente prese da beni caduchi e deperibili; a quei cuori in cui bruciano amori illegittimi, benché siano certi che amando essi siano riamati. Chiediamolo anche agli amici di Dio che, al di sopra di affetti colpevoli o fragili, vogliono amare solo in Dio e per Dio. Ovunque, anche se le cause siano diverse, sentiremo gemiti che ci diranno che l’amore per la terra, l’amore che s’inganna e l’amore che segue la regola del dovere non sono sazianti. Io lo comprendo, se è l’amore che si inganna: sono eternamente vere quelle parole che Sant’Agostino, pentito, rivolgeva al suo Dio: « Voi ci avete fatti per Voi, e il nostro cuore è turbato dall’ansia, finché non riposi in Voi » (Sant’Agostino, Confessioni, L. 1, c. 1). Il cuore dell’uomo è così grande che solo l’infinito sia in grado di riempirlo. – Ma perché le anime, per le quali Dio è tutto, gemono e sospirano? Colui che essi amano non è forse l’unico, sovranamente perfetto e felice, che è la bontà stessa e la sua stessa beatitudine? Senza dubbio, questa è una gioia profonda per tali anime, la cui grandezza è la misura della loro carità. Ma proprio questa carità esse possono perderla; ma quanto più la mantengono intensa, tanto più sentono il dolore di interromperne troppo sovente gli atti; esse sono lontane da ciò che amano sopra ogni cosa, e la distanza è il tormento del vero amore; esse non contemplano l’amato nella sua gloria, e non è né il testa a testa né il cuore a cuore che desiderano (S. Thom., 2 2, q. 28, a. 1 e 2). Io li sento invocare la dissoluzione dei loro corpi per essere con Cristo. La terra è un esilio per loro; e per quanto grandi siano le consolazioni divine che vengono a cercarli, è sempre una valle di lacrime; esse non vi vedono il loro Dio. Aggiungiamo, inoltre, che nonostante tutte le rassicurazioni che hanno di amare e di essere riamati, non ne hanno la piena evidenza. Ecco perché, più l’amore per la bellezza divina cresce in un cuore, più i santi dolori della separazione lo invadono e lo torturano. Quali gioie, allora, inonderanno queste anime quando Dio mostrerà loro finalmente il Suo unico volto desiderato; quando, contemplandolo raggiante sul trono della sua gloria, godranno eternamente della sua Presenza e del suo amore, senza temere di vedere mai la catena d’oro che le unisce a Lui interrotta o allentata? – Io ho parlato del rapimento in cui le getta la contemplazione delle infinite bellezze di Dio. ma non basta, per averne anche solo una pallida idea, concepire questa bellezza come infinita; è ancora necessario, ed è questo che rende lo spettacolo incomparabilmente più delizioso, considerare che questa bellezza, così incantevole, sia sovranamente amante e sovranamente amata. Altro, appunto, è il piacere di guardare un oggetto la cui sola bellezza ci incanta, per esempio un quadro di un grande maestro; altro è quello che ci dà la vista della stessa bellezza in una persona amata. E ciò che dovrebbe farmi comprendere ancora meglio questa gioia di vedere Dio tutto amante e tutto amato, è che lo vedrò e lo amerò in una moltitudine senza numero di altri se stesso, miei amici e miei fratelli, tutti illuminati dalla sua gloria e partecipi dell’amore che mi porta, felici della mia felicità come io lo sarò della loro stessa beatitudine (cfr. L. I, c. 3. Vol. 1). – « Entra nella gioia del tuo Signore », dice il padrone al servo diligente e fedele. Intra in gaudium Domini tui (Mt. XXV, 21). Non conosco nessun testo della Sacra Scrittura che dia un’idea più alta e più esatta della gioia degli eletti di queste poche parole. Che cos’è questa gioia di Dio, il Padrone e Signore di tutte le cose? È l’infinito appagamento che gode nella contemplazione e nell’amore delle sue infinite perfezioni; appagamento sostanziale, poiché non è altro che Se stesso; appagamento infinito, poiché è identico in tutto e per tutto adeguato all’oggetto che lo genera. – Entrare nella gioia del Signore significa dunque partecipare a questa incomprimibile contentezza che, secondo il nostro modo di concepire, produce nel Cuore di Dio l’eterna contemplazione della sua sconfinata perfezione e l’eterno abbraccio d’amore tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Questa espressione – « entrare nella gioia del Signore » – significa qualcosa di più. Esse ci insegnano che questa gioia di Dio è troppo grande per il cuore dell’uomo, per quanto possa essere dilatato dalla grazia. Essa vi entra, poiché è condivisa secondo la misura della conoscenza e della carità; la riempie, poiché è la gioia perfetta. Ma la gioia di Dio supera in modo eccellente tutte le gioie degli eletti, perché ogni creatura, essendo incapace di conoscerlo e di amarlo quanto Lui conosce e ama Se stesso, è altrettanto incapace di gustare in Lui le infinite delizie che vi trova. Ed è per questo che non è la pienezza assoluta della gioia divina che entra nell’uomo, ma è l’uomo che entra in essa, tanto essa trabocchi da ogni parte dopo averlo riempito (S. Thom. 2 2, q. 28, a. 3).

3. – Queste considerazioni sul principio della gioia beatifica ci hanno dato un’idea abbastanza chiara delle sue principali proprietà. Tuttavia, è necessario sottolinearne alcune in modo più esplicito. In primo luogo, poiché la pienezza della conoscenza e dell’amore è diversa nei Santi del cielo, è chiaro che la misura della gioia, il risultato naturale di essa, non debba essere la stessa per tutti. Ognuno di loro partecipa alla beatitudine secondo la capacità che i suoi meriti ed i suoi gradi di grazia gli hanno conferito. Quanto abbiamo detto sulla disuguaglianza nella conoscenza e nell’amore ci dispensa dall’addentrarci in spiegazioni più lunghe. – Un’altra proprietà della gioia beatifica è che essa esclude totalmente l’inquietudine dei desideri. La gioia – dice San Tommaso d’Aquino – è per il desiderio ciò che il riposo è per il movimento. Come il riposo assoluto presuppone che non ci sia più movimento, così la gioia completa esiste solo quando tutti i desideri siano soddisfatti. Finché siamo in questo mondo, il movimento dei nostri desideri non ha una fine precisa: infatti, al di là delle tendenze naturali, la condizione della carità propria del cammino è quella di potersi sempre avvicinare a Dio. Ma una volta che saremo in possesso di Dio, questo allora sarà il luogo di riposo finale di ogni desiderio. Cos’altro si può cercare, quando si ha il bene che basta per la felicità di Dio? Non si dica che il cuore dell’uomo non desideri solo il possesso di Dio, anche se questa è la sua aspirazione principale: Infatti, una volta soddisfatto questo desiderio, tutti gli altri svaniscono, perché sarebbero incompatibili con il godimento di Dio, o perché ricevono la loro perfetta sazietà (« Nihil desiderandum restabit, quia ibi erit plena Dei fruitio in qua homo obtinebit quidquid etiam circa alia bona desideraverit, secundum illud psalmi 102: qui replet in bonis desiderium tuum » – S. Thom, 2 2, p. 28, a. 3). – Entriamo, per mostrarlo in modo più evidente, in alcuni dettagli. Noi volevamo essere saziati dal vedere e conoscere; di più, dall’amare e dall’essere amati: non c’è bisogno di dire altro su come Dio soddisfi questa duplice aspirazione della nostra natura in cielo: come figli di Dio, noi gemiamo su di essa e siamo sempre pronti a fallire; e qui siamo diventati impeccabili, fissati per l’eternità nell’amore divino. Come uomini, aspiravamo alla grandezza, alla gloria, al potere, alla ricchezza e alla bellezza; e qui Dio, chiamandoci alla contemplazione della sua essenza, ce li dona con una generosità senza pari. Grandezza: il Re eterno dei secoli ci fa sedere con il suo Cristo, vicino a Lui, sul suo trono (Apoc. XX, 6; III, 21). Gloria: c’è una gloria pari a quella che proviene, non dalla lode umana, troppo spesso falsa, ma dal giudizio infallibile di Dio e dei suoi santi? Potendo regnare con Gesù Cristo, gli eletti partecipano al suo impero e sono davvero come dei re nella creazione. Ricchezza: essi godono del Bene per eccellenza, e possedendo in Esso tutti gli altri beni. La bellezza: i giusti risplenderanno come stelle; non basta dire questo, perché saranno dei, portando in tutto il loro essere la somiglianza con Dio. Uniti a corpi passibili e mortali, la nostra natura desiderava sfuggire alle sofferenze e non conoscere la morte; e questa immunità beata noi l’avremo certa, perfetta e completa in virtù della gloria dell’anima, che essa seguirà come conseguenza naturale (S. Thom, Gent, L, III, c. 63). – Sarà quindi una gioia completa, una gioia senza angoscia; una gioia così grande che per contenerla occorreranno cuori non più solo formati dalla natura, ma allargati e dilatati dalla grazia; un torrente di delizie divine che, per entrare nell’anima, deve scavarsi il suo letto. « Perché allora, miseri mortali quali siamo, andiamo avanti e indietro così, chiedendo e cercando con ardore irrequieto dove si possa trovare la felicità? Amate dunque l’unico Bene che comprende tutti i beni, e questo è sufficiente. In esso troverete tutto ciò che amate, tutto ciò che sospirate. » È con questa riflessione molto semplice, ma anche molto profonda, che sant’Anselmo si addentra nella descrizione dei beni posseduti da chi possiede Dio (S. Anselmo. Prosol., c. 24). Che tante anime ingannate nella ricerca della felicità possano meditarlo e seguirlo! – Incompatibile con dei desideri, la gioia dei Santi non lo è da meno con la tristezza del cuore.  Questo è il privilegio che deriva dalla sua incomparabile purezza. Spieghiamo brevemente questo pensiero. Certamente, gli eletti hanno il diritto di gioire delle mirabili perfezioni che Dio ha così generosamente donato loro, come a suoi figli prediletti. Ma se essi ne gioiscono, la felicità di Dio provoca loro una gioia incomparabilmente maggiore. Cosa dire? Essi godono della propria felicità, non tanto perché sia un bene proprio, ma perché è la glorificazione della bontà del Signore. La causa ne è evidente: il movimento della gioia segue il movimento dell’amore. E questo è ciò che io chiamo la purezza della loro gioia. Da qui questa conseguenza, degna di nota: la disuguaglianza di felicità e di gloria tra gli eletti non farà sì che i più umili provino alcun rimpianto o tristezza. È perché il beneplacito di Dio, che essi amano più di ogni altra cosa e che li vuole in questo luogo, è loro gradito più di ogni altro, quando anche quest’altro luogo lo avvicinasse a lui. A loro sarebbe impossibile dire: Amico mio, lascia questo posto e sali più in alto (Lc XIV, 10), essi risponderebbero indignati: Esso è mio; non conosco altro luogo che si adatti meglio ai miei desideri, poiché la volontà di Dio, mio Padre, me l’ha dato – Un’altra conseguenza è che la conoscenza della disgrazia dei dannati, anche se fossero stati strettamente uniti a loro in questo mondo da legami di sangue o di amicizia, non causa alcuna tristezza a questi beati abitanti del paradiso. Quando si dice, per spiegarlo, che la pienezza della gioia non lascia spazio nel loro cuore alla tristezza, si adduce senza dubbio una ragione plausibile. Ma c’è ancora un’altra ragione più profonda: essi non li amano più, né possono amarli. Tra loro e questi sventurati c’è un grande abisso (Lc. XIV, 26), e su questo abisso non c’è passaggio alcuno per la carità. Come possono amare in Dio e per Dio coloro che Egli ha allontanato dal suo volto; e come potrebbero desiderare per loro la beatitudine eterna, senza contraddire la giustizia di Dio che rifiuta loro? (S. Thom. 2 2, q. 25, a. 11). È vero che possiamo e dobbiamo amare i peccatori, nemici di Dio, che sono ancora in cammino; ma questi peccatori possono, senza pregiudicare la giustizia divina, passare dalla loro attuale miseria alla dignità di figli di Dio. Desiderare la loro felicità eterna significa entrare nell’ottica di quella misericordia divina che li invita e li spinge a giungere alla grazia e, attraverso di essa, alla gloria. Il cuore di Dio non è irrimediabilmente chiuso nei loro confronti; e se io non li amo ancora perché Dio non è in loro, posso amarli perché vi possa essere (« Vel quia est in eo Deus, vel ut sit in eo Deus », dice San Tommaso, De Carit, q. 1, a. 4). – D’accordo, mi si dirà forse, gli eletti non possono amare i riprovati con un amore di carità; ma noi abbiamo visto come in loro ci siano altri affetti legittimi (cfr. L. IX, c. 7). Perché questi affetti non dovrebbero sopravvivere alla rottura assoluta dell’unione che la carità forma? Perché la carità, che regna sovrana nel cuore degli eletti, non può approvare che essi amino contro la volontà di Dio. Ora, ancora una volta, la carità, nel suo amore per la giustizia infinita, non può, senza mentire a se stessa, né volere né permettere alcun movimento affettivo che sia in disaccordo con gli eterni decreti. Dunque, non più di Dio, gli eletti non desiderano la salvezza o la liberazione delle tristi vittime della sua collera. Perciò non possono simpatizzare con le loro disgrazie: perché la compassione, quando è guidata dalla retta ragione, è per sua natura destinata ad alleviare la miseria che la muove, o almeno a desiderare che sia alleviata. Così, infine, la terribile condizione dei reprobi non può mescolare la minima goccia di amarezza alla gioia degli eletti, poiché essi non vogliono esserne allontanati. – Cosa dico? Questo peso dell’ira divina che grava sui peccatori impenitenti sarà motivo di gioia per i giusti; infatti, è scritto che « il giusto si rallegrerà quando vedrà la vendetta » (Sal. LVII, 11): non per durezza di cuore, ma per eccesso di amore; e questo è facile da capire, purché una falsa sensibilità non accechi gli occhi della ragione. Sarebbe crudele rallegrarsi della disgrazia eterna che colpisce i reprobi; quindi, non è in essa che si compiacciono gli amici di un Dio che è misericordia. Ma è amore perfetto di Dio l’amare l’ordine e il trionfo della sua giustizia, e questo è il punto di vista da cui la punizione di coloro che l’hanno ostinatamente sfidata, diviene una materia di gioia per gli eletti (S. Thom., Suppl., q. 94, a. 2 e 2). Così nessuna volontà, per quanto perversa possa essere, può odiare Dio considerato nelle sue infinite amabilità; il che non impedisce che questi lo perseguitino con un odio implacabile, che si ribellino ai suoi comandamenti o che siano schiacciati dalla sua giustizia sotto una maledizione eterna.

4. – Questa, dunque, è la gioia che Dio prepara per coloro che lo amano; o meglio, questa è l’idea più alta che la nostra infermità possa farsene di essa, perché essa appartiene solo a coloro che la gustano, per concepirla nella sua perfezione. Questo è il riposo eterno, dopo il lavoro della prova; quel riposo di cui è scritto: « Resta un altro sabbat per il popolo di Dio. Perché chi è entrato in questo riposo si riposa anche dalle sue opere, come Dio dalle sue » (Ebr. IV. 9, 10). E ancora: « Udii una voce dal cielo che mi diceva: Scrivi: Beati quelli che muoiono nel Signore. D’ora in poi – dice lo Spirito – si riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono.  E Dio asciugherà tutte le loro lacrime; e non ci sarà più la morte, né lutto, né pianto, né dolore, perché il primo stato è finito » (Ap. XIV, 13 – XXI, 4). È questo è il riposo di Dio; non è, come dice Sant’Agostino nel suo linguaggio inimitabile, « un ozio pieno di noia, ma l’ineffabile tranquillità di un’azione riposante e piena di ineffabili godimenti » (Sant’Agostino, ep. 65, ad Januar., n. 16): riposare nell’attualissima, immutabile, amabilissima e inebriante contemplazione di Dio. – Di conseguenza, è anche la pace, la pace di Dio che sorpassa ogni sentimento (Philip. IV, 7), la pace annunciata da Isaia, quando diceva in nome di Dio: « Il mio popolo si siederà nella bellezza della pace, e abiterà nei tabernacoli della confidenza ed in un riposo opulento » (Is. XXXII, 18). E questa pace non sarà una pace incompleta, come quella dell’esilio per i figli di Dio, poiché tutti i movimenti dei cuori, portati sulle ali della stessa carità verso un solo e medesimo fine, uniti in un solo e medesimo centro, non conosceranno più la lotta interiore tra le tendenze che i dissensi e le discordie all’esterno (S. Thom. 2 2, q. 29, a. 1, sqq.). Essa non sarà una pace instabile e malferma, perché la catena dell’amore giubilante che lega tutti gli affetti e tutti i cuori in un unico fascio non potrà mai essere spezzata o allentata. Non sarà una pace bugiarda, perché è essenzialmente « la tranquillità dell’ordine » nella conoscenza e nell’amore. Perciò, « a Gerusalemme loda il Signore; canta al tuo Dio in Sion. Perché egli rafforza le sbarre delle tue porte… e ti ha dato la pace come confine » (Sal. CXLVII, 1-3). Cosa dico? Egli stesso è la tua pace, ed è per questo che questa pace è pure permanente come il trono nell’eternità. – Tuttavia, la pienezza della sazietà che rende la gioia del cielo, non è incompatibile con il desiderio e la sete. Com’è possibile? Non disse forse Gesù Cristo alla Samaritana: « Chiunque beve di quest’acqua (l’acqua del pozzo di Giacobbe) avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che Io gli darò non avrà mai più sete »? (Giovanni IV, 13). Sentiremo mai in cielo il gemito che esce dalla bocca del Salmista: « Come il cervo desidera l’acqua delle fonti, così l’anima mia anela a te, o mio Dio. La mia anima desidera il Dio vivo e forte. Quando apparirò davanti al volto di Dio? » (Ps XLI, 2) E quest’altro lamento: « Dio, Dio mio, ti cerco fin dall’aurora; l’anima mia ha sete di te, la mia carne si consuma per te… finché non veda la tua potenza e la tua gloria nel santuario » (Sal. LXII, 1, 2, 3). Questi sono gli accenti che rivelano la sete dell’esule; una sete tanto più ardente perché è Dio stesso che la suscita nei cuori: poihé, secondo una magnifica espressione di san Gregorio di Nazianzo, « Egli ha sete della nostra sete”. Sitit sitiri. Sospirare di Lui è fargli una grazia » (San Gregorio Nazianzeno, Orat. 40, n. 27, P. Gr. 36, p. 397). In cielo il linguaggio è del tutto diverso e il Profeta reale lo testimonia in mezzo alle sue lacrime: « O Signore – grida – vedrò il tuo volto e sarò soddisfatto quando mi apparirà la tua gloria ». Perché « non avranno più fame né sete » …  coloro che hanno reso candide le loro vesti nel sangue dell’Agnello » (Sal. XVI, 15; Ap. VII, 14, 16). – La sete è della terra, la sete non è del cielo; eppure, i beati avranno sete, poiché bevono avidamente alle sorgenti eterne; avranno fame, poiché mangiano con piacere il pane degli Angeli.  La fame senza fame, la sete senza sete, come spiegare questo enigma? Io distinguo una doppia sete, e ciò che dirò al riguardo deve essere inteso anche per la fame: c’è la sete del cervo che, stanco, ansimante, grondante di sudore, cerca la fontana; e la sete del cervo che, avendola trovata, ne beve a lungo. La prima è la nostra, la sete prodotta in noi dall’ansia dei desideri insoddisfatti; l’altra è la sete degli eletti, la sete degli stessi desideri che possiedono ciò che hanno perseguito. – San Tommaso, affrontando una questione molto vicina alla nostra, fa notare che la parola sete, intesa dei desideri dell’anima, può essere compresa in un duplice significato. In senso proprio, essa esprime non un desiderio qualsiasi, ma il desiderio di un bene che si persegue senza ancora possederlo. Chi non vede che una tale sete non si possa trovare negli eletti di Dio, poiché la visione beata è la piena e completa soddisfazione di tutti i loro desideri? Ma se prendiamo la sete nel senso più ampio della parola, cioè per quell’intensità di affetto che esclude ogni disgusto, ogni noia nel godimento, è negli stessi eletti una sete sempre viva e sempre inestinguibile, perché l’anima non si stancherà mai di contemplare la bellezza suprema e di amare ciò che contempla. Ed è a partire da questa sete che possiamo comprendere le parole della Sapienza nel libro dell’Ecclesiastico (Eccl. XXIV, 25): « Coloro che mi bevono avranno ancora sete » (S. Thom., A. 2. q. 33, a. 3: col, IV, D. 49, q. 3, a. 2). – Trascriviamo ancora su questo tema alcune righe di S. Francesco di Sales. « Il godimento di un bene che soddisfa sempre non appassisce mai, ma si rinnova e fiorisce incessantemente; è sempre amabile, sempre desiderabile… Il bene infinito fa regnare il desiderio nel possesso e il possesso nel desiderio; avendo mezzi per soddisfare il desiderio con la sua santa presenza, e per farlo vivere ogni giorno con la grandezza della sua eccellenza, che alimenta in tutti coloro che lo possiedono, un desiderio che è sempre appagato, ed un appagamento che è sempre desideroso. (Trattato sull’amore di Dio, L. V, c. 3). C’è una grande differenza tra la sete materiale e la sete dei beati, anche se entrambe sono placate alla fonte che desiderano ardentemente. Nell’uno, il passaggio dalla sazietà alla secchezza è molto breve, mentre nell’altro dura per sempre, ravvivato com’è dalla cosa stessa che lo sazia (« Ex prægustatis deliciis amplius in desideriis (amans) exardescit, quod, étsi denturad plenitudinem, nunquam tamen ad satietatem ». Ricard. di S. Vict: de Gradibus charit, c. 2; et fusius, in Cantic, c. 10). Se gli eletti nella loro ubriachezza gridano al Signore: Basta, basta, non è che essi vogliano dire: ritirate la coppa dalle mie labbra, non versate a fiotti la vostra verità nella mia intelligenza e la vostra bontà nel mio cuore; io sono stanco e disgustato. È l’esclamazione estasiata di un’anima che è piena, che trabocca; impotente a ricevere più luce, più amore e più gioie; di un’anima che confessa che, in questa lotta tra Dio che si effonde e la sete che si appaga, la vittoria rimane alla fonte: « vincit fons silientem ». – « Videbimus, amabimus gaudebimus; Vedremo, ameremo, saremo nella gioia »: questa è la vita del cielo per Sant’Agostino, e questa è la vita che abbiamo visto nelle pagine precedenti. Un grande poeta la definisce giustamente, nei suoi canti pieni di profonda teologia: « una luce intellettuale piena d’amore, un amore del vero bene pieno di gioia, una gioia che supera ogni dolcezza » (« Luce intellettuale piena d’amore. / Amor di vero ben pien letizia. / Letizia che trascende ogni dolziore ». Dante, Parad. Cant. XXX, 101-3). – Tale sarà la perfezione finale dei figli di Dio, considerati dal lato dell’anima, cioè la loro perfezione sostanziale, e questo è anche per loro il fine ultimo. Il termine “fine” può essere inteso in due significati correlati. Esso designa sia l’oggetto stesso della tendenza, il principio che lo determina, sia il possesso di questo oggetto. Dal primo punto di vista, tutti gli esseri creati hanno lo stesso fine ultimo, perché tutti sono ordinati verso Dio come loro Bene supremo. Ma, nel secondo senso, il fine ultimo della creatura inferiore è diverso da quello della creatura ragionevole, elevata dalla grazia. Infatti, mentre il primo può raggiungere Dio solo partecipando in modo molto imperfetto alle sue infinite perfezioni, il secondo lo raggiunge, come Lui raggiunge se stesso, attraverso la conoscenza e l’amore. Pertanto, poiché i figli di Dio, giunti al termine della loro vita, godono di Dio in modo così completo, è evidente che essi siano in possesso del loro fine ultimo. È anche evidente che essi hanno la beatitudine; sia che per beatitudine si intenda l’oggetto il cui godimento dà la felicità perfetta, sia che si intenda la felicità stessa.

LA GRAZIA E LA GLORIA (51)

LO SCUDO DELLA FEDE (229)

LO SCUDO DELLA FEDE (229)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (3)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

LA MESSA

Il nome Messa pare un’inflessione della parola latina missio, che significa congedo, commiato, cioè l’atto di licenziare, mandare, mettere in libertà le persone presenti. Si disse Missa per Missio, come si disse oblata per oblatio (oblazione), ascensa per ascensio (ascensione) (Alcuni credono che il nome Messa derivi dall’ebraico missach, col quale nome chiamavano gli Ebrei una volontaria oblazione, che facevano nel tempio in ringraziamento pei frutti della terra, e che poi mangiavano a ricordanza della sofferta schiavitù e della libertà, che Dio loro diede. Questa offerta veniva fatta colla cerimonia di sollevarla in alto, e pare quindi convenga ad esprimere la volontaria offerta del divin Redentore, il quale, dice Isaia (LIII, 7) oblatus est quia ipse voluit.). I Latini diedero questo nome al Sacrifizio, perché, venuta 1’ora dell’offerta si mandavano fuori i catecumeni, i penitenti, gli ossessi, e poi si licenziava tutto il popolo alla fine della funzione. Prima adunque che si facesse l’offerta, il diacono diceva ad alta voce: partano i catecumeni. Questi tosto andavano dal Vescovo a ricevere la benedizione per mezzo dell’imposizione delle mani, e si ritiravano poi con grande umiltà in silenzio. Così facevano anche i penitenti, dicendo il Diacono: partano i penitenti. Si allontanavano pure, quando ne ricevevano l’avviso gli ossessi, perché sembrava non convenisse alla santità dei sacri ministeri la presenza dei posseduti dal demonio, e si temeva forse turbassero il silenzio, ed offendessero con qualche atto sconvenevole il decoro della santa funzione. –  L’esclusione di queste tre sorta di persone fatta  a quel punto con tanta solennità. ben doveva ispirare nel popolo alta idea del tremendo mistero, facendogli intendere, come convenisse portar purità di coscienza per aver parte nel Sacrifizio al dono di Dio, se tanta cura si aveva di allontanare quelli che non si credevano puri abbastanza pet potervi assistere solamente. Anche il congedo che si dà a tutti in fine della celebrazione coll’Ite, Missu est, deve eccitare santi pensieri in cuore dei fedeli. Perché, quando si dice: « andate; la messa è compiuta » ite, Missa est, più che un saluto, ci si fa una raccomandazione di partirci pieni di gratitudine, e di portar con noi la memoria della gran degnazione che Dio ci ha usato, e la mente degli alti misteri tutta occupata. – Questi congedi adunque ripetuti per ben quattro volte dovevano fare grande impressione sull’animo del popolo, e, da ciò, che faceva loro impressione, ci diedero i fedeli il nome al Sacrifizio. Ed essendo questi avvisi di uscire replicati più d’una volta, come abbiam detto, ne venne che il Sacrifizio non solo si chiamava dagli antichi Missa (la Messa), ma Missæ in numero plurale (le Messe)  Quindi Missas facere, (celebrare le Messe); Missarum solemnia, (le solennità delle Messe (Bossuet. Explic. de quelq. difficult. sur les prières de la Messe). – Basti questo del nome; diremo ora che cosa sia il Sacrifizio; e come sia propriamente Sacrifizio la santa Messa. Il Sacrifizio è quell’atto principale di religione, in cui si fa offerta di una cosa esteriore e sensi bile a Dio da un legittimo Sacerdote in modo, che in istato è della sua maniera di esistere, cioè s’immola o si distrugge, o si consuma: e ciò per significare che la creatura ragionevole si getta tutta in mano dli Dio, e gli cade a’ piedi come cosa morta, riconoscendolo della propria vita, come di ogni altra cosa, padrone assoluto e supremo (1(1) Bened. XIV. De Sac. Mis. lib. 2, cap. 16, n. 22). Il quale onore per eccellenza reso a Dio come Principio, sommo Autore e Creatore di tutto, si chiama culto di Latria. Anche coll’umiliarci dinanzi alla sua divina Maestà nell’offerirle il Sacrifizio ci confessiamo peccatori, e perciò indegni della vita, del cui dono abusiamo, e meritevoli della morte, quando Dio mandare la voglia. E, perché non vuole il Signore, che ci diamo da noi stessi la morte, noi, per fare quel che è in nostro potere, gli mettiamo innanzi la vittima, e nel consumarla, per riconoscerlo Creatore, gli confessiamo, che vorremmo pur placare la sua giustizia. Ma che possiamo noi fare, che degno sia di Lui, e atto a soddisfare? Ecco Gesù, che nell’ultima cena, consacrando e dando ai Sacerdoti la facoltà di consacrare il pane, facendolo diventare suo Corpo divino, ed il vino, che si trasmuta nel suo Sangue, e ci preparò, e ci mise in mano tale vittima, che neppure la Divinità non poteva desiderare maggiore. Il Figliuolo di Dio ha provveduto da Dio all’onor del Padre. Benchè realmente nel Corpo sia il Sangue, e nel Sangue sia il Corpo santissimo, perché vive sull’altare impassibile ed immortale come in Cielo; nondimeno sotto la forma del Sacramento, consacrandosi prima il Corpo, poi il Sangue santissimo, si fa un Sacrifizio, commemorativo, che significa, e commemora in mistica immolazione la reale separazione del Corpo e del Sangue fatta sulla croce: e Gesù Cristo sta sotto due simboli, del pane e del vino, che rappresentano detta separazione come in istato di vittima (Catechismo intorno alla Chiesa Catt. del P. Gio. Perrone della Comp. di Gesù.) svenata nel Sacrificio, così appunto come era là sul Calvario, dove il Corpo Santissimo pendeva dissanguato, ed il Sangue era sparso per terra! Racchiudendo poi anche tutto il suo Corpo e tutto il suo Sangue sotto le specie delle più minute particelle, impicciolisce, annichila in certo modo tutto se stesso, nasconde non solo la sua Divinità, ma l’umanità pur anco: e si mette come in istato di insensibilità e come di morte. Vi è dunque in questo Sacrifizio come una morte mistica ineffabile della gran Vittima; e sotto ai nostri sensi Gesù Cristo pare che non esista più, come è veramente sacrificato. In quest’atto solenne, annientandosi dinanzi al Padre, l’adora, lo placa, lo ringrazia, dimanda tutti i favori per gli uomini, offrendogli per essi tutti i suoi meriti. Così Gesù Cristo, eterno Sacerdote nella s. Messa, fa di sé un sacrificio di adorazione, sacrificio di ringraziamento, sacrificio di soddisfazione e sacrificio di propiziazione. Del quale sacrificio il fine è di adorare Dio, rendergli gloria e ringraziarlo; l’espiazione del peccato e la santificazione delle anime ne è il frutto. Ma ci riserbiamo di trattarne nell’atto del sacrificio con maggiore chiarezza. – Vediamo ora come la Chiesa si prepara a compiere questo augusto mistero.

PARTE I

LA PREPARAZIONE

Gesù Cristo è il primo, è principale offerente il Sacerdote Immortale e Vittima Eterna; ma i sacerdoti servono di ministri a Lui, e di offerenti insieme con Lui a nome della Chiesa e di tutti i fedeli (Cone. Trid. sess. XXII, cap. I.); i quali pure offrono il sacrifizio (Inn. III, lib. 5, De Mist. Missæ), formando tutti insieme un popolo santo ed un regale sacerdozio, di cui è Capo Gesù Cristo, ed i sacerdoti sono ministri. La Chiesa perciò prepara con ogni più fina cura le persone che elegge a ministero così santo e tutte le cose che han da servire pel sacrificio; e prepara il popolo, che deve ad esso partecipare, coll’orazione e coll’istruzione (S. Thom. in suppl. q. 58, art. 2). – Quindi poi dividiamo questa parte della preparazione in quattro capi.

CAPO I

Art. I.

PREPARAZIONE AL SACERDOZIO.

Quando il Figliuol di Dio degnossi di assumere la carne dell’uomo, e farsi con essa una sola persona; formossi all’uopo tale una creatura la quale fosse al possibile degna di Dio. E la Vergine Maria, concepita nell’originale interezza, ricolma di tutte le grazie, destinata alla dignità al tutto divina di esser la Madre del Figliuol di Dio, fu come il punto più sublime dell’umana perfezione, in cui non disdegnò discendere Iddio, e in Lei sposare se stesso umana natura (S. Alfonso de’ Liguori. Le glorie di Maria, v. II, dis. I. e seg.). Quindi, appena era nata la Bambina Santissima, o meglio, appena spuntato in terra questo Fiore di paradiso, lo Spirito Santo, che la possedeva, si affrettò di porla al sicuro all’ombra del Santuario: e, prevenendo lei di grazia, e i benedetti suoi genitori Gioachino ed Anna guidando colle sue ispirazioni, fece che Ella si dedicasse bambina al servizio del tempio: onde un minuzzol solo non andasse perduto di quella vita tanto preziosa e tutta di Dio. Ora la santa Chiesa, che ha la missione di rinnovare col Mistero della consacrazione del Corpo e del Sangue di Gesù nella mistica incarnazione il prodigio della verginale maternità di Maria Santissima (Bossuet. Spiegazioni delle diffic. sulla s. Messa.), cerca pur essa con ogni più fina cura di preparare per questo mistero uomini perfetti, per quanto possano essere i figliuoli di Adamo. Perciò, quando le sì presenta un giovinetto di cuore ingenuo e di costumi innocenti, assennato e pio, che dà speranza di riuscita felice, affinché nei pericoli del mondo non trovi uno scoglio la sua innocenza, si affretta di riceverlo nei seminarii; e quivi con amorosa sollecitudine se lo raccoglie in seno, lo alimenta del proprio latte, lo purifica, lo santifica coll’abbondanza delle sue benedizioni, lo informa ad una vita di santità, e gli scolpisce nell’animo le più elette virtù, che lo rendono degno di comparire al cospetto di Dio. La Chiesa insomma di questa preziosa porzione di umanità, che Dio si elegge di santificare per solo suo servizio, fa come un orefice di una massa d’oro (S. Giov. Chrys.: De sacerd., c. 5)) di cui vuol formare un vaso da consacrarsi all’altare. Egli la purifica dall’immonda scoria, l’affina, l’aggrazia di forme le più elette, vi scolpisce intorno intorno col più gentil lavorio ammirabili bassi-rilievi, che ingemma di splendide gioie; e fa che tutto risplenda tersissimo della più vaga luce riflessa, poi lo presenta al pontefice, affinché egli lo consacri all’uso santo. Così la Chiesa prepara il giovine chierico adornandolo di tutte virtù, perché il Vescovo lo assuma allo Sposalizio divino.

Vestizione e Tonsura.

Il gran Sacerdote prima di tutto lo spoglia delle vesti usate dagli altri nomini comunemente, per fargli intendere, che deve svestir l’uomo vecchio come uomo rinato secondo Dio, e distinguersi fra il popolo colla santità (Conc. Trid. Sess. XIV, De Refor. cap. 6, Conc. Herbipol. cap. I, an. 1287, S. Dion. Eccl. Hier cap. 6.) di un più perfetto costume, e così presentarsi al popolo con la veste nuziale (Sist. V in Bulla: Cum sacrosa»nctam.): e quindi lo ricopre della veste talare, lungo paludamento, che spira gravità e compunzione, quasi per porlo al coperto delle lusinghe, e dagli allettamenti del secolo (Sin. Ebroi. anno 1576, Tit. de vita et hon. cler. —- S. Ber. De modo bene vivendi.), e per ricordargli che egli deve essere con Gesù Cristo crocifisso, e morto al mondo e ai suoi piaceri. In segno di volerlo purificare e segregare dalle vanità del tempo presente, gli tonde i capelli, lasciandogli solo una corona intorno alla fronte, che gli ricorda dover essere con Gesù Cristo, come una vittima coronata di spine pel gran sacrificio (Amalarius form. lib. De Eccl. Off. cap. 39, et Petrus Bles. In Job. cap. I.). Dopo di averlo disposto così, lo va preparando con mistiche benedizioni; e, a provargli il merito (Leo ep. 85.), gli affida incombenze via via sempre più importanti, cioè sperimenta nell’esercizio degli ordini per grado ((6) Inn. I, ep. 4. Conc. Trid. sess. XXIII, De Refor.), se possa commettergli la gran funzione più che angelica e al tutto divina. Per questo lo fa passare pei quattro Ordini Minori e pei tre Ordini Maggiori, affine d’innalzarlo all’eccelsa dignità del Sacerdozio.

ORDINI MINORI

L’Ostiario,

Così di fatto, quando il giovane, vestito dell’abito clericale, e tonsurato, si mostrava assiduo alle funzioni, al salmeggiare, alla preghiera, e, colla gravità del contegno, innocenza del costume e santità della vita, si meritava la buona testimonianza del popolo, in mezzo a cui viveva; provava ancora la Chiesa la sua fedeltà nel ministero esterno, affidandogli coll’Ordine dell’Ostiariato le chiavi del luogo santo. Chiamar il popolo all’adunanza, suonar l’organo e le campane a raccolta, vegliare, e far la guardia alle sante porte (Pontif. Rom.), perché nessun interdetto o scomunicato entrare vi possa, mantenere l’ordine e la divisione delle persone di diverso sesso (Bonomns, Stat. Ecc. Vercellensis.), allontanare chi disturbasse il raccoglimento, cacciare chi col mal contegno è colla vita indegna offendesse la santità dei Misteri nel terribile luogo, sono le funzioni dell’Ostiario (Pontif. Rom. Con. Med.), di questo uomo a cui è dato in sorte di stare ogni dì vegliando alle porte della casa del Signore (Prov. 8, 83.). – Nell’essere creati Ostiari i sacerdoti prendono un santo impegno di vegliare al decoro del luogo santo: e s. Girolamo fa un titolo di gloria al suo nipote Nepoziano sacerdote, che vi scopava il pavimento, regolava i banchi, ornava di festoni di verzura le sacre pareti. Ai Sacerdoti il dovere di difendere le chiese, di scacciare i profani che con ribaldo orgoglio in questi poveri tempi pretendono di portar il sacrilegio dinanzi ai tremendi Misteri fin sotto gli occhi di Gesù in Sacramento; e se mai loro si domandasse: e con qual diritto? i Sacerdoti posson rispondere: col diritto che ha un ministro di far rispettare la reggia del suo sovrano, che ha un ambasciatore di difendere l’onore del suo re, col diritto e dovere santo che ha il soldato di versare il sangue per la gloria del suo monarca: e di quale? del Monarca dell’universo.

Il Lettore.

Dopo che il chierico dato avesse a divedere, che gli stesse a cuore il decoro del luogo santo, veniva eletto a leggere al popolo il vecchio Testamento e le lettere dei santi Pontefici; perocché sempre tutte le Chiese si considerarono come una e sola famiglia, il cui capo è Gesù Cristo in cielo, e in terra il sommo Pontefice, che lo rappresenta. Quando il Vicario di Cristo, od altro Vescovo di specchiata dottrina e santità, scriveva qualche lettera ai fedeli delle altre Chiese, la si leggeva ad edificazione comune al popolo raccolto pel sacrifizio. Adunque è ufficio del Lettore confortare e consolare il popolo, colle sante lezioni e spiegare al popolo la dottrina cristiana, massime ai fanciulli (Bononius. Ep. Versellens. statu.): ed è pur consolante vedere ancora nelle Chiese il giovinetto chierico farsi allegro maestro delle più sublimi verità, semplicetto come i fanciulli del popolo, a cui spezza in bricioli il pane. Così il Lettore comincia farla da ministro, in certo qual modo, di Dio col popolo, amministrando ai fedeli le consolazioni che il Signor loro concesse, sia col dono delle sante Scritture, sia col mandare i sacri Pastori a nome suo e trattare i suoi interessi con loro (Amalarits torm.

L’Esorcista.

Data prova di diligenza, veniva il Lettore fatto Esorcista, e riceveva l’autorità di cacciare in nome di Gesù Cristo i demoni di corpo ai fedeli, quando mai ne fossero. posseduti; e così è ufficio dell’ Esorcista preparare gli oggetti per le benedizioni, e di invocare il nome di Gesù Cristo sopra i Catecumeni, preparare i fedeli ad assistere al santo Sacrificio (Pontif. Rom. Bononius etc.). Cacciare i demoni!….. Ma ancora queste anticaglie! diranno certi spregiudicati dei nostri dì: è già molto se noi ammettiamo gl’indemoniati dell’Evangelio…. ma tutte l’altre storie poi d’invasioni di spiriti, di negromanzia, le sono invenzioni di mariuoleria, o di superstiziosa ignoranza! Quasi l’universo di uomini onesti e dotti non ne abbia avuto mai, se non era quest’abbondanza dei tempi nostri beati! Ed intanto beffarsi degli esorcismi: e noi rispondiamo: Era qualche tempo che i demonii, almeno in Europa, evitavano di attirarsi l’attenzione degli uomini: lasciavano fare le loro parti alla filosofia materialistica, contenti, che facendo essa dimenticare gli spiriti, si dimenticasse pur Dio. Ma la Chiesa tenne sempre d’occhio il nemico, che fingeva il dormiglione: lasciava ridere gl’increduli, e continuava a creare gli Esorcisti all’uopo di combattere i diavoli, se ricomparissero. Ora ecco l’anno 1846. Le damigelle Fox di Rochester senton dei colpi nella camera: vi rispondono esse, e presto si mettono in comunicazione cogli spiriti battitori!… Accorrono curiosi; ripetono le prove, e si mettono abitualmente a conversare con esseri invisibili. La moda passa dall’America in Germania, in Francia, in Italia. Ovunque si vedono sotto le mani muoversi le tavole, risponder coi loro movimenti alle domande, alla volontà di chi si mette in comunicazione. La fisica si sforzava di spiegare come si movessero le tavole; quand’ecco, e tavole e mobili, quasi in sussulto, far ridda e spiegare nuove virtù: dare risposte precise a chi li interroga; scrivere colle matite lettere, e dire cose da diavoli, e far disegni; poi rivelare i più reconditi secreti; finalmente predicare dottrine filosofiche, affettare moderazione, anzi apparenza fino di pietà, poi smascherati, lasciarsi conoscere per istigatori a laide empietà!… Noi non possiamo tenere dietro alle fasi di questa diabolica invasione moderna: rimandiamo i lettori ai belli e dotti articoli della Civiltà Cattolica; ed a chi ridesse della nostra bonarietà, rispondiamo, che noi, credendo, che tutto quello che esiste non è solo materia, ben abbiamo la semplicità di credere che sieno gli spiriti, che invasano i mobili, che fan riddone, piuttosto che credere, che le tavole e gli altri mobili sieno capaci a scrivere e ragionare, e far di filosofi. Noi sappiamo che abbiamo la guerra coi mali spiriti e benediciamo la Chiesa, che ci fa potenti con due parole — Gesù e Maria! — con una gocciola di acqua santa, e con un far di croce colla mano da Lei benedetta nell’Ordine dell’Esorcismo (Vedi l’opera del Mervilie e i belli articoli della Civiltà Cattolica sullo spiritismo.).

L’Accolito.

Quest’uomo, che è già da tanto da comandare ai demonii (Pontif. Rom. ed una operetta popolare del P. Delaporte, il diavolo etc.), è poi fatto Accolito, la qual parola suona seguace, perché la fa da fante, e procede innanzi ai ministri del Signore coll’incensiere ardente, aprendo la folla dei fedeli adunati, o tien loro appresso in atto di servitù. Portano pure gli Accoliti in mano i lumi accesi pel Santo Sacrificio, quando specialmente si legge il Vangelo; preparano nelle chiese gli altari, illuminano il luogo santo, accendono le candele intorno alla croce. Ufficio dell’Accolito è pure assistere al Diacono e Suddiacono, che ministrano al Sacerdote, preparar gli orciuoli sulla credenza fare insomma da inserviente appresso ai santi ministri, stando al fianco loro sempre pronto ad ogni cenno (Pontif. Rom. S. Isid. lib. 10. Conc. Acquisgr., c. 5. Ivo Carnot.

De Excell. Sacr. Ord.). Diremo tutto col dire che i chierici hanno da fareda angioli intorno all’altare di Dio Santissimo… È pur felice la loro sorte di dovere continuamente aggirarsi nel Luogo Santo, dove abita Dio personalmente! Anche i popoli, quando vedono l’ecclesiastico tutto nel Santuario occupato, dicono « il benedetto! ei fa con Gesù anche le nostre parti; egli prega, piange, ama il Signore, se ne piglia cura anche per noi, che andiamo distratti in tante cure di mondo. »

ORDINI MAGGIORI.

Il Suddiacono.

Questo giovane, che trova le delizie intorno all’altar del Signore, che lo adorna ne’ giorni di Solennità come sposa nel di delle nozze, e che ama il decoro della casa di Dio, viene promosso all’ordine del Suddiacono. Al Suddiacono si affidano i vasi sacri da custodire e preparare per la tremenda azione. Le mani, che devono toccare quei vasi consacrati dal Corpo e dal Sangue di Gesù Cristo, devono essere pure e mondissime (Isai. LII, 11); perciò la Chiesa vuole, che, per salire a questo grado si faccia rinunzio alle nozze terrene (Siriacus Pont. Decr. 11 febb. 385, s. Isid. lib. 2, cap. 10, De Offic. Eccles. apud Conc. Acquisgr. cap. 6.), pensando che le cose sante, cioè tutte riserbate e consacrate al servizio di Dio, devono essere trattate da persone che siano sante. A questo giovine adunque, che ha rinunciato alle misere delizie della vita mondana, che non vuole aver altro amore che pel Signore, e nella casa del Dio vivente trova lo sposo Divino della vergine anima sua, la Chiesa crede di poter affidare tutto il suo gran tesoro, cioè quanto ha di più caro, a lei donato dall’amor di Dio, il Corpo stesso di Gesù Cristo nel SS. Sacramento, ed il libro del santo Evangelo, creandolo Diacono.

Il Diacono.

Il Diacono quindi ha l’officio di amministrare davvicino al Sacerdote offerente, distribuire il SS. corpo di Gesù Cristo secondo il comando del Sacerdote, ed amministrare il Santo Battesimo, come pure di leggere al popolo il Santo Vangelo (41). Di più a questo ministro di Dio, a cui è affidato il Corpo reale di Gesù Cristo, la Chiesa affida la cura anche del Corpo mistico, che è il popolo fedele; ed in modo particolare a lui raccomanda le membra, di cui più vivamente piglia cura, le vedove cioè i pupilli, i poveri, i bisognosi tutti (Pontif. Rom. S, Isid. lib. 2, offic. cap. 8.). Santa ordinazione! Qui ben traspira la carità di Gesù Cristo che è l’anima, che vivifica la sua sposa; e ci fa intendere, che Gesù Cristo riceve come fatto il suo Santissimo Corpo, ciò che sì fa ai fedeli, sue membra, e specialmente quando esse sono con Lui crocefisse nei patimenti. Si! Chi si stringe sul cuore il Corpo di Gesù Cristo, e professa di crederlo capo dell’umana famiglia raccolta nella Chiesa, non può a meno di abbracciare nella sua carità tutte le sue mistiche membra di quel caro Corpo Divino, e di raccoglierle disperse in sulla terra, e portarle a Lui in seno in Paradiso. Bello spettacolo dovette offrire al mondo pagano il santo Diacono della Chiesa Romana, Lorenzo martire! Distribuito il tesoro della carità della Chiesa ai poverelli, era venuto in voce d’uomo, che possedesse di molte ricchezze. Citato dal prefetto, ed ordinatogli di consegnare i suoi tesori, « farò, diss’egli, se tu mi dai tempo fino a domani. » Venuta la dimane, conduce innanzi tutti i poveri dalla Chiesa soccorsi e « vedi, dice, è tesori sono questi sì veramente, e sono l’oggetto della più tenera cura dell’amiministrazione della carità alle mie mani affidata! » Qual desolante spettacolo invece il secolo nostro presenta! In una certa nazione, che vantasi di essere la più progredita in civiltà, distaccatasi dalla comune madre, la Chiesa Cattolica, umanizzato il Cristianesimo, perduta la fede del Corpo di Gesù Cristo, andò pure in dileguo la tenera carità, che ama nel prossimo la persona di Gesù Cristo. Così spento il sacro fuoco del Sacrifizio, restò spenta la carità evangelica. La legge umana impose la legale carità; ma la morta parola dell’uomo può mai infondere la vita? Ecco ora nella più florida e nella più grande città d’Europa, ricca dell’oro di mezzo il mondo, molte migliaia di esseri umani infelicissimi intristiscono nella crudele miseria d’ogni più necessario bene, sino a non aver tanto d’acqua da rinfrescarsi nell’ardor della sete. Così mentre in Roma la Chiesa appena nascente, cerca a morte nelle catacombe, dove si nascondeva, mostrava nei poverelli, che si sosteneva in braccio, il suo caro tesoro, e si preparava a trasmutare solo in Italia 49 milioni di schiavi in popoli novelli; Londra mostra spaventata milioni di poveri, che minacciano la distruzione della società, se non accorre la Chiesa a sanare colla carità di Gesù Cristo la paurosa piaga del pauperismo, che diventa ognor più minacciante. Ma buon per l’Inghilterra, che stende le braccia, affinché la Chiesa a lei porti Gesù Salvatore in Sacramento, e con Lui il fuoco della carità nel Sacrifizio.

Il Sacerdote.

Finalmente ecco il gran giorno dell’assunzione al Sacerdozio. La consacrazione d’un Sacerdote è tale un atto, che importa a tutta la Chiesa. Ieri quegli era un uomo privato, domani sarà principe nella Casa del Signore; ieri ascoltava in silenzio la parola divina, domani ha egli il diritto di ammaestrare il popolo in nome di Dio. Se quest’uomo compie la sua missione bene sta; è l’uomo delle benedizioni, è il ministro delle grazie più elette; se la tradisce, oh Dio! diventa uno dei più terribili flagelli, con cui Dio possa nel suo sdegno castigare un popolo, che lo ha provocato! Perciò la Chiesa ha già ordinati digiuni e preghiere, e proclamata la prossima elezione; il popolo fu già consultato: dica in coscienza innanzi a Dio, se ha niente da opporre a questo uomo già da tanto tempo approvato (Pontif. Rom. Cone. Trid. sess. XIV, cap. v, sess. XXIII, c.I ecc.), affinché salga alla suprema dignità, che lo costituisce una cosa sola coll’immortal Sacerdote, Gesù Cristo, e sia destinato a rappresentarlo in terra, fatto mediatore tra Dio e gli \uomini, ministro del perdono divino, coll autorità di sacrificare il Corpo del Figliuolo di Dio medesimo, divenuto in certo qual modo corpo suo, come lo sacrificò Gesù Cristo sul Calvario. Ora ecco in qual mode compie la Chiesa la grande consacrazione del Ministro del santo altare. Il Vescovo raccoglie il consesso dei suoi consiglieri: piglia, diremo così, pei capelli questo cadavere ribelle del corpo dell’uomo; lo getta per terra sul pavimento della santa basilica. Poi insieme coi Seniori impone sul capo di quell’umiliato le sacramentali mani, invocando sopra di lui la pienezza dello Spirito Santo, mentre tutto il popolo prega inginocchio per terra. Gli unge le mani, e lo segna di croci col sacro Crisma; lo copre di una veste pure crocesignata e benedetta, e gli dà in mano coi vasi santi il pane ed il vino già preparato, lo consacra Sacerdote di Gesù Cristo colla podestà sua divina di chiudere e di aprire il Cielo, poi lo rialza da terra, e lo conduce per mano sull’Altare del Dio vivente ad offrirgli seco il gran Sacrificio, che redime, e salva il mondo (Conc. Trid. sess. XXIII, cap. II, sess. XXII, cap. I, II.). – Da quella sublime altezza egli alzerà le palme santificate al Cielo, ed il Cielo manderà giù ad una parola il perdono di Dio (Conc. Trid. sess. IV, cap. 6, can 3, Joan. 30, Mat. 16.); stenderà la mano sui fedeli, ed i fedeli saranno ricolmi di benedizione. Parlerà a nome di Dio, e dalla sua bocca spirerà il Verbo divino colla virtù dello Spirito Santo. Offrirà il Sacrificio, e si riconcilierà il Cielo colla terra. Queste verità che rivela la Chiesa intorno ai suoi Sacerdoti, noi confessiamo, che sono verità nascoste, e preziose pei soli credenti; ma elle sono corredate da tanti argomenti esterni e confermate da tante prove di fatto, che mostrano ad evidenza la verità della grazia invisibile di Dio nel Sacerdozio Cattolico. Conchiuderemo qui: la sacra Ordinazione piglia su l’uomo gettato per terra, lo risuscita purificato, lo compenetra della gloria del Tabor, lo fa strumento della sua misericordia, una santa gloria di Dio. Si osa dire sovente: vorremmo vedere un miracolo! Ebbene; eccolo qui un miracolo di tutti i dì, che dura da milleottocento anni: il Sacramento dell’ordine con due gocce di Olio Santo crea Sacerdoti, uomini di tanta unzione e carità, che la filosofia, le accademie, il progresso civile non possono imitare a pezza. Si legga quello che diciamo sulla fine di questa Parte, (Art. Missione) dove lo proviamo coll’evidenza del fatti, che valgono tutte ragioni.

La preparazione immediata.

Ecco finalmente il Sacerdote, che si accinge al Sacrifizio. Allo spuntare del sole, quando la natura si risveglia a vita novella, e rende immagine di quel mattino del mondo, in cui l’uomo innocente viveva lieta la vita sulla terra non ancora contaminata dal male: con una mente vergine di pensieri mondani, tutto elevata a Dio, egli entra nel

Santuario, si prostra a piè dell’Altare. Quivi, come Mosè prima di avvicinarsi al roveto, in cui Dio era disceso, si trasse la calzatura, ed a piè nudi si avvicinò tremando, così il Sacerdote s’umilia, piange, conferisce colla propria coscienza, e con Dio, a Lui espone con umiltà le cagioni che ha di temere d’avvicinarsi all’Altare, e portargli sotto lo sguardo santissimo le piaghe di un uom peccatore; a queste oppone le ragioni di conforto che trae dalla misericordia, dai meriti di Lui, cui vorrebbe offrire; esita, e prega, finché risolve di darla vinta alla bontà di Dio, e per questo titolo calma i terrori

di una coscienza, che, non fosse pure conscia di peccato, si sente sempre indegna d’avvicinarsi a Dio. Supplica Maria SS. d’accompagnarlo; invoca gli Angeli di confortarlo nel suo terrore, e va a lavarsi le mani per dar segno del desiderio di purificare il corpo ed il cuore da ogni resto di umana miseria, per accingersi con tutta mondezza alla grande funzione (S. Thom.3, p. 4, q. 3, Ben. XIV. Rubrica Miss. præpar. Ad Missam).

LA GRAZIA E LA GLORIA (49)

LA GRAZIA E LA GLORIA (49)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO VII

Sull’amore beatifico. – Il suo oggetto principale, i suoi oggetti secondari e l’ordine tra questi diversi oggetti d’amore.

1. Qual sarà l’oggetto del nostro amore beatifico? Dio amato innanzitutto per se stesso, Dio come oggetto principale; e, come oggetti secondari, le creature di Dio, amate in Dio e per Dio. Ricordiamo quanto abbiamo detto a proposito della visione beata; come, da diversi punti di vista, Dio sia e non sia l’unico oggetto. Non è l’unico oggetto, poiché gli eletti vedono con Lui delle innumerevoli moltitudini di esseri creati, ciascuno secondo la misura della sua grazia e dei suoi meriti. Egli ne è l’unico oggetto, perché è in Lui che si contemplano questi esseri creati, tanto che, se c’è una pluralità di oggetti materiali, non c’è che un unico oggetto formale. Lo stesso vale per l’amore beatifico. Non è solo Dio ad esserne l’oggetto: perché questo amore deborda sulle creature di Dio; e tuttavia, d’altra parte, non ha altro oggetto che Dio, perché la virtù della carità non ama che per Dio ed in Dio gli esseri creati, distinti da Dio. Certamente, né il mio Salvatore nella sua amabilissima umanità, né la sua divina Madre, né i Santi del cielo, i compagni ed i fratelli di Gesù, saranno estranei all’amore beatifico; ma per raggiungerli, questo amore deve passare attraverso Dio, poiché esso è modellato sull’amore che Dio stesso ha per loro, e Dio li ama solo per se stesso, cioè perché Egli si ama in loro come nelle sue immagini. – Cerchiamo di rendere più sensibili queste verità con un esempio tratto dalle nostre Sacre Lettere. Si narra che il giovane Tobi, giunto sotto la guida dell’Arcangelo a casa di Raguele,  quest’ultimo fosse estremamente colpito dalla somiglianza che egli aveva con Tobia, suo parente. Così quando seppe che i due viaggiatori erano della tribù di Neftali, chiese loro con impazienza: Conoscete mio fratello Tobia? Lo conosciamo – disse Raffaele – e questo giovane è suo figlio. Poi, aggiunge il testo sacro, Raguele si precipitò da lui e lo baciò con le lacrime; e piangendo sul suo collo, disse: Che Dio ti benedica, figlio mio, perché hai per padre un uomo eccellentemente buono e virtuoso (Tob. VII, 1, ss.). Da dove viene questo slancio di tenerezza ed amore per Tobia in Raguele? Non per le qualità personali che egli vedeva in lui, poiché non lo conosceva ancora; ma solo per il profondo affetto che nutriva per il padre, al quale questo figlio assomigliava così tanto. Sia tu Benedetto, egli dice. E perché benedetto? Perché sei il figlio del mio fratello molto amato e virtuoso. Questo è ciò che fa la carità: ama Dio nella creatura e la creatura in Dio; cioè ama Dio solo per amore di se stesso e la creatura per amore di Lui (San Francesco di Sales, Trattato dell’amore di Dio, L. X, c. 11). « Così – dice ancora San Tommaso d’Aquino – la carità ama Dio per di Dio, e le creature ragionevoli in quanto si rapportano a Dio; talmente che è Dio stesso che essa ama nel prossimo; infatti, amare questi con carità significa amarlo o perché Dio è in lui, o perché Dio sia in lui: sic enim proximus caritate diligitur, quia in eo est Deus, vel ut in eo sit Deus » (S Thom.., de Carit, q. un., a. 5), – Questo è, per dirla in breve, ciò che ci spiega come, anche quaggiù, una stessa abitudine alla virtù ci faccia amare Dio ed il prossimo, essendo l’oggetto formale che motiva i suoi atti sempre e ovunque la bontà divina. – Ci sono bellissime riflessioni su questo tema in San Francesco di Sales. Esortando i Cristiani « a ridurre tutta la pratica delle virtù e delle nostre azioni al santo amore », presenta loro come modelli i beati abitanti della patria. « Infatti egli dice – gli Angeli e i Santi del cielo non hanno altro fine che l’amore per la bontà divina ed il desiderio di piacergli. Si amano tra loro molto ardentemente; essi amano anche noi, amano le virtù, ma solo per piacere a Dio… Essi amano la loro felicità, non in tanto che sia ad essi, ma nella misura in cui piace a Dio. O anche amano l’amore di cui amano Dio, non perché sia in loro, ma perché tende a Dio; non perché sia dolce per loro, ma perché piace a Dio; non perché lo abbiano e lo possiedano, ma perché Dio lo comanda e se ne compiace. »  (S. Franc. De Sales, Trattato sull’amore di Dio, L., XI, c. 13). È così che l’amore di Dio negli eletti può estendersi senza essere diviso, abbracciando la molteplicità dei suoi oggetti nell’unità della stessa virtù, dello stesso motivo e di uno stesso atto. – Cosa, questa, che non significa che tali beati rimangano indifferenti sia alla propria perfezione o a quella dei loro fratelli. Come potrebbero esserlo, visto che Dio, che dà loro questa santità, vuole che la cerchino e che ne gioiscano? Non pensate che la purezza dell’amore richieda di essere insensibili ai propri interessi. Che dunque? La mia carità si appannerebbe se la usassi per amare me stesso come io sono amato da Dio? Ora Dio, ancorché mi amasse solo per se stesso, vuole comunque per me il mio interesse; cosa dico? È l’unico che Egli cerca, quando mi ama e mi attira nel suo amore. Quale profitto potrebbe trovare per sé nel fatto che noi lo conosciamo e lo amiamo? Lo renderebbe questo più santo, più perfetto, più potente o più felice? No: tutti i benefici sono per noi. E questo spiega come solo Lui sia assolutamente liberale; perché, qualsiasi cosa faccia, la fa con infinito disinteresse. Senza dubbio Egli cerca la sua gloria: ma per il nostro bene e non per il suo (« Deus suam gloriam non quærit propter se, sed propter nos »). « Non è per sua utilità che Egli agisce fuori da sé stesso, ma per la sua bontà » (S. Thom. 2, 2. q. 132, a. 1) … che chiede di espandersi in benefici.  –  Io posso quindi gioire della mia beatitudine a condizione, se voglio essere un perfetto imitatore del mio Dio, di amarlo nel suo primo principio e perché ne è la gloria. Il mio amore non risale dal ruscello alla sorgente, ma discende; infatti, amo gli effetti, perché vedo in essi l’immagine della causa. Sarebbe troppo strano, in verità, se l’amore di Dio mi vietasse di amare ciò che mi avvicina a Lui, ciò che mi unisce a Lui, ciò che mi rende suo amico, suo figlio; in una parola, ciò senza il quale non potrei corrispondere con un amore eterno all’amore con cui Lui stesso mi ha prevenuto. È in questo modo che l’amore della bontà infinita si estende fino all’amore e di me stesso e di coloro che, come me, sono chiamati a portare la sua immagine in loro. In fondo, come abbiamo già insinuato, questo amore ha un solo oggetto: infatti, pur abbracciando un numero infinito di creature diverse da Dio, le ama in Dio e per Dio (« Proximus non diligitur nisi ratione Dei: unde ambo sunt unum dilectionis, formaliter loquendo, licet materialiter sint duo » – S. Tommaso, q. un., a. 5, ad 1). Così la visione beatifica è unica nel suo atto, perché tutto ciò che essa contempla con Dio, lo contempla in Lui, nella sua luce infinita.

2. – Resta da dire qual sarà per gli eletti di Dio l’ordine che debbano mettere tra i diversi oggetti del loro amore. Ora, per rendere più precisa la questione, richiamiamo innanzitutto l’attenzione sul fatto che qui si tratta solo dell’amore che riguarda le persone, cioè gli esseri ragionevoli, gli unici in grado di essere amati con amicizia. Aggiungiamo che stiamo considerando l’ordine della carità come sarà nella città benedetta, quando tutte le incertezze e le necessità che possono modificarla nella vita presente saranno svanite. Certamente, Dio sarà sempre il primo ad essere amato, perché Egli è e sarà sempre il nostro Bene sovrano, il Bene la cui partecipazione comune è la ragione della società che gli abitanti della Gerusalemme celeste hanno tra loro. Ma amano essi ugualmente ciascuno dei loro compagni di gloria presso Dio, o dobbiamo ammettere una certa diversità nell’amore che portano loro? – I moralisti, il cui scopo è quello di renderci consapevoli della natura e della portata dei nostri doveri, hanno discusso a lungo l’ordine della carità divina, e San Tommaso in particolare ha dedicato una delle sue più belle Questioni alla soluzione dei problemi che essa solleva (S. Thom. 2 2, q. 26). Noi non dobbiamo riferire le conclusioni dottrinali alle quali li ha condotti il loro studio, e tanto meno il ragionamento con cui vi si è giunti: perché la carità di cui si occupano è una carità in via, mentre noi la prendiamo al termine. – Diciamo però qual sia il principio da cui partono e che serve loro come faro per raggiungere con maggiore sicurezza le soluzioni desiderate. È che il grado di amore ha, per così dire, una duplice misura: da un lato, l’eccellenza della persona amata o, ciò che equivale alla stessa cosa, la sua unione più o meno perfetta con Dio, la Bontà sovrana; e dall’altra parte, i legami più o meno stretti che legano questa stessa persona a colui che l’ama, dovendo ogni atto essere proporzionato non solo all’oggetto che lo specifica, ma anche al principio che lo stabilisce. – Nulla è più evidente della prima parte di questa regola; infatti, se il motivo per cui amo il mio prossimo non è altro che la bontà di Dio, quanto più il prossimo partecipa a questa bontà, tanto più è degno del mio amore. La seconda non è da meno; non ne voglio altra prova che il precetto stesso della carità che mi ordina di amare il mio prossimo come me stesso. Che cos’è, infatti, il prossimo se non colui che ne è vicino? Pertanto, più una creatura di Dio si avvicina a noi, più è una cosa sola con noi, più acquisisce titoli più pressanti al nostro amore. Sarà dell’affezione che brucia il cuore, come il calore di un focolaio: più ne siamo vicini, più si sente la sua influenza. La conseguenza è che, come regola generale, io posso ed anzi devo adoperarmi tanto più attivamente nel procurare il bene dei miei fratelli in Gesù Cristo, quanto più intimamente essi siano uniti a me, sia nell’ordine della natura, sia nell’ordine della grazia. – E non solo poco, in virtù di questa più singolare intimità, ma io posso desiderare più intensamente per questi che per gli altri il bene che desidero universalmente per tutti; ma, finché Dio mi lascia ancora nell’ignoranza di quale degli attuali oggetti della mia carità sarà definitivamente più simile a Lui; finché li vedo in uno stato di movimento, dove i più imperfetti possono crescere e altri più perfetti diminuire, nulla mi impedisce di desiderare una preminenza di merito e di gloria a chi mi è più particolarmente unito (« Possumus etiam ex charitate velle quod iste qui est mihi conjunctus, sit melior alio, et sic ad meliorem beatitudinem pervenire possit ». – S. Thom, 2 2, q. 26, a. 7). – Tale è, secondo il principio fondamentale, l’ordine della carità nel tempo. Ma nella beata eternità quest’ordine, pur rimanendo lo stesso nella sostanza, subirà delle modifiche in base ai cambiamenti operati nello stato delle persone. Non potrò più desiderare per ciascuno degli eletti un altro bene, o un’altra felicità, se non quella che è immutabilmente determinata per loro dalla giustizia sovrana. Né potrò essere più zelante per gli interessi di coloro che mi erano più vicini, poiché essi possiedono, senza che nulla possa accrescerli o toglierli, tutta la perfezione a cui è possibile aspirare. In cielo, quindi, l’amore beatifico della carità avrà una sola regola e una sola misura: quella imposta dalla relativa vicinanza degli eletti a Dio. Così il movimento del nostro amore sarà in tutto e per tutto conforme a quello di Dio; poiché lo amiamo sopra ogni cosa; ameremo in Lui e per Lui i nostri compagni di gloria secondo il modo in cui Egli stesso li ama, cioè secondo che essi portino più o meno gloriosi i tratti della divina bellezza (S. Thom., 2 2, q. 26, a. 13, col. a. 6-9.). – Ciascuno degli eletti, come immerso nell’oceano di infinita bontà che lo attrae, considererà che quelli tra i suoi fratelli sono tanto più strettamente uniti a lui, quanto che Dio stesso si è identificato più perfettamente, essendo il centro comune di ogni unione (« Totus ordo dilectionis observabitur per ordinem ad Deum, ut scilicet ille magis diligatur et propinquior sibi habeatur ab unoquoque, qui est Deo propinquior », S. Thom, l. c.). – Se dunque vogliamo delineare, almeno in poche parole, questa celeste gerarchia della carità, diciamo innanzitutto che prima di tutte le creature dobbiamo amare con tutta l’anima Gesù, il Dio fatto uomo: Egli è il Figlio prediletto di Dio, l’oggetto più caro e perfetto della sua infinita compiacenza. Dopo Gesù, ameremo Maria, Madre divina sua e nostra, poiché è, incomparabilmente più di ogni pura creatura, l’immagine privilegiata di Dio, lo specchio radioso in cui Dio si dipinge con uno splendore che nulla supera, se non la gloria del Verbo incarnato. Quando ricordiamo ciò che è stato il Beato Giuseppe e gli omaggi che gli sono stati tributati dalla Santa Chiesa, non sembra avventato credere che egli avrà il terzo posto d’elezione nei nostri cuori. E poi ameremo quelle innumerevoli legioni di Angeli fedeli, e quelle forse non meno innumerevoli legioni di Santi che risplendono nel firmamento del cielo; e ameremo ciascuno nel proprio ordine in proporzione alla gloria e alla santità che lo uniscono a Dio. E questo amore non sarà la carità generale con cui ora abbracciamo la maggior parte delle creature ragionevoli, impotenti come siamo ad amarle tutte individualmente, ma una carità particolare che sarà diretta verso ciascuno degli eletti, perché ognuno di loro sarà presente a noi attraverso una conoscenza chiara e sempre attuale, con i titoli che lo rendono amabile. – Ameremo e saremo amati noi stessi: amati dal cuore di Dio, amati dal cuore di Gesù e di Maria, amati da tutte quelle migliaia di cuori così puri, così grandi, così nobili; amati in Dio e per Dio, quanto Dio stesso è amante e amato, cioè finché è Dio. Ahimè, in questo mondo la carità per gli uomini è così raramente amicizia! Quanti sono coloro che amiamo con carità che, indifferenti a Dio, ed anche suoi nemici, sono indifferenti anche ai figli adottivi e agli amici di Dio! In cielo c’è un’amicizia perfetta, perché tutti gli eletti, sotto lo sguardo e nel seno del loro Padre comune, vivono la stessa vita, partecipano agli stessi beni, siedono alla stessa mensa e sono inebriati dallo stesso flusso di ineffabili delizie; e da tanti cuori non si fa che un solo cuore, e da tanto amore, un solo amore. Cosa serve ancora per il regno totale e completo dell’amicizia? – Ma a me sembra di intendere un’obiezione che occorre risolvere. Se nella patria celeste l’ordine della santità regola in modo assoluto quello dell’amore, allora un padre, una madre, i figli, gli sposi, in una parola, tutti coloro i cui cuori sono stati uniti quaggiù dalla natura e da altre cause legittime, e le cui anime sono state confuse, non si ameranno più in modo speciale, e tanti legami, così dolci e così forti, che li tenevano uniti, saranno eternamente allentati o spezzati. Dio non voglia che la nostra dottrina porti ad una simile conclusione! Infatti, finora abbiamo parlato solo dell’amore beatifico della carità; di quell’amore che, avendo Dio come oggetto formale, abbraccia con Lui nell’unità di un unico atto tutti coloro che Egli ha resi partecipi della sua infinita bontà. Ma non più della grazia, la gloria che è la sua consumazione, distrugge la natura. E come potrebbe distruggere la natura, visto che la presuppone? Cosa accadrebbe alla luce della gloria o alla carità soprannaturale se non ci fossero l’intelligenza e la volontà dell’uomo, due facoltà che emanano dalla natura umana, per essere il loro necessario supporto? – Pertanto, ciò che la grazia e più completamente la gloria escludono non è la natura, ma il difetto della natura, lo squilibrio delle sue tendenze, la sua ignoranza e le sue debolezze. Ora, gli affetti speciali che legano i membri di una stessa famiglia, o quelli che nascono dalla comunità di vedute, di aspirazioni e di vita, pur provenendo dalla natura, possono esistere senza disordine. In origine scendono dal cielo e, a condizione che evitino le contaminazioni della terra o se ne purifichino, possono ritornarvi, più dolci, più vivaci e più duraturi di quanto non siano mai stati nell’esilio: la santa e gloriosa carità, mantenendoli nella regola, li approva, li incoraggia e dà loro vita. È quanto ho appreso dal Dottore Angelico quando insegna che « nella patria celeste ameremo in modo maggiore coloro che ora sono più intimamente uniti a noi: perché le oneste cause della reciproca dilezione non cesseranno di esercitare la loro influenza sulle anime dei beati » (S. Thom. 2 2, q. 26, a, 12). – Non cediamo però ad un rozzo grossolano sentimentalismo e non mettiamo al primo posto affetti e simpatie che, per loro natura, non hanno diritto che all’ultimo. Per questo il santo Dottore ci avverte nello stesso testo che « il motivo di amare che derivi dalla vicinanza a Dio supera incomparabilmente (encomparabiliter) tutti gli altri motivi possibili ». Il beato che sale al cielo vi troverà sua madre e sentirà il cuore del figlio sussultare d’amore per lei: questa è la legge della natura giusta che non potrebbe violare senza dispiacere all’Autore della natura. Ma per quanto grande possa essere la sua naturale tenerezza per la madre, sarà sempre inferiore all’amore di carità che egli porta per la santa. –  È dunque dell’amore come della conoscenza. Abbiamo notato negli eletti di Dio, al di fuori della visione finale, un ordine inferiore di percezioni che ricevono dalla sua influenza una certezza, una vivacità la cui intensità ci sfugge. Così in cielo troveremo, oltre all’amore che nasce dalla carità, affetti meno elevati che la carità perfeziona e preserva da ogni deviazione. Confrontando le une con le altre, direi volentieri che queste conoscenze e questi molteplici affetti sono più dell’uomo, mentre l’amore e la visione beatifica sono eccellentemente da Dio. –  Questa, dunque, è la santa e sublime unione nell’amore eterno che fa la Chiesa del cielo! Dio che ama se stesso infinitamente, e di questo amore che va con un movimento eternamente immutabile dal Padre al Figlio e da entrambi allo Spirito Santo, abbracciando ogni creatura divinizzata mediante la grazia e la gloria. E queste creature, trasportate da un simile movimento d’amore, amano Dio con tutta la forza del loro essere, e in Dio e per Dio amano se stesse e tutto ciò che Egli ama e nell’ordine che Egli ama. Ecco qua – io dico – il “fiume impetuoso” che rende lieta la città di Dio (Sal. XLV, 5).  È un fiume, perché ha una sorgente da cui sgorga e si riversa: il cuore del Padre, un fiume impetuoso: nulla lo ferma, perché Dio stesso non può, senza annientarsi, impedirgli di riversarsi dal Padre al Figlio, e dal Figlio sullo Spirito Santo, nel quale è eternamente personificato; impetuoso ancora, poiché è giunto fino a noi, per riempirci, rompendo tutti gli ostacoli opposti dall’inferno e dalle nostre passioni al suo libero corso. E questo fiume rallegra la città di Dio, come ci resta da spiegare in modo più dettagliato.

LA GRAZIA E LA GLORIA (50)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (11)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (11)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO IV

LA VITA DELL’UOMO IN SE STESSO

.1. – Perfezione.

Qualche cosa è stato detto nei capitoli precedenti sull’ideale cattolico e sui mezzi che i fedeli hanno a disposizione per raggiungerlo. Ammettiamo francamente che non è un ideale di questo mondo, sebbene non per ciò contrasti con nessuno dei più nobili ideali umani: i più grandi Santi, compresi rettamente, sono i più grandi eroi e, per la reciproca, in ogni eroe che il mondo venera si riscontra qualcosa di affine alla santità. Un ricco ben di rado è un eroe, ma sovente può esserlo un povero. Un uomo cui arrida la fortuna può di quella appagarsi e non farsi alcun merito personale, mentre sotto il peso dell’insuccesso non di rado l’uomo diventa un vero eroe. Può darsi che un individuo senza alcuna preoccupazione meriti di esser compassionato, mentre quello la cui esistenza è intessuta di pene si conquista sovente la considerazione dei più. “Beati i poveri. Beati i mansueti, Beati quelli che piangono”. Per confermare ed illustrare queste affermazioni, per mostrare che in realtà l’ideale cattolico contiene tutto ciò che il mondo stesso, in cuor suo, non può a meno di onorare e di riverire, qualunque sia l’atteggiamento che ostenterà contro di esso, sarà bene considerarlo a parte. Osserviamo quell’ideale, e i mezzi atti a raggiungerlo, da un altro angolo visuale, da quello soggettivo dell’uomo stesso: nell’idea chiara di un uomo perfetto o di una vita perfetta secondo Nostro Signore troveremo felicemente riassunto ed applicato quanto è stato detto fin qua. L’uomo, anche se considerato solo nell’ordine della natura, è fatto per Iddio. Da Lui viene, in Lui e per Lui vive e si muove e ha l’esser suo; a Lui infine ritorna. Per quanto in debole minoranza, alcuni ancora ne dubitano e forse trovano per ciò ragioni soddisfacenti; per conto nostro, mai siamo riusciti a trovarne. Alla maggior parte dell’umanità pensante, ad ogni uomo normale che non sia illuso i fatti della vita parlano con una logica e con una evidenza loro proprie. Finché l’uomo vive quaggiù egli è interamente nelle mani di Dio, assai più che nelle proprie; quando giunge la fine, è chiaro che nulla al mondo potrà avere seria importanza se non la relazione in cui verrà in quel momento a trovarsi con Dio. Venendo da Dio, essendo creatura sua, l’uomo è di necessità creato pel fine al quale l’ha destinato lo stesso Dio onniveggente e amorosissimo. E ciò dovrebbe dirsi anche se l’uomo andasse considerato come semplice creatura, mero strumento nelle mani di Dio; ma quanto più ora che sappiamo di quale eterno amore Egli lo ha amato e con quali vincoli lo ha unito a Sé! Inoltre, anche come semplici creature, ci è facile scorgere come Dio sia la nostra meta ultima. Essendo Dio quello che è, il Summum Bonum, perfezione assoluta, principio e coronamento di tutto ciò che è eccellente e perfetto, raggiunger Lui o anche solo avvicinarsi a Lui è il fine più nobile di ogni creatura: poiché è la conquista di tutta la pienezza dell’essere a noi consentita, e un fine meno nobile di quello, conosciuta la grandezza e la generosità e l’amore sconfinato di Dio, conosciuto l’uomo, creatura meravigliosa malgrado tutto, e conosciute le sue magnifiche possibilità, apparirebbe indegno di Dio e dell’uomo insieme. La natura stessa proclama che l’uomo è fatto per Iddio. La sopra-natura conferma questa asserzione e dice ancor di più, che cioè l’uomo è fatto non solo per raggiunger Dio come suo ultimo fine, ma anche per vivere la sua stessa vita, per essere non solo una creatura che ha degli obblighi, ma un figlio con doveri e diritti di figlio, un amico, un intimo che l’amore ha innalzato al privilegio di una certa eguaglianza col suo Dio. – E ancora, essendo Dio perfezione infinita e, per ciò stesso, la sorgente di ogni perfezione, ne segue che più l’uomo riesce a rassomigliargli e più comunque partecipa alla perfezione divina, tanto più perfetto sarà in se stesso anche in quanto uomo. “Siate dunque perfetti — disse Cristo — com’è perfetto il Padre vostro celeste”. Ecco la spiegazione della fame insaziabile del più e del meglio insita in ogni uomo: qualunque cosa conquisti quaggiù, non è mai soddisfatto; egli desidera sempre di più; i beni che ha non gli bastano, sono un nulla. “Ci hai fatti per Te, Signore — diceva S. Agostino dopo aver gustato tutti i piaceri senza rimanerne appagato — ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore non conoscerà riposo finché non riposi in Te”. – Lo stesso pensiero esprime S. Tomaso con la precisione del suo linguaggio teologico: “fine ultimo dell’uomo è il Bene increato, ossia Dio stesso. Egli solo può, con la sua infinita liberalità, appagare perfettamente il desiderio dell’uomo”. (1-2, III, I) Di conseguenza, qualunque altra cosa l’uomo, sia chiamato a compiere, o elegga egli stesso a scopo particolare della sua vita, in qualsiasi direzione essa lo porti, in definitiva, oltre a tutto e al disopra di tutto egli dovrà preoccuparsi di Dio e tendere a Lui con tutte le sue forze, se vorrà fare della sua esistenza una cosa perfetta e se vorrà conoscere la vera gioia di vivere. La conoscenza di Dio supera ogni altra conoscenza, l’amore di Dio accolto e ricambiato sorpassa ogni altro amore, il servizio leale e devoto prestato a Dio è il più meritevole fra tutti, la vita in Dio, con Dio e per Iddio trascende ogni altra vita, la gloria resa a Dio è la più nobilitante e irradia la sua luce anche su chi a Lui la offre. – Ecco lo scopo della vita, della stessa vita naturale sia dell’uomo che di tutta la creazione, ecco il principio della vera perfezione e della stessa perfezione naturale. L’uomo veramente perfetto è colui che maggiormente lo è agli occhi di Dio, comunque possa apparire agli occhi del mondo; e perfetto secondo Dio sarà chi più chiaramente lo conosce e più ardentemente lo ama, rendendogli perfetto servizio con tutto il cuore. E se ciò è vero dell’uomo nell’ordine naturale, considerato nella sua semplice condizione umana, tanto più sarà vero dell’uomo considerato nell’ordine soprannaturale. Notiamo che nel parlare del soprannaturale noi non intendiamo affatto di eliminare il naturale, ma solo di innalzarlo ad una sfera più elevata. Gesù Cristo non venne a distruggere ma a perfezionare: in Se stesso, nel suo carattere, nella sua vita e nella sua personalità, pur essendo essenzialmente soprannaturale, si mostrò per ciò stesso uomo naturale essenzialmente perfetto. Nell’ordine soprannaturale, come abbiamo tentato di spiegare, l’uomo è stato innalzato da un Dio che lo ama e lo vuole per Sé ad uno stato che trascende quello della natura, oltre i bisogni, le aspirazioni, gli ideali dell’uomo naturale, oltre i suoi sogni e le sue possibilità, tanto oltre, con un orizzonte così vasto e così chiaro aperto d’intorno a sé ch’egli può facilmente dimenticare quanto sta dietro a lui in uno slancio sublime verso ciò che gli sta dinanzi. È stato invitato a vivere, e gliene sono stati offerti i mezzi, in modo tale da potere un giorno godere la visione beatifica di Dio stesso; anzi, sebbene non veda ora che in uno specchio ed in maniera oscura, egli già pregusta, nella vita attuale della grazia, il possesso di quella visione. Ecco perché i Santi di Dio sono gli uomini più felici della terra: essi hanno avuto la visione e pregustato la gioia della vita vera, e ormai nessuna sofferenza, nessuna sconfitta, nessun disprezzo, nessuna ingiustizia potrà separarli dall’amore di Dio ch’essi possiedono in Cristo Signore. È questo l’ideale che il Cattolico ha dinanzi a sé quando parla di uomo perfetto, è questa

la sostanza dei tanti libri che furono scritti sulla perfezione cristiana. Non si deve credere che il Cattolico apprezzi meno per ciò i beni naturali; il fatto è ch’egli ne ha scoperti altri di assai maggior valore. È quel perfezionamento apportato all’ideale naturale da Nostro Signore Gesù Cristo: a coloro che erano nelle tenebre è apparsa la luce e in quella luce si è capovolta tutta la prospettiva umana. Quelli che l’hanno vista si son trovati mutati, son divenuti “pazzi per amore di Cristo”, e per seguir Lui hanno dato via a piene mani ciò che gli altri considerano essenziale alla vita. Alla vita stessa hanno rinunciato volentieri e a tutte le sue vanità, liberamente e gioiosamente, contando per nulla il sacrificio, per assicurarsi le cose “ottime”, la pace e la gioia che Cristo solo può dare in misura piena e traboccante, la verità della vita, la trasparenza dell’anima, l’ardore del cuore, la generosità della mano, la rettitudine dei passi, che sono la ricompensa anche su questa terra di coloro che tutto hanno dato per Lui. E il risultato, anche secondo la misura dei criteri umani, è insuperabile, sia che lo si consideri nell’uomo in sé o nella influenza da lui esercitata sui fratelli, in un S. Bernardo o in un S. Francesco d’Assisi o in un S. Francesco Saverio, in una Santa Teresa, come in un S. Francesco di Sales o in un S. Vincenzo de’ Paoli. Lo stesso mondo pagano aveva nobili ideali che però, messi alla prova, ben di rado potevano resistere e mai produssero tipi paragonabili ai Santi sunnominati. Con tutte le sue idealità e la sua filosofia, con tutta la sua arte e la sua bellezza, l’antico mondo pagano è un mondo di aspirazioni mancate, di delusioni che sfociano nella disperazione. Anche il mondo pagano moderno vanta ideali e campioni altrettanto nobili; ma saranno questi più resistenti di quelli? È un mondo agitato che con gran clamore invoca la pace e non la possiede mai, che va brancolando nel deserto in cerca d’acqua viva e non ne trova. Vuol esser felice ad ogni costo e contro ogni evidenza, vuol godere anche quando la città è in fiamme; la sua miseria è soffocata, non vinta. Considerato spassionatamente, a giudicare dai suoi frutti, il paganesimo moderno è condannato non meno, anzi più, dell’antico. Cristo solo ha “vinto il mondo”. Egli solo ha risolto il problema dell’inquietudine umana e ha detto: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed oppressi, e io vi ristorerò.” Non ha rinnegato nulla di quanto di meglio il mondo può offrire; ha preso questo meglio e lo ha reso perfetto. Sopra di esso ha costruito un mondo nuovo, e ne è risultata una cosa trascendentalmente diversa. Ma perché ci sia possibile raggiungere questo mondo nuovo, dato che da noi nulla possiamo, — “Nessuno va al Padre se non per me” — si è fatto Egli stesso “la Via” che sola può ad esso condurci, “la Verità” che ce lo farà conoscere, “la Vita” che ce lo farà vivere. Ecco perché seguir Cristo è per il Cattolico via ad ogni perfezione; e l’imitazione, la riproduzione di Cristo in noi, il vivere non più noi, ma Cristo in noi, è l’ideale più alto e più nobile cui possiamo tendere, è l’incarnazione dell’uomo perfetto.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (12)

LA GRAZIA E LA GLORIA (48)

LA GRAZIA E LA GLORIA (48)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO VI

Dell’amore beatifico. Il suo principio, le sue proprietà.

1. I figli di Dio, al termine della loro crescita spirituale, vedranno Dio; questo è ciò che abbiamo cercato di spiegare come balbettando. Solo loro potrebbero dirci chiaramente cosa contemplano e come lo contemplano: ma, oltre al fatto che questo è il segreto del cielo, la nostra infermità sarebbe impotente a comprendere ciò che essi ci direbbero. La stessa impotenza nei confronti del loro amore è quella che ci rende così incomprensibile la visione, di cui è la naturale conseguenza. – Essi vedono, amano. Figli a lungo esiliati che si trovano per la prima volta alla presenza del più amabile dei padri: una pallida immagine dell’ingresso degli eletti nella visione che ci è stata promessa. Non possono i loro cuori sussultare d’amore fino a rompersi il petto, quando lo vedono così buono, così grande, così regale, così glorioso? Lo amavano già tanto, senza averlo visto se non attraverso le fitte tenebre, alla luce della fede, nei suoi effetti, e come da lontano. Ora che lo contemplano apertamente, e che con un solo colpo d’occhio, così fermo che nulla lo abbaglia, così libero che nulla lo ferma, entrano nell’abisso due volte insondabile delle sue processioni interiori e delle sue perfezioni essenziali; ora che lo possiedono, che lo toccano e che sanno di essere indissolubilmente posseduti da Lui, quali non debbano essere i loro impulsi, il loro ardore e il loro trasporto! – Incapace da sola di informarci su questi alti destini, perché rispondono non alla natura ma alla grazia, la filosofia può comunque aiutare la nostra fede, con le sue luci, a farci intravedere la loro grandezza e sublimità. Infatti, cosa ci si insegna della nostra facoltà di amare, cioè della volontà? È che ogni suo atto è essenzialmente un movimento verso il bene e il buono. È solo questo che la muove; è, per usare il linguaggio dei teologi e dei filosofi, il suo oggetto formale, come il colore è l’oggetto della vista, la verità quello dell’intelligenza. Certamente, è in nostro potere far vagare i nostri desideri su un numero infinito di oggetti diversi; ma a condizione che l’occhio dello spirito ci mostri in essi il solo magnete che ci attrae, una realizzazione più o meno perfetta dell’idea del bene. È impossibile per noi volere il male per il male, così come è impossibile affermare interiormente il falso, perché è il falso. E questo è talmente vero che per amare ciò che non è degno della nostra stima o dei nostri affetti, dobbiamo, con una grossolana illusione, attribuirgli le perfezioni che non ha. – Andiamo oltre e chiediamoci da dove provenga a questi particolari beni, che sono l’oggetto delle nostre concupiscenze, la perfezione che ci spinge a cercarli; cerchiamo, in altre parole, dove questa idea, questa ragione del bene, « ratio boni », la cui sola attrazione è in grado di muoverci, abbia il suo pieno e totale compimento. La sana filosofia risponde: da Dio e in Dio. Sì, tutti questi raggi di bontà, che si diffondono sulle creature, emanano da Lui, come dalla loro sorgente originaria: sì, solo in Lui si condensa, per così dire, con infinita pienezza la materia universale delle nostre aspirazioni e dei nostri amori; Egli è il bene per essenza, il Bene sovrano, totale, puro, assoluto. – Ed è per questo che il Dottore Angelico ci dice che quella parte che il primo motore di ogni potenza appetitiva è Dio. (« Omnia appetunt Deum ut finem, appetendo quodcumque bonum: quia nihil habet rationem boni et appetibilis, nisi secundum quod participat Dei similitudinem » Thom. 1 p., q. 44, a. 4 ad 3). La potenza appetitiva è Dio, perché solo Lui ha nella sua infinita perfezione il potere di attirare ogni volontà; solo Lui, facendo la creatura ad immagine della sua bontà, le comunica in vari gradi e le conserva questa attrazione. (S. Thom., de Verit., q. 22, a. 2). Nessuna volontà, per quanto perversa, può tendere verso l’oggetto dei suoi appetiti senza tendere implicitamente verso Dio, poiché questo oggetto è, in virtù della sua stessa natura, una partecipazione finita della bontà infinita. Non è forse stato Sant’Agostino, nel suo magnifico linguaggio, a definire Dio « il bene di tutti i beni; il bene da cui proviene ogni bene; il bene che è solo bene »? (Sant’Agostino, Enarr. in Psalm, XXVI, n. 8; col. De Trinit. L. VI, C. 3. N. 4). – Guardate ora questo figlio di Dio, tormentato dalla sete inestinguibile che lo porta e lo spinge al cuore di ciò che è buono e perfetto. Cosa farà se non si abbandonerà con tutta l’impetuosità del suo cuore a questa bontà che si manifesta così chiaramente e che si dona così liberamente a lui? Essa è in sé stessa il Bene supremo, poiché è tutto l’essere e tutta la perfezione; essa è ancora per lui il suo Bene supremo: possederlo non è forse raggiungere la pienezza del suo essere e della sua stessa perfezione allo stesso tempo? – Dio, essendo il Bene sovrano, è anche il supremo amore. Egli ci ama, non come ama tutte le cose, ma come un amico che apre il suo cuore all’amico, che condivide con lui i suoi segreti più intimi, che lo chiama alla comunione di tutti i suoi tesori e della sua stessa vita. Che modo c’è di non rispondere con amore a questo amore incomparabile, quando lo si vede, quando lo si tocca, e quando è più impossibile distrarsi da esso, anche solo per un momento, più di quanto si possa ignorare se stesso? – Essi vedranno ed ameranno. La teologia ci insegna che nel seno della divinità la conoscenza e l’amore vanno di pari passo: in altre parole, se Dio è per essenza l’infinita comprensione di se stesso, è anche l’infinito amore. Da ciò sappiamo che dal Padre e dal Verbo di Dio, termine eterno della conoscenza eterna del Padre della loro comune bontà, procede eternamente lo Spirito divino, cioè l’amore vivo e consustanziale di questa stessa bontà. Pertanto, affinché l’immagine corrisponda al suo esemplare, affinché la copia riproduca il suo modello, ai contemplatori creati della bontà divina abbisogna un amore che si armonizzi con la loro conoscenza, che scaturisca da essa come lo Spirito di Dio scaturisce dal suo Verbo, ed è pari ad esso in perfezione. – Considerato nel suo principio, l’amore dei figli adottivi che hanno raggiunto il termine, non differisce da quello che hanno avuto nel cammino: entrambi scaturiscono dalla stessa fonte che è la carità divina. Così, la perfezione finale della volontà non corrisponde in tutto e per tutto a quella dell’intelligenza. In quest’ultima, la luce della gloria succede alla fede; con le sue oscurità e i suoi veli, la fede non può essere il principio della visione faccia a faccia, né è compatibile con essa. Come si può credere, anche sull’autorità di Dio, a ciò che si contempla in una luce nebulosa, senza che sia possibile distogliere per un attimo lo sguardo da essa? Ma la carità rimane nella volontà, secondo le parole dell’Apostolo: « La carità non avrà mai fine » (Cor. XIII, 8). – La ragione di questa differenza è la stessa che dà alla carità la sua preminenza sulle altre due virtù teologali. Tutte e tre, è vero, hanno Dio come oggetto proprio, e di conseguenza non è con l’eccellenza relativa del loro oggetto che possiamo stabilire un titolo di superiorità per l’una o per l’altra. La disuguaglianza in questa comunità di oggetti è data dal rapporto di maggiore o minore vicinanza che essi hanno con Lui. La fede e la speranza non sono, in virtù della loro stessa natura, prive dell’idea di distanza; infatti, l’una crede ciò che non vede, l’altra spera in ciò che non possiede ancora. D’altra parte, la carità non si concepisce senza un certo possesso di ciò che ama, poiché ha per sua natura il carattere dell’unione. « Chi rimane nella carità – dice l’Apostolo dell’amore – rimane in Dio e Dio in lui » (I Joan, IV, 16). Come può la carità, le cui aspirazioni e desideri tendono ad un’unione sempre più stretta, svanire quando questa unione si consuma nella presenza? (S. Thom. 1. 2. D. 66, a. 6). Il suo singolare privilegio è quindi quello di condurci a Dio e di rimanere con noi alla fine del nostro cammino, quando saremo pienamente in Dio. Essa è il peso che ci traporta lì, e il peso che ci fissa lì; nasce e cresce sulla terra e solo in cielo fiorisce pienamente. Nascendo e crescendo sulla terra, essa non si espande pienamente che in cielo, glorioso in questo doppio soggiorno, ma più felice nel secondo, perché nulla potrà mai minacciare la sua esistenza né turbarla nelle sue ineffabili effusioni.

2. – Dopo questi pochi accenni alle cause dell’amore beatifico, meditiamone le proprietà. La carità può essere perfetta in questa vita? Questa è una delle domande che si pongono universalmente i teologi quando devono trattare di questa virtù. Ora, la perfezione della carità può essere considerata da due punti di vista: dal punto di vista dell’oggetto e da quello del soggetto. Dal primo punto di vista, c’è solo una carità assolutamente perfetta, con cui Dio ama Se stesso, perché solo Lui può amare Se stesso in quanto amabile, così come solo Lui può conoscere Se stesso in quanto intelligibile. La misura della sua amabilità è la sua stessa bontà; e poiché la sua bontà non ha limiti, anche l’amore di questa bontà, per essere adeguato alla sua amabilità, deve escludere ogni limite, essere infinito. Riunite, se possibile, tutte le potenze dell’amore che possano trovarsi nelle creature, mai uguaglieranno le divine amabilità; infatti, queste potenze, per quanto grandi e numerose possiate immaginare, saranno sempre di una virtù limitata, perché sono di una virtù creata. Ma dal secondo punto di vista, la creatura può amare Dio perfettamente: poiché amarlo in questo modo significa adempiere al precetto della carità: « Amerete il Signore vostro Dio con tutto il vostro cuore, con tutta la vostra anima, con tutta la vostra forza e con tutta la vostra mente » (Lc., X, 27; Deut., VI, 5). – Facciamo notare, tuttavia, che l’adempimento del precetto ha i suoi gradi. Ogni uomo può, con l’aiuto della grazia, avere abitualmente il cuore in Dio, in modo da non pensare e fare nulla di contrario al suo amore; e non solo può farlo, ma deve farlo, pena la perdita dell’amicizia divina e la compromissione della salvezza eterna della sua anima. La creatura ragionevole può e riesce a salire ancora più in alto nello stato di prova che è il nostro, quando si dedica interamente alle cose di Dio e non è disposta a prestare alcuna attenzione alle altre se non quella richiesta dalle necessità della vita presente. Al di sopra di questa perfezione, la più alta possibile per l’uomo, finché è in cammino, trovo il terzo e supremo grado della carità, che non è più della terra ma del cielo: tutto il cuore dell’uomo è diretto attualmente e sempre verso Dio (S. Thom, 2, q. 24, a. 8; de Carit, a. 10). – Cerchiamo di capire qual sia l’eccellenza della carità nella patria. Quaggiù, quanti ostacoli impediscono alle anime più generose di correre, come vorrebbero, verso la Bontà sovrana, unico oggetto del loro amore. Infatti, per non parlare delle inclinazioni disordinate che tendono incessantemente a piegarci verso beni fragili e bugiardi, ci sono le occupazioni volgari della vita che ci dividono (I Cor., VII, 24); e, anche se arrivassimo a respingere questi impedimenti con una rinuncia totale, il peso della mortalità, che grava su tutti i figli di Adamo, sarebbe comunque sufficiente a paralizzare o almeno a ritardare il libero volo dell’amore. Tale è il lamento dei Santi e la materia dei loro gemiti, che non possono cioè amare il loro Dio con tutto lo sforzo della loro volontà, senza alcun cedimento, senza interruzioni, costantemente e sempre. – Chi può meravigliarsi che la meta verso cui essi tendono sfugga in mille modi ai loro sforzi? L’amore dipende dalla conoscenza: perché il cuore sia attualmente in Dio, è necessario che l’intelletto lo mostri attualmente come sovranamente amabile. Ora non è possibile per la nostra debolezza avere l’occhio dell’anima così costantemente fisso su Dio da non perderlo mai di vista. Quando anche, quindi, tutti gli altri ostacoli venissero rimossi, queste distrazioni necessarie sarebbero sufficienti a sospendere l’impulso del nostro amore. Ma in cielo, come sappiamo, l’intelligenza è necessariamente e perennemente nell’atto stesso di contemplare Dio, e questa visione faccia a faccia, dalla quale nulla può distrarre, termina nell’amore. Il vedere sempre, porta ad amare sempre ciò che vediamo, perché lo vediamo infinitamente amabile. Questa è dunque la prima proprietà della carità nella patria: essa è sempre in azione. – La seconda proprietà è che si tratta dell’atto di amare come la visione beatifica: è eternamente immutabile, eternamente uguale. Quaggiù, anche quando la carità sia così profondamente radicata in un cuore e che da esso nulla possa strapparla, gli atti d’amore che ne derivano sono successivi e molteplici; ciò è dovuto alle infermità di cui abbiamo parlato prima. Ma perché dovrebbe esserci una successione nella gloria se la luce è sempre presente e l’attenzione sempre vigile? È possibile che la volontà sia incostante e mutevole? Lo capirei, se l’occhio dell’anima le presentasse una bontà finita, o se la conoscenza che ha della bontà infinita non fosse la visione immediata e perfettamente chiara di essa. Ma il Bene perfetto, contemplato senza ombre e veli attira necessariamente l’amore a sé, poiché si offre come è in sé, come il bene, il bene non mescolato, tutto il bene. È un motore la cui potenza infinita non lascia alcuna possibilità di resistenza alla volontà a cui esso sia applicato da se stesso. Poiché, dunque, nulla può ostacolare questa applicazione, nulla può interrompere il suo effetto, intendo dire il movimento d’amore che porta la volontà verso il suo Dio. – Sarebbe una fatica l’amare sempre? Ma quale stanchezza si può immaginare in una potenza dell’Anima, quando raggiunge con la sua operazione più perfetta l’oggetto più perfetto della sua attività? Ripetiamo quanto già detto a proposito dell’intelligenza: nulla danneggia o affatica l’esercizio di un potere spirituale più della concomitanza obbligatoria delle facoltà organiche. Ora, questa dipendenza che si trova ovunque nella condizione attuale della nostra natura, la vita beata non la conosce né la può ammettere. Potrebbe essere, infine, che la necessità di crescere nell’amore richieda una successione di atti? Ma una volta che gli eletti sono con Dio, non c’è più crescita. Alt alla crescita nella virtù, perché la carità risponde alla grazia e la grazia non può essere aumentata dai Sacramenti che non vengono dal cielo, né da meriti il cui tempo è passato. Non c’è quindi un’ulteriore crescita nell’atto d’amore, poiché, fin dall’inizio, l’anima, divinizzata dalla grazia e rafforzata dalla virtù, si dirige verso Dio con tutto il fervore e l’intensità di cui questi principii l’hanno resa capace. Quindi, dal punto di vista dell’amore e della conoscenza, questo è il termine. Pretendere che negli eletti ci sarà un futuro perfezionamento nel loro amore dell’infinita bontà, equivarrebbe a dire o che la virtù possa essere in loro ulteriormente sviluppata, o che essi non abbiano amato fin dall’inizio con tutta la misura delle loro forze e la piena capacità del loro cuore. – Ora, se l’atto di amore beatifico non ammette cambiamenti, esclude, a maggior ragione, qualsiasi molteplicità simultanea negli atti. Una visione unica richiede un amore unico, e non è nemmeno pensabile che due movimenti affettivi dello stesso tipo, che rispondano alla stessa conoscenza e riguardino lo stesso oggetto, possano coesistere contemporaneamente nella stessa volontà. – Tuttavia, questo atto, per quanto unico, include nella sua eminente semplicità tutte le perfezioni richieste dalla bontà divina, il suo termine ed il suo oggetto. È benevolenza, compiacimento e gratitudine senza limiti; è l’amore di un figlio per il migliore dei padri, di un amico per il più generoso degli amici, di una sposa per lo sposo sovranamente amabile; un amore al tempo stesso tenero e forte come la morte, ardente e riverente, che si innalza fino alla bontà suprema e si abbassa davanti ad essa fino al nulla, sempre sazio e sempre insaziabile, il più spontaneo di tutti e tuttavia il più necessario, che non sa cosa sia l’invidia ed è geloso all’eccesso nel vedere ciò che ama unicamente amato; un amore che, essendo solo amore, persegue con odio implacabile tutto ciò che si opponga all’onore di Dio: perché se non fosse tutto questo, non sarebbe più una partecipazione perfetta all’Amore infinito di cui è l’immagine più eccellente. – Un’altra caratteristica che è sufficiente segnalare nell’amore degli eletti è la loro disuguaglianza. Disuguali nella grazia, disuguali nella visione, come non sarebbero disuguali anche nella virtù dell’amore e nel suo atto? Lampade luminose e ardenti, sospese nel firmamento del cielo, non emanano la stessa intensità di luce e di fuoco, sebbene ognuna di esse sia inondata di luce e si sciolga negli ardori. Chi dirà che la B. Vergine, Madre di Dio, non ami incomparabilmente più di tutti gli uomini e di tutti i Serafini, anche se i loro atti d’amore sono uniti in un unico e medesimo amore? Come abbiamo già osservato, se tutti i figli di Dio vanno nell’amore fino al termine del loro potere di amare, le capacità, così come la grazia e la gloria, sono diverse. Chi sente in sé la nobile ambizione di amare eternamente Dio senza misura, lavori per perfezionarsi nella santa virtù della carità, perché è alla perfezione della via che l’amore corrisponderà in patria. – Un’ultima proprietà dell’amore beatifico, implicita nelle precedenti, è che esso esclude non solo il peccato, ma pure la possibilità stessa di commetterlo. Se quaggiù capita, anche alle anime più ferventi, di cadere in qualche infedeltà, io ne trovo due ragioni principali. In primo luogo, esse non hanno sempre le infinite bontà di Dio davanti agli occhi della loro anima, e anche se il ricordo di Dio fosse presente per loro, esso non sarebbe la chiarezza della visione; in secondo luogo, e per naturale conseguenza, esse non sono sempre in un necessario e attualissimo esercizio di perfetta carità. Perciò, dove non si è e non si può essere privi della visione più immediata e chiara della bontà divina; là dove l’amore di Dio regni attualmente e necessariamente nel cuore, re e padrone di tutti gli affetti, non c’è spazio per le piccole offese, incompatibili non dico con l’abitudine, ma con l’atto sovrano della carità. – Datemi un uomo che possa amare una cosa indipendentemente dal bene che vede o pensa di vedere in essa, e vi mostrerò un uomo benedetto che ama un bene finito con un amore che non si armonizza con l’amore perfetto di Dio. La vista di Dio compie questa meraviglia, fa sì che « la volontà ami altrettanto necessariamente ciò che ama, in relazione a Dio, come in coloro che non vedono ancora, essa ama tutto ciò che essa ama sotto la ragione comune del bene. » (S. Thom., 1, 2, q. 4 a. 4). La ragione di ciò è ovvia, se si è disposti a riflettere. Poiché la mia volontà è fatta per il bene, posso distoglierla da un bene particolare verso un altro bene finito: nessuno dei due realizza pienamente in esso quella nozione generale di bene, al di fuori della quale non posso amare o volere nulla. Ma quando Dio mi si rivela manifestamente come la piena, universale e perfetta comprensione di ogni bene, la stessa impossibilità che mi impedisce di amare qualcosa di diverso dal bene, mi proibisce anche di guardare e amare come mio bene ciò che non si riferisca al Bene supremo, tesoro e fonte di ogni bene. – Un esempio, dato dall’Angelo della Scuola, completerà il portare in pieno alla luce queste verità. La mente umana può indulgere in deviazioni finché non abbia trovato il principio evidente su cui poggia l’oggetto dei suoi pensieri; ma una volta che questa verità maestra abbia gettato la sua luce sulle conclusioni fino ad allora più o meno incerte, l’errore, a meno che non si chiudano gli occhi, non è più possibile. Ora, quali siano i principi nell’ordine delle cose intelligibili, l’ultimo fine, ossia il Bene sovrano dell’uomo, è nell’ordine degli oggetti dell’appetito (S. Thom. Compend. Theolog., c. 166). Ditemi: che cosa vi allontana da questo oggetto amato per inclinare i vostri affetti verso un altro indipendente dal primo? È che esso non sia, o almeno che non vi appaia manifestamente adeguato ai vostri desideri. Così l’anima a cui Dio si mostra e si dona nella pienezza della sua infinita bontà, non può più amare nulla né cercare nulla al di fuori di Lui. È una beata impossibilità che fa sospirare tante anime, innamorate dell’Amore divino, verso una condizione in cui la loro debolezza sarà salvaguardata per sempre dal più grande dei mali, l’offesa di Dio, il peccato.

LA VITA INTIMA DEL CATTOLICO (10)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (10)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO III

La vita nella Chiesa

3. – Corrispondenza dell’uomo.

Ci viene insegnato che, per mezzo dei sacramenti e in altri modi ancora, lo Spirito Santo operi in noi. A noi spetta fare quanto è in potere nostro per possedere la presenza viva dello Spirito e, sapendo di possederlo, per dargli tutto l’onore che gli è dovuto. È questo precisamente ciò che intendiamo per pratica interiore della religione, o religione del cuore. È primo dovere del Cristiano ricordare sempre il Dio che ha tanto fatto per lui, che lo ha tratto dalle tenebre alla luce soprannaturale, che è così vicino a lui, che si degna anzi farsi ospite della sua anima. Per un visitatore regale faremmo qualunque cosa; potremo rimanere indifferenti alla visita della SS. Trinità? Questo pensiero è bastato molte volte a fare i Santi; Santa Teresa ne è un esempio. E il metodo è semplice. Chi crede nella dimora della SS. Trinità nell’anima fedele farà ogni sforzo, dovunque e in qualsiasi condizione sia posto, per vivere ed agire come si conviene ad uno che si trovi in sì augusta compagnia. Ecco perché, nel secoli, il Cattolico si è abituato ed affezionato al segno della croce. Con quel segno egli affronta e vince ogni nemico; ogni azione della giornata egli inizia “nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo”. In ogni vicissitudine egli offre al Padre, quale omaggio filiale, tutta la gloria che quell’avvenimento può dargli, e la stessa gloria vuole offrire al Figlio, memore di essere stato da Lui riscattato a prezzo del suo sangue e trasformato da schiavo in amico per l’eternità, e allo Spirito Santo che tanto gli ha dato, compresa l’ispirazione e la forza di fare in quel momento quello stesso segno di croce. L’uomo di vita interiore non sarà pago di dedicare a Dio tutte le azioni ordinarie della giornata e a Lui si terrà unito di continuo, “sollevando. la mente e il cuore a Dio” non solo nel tempo della preghiera, ma in ogni momento, secondo l’insegnamento di San Paolo che ci ammonisce di “pregar sempre”. E nelle ore buie si ricorderà ancora del Padre della luce, e a Lui farà ricorso. “Fin quando, o Signore, persisterai sempre a dimenticarmi e rivolgerai la tua faccia da me?… Guarda e ascoltami, Signore mio Dio, dà luce ai miei occhi”, (Sal. XII 1.4). Nel constatare la propria debolezza, molto spesso, purtroppo! troverà coraggio anche contro di sé nella presenza di Colui che è onnipotente: « In te, Signore, io spero: ch’io non resti confuso giammai… Sii per me un Dio protettore e un asilo di rifugio per trarmi in salvo. Poiché la mia fortezza e il mio rifugio sei tu, e per il tuo nome mi guiderai e mi sosterrai”. (Sal. XXX, 2-4). – Nella desolazione e nell’aridità, quando il cielo sembra chiudersi e la preghiera stessa diventa un peso, ricorderà Colui che pregò così: “Padre, se è possibile passi da me questo calice, … Se non è possibile che questo calice sia rimosso da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà ». (Matt., XXVI, 42). Quando invece si sentirà facilmente portato all’orazione, seguirà il consiglio di Colui che è il modello di ogni orante: « Ma tu, quando vuoi pregare, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo in segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto ti esaudirà”. (Matt. VI, 6). È ovvio che questo spontaneo, fiducioso, continuo ricorso a Dio è la prima conseguenza pratica della nostra adesione alla verità della sua presenza nell’anima nostra. La seconda è analoga alla prima e ne deriva naturalmente: è l’adorazione. « L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore… Perché  grandi cose ha fatto in me Colui che è potente e il cui nome è santo”. (Luca I, 46, 49). Così ci ha insegnato a dire la Regina dei credenti, con una spontaneità che ci rivela gli intimi tesori dell’anima sua. E la Chiesa continua a farle eco, ripetendo senza posa: “Sia gloria al Padre, al Figliuolo e allo Spirito Santo”. Terza conseguenza è l’amore, quella divina ricchezza che è la nostra perfezione in quanto esseri umani e in quanto figli di Dio. Senz’amore, nulla vale; con esso, qualunque cosa acquista valore. E siccome l’amore è generoso e attivo per natura, non potrà limitarsi alle parole e al sentimento, e tanto meno lo potrà l’amore verso Dio: esso dovrà dimostrarsi con l’azione e col sacrificio. Che cosa dare? Che cosa fare? “Che cosa renderò al Signore mio Dio per tutto ciò che mi ha dato?” Il peccatore pentito dimostrerà l’amor suo facendo tutta la riparazione di cui sarà capace, incoraggiato dalla misericordia di Colui che disse: “Le sono rimessi i suoi molti peccati perché molto ha amato”. (Luca VII, 47). L’amore dei puri di cuore che vedono Dio e le sue vie sarà un amore di riconoscenza, che non cesserà di ringraziare il datore di ogni bene e sempre cercherà di offrirgli un contraccambio d’amore, non già degno di Lui né adeguato ai suoi doni, ma secondo la debole misura delle proprie forze. E l’amore di pura amicizia andrà ancor più lontano, accettando con umile gioia l’intimità alla quale Dio l’ha benevolmente ammesso, gli parlerà con la confidenza di un amico, vorrà prodigarsi in atti di generosità, offrendo e donando sempre, dimenticando se stesso e i propri meschini interessi per il beneplacito del suo Diletto, e si rallegrerà, all’occasione, di esser trovato degno di soffrire ingiuria per amor suo, accettando anche la morte con gioia se per Lui sarà chiamato a sacrificare la vita. – E queste disposizioni condurranno al quarto dovere che è quello della imitazione. “L’amore rende simili”, e chi ama Dio non può che rallegrarsi di ogni barlume di rassomiglianza con Lui che possa in sé conseguire. Essendo tempio di Dio, si sforzerà di assicurare la massima purezza di quel tempio, purezza sia di corpo che di pensiero. Abbiamo visto come S. Paolo si sia servito di questo incentivo per contenere e purificare i suoi Gentili convertiti: “Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio in voi abita? Se alcuno guasta il tempio di Dio, Iddio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo quali pur voi siete ». (I Cor. III, 16, 17). E una volta purificato il santuario, il tempio del Dio vivo, non vi sarà ornamento troppo prezioso né troppo trascendente per abbellirlo. È questo il significato e il motivo della perfezione; il Santo la persegue non tanto per sé quanto per amore del Santo dei Santi che in lui vive. Cristo stesso ci ha additato la misura della nostra perfezione: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli ». (Matt. V, 48). Né pensiamo che sia ideale troppo alto; date le meraviglie che si sono compiute in noi e per noi, dal momento che Iddio ci ha fatto suoi figli adottivi e vuole che lo chiamiamo Padre, Egli dovrà necessariamente volere che rassomigliamo a Lui e dovrà darci i mezzi per attuare quella rassomiglianza. Che cosa significa infatti l’Incarnazione se non questo? Il Figlio di Dio è divenuto uomo; si è fatto “simile all’uomo in ogni cosa eccetto che nel peccato” affinché l’uomo a sua volta diventi simile a Dio. Ha vissuto la vita umana e ha subito la morte umana affinché l’uomo possa vivere e morire come Lui. E rassomigliare al Figlio è rassomigliare al Padre: “Chi vede me vede il Padre mio”. (Giov. XIV, 9). “Nessuno viene al Padre se non per mezzo mio”. (Giov. XIV, 6). – Ma sopra tutte le altre virtù, una ve n’è che Gesù Cristo pone dinanzi ai suoi discepoli come quella che più li rassomiglia al Dio uno e trino; è la virtù della carità fraterna, dell’amore fra uomo e uomo. È questa la caratteristica alla quale dovrebbe il mondo riconoscere i veri discepoli di Cristo. Egli l’impone loro come un comandamento nuovo, proponendo a modello il suo stesso immenso amore per gli uomini. “Io vi do il comandamento nuovo: Amatevi a vicenda. Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli: se vi amerete scambievolmente”. (Giov. XIII 34-35). “Come il Padre ha amato me, così anch’Io amo voi: perseverate nel mio amore… Ecco il mio comandamento: Amatevi gli uni gli altri come Io ho amato voi?’ (Giov. XV, 3, 12). Alla fine della Cena, nel pronunciare l’ultima preghiera per i suoi, Cristo domandò ancora: “… affinché siano tutti una cosa sola; come tu, Padre, sei in me e io sono in te, così anch’essi siano in noi” (Giov. XVII, 21), perché sapeva che precisamente l’amore e l’unità li avrebbero resi più simili a Dio. Non mediteremo mai abbastanza questa preghiera finale che nessuno all’infuori di Cristo, vero Figlio di Dio, avrebbe potuto formulare né concepire. L’unità ideale è quella della SS. Trinità; l’unità dell’uomo coi suoi simili sarà tanto più perfetta quanto più si avvicinerà a quell’ideale. E perché l’ideale divenga realtà possibile, Cristo stesso viene a vivere nell’uomo, in tutti ed in ciascuno; e quando la sua vita in noi ha portato frutto, allora, e a quell’evidenza, il mondo conoscerà che Dio lo ha mandato. La carità fraterna, l’amore fra tutti gli uomini, è o dovrebbe essere la grande caratteristica della sua Chiesa fin dal principio, il «segno» ch’Egli stesso ha preconizzato. La santità, la cattolicità, la successione apostolica, per la loro stessa natura, non possono che essere risultati del tempo, ma il segno dell’unità è evidente fin dagli inizi: “E la moltitudine dei credenti era un cuor solo e un’anima sola” (Atti IV, 32). Così intese S. Paolo il comandamento nuovo. Per quante virtù egli abbia esaltato e raccomandato, alla fine Egli sempre ritornava a questa. Per quanti mali Egli abbia condannato, nessuno mai ne ha attaccato con maggior veemenza di questo: la rottura dell’unità. Egli per esperienza già sapeva quanto fosse vero l’ammonimento del Maestro che a questa unità più che a qualsiasi altra cosa gli uomini riconoscerebbero i suoi discepoli. Abbiamo già visto come S. Paolo non deprecasse nulla più del disaccordo, come non si stancasse mai di rammentare ai suoi seguaci che erano un corpo e uno spirito solo, che avevano avuto un unico e stesso Padre dimorante in loro tutti, e che dovevano sopra ogni cosa sforzarsi di mantenere “l’unità dello spirito nel vincolo della pace” (Efes. IV, 3-6). E ciò che costituiva il suo insegnamento era, si vede bene, nel pensiero di tutti i primi Cristiani, Provenivano da origini diverse, Giudei e Gentili, Greci e Romani, Asiatici e Africani, schiavi, liberi e nobili. Si trovavano in loro, per natura, quasi tutte le cause che avrebbero potuto disgregarli, antipatie sociali, pregiudizi e aspirazioni nazionali, divergenze filosofiche, rivalità nell’insegnamento stesso delle verità di fede quando ancora non erano scritti i Vangeli, infiltrazioni dall’ esterno, parallelismi apparenti con altre forme di religione, contrasti politici nel trattamento dei neofiti, perplessità riguardo all’antica legge giudaica, oscurità ed incertezze riguardo all’avvenire, e i bisogni vari di certe chiese che richiedevano sacrifici anche dalle altre. Tuttavia, malgrado queste e altre forme di disgregazione, senza nulla che fosse di natura sufficiente ad aiutarli e sebbene a volte non potessero veder chiaro neppure come dovessero definire gli articoli della propria fede, una sola grande cosa questi Cristiani primitivi sapevano con certezza: che la loro Cristianità doveva essere una, che senza unità non poteva darsi Cristianesimo autentico, che chiunque, per qualsiasi motivo, si separasse non poteva più considerarsi vero Cristiano. Questo era il loro spirito, questa la forza che maggiormente s’imponeva al mondo pagano circostante. “Vedete come si amano questi Cristiani” dicevano gli estranei; e sentivano che in quell’amore era la vita. E contro di essa insorsero, tentando per secoli di soffocarla, ma non vi riuscirono, ché si trattava di una vita più che umana, di una unità ch’era di origine divina. Era una vita risorta da morte, che, una volta risorta, non poteva più morire. “La morte non poteva più aver dominio su di lei” (Rom. VI, 9). Allora i nemici, non potendo distruggerla, fecero tutto il possibile per ricopiarla, e allo scopo di indebolire la testimonianza di quella, produssero una “religione che in molti punti le rassomigliava. Ne adottarono gli usi, il cerimoniale, l’ordinamento, perfino i sacramenti; un sovrano, sostenuto dalle forze del suo impero, costituì una gerarchia ad imitazione della sua. Ma tutte queste cose andarono in dissoluzione: erano cose umane e perciò destinate a perire. La loro unità veniva dall’esterno, non era sorta dall’interno. E caddero ad una ad una: il mondo stesso non seppe più che farsene. Solo l’unica Chiesa vivente, perché unita, la Vigna il cui coltivatore era lo stesso Padre, continuò a prosperare. È sempre stato così, ed è così ancor oggi. La forza della Chiesa è la sua unità che nulla può spezzare, non perché essa sia troppo forte, ché anzi, umanamente, è debole, ma perché la sua unità non è di questa terra. “Le cose stolte del mondo ha scelto Dio per svergognare i sapienti, le debolezze del mondo ha scelto per svergognare i forti, e le cose vili del mondo e le spregevoli elesse Dio, cose che non son nulla, per annientare le cose che sono: acciocché nessun individuo si glorii al cospetto di Dio. Orbene, per opera di Lui voi siete in Cristo Gesù il quale è stato fatto da Dio sapienza per noi e giustizia e santificazione e redenzione”. (I Cor. I, 27-30). – Nella storia della Chiesa di Dio possono riscontrarsi divergenze e divisioni, separazioni, perfino scandali, ma, ciò malgrado, la Chiesa una e cattolica continua a vivere. Il suo stesso Fondatore aveva predetto questi mali, conseguenze necessarie dell’elemento umano con cui Egli intendeva di operare. D’altra parte, i fratelli separati si riuniscono, o tentano di riunirsi. Essi vantano una unità di nome che non ha di fatto alcuna consistenza, tentano di assumere una apparenza di unità con metodi loro propri; possa Iddio benedire i loro sforzi. Essi si accordano qualche volta fra loro per timore di mali peggiori. Ma la loro unità non è né può pretender di essere una cosa viva: non viene che dall’esterno, è una convenzione e nulla più; solo alla superficie sembra rassomigliare a quella unità che è il Cristo vivo. Non può vantarsi di risalire a quella unità di fede e di amore e di speranza che S. Paolo e i suoi seguaci conoscevano, comprendevano e amavano, e per la quale sacrificarono anche la vita. L’unità che viene dall’esterno è cosa meccanica, non un organismo vivo; non ha capo, né corpo, né membra unite da una vita comune che tutte le pervada. Il mondo pagano guarda e non si illude, non rimane edificato, né si piega a credere; ed è contro la roccia del paganesimo che si misura il vero Cristianesimo. Una, non solo per convenzione, non solo per comprensione, ma in forza di un ordinamento eterno, non per ricchezza o vincolo sociale, e neppure per una gerarchia, ma per una vita che deve esistere prima che la gerarchia possa incominciare a costituirsi: ecco il segreto della Chiesa Cattolica. “Prima che Abramo fosse io sono?”. Prima dell’organizzazione c’è Cristo. La Chiesa Cattolica, come efficacemente dice S. Agostino, è Gesù Cristo in terra. Sovente si ode ripetere il grido: “Ritorniamo a Cristo”, ed è grido sincero, da qualunque parte venga. Ma perché la meta sia certa, il grido deve invocare qualche cosa di più. Non ci si dovrà fermare al Cristo uomo; si dovrà arrivare, in Cristo, fino a Dio, poiché è quello lo scopo della sua venuta sulla terra, ed Egli ce lo ha detto esplicitamente. Bisogna arrivare più avanti e più in alto: fino alle tre Persone divine nell’unico Dio che abita in noi, il centro di ogni vera Religione, la forza per la quale siamo e viviamo, l’ideale cui tende la natura umana, consapevole o no, il modello di quella vera unità e carità che sono o dovrebbero essere segno distintivo del Cristiano, la miglior garanzia per lui di essere realmente, come aspira ad essere, amico di Dio.

LO SCUDO DELLA FEDE (228)

LO SCUDO DELLA FEDE (228)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (2)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

SPIEGAZIONE DELLA S. MESSA

Anello che ricongiunge il cielo colla terra, perno su cui s’appoggia tutta la religione, centro, a cui mirano tutti i sacramenti, e a cui tutti i riti sono ordinati, è il Sacrificio della santa Messa. E in vero il Sacrificio, è sempre come il compendio, e l’espressione più genuina delle religioni, in cui sì pratica; sicché dove materiale e grossolano è il sacrificio, è rozza la religione: dove crudele ed empio il sacrificio, barbara e diabolica è la superstizione; dove santo al contrario e, come nella Chiesa Cattolica, il Sacrificio è divino, la Religione è santissima e al tutto divina. Anche nell’entrare nel tempio santo è dato di scorgere che le membra del sacro edificio con tutti gli adornamenti convergono al Tabernacolo di propiziazione, e tutte le immagini, che ridono d’una celeste bellezza, pare che a quello i loro sguardi rivolgano, e stiano d’intorno all’altare quasi a guardia d’onore. Poiché sull’altare cattolico stanno come scolpiti in basso rilievo gli augusti Misteri della Fede Cristiana, ed in fronte ad esso come sopra un acroterio in sublime iscrizione sta espressa tutta l’economia celeste della redenzione nostra operata da Dio: ed il Sacrificio; che sull’altare si consuma, è un vero spettacolo della misericordia di Dio. Quindi la Chiesa doveva questo augusto mistero a Lei affidato compiere con dignità; ed in esso tradurre in atto le sue credenze. Essendo poi Ella madre, e la vera educatrice dei Popoli, coi suoi riti doveva inspirare le sue idee e dare i suoi ammaestramenti ai figliuoli. Lo compresero i santi padri, e non credettero meglio aiutare questa madre, che collo spiegare le auguste cerimonie da Lei praticate nell’esercizio del culto divino, e fare ad esse partecipare i fedeli. Fin dal secondo secolo s. Giustino filosofo e martire per difendere la Chiesa in faccia ai tiranni, e farla rispettare, anzi amare da tutto il mondo, non credeva poter far meglio che esporre i riti con cui si celebravano nelle Catacombe i santi Misteri. Quindi s. Cipriano, s. Basilio, s. Giovan-Grisostomo nelle loro Omelie, s. Cirillo nelle sue Catechesi, e tutti i santi Padri alla maestà dei riti sacri si ispiravano sovente, e, facendo partecipi delle loro sublimi ispirazioni i fedeli, lì mantenevano in comunicazione continua collo spirito della Chiesa, che li praticava. E se ciò allora era bene, quando il popolo assisteva così fervorosamente alle sacre funzioni, e queste in gran parte erano anche eseguite nel linguaggio che in quei tempi ancora si parlava comunemente; per cui i fedeli assistenti alla Messa erano in continuo colloquio colla Chiesa c col Sacerdote, pare necessario di dover «piegare le belle e devote significazioni di queste auguste pratiche ora che il popolo prende ogni dì sempre più poca parte a ciò che si fa nella Chiesa e le sacri funzioni tiene quasi in conto di cosa, vorremmo dire, di professione dei sacerdoti, in cui egli non s’abbia per poco che fare. Per rimediarvi alcuni hanno voluto che si dovesse, nell’esercizio del pubblico culto abolire il linguaggio latino. Eh! bisogna pur dire che costoro non fossero informati a quello spirito di universal carità, che è l’anima della Chiesa Cattolica, che abbraccia in una sola famiglia tutti gli uomini di tutti i tempi dispersi sopra la terra, di nazione, di lingua, di colore diversi. Madre di tutti, Ella ha bisogno di una lingua, che, studiata in ogni terra, non sia il privilegio di alcun popolo del mondo. Veramente quando per esempio un fedele d’Italia si trova ad ascoltare la s. Messa celebrata dal prete nero d’Etiopia, o di color di rame dell’Oceania, sentendo sull’altare il linguaggio che parla il Pontefice in Roma; allora, si trovasse pure agli antipodi in mezzo ai più estranei popoli, sente di essere in mezzo ai fratelli, tutti figli della medesima madre, che tutti conduce per mano a ricoverarli in Paradiso (Conc. Trid. sess. XXII, cap. 8.). Inoltre, la latina lingua antica e misteriosa, non più soggetta a variare coi tempi, mentre conviene assai bene al culto dell’Essere eterno, incomprensibile, immutabile, tiene al sicuro le verità eterne da quel vortice di variazioni, che strascina gli uomini e le cose, che da loro dipendono, in mutazioni continue; e meglio la serba nella loro interezza entro le esatte forme di un linguaggio fuori d’uso e custodito da tutti (Car. Bon. lib. De rerum liturg. dove tratta del variare continuo delle lingue viventi). Pare ancora che le orazioni in lingua latina raddoppino presso la moltitudine il sentimento religioso. Ché nel tumulto dei suoi pensieri e delle miserie, onde è assediata la vita, il buon fedele, pronunciando nella sua semplicità parole a lui poco famigliari od anche sconosciute del tutto, si persuade domandar cose che a lui mancano e che non saprebbe quali. L’indeterminazione della sua preghiera la rende più graziosa, e l’inquieta anima sua, che mal conosce ciò che ella desidera, e inclinata a fare voti misteriosi, come sono misteriosi i suoi bisogni (Chateaubr.). Del resto sapendo di ripetere le parole che gli mette in bocca come a bimbo la madre, a lei si affida, e da lei unito dell’intelletto per la fede, e del cuore per la carità, vivendo per Lei in un’atmosfera più sublime d’intelligenza e d’amore, come pensa coi suoi pensieri, così gli vien bene esprimerti nelle sue orazioni in grembo alla madre colla misteriosa parola ch’ella gl’insegna (Bened. XIV. De Sacrif. Miss. lib. II, cap. 2). Sia benedetta questa Madre santissima! È nella speranza di meritare anche noi la sua benedizione, noi (se ce lo concede Iddio), vorremmo farla da interprete tra lei ed i suoi figli; ed in certo qual modo, mentre si trovano in seno a lei allora che tratta con Dio di tutti i loro più cari interessi, noi vorremmo farci a ridestar l’attenzione dei figli, quasi dire con semplicità: « vedete, ascoltate, sentite ciò che vi dice e fa la Chiesa con quelle tali cerimonie, e con quelle sante parole, che le ispira Iddio. » Troppo ben fortunati, se avremo porta occasione ai RR. Parrochi e Sacerdoti di far sovente parola dei santi riti della Chiesa, e massime della santa Messa. Perché, a dir vero, di alcuni fedeli, (e noi l’abbiamo provato nel trattare con loro nei momenti delle più sincere loro espansioni, dedicati essendo alle Missioni sante), ci sembrarono troppo meschine e ristrette le idee che hanno infatti dei più sacri misteri. Onde è che di un tempo il più prezioso e veramente accettevole appresso a Dio si fa sovente per loro un tempo di noia mortale; pel che se ne vanno volentieri lontano. Par bene adunque che bisogni aiutarli a farsi famigliari coi pensieri della Chiesa nelle sacre funzioni, e che bisogni iniziarli alla grandezza, alla profondità delle cose di Dio. E ci pare carità il dar loro la mano per sollevarli dal tempio al cielo; e, quando entrano nel luogo santo, trasportarli quasi in un’atmosfera spirituale tra le braccia della madre Chiesa a conversare con Dio. Perché essendo la Messa piena d’utilissimi e grandi misteri (Cone. Trid. sess. XXII, cap. 8.), in essa troviamo come lo spirito di tutta la nostra religione, e, col compendio di tutti i misteri, anche un’idea di tutte le obbligazioni che il Vangelo c’impone, ed una caparra di tutte le promesse, che ci fa intravedere la fede, ed anche un saggio anticipato della felicità, che ci appresta la misericordia di Dio. Ah! quando conosceremo la forza e il valore di tutte le cerimonie alla grande oblazione consacrate, nel vedere Gesù, che mai non si spoglia della qualità di vittima, che si sacrifica, e resta in mezzo a noi, intenderemo, che la nostra con lui non deve essere una unione passeggiera, ma in ogni tempo, in ogni circostanza ci dovremo considerare come vittime da immolare con Lui nel sacrificio della vita cristiana, e vivere del cuore sempre uniti con Lui. Perciò, affinché non manchi questo sostanziale pascolo alle agnelle di Gesù Cristo, ed affinché i pargoli non chiedano pane, se non vi sia chi loro lo spezzi in mano, comanda la Chiesa, che spesso nella celebrazione della Messa ai fedeli raccolti si spieghi ciò che si legge e si pratica nel Sacrificio, e specialmente nei giorni di festa (Conc. Trid. sess. XXII, De Sac. Mis., cap. 8). – Come fecero, e fanno già molti, anche noi vorremmo aggiungere l’opera nostra. Desiderosi di farlo nel povero modo, che per noi si possa, abbiamo abbracciato anche tutte le occasioni, che ci si presentarono, per parlare di altri riti e di altre istituzioni, come chi gode di parlare coi fratelli di tutte le cose, che appartengono alla comune madre carissima; anche nella speranza di dare in mano ai fedeli, fossero pure neofiti, un Libro che basti a farli istruiti degli usi, per dir così, più comuni della nostra Chiesa, e metterli in comunicazione coi fratelli, che ci precedettero in paradiso; coi quali, benché siano in cielo, noi qui in terra facciamo una sola famiglia, quando siamo nella Chiesa Cattolica. – Abbiamo diviso tutta l’opera nostra in tre parti; cioè: La Preparazione, — Il Sacrificio. — Il ringraziamento della Messa. Ma prima è a dire che cosa sia il Sacrificio della santa Messa, ed il perché il Sacrificio si chiami Messa. Cominceremo pertanto da questo nome.

LA GRAZIA E LA GLORIA (47)

LA GRAZIA E LA GLORIA (47)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO V

Sulla natura della visione beatifica. L’atto in sé e le sue proprietà.

1. – Questo studio sulla visione beatifica rimarrebbe incompleto se non parlassimo dell’atto stesso, dopo averne considerato il principio e l’oggetto immediato.  La prima domanda che sorge è la seguente: questa operazione sarà unica e sempre la stessa, oppure dobbiamo credere che sarà uguale ai nostri pensieri attuali, cioè che ci sarà una molteplicità ed una successione di atti? – Innanzitutto, diciamo che è con un solo colpo d’occhio, con lo stesso atto, che gli eletti contemplano sia Dio che tutto ciò che vedono in Dio. – Questa risposta deriva chiaramente dalle nozioni che abbiamo stabilito: Infatti, la forma ideale che determina la loro intelligenza, cioè l’oggetto soprannaturalmente intelligibile che la penetra con la sua luce e la feconda, è infinitamente una. Pertanto, poiché l’operazione risponde alla forma ideale, non potrebbe essere multipla, senza che vi sia, per questo stesso fatto, un totale rovesciamento delle leggi intellettuali. Se ci è difficile concepire questa immensità con un solo sguardo, è perché, allo stato imperfetto della nostra conoscenza naturale, con un’intelligenza in cui ogni oggetto è dipinto nella sua particolare e limitata somiglianza, noi non possiamo comprendere la potenza e l’efficacia di questa forma unica, in cui si riassumono ogni luce ed ogni verità. – Uno per ogni momento della durata, l’atto dell’intuizione divina sarà sempre lo stesso, identico in se stesso, senza fine, senza intermittenza o successione, eterno di conseguenza? Sì, tutte queste proprietà sono le sue. – Nessun termine: perché noi saremo sempre con Dio (I Tess. IV, 16). E sarebbe con Dio colui che smettesse di contemplarlo faccia a faccia? Perché la visione beatifica dovrebbe avere una benché minima interruzione? È forse perché l’essere su cui si appoggia sarebbe destinato a perire, o a svanire per un istante? Ma Dio, che è l’oggetto di questa visione, è l’eternità stessa; ma l’anima, che è il suo solo soggetto e principio intimo, è immortale. È forse perché la forma ideale che illumina l’intelligenza si ritirerebbe da essa o subirebbe una qualche eclissi? Ma i doni di Dio sono senza pentimento; e se Egli si allontana, se si allontana da un’anima, è perché essa stessa ha posto la causa di questo abbandono. È perché i figli di Dio si staccherebbero dal loro Padre? Ma, come spiegheremo presto, l’anima che Lo contempla diventa impeccabile, immobilizzata com’è nella perfezione dell’amore. – È perché, infine, le influenze esterne, agendo su questi spiriti beati, potrebbero turbarli nella loro estasi e distrarli dalla vista del loro Dio? Certamente comprendo questi ostacoli e distrazioni nella nostra condizione attuale. Non si può rimanere a lungo fissi nella stessa contemplazione, anche se la volontà non risparmia sforzi per eliminare tutto ciò che potrebbe distogliere la mente da essa. Questo perché l’esercizio delle nostre facoltà più elevate, pur non avendo come principio un organo materiale, è in una dipendenza necessaria e continua dai sensi, dall’immaginazione e da mille altre cause diverse che lo disturbano o, almeno, ne cambiano la direzione. Ma niente del genere può raggiungere l’anima del vedente, perché la contemplazione che egli ha del suo Dio non è vincolata da alcun attaccamento alle funzioni delle facoltà inferiori. – Scendiamo ancora di più, se è possibile, nella profondità delle cose. Perché nella mente creata si passa così spesso da un pensiero all’altro? È perché in ogni nostra potenza di conoscere essa non è entrata in azione solo che in modo molto incompleto; in altre parole, è perché la forma ideale che agisce su di essa non ha conquistato così pienamente la forza vitale dell’intelligenza che una seconda forma non può afferrarla nello stesso momento a scapito della prima. Ma quando l’essenza infinita di Dio si è, per così dire, infusa nelle profondità dell’intelletto per applicarlo interamente alla contemplazione delle sue bellezze, quale altra immagine potrebbe essere mai tanto potente da sostituirla? Che cos’è? Ci potrebbero essere per lo studioso, l’artista o il Santo di quelle visioni così impressionanti che nessun rumore esterno, nessuna eccitazione sensibile sia talvolta sufficiente a distrarli dalla loro estasi. E Dio, l’eterna Verità, che si rivela con tutto il suo splendore, permetterebbe a non so quali cause create di interrompere l’estasi in cui la sua vista pone le anime?  Del resto su questo grave soggetto abbiamo le affermazioni ben espresse da Benedetto XIII nella Costituzione già menzionata; in essa vi si legge, infatti, che la visione intuitiva e il godimento beatifico che ne deriva devono persistere « eternamente, senza interruzione né rilassamento » (cfr. L. IX, c. 2). –  San Tommaso ha detto tutto in due parole: « Questa operazione è unica ed eterna » (Hæc operatio in eis est unica et sempiterna) 1. 2, q. 3, a 2 ad 4. « Creaturæ spirituales quantum ad affectiones et intelligentias in quibus est successio, mensurat tempore… Quantum vero ad eorum esse naturale, mensuratur ævo; sed quantum ad visionem gloriæ participant æternitatem ». Id. 1 p., q. 10. a. 5, ad 1). Unico: quindi senza molteplicità; eterno: quindi senza successione o fine. Che cosa ammirevole è questa contemplazione del nostro grande Dio! Lo abbiamo ben compreso: tutta la verità, tutta la bellezza, tutto lo splendore, visti e posseduti in un solo sguardo in quel presente unico e immobile che si chiama Eternità!  Un sant’Ignazio, dopo un’estasi di otto giorni interi, torna, per così dire, in mezzo ai mortali e si meraviglia di sapere che la sua estasi sia durata più di un momento. Chiedete agli eletti ai quali la morte del Redentore ha aperto le porte del cielo e chiedete loro da quanto tempo godono del volto del Signore; e se il buon Dio lo permette, risponderanno: “Per noi c’è solo un momento, ma un momento che non passa e non tramonta, perché non appartiene al tempo ma all’eternità” (S. Thom., c. Gent. L. III, c. 62). – Sì, ora capisco il significato profondo contenuto nelle parole del mio divino Maestro: « La vita eterna, o Padre, è che conoscano te, l’unico vero Dio, e Gesù Cristo che Tu hai mandato » (Gv. XVII, 3) e di queste altre che l’Evangelista ha posto dopo la sentenza finale: « E i giusti andranno alla vita eterna » (Mt. XXV, 46). La vista di Dio è la vita nel suo atto più perfetto, perché è un’operazione dell’intelligenza, la più sublime che si possa immaginare per quanto riguardi l’oggetto e il modo di raggiungerlo, poiché l’Uno è l’Essere per eccellenza, e l’altro, un’intuizione. È la vita eterna, perché da qualsiasi lato si guardi questo atto di vita, sia che lo si consideri in sé, sia che se ne esamini il principio e l’oggetto, non troviamo nulla che dia l’idea di successione, nulla che richiami la possibilità di un cambiamento. Allora, come dice in modo eccellente il grande Agostino: « I nostri pensieri non fluttueranno più da un oggetto all’altro, per poi tornare a quello che hanno lasciato: un colpo d’occhio  abbraccerà tutta la nostra scienza. » (S. August., De Trinit. L. XV, c. 16. Nulla è così bello come i passi delle Confessioni in cui il grande Dottore parla della felicità immutabile degli Angeli, di quella felicità che speriamo sarà la nostra. « Volete negare che esista qualche creatura così elevata e così unita da un amore casto al vero Dio, al Dio veramente eterno, che pur non essendo co-eterna con Lui, non si separa mai e non si ritira da Lui per cadere nei cambiamenti del tempo, ma riposa sempre nella contemplazione beata e perfetta di Dio? Perché, amandovi, Signore, quanto lo comandate vi mostrate ad essa, e gli bastate così tanto che non si allontana mai da Voi, nemmeno per rivolgersi a se stessa. Questa è la casa del Signore, non una casa terrena o celeste, avente la natura dei corpi, ma una casa tutta spirituale e partecipe della tua eternità, perché è senza macchia e lo sarà sempre… Essa procede da Voi, o mio Dio, eppure è completamente diversa da Voi e non è Voi stesso. È vero che non troviamo il tempo prima di essa o in essa, perché essa contempla sempre il vostro volto e non distoglie mai lo sguardo da esso, il che la rende immune da ogni cambiamento; tuttavia, in virtù della sua nativa mutevolezza, potrebbe diventare oscura e fredda, se la grandezza dell’amore che la unisce a Voi non ne facesse un pieno giorno tutto risplendente ed ardente con i vostri fuochi. » Confessioni, L. XII, c. 5. E altrove: « Che queste gerarchie di Angeli, innalzate sopra i cieli, cantino incessantemente le vostre  grandezze; spiriti benedetti che non sono obbligati a considerare questo firmamento delle vostre sante Scritture per leggere e conoscere la vostra parola. Essi vedono sempre il vostro volto e, senza l’aiuto delle sillabe del tempo, vi leggono i consigli della vostra volontà eterna. Essi li leggono, li abbracciano, li amano, li leggono sempre, e ciò che leggono non passa… Il loro libro non si chiude affatto e non si chiuderà mai, perché Voi stesso siete quel libro, e lo sarete in eterno. »- Id, ibidem, L. XIII c. 5).

2. – Eppure, questa visione, per quanto sì unica e perfetta, non esclude le confidenze particolari in cui Dio rivela ai suoi eletti sia i liberi consigli della sua volontà, sia dei fatti contingenti che non ha mostrato nella sua essenza. Essa non esclude gli atti di conoscenza più o meno moltiplicati che rispondono ad immagini create, acquisite naturalmente o infuse divinamente. – Ecco come gli spiriti angelici, sebbene fossero investiti dalla luce divina come da un sole, non abbiano appreso che solo più tardi dei tempi fissati per l’Incarnazione del Verbo e di molte circostanze del mistero; come i Dottori, e in particolare il grande Areopagita, ci parlino di illuminazioni che discenderebbero dal cuore di Dio fino agli ultimi ordini degli Angeli, passando per gli Ordini più elevati. Ecco soprattutto, perché i teologi siano concordi nel riconoscere nel Dio fatto uomo, oltre alla scienza dei comprendenti, cioè la visione beatifica, una scienza infusa ed anche una scienza acquisita. Dio, che è magnifico nei suoi doni, vuole che l’intelligenza dei suoi eletti riceva tutti i tipi di perfezione di cui è capace. Ma le Sue elargizioni non vanno contro l’ordine essenziale delle cose; e per quanto brillanti possano essere questi astri secondari illuminati nel cielo degli spiriti beati, tutti impallidiscono di fronte all’unica e sempre presente intuizione, come le stelle davanti al sole. Essa sola in effetti, riproduce in pieno il modo di conoscenza naturalmente proprio di Dio; quello, di conseguenza, che è la sostanza stessa della beatitudine eterna.

3. – Vorrei soffermarmi per qualche istante ad esaminare alcune idee sulla visione beatifica che io trovo espresse in opere recenti. Se si dovesse credere agli autori, Dio non si fermerà nella manifestazione che Egli stesso fa ai suoi eletti. Contemplando il Suo volto adorabile, non smetteranno di scoprirvi nuove perfezioni; e, man mano che il loro amore aumenta in proporzione alla loro conoscenza ci sarà un progresso continuo, un progresso indefinito nella beatitudine, senza altri limiti che quelli dell’eternità. – Due considerazioni, una tratta dalla natura di Dio, l’altra da quella della creatura intelligente, sembrano decisive a favore di questa opinione. Dio non sarebbe il Bene sovrano se non tendesse a diffondersi: questa è il suo bisogno e la sua legge; e ce lo mostra chiaramente, poiché, secondo la bella formula di Sant’Agostino, ogni suo beneficio è il pegno di una generosità più abbondante: « beneficia Dei, beneficia et pignora ». Possiamo essere convinti che queste effusioni della generosità divina si esauriranno in cielo e che Dio pronuncerà lì quella parola che non ha mai pronunciato quaggiù: satis, basta così? D’altra parte, la natura creata non può accontentarsi di una felicità che sarebbe sempre la stessa. Una vita senza progresso e come immobilizzata, non può essere la vita perfetta, perché la vita è movimento. E poi, non c’è il rischio che uno spettacolo, per quanto delizioso, generi una sorta di noia, se nuove sorprese e più meravigliose estasi non ne dissipano la monotonia? – Se tutto questo non avesse altro scopo che quello di ammettere, al di fuori della visione beatifica, certe manifestazioni divine e certe conoscenze che si susseguono nelle intelligenze glorificate, ci sarebbe motivo di sottolineare l’esagerazione dei termini e ancor più l’inanità delle prove; tuttavia, la conclusione non presenterebbe nulla di inammissibile in sé. Ma sono in gioco l’atto essenziale e la visione beatifica. Ora, da questo punto di vista, che è il suo, la nuova dottrina, lungi dal poter contare, come pretende, sulla natura della beatitudine o sulla perfezione divina, vi trova la sua confutazione. – Voi pretendete che la bontà infinita di Dio non possa essere spiegata senza una generosità sempre più abbondante. Dimenticate che se non ha detto « basta » durante la durata della prova, è perché i suoi figli erano allora in fase di crescita, e che l’uso santo dei benefici ricevuti li stava preparando ad altri benefici. Ma in cielo, c’è lo stato dell’uomo perfetto. Il vaso è pieno, e piena è la misura. Fin dal primo momento, il veggente ha messo nel suo sguardo tutta l’energia, tutta l’ampiezza di cui il giudizio di Dio lo renda capace. Estendere il campo visivo richiederebbe un aumento della grazia santificante, un perfezionamento nella luce della gloria: infatti l’atto è adeguato al suo principio. La freccia è entrata nell’oceano di luce fin dove la spinta dell’amore poteva portarla, e l’amore stesso non aumenta, poiché gli eletti sono arrivati alla fine. – Inoltre, le prodigalità di Dio, lungi dall’arrestarsi, continuano a scorrere a fiotti più che mai, perché questo splendore di gloria Egli lo conserva, questa suprema perfezione di conoscenza, è costantemente sua. Ammirate la bontà divina quando solleva il sole sopra l’orizzonte delle anime, e la giudicate meno benefica quando le annega costantemente nella luminosità di un eterno mezzogiorno? – Ancora si obietta invano che una vita senza movimento non sia una vita. Lo ammetto, non c’è vita senza movimento; ma ammettete, a vostra volta, che il movimento che rende la vita perfetta non portI con sé né cambiamento, né successione, né progresso, poiché tutto ciò non è altro che il passaggio dalla potenza all’atto, e presuppone l’imperfezione della vita stessa. Se esiste una vita sovranamente piena e sovranamente perfetta, questa è la vita divina, essendo Dio stesso la sua vita. È un movimento infinitamente perfetto, perché è un atto infinitamente puro; è un movimento infinitamente immobile, perché è eterno ed immutabile per eccellenza. L’immobilità del cadavere è la totale privazione della vita; l’immobilità nella contemplazione della bellezza suprema ne è il suo possesso più completo. Quindi, per concludere, la vita degli eletti sarà tanto più perfetta quanto meno mobile, meno mutevole e meno progressiva. –  Non temete che questa visione di Dio, sempre uniforme, sempre uguale, alla fine diventi monotona e stancante. « Niente – dice il Dottore Angelico a questo proposito – niente è noioso in ciò che contempliamo con costante ammirazione, perché dove rimane l’ammirazione, rimane anche il desiderio. È impossibile che la sostanza divina non susciti eternamente l’ammirazione dello spirito creato che la contempla: perché se può vederlo, non potrà mai comprenderlo » (S. Thom, c. Gent, L. III, c. 62. Cfr. L. IX, c. 4). Un’osservazione profonda che, ben meditata avrebbe messo a tacere ogni scrupolo. – « Capisco la noia di fronte al traguardo di qualsiasi bellezza diversa da quella infinita, essa può nascere dall’oggetto stesso; ad esempio, quando scopro delle imperfezioni che all’inizio non mi avevano sconvolto. Essa può avere la sua origine dal lavorio o dalle preoccupazioni che accompagnano il godimento: è un bel concerto, ma io soffro, … ma gli affari urgenti mi chiamano; se si prolunga, la mia attenzione è divisa e presto il disgusto segue il piacere. E poi, non è possibile che una facoltà sia soddisfatta, senza che le altre abbiano il piacere che richiede? Infine, per il fatto stesso che ciò che vedo o ascolto è di una bellezza finita, né la mia intelligenza né il mio cuore si saziano pienamente; da qui l’inquietudine, l’ansia, quando, dopo l’eccitazione iniziale, si avverte il vuoto. – Ma, o bellezza sempre antica e sempre nuova, non c’è nulla di simile da temere per i figli che ammettete a vedere il vostro volto: né i difetti sconvolgono, poiché siete tutta la perfezione; né la stanchezza che irrita, poiché il corpo e gli organi, fossero ancor passabili, non hanno parte nell’operazione più spirituale che si possa concepire; né l’inquietudine nelle facoltà inferiori dell’anima, poiché la visione di Dio non prescinde dalla loro completa perfezione; né il sentimento di vuoto, poiché riempite pienamente tutta la capacità dello spirito che vi contempla. » (S. Thom, IV, D, 49, q. 3, a. 2, ad 3.).  Se, nonostante queste risposte, continuate a sostenere che la semplice continuità della stessa intuizione non può soddisfare perennemente la nostra sete di conoscenza, vi chiederò come fa Dio a non stancarsi della comprensione che ha di se stesso, Egli il cui sguardo è l’immutabile eternità?

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (9)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (9)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO III

La vita nella Chiesa

2. – La Vita Sacramentale.

Non è la S. Messa l’unico mezzo di grazia e di progresso per la vita spirituale, ossia, non ci stanchiamo di ripeterlo, per la formazione dell’uomo perfetto. Nostro Signore Gesù Cristo ci ha detto ch’Egli è venuto non per distruggere ma per compire, e la storia ha dimostrato la verità delle sue parole. Il Cattolico, ogni vero Cristiano, crede che seguendo Lui e usando i mezzi ch’Egli ha messo a nostra disposizione, l’individuo raggiunge il livello massimo in questa vita e per la futura, e nell’aderenza a Lui e alla sua legge s’innalza e si nobilita anche tutto il tenore della vita sociale collettiva. Egli crede che in ciò appunto consista la civiltà cristiana, e che obbedendo ai suoi comandi e in nessun altro modo si sia prodotta nell’umanità quella grande rivoluzione al cui confronto nessun’altra regge. Ora, fra i mezzi che Cristo ha messo a nostra disposizione, alcuni ve ne sono così semplici in se stessi da poter sembrare addirittura banali, ma, nella loro efficacia e a motivo del loro significato, assolutamente fondamentali di tutto il pensiero cattolico. Sono i sette sacramenti. Il cattolico sa che vi sono alcune cerimonie esteriori, alcuni atti o segni, istituiti e indicati, almeno in ciò ch’è loro essenziale, nella materia e nella forma, da Nostro Signore stesso. –  Queste cerimonie o atti compiuti secondo quanto Egli ci ha ordinato, con l’intenzione ch’Egli ebbe nell’istituirli e in prova della nostra fede nella sua parola e della nostra adesione a Lui, conferiscono all’anima per virtù propria qualche grazia speciale, qualche segno particolare della sua bontà che in nessun altro modo si potrebbe ricevere. Sapeva Cristo come la natura umana tenda ad essere attratta e impressionata dal cerimoniale esterno, dalle manifestazioni visibili e dal simbolismo sensibile. Una stretta di mano, il saluto di un superiore, una semplice parola, anche se convenzionale, uno sguardo, un gesto, un accento, tutte queste cose e molte altre ancora, trascurabili in se stesse ed insignificanti, possono invece diventare nei rapporti fra uomo e uomo così espressive e significative che la vita ne risulta tutta intessuta e anzi è da esse diretta. Sono segni materiali esteriori che contengono un intimo significato ed esprimono più delle parole, più preziosi dell’oro e dell’argento; sono riti sacri, in un certo senso sacramenti naturali che cementano la fratellanza umana in proporzione diretta della esiguità del loro valore intrinseco. – Non può quindi meravigliarci che, nella sua infinita bontà e quasi adeguandosi alla nostra piccolezza, Dio abbia voluto, per mezzo di Cristo suo Unigenito, stabilire certi segni esteriori o convenzioni fra Sé e l’uomo, certi atti o pegni in cambio dei quali l’uomo riceverà da Lui particolari prove della sua benevolenza e del suo amore. Ecco i sette sacramenti, che non sono soltanto segni di grazia ricevuta, ma essi stessi conferiscono la grazia, in questo senso che il fedele, il quale compie l’atto esteriore secondo lo spirito di Gesù Cristo che l’istituì e con le disposizioni ch’Egli richiede, immediatamente riceve la grazia che l’atto è inteso a significare. Come fra due persone una stretta di mano dopo un diverbio esprime non soltanto il pentimento dell’una e il perdono dell’altra, ma indica pure che sia il pentimento che il perdono sono stati effettivamente offerti ed accolti, così i sacramenti conferiscono le loro grazie speciali non soltanto in virtù delle disposizioni e dei meriti di chi li riceve, ma di per sé e per virtù loro propria. Le conferiscono oggettivamente e indipendentemente dal soggetto che li riceve, quali strumenti vivi nelle mani di Dio e per i soli meriti di Nostro Signore Gesù Cristo. “Fa questo — dice il Padre al figlio — dammi questa prova di sottomissione e di fiducia, e Io ti darò ciò che Io solo posso dare. Ecco perché il Cattolico tiene in sì gran conto i sacramenti. Essi costituiscono un elemento necessario, senza del quale la sua vita non può debitamente funzionare. Sono le vene del corpo che, dal centro, ossia dal cuore di Cristo, portano ad ogni membro il sangue della vita; sono i canali per cui le acque vive fluiscono all’orto concluso. Il Cattolico fa della fede nei sacramenti un tratto distintivo della sua religione in azione; si può quasi dire che la sua devozione e la sua frequenza ai sacramenti diano la misura della sua stessa fede. Ed è vero: quando si dice di un Cattolico che si accosta o meno ai sacramenti ogni altro Cattolico comprende subito che cosa significhi e non occorre dir altro. – Non sarà quindi fuor di luogo indugiare un istante sulla portata di ciascuno dei sette sacramenti nella Chiesa Cattolica. Sono, come abbiamo spiegato, dono gratuito di un Dio che ci ama, dono più grande e più bello di qualsiasi beneficio possiamo altrimenti ricevere. Da noi dipendono solo in quanto compiamo ciò che si richiede per riceverli, e, ciò fatto, sono essi che riversano sull’anima nostra in sovrabbondanza la grazia acquistataci dai soli meriti di Gesù Cristo. Ogni sacramento conferisce una grazia propria; ciascuno fu istituito per una circostanza particolare, per rispondere a uno speciale scopo o bisogno della nostra vita rituale, tanto grande è l’amorosa provvidenza del nostro Dio. – Così, nel Battesimo l’anima viene iniziata alla sua carriera spirituale, nasce di nuovo, e abbiamo già visto come effettivamente si compia questa rinascita. Il battezzando era prima un essere umano e nulla più, senz’altri diritti che quelli umani; battezzato, diventa un essere nuovo, con diritti proprî alla vita eterna. Riceve la grazia della rigenerazione spirituale, si purifica del peccato d’origine, il funesto effetto della caduta del primo uomo di cui abbiamo parlato altrove. Si crea nell’anima per il Battesimo “l’uomo nuovo”, rigenerato, “nato dall’acqua e dallo Spirito Santo” che vive della vita di Gesù Cristo. Come San Paolo arditamente si esprime, muore nel Battesimo l’uomo vecchio, l’uomo semplicemente naturale; l’anima è sepolta con Cristo, e con Lui risorge per vivere ormai una vita nuova che è la stessa vita risorta di Lui, una vita eterna, con tutti i diritti e le esigenze che le sono inerenti. « Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù siamo i battezzati nella morte di Lui? Siamo stati dunque sepolti con Lui per mezzo del battesimo nella morte, affinché, come fu resuscitato Cristo da morte per la gloria del Padre, così camminiamo ancor noi in novità di vita ». (Rom. VI, 3, 4). « Difatti quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo ». (Gal. III, 27). “Sepolti con Lui nel Battesimo, nel quale anche siete stati con Lui resuscitati per la fede nell’onnipotenza di Dio che Lui resuscitò da morte”. (Col. II, 12). Da questi testi e da altri simili possiamo facilmente dedurre che, nel pensiero di San Paolo e di tutti i primi Cristiani, il sacramento del Battesimo aveva un duplice significato ed effetto. Dava in primo luogo la morte al peccato, la grazia della crocifissione spirituale della natura inferiore, dell’ “uomo vecchio”, per la quale grazia l’anima è fatta capace di combattere e dominare le proprie inclinazioni cattive. E conferiva in secondo luogo la grazia della rigenerazione spirituale, ossia incorporava l’anima battezzata a Cristo suo Signore, ammettendola alla sua stessa vita e ponendola in grado di parteciparvi. La sollevava ad un’altezza in cui avrebbe potuto vivere in conformità al desiderio e all’esempio di Lui, diventando così un Cristiano perfetto, un altro Cristo. Ma di conseguenza, come San Paolo non si stanca mai di ripetere, si veniva a formare da parte del battezzato un impegno corrispondente. Essere battezzato significa accettare una responsabilità gloriosa, è vero, ed onorifica, ma sempre responsabilità, non costrizione, rimanendo intatto il libero arbitrio umano che Cristo non vorrà mai ostacolare e del quale l’anima dovrà usare da sé e per sé. Combattere dunque il peccato e le sue cause, sia nell’intimo dell’anima che nel mondo circostante, aderire a Cristo e riprodurlo in sé, tale è il compito di chi è battezzato “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. La Cresima o Confermazione è il secondo dei sacramenti che, come il termine stesso suggerisce, infonde al Cristiano nuova forza per le sue battaglie, confermandolo e consacrandolo soldato di Cristo. Quando il fanciullo si avvia alla virilità, quando giunge l’epoca in cui può venir richiesto di professare apertamente e generosamente, e forse anche a proprio rischio e pericolo, la fede e l’adesione a Cristo e alla sua divinità contro qualunque avversario, il sacramento della Confermazione gli è somministrato come arma di difesa, come baluardo è sostegno, soprattutto come antidoto al più abile dei suoi nemici, il rispetto umano, che è pura viltà per quanto generica e che trattiene tanti dalla pratica della fede che pure posseggono. La Cresima aumenta la luce della fede, dà una tranquilla sicurezza della verità anche quando la ragione non scorge che tenebre e quando l’ignoranza diviene aggressiva, genera vera letizia nel servizio di Dio quand’anche tutto il resto porti alla tristezza, alla sofferenza, al martirio. Col sacramento della Cresima lo Spirito Santo invade l’anima in una maniera nuova e così i suoi doni, già elargiti nel sacramento del Battesimo, si rinnovano e si diffondono e si accrescono. La fede è illuminata a vedere le cose migliori e messa in condizione di svilupparsi con più grande gioia e certezza, penetra più nell’intimo, diviene essenziale all’anima e ad essa connaturata. E al tempo stesso, mentre questo sacramento apre l’intelligenza a vedere e a comprendere, rinvigorisce la volontà per l’azione. Col suo aiuto si acquista maggior facilità sia a resistere al male che a compiere il bene. È questo, in breve, il sacramento della virilità cristiana che giunge provvidenziale all’epoca in cui si combattono in pieno le battaglie della vita. Il sacramento dell’Eucarestia non richiederebbe qui altre considerazioni, essendo già stato lungamente trattato altrove, sebbene in verità, per trattarlo in maniera conveniente e proporzionata alla importanza secondo il pensiero cattolico, “il mondo intero, credo, non potrebbe contenere i libri che se ne dovrebbero scrivere”. Il Cattolico l’ama come la luce degli occhi, lo considera un vero tesoro pel quale sarebbe disposto a sacrificare qualunque cosa; anzi, nell’avvicinarci al termine di questo studio, vien fatto anche a noi di chiederci se non avremmo meglio raggiunto lo scopo concentrando tutto su quest’unico argomento, dimostrando che precisamente nell’Eucarestia sta tutto il pensiero cattolico, tutta la vita della Chiesa Cattolica. In essa, tutto conduce all’Eucarestia o ne deriva. I Vangeli stessi culminano nel discorso alla sinagoga di Cafarnao e in quello dell’ultima Cena a Gerusalemme. Il primo segnava, come disse Cristo stesso, il divergere delle vie; il secondo doveva essere seguito dalla sua morte e dalla sua vittoria. Tutta l’umanità quindi sarebbe divisa secondo questo criterio: l’accettazione o meno del suo Corpo e del suo Sangue come cibo e come bevanda. L’unità cattolica non è mai meglio dimostrata e rivendicata che attorno al banchetto eucaristico; in nessun altro luogo e momento appare più evidente e più desolante la divisione degli acattolici. La dottrina stessa dell’Infallibilità si può dimostrare come conseguenza logica e necessaria del Verbo infallibile che ci diede il suo Corpo e il suo Sangue. Colui che disse: “Questo è il mio Corpo”, e poi: “Fate questo in memoria di me”, disse anche: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli”; “Chi ascolta voi ascolta me, e chi disprezza voi disprezza me”. Così la Santa Eucarestia nutre insieme l’anima che la riceve e tutta la Chiesa di Dio, facendone una cosa sola con sé, la stessa infallibile Verità. Affinché sia il corpo che le membra possano sussistere e crescere, hanno bisogno di cibo adatto alla loro vita, e siccome si tratta di vita divina, solo un nutrimento divino può alimentarla. Questo ci è dato nella SS. Eucarestia, il sacramento del Corpo e del Sangue, dell’Anima e della Divinità di Gesù Cristo. Esso ci trasforma in altrettanti Cristi e ci riempie realmente, non solo metaforicamente, del suo spirito, del suo pensiero, delle sue virtù, soprattutto del suo amore vivo e fecondo. – Se l’anima ha la sventura di perdere, per il peccato, questa vita della grazia, o se si macchia di colpe veniali (chi mai potrà rimanerne esente?), allora interviene il sacramento riparatore della Penitenza a lavare la colpa, ad effettuare una nuova riconciliazione, ad infondere nuova speranza e nuovo coraggio, a mettere il peccatore in grado di riabilitarsi. In multis offendimus omnes: tutti abbiamo peccato in moltemaniere; ciascuno di noi deve dirlo di se stessoe Dio misericordioso sa che così è per noi tutti.“Se diremo di essere senza peccato, inganniamonoi stessi, e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, Dio è fedeleper rimetterci i nostri peccati e purificarci daogni iniquità. Se diremo di non aver peccato,facciamo bugiardo Lui, e la sua parola non è innoi ». (I Giov. I, 8, 10).Gesù Cristo venne nel mondo innanzi tuttoe più che tutto “per salvare il suo popolo dalpeccato”.Di Sé parlò, più che altro, come di uno mandatomeno per i giusti che per un solo peccatoredisposto a far penitenza. Una volta sola nella suavita quaggiù provò il suo diritto divino direttamentecol miracolo, e fu quando per la primavolta osò dire: “Ti sono rimessi i tuoi peccati”.Quando fu resuscitato da morte ed ebbe riunitoi suoi Apostoli, suggellò il patto strettocon loro con questa nuova missione: “Ricevetelo Spirito Santo. Colui al quale rimetterete ipeccati gli saranno rimessi”. Si è dato premura,in questa circostanza come in altre, di assicurareal sacramento della Penitenza la conferma piùmanifesta, essendo appunto questo che applica all’anima la virtù salvifica del suo Sangue prezioso.All’anima non si chiede che di confessar le suecolpe, di pentirsene sinceramente, di risolvere confermezza di non più peccare, e in virtù dell’assoluzioneessa è perdonata. Imporre condizioni ancorpiù facili sarebbe stato indegno di Dio e dell’uomo;una volta che la contrizione sia sincera, ègarantito un perdono completo e risanatore, dellanatura stessa di Dio.Vi è un’altra ora di debolezza alla quale haprovveduto l’amorosa condiscendenza del Signore.Quando la morte viene a battere alla nostra portaabbiamo ancora bisogno di esser rinvigoriti e aiutati,per quanto lo possano ausili umani e divini, a procedere verso il trono del Dio vivo, il Giusto Giudice al quale nulla rimane nascosto, al cui cospetto nemmeno gli Angeli son puri. Può darsi che le nostre colpe passate ci inducano all’avvilimento o al timore o, quel che è peggio, può darsi che nella durezza di un cuore ostinato non sentiamo alcun dolore dei nostri peccati. Anche le debolezze presenti, più o meno gravi, potrebbero farci tremare alla prospettiva del giudizio imminente, o, cosa più tragica, l’anima potrebbe varcare la soglia dell’aldilà in un atteggiamento di sfida ostentata. Allora si somministra al malato il sacramento dell’Estrema Unzione per fortificarlo o per dargli coscienza dell’istante fatale. Si ungono con l’olio consacrato gli organi di tutti i suoi sensi, le porte dalle quali può essere entrato il peccato, e nello stesso tempo si versa sull’anima una grazia di consolazione e di rinnovamento spirituale. La durezza del cuore cede alla verità, i resti della colpa vengono cancellati, la fiducia si ravviva, l’anima riceve forza per vincere le ultime prove e tentazioni, ed è tutta invasa da quella speranza espressa da San Paolo quando asseriva di aver combattuto la buona battaglia e si rallegrava al pensiero della corona che l’attendeva. E lasciateci concludere con un’osservazione a proposito di questo sacramento. Molto si parla di miracoli ottenuti dalle preghiere e dalle devozioni dei fedeli; noi crediamo che quelli operati dall’Estrema Unzione li superino tutti. Ogni sacerdote che abbia esperienza di moribondi ha probabilmente avuto occasione di meravigliarsi delle vie di Dio a loro riguardo, in grazia alle quali i fedeli ricevono questo sacramento anche con mezzi straordinari e, quando l’abbiano ricevuto, sono inondati in maniera evidente delle sue consolazioni naturali e soprannaturali. – Notiamo che questi cinque sacramenti sono dati per santificare l’anima singola e provvedere a tutti i suoi bisogni individuali quaggiù. Vi è il sacramento dell’inizio e quello della fine, e v’è il sacramento della maturità che è la Confermazione. Vi sono i sacramenti che conferiscono la vita: la Penitenza, risanando l’anima caduta, e l’Eucarestia, nutrendola del pane vivo che è Cristo. Ma ve ne sono altri due. Non essendo l’uomo solamente individuo, ma anche membro di una società, anzi di una duplice società, quella spirituale e quella temporale, per stabilirlo e confermarlo in ciascuna di esse sono stati istituiti altri due sacramenti che lo consacrano e lo santificano per i doveri che ciascuna li impone in relazione agli altri uomini. – Primo, il sacramento dell’Ordine. Esso dà ai ministri della Chiesa i poteri conferiti agli Apostoli da Nostro Signore Gesù Cristo, poteri che essi dovevano trasmettere ai loro successori, essendo la Chiesa destinata a vivere e ad operare in ogni tempo. Sono il potere di consacrare la Santa Eucarestia alla Messa, di assolvere dai peccati in nome di Cristo, di amministrare gli altri sacramenti, e anche il compito di andare a predicare il suo Vangelo. E oltre ai poteri, il sacramento conferisce anche la grazia corrispondente. La grazia cioè per chi è ordinato Sacerdote di diventar degno di questi poteri, di vivere in modo sì alto da esser davvero in tutto “servo fedele”; e in particolare un aumento di carità, di amore per la persona di Cristo ch’egli rappresenta, per il SS. Sacramento di cui è nominato custode, per le anime alle quali consacra la vita. Gli è data forza per accettare la sua responsabilità con cuor lieto e generoso, per dimenticarsi e, se occorra, per sacrificarsi in unione al Maestro che lo ha scelto e lo ha posto “affinché porti frutto e il suo frutto rimanga”. Chi non è sacerdote non può conoscere appieno il significato di queste grazie; per lui invece esse sono tangibilmente reali, tanto da modificare tutta la sua concezione della vita e anche il suo atteggiamento verso di essa. – Finalmente c’è la famiglia, l’unità da cui sorge la società, la distruzione della quale è sempre stata sinonimo di distruzione della società. La famiglia è sacra per natura, e Gesù Cristo che venne “non a distruggere, ma a compire”, volle renderla ancor più sacra con la sua benedizione e la sua santificazione. Egli ha reso assai più saldo di qualsiasi contratto umano il patto che assicura l’unità della famiglia: l’ha innalzato a dignità di sacramento così che nulla e nessuno possa separare ciò che Dio ha congiunto. Il sacramento del Matrimonio dà agli sposi una fiducia reciproca che nessun legame umano può dare, infonde anche la grazia e la forza di incontrare quegli obblighi dall’adempimento dei quali dipende non soltanto la vita loro, ma quella di tutta la società umana. Dà loro innanzi tutto, purché vogliano accettarla, la grazia di una costante e assoluta fedeltà reciproca e fedeltà al voto che l’amore li spinge a contrarre, la grazia di rispettare la santità del vincolo matrimoniale, malgrado gli istinti della natura corrotta. Li porta a rispettare i diritti di Dio, Signore del cielo e della terra e padrone assoluto della vita, della sua sorgente come della sua fine, affinché gli sposi siano fedeli non soltanto fra loro, ma anche verso quelle creature con le quali Dio potrà benedire la loro unione. – Così, per ogni circostanza importante della vita spirituale, per ogni dovere, individuale o sociale, Nostro Signore ha disposto nei sacramenti un apporto meraviglioso di grazia santificante, e affinché questa sia azionata, in aggiunta alla propria grazia particolare, ogni sacramento dà il diritto ad ulteriori grazie attuali che ci vengon concesse perché siamo animati alla pratica delle speciali virtù richieste da quelle date condizioni o doveri. La vita dei sacramenti è davvero sopra tutto la vita della grazia; comprendere e accettare l’una è comprendere e accettar l’altra, e quella comprensione e quella accettazione fanno la caratteristica dell’anima cattolica. Sono il substrato della sua fede che rendono facile e naturale; le pongono dinanzi il soprannaturale come realtà oggettiva alla quale le cose del tempo e dello spazio non sono che secondarie, le danno aspirazioni che superano ogni aspirazione terrena, e lo stimolo e la capacità di raggiungerne la meta. Sta all’anima che riceve la grazia dei sacramenti e ne è ispirata corrispondere a tanto dono. Si disporrà come meglio potrà ad accogliere le grazie che il suo Signore ed amico le offre, terrà in gran conto la dignità e l’onore che le derivano da ogni sacramento ricevuto, conserverà queste cose nel cuore in tutta la sua vita ordinaria, portando sopra di sé il segno di Cristo. La reverenza per i sacramenti e la premura di ricevere questi mezzi sovrani di salvezza e di unione con Dio e coi fratelli sono così caratteristiche dell’anima cattolica che i nemici stessi se ne rendon conto e, a quelle, la riconoscono.

LA VITA INTIMA DEL CATTOLICO (10)