COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DE LIEBANA (1)

Beato de Liébana:

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE (1)

Migne, Patrologia latina, P. L. vol. 96, col. 893-1030, rist. 1939, I, 877

[Dal testo latino di H. FLOREZ – Madrid 1770] (*)

(*) Codici anastatici tra cui: A. Sanders Beati in Apocalypsin in duodecim, Papers and Monographs of American Academy in Rome, vol. VII, – Roma 1930;

.-Obras completas y complementarias de Beato de Liébana, ed. bilingue di J. G. Echegaray, A. Del Campo y Leslie G. Freeman; B. A. C. Madrid. 2004]

Non abbiamo a nostra conoscenza, traduzioni in italiano; la versione qui proposta è di tipo redazionale e preparata con grande impegno dal Circolo Cristo Re-Rex regum per il blog ExsurgatDeus.org. Si è cercato di comporre una traduzione in un idioma italico attuale comprensibile ai più. Si è cercato di tradurre ancora in modo quanto più aderente possibile al senso del testo originale, con tutti gli inconvenienti e le imprecisioni che ogni traduzione dal latino ecclesiastico medioevale comporta. Ce ne scusiamo anticipatamente e, ringraziandoli i cuore, invitiamo nel contempo tutti i lettori competenti a segnalare errori – del tutto involontari, ma possibili – onde eliminarli ed apportare le eventuali necessarie correzioni.

COMMENTARIO  ALL’APOCALISSE DI SAN GIOVANNI

 (DEDICA DEL LAVORO AD ETERIO)

[1] Ho pensato di esporre alcune cose, spiegate con brevità di frasi, circa quello che è stato annunciato in diversi momenti nei libri dell’Antico Testamento sulla nascita di Nostro Signore e Salvatore secondo la Sua divinità od il Suo corpo, della Sua passione e morte, della Sua risurrezione, del Suo regno e del Suo giudizio, da uomini di scienza, da innumerevoli libri e dai più noti Santi Padri, cosicché l’autorità dei Profeti confermi la grazia della fede e dimostri l’ignoranza degli infedeli. E sebbene questo sia noto a tutti coloro che si occupano del vasto campo delle Scritture, può comunque essere ricordato con maggior facilità se letto in un breve trattato. Queste cose, che non sono esposte da me, ma dai Santi Padri, sono state raccolte in questo piccolo libro, e approvate dai loro autori: Girolamo, Agostino, Ambrogio, Fulgenzio, Gregorio, Ticonio, Ireneo (Vittorino), Apringio, ed Isidoro, di modo che, ciò che non si è capito leggendolo in altri, lo si comprenda in questo libro, scritto con linguaggio popolare, per certi aspetti derivato da essi, ma interpretato in piena conformità con la fede e la devozione. Considerate quindi questo libro come il chiavistello di tutta una biblioteca. E se ho errato in qualcosa, possa indulgere la carità, che vince su tutto. Queste sono una piccola parte delle tante dottrine che sappiamo essere state raccolte da persone degne di ogni credibilità, le cui parole, come vedremo, sono state da noi introdotte in alcuni luoghi, in modo che il nostro studio sia confermato dalle sentenze dei Padri. Tutto questo, dunque, ho dedicato a voi, Santo Padre Eterio, su vostra richiesta, ad edificazione dello studio dei fratelli, affinché io faccia di colui con cui condivido la gioia di essere religioso, coerede della mia opera.

TERMINA

IL PROLOGO DI SAN GIROLAMO

[2] L’Apostolo ed Evangelista S. Giovanni, scelto e diletto da Cristo, era considerato così superiore per il tanto amore di predilezione, che nella Cena riposava sul suo petto, ed al quale – in piedi da solo presso la croce – era stata affidata la sua stessa Madre; e così, a colui che volendo essere sposato aveva saputo abbracciare la verginità, fu concesso di custodire la Vergine. Ora, avendo avuto in sorte di patire l’esilio sull’isola di Patmos a causa della Parola di Dio ed a testimonianza di Gesù Cristo, è stata da lui scritta l’Apocalisse precedentemente mostrata; e così come all’inizio dei libri canonici – la Genesi – si è annunciato un “inizio incorruttibile”, anche con l’Apocalisse si ritorna ad un “fine incorruttibile” per mezzo di uno che è vergine, come è detto: « Io sono l’Alfa e l’Omega » (Ap. I, 8), cioè l’inizio e la fine. Questi è Giovanni che, conoscendo il giorno in cui sarebbe sopraggiunta la sua dipartita dal corpo, riuniti i suoi discepoli ad Efeso, scese nel luogo dove sarebbe stato sepolto e, dopo aver pregato, rese il suo spirito. Fatto così estraneo al dolore della morte, si considera alieno dalla corruzione della carne. La disposizione della Scrittura o l’ordine del libro non sarà da noi esposta in dettaglio, cosicché, in chi non la conosce, sia il desiderio di indagare a dargli una struttura.

UN ALTRO PROLOGO DELLO STESSO

[Questa prologo fu composta per il Commento di Vittorino]

[3] I diversi naviganti che attraversano l’immensità del mare incontrano vari pericoli. Si è colti da paura quando il turbinare del vento diventa più furioso. Si temono minacce (dai pirati) se la brezza moderata, non fa che increspare la superfice dell’elemento esteso. Così mi sembra che avvenga in questo libro che mi avete inviato che contiene la spiegazione dell’Apocalisse di Vittorino: infatti è pericoloso ed esposto ai latrati dei detrattori, il giudicare le opere di un uomo così egregio. E così già in precedenza, Papias, Vescovo di Gerapoli, e Nepote, Vescovo della regione d’Egitto, erano in accordo con Vittorino circa il “regno dei mille anni”. E poiché me ne avete supplicato per iscritto, non ho voluto differire, e per non disprezzare colui che lo richiede, ho subito consultato i libri dei nostri maggiorenti, e quanto ho trovato nei loro commenti dei “mille anni” l’ho unito all’opera di Victorino. Soppresso da questa ciò che si è trovato in calce alla lettera, dall’inizio del libro al segno della croce, abbiamo corretto ciò che è stato contaminato da parte di scrittori inesperti; ci rendiamo così conto di ciò che sia stato aggiunto da lì fino alla fine del libro. Il vostro compito è così quello di discernere e di corroborare ciò che vi aggrada. Se la vita ci accompagnerà (e Dio ci dà salute) – Anatolio carissimo – il nostro ingegno lavorerà con abilità per voi in questo libro.

UN’INTERPRETAZIONE DI QUESTO LIBRO

[Padre Florez chiama questa ampia introduzione summa dicendorum].

[4] Non c’è da stupirsi che Giovanni abbia ricevuto questo nome che costituisce come una specie di profezia, dal momento che in latino significa “grazia di Dio”. Infatti, nell’attimo in cui gli viene ordinato di scrivere alle sette Chiese l’Apocalisse, che è Rivelazione del Signore, egli vede il Figlio dell’uomo seduto sul trono, cioè il Cristo nella Chiesa, ed i ventiquattro Vegliardi, che sono i dodici Profeti ed  i dodici Apostoli. Le sette chiese, i sette candelabri d’oro, le sette stelle, rappresentano l’unica Chiesa, unita in matrimonio con Cristo mediante la grazia septiforme. Dopo questo ho visto una porta aperta in cielo (Ap. IV, 2). La porta aperta si riferisce a Cristo, che è nato ed ha sofferto, mentre “cielo” è la Chiesa. Dopo questo ho visto un trono eretto in cielo, cioè che sono i Sacerdoti della Chiesa, servendosi dei quali Cristo presiede e giudica ogni giorno. E colui che sedeva su questo trono era di aspetto simile al diaspro e alla cornalina: questo allude ai due giudizi, uno per mezzo dell’acqua e l’altro attraverso il fuoco. Dopo questo vidi quattro animali prostrarsi davanti al trono, cioè i quattro Evangelisti, ed ognuno di essi aveva un aspetto distinto: il primo come di uomo, cioè razionale; il secondo come di leone, forte e combattivo; il terzo come di bue, immolato in sacrificio; il quarto come di aquila in volo, che con tutto l’ardore della mente, deve rimanere sempre in contemplazione. Questi quattro animali ne sono uno solo, che cioè è la Chiesa. Dopo questo ho visto nella mano destra di colui che siede, un libro sigillato con sette sigilli (Ap. V), nel quale sono annotati la guerra, la fame, la morte, il clamore di coloro che sono stati uccisi, ed anche la fine del mondo e dei tempi. Enumerando questi stessi sigilli parliamo (Ap. VI), dei quattro cavalli: il primo bianco, che è la Chiesa, con il suo cavaliere Cristo; il secondo rossastro, che è il popolo che combatte contro la Chiesa, e il cui cavaliere è il diavolo sanguinario; il terzo nero, che è la fame spirituale all’interno della Chiesa, e il suo cavaliere lo pseudo-profeta; il quarto pallido, e il suo cavaliere è la morte, a cui è stato dato il potere di uccidere con la spada, la fame, la morte e le bestie della terra, comprendendo anche le eresie nella Chiesa. Il quinto (sigillo) si riferisce alle anime di coloro che sono stati uccisi a causa della Parola di Dio. Nel sesto, con il sole nero come un panno di crine, e con la luna tutta come sangue, e con le stelle cadenti, si allude agli increduli, a coloro che saranno oscurati dalla luminosità della dottrina. La luna diventata tutta di sangue, è la Chiesa dei Santi, che alla fine appaiono versare il loro sangue per Cristo. La caduta delle stelle, che turba i fedeli, conclude il sesto sigillo, nel quale a causa dell’ultima lotta dell’Anticristo, come una ficaia sbattuta dalla bufera lascia cadere i fichi immaturi, così i santi, quelli che sembrano santi, vengono scossi dalla Chiesa. E il cielo che è stato portato via come un rotolo di libro, sono i Santi, che in quel momento non presentano altra virtù se non lo spargimento del loro sangue. Ed ogni montagna ed ogni isola viene rimossa dal loro posto; i re della terra, i giudici e i tribuni, i potenti e tutti, sia schiavi che liberi, si nascosero nelle grotte e nelle rupi dei monti. E dicono alle rupi e ai monti: Cadeteci addosso e nascondeteci alla vista di colui che siede sul trono e dalla collera dell’Agnello, perché il grande giorno della sua strage è arrivato e chi potrà sostenersi? Tutto questo avverrà al tempo dell’Anticristo. Perché con i re della terra, i governanti ed i potenti, come si dice, noi intendiamo i Santi, che in quel momento vincono l’Anticristo. Essi cercano di nascondersi nelle grotte e nei dirupi della montagna, cioè cercheranno l’aiuto dei Profeti, degli Apostoli e dei martiri. Dopo questo ho visto quattro Angeli in piedi ai quattro angoli della terra, che reggono i quattro venti (Ap. VII), che sono le quattro parti del mondo. Gli Angeli ed i venti sono la medesima cosa, ma sono bipartiti, tra il bene ed il male: cioè la Chiesa ed i regni del mondo; ed infatti il mondo odia la Chiesa, nella quale si trovano i falsi fratelli. E a questi venti fu detto di non soffiare sulla terra, né sul mare, né su alcun albero. Tutto questo si riferisce agli uomini, di modo che essi non piangano, cioè non venga meno il loro spirito e non rendano gli altri simili a loro, onde evitare che le persone alla sinistra oltraggino quelle che sono alla destra. Dopo questo ho visto dodicimila servitori di Dio – cioè la Chiesa costituita dal numero dodici – segnati con il sigillo sulla fronte, cioè con la consapevolezza del loro operato. Il settimo sigillo completa, in questa serie, il libro segnato dai sette sigilli. Si fa silenzio in cielo, come per una mezz’ora. (Ap. VIII): questo si riferisce ai servi di Dio, che si riposano da ogni attività secolare e iniziano qui la contemplazione per gustare la vita eterna. Dopo di ciò vidi sette Angeli che suonarono sette trombe, cioè le sette chiese che ricevono la predicazione perfetta, come diceva il profeta: “Come una tromba proclami la tua voce” (Is. LVIII,1). Il primo Angelo suonò la tromba, e si produssero pietre e fuoco mescolati al sangue, e questa è l’ira di Dio, che trascinava molti alla morte, affinché i santi potessero essere provati come oro nel crogiolo. E il secondo Angelo suonò la sua tromba, e fu gettata nel mare un’enorme montagna in fiamme: questo è il diavolo gettato sul popolo. E il terzo Angelo fece risuonare la tromba, e cadde dal cielo una grande stella ardente come una fiaccola, il che si riferisce agli uomini che cadono dalla Chiesa e che sono stati considerati dagli altri come santi e grandi, mentre che per il loro tipo di predicazione e di vita trascinano altri alla morte. E il quarto Angelo suonò la tromba: e fu colpita la terza parte del sole, la terza parte della luna, e la terza parte delle stelle, così che si oscurò  e si perse la terza parte del giorno e la terza parte della notte: i Santi cioè furono separati dai malvagi. Dopo questo ho visto e sentito una grande aquila volare in mezzo al cielo, dicendo a grande voce: « Guai, guai, guai agli abitanti della terra quando suoneranno le restanti trombe dei tre Angeli. »  L’aquila ed il cielo sono la Chiesa. Quando dice che questa va da una parte all’altra, intende affermre che annuncia a gran voce le piaghe degli ultimi tempi. – Il quinto Angelo suonò la tromba, e vidi un astro caduto dal cielo sulla terra. Gli fu data la chiave del pozzo dell’Abisso; ed aprì il pozzo dell’Abisso (Ap. IX), cioè il popolo si allontanò dalla Chiesa con il suo pseudo-profeta. Ha aperto il pozzo, perché ha manifestato il suo cuore con le parole. Si chiama abisso perché si nascondeva nell’occulto. E dal pozzo è uscito un fumo come quello di un grande forno. E il sole e l’aria si oscuravano con il fumo del pozzo. Il sole è la Chiesa e il fumo sono le parole degli uomini empi. Come il fumo precede il fuoco, così essi oscurano la Chiesa e la confutano con parole, facendo sì che alcuni diventino ciechi. E dal fumo del pozzo uscirono cavallette, cioè una moltitudine di demoni, che erano legati nei loro cuori (degli empi) come in un pozzo, e insieme agli uomini da essi posseduti, si sollevano contro la Chiesa. E ad essi fu dato un potere come quello degli scorpioni della terra. Lo scorpione infatti tocca con la bocca e ferisce con la coda, proprio come fanno questi. E le cavallette erano come cavalli preparati per la guerra. Sulle loro teste avevano corone che sembravano d’oro: questo perché sotto il loro manto di cristianità (le corone d’oro) erano come dei cavalli furiosi che correvano verso il male. E i loro volti erano come le facce degli uomini, considerati cioè razionali. Avevano i capelli come quelli delle donne, cioè sciolti e da effeminati. Avevano denti come quelli di un leone, cioè tanto forti da poter stritolare. Ed avevano code simili a quelle degli scorpioni, con pungiglioni nella coda, per mostrarsi su quel cavallo, popolo avversario della Chiesa, e per significare che in un solo corpo vi fossero molte membra. Nella testa, ecco i principi della terra; nella coda, i falsi sacerdoti che, affettando una regale devozione, opprimono la Chiesa e promettono al popolo sicurezza. Essi hanno sopra di loro, come re, l’angelo dell’abisso, cioè il diavolo o il re del mondo, perché l’abisso è il popolo. In ebraico il suo nome è “Abaddon”, in greco “Appolyon”, in latino “Perdens” (il perdente) o colui che stermina. Il primo Guai! è passato. Ma ecco che dopo ce ne sono altri due. Ecco che noi chiamiamo “pozzi” gli uomini che sono ignoranti; e chiamiamo cavallette i demoni o la moltitudine di uomini che ricevono il potere di nuocere a coloro che non sono segnati col sangue dell’Agnello. E il sesto Angelo suonò la tromba: qui iniziò l’ultima predicazione. – E udii una voce dai quattro angoli dell’altare d’oro che si trova davanti a Dio, che diceva al sesto Angelo che aveva la tromba: “Liberate i quattro Angeli che sono legati dal grande fiume Eufrate“. “Una voce dai quattro angoli” designa il popolo della circoncisione, il solo che in tutto il mondo conoscesse Dio. L’altare d’oro è la Chiesa, che proviene dalla circoncisione. Liberate i quattro Angeli, quindi dall’Oriente e dall’Occidente, dal Settentrione e dal Mezzogiorno: questo significa che la Chiesa diventa universale e che il Nome del Signore è conosciuto nelle quattro parti del mondo. Questo Angelo con la tromba, a cui viene comandato di liberare, è da interpretare come la predicazione di tutta la Chiesa. L’Eufrate è il fiume di Babilonia, e con Babilonia si intende il mondo intero. Dopo di che ho visto nella visione i cavalli e coloro che li cavalcavano: avevano pettorali del colore del fuoco, del giacinto e dello zolfo, e le loro teste erano come leoni. Non sono gli stessi che abbiamo descritto sopra, ma sono simili a loro.  Quando diceva di loro così, descriveva la stessa cosa ma in modo diverso. Dalla loro bocca uscirono fuoco, fumo e zolfo. Per fumo si intende il giacinto, cioè le parole di questi uomini. Da queste tre piaghe, cioè il fuoco, il fumo e lo zolfo, che uscivano dalle loro bocche, fu uccisa la terza degli uomini. Il potere dei cavalli sta nelle loro bocche e nelle loro code, che sono cioè i principi del mondo ed i sacerdoti, e con loro fanno del male, perché senza di loro non possono nuocere. Ho visto anche un altro Angelo potente scendere dal cielo, avvolto in una nuvola e con un arcobaleno sul capo (Ap. X): questi è il Signore rivestito della Chiesa. L’arcobaleno sopra il suo capo, è la perseveranza della Chiesa. Le nuvole, sono i predicatori che producono pioggia per mezzo dei miracoli. Il suo volto come il sole e le sue gambe come colonne di fuoco. Sul suo volto c’è la conoscenza di Cristo; sulle sue gambe c’è la sofferenza dell’ultima persecuzione. Nella sua mano teneva un libro aperto: cioè attraverso la Legge ed il Vangelo si conosce Cristo. Mise il piede destro sul mare e il sinistro sulla terra. Il piede destro sul mare, rappresenta le membra più forti nei maggiori pericoli. Il piede sinistro sulla terra, sono le membra più deboli in ciò che è di propria competenza. E gridò a gran voce come ruggisce il leone, cioè comandò di predicare con veemenza. E mentre gridava, sette tuoni fecero udire il loro fragore. Appena i sette tuoni fecero udire la loro voce, e mi disponevo a scrivere, ho sentito una voce dal cielo che diceva: « … sigilla ciò che i sette tuoni hanno detto, e non lo scrivere ». Ha detto questo nella prima parte del libro, mentre nell’ultima parte ordinerà di non sigillarla (Ap. XXII, 10), e questo perché ciò che la Chiesa non conosceva pienamente all’inizio, alla fine lo mostri ogni giorno. Allora l’Angelo che avevo visto in piedi sul mare e sulla terra alzò la mano al cielo, giurò per Colui che vive nei secoli dei secoli, che non ci sarà più tempo; ma nei giorni in cui si sentirà la voce del settimo Angelo suonare la tromba, non ci sarà più tempo se non quello della purificazione: questa è la futura risurrezione della pace, in cui la Chiesa si affermerà, così come dice l’Apostolo: « L’ultima tromba » (1 Cor. XV, 52), ed in essa il mistero di Dio sarà stato consumato, come Egli aveva evangelizzato attraverso i suoi servi. E ho sentito la voce del cielo che mi parlava e mi diceva: “Vai, prendi il libro che è nelle mani dell’Angelo e ingoialo; sarà nella tua bocca dolce come il miele, ma renderà le tue viscere amare come il fiele“. Questo libro è la Legge ed il Vangelo. Quando si comincia a leggerlo è dolce in bocca, ma se ne sentirà l’amarezza appena si comincerà a predicare ed a mettere in pratica quanto capito. E quando si sarà manifestata la dolcezza nella bocca e l’amarezza nelle mie viscere, dice: … devi predicare di nuovo. Nel dire questo, è chiaro che ai primordi la Chiesa ha compiuto la profezia pienamente, perché ha annoverato tanti martiri; ed una volta che la fede abbia fatto il giro del mondo, la profezia è chiusa. È questo ciò che dice: … dovete predicare di nuovo; con ciò si riferisce al fatto che alla fine dei tempi, quando ci sarà l’arrivo dell’Anticristo, la profezia riaprirà la sua bocca. Addolcire la bocca e rendere amare le viscere: questo è quando si inizia a predicare ed a porre in opera. – Poi mi fu data una canna di misura come un’asta, e l’Angelo mi disse: “Alzati e misura il santuario di Dio e l’altare, e quelli che in esso adorano” (Ap. XI). Non si riferiva a lui, nel dire alzati, ma al peccatore: … alzati per fare penitenza. Misurare il Santuario significa confessare al Padre onnipotente e a Gesù Cristo suo Figlio, nato per opera dello Spirito Santo dalla Vergine Maria; e quel che viene annunciato dai profeti è la mano di Dio, il Verbo del Padre e Creatore del mondo. Questa è la canna e la misura della fede. Ma nessuno adora il santo altare se non coloro che abbiano rettamente professato questa fede. Solo questi adorano, non tutti quelli che sembrano adorare. E mi dice: … l’atrio fuori dal Santuario, lasciatelo fuori. Il Santuario si riferisce ai servi di Dio, mentre il cortile è il cattivo Cristiano: ed infatti il cortile sembra appartenere al Santuario, ma non è il Santuario. E i Cristiani malvagi sembrano che appartengano ai Santi, ma non sono Santi. Per questo saranno cacciati via, perché ai tempi dell’Anticristo calpesteranno la città santa, cioè la Chiesa. I miei due testimoni profetizzeranno 1.290 giorni, coperti da tela di sacco. Questi due testimoni sono la Legge ed il Vangelo. Sono vestiti di sacco perché predicano la penitenza. In realtà, qui ci si riferisce ad Elia ed a colui che verrà con lui: io manderò i miei due testimoni ed essi profetizzeranno per mille e duecentonovanta giorni, cioè tre anni e sei mesi, che saranno i giorni della loro predicazione, ed il regno dell’Anticristo (durerà) altrettanto. Essi sono i due ulivi e i due candelabri. Questo, in senso letterale, si riferisce ad Elia ed a colui che deve venire con lui; ma si fa riferimento, in senso spirituale, ai due Testamenti, che sono la Legge ed il Vangelo. Questi sono i due ulivi e i due candelabri. Un tale candeliere, che viene descritto da Mosè come dotato di sette braccia (Num. VIII, 2), è la septiforme Chiesa ripiena dello Spirito. E i due olivi sono la Legge ed il Vangelo. L’olio deve essere versato sul candeliere, cioè sulla Chiesa. Questa è la Chiesa con il suo olio che non si esaurisce, ma che essa fa bruciare per illuminare il mondo. Se qualcuno cerca di farle del male, il fuoco uscirà dalla sua bocca e divorerà i suoi nemici: vale a dire che se qualcuno non vuole ascoltare la Legge ed il Vangelo, sarà bruciato dal fuoco divino. Questo è il fuoco, cioè la parola della predicazione, che Gesù è venuto a portare sulla terra (Lc. XII, 4) per il nostro corpo, e vuole che bruci in tutti. – Questi due hanno il potere di chiudere il cielo in modo che non piova, hanno cioè il potere di legare e di sciogliere, hanno il potere di trasformare l’acqua in sangue. L’acqua è la Scrittura. Si serra il cielo quando le parole della predicazione si infrangono su di un cuore indurito, ed a causa delle sue azioni malvagie, ciò che sembra cristiano gli risulta inutile. … Li vincerà e li ucciderà. Questo viene fatto spiritualmente nella chiesa dall’Anticristo con i suoi ministri. Li vincerà … saranno quelli che compiono azioni malvagie. Ucciderà … coloro che predicano Cristo e si allontanano dal male; perché è chi non osserva la Legge ed il Vangelo, come l’Anticristo, che ucciderà Elia ed Enoch. E il suo corpo sarà gettato nella piazza della città. Qui ha indicato un solo corpo dei due, perché la Legge e il Vangelo sono una cosa sola, ed insegnano che uno solo è il corpo della Chiesa. Da parte sua, quanto ha detto: sarà gettato nella “piazza” della città (“platos” in greco, che significa in latino “latitudo”, larghezza), si riferisce al fatto che, seguendo la via ampia e spaziosa, si gettano i corpi dei Testamenti, cioè la Legge e il Vangelo, in mezzo alla città; … corpo che è la Chiesa, così come è scritto: « tu che detesti la disciplina e che le mie parole te le getti alle spalle? » (Psal. XLIX,17). – Persone, razze, lingue e nazioni contempleranno i loro cadaveri per tre giorni e mezzo, cioè trecentocinquanta giorni, cioè tre anni e sei mesi. Questo deve essere compreso spiritualmente: dalla Passione del Signore al tempo dell’Anticristo, si contano tre anni e sei mesi. Per un anno, cento anni, e per tre anni, trecento, e per cinquanta anni, sei mesi: si mescola, allora, il tempo presente ed il futuro, come dice il Signore nel Vangelo: « Verrà l’ora in cui tutti coloro che vi uccideranno penseranno che stanno servendo Dio » (Gv. XVI, 2). Non separa mai il tempo presente da quello finale in cui l’Anticristo si manifesterà, perché ciò che accadrà allora in modo visibile sta accadendo già ora nella Chiesa in modo invisibile. Non è permesso seppellire i loro cadaveri, e questo è detto della promessa di coloro che seguono Cristo, nel senso che non è permesso loro di fare penitenza con tranquillità, come è scritto: « Guai a voi, scribi e farisei, ciechi e ipocriti, che chiudete il regno dei cieli, e questo è la Chiesa, perché non entriate voi né lasciate entrare altri » (Mt. XXIII, 13). Gli abitanti della terra gioiscono ed esultano a causa loro, e si scambiano doni: questo avviene quando, trovandosi i giusti nell’afflizione, gli empi ne gioiscono ed esultano. E la stessa loro visione è molto pesante per gli ingiusti, così come quando hanno detto di Cristo: « la sua stessa presenza ci è insopportabile » (Sap. II, 15), e non solo è loro di aggravio, ma li sgomenta, come è scritto: « L’empio vede e si adira, digrigna i denti e si consuma. » (Psal. CXI, 10). Si rallegreranno, quindi, quando non avranno più nulla da soffrire, quando i giusti saranno perseguitati ed uccisi e la loro eredità sarà posseduta. Perché diranno: questi due profeti hanno tormentato gli abitanti della terra, come a dire: sono loro che vivevano secondo la Legge ed il Vangelo, e ci hanno costretti a vivere così; rallegriamoci nel vederli dispersi dalla persecuzione e sterminati. Ma dopo tre giorni e mezzo un soffio di vita da Dio entrò in loro e si alzarono in piedi, e un grande timore si abbatté su coloro che li guardavano. E udirono una voce forte dal cielo: Salite qui, e saliranno in cielo in una nuvola. Di questi tre giorni e mezzo abbiamo già parlato prima nel senso spirituale, comprendendoli tra la prima e fino alla seconda venuta. Ciò che ha detto: si sono alzati in piedi, appartiene alla futura resurrezione; e quel che dice: un grande timore si è abbattuto su coloro che li hanno contemplati, lo dice di tutti gli uomini. E quando la loro sorte sarà mutata, coloro che erano felici in questo mondo saranno tormentati senza fine, e coloro che erano afflitti nel mondo gioiranno senza misura. Quel che ha detto: “Salite qui e saliranno in cielo in una nuvola; è quanto diceva già l’Apostolo: « Saremo presi dalle nuvole per incontrare Cristo » (1 Tess. IV,16). Infatti prima della venuta del Signore non poteva accadere che un uomo, se non il Cristo, potesse salire in cielo nel suo corpo; come sta scritto: «  prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo » (1 Cor XV, 23), ma alla sua venuta, saranno presi nelle nubi ed usciranno per incontrarlo. Se questo si dicesse solo di Elia e di colui che deve venire con lui, come potrebbero gli abitanti di tutta la terra gioire per la morte violenta di due persone che muoiono in una determinata città? O quando si possono inviare doni, essendoci solo tre giorni e mezzo per gioire della morte, prima di essere rattristati dalla risurrezione? O quali feste ci potrebbero essere, se per tre giorni i cadaveri umani emanano fetore? È chiaro infatti che in questi due personaggi sono rappresentatila Legge ed il Vangelo, e che “tre giorni e mezzo” si riferiscono al tempo che intercorre tra la prima e la seconda venuta del Signore. – E grande timore si è abbattuto su coloro che li hanno osservati, questo lo ha detto di uomini viventi, perché anche i giusti, che il giorno del giudizio troverà vivi, avranno grande paura alla risurrezione dei morti. … E i loro nemici li vedranno. Qui separerà i giusti da coloro che aveva detto in generale essere pieni di paura. In quella ora si è verificato un violento terremoto, e questa è la persecuzione alla venuta del Signore. E in quell’ora che è detta, significa tutto il tempo, affinché chi è sul tetto, non scenda a prendere nulla dalla casa (Mt. XXIV, 17), cioè chi vive per il Vangelo non vada più a rivestirsi dell’uomo vecchio, e non desideri avere ciò a cui una volta aveva rinunciato. E la decima parte della città è crollata nel terremoto, e settemila persone sono morte, cioè nella persecuzione dell’Anticristo si dice che ne siano morte settemila. Settemila e diecimila sono interpretati come un numero perfetto. Due sono gli edifici della Chiesa, uno è fondato sulla roccia, che è Cristo; l’altro sulla sabbia, che è l’eresia. Si dice che l’uno sia incorso nella persecuzione, ed altri abbiano temuto e dato gloria al Dio del cielo. Questi sono quelli fondati sulla pietra; infatti quando i giusti che temono, vedranno i malvagi morire nel terremoto, saranno sollecitati alla confessione della loro anima, saranno più coraggiosi nell’osservare i comandamenti, e daranno con gioia gloria a Dio, come sta scritto: « Vedendo il malvagio punito, egli diventa più astuto » (Prov. XV, 5). Terminata la ricapitolazione premessa al settimo Angelo, ripete l’ordine dicendo: Il seconda “guai” è passato; infatti il primo si diceva fosse passato nella battaglia delle cavallette; e il secondo era giunto con i cavalli visti in visione. – Non ha detto là che il secondo “guai” sia passato, per non descrivere subito il terzo, perché, sia per quanto riguarda le cavallette che i cavalli, il “guai” si è ricapitolato in due modi. Ora, dopo questa ricapitolazione, si dice che il secondo “guai” sia passato. Quindi, il secondo “guai” che è passato è quella dei cavalli, seguito dal terzo “guai” e dal settimo angelo con il quale si descrive la fine. Sembra che qui abbia fatto due finali successivi, uno di ricapitolazione e l’altro di ordine. Infatti ha raccontato una fine nella resurrezione dei testimoni, cioè della Legge e del Vangelo, che abbiamo commentato sopra e che l’ha presentata fuori dall’ordine (sequenziale), e ne ha poi introdotta una seconda che mancava, quella che si riferisce alla lotta dei cavalli, dicendo: Il secondo “guai” è passato: ecco, sta arrivando il terzo. Il settimo Angelo suonò la sua tromba, e c’erano voci forti in cielo che dicevano: Il regno di nostro Signore e del suo Cristo è venuto sul mondo, ed Egli regnerà nei secoli dei secoli. E i ventiquattro anziani si prostrarono faccia a terra e adorarono Dio dicendo: “Ti ringraziamo, o Signore Dio onnipotente, che sei venuto, perché hai ricevuto la tua grande potenza e hai regnato”. E le nazioni erano in collera, ma è giunta la tua ira ed è giunto il momento che i morti siano giudicati. Fa riferimento qui all’inizio e alla fine: Tu hai regnato, e le nazioni si sono infuriate: e questo è il primo avvento; … è giunta la tua ira ed il tempo di giudicare i morti: questo ne è il secondo, … e dare la ricompensa ai tuoi servi i profeti, e a quelli che temono il tuo nome, e distruggere quelli che distruggono la terra. Ecco, il terzo « guai! » viene dalla voce del settimo Angelo, nell’ultima lotta e alla venuta manifesta del Signore. Non c’è nessuno che lodi il Signore e ringrazi il Creatore, tranne la Chiesa, perché vive rettamente e crede rettamente, e pertanto i guai sono partiti dagli uomini empi. – Da questo comprendiamo che non c’è remunerazione dei buoni senza i « guai! » degli empi. Così ha detto la stessa Chiesa: è arrivata la tua ira ed è giunto il momento di giudicare i morti, di dare la ricompensa ai tuoi servi e distruggere coloro che distruggono la terra. Questo è l’ultimo “guai” che l’Aquila aveva annunziato: « Guai, guai, guai agli abitanti della terra al suono degli ultimi squilli di tromba che i tre Angeli stanno per suonare! » (Ap. VIII, 13); in questo “guai!” giunge  la fine. Così ricapitolato il tutto dalla nascita del Signore, si diranno nuovamente le medesime cose con maggiore chiarezza. « Allora si aprì il santuario di Dio nel cielo e apparve nel santuario l’arca dell’alleanza. » È … nel suo santuario (Ap. XI, 19) – cioè nella Chiesa – che si è manifestato Cristo, e si è aperta così la profezia nella Chiesa. E ci sono stati fulmini, e tuoni, ed un terremoto, ed una grande grandinata. Tutte queste cose si riferiscono alle proprietà dello splendore della predicazione e delle guerre della Chiesa. Come in precedenza, nelle sette trombe degli Angeli sono stati esposti i fatti dalla venuta del Signore fino alla fine, perché si potesse riconoscere quanto accaduto con ciascuna delle trombe, così ora, non appena il Santuario di Dio in cielo è stato aperto, si sono susseguite le lotte e dice: « Ed ho visto la bestia che saliva dall’abisso. » Dopo aver inflitto molte piaghe al mondo, si dice che la bestia è risorta dall’abisso. Questo lo dice propriamente dell’Anticristo, che da quando Cristo è nato, è sempre stato negli uomini malvagi: coloro che hanno crocifisso Cristo erano il suo “abisso”; coloro che perseguitano la Chiesa sono l’abisso dell’Anticristo, perché “abisso” sono gli uomini che camminano nelle tenebre; infatti, al pari di Cristo che ha avuto come mediatori i Patriarchi e i Profeti che parlavano di Lui in figura e, dopo la sua venuta, coloro che avendolo annunciato lo hanno riconosciuto, e per mezzo dei quali fu suscitata la Chiesa, in cui Cristo, Capo di tutta la Chiesa, regna come un unico Corpo con i suoi membri, … così l’Anticristo ha i suoi mediatori nei re e nei sacerdoti empi, che riconosce come suoi membri per mezzo delle loro azioni nefande, e di tutti i malvagi è re e capo.

[5] E un grande segno apparve nel cielo (Ap. XII), cioè nella Chiesa, Dio si fa uomo: una Donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi, ed una corona di dodici stelle. È questa l’antica Chiesa dei Patriarchi, dei Profeti e degli Apostoli, che ha fatto proprio il gemito e l’angoscia del suo desiderio, fin quando non ha visto che Cristo, promesso secondo la carne, ha assunto il corpo dal suo stesso popolo. A sua volta, colei che è vestita di sole è la speranza della Resurrezione. La “luna” in vero, sono i pericoli dei Santi che soffrono nelle tenebre di questo secolo, che non possono mai mancare e che ora decrescono ed ora crescono, proprio come la luna che decresce e poi cresce. Allo stesso modo, i Santi brillano in mezzo alle tenebre, proprio come la luna. La corona di dodici stelle rappresenta il coro dei Patriarchi, secondo i quali Cristo doveva assumere la carne. E in Cristo vi sono le dodici tribù di Israele, cioè la Chiesa. E la donna è incinta, e grida nel travaglio e nel dolore del parto. Quando parliamo di questa donna ci riferiamo alla Chiesa, che porta Cristo nel suo grembo. Infatti la Chiesa partorisce con gran gemito volendo imitare Cristo. E un altro segno è apparso in cielo: un grande dragone rosso. Il “cielo” è la Chiesa, il dragone è il diavolo. Egli finge di adorare Cristo attraverso i suoi ministri nella Chiesa, e come Erode, il nemico interno, che cercò di uccidere colui che simulava voler adorare, così il diavolo, fingendosi santo, si sforza di uccidere Cristo, nato dalla donna-Chiesa, nel nostro petto attraverso i cattivi Cristiani. Esso ha sette teste e dieci corna. Però quante sono le teste, tante sono anche le corna. Nelle sette teste si indicano tutti i re, e nelle dieci corna, tutti i regni: queste vengono designate con un numero perfetto. E la sua coda attirava la terza parte delle stelle del cielo e le gettava sulla terra. La coda di questo dragone sono i profeti ed i sacerdoti iniqui, come detto parlando delle cavallette, e le stelle del cielo che vi aderiscono, cioè i santi che sembrano essere nella Chiesa, sono gettate sulla terra: tutti i Santi infatti sono il “cielo” ed i peccatori, chiamati “terra”, sono sotto i piedi della donna. E la donna partorì un figlio maschio, cioè la Chiesa (diede alla luce) il Cristo, di poi il suo corpo, che sono i Santi, partoriti ogni giorno con dolore. Ha parlato solo di un “Figlio”, perché Cristo, che ne è il Capo, costituisce un solo corpo con i membri della Chiesa. Lo dice “maschio”, cioè vincitore del diavolo che aveva vinto la donna. Infatti la donna che vince il diavolo vien chiamata uomo. E quando l’uomo è sopraffatto dal diavolo, si dice: “il diavolo ha sopraffatto la donna”. E la donna fuggì nel deserto: “deserto” sono i malvagi che non accolgono la predicazione, questi sono gli scorpioni e le vipere, ed è per questo che il Signore dice ai suoi servi: « Vi ho dato il potere di calpestare serpenti e scorpioni » (Lc. X, 19). Poi si svolse una battaglia nel cielo: Michele e i suoi angeli combatterono con il dragone; anche il dragone ed i suoi angeli combatterono. Per “Michele” si intende Cristo; per cielo la Chiesa e per Angeli gli uomini santi. Non c’è nessuno che possieda gli Angeli, se non nostro Signore Gesù Cristo. Lungi da noi dunque il pensare che il diavolo con i suoi angeli potesse osare di combattere in cielo, dal momento che dovette chiedere al Signore il permesso di colpire un uomo sulla terra: Giobbe. Egli ha ricevuto però il potere di combattere con la progenie della donna, non con il Figlio di Dio o i suoi Angeli. Ma essi non hanno prevalso, e non c’era più posto per loro in cielo, cioè tra gli uomini santi, che, una volta creduto in Cristo, non hanno più accolto il diavolo che era stato cacciato via. Quando il dragone vide che era stato gettato sulla terra, perseguitò la donna che aveva dato alla luce un uomo maschio: poiché più si respinge il diavolo, tanto più esso perseguita. Poi il serpente vomitò dalla sua bocca come un fiume d’acqua dietro alla donna, per portarla via con la sua corrente, cioè con le persone che perseguitano la Chiesa. E ho visto una bestia salire dal mare (Ap. XIII). Prima aveva detto, “dall’abisso”; ed ora dice, “dal mare”. Il mare, l’abisso e la bestia sono in realtà una cosa sola, sono cioè gli uomini malvagi che nascono da uomini malvagi, così come le vipere nascono dalle vipere. In questa “bestia” sono rappresentate molte membra, a volte il diavolo, a volte i sacerdoti empi, a volte le persone malvagie, a volte i falsi religiosi. Essa aveva dieci corna e sette teste, e sulle corna dieci diademi, e sulle loro teste un nome blasfemo. “Sulle corna” si allude al potere o all’orgoglio dei capi, dei principi del mondo; con il nome “diademi”, al nome della Cristianità; col nome di “blasfemia”, al fatto che si lodano i loro principi e si venerano, si ascoltano come dei, senza che si voglia riconoscere Dio che ha fatto tutte le cose: questi, senza dubbio, sono annoverati tra i membri dell’Anticristo. E ho visto un’altra bestia sorgere dalla terra. Ha detto “un’altra” per la sua funzione, ma essa è sempre la stessa, perché la seconda fa la volontà della prima bestia, e si riferisce al falso profeta e sacerdote. E aveva due corna come un agnello, cioè predicava la Legge e il Vangelo, come l’Agnello, e fingeva di avere il volto di un uomo giusto: … ma parlava come un dragone, e faceva scendere fuoco dal cielo davanti al popolo: come i maghi oggi che, servendosi degli angeli decaduti, fanno miracoli agli occhi degli uomini, così gli empi sacerdoti battezzano alla presenza del popolo, ordinano sacerdoti, e danno l’assoluzione. Sono questi atti che fanno scendere il fuoco dal cielo. Il “fuoco” è lo Spirito Santo; il “cielo”, la Chiesa. E seducono non coloro che abitano in cielo, ma coloro che abitano sulla terra, e si fanno essi stessi simulacro della prima bestia, e attraverso di loro l’Anticristo regna nella Chiesa. Ed io guardai, ed ecco un agnello in piedi sul monte Sion, e con lui centoquaranta quattromila, con il suo nome e quello di suo Padre sulla fronte (Ap. XIV). L’Agnello è il Cristo; Sion è la torre di guardia della contemplazione; i centoquarantaquattro mila sono la Chiesa nella sua globalità. Questi seguono l’Agnello, cantando un inno nuovo: annunciano cioè Cristo che è nato ed ha patito e quindi, attraverso il Battesimo e la Penitenza, il perdono di tutti i peccati. Poi ho visto un altro Angelo volare nel cielo e un altro Angelo che lo seguiva, questi sono Elia e colui che verrà con lui, che precederà il regno dell’Anticristo con la sua predicazione. – Abbiamo detto tutte queste cose nel senso letterale. Ma, in senso mistico, con l’Angelo che vola nel cielo e quello che lo segue, si allude alla Legge ed al Vangelo, e che attraverso la loro predicazione percorrono il cielo, cioè la Chiesa. – E un secondo Angelo lo seguì dicendo: “È caduta, è caduta Babilonia la grande”. Babilonia significa la città del diavolo, vale a dire il suo popolo. Come la città di Dio è la Chiesa, così, all’opposto, la città del diavolo è Gerusalemme e Babilonia per tutto il mondo: questa è la Gerusalemme che uccide i profeti, mentre la Gerusalemme celeste è quella di Dio, dove si trova “nostra conversatio”. Questa è libera, come madre di tutti noi, mentre l’altra è schiava insieme ai suoi figli. Infatti la nostra Chiesa in questo mondo non si chiama Gerusalemme, cioè visione della pace, perché essa è nel combattimento; la nostra Chiesa si chiama invece Sion, cioè torre di guardia della contemplazione, perché calpesta ciò che è terreno e brama invece l’essenza delle cose celesti, contemplando in enigma Colui che desidera vedere quanto prima faccia a faccia. Quando dice: Babilonia la grande è caduta, si riferisce ai condannati nel giudizio: lo dice come se ciò che sta per accadere fosse già stato realizzato. Il fatto che ripeta due volte “è caduta, è caduta”, ci fa vedere innanzitutto che è caduta la Chiesa a causa delle eresie, degli scismi e delle opere di discordia, e che costoro saranno doppiamente condannati nel giorno del giudizio. – Un terzo Angelo li seguì, dicendo: Se qualcuno adora la bestia e la sua immagine e accetta il marchio sulla sua fronte, deve anche bere il vino dell’ira di Dio, ed essere tormentato con fuoco e zolfo davanti a Dio nei secoli dei secoli. Abbiamo detto sopra che la bestia è il diavolo ed il suo popolo. Sulla fronte, hanno la dottrina del diavolo; nella mano destra, un nome come di Cristianesimo: ma ne ricevono il marchio nella mano destra o sulla fronte quando fanno ciò che riconoscono essere come suo. – Poi ho guardato, e c’era una nuvola bianca: e sulla nuvola uno come un figlio dell’uomo, cioè Cristo. Si descrive la Chiesa nella sua luminosità, resa biancheggiante dalla fiamma della persecuzione. Portava una corona d’oro in testa. Questi sono gli Anziani con le corone d’oro: … e nella sua mano una falce affilata, simbolo nella loro attività della potestà di maledire. Per questo motivo ogni ladro e spergiuro sarà punito d’ora in poi fino alla morte. Il ladro e lo spergiuro sono gli ipocriti di cui dice il Signore: « Chi non entra dalla porta – che è Cristo – è un ladro ed un brigante » (Gv. X, 7).  – E un Angelo uscì dal tempio, gridando a gran voce a colui che sedeva sulla nuvola: “Getta la falce, perché il raccolto della terra è maturo”. Allora ecco un altro Angelo anch’egli tenendo una falce affilata dicendo: “Getta la tua falce affilata e vendemmia i grappoli della vigna della terra .. metti la falce nel torchio della terra e gettala nel torchio dell’ira del furore del Signore”. La falce del mietitore e la falce del vendemmiatore sono una cosa sola. La spremitura del torchio e la mietitura del raccolto è la retribuzione del peccatore. Così che coloro che ora, con la penitenza, non si liberano della pula per diventare grano, e non vengono schiacciati dal torchio della tribolazione per diventare grano e vino nella Chiesa, saranno schiacciati all’infinito, fuori della Chiesa, nella gehenna.   – Poi ho visto in cielo un altro segno grande e meraviglioso, sette Angeli che portavano le sette ultime piaghe, poiché con esse è consumata l’indignazione di Dio (Ap. XV). Dice sette” e ripete “sette”: questo deve essere inteso spiritualmente, perché nelle sette piaghe, l’ira è intesa nella sua perfezione, così come attraverso le sette chiese si esprime la grazia settiforme. In queste sette piaghe ci si riferisce all’ira del Signore, perché l’ira di Dio percuote nella perfezione il popolo contumace. – Vidi anche come un mare di cristallo, e quelli che vi stavano sopra, che avevano le arpe e le coppe. Col “mare” allude al Battesimo, perché l’acqua del mare è amara. Con l’acqua si intende il Battesimo e con l’amarezza la penitenza. Il vetro significa “fragilità”, perché il Battesimo presto si infrange, ma con la penitenza si ripristina nella fornace della tribolazione. Le “arpe” a cui si allude, sono i cuori di coloro che lodano Dio, cioè di coloro che hanno crocifisso la loro carne insieme ai vizi ed alle concupiscenze di questo tempo, ed hanno mortificato sulla terra le loro   membra.  – Dopo ciò vidi aprirsi nel cielo il tempio che contiene la Tenda della Testimonianza; dal tempio uscirono i sette Angeli che avevano le sette piaghe. – Il Santuario, il Tabernacolo e il Cielo sono un’unica cosa, cioè la Chiesa. Quella che dice “aprirsi” è la manifestazione, buona o cattiva, nella Chiesa. I sette Angeli, che portano le sette piaghe, sono le chiese, che nella grazia settiforme costituiscono una sola Chiesa, alle quali è stato dato dal Signore il potere di legare e sciogliere, e ciò che ciascuno fa, sia in bene che in male, non può rimanere nascosto nella Chiesa.  – Poi uno dei quattro animali ha dato ai sette Angeli sette coppe d’oro piene dell’ira del Dio vivente. Sono queste le coppe con gli aromi portati dai Seniori e dagli Animali, che sono la Chiesa, … essa è anche i sette Angeli, ed anche gli aromi che significano l’ira di Dio. Infatti le preghiere dei Santi, che sono il fuoco che esce dalla bocca dei testimoni, per il mondo è l’ira. Uno degli animali diede alla Chiesa le coppe, cioè la predicazione del Vangelo, perché chiunque lo ascolti possa essere salvato, e chi non lo ascolta venga colpito dall’ira di Dio, poiché il Vangelo è la volontà di Dio. Chiunque segue Cristo fa la volontà del Padre. – … e nessuno poteva entrare nel Santuario fino a quando non avessero termine le sette piaghe, cioè nessuno degli ipocriti poteva entrare nella Chiesa, perché ci sarebbe stata una grande angoscia, come non è mai esistita. E nessuna carne sarebbe risparmiata, se Dio non accorciasse quei giorni, a causa degli eletti. – E udii una voce forte dal cielo che diceva ai sette angeli: “Versate sulla terra le sette coppe dell’ira di Dio” (Ap. XVI). Alla Chiesa è stato dato il potere di diffondere l’ira sulla terra dalla quale salì. Tutte queste sono piaghe spirituali: infatti in quel tempo tutti gli empi non saranno affetti da piaghe corporee, ed è come se avessero ricevuto tutto il potere di fare il male. E non sono flagellati nel corpo, perché se fossero flagellati, infine si correggerebbero, ma perdureranno fino alla fine nella pienezza dei loro peccati. E il primo Angelo versò la sua coppa sulla terra. E il secondo Angelo versò la sua coppa sul mare. E il terzo angelo ha versato la sua coppa sui fiumi e sulle sorgenti d’acqua. E il quarto angelo versò la sua coppa sul sole. E il quinto angelo versò la sua coppa sul trono della bestia. E il sesto angelo versò la sua coppa sul grande fiume Eufrate. E il settimo angelo versò la sua coppa nell’aria. – La terra, il mare, i fiumi, le sorgenti d’acqua, il sole, il trono della bestia, il fiume Eufrate, l’aria, sulla quale gli Angeli hanno versato le loro coppe, sono la terra, cioè gli uomini. il che è facile da dimostrare, poiché a tutti gli Angeli è stato ordinato di versare sulla terra. Tutte queste piaghe sono da intendersi in senso spirituale. Infatti costituisce una piaga incurabile ed un segno di grande ira, ricevere il potere di peccare, specialmente nei Santi, senza che siano corretti. È ancora segno di maggiore ira di Dio, e procurarsi un accrescimento dei tormenti, quando ogni Santo ritenga giusto ciò che fa, per potersi dare sempre al piacere, e pensi che in questo modo si sacrifichi davanti a Dio e serva i fratelli. Questa è la piaga dell’ira di Dio, che si diffonde soprattutto tra i servi di Dio che seguono la propria volontà. E vidi tre spiriti impuri come rane uscire dalla bocca del serpente, dalla bocca della bestia, e dalla bocca del falso profeta. Abbiamo già detto sopra che il dragone è il diavolo; la bestia, costituita dagli uomini malvagi, è il corpo del diavolo, come i falsi profeti; i prepositi del corpo del diavolo, sono i sacerdoti ed i predicatori malvagi, che hanno lo spirito come le rane. Le rane sono i demoni; queste di solito si nutrono in pozzanghere ed in acquitrini, la cui acqua è impura: questo animale non ha altra caratteristica, se non quella di emettere come voce un suono simile ad un gracchiare improbo ed importuno. Così, di per sé, un tale animale è impuro, ed anche l’acqua della quale si nutre è impura. Con cos’altro abbiamo allora a che fare se non con falsi profeti, cioè con sacerdoti e predicatori di impurità, che, essendo in se stessi sporchi come le rane, sporcano anche le acque medesime delle Scritture, introducendo nel mondo delle falsità con una modulazione vacua come con il suono ed il gracchiare delle rane. E questi stanno all’interno della Chiesa sotto il nome di religione, così da opprimere la Chiesa; e in Essa i falsi profeti sono composti da quattro categorie: l’eretico, che si caratterizza per il fatto che ognuno sceglie per sé ciò che vuole e fa come meglio gli pare e, se viene corretto da un qualche Cattolico, giustifica ciò che ha fatto e si considera essere come santo: costui è fuori dalla Chiesa. Altro è lo scismatico. Si chiama “scisma” dalla “scissura” delle anime: perché pur stando nella stessa Religione, con lo stesso culto, il medesimo rito, con gli altri Santi della Chiesa, non aderisce alla medesima gerarchia, ritenendosi più santo degli altri della Chiesa. E poiché veglia di più, lavora di più, digiuna più degli altri, crede di essere più santo, al punto da dire che egli santifica tutto ciò che è impuro. Altro è il Superstizioso: si dice superstizione, un’osservanza superflua, che è sovrapposta alle osservanze dell’istituzione religiosa. E questi non vivono come gli altri fratelli, ma per il desiderio del martirio si tolgono la vita in modo che, lasciandola in modo violento, siano considerati martiri. Questi si chiamano « cotopici » in greco e noi li chiamiamo “circumcelliones” in latino perché sono vagabondi. Vagano per le province, perché non tollerano di essere in un unico luogo in comune accordo con i frati e di avere una vita in comune onde vivere con un’anima sola e un cuore solo alla maniera degli Apostoli ma – come detto – vagano per molti paesi e contemplano attentamente i sepolcri dei Santi come se questo servisse alla salvezza delle loro anime: ma questo non giova loro a nulla, perché lo fanno senza il comune accordo con i fratelli. Il quarto è l‘ipocrita. Nella lingua greca, un ipocrita è ciò che in latino si chiama « simulatore ». È colui che ha il male dentro e si mostra buono agli occhi di tutti, perché “hypo” significa falso e “crisis” significa giudizio. Il nome “hypo” deriva dall’aspetto di chi appare negli spettacoli con il volto coperto, volto tinto con vernice nera, rossa od altre pitture, indossando maschere di gesso tinto di diversi colori. A volte si spalmano il collo e le mani con l’argilla, per acquisire l’aspetto di un personaggio e quindi ingannare il pubblico durante la rappresentazione dei giochi, assumendo l’aspetto di uomo o di donna, di uomo calvo o peloso, di anziano o di fanciulla, e con facce diverse per età e sesso; l’idea dell’argomento è stata poi traslata e da questa prende il nome di ipocrita, che cioè sono coloro che camminano con una faccia falsa e simulano ciò che non sono. Così, questo genere di monaci  sono cattivi all’interno, ma buoni all’esterno. E dunque non si possono chiamare ipocriti coloro che, una volta manifestatisi, vengono allo scoperto, perché si chiamano già eretici. – Questi quattro tipi sono propriamente considerati come falsi profeti. E sono considerati falsi profeti perché si nominano da sé, sia all’Episcopato, che al Presbiterato o al Diaconato, sia nella manifestazione religiosa o nel culto penitenziale, e vivono a loro discrezione, ritenendo santo ciò che operano e giustificandolo non con l’autorità delle Scritture, ma con parole mendaci. Infatti non sono scelti dalla Chiesa Cattolica, e quindi sono “ladri e briganti” che non entrano nella Chiesa attraverso la porta, che è Cristo. Questi sono membri del dragone, della Bestia e del falso profeta, dalla cui bocca si vedono uscire tre spiriti impuri come rane. Si vede un solo spirito, ma con il numero delle parti si sono indicate le membra di un corpo: il dragone, cioè il diavolo; la bestia, il corpo del diavolo, che è il popolo malvagio; ed i falsi profeti, cioè i preposti del corpo del diavolo, hanno un solo spirito, come di rana, perché tutti affermano una stessa parola. – E il settimo Angelo versò la sua coppa nell’aria; e una voce forte uscì dal santuario che diceva: è fatta, cioè è finita. Il Santuario e il trono diciamo essere la Chiesa. E quando dice: è finita, dice che sono finite le sette piaghe, ma ricapitola la stessa persecuzione. – Ci furono fulmini, tuoni e un terremoto, come non ce n’erano da quando gli uomini esistevano sulla terra. Un terremoto di questo tipo, un terremoto così grande, significa un’angoscia come mai prima d’ora. E la grande città è stata aperta in tre parti. La grande città è tutto il popolo, in generale, che è sotto il cielo; esso sarà aperto in tre parti, quando la Chiesa sarà stata divisa, in modo che la gentilità ne sia una parte, l’abominio della desolazione un’altra, e la Chiesa che è uscita da essa, la terza. – E le città delle nazioni caddero; Dio si ricordò della grande Babilonia, per darle il calice del vino della sua collera. Poi tutte le isole fuggirono e le montagne sparirono. Le “città delle nazioni” sono i popoli non battezzati. Babilonia è l’abominio della desolazione, che in latino è: tutto il male. Che o sia fatto tra i pagani, o tra i Cristiani o tra i servi di Dio, il male operato, si definisce sempre Babilonia. Babilonia si interpreta come confusione, cioè come una mistura. E ciò che è male, si separa da Cristo e dalla sua Chiesa. Così Babilonia cade o beve l’ira di Dio quando riceve potere contro la Chiesa, specialmente alla fine dei tempi. Per questo si dice che è caduta a causa del terrore, della paura e della contumelia che fa alla Chiesa, perché, come detto, i pagani ed i Cristiani sono mescolati con la Chiesa. Essi – i pagani – non hanno città separate dai Cristiani, così che in particolare debbano cadere. E se dobbiamo pensare al giorno del giudizio, perché Dio se lo è ricordato dopo Babilonia? Perché queste città buone e cattive si formano dappertutto. E quando dice che le città delle nazioni caddero, significa che esse hanno perso la speranza che avevano in questo mondo. A sua volta, le isole e le montagne che sono fuggite e non sono apparse, sono ancora la Chiesa che sopporta tutti gli insulti e non restituisce male per male. E quando subisce gli insulti e non risponde alle parole dei bestemmiatori, si dice che fugge e scompare. – E una grande grandine, con pietre di quasi un talento, cadde dal cielo sugli uomini. “Grandine” viene chiamata l’ira di Dio, con la quale Dio minaccia il popolo. E gli uomini bestemmiavano Dio a causa della piaga della grandine, perché era una grandissima piaga. Questa piaga di cui parliamo si trova all’interno della Chiesa: quando qualcuno non adempie ai precetti del Signore, è spiritualmente devastato dalla grandine. Allo stesso modo, l’ira di Dio devasta ciò che trova tenero, cioè morbido e dissoluto o tiepido, quando si vede che non si lavora con tutte le proprie forze. – Poi venne uno dei sette Angeli che avevano le sette coppe e mi disse: “Vieni, ti mostrerò il castigo della famosa prostituta, che siede sulle grandi acque: con essa fornicarono i re della terra, e gli abitanti della terra si ubriacarono con il vino delle sue prostituzioni. (Ap. XVII).  “Uno dei sette Angeli” di cui si parla, è la Chiesa. La coppa è il Vangelo. Quella che si designa come prostituta si riferisce alla corruzione ed alle opere malvagie, e si dice che “siede sulle grandi acque”, cioè sui popoli. Infatti le acque sono i popoli, siano essi cattivi Cristiani, pagani o eretici; ed essa è quella bestia riferita in precedenza. Coloro che si designano come “re della terra” sono i principi del mondo, quelli che vengono detti inebriati, sono le opere e le disposizioni malvagie che per loro si attuano sulla terra. – E sono andato in spirito nel deserto: e ho visto una donna seduta su una bestia.  Deserto è lo stesso che dire “sterile”, è cioè, laddove la predicazione del Vangelo non viene né fatta né recepita. È chiamato deserto perché abbandonato da Dio. D’altra parte, la bestia e le grandi acque sono una cosa sola, e cioè il popolo malvagio che è il corpo del diavolo ed il nemico dell’Agnello, cioè di Cristo e della Chiesa. E vidi una donna seduta su una bestia di colore scarlatto, cioè una peccatrice, insanguinata dal sangue dei martiri e di tutti i Santi, con sette teste e dieci corna. Le sette teste si riferiscono a tutti i re e le dieci corna a tutti i regni. Infatti il sette ed il dieci costituiscono un numero perfetto. Ed era adorna di oro, pietre preziose e di perle. E aveva in mano una coppa d’oro piena di abomini e delle impurità della sua prostituzione. Quando si dice “adornata” ed avente una “coppa d’oro”, ci si riferisce agli ipocriti pieni di sporcizia, che infatti appaiono davanti agli uomini effettivamente dei giusti, ma dentro sono pieni di sporcizia. Questa donna con la bestia ed i re della terra appaiono in cielo, cioè nella Chiesa. Questi sono coloro che combatteranno contro l’Agnello, sono cioè coloro che si opporranno alla Chiesa fino alla fine dei secoli. Ma l’Agnello, come Signore dei signori e Re dei re, li vincerà, in unione con i chiamati, gli eletti ed i fedeli; indica così la Chiesa: i chiamati, gli eletti e i fedeli, ed infatti non tutti i chiamati sono anche eletti, dacché « molti sono i chiamati, ma pochi sono gli eletti » (Mt. XXII, 14). Molti fedeli, non sono eletti. – E mi fu detto: “Vieni, ti sto per mostrare la Sposa dell’Agnello”, e mi mostrò la città che scendeva dal cielo. L’Agnello è Cristo, la Sposa dell’Agnello è la Chiesa. Essa discende sempre dal cielo, perché la Chiesa nasce sempre dalla Chiesa, come i Santi dai Santi che imitano i Santi, così come pure, al contrario, i malvagi dai malvagi che imitano i malvagi. – Dopo questo vidi un altro Angelo scendere dal cielo, che aveva un grande potere, e la terra fu illuminata dal suo splendore. E gridò a gran voce, dicendo: Babilonia la grande è caduta, è caduta, ed è diventata l’abitazione dei demoni. (Ap. XVIII). Questo Angelo è Cristo. Il gridare con forza è la predicazione del Vangelo. Quando dice: “Babilonia la grande è caduta ed è diventata l’abitazione dei demoni”, insegna chiaramente che Babilonia si divide in due parti, cioè tra i pagani ed i cattivi Cristiani, e che entrambi sono separati da Dio: alcuni lo rinnegano per la fede ed altri con le opere. Perciò egli avverte la Chiesa dicendo: Uscite da essa, popolo mio, affinché non diventiate complici dei suoi peccati e le sue piaghe non vi raggiungano: questo lo dice alla Chiesa. Allora un Angelo sollevò una pietra, come se fosse una grande macina da mulino, e la gettò in mare, dicendo: “Con questa pietra da macina Babilonia, la grande città, sarà scacciata e non apparirà più“. Dice così che la gioia degli empi passa e che non si ritroverà mai più. Poi ho sentito dal cielo un grande rumore di una folla immensa, che diceva: Alleluia (Ap. XIX). Questo è quel che dice sempre la Chiesa. Quando avrà luogo la separazione ed essa sarà apertamente vendicata, allora sarà veramente divisa da Babilonia, non ora in questo mondo: quando entrambe saranno uscite dal corpo, i malvagi andranno nelle profondità dell’inferno – che l’angelo ha chiamato “pietra da macina gettata nelle profondità del mare” – ed i giusti, invece, andranno alla vita eterna. – Poi ho visto il cielo aperto, e c’era un cavallo bianco: colui che cavalca su di esso si chiama Fedele e Verace. Questo cavallo è la Chiesa, e il suo cavaliere è Cristo. Questo è il cavallo visto nel primo sigillo tra il rosso, il nero ed il pallido. – Poi vidi un Angelo in piedi sul sole, e questa è la predicazione nella Chiesa: esso gridava a gran voce a tutti gli uccelli che volavano in mezzo al cielo: venite, radunatevi per il grande banchetto di Dio, perché mangerete la carne dei re, dei tribuni e dei potenti, degli uomini liberi e degli schiavi, dei piccoli e dei grandi. La Chiesa, mangia tutto questo spiritualmente; la Chiesa ha preparato spiritualmente questi cibi e queste prelibatezze. Gli uccelli che volano si dicono Chiesa, e quelli che abbiamo detto essere mangiati sono i nemici della Chiesa, che essa divora sempre spiritualmente. – Poi ho visto la bestia ed i re della terra con i loro eserciti riuniti per combattere contro Colui che è a cavallo e contro il suo esercito. La bestia è il diavolo e tutto il suo popolo che combatte contro la Chiesa e contro Cristo. Ma la bestia fu catturata e con essa il falso profeta, colui che aveva realizzato segni al cospetto della bestia perché si adorasse il suo simulacro. I due furono gettati vivi nel lago di fuoco che brucia di zolfo. La bestia catturata, significa che il Signore nella sua venuta finale sottometterà il diavolo, e con lui il falso profeta: quindi il diavolo, il popolo malvagio ed i suoi prepositi: un solo corpo diviso in parti. Infatti questi due vivi, sono il popolo ed i prepositi, che il Signore incontrerà viventi. E dice che li getterà vivi nel lago di fuoco ardente. Gli altri furono sterminati dalla spada che usciva dalla bocca di colui che sedeva sul cavallo, e tutti gli uccelli furono sazi della loro carne, cioè quando dice “gli altri” si riferisce a coloro che Cristo troverà morti al suo arrivo. “Colui che cavalca il cavallo” si riferisce a Cristo che è al di sopra della Chiesa. La “spada che esce dalla sua bocca” è la parola della predicazione. Tutti quelli che dice “gli uccelli”, sono i Santi che formano la Chiesa. Quando dice che si saziarono delle loro carni, significa che la Chiesa mangerà sempre la carne dei suoi nemici. Se ne ciberà perciò alla resurrezione, vendicatrice delle loro opere carnali. Ma, dopo la venuta del Signore e la punizione della bestia, chi deve essere ucciso con la spada per essere mangiato da veri uccelli, quando i corpi saranno risuscitati essendo gli uomini giudicati nella loro integrità? Qui finisce e ricapitola dall’inizio. Poi ho visto un Angelo scendere dal cielo, che teneva in mano la chiave dell’abisso ed una grande catena. Dominò il dragone, cioè il diavolo, e lo incatenò per mille anni. Lo rinchiuse e vi pose i sigilli, affinché non seducesse più gli uomini, fino al compimento dei mille anni (Ap. XX). L’Angelo qui nominato si riferisce al Cristo nella sua prima venuta. La chiave dell’abisso è il potere del suo popolo. Quella che egli chiama “catena” designa il potere che Dio ha dato al suo popolo. E quando dice che lo ha incatenato nell’abisso per mille anni, “l’abisso” è il popolo escluso dai cuori dei credenti. Ciò che egli ha chiamato mille anni, è il tempo dalla prima venuta del Signore fino alla sua seconda venuta, in modo che esso – il dragone – non possa nuocere per quanto vorrebbe a coloro che credono. Di poi deve essere liberato per un breve periodo, e questo alla fine del mondo, quando il diavolo, il principe introdottosi nell’Anticristo, e i suoi ministri negli uomini malvagi, avranno allora potere come non  mai, anche di prima che Cristo venisse. Poi vidi dei troni, ed essi si sedettero su di essi, e fu dato loro il potere di giudicare. Per “troni” si intendono le dodici tribù di Israele, che sono la Chiesa stabilita in Cristo; già fin dalla prima venuta del Signore, quando il diavolo era legato, essi sono seduti e giudicano, perché, come sta scritto, « i santi giudicano già il mondo » (1 Cor. VI, 2); ma lo fanno coloro che abbandonano completamente il mondo e seguono Cristo con tutta la loro mente. Questo lo dice dei Santi che sono vivi. Dei Santi che sono già sepolti dice: Ho visto anche le anime di coloro che sono stati uccisi a causa della parola di Dio e per la testimonianza di Gesù. Infatti la Chiesa testimonia ad entrambi, cioè al Verbo ed alla carne, che c’è un solo Cristo Figlio di Dio. Beato e santo colui che partecipa alla prima risurrezione; la seconda morte non ha alcun potere su di costui. Cioè, chiunque in questo mondo attende alla penitenza, in futuro non sarà gettato nell’inferno … ma saranno sacerdoti di Cristo e regneranno con Lui per mille anni, cioè per sempre. Infatti mille è un numero perfetto. E quando i mille anni saranno passati, satana sarà liberato dalla sua prigione, cioè si dissolverà nel nulla, così da svanire ed andare alla perdizione eterna. Perché non sarà liberato per ricevere la libertà, ma sedurrà le nazioni dei quattro angoli della terra, Gog e Magog. “Sedurre” significa rovinare e trascinare con sé alla perdizione. Tutti i malvagi che esso ha sedotto dai quattro angoli della terra, uniti a lui nella stessa perdizione, farà sì che siano sottoposti ai tormenti eterni. E li radunerà per la lotta, numerosi come la sabbia del mare: questa è cioè la moltitudine di peccatori levatisi con la superbia, ma le cui azioni terrene li faranno sprofondare. E circonderanno l’accampamento dei Santi, cioè vivranno insieme ai Santi. Ma di loro è già stato profetizzato: « tornano a sera, hanno fame, vagano per la città » (Psal. LVIII,7). – Ma il fuoco scese dal cielo e li divorò; e il diavolo, il loro seduttore, fu gettato nel lago di fuoco e di zolfo, dove si trova anche la bestia, e il falso profeta; ed essi saranno tormentati giorno e notte nei secoli dei secoli. Questa è la dissoluzione a cui ci siamo riferiti in precedenza, in modo che il seduttore muoia insieme con il sedotto. – Poi ho visto un grande trono bianco e Colui che vi sedeva sopra. Il “trono” è figura del giudizio, quando Cristo, in quel giorno del giudizio, giudicherà Egli stesso il mondo intero. Lo chiama bianco, perché tutti saranno giudicati con giustizia. Il cielo e la terra sono fuggiti dalla sua presenza, perché il cielo e la terra non possono resistere ad un giudizio di così grande potenza. Infatti davanti ad esso non c’è alcun posto che occupi spazio, ma c’è come il niente ed il vuoto. Così mostrata la forma del giudizio, indicata la qualità del Giudice, si riferisce già all’esecuzione della sentenza. Ho visto i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti al trono, ed i libri sono stati aperti, cioè sono state proclamate le opere di tutti. E poi è stato aperto un altro libro, che è il libro della vita. Il libro della vita è Cristo. È allora che si rende manifesto a tutte le sue creature. E i morti venivano giudicati secondo ciò che era scritto nei libri, secondo le loro opere, cioè venivano giudicati secondo la Legge ed il Vangelo, secondo ciò che avevano operato o non fatto. E il mare restituì i suoi morti, cioè coloro che si trovarono vivi in questo mondo. E la Morte e l’Ade hanno restituito i loro morti, che sono i sepolti. E colui che non è stato trovato scritto nel Libro della Vita – cioè colui che non è giudicato vivo dal Signore – fu gettato nel lago di fuoco; questa è la seconda morte. Poi vidi un nuovo cielo ed una nuova terra, perché il cielo di prima e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c’era più. E vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, salire dal cielo, preparata da Dio, come una sposa adorna per il suo sposo (Ap XXI). Il nuovo cielo e la nuova terra si riferiscono ai Santi incorrotti. Gerusalemme è la schiera celeste dei Santi che si dice vengano con il Signore, si uniscano al loro Signore e rimangano con Lui per sempre. – E udii una voce dal trono che diceva: “Questa è la dimora di Dio con gli uomini, e tu porrai la tua casa in mezzo a loro, ed essi saranno il suo popolo, ed egli, Dio con loro, sarà il loro Dio”. Ed egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, e non ci sarà più la morte, né il dolore, né il pianto, perché il vecchio mondo è passato.

COMMENTARIO ALL’APOCALISSE DI BEATO DE LIEBANA (2)

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. LEONE XIII – “OFFICIO SANCTISSIMO”

« Officio sanctissimo » è una magnifica lettera Enciclica densa di contenuti spirituali, dottrinali, sociali, pedagogici, storico-culturali che il Santo Padre Leone XIII scrisse all’Episcopato ed al popolo della Baviera, Regno da sempre Cattolico e fedelissimo alla Sede Apostolica – anche se tristemente noto per essere la patria degli Illuminati, infernale setta massonica. Ogni rigo è fonte di stupore e di meraviglia nel rilevare le considerazioni del Pontefice che sono applicabili non solo alla cristiana nazione, ma a tutte le Nazioni anche di oggi, che vogliono progredire nella vita materiale, sociale, spirituale. Energica è poi la difesa dei diritti della Chiesa Cattolica, fonte di ogni bene, ed accorata l’invocazione, rivolta prima alla Gerarchia ecclesiastica, e poi a tutti i Cristiani, nel serbare la dottrina cattolica, nell’insegnarla correttamente, con passione e con chiarissimo esempio promuovendo soprattutto la formazione dei giovani, sia chierici che laici. Non c’è che da leggere: si resta ammirati e commossi dai paterni accenti accorati del Pontefice rivolti a tutti gli strati della popolazione perché abbiano luce e benessere dalla santa Madre Chiesa, voluta da Dio, sgorgata dal fianco di Cristo ed arca unica di eterna salvezza. I tanti insegnamenti rivolti ai governanti di allora, sono tutti ancora perfettamente validi, e bene farebbero gli attuali reggitori delle sorti dei popoli, ad apprendere la vera scienza politica, quella che discende da Dio, dalla retta Teologia Scolastica, dal Magistero pontificio, dalla dottrina della Chiesa, e proprio in questi tempi in cui i servi del dragone e della bestia infernale, siedono – pilotati dalle logge di perdizione – sugli scanni di tutti i governi mondiali, spalleggiati dai rappresentanti del « falso profeta » insediato nei palazzi romani in luogo del legittimo reggente cacciato … esiliato … Al piccolo resto degli indomiti Cattolici non resta che la preghiera, il sacrificio e la ferma pazienza nell’attesa della desiderata parusia del Signore nostro Gesù Cristo che, con il soffio della bocca brucerà l’anticristo sprofondando nello stagno di fuoco la bestia, il falso profeta ed infine il drago maledetto, schiacciato dal calcagno virginale della Santissima Vergine Madre di Dio… et IPSA conteret caput tuum … Così è scritto, così sarà. … patientia pauperum non peribit in finem. Exsurge, Domine; non confortetur homo (Ps. IX, 19-20).

Leone XIII

Officio sanctissimo

Lettera Enciclica

Indotti dal dovere santissimo dell’ufficio Apostolico, Noi Ci siamo sforzati grandemente e a lungo, come voi ben sapete, perché migliorasse la situazione della Chiesa cattolica in Prussia e perché, riportata al rango e alla dignità che le competono, riacquistasse e ampliasse il suo antico prestigio. Questi Nostri propositi e sforzi, sorretti dall’aiuto e dall’ispirazione divina, hanno consentito di attenuare il precedente conflitto e di coltivare la speranza che in quel paese si potrà realizzare la piena e tranquilla libertà per i Cattolici. – Ora però è Nostra intenzione rivolgere la Nostra attenta sollecitudine, con intensità del tutto particolare, ai Bavaresi. Non certo perché riteniamo che la situazione religiosa sia in Baviera la stessa che in Prussia, ma perché speriamo e desideriamo che anche in codesto regno, che si gloria di professare il Cattolicesimo fin dal tempo dei più remoti antenati, sia opportunamente contrastato qualsiasi impedimento che possa insidiare o sminuire la libertà della Chiesa Cattolica. Per realizzare un così salutare proposito, Noi vogliamo esplorare ogni possibile occasione che Ci si offra, ed utilizzare senza indugio tutta l’autorità e tutto il potere di cui disponiamo. Ci appelliamo a voi, Venerabili Fratelli, e per vostro tramite Ci appelliamo a tutti i Nostri carissimi figli di Baviera, perché Ci sia dato di partecipare, secondo il Nostro potere, a tutto quanto sembri concernere l’interesse e la promozione della fede religiosa fra la vostra gente, e perché su questa materia possiamo darvi consigli, e rivolgere fiduciose sollecitazioni agli stessi poteri civili. – Negli annali sacri della Baviera – ricordiamo fatti che non vi sono sconosciuti – vi sono molti momenti nei quali Chiesa e Stato hanno trovato motivo di concorde letizia. Infatti la fede cristiana, da quando la sua divina semenza fu sparsa nel grembo della vostra regione mediante l’opera ed il sommo zelo del santo abate Severino (che fu l’apostolo del Norico) e degli altri predicatori del Vangelo, pose e fissò così profonde radici che in seguito nessuna smisurata superstizione, né alcun disordine e rivolgimento pubblico hanno potuto svellerla interamente. Per questo, alla fine del settimo secolo, quando Ruperto, santo vescovo di Worms, si accinse a risvegliare e a propagare la fede cristiana in tali regioni su invito di Theodone duca di Baviera, trovò indubbiamente, pur in mezzo alla superstizione, sia molti che già coltivavano la fede, sia molti che desideravano abbracciarla. E lo stesso insigne principe Theodone, mosso dall’ardore della fede, intraprese il viaggio verso Roma, e prosternato davanti al sepolcro dei Santi Apostoli e ai piedi dell’augusto Vicario di Gesù Cristo, per primo diede nobilissima testimonianza della pietà e della comunione della Baviera con questa Sede Apostolica: esempio che altri egregi principi hanno in seguito religiosamente imitato. Circa nello stesso periodo il Cardinale Martiniano, vescovo di Sabina, fu dal santo Pontefice Gregorio II inviato in Baviera per aiutare e rafforzare il campo cattolico; come compagni gli furono assegnati Giorgio e Doroteo, entrambi Cardinali della Chiesa romana. Non molto tempo si recò a Roma, presso il sommo Pontefice, Corbiniano, vescovo di Frisinga, uomo insigne per santità di vita e per abnegazione, che confermò ed accrebbe i risultati apostolici di Ruperto con uno zelo di pari intensità. Ma colui al quale si deve prima che ad ogni altro la gloria di aver alimentato e coltivato la fede in Baviera è senz’altro san Bonifacio, Arcivescovo di Magonza: lo stesso che viene celebrato come padre, apostolo, martire della Germania cristiana, con lodi assolutamente veritiere e immortali. Questi ricoperse l’ufficio di legato per i Pontefici romani Gregorio II e III, e Zaccaria, presso i quali egli godette sempre di grande favore; in nome loro e con l’autorità conseguente egli divise in diocesi le regioni della Baviera; avendo in tal modo stabilito l’ordinamento gerarchico, assicurò in perpetuo la fede che altri vi avevano introdotta. “Il campo del Signore – scrive San Gregorio II allo stesso Bonifacio – che giaceva incolto e che si era coperto di spine a causa dell’infedeltà, arato dal vomere della tua dottrina, accolse il seme del Verbo e produsse una fertile messe di fedeltà” . – Da quel tempo la religione dei Bavaresi, per quanto duramente insidiata nel corso dei secoli, resistette salda e costante attraverso tutte le vicende civili. Invero seguirono i ben noti turbamenti e le lotte dell’impero contro il sacerdozio: lotte aspre, lunghe, calamitose. Tuttavia in tali frangenti la Chiesa ebbe più da rallegrarsi che da dolersi, in Baviera. Questa infatti, col favore dell’autorità sovrana, si schierò a fianco del legittimo Pontefice Gregorio XI, senza lasciarsi in alcun modo smuovere dall’audacia sfrenata dei dissidenti che inutilmente minacciavano, e – cosa che era particolarmente difficile – per lungo tempo gli abitanti serbarono intatta la fede dei padri e la comunione con la Chiesa romana, per nulla intimiditi dalla violenta aggressività dei Novatori. Questo valore, questa fermezza dei vostri padri sono tanto più da celebrare ora che la nuova setta ha sventuratamente assoggettato quasi tutti i popoli a voi vicini. Certamente ai bavaresi che vissero in quei tempi calamitosi ben si addicevano le parole di meritata lode che molto tempo prima lo stesso Gregorio II aveva rivolto alla popolazione cattolica della Turingia, istruita nella dottrina cristiana da San Bonifacio, in una lettera ai governanti: “Riconoscendo la costanza della vostra magnifica fede in Cristo, di cui siamo ben informati, e come abbiate risposto, con fede piena, ai pagani che volevano spingervi a venerare gli idoli, di voler felicemente morire piuttosto che violare anche solo in parte la fede in Cristo abbracciata una volta per tutte; ripieni di straordinaria esultanza, rendiamo le dovute grazie al nostro Dio e redentore, dispensatore di ogni bene, con l’aiuto della cui grazia auspichiamo che voi possiate raggiungere le migliori e le più desiderabili mete; possiate rafforzare il proposito della vostra fede di mantenervi uniti e con animo pio alla santa Sede Apostolica e, quando lo esigano le necessità della santa Religione, possiate chiedere conforto alla santa Sede Apostolica, madre spirituale di tutti i fedeli, così come si conviene a figli coeredi di un regno nei confronti del regale genitore” . – In verità, anche se la grazia di Dio misericordioso, che nel passato ha protetto e benignamente abbracciato la vostra gente, Ci fa trarre i migliori auspici e concepire le migliori speranze per l’avvenire, nondimeno dobbiamo, ciascuno per la propria parte, apprestare tutte quelle difese che appaiano più efficaci sia a rimediare i danni già recati alla religione, sia ad impedire i pericoli che la possano sovrastare, in modo che la dottrina cristiana e le più sacre istituzioni morali possano rinvigorirsi ogni giorno di più e produrre frutti sempre più abbondanti. Non diciamo questo come se la causa cattolica potesse desiderare presso di voi più idonei o meno timidi difensori, ché anzi ben sappiamo, Venerabili Fratelli, che voi – e insieme con voi la parte maggiore e più integra del clero e dei fedeli laici – non vi siete mostrati né freddi né oziosi di fronte alle battaglie e ai pericoli dai quali è assediata e premuta la vostra Chiesa. Perciò, come per un motivo non dissimile il Nostro predecessore Pio IX, in un’amorevolissima lettera indirizzata ai Vescovi della Baviera, esaltò con grandi lodi il rilevante impegno da loro profuso in difesa dei sacri diritti della Chiesa, allo stesso modo Noi rivolgiamo volentieri spontanee, giuste e pubbliche lodi a quanti tra i Bavaresi hanno coraggiosamente intrapreso e sostengono la difesa della religione avita. In verità, nei periodi nei quali il previdentissimo Iddio permette che la sua Chiesa sia scossa da violente tempeste, Egli stesso richiede ben a ragione da parte nostra animi più vigili e forze più pronte alla bisogna. Tutti voi concordemente, Venerabili Fratelli, vedete con dolore come Noi, in che tempi ostili e iniqui la Chiesa sia caduta; vedete soprattutto in quali condizioni si trovino i vostri affari, e in quali difficoltà voi stessi vi dibattiate. Quindi comprendete per esperienza come i vostri doveri siano oggi maggiori che nel passato, e come dobbiate, per esercitarli, sforzarvi di applicare la vigilanza e l’operosità, la forza e la prudenza cristiane. – In primo luogo vi esortiamo e vi sollecitiamo a preparare e a qualificare il clero. Non c’è dubbio che il clero sia come un esercito, il quale, dal momento che i suoi regolamenti e i suoi compiti impongono che, sotto la guida dei Vescovi, si trovi in contatto quasi costante col popolo cristiano, sarà in grado di dare onore e sostegno tanto maggiori alla cosa pubblica quanto più si segnalerà per numero e per disciplina. Per questo fin dai tempi più antichi fu sempre speciale cura della Chiesa scegliere ed educare al sacerdozio quegli adolescenti “la cui indole e forza di volontà fanno sperare che si dedicheranno per sempre ai compiti ecclesiastici” ; ed altresì “che gli adolescenti siano avviati fin dagli anni più teneri alla pietà e alla Religione, prima che l’abitudine dei vizi possieda tutti gli uomini” ; per loro fondò appositi istituti e collegi, e fissò regolamenti pieni di sapienza, specialmente col santo Concilio Tridentino , “perché questo collegio dei ministri di Dio sia un seminario perpetuo” . Ora, vi sono luoghi in cui sono state stabilite e sono in vigore leggi che, se non impediscono del tutto, pongono ostacoli a che il clero si formi spontaneamente o venga educato secondo una specifica disciplina. Riguardo a questo problema, che riveste la massima importanza, riteniamo che ora, come in altre occasioni, occorra che Noi esprimiamo apertamente il Nostro pensiero e che ricorriamo a qualunque mezzo in Nostro possesso per conservare santo e inviolato il diritto della Chiesa. Non v’è dubbio che sia diritto originario della Chiesa, come società perfetta nel suo genere, di ordinare e di istruire le sue truppe, che non sono di danno ad alcuno e sono di aiuto a molti, nel pacifico regno che Gesù Cristo ha fondato sulla terra per la salvezza del genere umano. – Il clero però dovrà assolvere ai propri doveri nel modo assolutamente più rigoroso e completo, quando, sorretto dall’aiuto dei Vescovi, avrà acquisito nei sacri seminari una tale disciplina dell’animo e della mente quale richiedono la dignità del sacerdozio cristiano e le circostanze dei tempi e dei costumi; occorre cioè che esso eccella con lode nella dottrina e, ciò che è più importante, con somma lode nell’esercizio della virtù, affinché sappia trarre a sé l’animo degli uomini e suscitare in loro un sentimento di deferenza. – È necessario che la sapienza cristiana, splendente di mirabile luce, brilli negli occhi di tutti, affinché, disperse le tenebre dell’ignoranza, che è la maggior nemica della Religione, la verità si diffonda largamente in ogni dove e felicemente regni. Occorre altresì che siano confutati e sbaragliati i molteplici errori che, sorti o dall’ignoranza o dalla disonestà o dai pregiudizi, distolgono perversamente la ragione degli uomini dalla verità cattolica e la mostrano in una luce fastidiosa per l’animo. Quel compito grandissimo che consiste nell’”esortare alla sana dottrina e confutare coloro che la contraddicono” (Tt 1, 9) spetta all’ordine dei Sacerdoti, che lo ricevettero legittimamente da Cristo Signore, quando Egli li inviò, con la sua divina potestà, ad istruire tutte le genti: “Andate in tutto il mondo, predicate il Vangelo a tutte le creature” (Mc XVI, 15); intendendo chiaramente che i Vescovi, scelti quali successori degli Apostoli, presiedano come maestri nella Chiesa di Dio, e che i Sacerdoti li affianchino come aiutanti. Riguardo a queste sante incombenze, si provvide nel modo quanto più compiuto e perfetto nei primi tempi della nostra Religione e nei secoli successivi, durante quell’acerbissima lotta che divampò così a lungo contro la tirannide della superstizione pagana: da quel conflitto trasse sì grande gloria la classe sacerdotale, e gloria ancor più grande il santissimo ordine dei Padri e dei Dottori, la cui sapienza ed eloquenza risplenderanno nella memoria e nell’ammirazione di tutti. In verità, attraverso loro, la dottrina cristiana, più sottilmente trattata, con più facondia spiegata, col massimo coraggio difesa, si rivelò in tutta la sua verità e la sua eccellenza, assolutamente divina; per contro cadde la dottrina degli idolatri, confutata e disprezzata anche dagli indotti come totalmente assurda, insufficiente, incoerente. – Inutilmente poi gli avversari si coalizzarono per ritardare e ostacolare il corso della sapienza cattolica; inutilmente le contrapposero le scuole della filosofia greca, sopra tutte la platonica e l’aristotelica, esaltandole con magnifiche espressioni di lode. I nostri infatti, non sottraendosi neppure a siffatto genere di contesa, applicarono l’ingegno anche allo studio dei filosofi pagani; ciascuno di loro se ne occupò, li approfondì con diligenza quasi incredibile, li esaminò ad uno ad uno, li soppesò, li confrontò; molte proposizioni furono da loro respinte o corrette; non poche, com’era giusto, approvate ed accolte; fu infatti da loro chiarito e proclamato il concetto secondo cui soltanto ciò che appare falso alla ragione e all’intelligenza dell’uomo è contrario alla dottrina cristiana, sicché colui che vuole opporsi e resistere a questa dottrina in realtà necessariamente si oppone e resiste alla sua stessa ragione. – Di tal fatta furono le battaglie combattute da quei nostri padri; significative vittorie furono ottenute non solo col valore e le armi della fede, ma anche con l’aiuto della ragione umana: la quale, avanzando nella luce della sapienza celeste, dall’ignoranza di moltissime cose, e quasi da una foresta d’errori, era entrata a passo sicuro nel cammino della verità. – Questa veramente ammirevole concordia ed alleanza di fede e ragione, per quanto onorate nei meditati studi di molti, risplendono tuttavia al massimo grado, come raccolte in un solo edificio ed esposte unitariamente, nell’opera di Sant’Agostino De Civitate Dei, e similmente nell’una e nell’altra Summa di San Tommaso d’Aquino: libri nei quali sono racchiusi certamente tutti i più acuti pensieri e le dissertazioni di tutti i sapienti, e nei quali si possono ricercare i fondamenti e le sorgenti di quella eminente dottrina che chiamano teologia cristiana. – Il ricordo di esempi tanto insigni deve essere assolutamente ripreso e favorito in quei tempi dal clero, ora che vecchie armi sono qua e là rimesse in uso da opposti partiti e si riaccendono quasi le stesse vecchie battaglie. Però, mentre in passato i pagani respingevano la religione cristiana per il fatto che non volevano essere allontanati dai loro riti e dalle loro istituzioni religiose ancestrali, ora invece l’opera nefasta di uomini scellerati tende proprio ad estirpare dalle radici, tra i popoli cristiani, tutti quegli insegnamenti divini e indispensabili che furono inculcati in loro attraverso la santità della fede, e a ridurli in uno stato peggiore di quello dei pagani e a trascinarli alla più degradante miseria, vale a dire al disprezzo e alla distruzione di ogni fede e religione. – L’origine di questa impura peste, della quale nessun’altra è più detestabile, è da ricercarsi in coloro che attribuirono all’uomo, esclusivamente in virtù della propria natura, la facoltà di conoscere e giudicare, ciascuno in base al proprio giudizio razionale, in materia di dottrina rivelata: con ciò sottraendosi del tutto all’autorità della Chiesa e del Pontefice romano, ai quali soltanto spetta invece, per divino mandato e prerogativa, di custodire tale dottrina, tramandarla, e sentenziare intorno ad essa in assoluta verità. Si apriva così rapidamente – e infatti si aperse rovinosamente per loro – la via che porta a porre in dubbio e a rifiutare tutte le verità che sono poste oltre la natura delle cose e la capacità intellettiva dell’uomo; giunsero a tal punto d’impudenza da negare che vi sia qualche autorità che promani da Dio, e che Dio stesso esista, scadendo infine, nella teoria insulsa dell’Idealismo e in quella particolarmente abietta del Materialismo. Coloro che si chiamano Razionalisti, così come i Naturalisti, non si peritano di chiamare questo pervertimento dei massimi principi col falso nome di progresso della scienza e progresso della società umana; al contrario, tutto ciò prepara la rovina e la distruzione dell’una e dell’altra. – Pertanto, Venerabili Fratelli, voi ben sapete e comprendete con quali strumenti e metodi occorre che vengano educati alle più alte dottrine gli alunni della Chiesa, affinché essi si applichino ai propri doveri secondo quanto richiedono la convenienza e l’utilità dei tempi. È bene però che essi, una volta plasmati e affinati attraverso le discipline umanistiche, non si accostino ai più complessi studi della sacra teologia prima di aver acquisito una scrupolosa preparazione nello studio della filosofia. Ci riferiamo a quella filosofia profonda e solida, indagatrice delle cause ultime, valida patrona della verità; in forza di essa, eviteranno di fluttuare e di venir trascinati “da qualsiasi vento dottrinario suggerito dalla malvagità degli uomini, con l’astuzia ingannatrice dell’errore” (Ef. IV, 14), e sapranno fornire alla verità l’ausilio anche di altre dottrine, dopo aver discusso e confutato le teorie ingannevoli e capziose. A questo scopo abbiamo già raccomandato che le opere del grande Aquinate siano nelle loro mani e costantemente ed abilmente commentate, ed abbiamo più volte reiterato tale consiglio con le parole più solenni. Il Nostro animo confida che da quei testi il clero abbia già tratto ottimi frutti, e nutriamo la ferma speranza che ne trarrà degli ancor più ricchi e copiosi. Non v’è dubbio che l’insegnamento del Dottor Angelico è mirabilmente idoneo a formare le menti: fornisce mirabile perizia nel commentare, nel filosofare e nel disertare in modo stringente e invincibile. Infatti mostra lucidamente le cose singole l’una derivante dall’altra in una serie continua, tutte tra loro connesse e coerenti, tutte in relazione con i principi supremi; così essa innalza alla contemplazione di Dio, che di tutte le cose è causa efficiente e forza e sommo modello, al quale infine ogni filosofia e quanto v’è di grande nell’uomo debbono riferirsi. Così, invero, attraverso Tommaso la scienza delle cose divine e umane, e delle cause che le contengono, viene ammirevolmente illustrata e stabilmente fondata; nel tentativo di contrastarne la disciplina, le antiche sette degli errori si ritrovarono completamente distrutte; e così pure le nuove, diverse da quelle più nel nome e nell’apparenza che nella sostanza, non appena ebbero sollevata la testa ricaddero, soccombendo sotto i suoi colpi: come già è stato dimostrato da più d’uno dei nostri scrittori. – Indubbiamente la ragione umana vuole addentrarsi con sguardo acuto e libero nella conoscenza della natura intima e recondita delle cose, e non può non volerlo: ma sotto la guida e il magistero dell’Aquinate tale percorso le è reso più facile e più libero perché del tutto sicuro, al riparo dal pericolo di oltrepassare i confini della verità. Né del resto si potrebbe onestamente definire libertà quella che consiste nel seguire e nello spargere opinioni secondo l’arbitrio e il capriccio, ma al contrario soltanto licenza dissoluta, scienza menzognera e fallace, disonore e schiavitù dell’animo. Peraltro egli è il sapientissimo Dottore che sa mantenersi entro i limiti della verità; colui che non solo non combatte mai con Dio, principio e somma di ogni verità, ma che a Lui si mantiene sempre unito, sempre devoto a Lui che in ogni modo gli rivela i Suoi arcani misteri; colui che non meno santamente è docile alla parola del Pontefice romano, venera in lui l’autorità divina, ed è assolutamente convinto che “la sottomissione al Pontefice romano è necessaria alla salvezza” . Alla sua scuola dunque sia formato il clero, e si eserciti nella filosofia e nella teologia: ne uscirà sicuramente dotto e al massimo grado armato per le sante battaglie. – Infine a malapena si può esprimere l’immensa utilità di diffondere presso ogni ordine sociale, tramite il clero, la luce della dottrina, se essa rifulge come da un candelabro di virtù. Infatti, nei precetti che si propongono di correggere i costumi umani, sono quasi più efficaci gli esempi che le parole dei maestri: nessuno avrà mai una gran fiducia in colui le cui azioni discordino con le sue parole e i suoi insegnamenti. Fissiamo gli occhi e la mente in Gesù Cristo Signore, il quale, poiché è la verità ci insegnò le cose in cui dobbiamo credere, e poiché è la vita e la via, propose se stesso a noi come l’esempio assoluto, sul quale modellarci per condurre onestamente la vita e per tendere con zelo al bene ultimo. Egli stesso volle i suoi discepoli formati e perfetti secondo il suo esempio con queste parole: “La vostra luce, cioè la dottrina, risplenda agli occhi degli uomini quando essi vedono le vostre opere buone”, non diversamente dagli argomenti della dottrina, “e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli” (Mt V, 16), abbracciando insieme la dottrina e la morale del Vangelo, che affidava loro perché lo diffondessero. – Sono appunto questi i principi divini sui quali occorre che si modelli e si orienti la vita dei Sacerdoti. È assolutamente opportuno e necessario che essi abbiano quasi scolpita nell’animo la convinzione che ormai non appartengono più al secolo, ma sono stati scelti veramente per disposizione di Dio perché, pur conducendo la loro esistenza in comunione col secolo, vivano tuttavia la vita di Cristo Signore. Se davvero vivranno di Lui e in Lui, non ricercheranno mai le cose proprie, ma si dedicheranno totalmente alle cose che appartengono a Gesù Cristo (Fil II, 21), e non si sforzeranno di procurarsi il vano favore degli uomini, ma ricercheranno il duraturo favore di Dio; si asterranno, provandone disgusto, da ogni genere di bassezza e corruttela; procurandosi larga messe di beni celesti, li diffonderanno copiosamente e lietamente intorno a sé, come si addice alla santa carità; né accadrà mai più che al giudizio e al volere dei Vescovi oppongano o antepongano il proprio, ma obbedendo e assecondando coloro che rappresentano la persona di Cristo, lavoreranno con grande felicità nella vigna del Signore, con abbondanza di sceltissimi frutti produttivi della vita eterna. Invero, chiunque si separi con la parola e con la volontà dal suo pastore e dal Pastore supremo, il romano Pontefice, non può in alcun modo essere congiunto a Cristo: “Chi ascolta voi ascolta me; e chi disprezza voi disprezza me” (Lc X,16), e chiunque è lontano da Cristo dissipa, anziché raccogliere. – Da ciò scaturisce inoltre quali forme e modi di obbedienza siano dovuti agli uomini, che sono preposti alla cosa pubblica. Ebbene, non si vuole assolutamente negare o limitare i loro diritti; piuttosto sono da seguire, da parte di tutti gli altri cittadini, e con maggior diligenza da parte dei sacerdoti, le parole “Date a Cesare quello che è di Cesare” (Mt. XXII, 21). Infatti sono nobilissimi e degni di onore i doveri che Dio, Signore e Rettore supremo, impose ai Principi acciocché con la saggezza, con la ragione, con ogni osservanza della giustizia essi regolino, conservino, accrescano lo Stato. Per questo il clero deve adempiere e svolgere ogni singolo dovere dei cittadini, in modo non servile ma rispettoso; per religione e non per paura; col giusto ossequio pur conservando la propria dignità: cittadini e insieme Sacerdoti di Dio. Ché se poi talora accada che il potere civile usurpi i diritti di Dio e della Chiesa, allora venga dai Sacerdoti un insigne esempio di come il Cristiano si debba mantenere fermo al proprio posto, anche in tempi terribili per la Religione: sopporti in silenzio, con fermo coraggio; sia cauto nel sopportare azioni inique, e non dia in alcun modo il proprio assenso né la propria comprensione ai malvagi; e se si ponesse la stringente alternativa, o di disobbedire ai comandi di Dio o di compiacere agli uomini, egli faccia propria con libera voce quella memorabile e degnissima sentenza degli Apostoli: “Occorre obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At V, 29). A questo modello appena abbozzato di un metodo educativo per giovani ecclesiastici, Ci piace e Ci pare opportuno aggiungere considerazioni che riguardano la gioventù in generale: Ci sta grandemente a cuore, infatti, che l’educazione di essa si compia nel modo migliore e più completo, sia riguardo allo sviluppo della mente, sia alla perfezione dell’animo. La Chiesa ha sempre avvolto in un materno abbraccio l’età giovanile; in sua difesa ha sempre impiegato molte amorevoli energie e apprestato molteplici sussidi; tra questi, molte Congregazioni di religiosi che istruissero gli adolescenti nelle arti e nelle dottrine, e soprattutto li nutrissero della sapienza e della virtù cristiana. Così, sotto tali auspici accadeva facilmente che sgorgasse nei teneri animi la pietà verso Dio, e che per questo tramite il senso del dovere dell’uomo verso se stesso, verso gli altri e verso la patria, ricevuto in giovane età, altrettanto precocemente facesse sperare nei migliori frutti. – Pertanto, ora è giusta causa di dolore per la Chiesa il vedere che i propri figli le sono strappati nella più tenera infanzia e costretti in quelle scuole dove o viene messa del tutto a tacere ogni nozione di Dio, oppure ne viene esposta qualche idea imprecisa e mista a perversità, e dove non v’è alcun riparo contro il diluvio di errori, alcuna fede nella rivelazione divina, alcuno spazio perché la verità possa difendersi da se stessa. – È dunque somma ingiustizia escludere l’autorità della Chiesa Cattolica dalle sedi delle lettere e delle scienze, poiché è da Dio che è stato attribuito alla Chiesa il compito dell’insegnamento della Religione, cioè di quello strumento senza il quale nessuno può acquistare la salvezza eterna. A nessun’altra comunità umana è stato assegnato tale incarico, e nessuna comunità può attribuirselo: per questo e con ragione essa lo reclama come suo proprio diritto, e si duole nel vederlo colpito. Oltre a ciò occorre prestare grande attenzione e ad ogni costo evitare che, nelle scuole che si sono sottratte in tutto o in parte dalla giurisdizione della Chiesa, la gioventù corra pericoli e subisca influenze dannose per la sua fede cattolica e per la sua dirittura morale. A questo fine avrà particolare valore la sollecitudine del clero e delle persone oneste, sia se opereranno perché l’insegnamento religioso non solo non venga escluso da quelle scuole, ma perché vi occupi il ruolo che gli spetta, e perché venga affidato a maestri idonei e di specchiata virtù; sia se sapranno ideare e organizzare altri accorgimenti didattici che consentano di insegnare ai giovani tale dottrina con limpidezza e chiarezza. Avranno anche grande valore i consigli e la cooperazione dei padri di famiglia. Conseguentemente è opportuno rivolgere a questi un ammonimento e un’esortazione, con la maggiore solennità: non dimentichino quanto grande e santo dovere essi contraggano con Dio riguardo ai loro figli; come li debbano educare alla conoscenza della Religione, ai buoni costumi, al pio timor di Dio; come potrebbero danneggiarli, affidando giovani ingenui e incauti alle mani di precettori sospetti. Collegati con tali doveri, che si sono assunti con la procreazione dei figli, i padri di famiglia sappiano che esistono altrettanti diritti, secondo natura e secondo giustizia, e sono di tal fatta che non è lecito né sottrarsene né farsene espropriare da alcuna autorità umana, dal momento che è proibito all’uomo sciogliersi dagli obblighi ai quali è tenuto verso Dio. – I genitori ricordino dunque che, se sopportano un grande peso, quello della protezione dei figli, ne sopportano uno molto maggiore, quello di educarli alla più alta e più degna vita, che è la vita spirituale. Quando non sono in grado di svolgere da sé questo compito, sono tenuti ad assicurarsi l’opera vicaria di altri, in modo che i figli ricevano il necessario insegnamento religioso da maestri preparati. Ormai non è infrequente quel davvero meraviglioso esempio di pietà e di munificenza fornito – nei luoghi dove non esistono altre scuole pubbliche, se non quelle che vengono chiamate neutrali – da quei Cattolici che hanno aperto proprie scuole a costo di grandi sacrifici e rilevanti spese e che con pari costanza le mantengono in attività. È da augurarsi vivamente che siano fondati molti altri di questi mirabili e sicuri rifugi per la gioventù, ovunque se ne veda l’opportunità secondo i luoghi e le possibilità. – Né si deve passare sotto silenzio il fatto che l’educazione cristiana della gioventù risulta anche della massima utilità per la società stessa. È del tutto evidente come siano da temersi innumerevoli e ingenti pericoli in quello Stato in cui i metodi didattici e l’ordinamento degli studi escludano la Religione, oppure, ciò che è anche più dannoso, le si oppongano. Infatti, non appena sia trascurato o spregiato quel supremo e divino Magistero, che ci ammonisce a venerare l’autorità di Dio, e, fidando in Lui, ad attenerci con incrollabile fede ai suoi Comandamenti, ecco che subito si apre per la scienza umana la rovinosa via dei più perniciosi errori, e particolarmente quelli del naturalismo e del razionalismo. Ne consegue che ciascuno si ritiene libero nel giudicare e nel valutare, sia che si tratti di idee, sia, e con maggior facilità, che si tratti di azioni; per questo l’autorità pubblica dei governanti ne risulta indebolita e mortificata. Ci sarebbe infatti da stupirsi considerevolmente se persone che abbiano fatta propria la perversa convinzione di non essere in alcun modo obbligate al dominio e al governo di Dio, accettassero e tollerassero il governo di un uomo. Una volta che siano stati distrutti i fondamenti sui quali poggia qualsiasi autorità, la società dell’umano consorzio si dissolve e si disperde: non vi sarà più Stato; si estenderà ovunque il feroce dominio della violenza e del delitto. Può forse lo Stato sventare una sì funesta calamità contando solo sulle proprie forze? Può farlo rifiutando l’aiuto della Chiesa? Può farlo combattendo la Chiesa? La risposta è chiara e manifesta a chiunque sia dotato di saggezza. La stessa prudenza politica quindi suggerisce che si debba lasciare ai Vescovi e al clero un ruolo nell’istruzione e nella formazione della gioventù; e che si debba prestare particolare attenzione a che non vengano chiamati al nobilissimo ufficio di educatori uomini di tiepido o scarso sentimento religioso, o apertamente avversi alla Chiesa. E sarebbe poi oltremodo intollerabile che uomini di siffatte inclinazioni fossero scelti per l’insegnamento più alto di tutti, quello delle scienze religiose. – È inoltre della massima importanza, Venerabili Fratelli, che avvertiate e cerchiate di respingere i pericoli che minacciano i vostri fedeli per il contagio dei massoni. Già altra volta, in un’apposita lettera Enciclica, mettemmo in rilievo quanto i propositi e le arti di questa tenebrosa setta siano pieni di nequizia ed esiziali per la società, ed indicammo i mezzi per indebolirne e soffocarne il vigore. – Né si avvertiranno mai abbastanza i Cristiani di guardarsi da tale scellerata società; essa infatti, sebbene fin da principio abbia concepito un profondo odio verso la Chiesa Cattolica e l’abbia poi riaffermato più aspramente e continui ogni giorno ad attizzarlo, tuttavia non manifesta sempre un’aperta inimicizia, ma più spesso agisce in modo ipocrita e ingannevole, e sventuratamente irretisce soprattutto gli adolescenti, che sono ingenui e poco smaliziati, attraverso una simulazione di pietà e di carità. Circa il modo di cautelarsi contro coloro che sono lontani dalla fede Cattolica, attenetevi scrupolosamente ai precetti della Chiesa, perché la consuetudine con le loro perverse opinioni non si risolva in un danno per il popolo cristiano. Vediamo bene, e ne siamo assai addolorati, che né Noi né voi abbiamo capacità pari alla volontà e allo zelo, per stornare completamente questi pericoli; nondimeno non riteniamo inopportuno fare appello alla vostra sollecitudine pastorale e insieme spronare all’impegno i Cattolici, perché associando i nostri sforzi possiamo allontanare o rendere meno pesanti gli ostacoli che si oppongono ai nostri voti comuni. Per esortarvi con le parole del Nostro santo predecessore Leone Magno, “Armatevi di pio zelo e religiosa sollecitudine, e che l’opera di tutti i fedeli si coalizzi contro i più minacciosi nemici delle anime” . Pertanto, dopo aver rimosso qualsiasi residuo di pigrizia e torpore che possano albergare nell’animo, tutti i buoni assumano come propria la causa della Religione e della Chiesa; e per essa combattano con fede e con perseveranza. Accade infatti che i malvagi vedano rafforzata la propria malizia e libertà di nuocere dall’inerzia e dalla pavidità dei buoni, ed anzi se ne vantino. Accadrà anche che gli sforzi e lo zelo dei Cattolici raggiungano talora risultati inferiori ai propositi e alle attese: saranno serviti tuttavia all’uno o all’altro scopo, a trattenere cioè gli avversari e a rinvigorire i deboli e i vili, oltre che procurare grande giovamento a chi ha la sicura coscienza del dovere compiuto. Del resto non sapremmo neppure concedere facilmente che possa mancare un esito felice alla solerzia e all’operosità dei Cattolici, quando siano guidate da un proposito giusto, perseguito con tenacia. Infatti è sempre successo, e accadrà sempre, che imprese che si presentano irte di gravi difficoltà e ostacoli abbiano infine il più felice esito, quando siano affrontate, come dicemmo, con audacia e intrepidezza, accompagnate e guidate da cristiana prudenza. È certamente inevitabile che prima o poi la verità, cui l’uomo per natura tende con grande passione, finisca per conquistare la mente; può essere attaccata e sommersa da turbolenze e malattie dello spirito, ma non può essere annientata. – Queste considerazioni appaiono convenire particolarmente alla Baviera, e per più di una ragione. In questa regione, infatti, dato che per grazia divina è annoverata tra i Regni Cattolici, non si tratta tanto di ricevere la santa fede quanto di custodire ed accrescere quella tramandata dai padri; inoltre, sono in gran parte Cattolici coloro che investiti di una pubblica carica sono autori delle leggi dello Stato; ed essendo parimenti Cattolici in maggioranza i cittadini e gli abitanti, non abbiamo il minimo dubbio sul fatto che essi vorranno aiutare e soccorrere con ogni mezzo la loro madre Chiesa nell’ora del pericolo. Dunque, se tutti collaboreranno con l’energia e la partecipazione dovute, potremo senza dubbio rallegrarci, con l’aiuto di Dio, dell’esito favorevole dei loro sforzi. E raccomandiamo ancora la collaborazione di tutti, perché, come nulla è più nefasto della discordia, così nulla è più potente ed efficace del consenso e della concordia degli animi quando, unendo le loro forze, tendano tutti ad uno scopo comune. In questo senso ai Cattolici si offre, attraverso le leggi, un mezzo opportuno per chiedere un miglioramento nelle condizioni e nelle forme della cosa pubblica, e per desiderare e volere una costituzione che, anche se non prevede favori e privilegi per la Chiesa e per loro, come pure sarebbe assai giusto, almeno non sia loro duramente ostile. Né sarà giusto che alcuno accusi e biasimi quelli tra noi che chiedono tali riconoscimenti, dato che di simili benefici avevano la consuetudine di servirsi licenziosamente i nemici del nome cattolico per ottenere e quasi estorcere dai governanti leggi avverse alla libertà civile e a quella religiosa. Perché non dovrebbe essere concesso ai Cattolici di servirsi degli stessi mezzi, e di servirsene nel modo più onesto, per la difesa della Religione, e per salvaguardare quei beni, privilegi e diritti che sono stati per volontà divina conferiti alla Chiesa e che da tutti, governanti e sudditi, devono essere guardati con molto rispetto? Tra i beni della Chiesa, che Noi dobbiamo sempre e ovunque conservare e difendere da ogni offesa, il più importante è certamente quello di poter fruire di tutta quella libertà d’azione di cui abbisognano la cura e la salvezza delle anime. Questa libertà è sicuramente divina, promossa dalla volontà dell’unigenito Figlio di Dio, che fece sorgere la Chiesa dall’effusione del proprio sangue, la volle perpetua tra gli uomini e volle porsene Egli stesso a capo: essa è a tal punto essenziale alla Chiesa, all’opera perfetta e divina, che chi agisce contro questa libertà agisce contro Dio e contro il dovere. – Come già dicemmo altrove più di una volta, Dio stabilì la sua Chiesa affinché si assumesse il compito di difendere, perseguire e donare largamente alle anime i beni supremi, immensamente superiori per natura ad ogni altra cosa; e affinché, con gli strumenti della fede e della grazia, infondesse da Cristo nuova vita negli uomini: una vita apportatrice di salvezza eterna. – Ma poiché le caratteristiche e i diritti di ogni società sono determinati essenzialmente dalle ragioni dalle quali trae origine e dalle mete alle quali tende, ne consegue naturalmente che la Chiesa è una società tanto distinta dalla società civile in quanto sono diverse le loro ragioni d’essere e le loro mete; essa è una società necessaria, che si offre all’intero genere umano, dato che tutti sono chiamati alla vita cristiana, in modo tale che chi la rifiuta o l’abbandona sarà separato in perpetuo, ed escluso dalla vita celeste; essa è soprattutto una società autonoma, e la più alta di tutte, per la stessa eccellenza dei beni celesti e immortali ai quali tutta intera tende. – È evidente a chiunque, d’altra parte, che le libere istituzioni devono avere libertà nell’impiego di tutti gli strumenti necessari. E gli strumenti idonei e necessari per la Chiesa sono la facoltà di trasmettere a sua discrezione la dottrina cristiana, di assicurare i santissimi Sacramenti, di esercitare il culto divino, di disporre e governare tutta la disciplina del clero, cioè tutti quei compiti e privilegi di cui Dio, nella sua infinita provvidenza, volle la Chiesa, ed essa sola, investita e dotata. A lei sola dispose che fossero affidate, come in deposito, tutte le cose rivelate agli uomini; lei sola infine stabilì come interprete, garante, maestra di verità, la più sapiente e sicura, i cui insegnamenti devono ascoltare e seguire tanto gli individui quanto gli Stati; similmente è certo che Egli stesso diede libero mandato alla Chiesa di giudicare e di prendere quelle deliberazioni che più ritenesse convenienti ai propri fini. Per questo, non v’è ragione che i poteri civili guardino con sospetto e ostilità alla libertà della Chiesa, dal momento che identico è il principio sia del potere civile, sia di quello religioso, e proviene unicamente da Dio. Perciò i due poteri non possono né divergere, né ostacolarsi, né annullarsi a vicenda, dato che non può essere che Dio non sia in armonia con se stesso, né possono essere in contrasto tra loro le Sue opere: ché anzi esse rivelano mirabile accordo di cause ed effetti. È chiaro inoltre che la Chiesa Cattolica, mentre porta i suoi vessilli sempre più lontani e sicuri tra le genti, obbedendo ai comandi del suo Fondatore, non invade in alcun modo il territorio del potere civile, né interferisce per nulla nel suo campo d’azione; ma anzi si pone a difesa e a salvaguardia delle genti; a somiglianza di quanto accade con la fede cristiana, che, lungi dall’oscurare la luce della ragione umana, le aggiunge piuttosto splendore, sia con l’allontanarla dall’errore, in cui è facile che l’uomo possa cadere, sia perché la introduce in un mondo di idee più vasto e più elevato. – Per quanto riguarda la Baviera, sono intervenuti particolari accordi tra questa Sede Apostolica e detto Paese: accordi ratificati e consacrati da reciproche convenzioni. La Sede Apostolica, sebbene abbia fatto larghe concessioni relativamente ai propri diritti, ha sempre rispettato tali accordi, come suole fare, integralmente e religiosamente; né ha mai fatto nulla che desse occasione di rimostranze. Per questo è assolutamente auspicabile che le convenzioni siano mantenute e scrupolosamente rispettate da entrambe le parti, sia nella lettera, sia ancor più nello spirito secondo il quale sono state stipulate. – È accaduto in realtà che la concordia venisse turbata e che nascesse un’occasione di conflitto: tuttavia Massimiliano I con un decreto l’attenuò, e successivamente Massimiliano II agì secondo giustizia, sancendo alcune opportune modifiche. Ora apprendiamo che queste disposizioni in tempi recenti sono state abrogate; tuttavia confidando sulla religione e sulla prudenza del Principe che governa il regno di Baviera, speriamo che colui che ha ricevuto come gloriosa eredità il ruolo e la religione dei Massimiliano vorrà personalmente e prontamente provvedere alla difesa dei beni cattolici e, allontanando ogni ostacolo, promuoverne lo sviluppo. Sicuramente gli stessi Cattolici (che costituiscono la maggior parte della popolazione: quella parte che senza alcun dubbio si segnala per l’amor di patria e per l’atteggiamento rispettoso verso i governanti) se si vedranno tenuti in giusta considerazione ed esauditi in una questione di tanta importanza, testimonieranno ulteriormente ossequio e lealtà verso il loro Principe, quasi come figli verso il padre, e con accresciuto fervore seguiranno i suoi propositi volti al bene e al prestigio del regno, e si conformeranno pienamente ad essi con tutte le loro forze. – Questo è quanto siamo stati indotti a comunicarvi, Venerabili Fratelli, spinti dal Nostro ufficio Apostolico. Ci rimane da implorare tutti insieme e a gara l’aiuto di Dio, e da invocare come intercessori presso di Lui la gloriosissima Vergine Maria e i Celesti patroni del regno di Baviera, perché Egli annuendo benigno ai nostri comuni voti doni alla Chiesa una tranquilla libertà e conceda alla Baviera di godere di crescente gloria e prosperità. A voi, Venerabili Fratelli, al clero e a tutto il popolo affidato alla vostra sollecitudine impartiamo con grande affetto l’Apostolica Benedizione, come auspicio dei doni celesti e come testimonianza della Nostra particolare benevolenza.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 22 dicembre 1887, nel decimo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA DI SESSAGESIMA (2021)

DOMENICA DI SESSAGESIMA 2021

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Paolo fuori le mura.

Semidoppio Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

Come l’ultima Domenica, e come le Domeniche seguenti, fino a quella della Passione, la Chiesa « ci insegna a celebrare il mistero pasquale, a traverso le pagine dell’uno e dell’altro Testamento ». Durante tutta questa settimana, il Breviario parla di Noè. Vedendo Iddio che la malizia degli uomini sulla terra era grande, gli disse: « Sterminerò l’uomo che ho creato… Costruisciti un’arca di legno resinoso. Farò alleanza con te e tu entrerai nell’arca ». E le acque si scatenarono allora sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti. L’arca galleggiava sulle onde che si elevarono sopra le montagne, coprendole. Tutti gli uomini furono trasportati come festuche nel turbine dell’acqua » (Grad.). Non rimase che Noè e quelli che erano con lui nell’arca. Dio si ricordò di Noè e la pioggia cessò. Dopo qualche tempo Noè apri la finestra dell’arca e ne fece uscire una colomba che ritornò con un ramoscello freschissimo di ulivo. Noè comprese che le acque non coprivano più la terra. Dio gli disse: « Esci dall’arca e moltiplicati sulla terra ». Noè innalzò un altare e offri un sacrificio. E l’odore di questo sacrificio fu grato a Dio (Com.). L’arcobaleno apparve come un segno di riconciliazione fra Dio e gli uomini. – Questo racconto si riferisce al mistero pasquale poiché la Chiesa ne fa la lettura il Sabato Santo. Ecco come Essa l’applica, nella liturgia, a nostro Signore e alla sua Chiesa. « La giusta collera del Creatore sommerse il mondo colpevole nelle acque vendicatrici del diluvio, Noè solo fu .salvo nell’arca; di poi l’ammirevole potenza dell’amore lavò l’universo nel sangue [Inno della festa del prezioso Sangue]. È il legno dell’arca che salvò il genere umano, e quello della croce, a sua volta, salvò il mondo. « Sola, dice la Chiesa, parlando della croce, sei stata trovata degna di essere l’arca che conduce al porto il mondo naufrago » [Inno della Passione]. La porta aperta nel fianco dell’arca, per la quale sarebbero entrati quelli che dovevano sfuggire al diluvio e che rappresentavano la Chiesa, è, come spiega la liturgia, una figura del mistero della redenzione, perché sulla croce Gesù ebbe il costato aperto e da questa porta di vita, uscirono i Sacramenti che donano la vera vita alle anime. Il sangue e l’acqua che ne uscirono sono i simboli dell’Eucaristia e del Battesimo » [7a lettura nella festa del prezioso Sangue].  « O Dio, che, lavando con le acque i delitti del mondo colpevole, facesti vedere nelle onde del diluvio una immagine della rigenerazione, affinché il mistero di un solo elemento fosse fine ai vizi e sorgente di virtù, volgi lo sguardo sulla tua Chiesa e moltiplica in essa i tuoi figli, aprendo su tutta la terra il fonte battesimale per rigenerarvi le nazioni » [Benedizione del fonte battesimale nel Sabato Santo]. Ai tempi di Noè dice S. Pietro, otto persone furono salvate dalle acque; a questa figura corrisponde il Battesimo che ci salva al presente » [Epistola del Venerdì di Pasqua]. — Quando il Vescovo benedice, nel Giovedì Santo, l’olio che si estrae dall’ulivo e che servirà per i Sacramenti, dice: « Allorché i delitti del mondo furono espiati mediante il diluvio, una colomba annunziò la pace alla terra per mezzo di un ramo di Ulivo che essa portava, simbolo dei favori che ci riservava l’avvenire. Questa figura si realizza oggi, quando, le acque del Battesimo avendo cancellati tutti i nostri peccati, l’unzione dell’olio dona alle nostre opere bellezza e serenità ». Il sangue di Gesù è « il sangue della nuova alleanza » che Dio concluse per mezzo del suo Figlio con gli uomini. «Tu hai voluto, dice la Chiesa, che una colomba annunziasse con un ramoscello di ulivo la pace alla terra ». Spesso nella Messa, che è il memoriale della Passione, si parla della pace: « Pax Domini sit semper vobiscum ». « Il sacramento pasquale, dirà l’orazione del Venerdì di Pasqua, suggella la riconciliazione degli uomini con Dio». Noè è in modo speciale il simbolo del Cristo a causa della missione affidatagli da Dio di essere « il padre di tutta la posterità » (Dom. di settuag., 6a lettura). Di fatti Noè fu il secondo padre del genere umano ed è il simbolo della vita rinascente. « I rami d’ulivo, dice la liturgia, figurano, per le loro fronde, la singolare fecondità da Dio accordata a Noè uscita dall’arca » (Benediz. Delle Palme). Per questo l’arca è stata chiamata da S. Ambrogio, nell’ufficio di questo giorno, « seminario » cioè il luogo che contiene il seme della vita che deve riempire il mondo. Ora, ancora più di Noè, Cristo fu il secondo Adamo che popolò il mondo di una generazione numerosa di anime credenti e fedeli a Dio. Ed è per questo che l’orazione dopo la 2a profezia, consacrata a Noè il Sabato Santo, domanda al Signore ch’Egli compia, nella pace, l’opera della salute dell’uomo decretata fin dall’eternità, in modo che il mondo intero esperimenti e veda rialzato tutto ciò che era stato abbattuto, rinnovato tutto ciò che era divenuto vecchio, e tutte le cose ristabilite nella loro primiera integrità per opera di colui dal quale prese principio ogni cosa, Gesù Cristo Signor nostro » Per i neofiti della Chiesa — dice la liturgia pasquale — (poiché è a Pasqua che si battezzava) la terra è rinnovellata e questa terra così rinnovellata germinat resurgentes, produce uomini risorti » (Lunedi di Pasqua. Mattutino monastico). In principio, è per mezzo del Verbo, cioè della sua parola, che Dio creò il mondo (ultimo Vangelo). Ed è con la predicazione del suo Vangelo che Gesù viene a rigenerare gli uomini. « Noi siamo stati rigenerati, dice S. Pietro, con un seme incorruttibile, con la parola di Dio che vive e rimane eternamente. E questa parola è quella per la quale ci è stata annunziata la buona novella (cioè il Vangelo) » (S. Pietro, I, 23). Questo ci spiega perché il Vangelo di questo giorno sia quello del Seminatore, ( « la semenza è la parola di Dio »). » Se ai tempi di Noè gli uomini perirono, ciò fu a causa della loro incredulità, dice S. Paolo, mentre mediante là sua fede Noè si fabbricò l’Arca, condannò il mondo e diventò erede della giustizia, che viene dalla fede» (Ebr. XI, 7). Così quelli che crederanno alla parola di Gesù saranno salvi. S. Paolo dimostra, nell’Epistola di questo giorno, tutto quello che ha fatto per predicare la fede alle nazioni. L’Apostolo delle genti è infatti il predicatore per eccellenza. Egli è il « ministro del Cristo » cioè colui che Dio scelse per annunziare a tutti i popoli la buona novella del Verbo Incarnato. « Chi mi concederà – dice S. Giovanni Crisostomo, – di andare presso la tomba di Paolo per baciare la polvere delle sue membra nelle quali l’Apostolo compì, con le sue sofferenze, la passione di Cristo, portò le stimmate del Salvatore, sparse dappertutto, come una semenza, la predicazione del Vangelo? » (Ottava dei SS. Apostoli Pietro e Paolo – 4 luglio). La Chiesa di Roma realizza questo desiderio per i suoi figli, celebrando, in questo giorno, la stazione nella Basilica di S. Paolo fuori le mura.

Incipit 

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLIII: 23-26

Exsúrge, quare obdórmis, Dómine? exsúrge, et ne repéllas in finem: quare fáciem tuam avértis, oblivísceris tribulatiónem nostram? adhaesit in terra venter noster: exsúrge, Dómine, ádjuva nos, et líbera nos.

[Risvégliati, perché dormi, o Signore? Déstati, e non rigettarci per sempre. Perché nascondi il tuo volto dimentico della nostra tribolazione? Giace a terra il nostro corpo: sorgi in nostro aiuto, o Signore, e líberaci.]

Ps XLIII: 2 – Deus, áuribus nostris audívimus: patres nostri annuntiavérunt nobis.

[O Dio, lo udimmo coi nostri orecchi: ce lo hanno raccontato i nostri padri.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui cónspicis, quia ex nulla nostra actióne confídimus: concéde propítius; ut, contra advérsa ómnia, Doctóris géntium protectióne muniámur. – Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

[O Dio, che vedi come noi non confidiamo in alcuna òpera nostra, concédici propizio d’esser difesi da ogni avversità, per intercessione del Dottore delle genti. – Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. – Amen.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

2 Cor XI: 19-33; XII: 1-9.

“Fratres: Libénter suffértis insipiéntens: cum sitis ipsi sapiéntes. Sustinétis enim, si quis vos in servitútem rédigit, si quis dévorat, si quis áccipit, si quis extóllitur, si quis in fáciem vos cædit. Secúndum ignobilitátem dico, quasi nos infírmi fuérimus in hac parte. In quo quis audet, – in insipiéntia dico – áudeo et ego: Hebraei sunt, et ego: Israelítæ sunt, et ego: Semen Abrahæ sunt, et ego: Minístri Christi sunt, – ut minus sápiens dico – plus ego: in labóribus plúrimis, in carcéribus abundántius, in plagis supra modum, in mórtibus frequénter. A Judaeis quínquies quadragénas, una minus, accépi. Ter virgis cæsus sum, semel lapidátus sum, ter naufrágium feci, nocte et die in profúndo maris fui: in itinéribus sæpe, perículis fluminum, perículis latrónum, perículis ex génere, perículis ex géntibus, perículis in civitáte, perículis in solitúdine, perículis in mari, perículis in falsis frátribus: in labóre et ærúmna, in vigíliis multis, in fame et siti, in jejúniis multis, in frigóre et nuditáte: præter illa, quæ extrínsecus sunt, instántia mea cotidiána, sollicitúdo ómnium Ecclesiárum. Quis infirmátur, et ego non infírmor? quis scandalizátur, et ego non uror? Si gloriári opórtet: quæ infirmitátis meæ sunt, gloriábor. Deus et Pater Dómini nostri Jesu Christi, qui est benedíctus in saecula, scit quod non méntior. Damásci præpósitus gentis Arétæ regis, custodiébat civitátem Damascenórum, ut me comprehénderet: et per fenéstram in sporta dimíssus sum per murum, et sic effúgi manus ejus. Si gloriári opórtet – non éxpedit quidem, – véniam autem ad visiónes et revelatiónes Dómini. Scio hóminem in Christo ante annos quatuórdecim, – sive in córpore néscio, sive extra corpus néscio, Deus scit – raptum hujúsmodi usque ad tértium coelum. Et scio hujúsmodi hóminem, – sive in córpore, sive extra corpus néscio, Deus scit:- quóniam raptus est in paradisum: et audivit arcána verba, quæ non licet homini loqui. Pro hujúsmodi gloriábor: pro me autem nihil gloriábor nisi in infirmitátibus meis. Nam, et si volúero gloriári, non ero insípiens: veritátem enim dicam: parco autem, ne quis me exístimet supra id, quod videt in me, aut áliquid audit ex me. Et ne magnitúdo revelatiónem extóllat me, datus est mihi stímulus carnis meæ ángelus sátanæ, qui me colaphízet. Propter quod ter Dóminum rogávi, ut discéderet a me: et dixit mihi: Súfficit tibi grátia mea: nam virtus in infirmitáte perfícitur. Libénter ígitur gloriábor in infirmitátibus meis, ut inhábitet in me virtus Christi.”

[“Fratelli: Saggi come siete, tollerate volentieri gli stolti. Sopportate, infatti, che vi si renda schiavi, che vi si spolpi, che vi si raggiri, che vi si tratti con arroganza, che vi si percuota in viso. Lo dico per mia vergogna: davvero che siamo stati deboli su questo punto. Eppure di qualunque cosa altri imbaldanzisce (parlo da stolto) posso imbaldanzire anch’io. Sono Ebrei? anch’io: sono Israeliti? anch’io; discendenti d’Abramo? anch’io. Sono ministri di Cristo? (parlo da stolto) ancor più io. Di più nelle fatiche; di più nelle prigionie: molto di più nelle battiture; spesso in pericoli di morte. Dai Giudei cinque volte ho ricevuto quaranta colpi meno uno. Tre volte sono stato battuto con verghe, una volta lapidato. Tre volte ho fatto naufragio, ho passato un giorno e una notte nel profondo del mare. In viaggi continui tra pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli da parte dei mei connazionali, pericoli da parte dei gentili, pericoli nelle città, pericoli del deserto, pericoli sul mare, pericoli tra i falsi fratelli; nella fatica e nella pena; nelle veglie assidue; nella fame e nella sete; nei digiuni frequenta nel freddo e nella nudità. E oltre le sofferenze che vengono dal di fuori, la pressione che mi si fa ogni giorno, la sollecitudine di tutte le Chiese. Chi è debole, senza che io ancora non sia debole? Chi è scandalizzato, senza che io non arda? Se bisogna gloriarsi, mi glorierò della mia debolezza. E Dio e Padre del nostro Signor Gesù Cristo, che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco il governatore del re Areta, faceva custodire la città dei Damascesi per impadronirsi di me. E da una finestra fui calato in una cesta lungo il muro, e così gli sfuggii di mano. Se bisogna gloriarsi (certo non è utile) verrò, dunque, alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo, il quale, or son quattordici anni, (se col corpo non so; se senza corpo non so; lo sa Dio) fu rapito in paradiso, e udì parole arcane, che a un uomo non è permesso di profferire. Rispetto a quest’uomo mi glorierò; quanto a me non mi glorierò che delle mie debolezze. Se volessi gloriarmi non sarei stolto, perché direi la verità; ma me ne astengo, affinché nessuno mi stimi più di quello che vede in me o che ode da me. E affinché l’eccellenza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, m’è stata messa una spina nella carne, un angelo di satana, che mi schiaffeggi. A questo proposito pregai tre volte il Signore che lo allontanasse da me. Ma egli mi disse: «Ti basta la mia grazia; poiché la mia potenza si dimostra intera nella debolezza». Mi glorierò, dunque, volentieri delle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo”]

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

La lettura di questo lungo brano della seconda lettera di San Paolo ai Corinzi ci fa pensare alle orazioni più celebri del foro profano in difesa propria: Demostene, Cicerone. C’è tutto l’impeto di quei discorsi immortali. Nulla come un giusto amor di se stesso rende eloquente l’uomo. Ho detto giusto amor di sé, il che significa la fusione di due motivi della più singolare efficacia; l’egoismo, forza così pratica, e la giustizia, forza così ideale. Nella foga dell’autodifesa Paolo ricorda rapido, incisivo, travolgente i suoi martiri: « dall’abisso dei dolori di ogni genere che ho sofferto » si solleva ai doni celesti di che Dio lo ha letteralmente ricolmato. Quadro magnifico fatto di ombre e di luci ugualmente poderose. – Ma quando calmata la prima ammirazione che ci ha suggerito quel confronto con le pagine apologetiche anzi autoapologetiche più celebri della letteratura umana, ci si rifà a meditare il testo, si scopre una superiorità morale ineffabile dell’Apostolo sui profani oratori. Questi difendono, nelle loro arringhe fiammanti, ardenti i loro equi interessi. E l’equità toglie all’amor proprio ciò che da solo avrebbe di basso. Ma quando Paolo assume con un tono alto e sonoro, senza un’ombra di esitazione la sua difesa, egli difende una grande causa. Chiamato da Gesù Cristo a predicare il Vangelo nel mondo pagano, Paolo giudeo si gettò in questo apostolato a lui commesso con lo slancio della sua natura vulcanica, Paolo fu bersaglio immediato e poi via via crescente ai colpi di coloro che in quei giorni avrebbero voluto il Vangelo o tutto e solo o principalmente per i Giudei, e i Gentili o esclusi dal banchetto cristiano o ammessi ai secondi posti. Ire terribili come tutte le ire nazionali, che si scaldano per di più al fuoco delle religioni, roba incandescente. Per paralizzare un lavoro come quello di Paolo che essi credevano funesto, questi Cristiani rimasti più scribi e farisei che divenuti Cristiani veri, apponevano alla figura di Paolo, l’ultimo arrivato nel collegio apostolico, la figura veneranda dei veterani, dei compagni personali di Gesù Cristo, degli intemerati discepoli che non avevano come Paolo lordato mai di sangue le loro mani, sangue cristiano. Quelli erano apostoli, non costui; un aborto di apostolato. Colpivano l’uomo in apparenza; in realtà attentavano alla grande causa dell’apostolato cristiano, libero e universale. Un apostolato a scartamento ridotto essi volevano; un timido apostolato cristiano, schiavo del giudaismo, dal giudaismo tenuto alla catena. Non sentivano, né la vera grandezza della Sinagoga che era quella di mettersi tutta a servizio della Chiesa, né la vera grandezza della Chiesa ch’era quella di abbracciare il mondo. Tutto questo Paolo difende in realtà, difendendo, esaltando in apparenza se stesso. E perché tutto questo Egli difende, la sua apologia acquista un calore di eloquenza e una dignità di contenuto affatto nuovo. E perché d’orgoglio personale non rimanga neppure l’ombra, dopo che l’Apostolo ha parlato con un senso altissimo di dignità, rivendicando il suo giudaismo, dolori e glorie della sua attività apostolica, parla l’uomo. Un povero uomo egli è, e si sente, il grande Apostolo; pieno di miserie fisiche che si risolvono in umiliazioni morali. Quelle debolezze gli dicono ogni giorno ch’egli non è se non un debole strumento nelle mani del Forte, che lavora in lui per la santità interiore, per la sua apostolica propaganda, lavora la grazia di Gesù Cristo. Le sue maggiori glorie sono così le sue umiliazioni, documenti e prove del Cristo presente, « inhabitat in me virtus Christi».

Graduale

Ps LXXXII: 19; LXXXII: 14

Sciant gentes, quóniam nomen tibi Deus: tu solus Altíssimus super omnem terram.

[Riconòscano le genti, o Dio, che tu solo sei l’Altissimo, sovrano di tutta la terra.]

Deus meus, pone illos ut rotam, et sicut stípulam ante fáciem venti.

[V. Dio mio, ridúcili come grumolo rotante e paglia travolta dal vento.]

 Ps LIX: 4; LIX: 6

Commovísti, Dómine, terram, et conturbásti eam. Sana contritiónes ejus, quia mota est. Ut fúgiant a fácie arcus: ut liberéntur elécti tui.

[Hai scosso la terra, o Signore, l’hai sconquassata. Risana le sue ferite, perché minaccia rovina. Affinché sfuggano al tiro dell’arco e siano liberati i tuoi eletti.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam

Luc VIII: 4-15

“In illo témpore: Cum turba plúrima convenírent, et de civitátibus properárent ad Jesum, dixit per similitúdinem: Exiit, qui séminat, semináre semen suum: et dum séminat, áliud cécidit secus viam, et conculcátum est, et vólucres coeli comedérunt illud. Et áliud cécidit supra petram: et natum áruit, quia non habébat humórem. Et áliud cécidit inter spinas, et simul exórtæ spinæ suffocavérunt illud. Et áliud cécidit in terram bonam: et ortum fecit fructum céntuplum. Hæc dicens, clamábat: Qui habet aures audiéndi, audiat. Interrogábant autem eum discípuli ejus, quæ esset hæc parábola. Quibus ipse dixit: Vobis datum est nosse mystérium regni Dei, céteris autem in parábolis: ut vidéntes non videant, et audientes non intéllegant. Est autem hæc parábola: Semen est verbum Dei. Qui autem secus viam, hi sunt qui áudiunt: déinde venit diábolus, et tollit verbum de corde eórum, ne credéntes salvi fiant. Nam qui supra petram: qui cum audierint, cum gáudio suscipiunt verbum: et hi radíces non habent: qui ad tempus credunt, et in témpore tentatiónis recédunt. Quod autem in spinas cécidit: hi sunt, qui audiérunt, et a sollicitudínibus et divítiis et voluptátibus vitæ eúntes, suffocántur, et non réferunt fructum. Quod autem in bonam terram: hi sunt, qui in corde bono et óptimo audiéntes verbum rétinent, et fructum áfferunt in patiéntia.”

[« In quel tempo radunandosi grandissima turba di popolo, e accorrendo a lui da questa e da quella città, disse questa parabola: Andò il seminatore a seminare la sua semenza: e nel seminarla, parte cadde lungo la strada, e fu calpestata, e gli uccelli dell’aria la divorarono. Parte cadde sopra le pietre; e nata che fu, seccò, perché non aveva umido. Parte cadde tra le spine; e le spine, che insieme nacquero, la soffocarono. Parte cadde in buona terra; e nacque, e fruttò cento per uno. Detto questo, esclamò: Chi ha orecchie da intendere, intenda. E i suoi discepoli gli domandavano, che parabola fosse questa. Ai quali egli disse: A voi è concesso d’intendere il mistero di Dio; ma a tutti gli altri (parlo) per via di parabole, perché vedendo non veggano, e udendo non intendano. La parabola adunque è questa. La semenza è la parola di Dio. Quelli che (sono) lungo la strada sono coloro che la ascoltano; e poi viene il diavolo, e porta via la parola dal loro cuore, perché non si salvino col credere. Quelli poi che la semenza han ricevuta sopra la pietra, (sono) coloro i quali, udita la parola, la accolgono con allegrezza; ma questi non hanno radice, i quali credono per un tempo, e al tempo della tentazione si tirano indietro. La semenza caduta tra le spine, denota coloro i quali hanno ascoltato; ma dalle sollecitudini, e dalle ricchezze, e dai piaceri della vita a lungo andare restano soffocati, e non conducono il frutto a maturità. Quella che (cade) in buona terra, denota coloro i quali in un cuore buono e perfetto ritengono la parola ascoltata, e portano frutto mediante la pazienza »]

OMELIA

[Discorsi di S. G. B. M. VIANNEY, curato d’Ars – Vol. I, ed. Ed. Marietti, Torino-Roma, 1933]

La parola di Dio.

Beati qui audiunt verbum Dei, et custodiunt illud.

(Luc. XI, 28).

Noi leggiamo nel Vangelo che il Salvatore del mondo istruiva il popolo, diceva loro cose così meravigliose e così stupefacenti, che una donna dal mezzo della folla alzò la voce e gridò: “Beato è il seno che ti ha portato e il latte che ti ha nutrito. „ Ma Gesù Cristo tosto soggiunse: “Più avventurato è colui che ascolta la parola di Dio e che osserva quello che essa comanda. „ Ciò forse desta la vostra meraviglia, che Gesù Cristo ci dica che colui che ascolta la parola di Dio con un vero desiderio di approfittarne è più accettevole a Dio che colui che lo riceve nella santa comunione; sì, certo noi non abbiamo mai ben compreso quanto la parola di Dio sia un dono prezioso. Ah! se noi l’avessimo ben compreso con quale rispetto, con quale amore dovremmo ascoltarla! M. F., non inganniamoci: necessariamente la parola di Dio produrrà in noi frutti buoni o cattivi; saranno buoni, se vi recheremo delle buone disposizioni, con altre parole, un vero desiderio di approfittarne e di fare tutto quello che essa prescriverà; saranno cattivi, se noi la ascolteremo con indifferenza, con disgusto, forse con disprezzo; o questa parola santa ci illuminerà, ci farà conoscere i nostri doveri, o ci accecherà e produrrà il nostro induramento. Ma per meglio farvelo comprendere, volgo a dimostrarvi:

1° quanto sono grandi i vantaggi che ci provengono dalla parola di Dio;

2° in qual modo i Cristiani hanno l’abitudine di riceverla;

3° le disposizioni che dobbiamo recare per avere la ventura di approfittarne.

I . — Per farvi comprendere quanto è grande il prezzo della parola di Dio, io vi dirò che tutto lo stabilimento e i progressi della Religione cattolica sono l’opera della parola di Dio associata alla grazia che sempre l’accompagna. Sì, M. F., noi possiamo ancora dire che dopo la morte di Gesù Cristo sul Calvario, e il santo Battesimo, non occorre grazia che noi riceviamo nella nostra santa Religione che le stia alla pari; ciò che è facile a comprendere. Quante persone che sono state assunte in cielo senza aver ricevuto il sacramento della Penitenza! Quante altre senza aver ricevuto quello del Corpo adorabile e del Sangue prezioso di Gesù Cristo! E quante altre che sono in cielo, che non hanno ricevuto quello della Confermazione né quello dell’Estrema Unzione! Ma per l’istruzione che è la parola di Dio, dal momento che abbiamo l’età capace di farci istruire è tanto difficile andare in cielo senza essere istruiti, come senza essere battezzati. – Ah! M. F., noi vedremo sventuratamente al giorno del giudizio che il più gran numero dei Cristiani dannati, lo saranno perché non hanno conosciuto la loro religione. Andate, interrogate tutti i Cristiani riprovati, e domandate loro perché sono nell’inferno. Tutti vi risponderanno che la loro sventura proviene perché non hanno voluto ascoltare la parola di Dio o perché l’hanno disprezzata. — Ma, forse mi direte voi, che cosa opera in noi questa santa parola? — Ecco: essa è somiglievole a quella colonna di fuoco la quale conduceva i Giudei quando erano al deserto, che additava loro la via che dovevano battere, che si fermava quando il popolo doveva fermarsi e proseguiva il suo viaggio, quando si doveva andare innanzi; di guisa che questo popolo non aveva che a restar fedele nel seguirla ed era sicuro di non smarrire la via. (Exod. XIII, 21, 22; XL, 84, 35). Sì, M. F., essa opera la stessa cosa a nostro riguardo: essa è una face che brilla dinanzi a noi, che ci conduce in tutti i nostri pensieri, nei nostri disegni, nelle azioni nostre (lucerna pedibus meis verbum tuum. Ps. CXVIII, 105); è lei che accende la nostra fede, che fortifica la nostra speranza, che fa divampare l’amor nostro per Dio e per il prossimo; è lei che ci fa comprendere la grandezza di Dio, il fine beato per il quale siamo creati, la bontà di Dio, l’amor suo per noi, il prezzo dell’anima nostra, la grandezza e la ricompensa che ci è promessa; sì, è lei che ci dipinge la gravezza del peccato, gli oltraggi che reca a Dio, i mali che ci prepara per l’altra vita; è lei che ci incute spavento alla vista del giudizio che è riservato ai peccatori, colla dipintura spaventevole che ella ce ne fa; sì, M. F., è questa parola che ci muove a credere senza nulla esaminare tutte le verità della nostra santa Religione nella quale tutto è mistero, e ciò risvegliando la nostra fede. Ditemi, non è dopo una istruzione che si sente il cuore commosso e pieno di buone risoluzioni? Ah! colui che disprezza la parola di Dio è ben da compiangere, poiché rigetta e disprezza tutti i mezzi di salute che il buon Dio ci presenta per salvarci. Ditemi, di che cosa si sono serviti i patriarchi e i profeti. Gesù Cristo medesimo e tutti gli Apostoli, come tutti coloro che li hanno secondati, per stabilire ed aumentare la nostra santa Religione, non è della parola di Dio? Vedete Giona, quando il Signore lo mandò a Ninive; che fece egli? Null’altro che annunciarle la parola di Dio, dicendole che fra 40 giorni tutti i suoi abitanti perirebbero. Non è questa parola santa che cangiò i cuori degli uomini di quella grande città, che, di grandi peccatori ne fece grandi penitenti (Gion. III, 4)? Che fece S. Gio. Battista per cominciare a far conoscere il Messia, il Salvatore del mondo? Non lo fece annunciando loro la parola di Dio? Che fece Gesù Cristo medesimo percorrendo le città e le campagne, continuamente circondato dalle turbe di popolo che lo seguivano fino nel deserto? Di qual mezzo si serviva per insegnare la religione che voleva stabilire, se non di questa santa parola? Ditemi, M. F., chi ha mosso tutti quei grandi del mondo ad abbandonare i loro beni, i loro parenti e tutti i loro agi? Non è ascoltando la parola di Dio che hanno aperto gli occhi dell’anima e compreso la poca durata e la caducità delle cose create, che si sono volti a cercare i beni eterni? Un S. Antonio, un S. Francesco, un S. Ignazio… Ditemi chi può muovere i figli ad avere un grande rispetto verso il loro padre e la loro madre, facendoli loro considerare come quelli che occupano il posto di Dio medesimo? Non sono le istruzioni che hanno ricevuto nei catechismi, tenuti dal loro pastore, facendo loro vedere la grandezza della ricompensa che è annessa ad un figlio savio e obbediente? E quali sono i figli che disprezzano i loro genitori? Ah! quanti poveri figli ignoranti, e che dall’ignoranza sono condotti nell’impurità e nel libertinaggio, e che spesse volte finiscono col far morire i loro poveri genitori o di crepacuore o in qualche altro modo più miserando! Chi può muovere un vicino ad avere una grande carità verso il suo vicino, se non una istruzione che avrà ascoltata, nella quale gli sarà stato addimostrato quanto la carità è un’opera aggradevole a Dio? Chi ha mossi tanti peccatori ad uscire dal peccato? Non fu qualche istruzione che hanno udita, nella quale si è loro dipinto lo stato infelice di un peccatore il quale cade nelle mani d’un Dio vendicatore? Se voi ne bramate la prova, ascoltate un istante e ne sarete convinti. È raccontato nella storia che un vecchio ufficiale di cavalleria passava, in uno dei suoi viaggi, per un luogo dove il padre Bridaine dava una missione. Curioso di udire un uomo d’una grande riputazione e che egli non conosceva, egli entra in una chiesa dove il padre Bridaine faceva la descrizione spaventosa dello stato infelice di un’anima nel peccato, l’accecamento nel quale era il peccatore di perseverarvi, il mezzo facile che il peccatore aveva di uscirne con una buona confessione generale. Il militare ne fu siffattamente commosso, i suoi rimorsi di coscienza furono cosi forti, o piuttosto gli diventarono sì insopportabili, che nell’istante medesimo formò il proposito di confessarsi e di fare una confessione di tutta la sua vita. Egli aspetta il missionario al piede della cattedra pregandolo per grazia di fargli fare una confessione di tutta la sua vita. Il padre Bridaine lo ricevette con una grande carità: “Mio Padre, gli disse il militare, io resterò finché voi vorrete; io ho concepito un gran desiderio di salvare l’anima mia. „ Egli fece la sua confessione con tutti i sentimenti di pietà e di dolore che si poteva aspettare da un peccatore che si converte; egli medesimo diceva che ogni volta che accusava un peccato, gli pareva di togliersi un peso enorme dalla propria coscienza. Quando ebbe finito la sua confessione, egli si ritirò dietro il Padre Bridaine, piangendo a calde lagrime. La gente meravigliata di vedere questo militare piangere dirottamente, gli domandavano qual era la causa del suo rammarico e delle sue lagrime: “Ah! amici miei, quanto è dolce il versare lagrime d’amore e di riconoscenza, io, che sono vissuto per sì lungo lasso di tempo nell’odio del mio Dio! „ Ah! quanto l’uomo è cieco di non amare il buon Dio e di vivere da suo nemico, mentre che è cosa così dolce l’amarlo! Questo militare si reca a trovare il Padre Bridaine che era nella sagrestia, e qui, alla presenza di tutti gli altri missionari, volle metterli a parte dei suoi sentimenti: “Signori, disse loro, ascoltatemi, e voi, Padre Bridaine, richiamatevelo alla memoria; io non credo in tutta la mia vita di aver gustato un piacere così puro e così dolce, come quello che io gusto dacché ho la sorte di essere in istato di grazia; no, io non credo che Luigi XV che ho servito per 36 anni, possa essere così felice come io lo sono; no, io non credo che, nonostante tutti i piaceri che lo attorniano e tutto lo splendore che lo circonda egli sia contento come io lo sono in questo momento. Dopoché io ho deposto l’orribile peso dei miei peccati, nel mio dolore e nel disegno di fare penitenza, io non cangerei ora la mia sorte per tutti i piaceri e per tutte le ricchezze del mondo. „ A queste parole egli si getta ai piedi del Padre Bridaine, gli stringe la mano: ” Ah! mio Padre, quali azioni di grazie potrò io rendere al buon Dio per tutta la mia vita, di avermi condotto come per mano in questo paese! Ah! mio Padre, io non pensava di fare quello che voi avete avuto la carità di farmi fare. No, mio Padre, mai potrò dimenticarvi; di grazia, io vi prego di domandare al buon Dio per me che tutta la mia vita non sia più che una vita di lagrime e di penitenza.„ Il Padre Bridaine e tutti gli altri missionari che erano testimoni di questa avventura, proruppero in lagrime, dicendo: “Oh! che il buon Dio ha delle grazie per coloro che hanno un cuore docile alla sua voce! Oh! quante anime si dannano e che, se avessero avuto la sorte di essere istruite, sarebbero salve! „ Il che faceva che il Padre Bridaine domandava al buon Dio, prima dei suoi discorsi, che accendesse siffattamente il suo cuore che le sue parole fossero simili al fuoco divoratore che fa divampare d’amore i cuori dei peccatori più indurati e più ribelli alla grazia. Or qual fu la causa della conversione di questo soldato? Null’altro che la parola di Dio che ascoltò e che trovò il suo cuore docile alla voce della grazia. Ah! quanti Cristiani si convertirebbero se avessero la sorte di recare delle buone disposizioni ad ascoltare la parola di Dio! Quanti buoni pensieri e buoni desideri ella farebbe nascere nel loro cuore, quante buone opere farebbe loro compiere per il cielo! – Prima di procedere innanzi, è necessario che io vi rechi un fatto accaduto al medesimo Padre Bridaine, mentre faceva una missione ad Aix in Provenza; fatto che ha qualche cosa di singolare. Il missionario si metteva a sedere a mensa con un confratello, quando un ufficiale batté fortemente alla porta dove si trovavano i missionari: tutto ansante, domanda con un viso alterato il capo della compagnia. Il Padre Bridaine essendosi accostato: “Padre Bridaine, „ gli dice all’orecchio l’ufficiale con una certa emozione e con un tono severo che dimostrava come la sua anima fosse agitata. Il missionario essendo entrato con lui, l’ufficiale chiude la porta, si leva gli stivali, getta lontano il cappello, e sfodera la sua spada. “Io vi confesso, diceva poscia il Padre Bridaine ai suoi compagni, ciò mi incusse spavento: il suo silenzio, il suo occhio truce, la sua stretta di mano, la sua precipitazione e il suo turbamento, mi fecero giudicare che fosse un uomo al quale avessi strappato l’oggetto della sua passione, e che per vendicarsene venisse sicuramente per togliermi la vita; ma fui ben presto tolto d’inganno vedendo questo militare gettarsi ai miei ginocchi colla faccia rivolta a terra, pronunciando con sicurezza queste parole: “Non è questione di lasciarmi, mio Padre, né di differire più oltre, voi vedete ai vostri piedi il più grande peccatore che la terra abbia potuto portare dal principio del mondo; io sono un mostro. Io vengo di lontano per confessarmi a voi e adesso; senza di che io non so più che cosa divento.„ Il Padre Bridaine gli disse con bontà: “Amico mio, un istante, io tosto ritorno. „ — “Mio Padre, gli risponde il soldato piangendo a calde lagrime, rispondete voi dell’anima mia durante questo indugio? Sappiate, Padre mio, che ho percorso in posta 27 leghe; volge molto tempo che io non vivo e che il cuore mi scoppia; io non posso più resistere; la mia vita e l’inferno sembrano non essere che una medesima cosa; il mio tormento dura da quando vi ho udito predicare in un tal luogo, dove avete così egregiamente dipinto lo stato dell’anima mia, che mi è stato impossibile di non credere che il buon Dio non vi abbia fatto tenere quella istruzione che per me solo; tuttavolta quando entrai in questa chiesa nella quale voi predicavate, non era per curiosità, fu appunto qui che il buon Dio mi aspettava. Quanto sono felice, Padre mio, di potermi liberare da questi rimorsi di coscienza che mi straziano! Prendete il tempo che sarà necessario per ascoltare la mia confessione, io resterò qui quanto bramate; ma è necessario che voi mi solleviate all’istante, perché la mia coscienza è un carnefice che non mi lascia alcun riposo né il giorno né la notte; in una parola, Padre mio, io voglio veramente convertirmi; lo comprendete, Padre mio? Voi non uscirete di qui che non abbiate sollevato il mio cuore. Se voi volete negarmi ciò, io credo che morrò ai vostri piedi di crepacuore. „ – “Ma egli disse ciò, soggiunge il Padre Bridaine, versando copiose lagrime. Io fui così tocco da una scena tanto commovente, che lo abbraccio, lo benedico, mescolo le mie lagrime alle sue; non pensai più di recarmi a mangiare; lo incoraggiai, per quanto mi fu possibile, di tutto sperare nella grazia del buon Dio il quale si era già dimostrato verso di lui in un modo affatto particolare; io restai quattro ore di seguito per ascoltare la sua confessione; sembrava bagnarmi delle sue lagrime, ciò che mi moveva a contenere le mie; io non lo lasciai che per recarmi ad annunciare la parola di Dio. „ – Questo generoso militare rimase alcun tempo presso il Padre Bridaine, per ricevere gli avvisi che gli erano necessari per avere la sorte di perseverare. Prima di congedarsi dal Padre Bridaine, lo pregò di perdonargli lo sgomento che gli aveva cagionato: ” Tuttavolta, mio Padre, gli disse il militare, il vostro era nulla in confronto del mio. Io tremava tutti i giorni che la morte mi togliesse nello stato nel quale mi trovava, parevami che la terra stesse per aprirsi sotto i miei piedi per inghiottirmi vivo nell’inferno. Pensate, Padre mio, che quando si hanno nemici tali che vi assediano e che vi si riflette seriamente, non si può restar tranquillo, quand’anche si avesse un cuore di bronzo. Ora, Padre mio, io vorrei morire, tanta è la gioia che provo d’essere in pace col buon Dio. „ Egli non poteva più lasciare il Padre Bridaine, gli baciò le mani, l’abbracciò. Il Padre Bridaine vedendo un tal miracolo della grazia, non poté dalla sua parte trattenere le sue lagrime: gli ultimi addii facevano versar lagrime a tutti coloro che ne furono testimoni. “Addio, mio Padre, disse il militare al Padre Bridaine, dopo il buon Dio, a voi io sono tenuto del cielo. „ Ritornato nel suo paese non poteva contenersi di parlare quanto il buon Dio fosse stato buono verso di lui; chiuse la sua vita nelle lagrime e nella penitenza e morì da santo sei mesi dopo la sua conversione. – Ora, qual fu la causa della conversione dì questo soldato? Ah! ciò che voi udite tutte le domeniche nelle istruzioni, è ciò che udì quegli dalla bocca del Padre Bridaine, dove certamente presentava lo stato deplorevole d’un peccatore che compare davanti al tribunale di Gesù Cristo colla coscienza carica di peccati. Ah! mio Dio, quante volte il vostro pastore non vi ha fatto questo ritratto desolante? Chi ne è stato più commosso di voi medesimi? E perché dunque ciò non vi ha scossi e convertiti? Forse che la parola di Dio non ha più lo stesso potere? No, M. F., questa non è la vera causa per cui siete restati nel peccato. Forse, perché questa santa parola vi è annunciata da un peccatore, che non vi ha commossi? No, no, non è questa ancora la vera ragione; ma eccola: gli è perché i vostri cuori sono indurati, e volge lungo tempo che voi abusate delle grazie che il buon Dio vi concede colla sua santa parola; è perché il peccato vi ha strappato gli occhi della povera vostra anima, ed ha finito di farvi perdere di vista i beni ed i mali dell’altra vita. O mio Dio! quale sventura per un Cristiano d’essere cacciato dal cielo per tutta l’eternità ed essere insensibile a questa perdita! O mio Dio! Quale frenesia d’essere precipitati nelle fiamme dell’inferno e restare tranquilli in uno stato che fa fremere gli angeli e i santi! O mio Dio! a qual grado di sciagura è condotto colui al quale la parola di Dio … ! Avvegnaché la parola di Dio più non commuove, tutto è perduto, non occorre più alcun altro spediente se non in un grande miracolo, ciò che accade ben rare volte. O mio Dio! essere insensibili a tante sventure, chi potrà mai comprenderlo? Tuttavolta, senza essere più prolissi, ecco lo stato di quasi tutti coloro che mi ascoltano. Voi sapete che il peccato regna nei vostri cuori; voi sapete che fino a che il peccato vi regna, voi non avete nessun’altra cosa da aspettarvi se non tutte queste sventure. O mio Dio! questo solo pensiero non dovrebbe farci morire di spavento? Ah! il buon Dio vedeva anticipatamente quanto sarebbero pochi coloro che approfitterebbero di questa parola di vita, quando ci propone nel Vangelo questa parabola: “Un seminatore esce di gran mattino per seminare il suo grano, e quando lo seminava, una parte cadde sulla via e fu calpestata dai viandanti e mangiata dagli uccelli del cielo; una parte cadde sulle pietre e tosto disseccò; un’altra cadde fra le spine, che la soffocarono; e finalmente un’altra cadde nel buon terreno, e rese il centuplo di frutto. „ Voi vedete che Gesù Cristo dimostra che, di tutte le persone che ascoltano la parola di Dio, solo un quarto ne trae profitto; ancora troppo avventurati se di tutte quattro le persone ne occorresse una che ne approfittasse. Quanto il numero dei buoni Cristiani sarebbe più grande che non è! Gli apostoli, meravigliati di questa parabola, gli dissero: “Spiegateci quello che significa.„ Gesù disse loro colla sua ordinaria bontà: – Il cuore dell’uomo è somiglievole ad una terra che recherà frutto secondo che sarà bene o mal coltivata; questa semente, disse loro Gesù Cristo, è la parola di Dio: quella che cade lungo la via, sono coloro che ascoltano la parola di Dio, ma che non vogliono cangiar vita, né imporsi i sacrifici che Dio vuole da essi per renderli buoni e aggradevoli a lui. Gli uni sono coloro che non vogliono abbandonare le cattive compagnie o i luoghi nei quali hanno tante volte offeso il buon Dio; sono ancora coloro che sono trattenuti da un falso rispetto umano, il quale li fa abbandonare tutte le buone risoluzioni che avevano formate ascoltando la parola di Dio. Quella che cade nelle spine, sono coloro che ascoltano la parola di Dio con gioia; ma non fa loro praticare alcuna buona opera: essi amano di ascoltarla, ma non di fare quello che comanda. Per quella che cade sulla pietra, sono coloro che hanno un cuore indurato ed ostinato, coloro che la ascoltano per disprezzarla o per abusarne. Finalmente quella che cade nella terra buona, sono coloro che desiderano di ascoltarla, che abbracciano tutti i mezzi che il buon Dio loro inspira per bene approfittarne, ed è in questi cuori che reca copiosi frutti, e questi frutti sono l’allontanamento da una vita mondana e le virtù che un Cristiano deve praticare per piacere a Dio e salvare la propria anima. „ Voi vedete, M. F., giusta la parola di Gesù Cristo, come sia esiguo il numero di coloro che approfittano della parola di Dio, perché di quattro occorre un solo che rende questa semente atta a recar frutto, ciò che è molto facile a dimostrarvi, come vedremo più innanzi. Ma se ora mi domandate quello che vuol dire Gesù Cristo per questo seminatore il quale esce di gran mattino per gettare la sua semente nel suo campo, il seminatore è il buon Dio medesimo, che ha cominciato a procurare il nostro salvamento dal principio del mondo, per questo mandando i profeti suoi prima della venuta del Messia per insegnarci quello che era necessario di fare per essere salvi; non si è accontentato di mandare i suoi servi, è venuto Egli medesimo, ci ha tracciata la via che dobbiamo battere, Egli è venuto ad annunziarci la santa parola.

II. — Ma esaminiamo piuttosto, M. F., quali sono coloro che recano delle buone disposizioni per ascoltare questa parola di vita. Ah! voi avete udito dalle parole stesse di Gesù Cristo che pochissimi recano le disposizioni necessarie per trarne vantaggio. Sapete voi che sia una persona la quale non è nutrita di questa santa parola o che ne abusa? essa è somiglievole ad un ammalato senza medico, ad un viaggiatore smarrito e senza guida, ad un povero senza alcun mezzo di sussistenza; diciamo meglio, che è affatto impossibile di amar Dio e di piacere a lui senza essere nutriti di questa parola divina. Che cos’è che può muoverci ad affezionarci a Lui, se non perché lo conosciamo? E chi può farcelo conoscere con tutte le perfezioni sue, la sua bellezza e il suo amore verso di noi, se non la parola di Dio, che ci insegna tutto quello che ha fatto per noi, e i beni che ci prepara per l’altra vita, se noi non cerchiamo che di piacere a Lui? Chi può muoverci ad abbandonare e piangere i nostri peccati se non la descrizione spaventosa che lo Spirito Santo ci fa nella santa Scrittura? Chi può muoverci a sacrificare tutto quello che abbiamo di più caro al mondo, per avere la sorte di conservare i beni del cielo, se non i quadri stessi che ci mettono sott’occhio i predicatori? Se voi ne dubitate, domandate a S. Agostino ciò che ha cominciato a farlo arrossire fra le sue infamie: non è il quadro spaventoso che fece S. Ambrogio in un sermone nel quale dimostrò tutto l’orrore del vizio d’impurità, come degradava l’uomo, e come l’oltraggio che recava a Dio era orribile? (Conf. lib. VI, cap. III e IV) – Che cos’è che mosse S. Pelagia, questa famosa cortigiana, la quale colla sua bellezza e maggiormente coi disordini della propria vita, aveva perduto tante anime, che cos’è che la mosse ad abbracciare la più dura penitenza per tutto il resto della sua vita?… Un giorno che era seguita da una schiera di giovani premurosi di farle la corte, essendosi magnificamente abbigliata, ma di un’aria che non respirava che la mollezza e la voluttà, in questa ostentazione di mondanità, le avvenne di passare dinanzi alla porta di una chiesa, nella quale si trovavano parecchi Vescovi che si intrattenevano degli affari della Chiesa. I santi prelati, mossi a sdegno alla vista di questo spettacolo, volsero altrove lo sguardo; tuttavolta uno di essi, chiamato Nono, guardò fissamente questa commediante e disse gemendo: “Ah! che questa donna che mette tanto studio per piacere agli uomini sarà la nostra condanna, contro di noi che prendiamo sì poca sollecitudine per piacere al buon Dio! „ Il santo prelato avendo preso per mano il suo diacono, lo condusse nella sua cella; quando vi furono arrivati, egli si gettò col volto a terra e disse battendosi il petto e piangendo amaramente: “O Gesù Cristo, mio maestro, abbiate pietà di me; è d’uopo che nel corso della mia vita io non abbia messo tanto studio ad adornare la mia anima che è tanto preziosa, che tanto vi è costata, quanto questa cortigiana ne ha posto per adornare il suo corpo e per piacere al mondo! „ Il domani, il santo Vescovo essendo salito in pulpito, dipinse in modo così spaventevole i mali che recava questa cortigiana, il numero delle anime che la sua vita perversa trascinava nell’inferno… il suo discorso fu recitato con copiose lagrime. Pelagia era appunto nella chiesa, che ascoltava il sermone che teneva il santo Vescovo; ella ne fu siffattamente commossa, o piuttosto spaventata, che risolse tosto di convertirsi. Ella si reca a trovare il santo prelato senza porre indugio, ella si getta ai piedi del santo Vescovo alla presenza di tutta l’assemblea, gli domanda con grandi istanze e piangendo il Battesimo, che il Vescovo, vedendola così pentita, le amministrò non solo il Battesimo, ma anche la Confermazione e la Comunione. Dopo ciò, Pelagia distribuì i suoi beni ai poveri, concesse la libertà a tutti i suoi schiavi, si coprì d’un cilicio, abbandonò segretamente la città di Antiochia e andò a chiudersi in una grotta sulla montagna degli Ulivi, vicino a Gerusalemme. Il diacono del santo Vescovo desiderava di recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme; il suo Vescovo gli disse, prima della sua partenza, di chiedere se là trovavasi una giovane nascosta in una grotta da quattro anni. Infatti, il diacono arrivato a Gerusalemme, domandò se sapevasi di una giovane chiusa da quattro anni in una grotta nei dintorni della città. Il diacono la trovò sopra la montagna in una cella che non aveva altra apertura che una piccola finestra quasi sempre chiusa. La penitenza spaventevole che faceva Pelagia, l’aveva siffattamente cangiata, che il diacono non poté riconoscerla; le disse che veniva a renderle visita dalla parte del Vescovo Nono; ella rispose semplicemente versando lagrime, che il Vescovo Nono era un santo e che ella si raccomandava alle sue preghiere; e tosto chiuse la finestra come fosse indegna di vedere il giorno dopo di aver tanto offeso il buon Dio e perduto tante anime. I solitari gli dissero tutti che ella esercitava sopra il suo corpo tormenti tali che facevano fremere i solitari più austeri. Il diacono, prima di partire, volle ancora avere una volta la sorte di vederla, ma la trovò morta (Vita dei Padri del deserto, vol. VI, cap. XVIII). Ora, M. F., chi trasse questa infelice dalle sue infamie per farne una così grande penitente? Una sola istruzione operò in essa quel cangiamento. Ma, di nuovo, donde procede ciò? Perché la parola di Dio trovò il suo cuore ben disposto a ricevere questa semente, perché questa parola cadde in buon terreno. Sapete chi siamo noi? Noi siamo quei grandi del mondo, i quali, nell’abbondanza di tutto ciò che il cuore può desiderare, esauriscono la loro conoscenza nel produrre nuove invenzioni per trovare nuovi gusti nelle vivande che loro si ammanniscono, e nonostante ciò nulla trovano che sia buono. Se una persona che soffre la fame fosse testimonio di ciò, non direbbe piangendo: “Ah! se io avessi quello che essi disprezzano tanto, quanto sarei felice!„ Ah! noi possiamo ripetere la stessa cosa: se dei poveri idolatri e dei pagani avessero la metà o il quarto di questa parola che si distribuisce a noi sì di spesso e che teniamo in così poco conto o disprezziamo, che noi ascoltiamo con noia e con disgusto, ah! quante lagrime spargerebbero, quante penitenze, quante buone opere e quante virtù avrebbero la sorte di praticare! Sì, questa parola santa è perduta per questi peccatori che sono abbandonati in balia della dissipazione, che non hanno alcuna regola di vita, il cui spirito e il cui cuore sono somiglievoli ad una grande strada da tutti battuta, che non sanno neppure che cosa significhi rigettare un cattivo pensiero. Un momento, è un buon pensiero o un buon desiderio che li occupa; un altro momento, è un cattivo pensiero e un cattivo desiderio; ora voi li udite cantare le lodi di Dio nella Chiesa; in un altro momento, voi li udite cantare le canzoni più infami nelle bettole; qui voi li vedete dir bene dei loro vicini, e là li vedete con coloro che straziano la loro riputazione; un giorno essi daranno dei buoni consigli, domani spingeranno altri a vendicarsi. Posto ciò, se essi ascoltano la parola di Dio, è per abitudine e forse con cattivo intendimento, per criticare colui che è tanto caritatevole di annunciarla. Ma essi l’ascoltano come si ascolta una favola o una cosa affatto indifferente. Ah! qual frutto può produrre la parola di Dio in cuori così mal disposti, se non indurarli sempre più? Mio Dio, come la vostra santa parola, la quale non ci è data che per aiutarci a salvarci, precipita delle anime nell’inferno! Io vi ho detto, da principio, che la parola di Dio reca sempre frutto buono o cattivo, secondo le disposizioni nostre. Ecco lo stato di una persona la quale non combatte le sue inclinazioni, la quale non cerca di premunirsi contro le sue passioni che la padroneggiano; a grado che la parola di Dio cade, passa l’orgoglio, la mette sotto dei piedi; passa il desiderio di vendetta, la soffoca; sopravvengono i vani pensieri e i cattivi desideri a gettarla nel fango; dopo di che, il demonio che regna in questo povero cuore, alla prima occasione, cancella il resto dell’impressione che ha potuto produrre in noi la parola di Dio. Ecco, M. F., quello che dice primieramente il Vangelo: io non so se voi l’avete ben compreso, ma per me io tremo quando sento S. Agostino dirci che noi siamo tanto colpevoli di udire la parola di Dio, senza un vero desiderio di approfittarne, come i Giudei quando flagellavano Gesù Cristo. Ah! M. F., noi non abbiamo mai pensato che commettiamo una specie di sacrilegio quando non vogliamo approfittare di questa santa parola. Tuttavia, non sono positivamente le vostre disposizioni, almeno per un gran numero: noi prendiamo ancora delle belle risoluzioni di cambiar vita; quando noi udiamo predicare, noi diciamo in noi medesimi: è necessario assolutamente operare bene. Ecco una buona risoluzione; ma dal momento che il buon Dio ci sottopone a qualche prova, noi dimentichiamo le nostre risoluzioni e continuiamo il nostro sistema di vita. Noi abbiamo risoluto di essere meno attaccati ai beni di questo mondo; ma il più piccolo torto che ci si rechi, noi cerchiamo di vendicarci; noi parliamo male delle persone che ci hanno recato qualche ingiuria e conserviamo l’odio; noi soffriamo di mal animo di vedere queste persone, non vogliamo più render loro servizio. Noi pensiamo che ora vogliamo praticare l’umiltà, perché abbiamo udito in una istruzione quanto l’umiltà sia una bella virtù, come ci rende aggradevoli a Dio; ma alla prima occasione che si presenta, che noi siamo disprezzati, noi ci muoviamo a sdegno, parliamo male dei nostri contradditori, e se qualche volta abbiamo loro procurato alcun bene glielo rinfacciamo. Ecco, M. F., quello che noi facciamo. Molte volte noi abbiamo risoluto di operar bene, ma tosto che l’occasione si presenta, non ci poniamo più mente e continuiamo la nostra vita ordinaria. – In tal modo trascorre tutta la nostra povera vita, nelle risoluzioni e nelle cadute continue, di guisa che noi ci ritroviamo sempre gli stessi. Ah! questa semente è dunque perduta per il gran numero dei Cristiani e non può contribuire che alla loro condanna! — Ma forse mi direte voi, che altra volta la parola di Dio era più potente, o coloro che l’annunciavano erano più eloquenti. — No, la parola del buon Dio ha tanto potere ora quanto negli altri tempi, e coloro che la annunciavano erano semplici come ai giorni nostri. Ascoltate S. Pietro nelle sue predicazioni: “Ascoltatemi, loro dice questo santo Apostolo, il Messia che voi avete fatto soffrire, che avete mandato alla morte, è risuscitato per la felicità di tutti coloro che credono che il salvamento procede da lui.„ Appena ebbe detto ciò, che tutti coloro che erano presenti ruppero in pianto, e mandarono alte grida, dicendo: “Ah! grande Apostolo, che faremo noi per ottenere il nostro perdono?„ — “Miei figli, dice loro S. Pietro, se voi bramate che i vostri peccati vi siano perdonati, fate penitenza, confessate i vostri peccati, più non peccate, e il medesimo Gesù Cristo che voi avete appeso alla croce, che è risuscitato, vi perdonerà (Act. III, 19). „ In un solo discorso, tre mila si diedero a Dio e abbandonarono il loro peccato per sempre (ibid. II, 41). In un altro, cinquemila rinunciarono alla loro idolatria per abbracciare una religione la quale non domanda che sacrifici continui (ibid. IV, 4); essi batterono coraggiosamente la via che Gesù Cristo aveva loro tracciata. Di qual segreto si sono valsi gli Apostoli per cangiare la faccia del mondo? — Ecco: “Volete voi, dissero gli Apostoli, piacere a Dio e salvare l’anima vostra, che colui che si abbandona al vizio dell’impurità vi rinunci e conduca una vita pura e aggradevole a Dio; che colui che ha il bene del suo prossimo lo restituisca; che colui che odia il suo prossimo si riconcili con lui.„ Ascoltate S. Tommaso: “Io vi avverto dalla parte di Gesù Cristo medesimo che gli uomini subiranno un giudizio dopo la loro morte, intorno il bene ed il male che avranno fatto, i peccatori passeranno la loro eternità nel fuoco dell’inferno, per patirvi per sempre; ma colui che sarà stato fedele ad osservare la legge del Signore, la sua sorte sarà affatto diversa; all’uscire da questa vita, entrerà in cielo per godervi ogni sorta di delizie e di felicità. „ Ascoltate san Giovanni, il discepolo prediletto: “Miei figli, amatevi tutti come Gesù Cristo vi ha amati, siate caritatevoli gli uni verso gli altri, come Gesù Cristo lo è stato per noi, Lui che ha sofferto e che è morto per la nostra felicità; sopportatevi gli uni cogli altri, perdonatevi le vostre debolezze come Egli perdona a tutti (I Joan. II-IV).„ Ditemi, possiamo trovare qualche cosa che sia più semplice ? Ora, non vi si dicono le medesime verità? Non vi si dice, come S. Pietro, che Gesù Cristo è morto per voi, che è ancora pronto a perdonarvi se volete pentirvi ed abbandonare il peccato? Tuttavolta furono queste parole che fecero versare tante lagrime e convertirono tanti pagani e tanti peccatori! Non vi si dice, come S. Giovanni Battista, che se voi avete il bene del prossimo, è necessario restituirlo (Luc. III, 11-14), senza di che mai entrerete in cielo? Non vi si dice che se vi abbandonate in preda al vizio dell’impurità, è necessario lasciarlo e condurre una vita tutta pura? Non vi si dice che, se voi vivete e restate nel peccato, voi cadrete nell’inferno? E perché dunque queste parole non producono più i medesimi effetti, vo’ dire che questa parola santa non ci converte? Ah! diciamolo gemendo: non è perché abbia minor potere che altra volta, ma perché questa divina semente cade in cuori indurati e impenitenti, e appena vi è caduta il demonio la soffoca. Come questa divina parola non parla che di sacrifici, di mortificazioni, di distacco dal mondo e da se medesimo, e d’altra parte non si vuol fare tutto ciò, si rimane nel peccato, vi si persevera, vi si muore. – Convenite con me quanto sia necessario essere indurato per restare nel peccato, sapendo benissimo che, se dovessimo morire in questo stato, non abbiamo che l’inferno per retaggio! Ci è ripetuto continuamente, e nonostante ciò, noi restiamo peccatori come lo siamo, benché siamo certissimi che la nostra sorte non può essere che quella d’un riprovato. O mio Dio! quale stato infelice è quello di un peccatore che non ha più la fede!

III. — Ma, mi direte voi, che cosa dunque bisogna fare per approfittare della parola di Dio, affinché ci aiuti a convertirci? — Ecco: Voi non avete che da esaminare la condotta di quel popolo che accorreva ad ascoltare Gesù Cristo; egli vi accorreva da lontano, con un vero desiderio di praticare tutto quello che Gesù Cristo loro avrebbe comandato; essi abbandonavano tutte le cose temporali, non pensavano neppure ai bisogni del corpo, ben persuasi che colui che nutriva la loro anima, nutrirebbe il loro corpo; essi erano mille volte più solleciti di cercare i beni del cielo che quelli della terra; essi tutto dimenticavano per non pensare che a praticare quello che loro diceva nostro Signore (Luc. IX, 12). Vedeteli in atto di ascoltare Gesù Cristo o gli Apostoli: i loro occhi e i loro cuori sono tutti rivolti a questo oggetto; le donne non pensano alla loro famiglia; il mercante perde di vista il suo commercio; l’agricoltore dimentica i suoi campi; i giovani mettono sotto dei piedi i loro abbigliamenti; essi ascoltano con avidità le sue parole, e fanno quanto possono per imprimerle profondamente nel loro cuore. Gli uomini più sensuali abborrono i loro piaceri sensuali per non più pensare che a far soffrire il loro corpo, la santa parola di Dio forma tutta la loro occupazione; vi fermano il pensiero, la meditano, amano di parlarne e di udirne parlare. Ora, M. F., vedete se tutte le volte che ascoltate la parola di Dio, voi vi recate le medesime disposizioni. M. F., siete venuti ad ascoltare questa santa parola con sollecitudine, con gioia, con un vero desiderio di approfittarne? Così essendo, avete dimenticato tutti i vostri affari temporali, per non pensare che ai bisogni della vostra anima? Prima di ascoltare questa santa parola, avete domandato al buon Dio, di imprimerla profondamente nei vostri cuori? Avete considerato questo momento come il più avventurato della vostra vita, poiché Gesù Cristo medesimo ci dice che la sua santa parola è preferibile alla santa comunione? Siete stati pronti a praticare quanto ella vi comanda? L’avete ascoltata con attenzione, con rispetto, non come la parola di un uomo, ma come la parola di Dio medesimo? Dopo l’istruzione avete ringraziato il buon Dio della grazia che vi ha concesso di istruirvi Egli medesimo per la bocca dei suoi ministri? Ah! mio Dio, se son pochi quelli che recano queste disposizioni, non saremo meravigliati che questa santa parola produca sì poco frutto. Ah! quanti che sono qui con pena, con noia! che dormono, che sbadigliano! quanti che sfoglieranno un libro, e ciarleranno! E non si veggono altri che spingono più innanzi la loro empietà, i quali, con una specie di disprezzo, escono di chiesa tenendo in nessun conto la santa parola e colui che la annuncia? Quanti altri i quali, anche essendo fuori, dicono che il tempo loro pesa e che più non ritorneranno! E finalmente altri i quali, ritornando alle loro case, invece di occuparsi di ciò che hanno udito e di meditarlo, lo dimenticano affatto e non vi tornano sopra col pensiero che per dire che non è mai finito, o per criticare colui che ha avuto la carità di annunciarla! Chi sono coloro i quali, essendo tornati in famiglia, facciano parte a coloro che non hanno potuto intervenire di ciò che hanno udito? Quali sono i padri e le madri che domandino ai loro figli quello che hanno ritenuto della parola santa che hanno udita, e che spieghino loro quello che non hanno compreso? Ma, ah! si tiene la parola di Dio in sì poco conto, che quasi non si accusano di non averla ascoltata con attenzione. Ah! quanti peccati dei quali la maggior parte dei Cristiani non si accusano mai! Mio Dio! quanti Cristiani dannati! Chi sono coloro che abbiano detto a se medesimi: Quanto questa parola è bella! quanto è vera! ecco tanti anni che io l’ascolto e che mi fa vedere lo stato della mia anima, e, come toccare con mano che, se la morte mi colpisse, io sarei perduto! Tuttavolta io resto sempre nel peccato. O mio Dio, quante grazie disprezzate, quanti mezzi di salvamento dei quali ho abusato sino a quest’ora! ma è cosa decisa, io voglio sinceramente cangiar vita, io voglio domandare al buon Dio la grazia di non mai ascoltare questa santa parola senza esservi ben preparato. No, io non voglio più dire in me medesimo, come ho fatto fino a quest’ora, che ciò è per il tale o per la tale, ma dirò che è per me che la si annuncia; io voglio porre ogni studio per approfittarne per quanto lo potrò. Che conchiudere da tutto ciò? Che la parola divina è uno dei più grandi doni che il buon Dio possa concederci, perché senza l’istruzione, è impossibile di salvarci. Che se noi vediamo tanti empi in questi tristi giorni nei quali viviamo, non è che perché non conoscono la loro Religione, perché ad una persona che la conosca, le è impossibile di non amarla e di non praticare quello che essa prescrive. Quando voi vedete qualche empio che disprezza la Religione, voi potete dire: “Ecco un ignorante che disprezza quello che non conosce, „ perché questa parola divina ha convertito tanti peccatori. – Studiamoci di ascoltare sempre con un piacere tanto più grande in quanto vi è annesso il salvamento dell’anima nostra e che per essa noi scopriremo quanto il nostro destino è felice, quanto la ricompensa che ci promette è grande, perché dura tutta l’eternità. È la felicità che io vi ….

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps XVI: 5; XVI:6-7

Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine.

[Rendi fermi i miei passi nei tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino. Inclina l’orecchio verso di me, e ascolta le mie parole. Fa risplendere la tua misericordia, tu che salvi chi spera in Te, o Signore.]

Secreta

Oblátum tibi, Dómine, sacrifícium, vivíficet nos semper et múniat.

[Il sacrificio a Te offerto, o Signore, sempre ci vivifichi e custodisca.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XLII:4

Introíbo ad altáre Dei, ad Deum, qui lætíficat juventútem meam.

Mi accosterò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut, quos tuis réficis sacraméntis, tibi étiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas.

[Ti supplichiamo, o Dio onnipotente, affinché quelli che nutri coi tuoi sacramenti, Ti servano degnamente con una condotta a Te gradita.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: LA PAROLA DI DIO

I SERMONI DEL CURATO D’ARS

[Discorsi di S. G. B. M. VIANNEY, curato d’Ars – Vol. I, ed. Ed. Marietti, Torino-Roma, 1933]

La parola di Dio.

Beati qui audiunt verbum Dei, et custodiunt illud.

(Luc. XI, 28).

Noi leggiamo nel Vangelo che il Salvatore del mondo istruiva il popolo, diceva loro cose così meravigliose e così stupefacenti, che una donna dal mezzo della folla alzò la voce e gridò: “Beato è il seno che ti ha portato e il latte che ti ha nutrito. „ Ma Gesù Cristo tosto soggiunse: ” Più avventurato è colui che ascolta la parola di Dio e che osserva quello che essa comanda. „ Ciò forse desta la vostra meraviglia, che Gesù Cristo ci dica che colui che ascolta la parola di Dio con un vero desiderio di approfittarne è più accettevole a Dio che colui che lo riceve nella santa comunione; sì, certo noi non abbiamo mai ben compreso quanto la parola di Dio sia un dono prezioso. Ah! se noi l’avessimo ben compreso con quale rispetto, con quale amore dovremmo ascoltarla! M. F., non inganniamoci: necessariamente la parola di Dio produrrà in noi frutti buoni o cattivi; saranno buoni, se vi recheremo delle buone disposizioni, con altre parole, un vero desiderio di approfittarne e di fare tutto quello che essa prescriverà; saranno cattivi, se noi la ascolteremo con indifferenza, con disgusto, forse con disprezzo; o questa parola santa ci illuminerà, ci farà conoscere i nostri doveri, o ci accecherà e produrrà il nostro induramento. Ma per meglio farvelo comprendere, tolgo a dimostrarvi:

1° quanto sono grandi i vantaggi che ci provengono dalla parola di Dio;

2° in qual modo i Cristiani hanno l’abitudine di riceverla;

3° le disposizioni che dobbiamo recare per avere la ventura di approfittarne.

I . — Per farvi comprendere quanto è grande il prezzo della parola di Dio, io vi dirò che tutto lo stabilimento e i progressi della Religione cattolica sono l’opera della parola di Dio associata alla grazia che sempre l’accompagna. Sì, M. F., noi possiamo ancora dire che dopo la morte di Gesù Cristo sul Calvario, e il santo Battesimo, non occorre grazia che noi riceviamo nella nostra santa Religione che le stia alla pari; ciò che è facile a comprendere. Quante persone che sono state assunte in cielo senza aver ricevuto il sacramento della Penitenza! Quante altre senza aver ricevuto quello del Corpo adorabile e del Sangue prezioso di Gesù Cristo! E quante altre che sono in cielo, che non hanno ricevuto quello della Confermazione né quello dell’Estrema Unzione! Ma per l’istruzione che è la parola di Dio, dal momento che abbiamo l’età capace di farci istruire è tanto difficile andare in cielo senza essere istruiti, come senza essere battezzati. – Ah! M. F., noi vedremo sventuratamente al giorno del giudizio che il più gran numero dei Cristiani dannati, lo saranno perché non hanno conosciuto la loro religione. Andate, interrogate tutti i Cristiani riprovati, e domandate loro perché sono nell’inferno. Tutti vi risponderanno che la loro sventura proviene perché non hanno voluto ascoltare la parola di Dio o perché l’hanno disprezzata. — Ma, forse mi direte voi, che cosa opera in noi questa santa parola? — Ecco: essa è somiglievole a quella colonna di fuoco la quale conduceva i Giudei quando erano al deserto, che additava loro la via che dovevano battere, che si fermava quando il popolo doveva fermarsi e proseguiva il suo viaggio, quando si doveva andare innanzi; di guisa che questo popolo non aveva che a restar fedele nel seguirla ed era sicuro di non smarrire la via. (Exod. XIII, 21, 22; XL, 84, 35). Sì, M. F., essa opera la stessa cosa a nostro riguardo: essa è una face che brilla dinanzi a noi, che ci conduce in tutti i nostri pensieri, nei nostri disegni, nelle azioni nostre (lucerna pedibus meis verbum tuum. Ps. CXVIII, 105); è lei che accende la nostra fede, che fortifica la nostra speranza, che fa divampare l’amor nostro per Dio e per il prossimo; è lei che ci fa comprendere la grandezza di Dio, il fine beato per il quale siamo creati, la bontà di Dio, l’amor suo per noi, il prezzo dell’anima nostra, la grandezza e la ricompensa che ci è promessa; sì, è lei che ci dipinge la gravezza del peccato, gli oltraggi che reca a Dio, i mali che ci prepara per l’altra vita; è lei che ci incute spavento alla vista del giudizio che è riservato ai peccatori, colla dipintura spaventevole che ella ce ne fa; sì, M. F., è questa parola che ci muove a credere senza nulla esaminare tutte le verità della nostra santa Religione nella quale tutto è mistero, e ciò risvegliando la nostra fede. Ditemi, non è dopo una istruzione che si sente il cuore commosso e pieno di buone risoluzioni? Ah! colui che disprezza la parola di Dio è ben da compiangere, poiché rigetta e disprezza tutti i mezzi di salute che il buon Dio ci presenta per salvarci. Ditemi, di che cosa si sono serviti i patriarchi e i profeti. Gesù Cristo medesimo e tutti gli Apostoli, come tutti coloro che li hanno secondati, per stabilire ed aumentare la nostra santa Religione, non è della parola di Dio? Vedete Giona, quando il Signore lo mandò a Ninive; che fece egli? Null’altro che annunciarle la parola di Dio, dicendole che fra 40 giorni tutti i suoi abitanti perirebbero. Non è questa parola santa che cangiò i cuori degli uomini di quella grande città, che, di grandi peccatori ne fece grandi penitenti (Gion. III, 4)? Che fece S. Gio. Battista per cominciare a far conoscere il Messia, il Salvatore del mondo? Non lo fece annunciando loro la parola di Dio? Che fece Gesù Cristo medesimo percorrendo le città e le campagne, continuamente circondato dalle turbe di popolo che lo seguivano fino nel deserto? Di qual mezzo si serviva per insegnare la religione che voleva stabilire, se non di questa santa parola? Ditemi, M. F., chi ha mosso tutti quei grandi del mondo ad abbandonare i loro beni, i loro parenti e tutti i loro agi? Non è ascoltando la parola di Dio che hanno aperto gli occhi dell’anima e compreso la poca durata e la caducità delle cose create, che si sono volti a cercare i beni eterni? Un S. Antonio, un S. Francesco, un S. Ignazio… Ditemi chi può muovere i figli ad avere un grande rispetto verso il loro padre e la loro madre, facendoli loro considerare come quelli che occupano il posto di Dio medesimo? Non sono le istruzioni che hanno ricevuto nei catechismi, tenuti dal loro pastore, facendo loro vedere la grandezza della ricompensa che è annessa ad un figlio savio e obbediente? E quali sono i figli che disprezzano i loro genitori? Ah! quanti poveri figli ignoranti, e che dall’ignoranza sono condotti nell’impurità e nel libertinaggio, e che spesse volte finiscono col far morire i loro poveri genitori o di crepacuore o in qualche altro modo più miserando! Chi può muovere un vicino ad avere una grande carità verso il suo vicino, se non una istruzione che avrà ascoltata, nella quale gli sarà stato addimostrato quanto la carità è un’opera aggradevole a Dio? Chi ha mossi tanti peccatori ad uscire dal peccato? Non fu qualche istruzione che hanno udita, nella quale si è loro dipinto lo stato infelice di un peccatore il quale cade nelle mani d’un Dio vendicatore? Se voi ne bramate la prova, ascoltate un istante e ne sarete convinti. È raccontato nella storia che un vecchio ufficiale di cavalleria passava, in uno dei suoi viaggi, per un luogo dove il padre Bridaine dava una missione. Curioso di udire un uomo d’una grande riputazione e che egli non conosceva, egli entra in una chiesa dove il padre Bridaine faceva la descrizione spaventosa dello stato infelice di un’anima nel peccato, l’accecamento nel quale era il peccatore di perseverarvi, il mezzo facile che il peccatore aveva di uscirne con una buona confessione generale. Il militare ne fu siffattamente commosso, i suoi rimorsi di coscienza furono cosi forti, o piuttosto gli diventarono sì insopportabili, che nell’istante medesimo formò il proposito di confessarsi e di fare una confessione di tutta la sua vita. Egli aspetta il missionario al piede della cattedra pregandolo per grazia di fargli fare una confessione di tutta la sua vita. Il padre Bridaine lo ricevette con una grande carità: “Mio Padre, gli disse il militare, io resterò finché voi vorrete; io ho concepito un gran desiderio di salvare l’anima mia. „ Egli fece la sua confessione con tutti i sentimenti di pietà e di dolore che si poteva aspettare da un peccatore che si converte; egli medesimo diceva che ogni volta che accusava un peccato, gli pareva di togliersi un peso enorme dalla propria coscienza. Quando ebbe finito la sua confessione, egli si ritirò dietro il Padre Bridaine, piangendo a calde lagrime. La gente meravigliata di vedere questo militare piangere dirottamente, gli domandavano qual era la causa del suo rammarico e delle sue lagrime: “Ah! amici miei, quanto è dolce il versare lagrime d’amore e di riconoscenza, io, che sono vissuto per sì lungo lasso di tempo nell’odio del mio Dio! „ Ah! quanto l’uomo è cieco di non amare il buon Dio e di vivere da suo nemico, mentre che è cosa così dolce l’amarlo! Questo militare si reca a trovare il Padre Bridaine che era nella sagrestia, e qui, alla presenza di tutti gli altri missionari, volle metterli a parte dei suoi sentimenti: “Signori, disse loro, ascoltatemi, e voi, Padre Bridaine, richiamatevelo alla memoria; io non credo in tutta la mia vita di aver gustato un piacere così puro e così dolce, come quello che io gusto dacché ho la sorte di essere in istato di grazia; no, io non credo che Luigi XV che ho servito per 36 anni, possa essere così felice come io lo sono; no, io non credo che, nonostante tutti i piaceri che lo attorniano e tutto lo splendore che lo circonda egli sia contento come io lo sono in questo momento. Dopoché io ho deposto l’orribile peso dei miei peccati, nel mio dolore e nel disegno di fare penitenza, io non cangerei ora la mia sorte per tutti i piaceri e per tutte le ricchezze del mondo. „ A queste parole egli si getta ai piedi del Padre Bridaine, gli stringe la mano: ” Ah! mio Padre, quali azioni di grazie potrò io rendere al buon Dio per tutta la mia vita, di avermi condotto come per mano in questo paese! Ah! mio Padre, io non pensava di fare quello che voi avete avuto la carità di farmi fare. No, mio Padre, mai potrò dimenticarvi; di grazia, io vi prego di domandare al buon Dio per me che tutta la mia vita non sia più che una vita di lagrime e di penitenza.„ Il Padre Bridaine e tutti gli altri missionari che erano testimoni di questa avventura, proruppero in lagrime, dicendo: “Oh! che il buon Dio ha delle grazie per coloro che hanno un cuore docile alla sua voce! Oh! quante anime si dannano e che, se avessero avuto la sorte di essere istruite, sarebbero salve! „ Il che faceva che il Padre Bridaine domandava al buon Dio, prima dei suoi discorsi, che accendesse siffattamente il suo cuore che le sue parole fossero simili al fuoco divoratore che fa divampare d’amore i cuori dei peccatori più indurati e più ribelli alla grazia. Or qual fu la causa della conversione di questo soldato? Null’altro che la parola di Dio che ascoltò e che trovò il suo cuore docile alla voce della grazia. Ah! quanti Cristiani si convertirebbero se avessero la sorte di recare delle buone disposizioni ad ascoltare la parola di Dio! Quanti buoni pensieri e buoni desideri ella farebbe nascere nel loro cuore, quante buone opere farebbe loro compiere per il cielo! – Prima di procedere innanzi, è necessario che io vi rechi un fatto accaduto al medesimo Padre Bridaine, mentre faceva una missione ad Aix in Provenza; fatto che ha qualche cosa di singolare. Il missionario si metteva a sedere a mensa con un confratello, quando un ufficiale batté fortemente alla porta dove si trovavano i missionari: tutto ansante, domanda con un viso alterato il capo della compagnia. Il Padre Bridaine essendosi accostato: “Padre Bridaine, „ gli dice all’orecchio l’ufficiale con una certa emozione e con un tono severo che dimostrava come la sua anima fosse agitata. Il missionario essendo entrato con lui, l’ufficiale chiude la porta, si leva gli stivali, getta lontano il cappello, e sfodera la sua spada. “Io vi confesso, diceva poscia il Padre Bridaine ai suoi compagni, ciò mi incusse spavento: il suo silenzio, il suo occhio truce, la sua stretta di mano, la sua precipitazione e il suo turbamento, mi fecero giudicare che fosse un uomo al quale avessi strappato l’oggetto della sua passione, e che per vendicarsene venisse sicuramente per togliermi la vita; ma fui ben presto tolto d’inganno vedendo questo militare gettarsi ai miei ginocchi colla faccia rivolta a terra, pronunciando con sicurezza queste parole: “Non è questione di lasciarmi, mio Padre, né di differire più oltre, voi vedete ai vostri piedi il più grande peccatore che la terra abbia potuto portare dal principio del mondo; io sono un mostro. Io vengo di lontano per confessarmi a voi e adesso; senza di che io non so più che cosa divento.„ Il Padre Bridaine gli disse con bontà: “Amico mio, un istante, io tosto ritorno. „ — “Mio Padre, gli risponde il soldato piangendo a calde lagrime, rispondete voi dell’anima mia durante questo indugio? Sappiate, Padre mio, che ho percorso in posta 27 leghe; volge molto tempo che io non vivo e che il cuore mi scoppia; io non posso più resistere; la mia vita e l’inferno sembrano non essere che una medesima cosa; il mio tormento dura da quando vi ho udito predicare in un tal luogo, dove avete così egregiamente dipinto lo stato dell’anima mia, che mi è stato impossibile di non credere che il buon Dio non vi abbia fatto tenere quella istruzione che per me solo; tuttavolta quando entrai in questa chiesa nella quale voi predicavate, non era per curiosità, fu appunto qui che il buon Dio mi aspettava. Quanto sono felice, Padre mio, di potermi liberare da questi rimorsi di coscienza che mi straziano! Prendete il tempo che sarà necessario per ascoltare la mia confessione, io resterò qui quanto bramate; ma è necessario che voi mi solleviate all’istante, perché la mia coscienza è un carnefice che non mi lascia alcun riposo né il giorno né la notte; in una parola, Padre mio, io voglio veramente convertirmi; lo comprendete, Padre mio? Voi non uscirete di qui che non abbiate sollevato il mio cuore. Se voi volete negarmi ciò, io credo che morrò ai vostri piedi di crepacuore. „ – “Ma egli disse ciò, soggiunge il Padre Bridaine, versando copiose lagrime. Io fui così tocco da una scena tanto commovente, che lo abbraccio, lo benedico, mescolo le mie lagrime alle sue; non pensai più di recarmi a mangiare; lo incoraggiai, per quanto mi fu possibile, di tutto sperare nella grazia del buon Dio il quale si era già dimostrato verso di lui in un modo affatto particolare; io restai quattro ore di seguito per ascoltare la sua confessione; sembrava bagnarmi delle sue lagrime, ciò che mi moveva a contenere le mie; io non lo lasciai che per recarmi ad annunciare la parola di Dio. „ – Questo generoso militare rimase alcun tempo presso il Padre Bridaine, per ricevere gli avvisi che gli erano necessari per avere la sorte di perseverare. Prima di congedarsi dal Padre Bridaine, lo pregò di perdonargli lo sgomento che gli aveva cagionato: ” Tuttavolta, mio Padre, gli disse il militare, il vostro era nulla in confronto del mio. Io tremava tutti i giorni che la morte mi togliesse nello stato nel quale mi trovava, parevami che la terra stesse per aprirsi sotto i miei piedi per inghiottirmi vivo nell’inferno. Pensate, Padre mio, che quando si hanno nemici tali che vi assediano e che vi si riflette seriamente, non si può restar tranquillo, quand’anche si avesse un cuore di bronzo. Ora, Padre mio, io vorrei morire, tanta è la gioia che provo d’essere in pace col buon Dio. „ Egli non poteva più lasciare il Padre Bridaine, gli baciò le mani, l’abbracciò. Il Padre Bridaine vedendo un tal miracolo della grazia, non poté dalla sua parte trattenere le sue lagrime: gli ultimi addii facevano versar lagrime a tutti coloro che ne furono testimoni. “Addio, mio Padre, disse il militare al Padre Bridaine, dopo il buon Dio, a voi io sono tenuto del cielo. „ Ritornato nel suo paese non poteva contenersi di parlare quanto il buon Dio fosse stato buono verso di lui; chiuse la sua vita nelle lagrime e nella penitenza e morì da santo sei mesi dopo la sua conversione. – Ora, qual fu la causa della conversione dì questo soldato? Ah! ciò che voi udite tutte le domeniche nelle istruzioni, è ciò che udì quegli dalla bocca del Padre Bridaine, dove certamente presentava lo stato deplorevole d’un peccatore che compare davanti al tribunale di Gesù Cristo colla coscienza carica di peccati. Ah! mio Dio, quante volte il vostro pastore non vi ha fatto questo ritratto desolante? Chi ne è stato più commosso di voi medesimi? E perché dunque ciò non vi ha scossi e convertiti? Forse che la parola di Dio non ha più lo stesso potere? No, M. F., questa non è la vera causa per cui siete restati nel peccato. Forse, perché questa santa parola vi è annunciata da un peccatore, che non vi ha commossi? No, no, non è questa ancora la vera ragione; ma eccola: gli è perché i vostri cuori sono indurati, e volge lungo tempo che voi abusate delle grazie che il buon Dio vi concede colla sua santa parola; è perché il peccato vi ha strappato gli occhi della povera vostra anima, ed ha finito di farvi perdere di vista i beni ed i mali dell’altra vita. O mio Dio! quale sventura per un Cristiano d’essere cacciato dal cielo per tutta l’eternità ed essere insensibile a questa perdita! O mio Dio! Quale frenesia d’essere precipitati nelle fiamme dell’inferno e restare tranquilli in uno stato che fa fremere gli angeli e i santi! O mio Dio! a qual grado di sciagura è condotto colui al quale la parola di Dio … ! Avvegnaché la parola di Dio più non commuove, tutto è perduto, non occorre più alcun altro spediente se non in un grande miracolo, ciò che accade ben rare volte. O mio Dio! essere insensibili a tante sventure, chi potrà mai comprenderlo? Tuttavolta, senza essere più prolissi, ecco lo stato di quasi tutti coloro che mi ascoltano. Voi sapete che il peccato regna nei vostri cuori; voi sapete che fino a che il peccato vi regna, voi non avete nessun’altra cosa da aspettarvi se non tutte queste sventure. O mio Dio! questo solo pensiero non dovrebbe farci morire di spavento? Ah! il buon Dio vedeva anticipatamente quanto sarebbero pochi coloro che approfitterebbero di questa parola di vita, quando ci propone nel Vangelo questa parabola: “Un seminatore esce di gran mattino per seminare il suo grano, e quando lo seminava, una parte cadde sulla via e fu calpestata dai viandanti e mangiata dagli uccelli del cielo; una parte cadde sulle pietre e tosto disseccò; un’altra cadde fra le spine, che la soffocarono; e finalmente un’altra cadde nel buon terreno, e rese il centuplo di frutto. „ Voi vedete che Gesù Cristo dimostra che, di tutte le persone che ascoltano la parola di Dio, solo un quarto ne trae profitto; ancora troppo avventurati se di tutte quattro le persone ne occorresse una che ne approfittasse. Quanto il numero dei buoni Cristiani sarebbe più grande che non è! Gli apostoli, meravigliati di questa parabola, gli dissero: “Spiegateci quello che significa.„ Gesù disse loro colla sua ordinaria bontà: – Il cuore dell’ uomo è somiglievole ad una terra che recherà frutto secondo che sarà bene o mal coltivata; questa semente, disse loro Gesù Cristo, è la parola di Dio: quella che cade lungo la via, sono coloro che ascoltano la parola di Dio, ma che non vogliono cangiar vita, né imporsi i sacrifici che Dio vuole da essi per renderli buoni e aggradevoli a lui. Gli uni sono coloro che non vogliono abbandonare le cattive compagnie o i luoghi nei quali hanno tante volte offeso il buon Dio; sono ancora coloro che sono trattenuti da un falso rispetto umano, il quale li fa abbandonare tutte le buone risoluzioni che avevano formate ascoltando la parola di Dio. Quella che cade nelle spine, sono coloro che ascoltano la parola di Dio con gioia; ma non fa loro praticare alcuna buona opera: essi amano di ascoltarla, ma non di fare quello che comanda. Per quella che cade sulla pietra, sono coloro che hanno un cuore indurato ed ostinato, coloro che la ascoltano per disprezzarla o per abusarne. Finalmente quella che cade nella terra buona, sono coloro che desiderano di ascoltarla, che abbracciano tutti i mezzi che il buon Dio loro inspira per bene approfittarne, ed è in questi cuori che reca copiosi frutti, e questi frutti sono l’allontanamento da una vita mondana e le virtù che un Cristiano deve praticare per piacere a Dio e salvare la propria anima. „ Voi vedete, M. F., giusta la parola di Gesù Cristo, come sia esiguo il numero di coloro che approfittano della parola di Dio, perché di quattro occorre un solo che rende questa semente atta a recar frutto, ciò che è molto facile a dimostrarvi, come vedremo più innanzi. Ma se ora mi domandate quello che vuol dire Gesù Cristo per questo seminatore il quale esce di gran mattino per gettare la sua semente nel suo campo, il seminatore è il buon Dio medesimo, che ha cominciato a procurare il nostro salvamento dal principio del mondo, per questo mandando i profeti suoi prima della venuta del Messia per insegnarci quello che era necessario di fare per essere salvi; non si è accontentato di mandare i suoi servi, è venuto Egli medesimo, ci ha tracciata la via che dobbiamo battere, Egli è venuto ad annunziarci la santa parola.

II. — Ma esaminiamo piuttosto, M. F., quali sono coloro che recano delle buone disposizioni per ascoltare questa parola di vita. Ah! voi avete udito dalle parole stesse di Gesù Cristo che pochissimi recano le disposizioni necessarie per trarne vantaggio. Sapete voi che sia una persona la quale non è nutrita di questa santa parola o che ne abusa? essa è somiglievole ad un ammalato senza medico, ad un viaggiatore smarrito e senza guida, ad un povero senza alcun mezzo di sussistenza; diciamo meglio, che è affatto impossibile di amar Dio e di piacere a lui senza essere nutriti di questa parola divina. Che cos’è che può muoverci ad affezionarci a Lui, se non perché lo conosciamo? E chi può farcelo conoscere con tutte le perfezioni sue, la sua bellezza e il suo amore verso di noi, se non la parola di Dio, che ci insegna tutto quello che ha fatto per noi, e i beni che ci prepara per l’altra vita, se noi non cerchiamo che di piacere a Lui? Chi può muoverci ad abbandonare e piangere i nostri peccati se non la descrizione spaventosa che lo Spirito Santo ci fa nella santa Scrittura? Chi può muoverci a sacrificare tutto quello che abbiamo di più caro al mondo, per avere la sorte di conservare i beni del cielo, se non i quadri stessi che ci mettono sott’occhio i predicatori? Se voi ne dubitate, domandate a S. Agostino ciò che ha cominciato a farlo arrossire fra le sue infamie: non è il quadro spaventoso che fece S. Ambrogio in un sermone nel quale dimostrò tutto l’orrore del vizio d’ impurità, come degradava l’uomo, e come l’oltraggio che recava a Dio era orribile? (Conf. lib. VI, cap. III e IV) – Che cos’è che mosse S. Pelagia, questa famosa cortigiana, l a quale colla sua bellezza e maggiormente coi disordini della propria vita, aveva perduto tante anime, che cos’è che la mosse ad abbracciare la più dura penitenza per tutto il resto della sua vita?… Un giorno che era seguita da una schiera di giovani premurosi di farle la corte, essendosi magnificamente abbigliata, ma di un’aria che non respirava che la mollezza e la voluttà, in questa ostentazione di mondanità, le avvenne di passare dinanzi alla porta di una chiesa, nella quale si trovavano parecchi Vescovi che si intrattenevano degli affari della Chiesa. I santi prelati, mossi a sdegno alla vista di questo spettacolo, volsero altrove lo sguardo; tuttavolta uno di essi, chiamato Nono, guardò fissamente questa commediante e disse gemendo: “Ah! che questa donna che mette tanto studio per piacere agli uomini sarà la nostra condanna, contro di noi che prendiamo sì poca sollecitudine per piacere al buon Dio! „ Il santo prelato avendo preso per mano il suo diacono, lo condusse nella sua cella; quando vi furono arrivati, egli si gettò col volto a terra e disse battendosi il petto e piangendo amaramente: ” O Gesù Cristo, mio maestro, abbiate pietà di me; è d’uopo che nel corso della mia vita io non abbia messo tanto studio ad adornare la mia anima che è tanto preziosa, che tanto vi è costata, quanto questa cortigiana ne ha posto per adornare il suo corpo e per piacere al mondo! „ Il domani, il santo Vescovo essendo salito in pulpito, dipinse in modo così spaventevole i mali che recava questa cortigiana, il numero delle anime che la sua vita perversa trascinava nell’inferno… il suo discorso fu recitato con copiose lagrime. Pelagia era appunto nella chiesa, che ascoltava il sermone che teneva il santo Vescovo; ella ne fu siffattamente commossa, o piuttosto spaventata, che risolse tosto di convertirsi. Ella si reca a trovare il santo prelato senza porre indugio, ella si getta ai piedi del santo Vescovo alla presenza di tutta l’assemblea, gli domanda con grandi istanze e piangendo il Battesimo, che il Vescovo, vedendola così pentita, le amministrò non solo il Battesimo, ma anche la Confermazione e la Comunione. Dopo ciò, Pelagia distribuì i suoi beni ai poveri, concesse la libertà a tutti i suoi schiavi, si coprì d’un cilicio, abbandonò segretamente la città di Antiochia e andò a chiudersi in una grotta sulla montagna degli Ulivi, vicino a Gerusalemme. Il diacono del santo Vescovo desiderava di recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme; il suo Vescovo gli disse, prima della sua partenza, di chiedere se là trovavasi una giovane nascosta in una grotta da quattro anni. Infatti, il diacono arrivato a Gerusalemme, domandò se sapevasi di una giovane chiusa da quattro anni in una grotta nei dintorni della città. Il diacono la trovò sopra la montagna in una cella che non aveva altra apertura che una piccola finestra quasi sempre chiusa. La penitenza spaventevole che faceva Pelagia, l’aveva siffattamente cangiata, che il diacono non poté riconoscerla; le disse che veniva a renderle visita dalla parte del Vescovo Nono; ella rispose semplicemente versando lagrime, che il Vescovo Nono era un santo e che ella si raccomandava alle sue preghiere; e tosto chiuse la finestra come fosse indegna di vedere il giorno dopo di aver tanto offeso il buon Dio e perduto tante anime. I solitari gli dissero tutti che ella esercitava sopra il suo corpo tormenti tali che facevano fremere i solitari più austeri. Il diacono, prima di partire, volle ancora avere una volta la sorte di vederla, ma la trovò morta 1(Vita dei Padri del deserto, vol. VI, cap. XVIII). Ora, M. P., chi trasse questa infelice dalle sue infamie per farne una così grande penitente? Una sola istruzione operò in essa quel cangiamento. Ma, di nuovo, donde procede ciò? Perché la parola di Dio trovò il suo cuore ben disposto a ricevere questa semente, perché questa parola cadde in buon terreno. Sapete chi siamo noi? Noi siamo quei grandi del mondo, i quali, nell’abbondanza di tutto ciò che il cuore può desiderare, esauriscono la loro conoscenza nel produrre nuove invenzioni per trovare nuovi gusti nelle vivande che loro si ammanniscono, e nonostante ciò nulla trovano che sia buono. Se una persona che soffre la fame fosse testimonio di ciò, non direbbe piangendo: “Ah! se io avessi quello che essi disprezzano tanto, quanto sarei felice!„ Ah! noi possiamo ripetere la stessa cosa: se dei poveri idolatri e dei pagani avessero la metà o il quarto di questa parola che si distribuisce a noi sì di spesso e che teniamo in così poco conto o disprezziamo, che noi ascoltiamo con noia e con disgusto, ah! quante lagrime spargerebbero, quante penitenze, quante buone opere e quante virtù avrebbero la sorte di praticare! Sì, questa parola santa è perduta per questi peccatori che sono abbandonati in balia della dissipazione, che non hanno alcuna regola di vita, il cui spirito e il cui cuore sono somiglievoli ad una grande strada da tutti battuta, che non sanno neppure che cosa significhi rigettare un cattivo pensiero. Un momento, è un buon pensiero o un buon desiderio che li occupa; un altro momento, è un cattivo pensiero e un cattivo desiderio; ora voi li udite cantare le lodi di Dio nella Chiesa; in un altro momento, voi li udite cantare le canzoni più infami nelle bettole; qui voi li vedete dir bene dei loro vicini, e là li vedete con coloro che straziano la loro riputazione; un giorno essi daranno dei buoni consigli, domani spingeranno altri a vendicarsi. Posto ciò, se essi ascoltano la parola di Dio, è per abitudine e forse con cattivo intendimento, per criticare colui che è tanto caritatevole di annunciarla. Ma essi l’ascoltano come si ascolta una favola o una cosa affatto indifferente. Ah! qual frutto può produrre la parola di Dio in cuori così mal disposti, se non indurarli sempre più? Mio Dio, come la vostra santa parola, la quale non ci è data che per aiutarci a salvarci, precipita delle anime nell’inferno! Io vi ho detto, da principio, che la parola di Dio reca sempre frutto buono o cattivo, secondo le disposizioni nostre. Ecco lo stato di una persona la quale non combatte le sue inclinazioni, la quale non cerca di premunirsi contro le sue passioni che la padroneggiano; a grado che la parola di Dio cade, passa l’orgoglio, la mette sotto dei piedi; passa il desiderio di vendetta, la soffoca; sopravvengono i vani pensieri e i cattivi desideri a gettarla nel fango; dopo di che, il demonio che regna in questo povero cuore, alla prima occasione, cancella il resto dell’impressione che ha potuto produrre in noi la parola di Dio. Ecco, M. F., quello che dice primieramente il Vangelo: io non so se voi l’avete ben compreso, ma per me io tremo quando sento S. Agostino dirci che noi siamo tanto colpevoli di udire la parola, di Dio senza un vero desiderio di approfittarne, come i Giudei quando flagellavano Gesù Cristo. Ah! M. F., noi non abbiamo mai pensato che commettiamo una specie di sacrilegio quando non vogliamo approfittare di questa santa parola. Tuttavia, non sono positivamente le vostre disposizioni, almeno per un gran numero: noi prendiamo ancora delle belle risoluzioni di cambiar vita; quando noi udiamo predicare, noi diciamo in noi medesimi: è necessario assolutamente operare bene. Ecco una buona risoluzione; ma dal momento che il buon Dio ci sottopone a qualche prova, noi dimentichiamo le nostre risoluzioni e continuiamo il nostro sistema di vita. Noi abbiamo risolato di essere meno attaccati ai beni di questo mondo; ma il più piccolo torto che ci si rechi, noi cerchiamo di vendicarci; noi parliamo male delle persone che ci hanno recato qualche ingiuria e conserviamo l’odio; noi soffriamo di mal animo di vedere queste persone, non vogliamo più render loro servizio. Noi pensiamo che ora vogliamo praticare l’umiltà, perché abbiamo udito in una istruzione quanto l’umiltà sia una bella virtù, come ci rende aggradevoli a Dio; ma alla prima occasione che si presenta, che noi siamo disprezzati, noi ci muoviamo a sdegno, parliamo male dei nostri contradditori, e se qualche volta abbiamo loro procurato alcun bene glielo rinfacciamo. Ecco, M. F., quello che noi facciamo. Molte volte noi abbiamo risoluto di operar bene, ma tosto che l’occasione si presenta, non ci poniamo più mente e continuiamo la nostra vita ordinaria. – In tal modo trascorre tutta la nostra povera vita, nelle risoluzioni e nelle cadute continue, di guisa che noi ci ritroviamo sempre gli stessi. Ah! questa semente è dunque perduta per il gran numero dei Cristiani e non può contribuire che alla loro condanna! — Ma forse mi direte voi, che altra volta la parola di Dio era più potente, o coloro che l’annunciavano erano più eloquenti. — No, la parola del buon Dio ha tanto potere ora quanto negli altri tempi, e coloro che la annunciavano erano semplici come ai giorni nostri. Ascoltate S. Pietro nelle sue predicazioni: “Ascoltatemi, loro dice questo santo Apostolo, il Messia che voi avete fatto soffrire, che avete mandato alla morte, è risuscitato per la felicità di tutti coloro che credono che il salvamento procede da lui.„ Appena ebbe detto ciò, che tutti coloro che erano presenti ruppero in pianto, e mandarono alte grida, dicendo: “Ah! grande Apostolo, che faremo noi per ottenere il nostro perdono?„ — “Miei figli, dice loro S. Pietro, se voi bramate che i vostri peccati vi siano perdonati, fate penitenza, confessate i vostri peccati, più non peccate, e il medesimo Gesù Cristo che voi avete appeso alla croce, che è risuscitato, vi perdonerà (Act. III, 19). „ In un solo discorso, tre mila si diedero a Dio e abbandonarono il loro peccato per sempre (ibid. II, 41). In un altro, cinquemila rinunciarono alla loro idolatria per abbracciare una religione la quale non domanda che sacrifici continui (ibid. IV, 4); essi batterono coraggiosamente la via che Gesù Cristo aveva loro tracciata. Di qual segreto si sono valsi gli Apostoli per cangiare la faccia del mondo? — Ecco: “Volete voi, dissero gli Apostoli, piacere a Dio e salvare l’anima vostra, che colui che si abbandona al vizio dell’impurità vi rinunci e conduca una vita pura e aggradevole a Dio; che colui che ha il bene del suo prossimo lo restituisca; che colui che odia il suo prossimo si riconcili con lui.„ Ascoltate S. Tommaso: “Io vi avverto dalla parte di Gesù Cristo medesimo che gli uomini subiranno un giudizio dopo la loro morte, intorno il bene ed il male che avranno fatto, i peccatori passeranno la loro eternità nel fuoco dell’inferno, per patirvi per sempre; ma colui che sarà stato fedele ad osservare la legge del Signore, la sua sorte sarà affatto diversa; all’uscire da questa vita, entrerà in cielo per godervi ogni sorta di delizie e di felicità. „ Ascoltate san Giovanni, il discepolo prediletto: “Miei figli, amatevi tutti come Gesù Cristo vi ha amati, siate caritatevoli gli uni verso gli altri, come Gesù Cristo lo è stato per noi, Lui che ha sofferto e che è morto per la nostra felicità; sopportatevi gli uni cogli altri, perdonatevi le vostre debolezze come Egli perdona a tutti (I Joan. II-IV).„ Ditemi, possiamo trovare qualche cosa che sia più semplice ? Ora, non vi si dicono le medesime verità? Non vi si dice, come S. Pietro, che Gesù Cristo è morto per voi, che è ancora pronto a perdonarvi se volete pentirvi ed abbandonare il peccato? Tuttavolta furono queste parole che fecero versare tante lagrime e convertirono tanti pagani e tanti peccatori! Non vi si dice, come S. Giovanni Battista, che se voi avete il bene del prossimo, è necessario restituirlo (Luc. III, 11-14), senza di che mai entrerete in cielo? Non vi si dice che se vi abbandonate in preda al vizio dell’impurità, è necessario lasciarlo e condurre una vita tutta pura? Non vi si dice che, se voi vivete e restate nel peccato, voi cadrete nell’inferno? E perché dunque queste parole non producono più i medesimi effetti, vo’ dire che questa parola santa non ci converte? Ah! diciamolo gemendo: non è perché abbia minor potere che altra volta, ma perché questa divina semente cade in cuori indurati e impenitenti, e appena vi è caduta il demonio la soffoca. Come questa divina parola non parla che di sacrifici, di mortificazioni, di distacco dal mondo e da se medesimo, e d’altra parte non si vuol fare tutto ciò, si rimane nel peccato, vi si persevera, vi si muore. – Convenite con me quanto sia necessario essere indurato per restare nel peccato, sapendo benissimo che, se dovessimo morire in questo stato, non abbiamo che l’inferno per retaggio! Ci è ripetuto continuamente, e nonostante ciò, noi restiamo peccatori come lo siamo, benché siamo certissimi che la nostra sorte non può essere che quella d’un riprovato. O mio Dio! quale stato infelice è quello di un peccatore che non ha più la fede!

III. — Ma, mi direte voi, che cosa dunque bisogna fare per approfittare della parola di Dio, affinché ci aiuti a convertirci? — Ecco: Voi non avete che da esaminare la condotta di quel popolo che accorreva ad ascoltare Gesù Cristo; egli vi accorreva da lontano, con un vero desiderio di praticare tutto quello che Gesù Cristo loro avrebbe comandato; essi abbandonavano tutte le cose temporali, non pensavano neppure ai bisogni del corpo, ben persuasi che colui che nutriva la loro anima, nutrirebbe il loro corpo; essi erano mille volte più solleciti di cercare i beni del cielo che quelli della terra; essi tutto dimenticavano per non pensare che a praticare quello che loro diceva nostro Signore (Luc. IX, 12). Vedeteli in atto di ascoltare Gesù Cristo o gli Apostoli: i loro occhi e i loro cuori sono tutti rivolti a questo oggetto; le donne non pensano alla loro famiglia; il mercante perde di vista il suo commercio; l’agricoltore dimentica i suoi campi; i giovani mettono sotto dei piedi i loro abbigliamenti; essi ascoltano con avidità le sue parole, e fanno quanto possono per imprimerle profondamente nel loro cuore. Gli uomini più sensuali abborrono i loro piaceri sensuali per non più pensare che a far soffrire il loro corpo, la santa parola di Dio forma tutta la loro occupazione; vi fermano il pensiero, la meditano, amano di parlarne e di udirne parlare. Ora, M. F., vedete se tutte le volte che ascoltate la parola di Dio, voi vi recate le medesime disposizioni. M. F., siete venuti ad ascoltare questa santa parola con sollecitudine, con gioia, con un vero desiderio di approfittarne? Così essendo, avete dimenticato tutti i vostri affari temporali, per non pensare che ai bisogni della vostra anima? Prima di ascoltare questa santa parola, avete domandato al buon Dio, di imprimerla profondamente nei vostri cuori? Avete considerato questo momento come il più avventurato della vostra vita, poiché Gesù Cristo medesimo ci dice che la sua santa parola è preferibile alla santa comunione? Siete stati pronti a praticare quanto ella vi comanda? L’avete ascoltata con attenzione, con rispetto, non come la parola di un uomo, ma come la parola di Dio medesimo? Dopo l’istruzione avete ringraziato il buon Dio della grazia che vi ha concesso di istruirvi Egli medesimo per la bocca dei suoi ministri? Ah! mio Dio, se son pochi quelli che recano queste disposizioni, non saremo meravigliati che questa santa parola produca sì poco frutto. Ah! quanti che sono qui con pena, con noia! che dormono, che sbadigliano! quanti che sfoglieranno un libro, e ciarleranno! E non si veggono altri che spingono più innanzi la loro empietà, i quali, con una specie di disprezzo, escono di chiesa tenendo in nessun conto la santa parola e colui che la annuncia? Quanti altri i quali, anche essendo fuori, dicono che il tempo loro pesa e che più non ritorneranno! E finalmente altri i quali, ritornando alle loro case, invece di occuparsi di ciò che hanno udito e di meditarlo, lo dimenticano affatto e non vi tornano sopra col pensiero che per dire che non è mai finito, o per criticare colui che ha avuto la carità di annunciarla! Chi sono coloro i quali, essendo tornati in famiglia, facciano parte a coloro che non hanno potuto intervenire di ciò che hanno udito? Quali sono i padri e le madri che domandino ai loro figli quello che hanno ritenuto della parola santa che hanno udita, e che spieghino loro quello che non hanno compreso? Ma, ah! si tiene la parola di Dio in sì poco conto, che quasi non si accusano di non averla ascoltata con attenzione. Ah! quanti peccati dei quali la maggior parte dei Cristiani non si accusano mai! Mio Dio! quanti Cristiani dannati! Chi sono coloro che abbiano detto a se medesimi: Quanto questa parola è bella! quanto è vera! ecco tanti anni che io l’ascolto e che mi fa vedere lo stato della mia anima, e, come toccare con mano che, se la morte mi colpisse, io sarei perduto! Tuttavolta io resto sempre nel peccato. O mio Dio, quante grazie disprezzate, quanti mezzi di salvamento dei quali ho abusato sino a quest’ora! ma è cosa decisa, io voglio sinceramente cangiar vita, io voglio domandare al buon Dio la grazia di non mai ascoltare questa santa parola senza esservi ben preparato. No, io non voglio più dire in me medesimo, come ho fatto fino a quest’ora, che ciò è per il tale o per la tale, ma dirò che è per me che la si annuncia; io voglio porre ogni studio per approfittarne per quanto lo potrò. Che conchiudere da tutto ciò? Che la parola divina è uno dei più grandi doni che il buon Dio possa concederci, perché senza l’istruzione, è impossibile di salvarci. Che se noi vediamo tanti empi in questi tristi giorni nei quali viviamo, non è che perché non conoscono la loro Religione, perché ad una persona che la conosca, le è impossibile di non amarla e di non praticare quello che essa prescrive. Quando voi vedete qualche empio che disprezza la Religione, voi potete dire: “Ecco un ignorante che disprezza quello che non conosce, „ perché questa parola divina ha convertito tanti peccatori. – Studiamoci di ascoltare sempre con un piacere tanto più grande in quanto vi è annesso il salvamento dell’anima nostra e che per essa noi scopriremo quanto il nostro destino è felice, quanto la ricompensa che ci promette è grande, perché dura tutta l’eternità. È la felicità che io vi ….

LO SCUDO DELLA FEDE (146)

6

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (12)

FIRENZE – DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA 1861

DISCUSSIONE XIV – 2

PUNTO II.

Alla sola Chiesa appartiene la dogmatica interpretazione della Santa Scrittura.

77. Bibbia. Essendo dunque sì oscura, inintelligibile, anche per tua confessione, la Scrittura Santa; evidentemente ne segue che non può né deve essere interpretata da qualunque individuo; che non è lecito ai fedeli il seguirla quale unica regola di lor fede e costumi, nel senso che da ciascuno è privatamente intesa; ma che alla sola Chiesa ne appartiene la dogmatica interpretazione, la quale dev’esser da tutti seguita. Ciò è precisamente quanto in ogni tempo Iddio ha voluto e rigorosamente ordinato. Ascolta.

« Se in qualche negozio che penda dinanzi a te, vedrai della difficoltà e ambiguità tra sangue e sangue, tra causa e causa, tra lebbra e lebbra, e vedrai che vari sono i sentimenti de’ giudici della tua città: … ti porterai a’ sacerdoti della stirpe di Levi, e dal giudice che risiederà in quel tempo: e li consulterai, ed eglino ti proferiranno la sentenza secondo la verità. E tu farai tutto quello che ti avranno detto, .e non torcerai a destra, né a sinistra. Chi poi si leverà in superba, e non vorrà obbedire al comando del Sacerdote, che è in quel tempo il ministro del Signore Dio tuo, né al decreto del giudice, costui sia messo a morte, e toglierai il male da Israele.(Deuter. XVII, 8 e segg.) e Nota qui che il giudice era lo stesso Sacerdote Sommo Pontefice; poiché egli solo, secondo la legge, (Lev. XIII.) discerner poteva e sentenziare tra lebbra e lebbra. Ciò vedrai confermato ne’ testi seguenti. – « In Gerusalemme Iosaphat nominò dei Leviti, e dei Sacerdoti, e dei capi di famiglia d’Israele, e intimò loro e disse: In qualunque lite tra famiglia e famiglia,… la quale [lite) sia portata a voi, ogniqualvolta che si tratti della legge, dei comandamenti, delle cerimonie e dei precetti, voi l’istruirete, affinché non pecchino contro il Signore…. Amaria Sacerdote e Pontefice vostro avrà giurisdizione in tutto quello che spetta al Signore: e Zabadia figliuolo d’Ismael principe della casa di Giuda, presiederà a tutti gli affari riguardanti l’officio del re? » (II Paralip. XIX, 8 e segg) – « Queste cose dice il Signore degli eserciti: Interroga i sacerdoti intorno la legge » (Agg. II, 12). – « Le labbra del sacerdote hanno il deposito della scienza, e dalla bocca di lui si ha da cercare la legge; perché egli è l’Angelo del Signore degli eserciti.1 » (Malac. II, 7). – « I sacerdoti, e i Leviti figliuoli di Sadoc,… insegneranno al mio popolo a discernere tra il santo e il profano, tra il mondo e l’immondo; E ove accadano liti, sederanno nei miei tribunali, e giudicheranno.- » (Ezech. XLIV, l5, 23, 24). Questa è la legge: vediamone adesso la pratica.

« Fece Mosè come aveva ordinato il Signore:… e spiegò tutti gli ordini del Signore. (Num. XXVIII, 18, e seg.) » – « E parimente disse (Iosia) a’ Leviti :… per le istruzioni de’ quali tutto Israele era santificato al Signore. » (2 de’ Paralip. XXXV, 3) – « Esdra ancora rivolto il suo cuore a far ricerca dellca legge del Signore, e ad eseguire, ed insegnare ad Israele i precetti di essa, e gli insegnamenti? » (1.° di Esd. VIII, 10) – « Portò dunque Esdra sacerdote la legge dinanzi alla moltitudine, e lesse in quel libro a voce chiara…. dalla mattina sino a mezzodì, in presenza degli uomini, delle donne, e dei sapienti…. Andò pertanto tutto il popolo, etc … perché avevano inteso le parole che erano state loro spiegate. E il secondo giorno si congregarono i capi delle famiglie di tutto il popolo, i sacerdoti e i Leviti presso Esdra scriba, affinché esponesse loro le parole della legge » (2.° di Esd. VII. 3. 12, 13.)

Passiamo adesso al Nuovo Testamento.

78. « E allora Gesù parlò alle turbe e a’ suoi discepoli, dicendo: sulla Cattedra di Mosè si assisero gli Scribi e i Farisei: tutto quello pertanto, che vi dicono, osservatelo e fatelo » (Matt. XXIII, 2,3). – Ma Gesù accostandosi parlò loro [agli Apostoli], dicendo: Andate, istruite tutte le genti,… insegnando loro di osservare tutto quello che vi ho comandato » (IVI, XXVIII, 18 e seg.). – « Se non ascolta la Chiesa, abbilo come per un pagano e per pubblicano » (ivi, XVIII, 17). –  « Chi ascolta voi, ascolta me: e chi disprezza voi, disprezza me. » (Luc. X, 16). Or vedi che anche il Divin Redentore, quantunque venuto fosse per dar nuova legge al mondo, per ciò che riguarda il caso nostro, conferma, e rinnova quanto era già stabilito nell’Antico Testamento. Questa gran verità ti si renderà anche più manifesta dalla pratica costante tenuta dai Santi Apostoli su questo proposito. Ascolta.

« Alcuni venuti dalla Giudea insegnavano a’ fratelli : Se voi non vi circoncidete secondo il rito di Mosè, non potete esser salvi. Essendovi dunque stato non piccol contrasto di Paolo e di Barnaba contro di essi, fu stabilito che Paolo e Barnaba e alcuni dell’altra parte andassero per tal questione a Gerusalemme dagli Apostoli e da’ seniori…. E si adunarono gli Apostoli e i seniori per disaminar questa cosa. E mentre ferveva la disputa, alzatosi Pietro disse loro: Uomini fratelli perché tentate voi Dio per imporre sul collo dei discepoli un giogo, che né i Padri nostri, né noi abbiam potuto portare? Ma per la grazia del Signore Gesù Cristo CREDIAMO ESSER SALVATI NELLO STESSO MODO CHE ESSI. E tutta la moltitudine si tacque…. –  Gli Apostoli e i seniori…. ai fratelli gentili che sono in Antiochia…. Poiché abbiamo udito che alcuni partiti da noi, a’ quali non ne abbiamo dato commissione, vi hanno turbati con parole, sovvertendo le anime vostre…. è parso allo Spirito Santo, ed a noi di non imporre a voi altro peso, etc. » (Act. XV, 1 e segg.).   – Qui hai ben potuto vedere: 1.° Che la controversia tra i cristiani di Antiochia riguardava l’intelligenza della Scrittura; poiché trattavasi di sapere, se loro era necessaria la circoncisione al conseguimento della salute. 2° Che nessuno, neppur dei primarii loro pastori, osò attribuirsi la potestà di decidere su tal controversia dogmaticamente. – 3.° Che tutti convennero di unanime consenso esser necessario ricorrere per la definitiva decisione alla suprema autorità della Chiesa. 4.° Che S. Pietro, a cui ciò singolarmente apparteneva, pronunziò l’inappellabile sentenza, per cui tutta la moltitudine si tacque, perché le sentenze di Pietro sono infallibili. – E parso allo Spirito Santo, ed a noi – 5.° Che riprovati furono e condannati come perturbatori coloro, che preteso avevano di sentenziare dogmaticamente in materia di Scrittura, indipendentemente dall’autorità della Chiesa – A’ quali non ne abbiamo dato commissione.

79. Affinché poi nessuno in seguito adducesse il pretesto che tal sentenza non riguardava che un caso particolare; lo stesso S. Pietro promulgò a tutta la Chiesa la seguente dogmatica dichiarazione: « Abbiamo più ferma la parola profetica, a cui fate bene di attendere, ponendo mente prima di tutto a questo (N.B.) che nessuna profezia della Scrittura è di privata interpretazione; imperocché (eccone la ragione) non per umano volere fu portata una volta la profezia, ma ispirati dallo Spirito Santo parlarono i santi uomini dì Dio.1 » (II Piet. I, 19 e segg.). –  Da queste ultime parole è ben chiaro, che qui per profezia non s’intendono soltanto le predizioni profetiche, ma (siccome spesso si usa nella parola di Dio) tutte le Sante Scritture. Quindi il medesimo Apostolo seriamente avverte tutti i fedeli a guardarsi da coloro che pretendono decidere circa il senso della Scrittura, secondo la privata loro interpretazione. « Voi adunque , o fratelli, istruiti per tempo state in guardia, affinché non cadiate, trasportati dall’errore degli stolti, dalla vostra fermezza. » (ivi, III, 16).

80. Con forza non minore detestati sono e condannati tali pretendenti dall’Apostolo S. Paolo, e acremente ripresi sono i fedeli che a quelli danno retta.

« Vi seno ancora molti disobbedienti, vaniloqui e seduttori, massimamente quelli della circoncisione, a’ quali debbesi turar la bocca, i quali mettono a soqquadro tutte le cose, insegnando cose che non convengono » (Tit. I, 10, 11).

« La fine del precetto è la carità di puro cuore, di buona coscienza, di fede non simulata. Dalle quali cose alcuni avendo deviato, hanno dato in vani cicalecci, volendo farla da dottori della legge, senza intender le cose che dicono, né quelle che danno per certe. » (I Tim. I, 5 e segg.). – «Altri ha (Gesù Cristo) costituiti Apostoli, altri profeti, altri pastori e dottori, per il perfezionamento de’ santi, per l’opera del ministero, per la edificazione del corpo di Cristo:… onde non più siamo fanciulli vacillanti, e portati qua e là da ogni vento di dottrina per raggiri degli uomini, per le astuzie onde seduce l’errore » (Ephes. IV, 11 e segg.). – « Forse tutti Apostoli? Forse tutti profeti.? Forse tutti dottori? Forse tutti interpreti? (I Cor. XII, 29, 30).  Mi stupisco come così presto fate passaggio da colui che vi chiamò alla grazia di Cristo ad un altro Vangelo, il quale non è un altro, ma vi sono alcuni che vi conturbano, e vogliono pervertire il Vangelo di Cristo. Ma quand’anche noi, o un Angelo del cielo evangelizzi a voi oltre quello che abbiamo a voi evangelizzato, sia anatema. » (Gal. I, 6 e segg.) Cioè, sia maledetto. Ecco adunque che tanto nel Vecchio che nel Nuovo Testamento è assolutamente comandato di ricorrere all’autorità della Chiesa per l’intelligenza della Santa Scrittura: e coloro che pretendono d’interpretarla dogmaticamente di privata loro autorità, ossia che vogliono averla per regola della lor fede e costumi nel senso da essi intesa, indipendentemente dall’autorità della Chiesa, nel Vecchio Testamento sono condannati a morte, e nel Nuovo non solo condannati sono come disubbidienti, perturbatori, e seduttori; ma è fulminato contro di essi l’ANATEMA, ossia la più terribile, la più spaventosa delle maledizioni; a cui è sempre unita la più gran pena cioè la scomunica.

81. Prot. A tutte le vostre ragioni i miei seguaci lungamente opposero, e molti oppongono ancora i seguenti passi:

1.° « Non avete bisogno che alcuno vi ammaestri, ma siccome l’unzione di lui (dello Spirito Santo) insegna a voi tutte le cose, ed è verace, e non bugiarda. E siccome vi ha insegnato, stativi in Lui. » ( I Giov. II, 27)

2. ° « Porrò tutti i figliuoli tuoi ammaestrati dal Signore. » ( Isa. LIV, 13 )

3. ° « Darò la mia legge nelle lor viscere, e nel cuor loro la scriverò, e niuno insegnerà più al suo prossimo, con dire, conosci il Signore: imperocché tutti dal primo all’ultimo mi conosceranno. » (Gerem. XXXI, 33, 34).

4. ° « Io non ricevo testimonianza dall’ uomo. » (Giov. V, 34)

5. ° « Chi vorrà adempire la volontà di Lui, conoscerà se la dottrina sia di Dio. » (ivi, VII, 17 )

6. ° « Le mie pecore ascoltan la mia voce: e io le conosco, ed elleno mi tengon dietro. » (ivi, X, 27)

7. ° « Perscrutate le Scritture: perché credete di avere in esse la vita eterna. » (ivi, V, 39 )

8. ° « L o spirituale giudica tutte le cose, ed ei non è giudicato d’alcuno. » (I Cor. II, 15)

9. ° « Disaminate tutto, attenetevi al buono. » ( I Tess. V, 21)

Con questi passi credevan vinta la causa; ma in verità non sono punto a proposito. Imperocché il 1.° non contiene, che un ammonimento di precauzione che dà Giovanni ai fedeli, affinché si guardino dai falsi maestri, i quali sotto pretesto di una più estesa istruzione, ingannavano molti. Onde gli avverte di non dar loro ascolto, essendo essi fedeli abbastanza istruiti nelle cose necessarie a sapersi per la eterna salute. » (Rosenmuller, ne’ suoi Scolii sopra questo passo.).

Il secondo ed il terzo altro non significano che « una maggior diffusione del monoteismo presso gli Ebrei reduci dalla captività babilonese. » (Ivi, Op. cit. sopra questi passi).  Oppure, « una maggior facilità di conoscere e praticare la legge di Dio. » (Cosi altri protestanti nell’Opera: Critici Sacri) Nel quarto, « Gesù volle dire: non ho detto queste cose come avido di onore che apporta la lode umana. Non mi appiglio alla testimonianza di alcun uomo, né perciò di Giovanni da voi ripudiato; ma ho detto queste cose, ho fatto menzione di Giovanni, affinché ne siate capacitati : non vado in cerca di umana commendazione. » Riguardo al quinto: « Aveva Gesù affermato – v. 16. – che la sua dottrina era divina. Ora egli porta sopra questa cosa due argomenti: il primo interno, preso dall’indole dell’eccellenza della medesima dottrina: l’altro – v. 17. – esterno, preso dalla stessa ragione di agire, colla quale insegna che Egli non ha in mira la propria gloria, ma quella unicamente di Dio. » (Kuinoel, Gàmlimat. e Rosenmuller, Op. cìt. sopra questo passo)  Nel 6.° – Non tratta Gesù che della sua dignità di Messia, riconosciuta dai suoi seguaci; onde a lui obbediranno e presteranno ossequio. (c. s.) – Quanto al settimo, « Quel perscrutate le Scritture, non è adoperato da Cristo nel modo imperativo, ma nell’indicativo, come è manifesto non solo dall’autorità dei Dottori, che così l’intesero, ma dallo stesso contesto che l’esige. Oltre a ciò, queste parole erano dirette ai Farisei, cioè ai Dottori della legge; onde nulla hanno di comune con la presente questione. » L’ottavo (lo spirituale ec.) altro, non è che un antitesi, che fa l’Apostolo tra l’uomo spirituale e l’uomo carnale, dicendo che il carnale non è atto a portar giudizio nelle cose spirituali, di cui nulla intende; e che lo spirituale e perfetto giudica tutte le cose come sono ; ma non dice già che egli possa arrogarsi autorità intorno i dogmi di fede nel decider le controversie, al quale uffizio, secondo lo stesso Apostolo, Dio ha lasciati nella sua Chiesa i Pastori e i Dottori? » (Questa sentenza è inesatta, ma può passarsi ad un protestante quanto allo scopo dell’attual controversia). Finalmente quel – Disaminate – etc. appartiene alla discrezione degli spiriti. Così i testi (che citano) della prima a’Corinti – XII. 10. 14. 29. – così quello della I . di Giovanni, – IV. 1. – Dunque quel – tutte le cose, – ristringer si deve, secondo l’antecedente, a quelle cose che si dicono da coloro che profetizzano. » (Ugone Grozio: Opp. edit. Amstelod, 1670, T. 2. vol. 2 , pag. 916.). Convengo dunque che su questo punto ha piena ragione la Cattolica Chiesa; ma nel tempo stesso non so perdonarle l’inaudita durezza e ingiustizia che fa ai fedeli, negando loro il libero uso di quella Santa Scrittura data per tutti da Dio; onde profittarne pel loro bene spirituale.

82. Bibbia. L a Chiesa Cattolica concederà certamente ai fedeli l’uso della Santa Scrittura data da Dio, ma però con quelle condizioni che vuole Iddio, cioè:

I. Che facciano uso di quella sola Scrittura, che come vera e genuina è loro assegnata da essa Chiesa, giusta quel divino comando : « Egli (il re) scriva per suo uso un doppio esemplare di questa legge in un volume, copiandola dall’originale datogli da’ sacerdoti. »  (Deut. XVII, 18)

II. Che nessuno pretenda di farsi giudice indipendente del senso di essa, avendo Dio dichiarato che – non è di privata interpretazione; perché è parola divina.

III. Che in ogni dubbio, o questione ricorrer debbano per la sua intelligenza alla medesima Chiesa, né mai allontanarsi dalla sua sentenza, come è chiaro dai vari testi sopraccitati.

IV. Che essendo ai fedeli per ogni evento moralmente impossibile tale ricorso, abbiano una Scrittura munita delle necessarie Note; onde non manchi loro, in un modo o nell’altro, il magistero della Santa Chiesa – Colonna e sostegno della verità! – e così preservati siano dal cadere in errore.

83. Prot. « La Chiesa protestante benché pretenda di stabilire per sua base la Sacra Scrittura , contuttociò ella s’innalza sopra un fondamento assai debole e leggiero. » (F. F. Delbraeck. Filippo Melantone, ossia maestro della fede, ec. 1826,)

« Lutero, Calvino, Zuinglio ben fecero della Bibbia il fondamento della fede; ma gli oracoli della Scrittura debbono entrare nell’intelletto, ed essere dalla mente compresi: e affinché questo si avveri, quelli debbono essere spiegati…. Presupposto che Dio abbia parlato, che dinanzi agli occhi si vegga e si oda la parola di Dio, la quale deve là menare dove si ritrova la vera felicità dell’uomo, chi potrebbe così facilmente salire in audacia di volerla ad ogni guisa spiegare, e per entro conoscere? Non sarebbe questo il luogo in cui sarebbe necessaria una dichiarazione autentica ed autorevole, non potendosene far senza? Sopra questo punto ha perfettissimamente ragione la Chiesa Cattolica? » (5 Wienland, Opere varie, X. 1, p. 186). – « Se Dio ha discoperto, mediante la sua rivelazione, alcune di cui non si può far senza, e le quali sono per la beatitudine eterna onninamente necessarie, già si vede bene che la spiegazione delle medesime è da aggiudicarsi a coloro soltanto chesono da ciò, ossia a quell’Istituto che guidato di continuo dallo Spirito Santo non può dare nel fallo, ma dee essere INFALLIBILE » (Zimmermann, nella Gazzetta Letteraria di Lipsia, 1829, n. 171).

« Bene a ragione la Bibbia deve giudicare il protestante come in suprema istanza; ma non mai esclusivamente. Quest’ultimo carattere è peculiare agli eretici di tutti i secoli, e perciò sopra ogni altro da fuggirsi e da combattersi da una Chiesa, la quale, siccome la nostra, possiede pochissimi mezzi ecclesiastici per porre un freno a riparare l’arbitraria esposizione della Bibbia, e le innumerevoli fazioni, che indi ne nascono. Il vero protestantismo riprova e condanna (sic) tutti quei tentativi, che in antico e recentemente si son fatti per isviluppare i dogmi dalla sola Scrittura Sacra. Conciossiachè un tal metodo è contrario all’antica Chiesa, e non giovò ad altro che ad alimentare ogn’ora novelle e crescenti discordie, e straordinarie sette, che usano molti maltrattamenti e angherie.- » (Glanzow, Il ripristinamento del vero protestantismo, p. 89.). – « Nel vero non può negarsi che sieno quasi pochissimi que’ testi, i quali sì delle cose contenute nell’antico, come di quelle racchiuse nel nuovo Testamento, ingenerino nelle menti dei lettori le medesime idee. Per il che ne nasce di presente un dubbio, se le idee, le quali fanno per avventura al nostro proposito, sieno piuttosto queste che quelle. Chi monterà in cattedra, e parlando scioglierà la questione? Se da noi protestanti che siamo, si accetta e si riceve la Bibbia come regola ed ordine di fede, ne avverrà per conseguenza che tutte le verità anche di fede avranno, a così dire, le radici e le fondamenta loro nel campo delle disputazioni esegetiche? » (Lessing, Storoa della Letteratura, T. 6. p. 38.). « Infino a tanto che i Riformatori difendevano all’aperto la Sacra Scrittura, come quella che conteneva in sé tutto ciò che era necessario al conseguimento della beatitudine eterna, ed insegnavano non doversi giammai da chicchessia prestar credenza, quasi fossero articoli di fede, a verità, le quali non si leggessero, o almeno non venissero dalla Bibbia dimostrate; oh! allora essi non si avvedevano che sarebbe alla perfine venuto un tempo, in cui gli uomini di ogni fatta avrebbero presa tanta baldanza, che con sola la Bibbia alla mano si sarebbero creduti adatti, o a dir meglio, chiamati a cercare una fede tutta loro peculiare, e tener per falso, e rigettare ciò che per avventura non si fosse conformato alle proprie opinioni. Cotesta baldanza è oggidì tanto cresciuta e diffusa, che gli stessi, articoli principalissimi della fede cristiana vengono contraddetti e negati da coloro medesimi i quali, a malgrado di tutto questo, si chiamano discepoli del mite ed umile Gesù! » (Wix, Sull’opportunità … Heidelberg. 1829, p. 62). – « Laddove ciascuno, i divisati principii seguitando,, potesse a suo bell’agio crearsi una religione tutta peculiare, certamente non mai gli sarebbe dato di rinvenire un solo elemento capace di effettuare una qualsiasi unione, e molto meno una Chiesa. » (La Gazzetta ecclesiastica-prot.) di Darmstadt, Supplemento Letterario, 1831. n. 34). « Chi ciò concede è necessario conceda che potranno formarsi tante religioni quante sono le teste. » (Il Mosemio, Hinstit. Hist. Christ. Recent. Sæc. XVI Sect. 3, cap. 4§ . 1). – « Certamente que’ mostri di errori e di eresie che in oggi s’intendono, non sono che ruscelli dedotti da quel fonte della privata interpretazione delie Sacre Scritture. » (Calvino, Epistolæ, et responsi (Calvini), p. 47, col. 1.) – Che però io diceva a certi miei avversarii: « È necessario consultare la Chiesa, e chiuder l’orecchio alle passioni ed ai pregiudizi. L’intelligenza delle Scritture non appartiene né a voi, né a me, ma alla Chiesa: ad essa spettano le Chiavi ed il potere delle Chiavi. (Zwinglio, nella sua disputa con un Anabattista. Vedi Audin, Storia della vita di Lutero: .Milano 1812, vol. 1, p. 153.)

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (5)

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO

GIUSEPPE SIRI

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (5)

2. EdizioneEDITRICE A. V. E. ROMA – 1943

V. – Lo Stato

Che cosa è lo Stato? Per definire occorre rivolgersi, allorché si tratta di idee complesse, all’uso ed al buon senso comune, ma non sempre si conclude. Qui è il caso: nell’uso comune l’idea di Stato non è troppo definita. Esso è « la nazione organizzata », è « l’elemento reale rappresentativo della nazione », è l’una e l’altra cosa, è « il gestore della pubblica cosa », è « il complesso dell’autorità e dei suoi organi » o « il soggetto giuridico della sovranità » o, addirittura il governo. Evidentemente l’idea è dilatabile a seconda dei postulati filosofici o della superficialità con cui la si considera. Per chi ama il monismo idealistico, nell’idea di Stato entra tutto, nazione non esclusa, e questo tutto non è affatto articolabile in distinzioni precise. Ma non è il caso di arenarsi in questo margine di dilatabilità dell’idea. C’è pur qualcosa di indiscutibile in tutte le accezioni: lo Stato è quello che detiene ed usa dell’autorità, ne è il soggetto giuridico, contiene e rappresenta tutti gli interessi della comunità. Il rimanente non ci interessa, mentre stiamo per discutere quello che lo Stato può fare proprio a proposito dell’autorità. Nessun dubbio lo si debba concepire coma « ente morale o giuridico » ben distinto dalle persone fisiche che ne gestiscono la funzione sotto l’uno a l’altro titolo. governo. Tanto basta per individuare di chi si parli appresso; senza pericolo di equivocare sulle cavillazioni filosofiche e giuridiche. – Ma è perché qui si parla dello Stato? Come c’entra? È  esso che ha i primi doveri verso l’ordine sociale di cui è depositario: il rispetto alla persona, la soluzione dei problemi del lavoro, l’integrità dell’ordine giuridico dipendono dalla fisionomia che esso assume, dalla dottrina cui esso si informa.

1. – Il pensiero del Papa sullo Stato

Il continuo richiamo fatto nel Messaggio papale al diritto di natura è già di per sé una chiara indicazione sul pensiero del Pontefice intorno allo Stato: indica infatti donde si attinge. Ma ecco alcune affermazioni più specifiche e scultoree.

l) « Lo Stato e il suo potere » debbono essere « ricondotti al servizio della società, al pieno rispetto della persona umana e della sua operosità per il conseguimento dei suoi scopi eterni ». Dunque: lo Stato è per servire e completare la persona umana, inoltre la sua concezione ed impostazione è connessa col raggiungimento dell’ultimo fine dell’uomo. Cioè: lo Stato non è un fine, ma un mezzo, uno dei tanti mezzi.

b) Occorre « sperdere gli errori che tendono a deviare dal sentiero morale lo Stato e il suo potere e scioglierli dal vincolo eminentemente etico che li lega alla vita individuale e sociale, e a far loro rinnegare o ignorare praticamente l’essenziale dipendenza, che li unisce alla volontà del Creatore ». Dunque lo ‘Stato non è signore della legge morale obbiettiva, ma ne è suddito; dunque poiché la legge morale è quella del Creatore vale per lo Stato la norma che vale per l’individuo; dunque non ci sono due morali; dunque non esiste lo Stato etico indipendente. Machiavelli è servito.

c) Lo Stato « promuova il riconoscimento e la diffusione della verità che insegna anche nel campo terreno come il senso profondo e l’ultima morale universale legittimità del regnare è il servire ». Dunque lo Stato ha dei doveri anche verso la verità, quel complesso di verità, quell’ordine di verità che gli fa da inquadramento, da base e da titolo di legittimo uso del potere..

d) Finalmente esiste un « potere dello Stato » che impone una « servitù », detta tale e quindi condannata, allorché impone all’operaio « una dipendenza economica » analoga a quella « del prepotere del capitale »; quella « servitù » o « pressione » si ha quando « lo Stato tutto domina e regola l’intera vita pubblica e privata penetrando fin nel campo delle concezioni e persuasioni della coscienza ». Dunque rimane proscritto il socialismo di Stato, cosa del resto che il Papa affermò esplicitamente il 13 giugno 1943 nel celebre discorso tenuto agli operai. Ci accingiamo ora ad esporre quell’organismo logico nel quale diventa pienamente comprensibile il pensiero del Papa, raggiungendone la possibilità di un maggiore sviluppo in dettaglio.

2 – Come sorge lo Stato

Non si tratta qui di una questione storica, bensì filosofica. Vogliamo sapere cioè donde tragga quello per cui lo Stato vale, ossia la sua autorità. Giacché è di quella che ci interessa discorrere. Questa ricerca si impone, poiché tanto vale l’autorità e la legge in ordine a creare l’obbligazione morale, quanto vale la sorgente da cui deriva. Ed è questione di vita, per una società fatta d’uomini intelligenti, che esista l’obbligazione morale. Se non potessi giustificare con un principio valevole il comando di fronte alla mia coscienza, salvo il soggiacere alla violenza, avrei tutto il diritto di disobbedire e fare il comodo mio. Dunque, donde deriva l’autorità dello Stato?

Prima sorgente: la natura

Seguiamo un procedimento obbiettivo e non polemico. Esiste la natura e attraverso essa un diritto naturale. Ciò fu dimostrato (Cfr. cap. I). La natura esprime la volontà divina, contiene quindi una indicazione autorevole di norme, cioè crea un « diritto », quanto essa afferma e postula è tutelato dalla sanzione divina: al suo dettame è unita, proprio per la sua sorgente che è Dio, la piena obbligazione morale. Della natura noi consideriamo l’espressione massima: l’uomo. L’analisi di questo che cosa può rivelare?

L’uomo individuo

Quest’uomo ha un’autonomia, una personalità (Cfr. cap. II), ciò che gli assegna dei diritti. I quali, procedendo dalla natura, ossia da Dio autore di quella, limitano qualsivoglia altra iniziativa e capacità. Sono una legge. L’uomo ha inoltre per natura un complesso di istinti, i quali vanno considerati non in quanto possono farlo prevaricare moralmente, ma in quanto sono elementi perfettivi posti dalla sua stessa costituzione. Questi istinti sono una indicazione della volontà del Creatore.

La famiglia

Di tali istinti consideriamo quelli sociali. Sono diversi ed hanno sfumature svariatissime. Se noi teniamo conto di alcuni di essi, i più forti, li vediamo convergere

ad un punto preciso: la famiglia. L’uomo vi è portato come ad un suo complemento e perfezionamento. Sicché la famiglia è nettamente voluta dalla natura. L’analisi dei lineamenti naturali che vi giocano porta a determinare i rapporti che la legano e i diritti e doveri dei suoi membri. La famiglia dunque, come istituto di diritto naturale, ben definito, limita qualsiasi altra iniziativa: voluta da Dio e voluta così, bisogna rispettarla. Eccoci alla terza tappa.

La società

Ma non tutti gli istinti e le possibilità sociali che la natura ha assegnato all’uomo si esauriscono nella famiglia. Essa pur costituendo il nido più caldo, più sentito e più amato, non dà tutto all’uomo. Egli è spinto dai suoi stessi istinti naturali ad uscirne per incontrarsi cogli altri uomini, far incontrare famiglia con famiglia, iniziare su un piano più grande la dimestichezza ed i rapporti che non lo hanno esaurito e definitivamente completato nella sua famiglia. È ancora la natura, ossia Dio, che vuole quell’incontro e quella vita più ampia: da essa ridondano tutti gli istinti eccitatori della socievolezza nell’umanità. Quell’incontro dà origine alla società, che sorge allora come l’ultimo completamento terreno tanto dell’individuo che della famiglia; sorge per diritto divino: è lo sviluppo di un disegno riposto da Dio in seno alla natura.

L’autorità

Questa società non sorge vaga ed alla rinfusa. Gli elementi contenuti in natura ne determinano i profondi lineamenti fisionomici. Gli uomini sono istintivamente e cioè naturalmente portati ad una vita di relazione complessa di diritti e doveri, di coordinazioni, di complementi quindi di finalità e di subordinazioni. Ne nasce un ordine intero, che, trattandosi di esseri liberi ed intelligenti, legati e distinti ad un tempo da rapporti morali, deve essere moralmente unificato. Nasce da tutto ciò l’organizzazione sociale. Essa ha come fulcro, senza del quale non risponde alle esigenze tra esseri intelligenti e liberi, l’autorità. – Così anche questa sorge dalle esigenze chiaramente poste dalla natura dell’individuo: ossia anche essa è postulata dalla natura, quindi da Dio. È lui che, mediante la fisionomia impressa alle cose, ha notificato volere gli uomini fossero retti dall’autorità. Qui si comprende il valore del famoso effato: « Non est auctoritas nisi a Deo ».

La legge

L’autorità fa precetti, detta leggi. Che valore hanno? Poiché sorgono dall’autorità voluta tale dalla natura, ossia da Dio, il sottrarsi ad essi equivale alla violazione di un istituto divino. Dio autore dell’autorità è quegli che avalla, tutela la legge da essa proveniente in modo legittimo; con questo dà alla legge la sua più necessaria caratteristica: essa obbliga moralmente in coscienza. Ecco come sorge lo Stato, quanto a valore capace di imperare e porre dei diritti. Questa via è obbiettiva: non c’è che da analizzare quanto si vede; è unica poiché ogni altra via che non rimonti a Dio farebbe dello Stato un’istituzione di fatto e non di diritto, una istituzione incapace di obbligare in coscienza quindi moralmente nulla; né lo spiegherebbe, né lo sosterrebbe. Con ciò si ha la grande e vera religiosa concezione dell’autorità e dello Stato: la sola che incuta un sentimento di venerazione cosciente, quella però che porta altresì con sé, e chiaramente designati, i limiti del potere statale. Essa salva dai due spaventosi eccessi: quello dell’anarchia sprezzante e quello della tirannia opprimente, quello dello Stato puro funzionario e quello dello Stato totalitario. – Dona un trono e mette dei limiti: per uomini grandi nella loro natura occorre un’autorità di splendore divino; per gli stessi uomini dotati di libertà occorre che il comando non dilaghi oltre un inderogabile margine. Allora è l’equilibrio. D’ordine sociale non si salva rispettandone un elemento solo (alternativamente autorità e libertà), esso chiede l’integrità di tutti i suoi valori.

3. – I limiti dello Stato

Che lo Stato abbia pur esso dei limiti è stato sopra dimostrato. Continuando la pura deduzione logica dobbiamo ora determinare quali siano i limiti.

Primo limite; la legge divina

Se l’autorità dello Stato deriva da Dio mediante il diritto di natura, pena il non aver alcuna forza moralmente obbligante in coscienza, tanto può quanto Dio gli dà di fare. Ossia: ha un limite nella Volontà Divina, che appunto si esprime mediante la legge tanto naturale che rivelata. È ridicolo pensare che, derivando il suo valore proprio da Dio, possa mettersi contro Dio. Questa conclusione è gravissima per le conseguenze. Infatti non esiste allora per lo stato una amoralità: anch’esso è tenuto dalla legge morale. Neppure ha una legge diversa da quella da cui sono legati i singoli uomini: è innanzi a Dio nella stessa situazione di questi. Neppure ha elementi scusanti o espedienti di evasione dalla legge divina più di quanto ne abbiano gli individui; ciò significa non esistere affatto una cieca ragione di Stato in contrasto con la morale. Un’altra volta: Machiavelli è servito. Al contrario l’azione dello Stato deve essere contenuta ed ispirata dalla legge di Dio. Non è dunque illimitato, né a discrezione il campo della giurisdizione statale; non è ammissibile il « sit pro lege voluntas ». – La legge naturale diventa la cinta delimitante le competenze dello Stato e, siccome proprio essa impone doversi accettare una legge positiva rivelata da Dio, quando questa consti, tiene non meno lo Stato che i privati e diviene pur essa un altro limite alla libertà di iniziativa. – È innegabile che la dottrina dello Stato regge logicamente se connessa con Dio; ma, proprio in Lui, mostra col limite, il vindice, il criterio del dominio umano.

Secondo limite: le istituzioni di diritto naturale

Lo Stato sorge dalla comunità, dalla famiglia, dall’individuo. Questi dunque, famiglia ed individuo, sono anteriori logicamente e cronologicamente allo Stato. Non solo: essi sono posti, indipendentemente da quello, dalla legge di natura (si è visto), ossia dalla Volontà Divina. Da loro esistenza pertanto, la loro fisionomia, il complesso dei loro diritti, non sono più campo di arbitrio per parte dello Stato, che li deve rispettare. Essi costituiscono un limite per lo Stato, il quale non li può abolire, violare, manomettere, ridurre. – Il diritto di associazione fa parte del complesso dell’individuo sociale; lo Stato potrà, sì, moderarlo, ma non sopprimerlo. Tutte le libertà e tutti i diritti della persona e della famiglia potranno esser ulteriormente definiti dalla legge, ma non abrogati da quella. È proprio questo « limite » che assicura al mondo degli esseri razionali la sua bellezza e varietà, impedendo la riduzione di tutto al grigio denominatore comune. In realtà questo sopravvivere della persona e della famiglia nello Stato, impedisce che tutto diventi « numero », mentre mantiene inviolabili i volumi diversi da cui risulta l’architettura sociale. È con senso di liberazione che si pensa come lo Stato non può portar via i figli ai genitori, non metter il naso nelle faccende interne della famiglia, non stornar mariti, mogli e soprattutto la pace e la serenità domestica. Non è meno giocondo il saper che lo Stato non può ridurre il cittadino ad esser per sempre un militare mal riuscito od uno sguattero da coreografie o un eterno numero da comparsa, non gli può impedire di viver come crede, di iniziare ciò che vuole purché non contrario al bene comune, e, finalmente di associarsi, entro gli stessi limiti, con chi gli talenta. È soprattutto questo secondo « limite » che fa dello Stato una cosa umana, non spaventevole.

Il terzo limite: la complementarietà dello Stato

Lo Stato sorge — si è visto anche questo — perché  gli istinti sociali dell’uomo non sono esauriti e pienamente corrisposti nella famiglia. Sorge così per « compiere », ossia ha essenzialmente una funzione complementare\. In ciò sta un nuovo limite, perché il completare, esclude di natura sua il sostituire, lo schiacciare, l’asservire ed il distruggere. Sicché lo Stato non può fare nessuno di queste brutte cose. Ciò dal punto di vista negativo. Inoltre complementare include l’idea di « servizio reso » di « beneficio » di « dono ». Sicché — dal punto di vista positivo — lo Stato deve essere benefico, deve servire, deve esser paterno. E il dovere è sempre un limite alla propria indipendente iniziativa. – L’autorità deve avere il volto del padre. Complementare in che cosa? È facile vederlo: in tutto quello che l’individuo e la famiglia non possono avere da soli nel loro sviluppo, nei loro rapporti vicendevoli e colla società, nei loro doveri, nella necessità di concorrere equamente al bene comune coll’armonia della legge. Il completamento diviene secondo i casi: tutela giuridica, stimolo, iniziativa, assistenza, intervento paciere, moderazione dell’armonia, remora energica, necessario, moderato e ragionevole controllo, uso della potestà coattiva, condanna, amministrazione e cura del patrimonio comune. – Tutte le iniziative dello Stato debbono essere ispirate, giudicate ed, occorrendo, respinte da questo criterio. Lo Stato non può mirare alla guerra per la guerra, che questa, se non è dura necessità imposta, non completa nessuno e rovina tutti. – La complementarità dello Stato, toglie ad esso la fisionomia dell’odioso dominio, dell’asservimento a qualche utile privato, dello sfruttamento personalistico.

I poteri dello Stato

È proprio la complementarità dello Stato quella che ne determina le capacità. I diritti si estendono tanto quanto i doveri; lo Stato « può » dunque, tutto quello che occorre per adempiere quanto « deve ». In altri termini lo Stato ha i diritti che occorrono per provvedere al bene comune. Ciò che è soprattutto notevole, è il fatto per cui il diritto gli discende dalla sua complementarità, questa gli è donata dal diritto di natura, quindi da Dio. È dunque per diritto divino che lo Stato può procedere a quanto richiede il bene comune. In nome di esso, e soltanto quanto e per quanto esso lo richiede, lo Stato può limitare i diritti della persona e della famiglia, p. es. quello di dominio. È solo un diritto divino che può inibire un altro diritto parimenti divino. Qui si ha il principio per risolvere una grave questione. È possibile socializzare determinate industrie aggiudicandone la proprietà allo Stato, dopo averle sottratte ai privati cittadini? Se si tratta di trasferimento di proprietà effettuato nelle solite e legittime forme, niente da dire. Ma se si tratta di forzata sottrazione ed esclusiva gestione il giudizio è ben diverso; non è intatti consentito per sé allo Stato di limitare arbitrariamente diritti e di ridurre la capacità di iniziativa dei cittadini, imponendo settori proibiti ed inibiti a questi. Però tutto diventa lecito nella misura in cui è necessario per il bene comune. Non di più. Il rimedio è però estremamente pericoloso e se si intende combattere efficacemente l’esagerazione capitalistica è più saggio, finché si può, battere altre vie. Di queste si è a suo tempo parlato. Nessuno nega che in tempi ed in circostanze eccezionali occorrano rimedi parimenti eccezionali; ma questi non possono essere suggeriti da manie innovatrici, da sfoghi puramente reazionari o da cerebralità ingenue.

Questi limiti escludono il socialismo di Stato

Il socialismo di Stato può essere anche molto annacquato, ma mantiene più o meno il suggello d’origine. Nella sua applicazione pura lo Stato o chi per esso (con qualunque palliativo nome lo si chiami) viene ad assorbire un complesso di diritti che la legge naturale assegna alle persone individue, alle famiglie ed alle consociazioni minori: proprietà e gestione dei mezzi di produzione, iniziativa. Il tutto magari per sottrarlo a veri e presunti dilapidatori capitalistici. L’assorbimento di quei tre diritti implica l’incameramento logico o di altri diritti connessi, poiché l’uomo è troppo legato con i beni soggetti alla proprietà cui aspira, è troppo necessario ai mezzi della produzione che senza di esso sono inerti, è troppo competitore sul terreno dell’iniziativa. Rimane cioè, sia pure per opposte ragioni, così legato all’esercizio di quei tre diritti che ne è trascinato, sicché incamerati quelli è incamerato pur lui, ossia la sua persona, la sua dignità, la sua libertà. Ineluttabilmente. Con tale prestigiosa ingestione lo Stato diventa pletorico ed onnipotente a danno di coloro cui dovrebbe invece servire e con tutte le conseguenze che già abbiamo studiato nei capitoli sulla personalità e sul lavoro. Ma non meno chiaro è che in tal caso i tre limiti posti dalla natura al suo potere sono perfettamente violati. Il che equivale a dire che quei diritti appunto e la forza a loro derivante dall’altissima ed evidente origine lo condannano e lo escludono. – Tale asserto equivale ancora ad un altro: il socialismo di Stato è innaturale; innestato sull’uomo, che non cambia, entra in contrasto con lui e prima fa di questo una vittima; poi il logorio sotterraneo svuota lo Stato. La nostra età ha ormai assistito ad esuberanza al progressivo e già totale svuotarsi di regimi innaturali. Che in questa rispondenza alla natura sta il segreto di ogni solidità politica e sociale. – Ciò vale per il socialismo di Stato assoluto, ma non si creda di poter avallare gli annacquamenti, ossia le forme di socialismo moderato.

Le facili illusioni

Infatti i contemperamenti sono sempre più o meno dettati da ragioni estrinseche, mentre rimane il fondamentale motivo ispiratore. Il quale è il materialismo, negazione dell’anima umana e di quanto le è connesso: spiritualità, moralità, libertà. Per il materialismo l’uomo non è spirito, quindi non è persona, dato che la persona è l’autonomia razionale; non ha libertà perché la libertà è solo in una potenza spirituale. – L’uomo è sostanzialmente e semplicemente un tubo digerente. Nel socialismo temperato queste cose forse neppure si dicono, ma rimangono contenute sempre nel principio ispiratore. Di là possono sempre svolgersi, intese alle ultime e logiche conseguenze. Si parlerà di libertà e di proprietà, magari d’altre cose: il tutto si tollererà e concederà non per una ragione intrinseca, bensì in contraddizione colla logica dei principi e per un opportunismo politico o tattico. In realtà il socialismo tollerante è illogico. La facile illusione sta nel non vedere che cosa si nasconde sotto opportune ed abili manovre di adattamento, nelle quali si troverà modo di assicurare ai pavidi borghesi che la proprietà privata resta, agli uomini dabbene che la libertà è salva, ai creduli cattolici che la religione continua ad accogliere rispetto. Ma con tutto questo, si dica o non si dica in buona fede, lo Stato rimane un perenne attentato al diritto di natura ed alle sue istituzioni fondamentali.

4 – Giudizio sul comunismo

Il comunismo è l’estrema logica espressione del socialismo. Esso posto il suo principio materialistico deve negare coll’anima la persona, la sua autonomia la proprietà, la libertà, ogni elemento della vita spirituale, quindi la morale e la religione. Se su uno di questi punti finge di ritirarsi, mente a se stesso ed a più forte ragione mente agli altri. Che cosa se ne debba pensare di fronte alla coscienza umana e cristiana si è visto nei capitoli precedenti, in cui appunto furono dimostrati i valori che esso impugna. Si tratta di una dottrina filosofica negatrice dell’umanità, che per farsi accogliere si ammanta di umanità, coscrivendo sotto questa insegna la fede e l’entusiasmo di molti uomini onesti. Il comunismo ha una zona reale e profonda: è quella che abbiamo descritta or ora; un’altra superficiale ed è la volontà di stabilire la supremazia ed il benessere del proletariato. La povera gente crede a questa volontà di giustizia sociale e vi si affida, non avvertendo come invece si fa toglier la dignità e molto della possibilità di salire a situazioni migliori, succuba di uno Stato innaturale e poliziesco. Di questo e della logicità con cui s’arriva a questo si è detto nei capitoli sulla personalità, sul lavoro e sull’ordine giuridico. Qui dobbiamo fermarci su alcune gravi considerazioni.

L’applicazione storica del comunismo

Anzitutto il comunismo nel senso pieno non si è avverato mai, il che dimostra la sua natura utopistica ed irreale, poiché, dove il tentativo fu fatto, nulla mancò alla sua totale attuazione. Dove in qualche modo fu dichiaratamente assunto per norma di regime è già andato incontro a mutazioni e svuotamenti progressivi. Il cammino fu compiuto, da un certo punto in poi in senso abbastanza contrario alla sua totale realizzazione. Il che conferma il suo carattere di innaturalità. La proprietà è parzialmente rientrata, la politica religiosa e nazionalista ha subito variazioni, alcuni difetti dell’aborrito capitalismo (sperequazioni, favoritismi, ghenghe, accentramenti personalistici soprattutto) hanno fatto la ricomparsa; la guerra è divenuta una meta principale, il popolo, escluso in gran parte dal partito unico e dominante, è libero a parole, in realtà serve, senza alcun decoro della sua pretesa sovranità. I poveri con poche variazioni son rimasti poveri, i deboli vigliacchi, gli arruffoni e gli arrivisti si sono fatti strada, gli ossequi aulici a qualche gran personaggio hanno di gran lunga sorpassato le smancerie solite in tempi monarchici, le congiure di palazzo e le repressioni feroci hanno drammatizzato la stanchezza di situazioni false. Lo Stato comunista è diventato per necessità totalitario e poliziesco. Quelli che sotto etichette inverse hanno già fatto esperienza di totalitarismo e di polizia dovrebbero essere ormai ben edotti. La innaturalità o non consonanza colla obbiettiva natura è di per se legata (fu già dimostrato) con quei due effetti, avvenga essa sotto l’una o l’altra etichetta.

L’inganno del comunismo economico

Oggi si parla molto di puro comunismo economico. Attenzione: questo è il cavallo di Troia! Infatti: vorrebbe applicare i suoi sistemi unicamente nel settore economico, collettivizzando per regolare il flusso della ricchezza, inibire il capitalismo, assicurare una giustizia e soprattutto potenziare al massimo lo sviluppo dell’industria. Non si occuperebbe di vita privata, di coscienza, di famiglia e di religione. Ciò è vero a parole. Il fatto solo di accentrare mezzi di produzione e capacità finanziarie nelle mani dello Stato, strapperebbe alla persona umana una gran parte della sua iniziativa. L’operaio più che del salario ha bisogno di pensare che forse lui o i suoi figli potranno un giorno salire ad una condizione superiore. Sopprimere queste « superiori posizioni » è togliergli il respiro più necessario alla sua speranza ed alla sua gioia. Ma c’è ben altro. L’uomo è talmente legato e talmente necessario alla macchina economica, che quando questa è organizzata sia pur solo nel settore produttivo secondo i princìpi del puro socialismo, egli ne è travolto. Lo abbiamo già visto. Sicché il comunismo che con l’appellativo di « economico » sembrerebbe aver l’aria di non voler violare la persona, di fatto se la asserve e la asserve alla macchina, l’asserve al rigido principio della immutabilità del suo sistema sul quale veglia il plotone di esecuzione; finisce allora col combattere anche la Religione, che gliene contesta il dominio dell’anima e dell’intelligenza. – Gli elementi della vita sociale sono così connessi che, lasciandone uno solo nell’alone di una ideologia mala, trascina a poco a poco il rimanente nella sua stessa direzione. Quelli che pensano facile ed onesto compromesso l’accedere al puro comunismo economico nella speranza di salvare il rimanente, sbagliano. Dietro al comunismo economico verrà il totalitarismo. Ciò, lo ripetiamo, è logico. Questi sistemi sorgono sempre da un partito, mai dalla massa per generazione spontanea. Per riuscire hanno bisogno di un « conformismo » che è difficile. Ciò induce un sistema di rigidità esterna, magari di violenza e di terrore. Tutto deve essere cintato perché nessuno fugga. Ecco l’assorbimento totalitario. Quando decade, la linea della natura, non c’è che da sostituire la forza. È essenziale che tutti s’accorgano di questo sviluppo fatale. Col comunismo economico entra nelle città del mondo il comunismo più o meno integrale. Alla chetichella; come nel cavallo di Troia! De presentazioni raddolcite che fanno molti moderni comunisti devono essere riguardate o come una senilità del sistema che risente degli svuotamenti subiti in qualche esperienza, oppure vanno ritenuti una manovra preparatoria e subdola. Quali delle due interpretazioni sarà prevalentemente vera? Ci riesce molto difficile il dirlo. Con ciò abbiamo coscienza di aver valutato il comunismo economico sotto un aspetto solo. Certo si tratta dell’aspetto principale, di quello « umano » e « morale ». Una condanna in questa sede non ammette appello anche se vi fossero dei vantaggi dal punto di vista strettamente economico, poiché tra l’uomo-persona e le cose noi dobbiamo decisamente stare per l’uomo (vedi cap. II). Meglio questo salvo, che un accresciuto potenziale di industria. Ma è poi vero che il comunismo economico dà in questo settore economico un vantaggio? Nessuno vorrà negare che l’esperienza comunista abbia insegnato qualcosa di cui occorre tener conto. Ciò però non basta a far dare in sede economica un giudizio complessivamente buono sull’intero sistema. – Ammettiamo pure di non possedere, ora soprattutto nell’arrossata psicologia di guerra, tutti gli elementi statistici assoluti e soprattutto comparativi (è proprio il dato relativo che qui da troppi si dimentica) per emettere in merito dei giudizi dettagliati e perentori. È tuttora lecito dubitare del valore economico di questo sistema, pur riconoscendo qualche filone puro nella ghenga, e la possibilità di qualche maggiore immediato risultato in certe circostanze. Infatti la più che relativa riuscita del comunismo in economia è legata alla rigidità sociale per cui viene eliminato ogni attrito disturbatore, e per cui senza la iniziativa privata, si realizza la colossalità dell’impresa. Finalmente l’abolizione della concorrenza e, della « resistenza » privata nella stessa rigida disciplina rappresentano un minimizzare le dispersioni ed un accelerare l’organizzazione. – Riteniamo bene: eliminazioni di attriti, colossalità nell’impresa, abolizione di concorrenza e di resistenza privata, diminuzione delle dispersioni e celerità di organismo dipendono da un punto solo di cui bisogna valutare il prezzo di fronte alla resa: rigida, macchinosa ed assolutistica disciplina sociale. Prima di valutare il prezzo riconosciamo che qualunque economia non comunista potrà utilmente riflettere su tali elementi per cavarne utili ritocchi a se. – Ora valutiamo bene il prezzo con cui tutto questo si compera nel sistema comunista. La rigida disciplina, causa ultima e vera, significa la caserma imposta a tutto un popolo; forse la bella, ma ignobile caserma, la prigione,. Nessun uomo normale, nessun popolo, nella sua ordinaria vita e fuori del momento d’eccitazione misticoide, desidera o può desiderare una gabbia d’oro. Neppure gli uccelli la amano. Siamo al punto: si tratta di scegliere tra l’uomo e qualche ipotetico guadagno materiale. Il prezzo è troppo alto. E tuttavia è illusorio quello che si compera. Infatti: caserma, prigione, poiché l’uomo non muore mai definitivamente nel senso della sua dignità, libertà e felicità, significano in un secondo momento al più tardi la rivolta psicologica. La rivolta psicologica contrae la capacità, intossica, sclerotizza, avvelena proprio l’elemento dal quale, ad onta della colossalità della macchina, la macchina stessa trae il suo primo necessario potenziale: uomo. Allora la meravigliosa organizzazione, la sesquipedale struttura è colpita nei suoi organi e nei suoi tessuti costitutivi; il gigante possente dà segni di malessere, i suoi sbandamenti suscitano e subiscono reazioni politiche, rotazioni di mentalità, tremendi disagi ed infine arresti mortali o marasmi non meno fatali. – Se l’uomo d’addormentasse, quella macchina progredirebbe forse indisturbata; ma l’uomo non s’addormenta. Quando la grande macchina dai mirabili ingranaggi diventa sua nemica egli diventa il nemico della macchina. Nella lotta l’uomo è il più forte. In altri termini, se pur c’è qualche vantaggio economico nel comunismo, questo vantaggio è effimero, chimerico e fatalmente cozza contro una resistenza di natura che finisce col neutralizzarlo e trascinarlo in perdita. Il comunismo economico e tutti coloro che ne sono invasati fanno i conti senza l’oste. – Non basta ancora, sebbene gli elementi per la scelta risultino ormai evidenti. Fin qui abbiamo pur dato e non del tutto concesso, il qualche temporaneo valore della colossale macchina comunista, negli elementi cioè sopra enumerati. Ma è poi reale questo, anche ridotto valore, o non è piuttosto frutto di considerazioni unilaterali? Osserviamo: quei tali elementi rappresentano proprio un bene assoluto nel quadro complessivo del benessere umano e della civiltà? Non lo parrebbe. La eliminazione degli attriti non rappresenta forse anche la morte dell’iniziativa, della volontà costruttiva? Il mondo ha certo più bisogno di questa che di qualche fabbrica e di qualche magazzeno di più. La colossalità dell’impresa non può forse essere ottenuta diversamente (vedi ad esempio l’economia americana) senza schiacciare nessuno e, d’altra parte, è proprio desiderabile che in un mondo fatto di cose grandi e piccole, dove talvolta le piccole hanno più forza delle grandi, sia proprio tutto colossale? La natura sempre e solo colossale sarebbe estremamente brutta. Forse che l’uomo può sottrarsi a quella indicazione che lo incontrerà sempre fintantoché è uomo? Del resto la colossalità non è pane pei piccoli denti: è inutile parlarne come di cosa ordinaria pei paesi poveri, ai quali sarà sempre impossibile concorrere con la grande industria straniera. – La concorrenza può senza dubbio esagerare, ma non è forse uno dei più potenti stimoli umani alla azione, una dei più sicuri motivi dell’ingegno, una fatela, una legge di equilibrio? La concorrenza è in se stessa una, fremito di vita e, se val la pena dedicare una grande parte dell’industria per apportare un nuovo comodo alla vita, varrà anche più la pena sacrificarne qualche piccolo incremento per non strapparle il fremito della stessa vita. È questione di aver del mondo un’idea umana. Le « resistenze » private, se possono esser da una parte un peso, dall’altra significano il gioco di molte responsabilità, di molti ingegni, di molti interessi stimolanti l’azione. Se hanno come tutte le cose umane il loro lato meno brillante, sono esattamente l’opposto, di quella facile morta gora in cui agisce l’anonimo senza controllo, trionfa la burocrazia e può allignare l’incoscienza: cose tutte facili dove è responsabile soltanto lo Stato o qualcosa di simile. Ciò fa vedere essere ben problematico il parlar con serietà assoluta di diminuzione delle dispersioni e di celerità di organismo in un’economia comunista. È certo questo: che il polmone libero e senza pesi respira meglio e permette il fluire d’una vita più sana e più intensa. Le lodi che non possono essere tributate al comunismo economico per il suo fondamentale antagonismo al diritto di natura e per le fatalità sociali che seco porta, non pare gli possano essere rivolte seriamente neppure sul pretto terreno economico: appare esattamente il contrario. Quando la revisione di una tale esperienza storica potrà farsi con più serena informazione, tutto ciò — crediamo — apparirà in maggior luce. In fondo, a guardarci bene, l’economia comunista è uno sforzo da barbari, non una nobile equilibrata fatica da uomini, è un parossismo, non una civiltà. E questo basterebbe: l’interesse materiale vi è criterio e meta per tutto, sostituisce delittuosamente tutto: lo spirito vi muore. Le cose materiali non sorridono più. Ciò è tetro, è spaventevole!

Stato comunista e Cristianesimo

Questi due estremi sono inconciliabili. Nell’ordine dei princìpi il materialismo dell’uno, lo spiritualismo dell’altro scavano un abisso incolmabile. Nel campo delle applicazioni, magari più temperate, il riverbero dei princìpi mantiene non solo la diffidenza, ma pone ancora un antagonismo irriducibile. Il comunismo economico, a meno non sia talmente epurato da non rimaner più tale, sia a guardarlo come manovra preparatoria, sia a rilevarne i contrasti col diritto di natura, non può venire accettato dalla coscienza cattolica. Sappiamo che taluni suoi lati danno a qualcuno le vertigini; ma sappiamo altresì che in stato di vertigini si stravede e si sragiona. La utilizzazione dei buoni elementi messi in rilievo dall’esperienza comunista è altra questione, sulla quale ogni mente equilibrata mai avrà dubbi: il bene lo si prende dovunque lo si trova. – Non c’è dubbio che il sistema sociale economico del mondo e in modo speciale di talune nazioni subirà dopo l’immane conflitto rotazioni profonde. Ma è troppo corrivo il credere alla ineluttabilità del comunismo. Questa sarebbe una fuga precoce né seria, né onorevole. Ragioniamo. Il comunismo ha torto ed ha delle gravi crepe. Tutto sta che l’opinione pubblica, fuori di ogni incantesimo misticoide e d’ogni reazione forsennata, ne prenda cognizione, se ne investa in funzione critica. Osserviamo panoramicamente questo bilancio conclusivo.

Le grandi crepe dello Stato comunista

Non parliamo più delle grandi dottrine cattoliche sulla spiritualità, sulla personalità, sul diritto di natura, sulla proprietà, sulla società, dottrine che evidentemente condannano il comunismo. Ecco quello che ora ognun può vedere.

a) Il comunismo è innaturale. Ciò significa la posizione prima e poi disagiata con tutte le conseguenze di Stato poliziesco, repressione, ecc.

b) Il comunismo è tetro. Toglie la varietà al mondo, distrugge i piani cui può puntare l’ascesa ed i suoi sogni; per mantenere il suo apparato industriale deve sacrificare l’uomo e condannarlo a fare il collegiale per tutta la vita. Iniziativa, emulazione, audacia, come patrimonio di tutti, sono votati al decadimento ed alla morte. Il mondo dello spirito e le sue consolazioni sono chiusi al pari del cielo. La libertà deve sacrificarsi alla gran macchina.

c) Il comunismo essendo innaturale non può contare (come già fu detto) sulla cospirazione costante e libera delle volontà: diventa dunque di necessità totalitario, al fine di presidiare e inibire tutto, e poi assolutistico.

d) Il comunismo se lo si osserva bene è piuttosto una, e non felice, soluzione industriale che non una soluzione sociale, poiché l’uomo vi fa tutte le spese a vantaggio della gran macchina e non vi ha nessun guadagno. Ciò è evidente nella comparazione tra quello che al lavoratore dà Marx e quello che dà Cristo. Per Cristo il lavoratore ha tutto: giustizia, salario, personalità, amore, possibilità anche materialmente di ascendere a situazioni economiche e sociali migliori, tutela contro l’assolutismo e lo Stato anonimo; Marx al lavoratore in realtà toglie tutto, togliendogli l’anima e di conseguenza la libertà vera e la personalità, trasferendo il primato ad un ordinamento esteriore all’uomo, anche se è animato da pietà per il proletario. Per Cristo l’uomo è uomo; per Marx è semplicemente un tubo digerente, cui si deve dare del pane e verso il quale non si hanno obblighi di doni spirituali. In Cristo il lavoratore può avere una vita indipendente e può variarla; in Marx il lavoratore viene cristallizzato al servizio del proletariato e della sua macchina nell’obbedienza all’interesse di un tutto anonimo e panteistico. Per Cristo non è solo il lavoratore, c’è tutto il vario e fecondo respiro della civiltà; per Marx la società si riduce a questa monotonia esasperante, la monotonia della materia senza sorriso e senza vita. Cristo fa un mondo di cose profonde e di rispondenza profonda alle vibrazioni dell’anima umana; Marx fa un mondo superficiale dove l’anima neppure ha la cittadinanza. La bontà e l’amore esulano dalla macchina tetra e spaventevole mentre l’uomo li invoca soprattutto. Senza Dio, chi proteggerà il lavoratore contro lo Stato, contro la piovra di un’organizzazione che lo avvinghia, contro l’ideologia che lo riguarda un semplice pezzo di macchina? Il comunismo ha un dramma intimo e terribile. La sua idea è così quale l’abbiamo descritta, fredda, calcolatrice, atea, senza cuore, con una logica spaventosa; i suoi uomini, che rimangono tali, sono mossi spesso, forse nella maggior parte dei casi, da un sentimento umano ed onesto, buono e benefico in pieno contrasto con l’idea, illogico di fronte all’idea. Allorché questo prevale, si hanno le mostruosità fatte magari col cuore a pezzi e chiusi a forza in una ingessatura misticoide a difesa contro gli stessi umani sentimenti erompenti dall’anima; quando prevale l’umanità, in verità non è più il comunismo che agisce, ma un’altra cosa, rimane però l’inganno per cui ad esso si attribuisce il merito indebito. Questo dramma diventa così equivoco, che l’ignoranza e il pregiudizio spingono all’errore fatale. Il comunismo comunque lo si annacqui, riduce l’uomo a meno della metà e il mondo ad una questione di stomaco. Dio ha creato il mondo giardino, il comunismo lo fa deserto. Non è per questa via che si risolvono le ingiustizie; non è per questa via che il lavoratore avrà il suo bene.

Conclusione

Lo Stato ha pur esso una legge da Dio: essa sola lo preserva dall’ingiustizia; ha da Dio dei limiti, questi soli lo preservano dalla tirannia; ha nella verità sull’uomo e sulla vita illuminata in Cristo il senso giusto della sua finalità, quindi dei suoi doveri e dei suoi criteri. Lo Stato non è un automa, si concreta in uomini; come questi che lo gestiscono non può essere né agnostico, né scettico, né ladro, né peccatore. Come questi è debole ed ha bisogno della luce, del consiglio e, soprattutto, della grazia di Dio. Non è divino, non è infallibile, non è supremo, non è impassibile, non è immobile, è come tutte le cose umane una grandezza ed una miseria a seconda dei casi. La via della sua grandezza è quella per cui passò l’Unico che fu Grande: servire!

VI. – Rilievi e conclusioni

Ci siamo fin qui accompagnati meditando, coll’augusta parola del Messaggio papale 1942. A questo punto occorre rilevare, sottolineare, applicare, giacché la trattazione dei puri princìpi può talvolta far supporre si rimanga lontani dalla realtà. Ormai ci appare chiaro: il punto a cui bisogna rifarsi per giudicare, assumere, rigettare e costruire è la natura obbiettiva, il diritto naturale. Esso non è una opinione. Qualunque idea e sistemazione che urti contro questo criterio sarà sempre falsa, dannosa, effimera. È necessario volgersi all’uomo come è, al mondo come è, al flusso delle cose e dei rapporti come sono, senza pregiudizi, senza unilateralità, senza miopie e senza interessi particolaristici. Non è e non sarà mai questione di guardare al cielo se mai ne scenda qualche prodigioso segnale o a qualche grande uomo perché distilli i suoi personali elucubrati, ma semplicemente, piamente, umilmente ricercare l’indicazione che le cose, tutte le cose, in tutti gli aspetti danno. In questo occorre evitare soprattutto l’unilateralità; se io vedo un elemento e annullo gli altri la mia conclusione è falsa. Noi abbiamo visti parecchi dettami di questo diritto naturale, li abbiamo anche applicati. Naturalmente molti sono spinti a guardare ed a scegliere tra i diversi orientamenti politici e sociali che hanno avuto od hanno un’importanza storica. Il criterio per giudicarne è quello esposto sopra: sono accettabili in quanto hanno coerenza col diritto naturale obbiettivo; sono da condannarsi in quanto se ne allontanano. Misuriamo dunque su questo criterio. Le correnti liberali hanno eccellenti punti di vista, ma sono affette da manchevolezze gravi. Esse curano qualcosa e trascurano troppo. Dell’uomo e sue questioni l’interessano solo certi aspetti; per il rimanente, pur necessario e compromettente, pur salutare o fatale nel gioco dei fatti, non hanno sollecitudini e soluzioni. Di più peccano di eccessivo ottimismo: credono che le forze immanenti nell’economia, nelle masse agiscano da sé equilibrandosi ad un certo punto automaticamente (lasciar fare). Ora ciò è falso perché quelle forze non sono puramente tali per avere un percorso prestabilito e ragionevolmente finalistico; sono in gran parte libere e per questa libertà non possono dare mai un vero e serio affidamento di automatico equilibrio. In verità nulla va bene tra gli uomini lasciando vada da sé. Il peccato del liberalismo è di credere ad un uomo ed ad un mondo o ad una specie di ordine prestabilito che di fatto non esiste. Non è in regola, per questa parte, colla natura. Di qui i suoi numerosi guai e le sue fatali reazioni. Le correnti socialiste dalle più temperate alle più estreme sono già state lumeggiate: esse più o meno peccano contro la natura e contro il suo diritto, pur mescolando ai princìpi materialistici molti e degni propositi umanitari e pur convogliando spesso nei loro uomini eccellenti e rettissime energie morali. I termini « radicale » e « democratico » possono non avere alcun significato e possono essere sposati con tutti i significati accompagnandosi a tutta la gamma liberale e socialista. Non si giudicano quindi per sé, ma dall’epesegetico che vi è aggiunto, il quale li fa ricadere nel raggio delle tendenze suddette. Le tendenze nazionaliste esagerate, peccano contro il naturale senso di solidarietà che è in tutto il genere umano ed in genere poggiano sulla aggressività, sui sogni troppo grandiosi e sul fanatismo. Più che correnti sociali, sono politiche; anzi sono talmente tali, da dimenticare per lo più le questioni sociali e da pascersi più delle faccende esterne che non occuparsi delle esigenze intime. Sono più movimenti, che non correnti ideologiche. Per il loro tono prevalentemente agonistico, polemico e sognatore sono da guardarsi con diffidenza. Il nazionalismo giusto non è un partito, è una dote che ogni partito può avere e forse deve avere. Le correnti razziste partono talmente da un presupposto falso sulla pretesa diversità tra i popoli, hanno un principio così materialista, vantano una morale così invertita, da essere non per un solo motivo perfettamente innaturali. – Tutte queste correnti sono delle filosofie applicate alla vita, ossia sono delle interpretazioni soggettive applicate alla realtà. Ciò non ha senso come abbiamo già avvertito. In fondo tutti questi sistemi procedono così: io penso l’uomo e il mondo a questo modo e o agisco o organizzo di conseguenza o cambio l’uno e l’altro per ridurli secondo la mia idea. La prima conclusione è stolta perché se il mio modo di concepire le cose non combacia colla obbiettiva realtà io non faccio che un contrasto per lo meno inutile e forse rovinoso con quella. La seconda conclusione è anche più stolta: né l’uomo né il mondo si cambiano con l’artificio. Di filosofia applicata alla politica ed alla sociologia non ve ne può essere che una: quella del buon senso umano, quella intonata alla natura delle cose e a tutte le sue vere esigenze. La politica non deve creare il mondo lo deve semplicemente governare ed amministrare. Per questo solo logici dei partiti amministrativi, non sono affatto logici dei partiti a sfondo filosofico e con peregrine concezioni della vita. Per un popolo è sempre segno della più alta maturità il passare da questi a quelli. – Le vere soluzioni politiche e sociali si trovano — ormai lo sappiamo — nel solco del diritto di natura. Questo diritto di natura puro ed inviolato ha avuto un patrono ed un difensore integerrimo nel Cristianesimo, che l’ha assunto completamente, innalzandolo e completandolo con le massime della morale evangelica. Sicché, se le buone soluzioni possono essere, per sé, trovate anche fuori del Cristianesimo su una base naturale che è patrimonio comune, in pratica ciò è ben difficile oltre la dottrina sociale garantita dalla Tradizione cristiana. La soluzione va cercata qui. Il Papa nel suo Messaggio ce ne ha dato gli elementi. La eliminazione che di sua forza ci ha portato a questa conclusione va accettata e difesa con coraggio e con fiducia, integralmente. Non è detto che tutti i cattolici possano dirsi nella loro attività politica, interpreti sicuri e perfetti della tradizione sociale cristiana: lo saranno quanto più la loro azione sarà illuminata dal Magistero della Chiesa, dal pensiero teologico, filosofico e giuridico del Cristianesimo. La soluzione cristiana di cui sulla scorta del Messaggio papale, sono stati qui abbozzati gli elementi, è coerente alla natura, evita gli estremi unilaterali, salva l’uomo senza sacrificare alla sua dignità, né la società, né il progresso, né le giuste evoluzioni reclamate dai tempi. Per l’avvenire molti si affannano a stilare programmi. Non sarà inutile ricordare qui alcuni criteri. I programmi deducono i princìpi alle applicazioni ed ai dettagli, organizzando quelle e questi secondo una accorta rispondenza alle esigenze dei tempi.

a) Nessun dubbio quindi che vadano redatti con assoluta fedeltà ai princìpi. Ciò esclude nel modo più categorico che abbiano ad accogliere elementi dubbi e forse inconsiderati, unicamente per entrare in concorrenza con estremisti o per presentare offe simpatiche alle masse. No, i programmi debbono avere tanta sincerità quanta ne debbono avere gli uomini.

b) Per quello che toccano del campo tecnico, devono emergere dalle considerazioni condotte con metodo rigorosamente scientifico. Nella tecnica della finanza, dell’economia, della stessa questione sociale, nessuno si improvvisa e nulla è pili deleterio di chi dalla sua incompetenza stila direttive in merito. Bisogna anche avvertire che il dato puramente ed obbiettivamente tecnico è frutto, anche se è coscienzioso, di una considerazione particolare e va pertanto sempre illuminato ed eventualmente completato dall’universale prestanza dei grandi princìpi. Come non basta il puro teorico, neppur è sufficiente il puro tecnico: l’uno e l’altro possono essere per opposti motivi fuori della verità.

c) Quelli che studiano a comporre programmi devono ricordare che i tempi si legano e non si oppongono. È falso credere che o tutto il nuovo o tutto il vecchio sia perfettamente buono. Chi oggi credesse di non dover tener alcun conto né della esperienza comunista, né di quella opposta sarebbe lontano dal vero. Un quarto o un quinto di secolo non passano mai indarno ed anche i tentativi falliti contengono elementi preziosi ed utili. Un ritorno puro e semplice al passato costituirebbe un regresso. Le diverse esperienze sociali e politiche deh nostro secolo hanno sottolineato qualcosa, hanno messo in evidenza aspetti quasi ignorati, hanno prospettato metodi, espedienti e risorse che non possono venir senz’altro gettati via. Anche se non è giunta l’ora della serenità e quindi della visibilità perfetta per estrarre il filone d’oro dalla ghenga, è d’uopo mettersi onestamente al lavoro in questo senso, senza rispetti umani e con coraggio.

d) Il valore utile dei programmi è dato dalla intuizione con cui, degli elementi compatibili coi princìpi, sanno presentare chiaramente, brevemente e plasticamente quello che è insieme più importante, più rispondente alle condizioni psicologiche, più dettagliato, concreto, immediato ed attuabile. La rispondenza alla psicologia, ai bisogni; la semplicità intuitiva del mezzo per raggiungere un fine voluto, dà ragione del trionfo. Astruserie, lungaggini, elementi vaghi e generici sono la rovina dei programmi anche semplici per contenuto e per sante intenzioni. Un programma serio non può esimersi dal presentare i più gravi e semplici provvedimenti legislativi ed amministrativi che ha in postulato. Le grandi guerre lasciano tracce tremende. Quella che grava su di noi è frutto di una situazione immorale. È ingiusto si incolpino esclusivamente uomini e regimi: tutti gli uomini sono peccatori e colpevoli. Al fondo di ogni questione esaminata appare il suo nucleo morale. – La vera soluzione è la restaurazione di tutto in Cristo. È terribile la responsabilità di quelli che o lo portano agli uomini o sono un velo sulla Sua faccia sicché non sia visto! Un’altra volta la Chiesa deve curvarsi sulla civiltà nell’atteggiamento del buon Samaritano!

F I N E

IL SACRO CUORE DI GESÙ (39)

IL SACRO CUORE (39)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE SECONDA.

Spiegazioni dottrinali. (3)

CAPITOLO VII.

OGGETTO PER ESTENSIONE: L’INTERIORE DI GESÙ

Il cuore di Gesù, emblema del suo amore, ci ricorda, nello stesso tempo, tutto l’essere intimo di Gesù: la vita del suo cuore, le sue virtù, ecc. — Da qui viene una prima estensione della divozione.

Una prima serie di divergenze, nelle spiegazioni di alcuni autori, ci hanno permesso di meglio spiegarci i due elementi essenziali della divozione al sacro Cuore, l’amore e il cuore, il cuore amante e l’amore del cuore. Ma la questione si presenta ora sotto un altro aspetto. È l’amore o, almeno, è unicamente l’amore che pretendiamo onorare? – La questione è risolta, almeno in parte. Infatti, i documenti ci dimostrano chiara una cosa; che la divozione al sacro Cuore, cioè, si presenta, prima di tutto, come la divozione al cuore amante di Gesù, all’amore del sacro Cuore. I testi che abbiamo citato, lo dicono il più chiaramente possibile; e se ne potrebbero accumulare all’infinito, che ci ridirebbero sempre la stessa cosa. Ma ce sono altri — e spesso sono i documenti medesimi — che indicano pure altra cosa, come oggetto della divozione, che la estendono a tutta la vita intima di Gesù, qualche volta a tutta la sua persona, ai suoi lavori, alle sue sofferenze, alle sue virtù, ai suoi sentimenti, alla sua presenza eucaristica, a Gesù tutto intero, designato sotto il nome di sacro Cuore. Per rendersene conto, basta leggere un trattato sul sacro Cuore ed esaminare qualcuna delle pratiche in onor suo. – Nessuno, meglio del P. Galliffet, ha dato l’idea vera e precisa della divozione. Esaminiamo ciò che egli dice sull’eccellenza della divozione al sacro Cuore di Gesù. « Se ne deve giudicare, dic’egli, dal suo oggetto, dal suo fine, dagli atti e pratiche di virtù che contiene, dal frutto che produce ». E sviluppa questi quattro punti. Che cosa dice dell’oggetto? « È precisamente dall’oggetto che una divozione ritrae la sua eccellenza, come ne ritrae il vero carattere. L’oggetto di questa, è il Cuore di Gesù». Il P. Galliffet continua col considerare questo cuore in sé stesso (L, II, c. I, art. 2, p. 72), e constata l’eccellenza:

a) « delle proprietà naturali del cuore », b) della sua unione con l’anima più perfetta e eccellente che sia mai stata, c) della sua unione col Verbo eterno, d) della funzione divina per cui fu formato e che non è altro che ardere incessantemente delle fiamme più pure e più ardenti dell’amor divino, e) della santità che gli è propria, f) « delle virtù di cui è sorgente ». Tutte cose, si vede bene, che sono indubitatamente in rapporto col cuore. E s’intravvede che il P. Galliffet forza un poco questo rapporto, presentando il cuore come « la sorgente » delle virtù e dei sentimenti. L’autore studia, in seguito, il cuore di Gesù, in rapporto agli uomini. « Considerate, dice egli, che questo Cuore divino vi si presenta tutto infiammato dell’amore che vi porta e tutto pieno di quei generosi sentimenti di bontà a di misericordia, ai quali siete debitori della vostra redenzione, e ricordatevi che è questo medesimo Cuore che ha risentito, così vivamente, tutte le vostre miserie, che è stato così crudelmente afflitto dai vostri peccati, e nel quale si sono formati tanti desideri ardenti della vostra felicità. Ma consideratelo, soprattutto nei dolori sofferti, per amor vostro nella sua passione ». – Qui, senza dubbio, l’amore è messo in prima linea, ma per quanto l’autore s’inganni vedendo meno il simbolo che il principio, l’amore non è solo, in vista. Vi è, pertanto, qualche considerazione ancora più chiara. Riassumendo, alla fine del cap. IV, libro I, la sua dottrina, sull’oggetto della divozione al sacro Cuore per darne un’idea « netta e perfetta », il padre Galliffet dice: « Molti vi prendono inganno. Sentendo pronunziare questo sacro nome: Cuore di Gesù, limitano i loro pensieri al cuore materiale di Gesù Cristo; non riguardano questo Cuore divino che come un pezzo di carne, senza vita e senza sentimento, come farebbero, presso a poco, di una reliquia santa, ma tutta materiale. Ah! come l’idea che si deve avere di questo sacro Cuore, è differente, è ben altrimenti magnifica! ». – Egli vuol dunque che si consideri, da prima, « come cuore unito intimamente e indissolubilmente all’anima e alla persona adorabile di Gesù Cristo…, cuore pieno di vita, di sentimento e d’intelligenza ». In secondo luogo, « come l’organo principale e più nobile delle affezioni sensibili di Gesù Cristo, del suo amore, del suo zelo, della sua obbedienza, dei suoi desideri, dei suoi dolori, delle, sue gioie, delle sue tristezze; come il principio e la sede di queste medesime affezioni e di tutte le virtù dell’Uomo-Dio ». In terzo luogo, « come il centro di tutti i dolori interni che ha sofferto per la nostra salute, e di più come cuore ferito crudelmente dal colpo di lancia, che ricevé sulla croce; infine come santificato dai doni più preziosi dello Spirito Santo e per l’infusione di tutti i tesori di grazia di cui è capace ». – « Tutto questo, continua l’autore, appartiene realmente a questo Cuore divino; tutto questo forma parte dell’oggetto della divozione al Cuore di Gesù ». E, come se questo non fosse abbastanza chiaro, conclude: « Si consideri dunque questo composto mirabile che risulta del cuore di Gesù, dell’anima e della divinità che gli sono unite, dei doni e delle grazie che racchiude, delle virtù e degli affetti di cui è il principio e la sede, dei dolori interni di cui è il centro, della ferita che ricevé sulla croce; ecco l’oggetto completo, per così esprimermi, che si propone all’amore e all’adorazione dei fedeli » (loc. cit. pag. 53, 54). Si faccia pur grande quanto si vuole la parte ad una fisiologia inesatta, ciò non potrà mai niente, lo vedremo, contro la divozione. Non è forse vero che onesto oggetto, sì ampio e sì esteso, scaturisce naturalmente dalla definizione ricevuta: « il culto del cuore di carne come emblema dell’amore di Gesù per noi » ? E quello che dice il P. Galliffet vien ripetuto, quasi parola per parola, dai postulatori del 1765, in un passo da cui abbiamo già estratto un brano ripetuto da molti altri in termini equivalenti. Gli autori moderni sono più circospetti nella scelta delle loro espressioni, nel definire l’oggetto proprio della divozione. Ma quando, nei loro svolgimenti, sono meno circospetti, arrivano a dire lo stesso. E bisogna ben riconoscere che l’idea viva della divozione trabocca da ogni parte, per confermare questa formula del cuore come emblema d’amore, e va a ricercare nel cuore di Gesù tutta la vita intima di Dio fatto uomo, tutte le ricchezze nascoste nella sua umanità e, per parlare come i Sulpliziani, tutto « l’interiore di Gesù ». Si leggano le litanie del sacro Cuore e vi si troverà conferma di ciò. E fu così fin dal principio. Ecco come si esprime il P. de la Colombière nella sua spiegazione « della offerta al sacro Cuore di Gesù ». « Quest’offerta, egli dice, si fa per onorare questo Cuore divino, la sede di tutte le virtù, la sorgente d’ogni benedizione, il rifugio di tutte le anime sante. Le principali virtù che si vogliono onorare in lui sono: in primo luogo, un amore ardentissimo per Iddio, suo Padre, unito con un profondissimo rispetto e con la .più grande umiltà che fosse mai; in secondo luogo, una pazienza infinita; e, in terzo luogo, una compassione sensibilissima per le nostre miserie, ecc. ». « Questo Cuore è sempre animato, per quanto gli è conveniente di esserlo, dagli stessi sentimenti, e soprattutto sempre infiammato d’amore per gli uomini ». Si potrebbero citare mille pagine dello stesso genere nella beata Margherita Maria. Come spiegasi questa anomalia, questa specie di sproporzione fra la definizione e l’uso, fra la teoria e la realtà? Senza porsi di fronte esplicitamente alla questione, gli autori la risolvevano praticamente in due sensi. Dapprima cercando di riferire tutto all’amore intimo di Gesù. La sua vita affettiva, non è forse tutta amore? E le varietà di questa vita affettiva, che cosa sono se non lo stesso amore, diversificato secondo le condizioni dell’oggetto?  È quello che già aveva detto sant’Agostino; quello che hanno ripetuto san Tommaso, Bossuet e tutti i discepoli di questi grandi maestri. Quello che non è amore in Gesù, è però sempre sotto l’influenza dell’amore. Perché i suoi dolori? Egli ha amato. Che cosa sono i suoi miracoli? Effetti della sua bontà e del suo amore. Se san Tommaso concepisce tutti gli atti buoni dell’uomo retto come prodotti sotto l’impero dell’amore (egli intende però l’amore per Iddio), non si potrebbe forse dire che tutta la vita di Gesù si compendia nell’amore di Dio e nell’amore del prossimo? Tutta la sua vita non è stata forse per il prossimo, come per Iddio? Questo ci dà certo una bella idea della divozione al sacro Cuore. Bisogna convenire, pertanto, che questa idea non esaurisce tutte le ricchezze della divozione, come la troviamo negli scritti del P. Galliffet, (potrei ben dire in tutti quelli della beata Margherita Maria) e come pur la constatiamo nella pratica dei fedeli. – Pur essendo essenzialmente quale lo abbiamo definito, il culto del sacro Cuore va ancor più lungi. Si può e si deve concepirlo come la divozione all’amore del sacro Cuore per noi. Perché ne è ben questa la sostanza secondo la parola già citata di Pio VI. Ma va anche più lungi; essa è la divozione al cuore vivente di Gesù, perché considera il cuore di Gesù secondo le condizioni in cui ci troviamo a riguardo del cuore umano. – Il cuore è soprattutto l’emblema d’amore. Ma il cuore vivo e vero non è solo questo. Di qui viene che la divozione al cuore vivo e vero di Gesù non vi onora solamente l’amore. Tutta la nostra vita intima e profonda ha i suoi rapporti col cuore; i nostri sentimenti vi si ripercuotono; tutta la nostra vita affettiva vi trova come un centro di consonanza per il quale ci si manifesta sensibilmente (Si sa che l’amore di volontà, come tutti gli atti della vita spirituale, non ha organo materiale per parlare propriamente. Ma qui non si fa questione d’organo o di principio, si tratta di concorso e di risonanza. Ora si sa bene che anche l’amore spirituale, quando è veramente e primamente un amore umano, si riversa sulla parte sensibile dell’uomo; ha il suo contraccolpo nell’organismo). – Ora, la nostra vita affettiva e la nostra vita morale, sono strettamente unite, tanto da non potersi dire se sono distinte l’una dall’altra. Così il linguaggio corrente, che è espressione delle realtà profondamente sentite, collega col cuore tutta la vita morale e affettiva dell’uomo; le virtù come i sentimenti, il primo impulso all’azione e i moventi intimi. Non si arriva perfino a dire che i grandi pensieri vengono dal cuore, e che il cuore ha delle ragioni che la ragione stessa non conosce? Non è forse vero che, quando Pascal parla di « Dio sensibile al cuore », traduce una realtà profonda e che « Dio sensibile al cuore » è altra cosa che la conoscenza puramente astratta e fredda del filosofo? Gesù stesso non si è forse rivelato a noi come dolce e umile di cuore e non vediamo noi forse, in ciò, una manifestazione del suo sacro Cuore? Ma, si dirà, non si tratta forse qui del « cuore metaforico » contro il quale ci si metteva in guardia, allorché si definiva la divozione al sacro Cuore? No. È al cuore reale che va il nostro pensiero. E non solamente come simbolo dell’amore, come un’eco interna che rivela coi suoi palpiti la vita affettiva, ma in quel modo che l’uso popolare, fondato su di una esperienza vaga ma sicura, riferisce al cuore la nostra vita intima, di cui vediamo in esso il simbolo e l’espressione, nello stesso tempo che scorgiamo la ripercussione del nostro stato affettivo e delle nostre divozioni morali. – Prima estensione della nostra divozione. Estensione, come si vede, legittima e naturale non appena si concepisce la divozione come riferentesi al cuore vivo e vero di Gesù, per onorare in esso tutto quello che è, tutto quello che fa, tutto quello che ricorda e rappresenta allo spirito. Considerata da questo punto di vista la divozione al sacro Cuore, non è solo la divozione all’amore del Cuore di Gesù, ma essa diviene la divozione a tutta la vita interiore del Salvatore, in quanto che quanta vita ha nel cuore vivente un centro di ripercussione, un simbolo o un segno di richiamo. – Vi è pure un’altra idea della divozione, idea ugualmente naturale e consacrata del pari dall’uso e fondata sul linguaggio corrente. È il passaggio dal cuore alla intera persona.

VIII.

OGGETTO PER ESTENSIONE: LA PERSONA DI GESÙ

Nuova estensione del culto. — Come e in qual senso il cuore significa e riassume la persona.

È sempre la persona che si onora quando si onora il cuore; come è la persona che si onora quando le si bacia rispettosamenté la mano. È la condizione del culto; né v’ha bisogno d’insistervi qui. Pio VI ha fatto giustizia delle accuse formulate a questo riguardo dal Giansenismo, come se i fedeli, onorando il sacro Cuore di Gesù, l’onorassero facendo astrazione della sacra Persona del Verbo incarnato. Sino dai primi giorni della divozione, la dottrina fu molto chiara a questo riguardo. Abbiamo già veduto il P. Galliffet insistere sempre più sull’unione del cuore alla persona divina del culto del sacro Cuore. Si può, diceva egli, rivolgere a questo Cuore divino delle preghiere, degli atti, degli affetti, delle lodi, in una parola tutto quello che si può rivolgere alla persona stessa, poiché infatti è la persona unita al cuore che lo riceve realmente. – Margherita Maria aveva già detto, con una perfetta chiarezza, che Gesù si compiaceva molto di essere onorato sotto la figura di questo cuore di carne. Il culto, in questo caso non è d’altronde puramente relativo, come quello che si rende a una immagine, come quello, pur anco, che si rende alla vera croce; perché il cuore fa parte della persona e ha in sé la dignità della persona di cui fa parte. Basta ricordare queste nozioni, perché non vi ha nulla in questo che sia proprio al culto che esaminiamo. La stessa cosa si applica in special modo al culto delle cinque piaghe, di cui una ci riconduce al cuor di Gesù. Che cosa è infatti, diceva il cardinale Gerdil (Animadversiones, § I, Opere t. V, p. 174, Napoli 1855), che cosa è la piaga del cuore, senonché il cuore piagato? Ma nella divozione al sacro Cuore, così come è accettata nella Chiesa, si trova un passaggio speciale dal cuore alla persona, che merita attenzione. Col trascurare di farne oggetto di nota: si confondono qualche volta le nozioni, e non si sa più come spiegare né il linguaggio della beata Margherita Maria, né il movimento del culto. Nel linguaggio abituale, la parola cuore è usata spesso per una figura che i grammatici chiamano sinedoche per disegnare una persona si dice: « È un gran cuore, è un buon cuore », per dire: È una grande, è una bell’anima. E quando diciamo: « Che cuore »! è la persona che designiamo direttamente, non è già il suo cuore. Ciò avviene, naturalmente, nella divozione al sacro Cuore. Margherita dice: Questo sacro Cuore, come direbbe: Gesù. Nei due casi, ella ha in vista direttamente la persona. E l’uso è divenuto ormai familiare di designare Gesù col nome di sacro Cuore. Non già, notiamole bene, che i due nomi siano sinonimi. Non si può dire, indifferentemente Gesù o sacro Cuore. Non si designa sempre la persona per il suo cuore. Per farlo bisogna avere in vista la persona nella sua vita affettiva e morale, nel suo intimo, nel suo carattere, nei principi della sua condotta. L’idea del cuore non sparisce, ma domina la frase; il cuore non designa la persona che sotto gli aspetti rappresentati dal cuore. Ma questo passaggio dal cuore alla persona, questo riguardar la persona nel cuore, dà alla divozione un andamento più libero, una importanza maggiore. Di qui segue che il sacro Cuore mi ricorda Gesù in tutta la sua vita affettiva e morale, l’interiore di Gesù, amabile e amante, Gesù modello e virtù. La vita di Nostro Signore può così concentrarsi tutta sul cuore: in tutti i suoi stati posso studiare quanto vi ha di più profondo, di più intimo, di più personale. Gesù si riassume tutto e si esprime nel sacro Cuore, attirando sotto questo simbolo espressivo il nostro sguardo e il nostro cuore sul suo Cuore e sulla sua amabilità. Gesù non è forse, in tutto e per tutto, amantissimo e amabilissimo? E Gesù non è forse tutto cuore? Eravamo già arrivati a constatare ciò per altra via, per quella del simbolo e della cooperazione del cuore alla vita affettiva di Gesù. Ma ora ci troviamo più a nostro agio nella divozione, grazie a questa specie di comunicazione d’idiomi fra ciò che conviene al cuore e quel che conviene alla persona stessa di Gesù riguardata in ciò che ha di più profondo e di più personale. Che cosa è per noi una statua del sacro Cuore ? Una statua nella quale Gesù, mostrandoci il suo cuore, cerca tradurre ai nostri sguardi tutta la sua vita intima, la sua amabilità e soprattutto il suo amore. – Grazie a questa nuova estensione, possiamo descrivere la divozione al sacro Cuore come la divozione a Gesù che si rivela a noi rivelandoci il suo cuore, nella sua vita intima e nei suoi sentimenti più personali, che, infine, non ci ripetono che amore e amabilità. Questa divozione, se così posso esprimermi, ci scopre il fondo di Gesù. Non è già che il cuore sparisca in questa nuova accettazione. È la persona stessa di Gesù che ce la dischiude, ripetendoci, come già alla beata Margherita Maria: « Ecco questo cuore ». E noi riguardando il cuore che ci viene dischiuso dinanzi, impariamo a conoscere la persona nel suo fondo. Così tutto Gesù si riassume nel sacro Cuore, come tutto il resto, secondo i divini disegni, si riassume in Gesù (Cf. RENÉ DU BOUAYS DE LA BÉGASSIÈRE, Notre culte catholique français du sacre Cœur, p. 7, Lyon 1901).

IX.

UN CARATTERE DISTINTIVO. L’AMORE MISCONOSCIUTO

L’idea dell’amore misconosciuto e oltraggiato. — Il suo posto nella divozione.

La divozione al sacro Cuore è dunque soprattutto la divozione all’amore, all’amabilità di Gesù, la divozione a Gesù così amabile e così amante. Si può ben dire che tutto è là, e che tutto viene di là. Ma vi è un tratto che la divozione mette in tal special rilievo e che le dà il suo carattere particolarmente commovente. Gesù non si accontenta di mostrare il suo cuore ferito d’amore, con la sua tenerezza squisita, con la sua generosità, che va « sino a esaurirsi e consumarsi per dimostrar loro (agli uomini) il suo amore ». Ci mostra pure questo amore misconosciuto, oltraggiato da quelli stessi da cui aveva maggior diritto di aspettarsi la corrispondenza e che per vocazione avrebbero dovuto amarlo di più. Dopo aver detto: « Ecco questo cuore che ha tanto amato gli uomini ». aggiunse: « E per riconoscenza, non ricevo, dalla maggior parte, che della ingratitudine, e con le loro irriverenze e i loro sacrilegi, con la freddezza, il disprezzo che hanno per me in questo sacramento d’amore. Ma quello che mi è ancor più sensibile, è che vi siano dei cuori a me consacrati che agiscon così » (Mémoire nella Vìe et Oeuvres, t. II, p. 355, 2.» edizione, p. 413; G. n. 92, p. 102). Commentando queste parole il P. Galliffet scrive: « Bisogna osservare ancora un punto essenziale della natura della nostra divozione, ed è che l’amore da cui è infiammato il suo divin Cuore deve essere considerato come un amore disprezzato e offeso dall’ingratitudine degli uomini…. Il Cuore di Gesù Cristo deve esser dunque considerato qui sotto due rapporti: da una parte come infiammato d’amore per gli uomini; dall’altra come offeso crudelmente dall’ingratitudine di questi uomini stessi. Questi due motivi, uniti insieme, devono produrre in noi due sentimenti ugualmente essenziali alla divozione verso questo sacro Cuore: cioè, un amore che risponda al suo e un dolore che ci muova a riparare le ingiurie che si son fatte dalla durezza degli uomini » (T. I, cap. IV, P . 43). Il primo grido della divozione al sacro Cuore è: Quale amore! Il secondo : L’amore non è amato! È  questo che spiegano a lungo i postulatori del 1765: « Bisogna notare, dicono essi, che il sacro Cuore deve essere considerato sotto due aspetti; dapprima come traboccante d’amore per gli uomini…. ; poi come crudelmente ferito dall’ingratitudine degli uomini, satollato d’oltraggi e reso degno così non solo del nostro amore, ma della nostra compassione pur anco » ( Memorie n. 34, 38; NILLSE, t. I, p. 117, 120). – Gesù non soffre più; non può più soffrire, ma l’oltraggio, da parte degli uomini, non è meno reale; essi farebbero tutto quello che dipenderebbe da loro per farlo soffrire, se per la sua condizione attuale non fosse al sicuro dei loro colpi! V ha ancor di più ; tutti questi oltraggi piombarono veramente sul suo cuore ; Egli ne soffrì, quant’era possibile soffrire. Nella sua passione, non risenti solo le ingiurie dei Giudei e dei Romani; non seppe solo dell’ingratitudine dei suoi concittadini e dell’abbandono dei suoi amici. L’avvenire e il passato ebbero il contraccolpo nei suoi dolori e vi si concentrarono. Se dunque Gesù non soffre più nel presente, ha però sofferto del presente; e i fedeli non hanno torto di rappresentarselo sofferente, perché ha veramente sofferto per le offese del presente. Senza contare che ci è sempre permesso di trasportarci nel passato per compatire Gesù, poiché l’avvenire d’allora è il presente d’oggi. È possibile che qualche volta il modo di esprimere di tutto ciò non sia rigorosamente esatto. Ma è ben certo che l’esattezza dell’espressione potrebbe correggersi senza toglier nulla alla verità profonda delle cose e all’impressione che devono produrre. È sempre vero, in ogni modo, che la beata Margherita Maria ha veduto il sacro Cuore coronato di spine e sormontato dalla croce, e lo ha spiegato molto bene vedendovi il segno di una grande realtà: « Era circondato, il sacro Cuore da una corona di spine, a significare le punture che i nostri peccati gli facevano, e aveva una croce al disopra a significare che, non appena questo sacro Cuore fu formato, vi fu piantata la croce » (Lettres inédites, IV, p. 141; riveduto su G. CXXXIII, p. 567). La Chiesa conosce bene queste maniere psicologiche di sopprimere il tempo e lo spazio; la sua liturgia è piena di questi riflessi della eternità divina proiettati sul nostro mondo passeggiero e incostante. – Queste spiegazioni erano necessarie per far comprendere come la divozione al sacro Cuore può rappresentarci Gesù oltraggiato. Ma questo rapporto del presente con la passione non è la sola, né  probabilmente la principale ragione dello stretto rapporto che esiste tra la devozione al sacro Cuore e il ricordo dei dolori di Gesù.

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (4)

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO

GIUSEPPE SIRI

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (4)

2. Edizione – EDITRICE A. V. E. ROMA – 1943

IV. – L’ordine giuridico

Pio XII ha nel Messaggio natalizio una singolare insistenza allorché tratta dell’ordine giuridico. Quest’osservazione è doveroso farla a proposito dei messaggi precedenti. Essa costituisce un motivo molto forte, perché studiamo con accuratezza l’ordine giuridico ed indaghiamo quanto è possibile la ragione profonda di quella insistenza. Si ha, anche prima di ogni esame, l’impressione e forse l’intuizione, che qui si contenga l’indicazione suprema per il retto ordinamento interno degli stati e per la garanzia degli altri elementi studiati: personalità e lavoro. Vedremo se impressione superficiale e giudizio a ragion veduta coincidano.

1. – Il pensiero del Papa su l’ordine giuridico

Per rimanere ancorati ad una guida sicura è giusto esponiamo anzitutto i punti salienti del Messaggio a proposito dell’ordine giuridico. Ne diamo un prospetto, che per maggiore perspicuità condensiamo in sette punti.

Sette punti

I. — « Chi vuole che la stella della pace spunti e si fermi sulla vita sociale, collabori ad una profonda reintegrazione dell’ordine giuridico».

2 . — « II risanamento di questa situazione diventa possibile a ottenersi quando si ridesti la coscienza di un ordinamento giuridico riposante nel sommo dominio di Dio e custodita da ogni arbitrio umano ».

3. — « Le ultime, profonde, lapidarie fondamentali norme della società (diritto di natura) non possono essere intaccate da intervento di ingegno umano… si potranno… mai abrogare con efficacia giuridica ».

4. — Per questo, anche se « mutano le condizioni dì vita… non si dà mai manco assoluto, né perfetta discontinuità tra il diritto di ieri e quello di oggi », poiché « lo scopo di ogni vita sociale resta identico, sacro, obbligatorio ».

5. — « I legislatori (si tratta qui dunque del diritto positivo) si asterranno dal seguire quelle pericolose teorie e prassi infauste alla comunità ed alla sua coesione le quali traggono la loro origine e diffusione da una serie di postulati erronei ». Questi sono: « il positivismo giuridico…, la concezione la quale rivendica a particolari nazioni o stirpi o classi l’istinto giuridico quale ultimo imperativo e inappellabile norma, …le ideologie… che s’accordano nel considerare lo Stato o un ceto che lo rappresenti, come entità assoluta e suprema, esente da controllo e da critica, anche quando i suoi postulati teorici e pratici sboccano e urtano nell’aperta negazione di dati essenziali della coscienza umana e cristiana ».

6. — Lo Stato « ha la responsabilità di fronte all’Eterno giudice »; non è quindi l’ultima sorgente del diritto.

7. — L’ordine giuridico suppone « nel tribunale.:., chiare norme giuridiche che non possano essere stravolte con abusivi richiami ad un supposto sentimento popolare e con mere ragioni di utilità; riconoscimento del principio che anche lo Stato e i funzionari e le organizzazioni da esso dipendenti sono obbligati alla riparazione o al ritiro di misure lesive della libertà, della proprietà, dell’onore, dell’avanzamento e della salute dei singoli . … Scopo dell’ordine giuridico non è dominare ma servire, tendere a sviluppare ed accrescere »

Ristretto dei sette punti

Cerchiamo ora di arrivare ad una espressione più schematica del pensiero del Papa. Essa permette una visione molto più limpida ed utile. È condannato l’arbitrio nel fare, nel disfare, nell’applicare la legge, nel derogarvi. La evasione dall’arbitrio è legata all’imporsi di una coscienza morale nella società. Il diritto naturale è intoccabile da qualsiasi autorità umana, che è tenuta a seguir certe fondamentali direttive: anche nel diritto positivo, sicché mai sia « pro lege voluntas ». – Le norme giuridiche non possono esser formulate su ideologie balzane, unilaterali ed arbitrarie che è come dire su favole. Di fronte alla legge tutti sono uguali e nelle debite proporzioni tanto i cittadini che l’autorità sono tenuti all’ordine giuridico. – In breve, l’ordine giuridico ha tre caratteristiche:

a) è superiore a tutti poiché il legislatore stesso se è superiore alla legge da sé fatta è però tenuto dall’insieme dell’ordine giuridico, ossia, nella debita proporzione, gli è suddito.

b) è continuo, perché basandosi sul diritto di natura ha una continuità pari à quella della natura, sì da emettere evoluzioni accidentali, ma non mutamenti sostanziali di fisionomia; sì da escludere un comportamento a reazioni, improvvisazioni, strattoni, sbalzelloni.

c) è universale perché tutto ne è sostenuto, ordinato, purificato, garantito.

2. – Che cosa è l’ordine giuridico

Non è possibile capire il pensiero del Papa senza rendersi conto della natura, complessità e logica interna dell’ordine giuridico. Tanto più se si vuol giungere a spiegare la singolare insistenza di questo accortissimo appello alla sua restaurazione.

Idea di ordine giuridico

Astrattamente considerato l’ordine giuridico è il complesso di doveri e diritti, quindi di norme espresse da leggi; più in breve è il sistema delle leggi che ordinano la comunità umana. Esso sorge da questo fatto: che la persona deve fare, deve dare, può esigere. Le leggi che lo impongono hanno una doppia provenienza: quelle fondamentali sono espresse dalla natura (diritto naturale), quelle di ulteriore precisazione sono formulate ed imposte dall’autorità legittima (diritto positivo). Le seconde completano nell’adattamento e nel dettaglio le prime. Insomma l’ordine giuridico sta nella « legge ». – Ma in concreto, per essere cioè attuale ed efficace, l’ordine giuridico coinvolge diversi altri elementi:

1) Il senso giuridico. Si tratta di un cimento che sta nella mente e nella coscienza degli uomini singoli e nell’abito mentale della massa. È fatto dell’intuizione intorno al valore che le cose hanno sotto l’aspetto di diritto e di dovere, di bene e di male; contiene il discernimento e, soprattutto, la stima sul valore della legge e la coscienza della sua obbligazione morale. Senza questo senso giuridico è più o meno inutile esistano leggi. Esso è come l’anima ed il criterio dell’ordine giuridico. Senza la coscienza della legge, la legge muore.

2) I mezzi per redigere, applicare la legge e giudicare della sua osservanza, difenderla contro le lesioni. Appaiono qui gli uomini investiti di autorità legislativa, esecutiva, giudiziaria, ossia i capi, gli ufficiali dello Stato e la magistratura con quanto essa suppone e richiede (polizia, tribunali, corpi armati, luoghi di pena, etc.). Se portiamo l’ordine giuridico dal piano nazionale a quello internazionale questi « mezzi » prendono modalità e varietà speciali.

3) Le condizioni della legge. Essa deve essere veramente norma direttiva chiara; deve essere conformata secondo le esigenze della retta ragione, non può quindi peccare contro l’intima armonia delle cose e il buon senso; deve esser per il bene comune, anche se il suo soggetto è qualche persona particolare; deve esser promulgata debitamente da chi ha l’autorità legittima, quindi diversi elementi, che sono insieme costitutivi della legge e sue condizioni, definiscono lo « spirito » nel quale essa va concepita e rispettata. – Che cosa sia il bene comune — norma della legge — è definito dalla natura stessa e dal complesso di umane esigenze, di costumi normali e rette aspirazioni che la rivelano; ha quindi una presentazione obbiettiva, non è oggetto di arbitrio. Se questo spirito fosse pervertito, se molti credessero alla legge irrazionale e al gesto di puro arbitrio, se il bene comune fosse definibile nella sua sostanza a capriccio, a seconda dei gusti e delle tesi interessate, che cosa si salverebbe dell’ordine giuridico? Nient’altro che l’apparenza. Con ciò s’arriva a vedere che l’ordine giuridico ha l’ultimo suo appoggio in una chiarezza e sodezza profonda di idee sane, provate, dimostrate, umane, ispirate, al pretto buon senso. Ossia: l’ordine giuridico suppone una normalità morale nel pensiero e nel costume. – Le considerazioni che seguono possono essere riguardate come indicazioni d’altri elementi effettivi dell’ordine giuridico in concreto.

La sorgente dell’ordine giuridico

Il centro dell’ordine giuridico è la legge. La sorgente di quello è dunque la sorgente di questa. Donde deriva la legge? Per il diritto naturale — ce ne siamo già occupati — la risposta è ovvia: sorgente è Dio, mezzo rivelatore la natura. Ma, e per il diritto positivo? Sono gli uomini. – Donde traggono essi il potere di fare la legge? Ancora: dal diritto di natura in quanto questo esige e pone famiglia, società, autorità. La sorgente ultima della legge in quanto norma obbligante, anche nel diritto positivo, è Dio. – Vedremo tra poco non potersi dare altra concezione per sostenere la legge. Essa vi acquista una maestà potente e serena.

L’obbligazione morale e l’ordine giuridico

La dote più interessante della legge — anche la più necessaria — è che essa genera una obbligazione di coscienza. L’ordine giuridico è essenzialmente poggiato su questo mondo interiore, su questo vincolo profondo Senza di esso non esisterebbe un vero ordine giuridico, ma solo un ordine meccanico, coattivo. Tutti vedono che nell’ordine giuridico si parla all’intelletto e alla volontà, nei quali soltanto ha senso il diritto e il dovere; esso spinge cioè ad un piano morale, impone ed ottiene ordinariamente per una via che non è quella della mozione meccanica e della costrizione violenta. – Che è questa obbligazione morale di coscienza senza della quale è praticamente nullo l’ordine giuridico? Essa è un vincolo indeclinabile, morale e non fisico, che esige l’obbedienza al di fuori di qualsiasi controllo e sanzione esterna. È essa un puro fatto psicologico od è una realtà? Nel primo caso si riduce a qualcosa di immanente di cui la persona può essere l’arbitra: bisognerebbe trattarla come una malattia, una fisima. Nel secondo caso, per esser cioè qualcosa di veramente obbligante, chiama in causa una Realtà esterna e trascendente. – Vediamo meglio di che è composta questa obbligazione morale nell’anima dell’uomo. C’è la percezione forte di una Superiorità della quale non ci si sottrae. Tale Superiorità è sentita presente, profonda, capace di imporsi; soprattutto è sentita nell’intimo, per quanto perfettamente distinta. Sentirsi vincolato suppone sempre una « alterità ». Questa Superiorità potente, presente, attingente l’intimo forte, che solo così crea il senso dell’obbligazione, se è reale, è solo Dio. Se non si può pensare a Dio e non è reale ma chimerica, non meno chimerica è l’obbligazione di coscienza; crolla tutto l’ordine giuridico. Chiunque comanda, se non appella a Dio, deve contare per l’ubbidienza o sulla debolezza, o sulla ignoranza, o sulla suggestione, o sulla vigliaccheria, o su tutte queste cose insieme.

Caratteristiche dell’ordine giuridico

L’ordine giuridico vive di un mondo interiore più ancora che del mondo esterno, e questo s’appoggia a Dio. L’ordine giuridico o ha una base religiosa o è una servitù imposta agli uomini. L’ordine giuridico ha per centro la legge, per questo ne mutua in qualche modo le caratteristiche. La legge, anche umana, è riflesso della legge Eterna che è Dio; per questo, in una forma certo solo analogica ossia limitata e parziale, ne mutua alcuni tratti solenni. La legge, nel suo nucleo naturale, è immutabile, come è immutabile l’ordine divino. Anche la legge positiva è di per sé perpetua. La legge è universale: in ciò sta l’esser uguale per tutti. La legge ha qualcosa di trascendente in quanto è oltre le persone e tutti i privati interessi, come quella che si appoggia all’autorità derivata da Dio e solo serve al bene comune. Ancorata a sostegni solenni, essa acquista una maestà che ispira a tutto l’ordine giuridico un senso di contegno, di misura e di responsabilità, avvolgendolo in un grave e criteriato riserbo.  La legge, per la sua distinzione tra naturale e positiva, ha, colla immutabilità della prima e colla contingenza della seconda la possibilità di una rotazione e di un adattamento nella continuità: non quindi effimera e neppur vitrea. Può servire tutti i tempi senza staccarli violentemente l’uno dall’altro. Per le sue gravi caratteristiche la legge non si improvvisa mai; per la sua universalità ha bisogno di adattarsi a tutti, quindi di sorgere (allorché è positiva) da tutta l’intelligenza, tutta la ponderazione, tutta l’onestà, tutta l’esperienza; per la sua stabilità esclude l’abuso del semplice provvedimento, del decreto legge, non va ad esperimenti, a strattoni, a sbalzelloni; per il suo stesso valore non può essere moltiplicata e spinta alla faciloneria pletorica, tomba della serietà, dell’utilità e del prestigio. In antagonismo si leva la visione di un ordinamento in cui il senso giuridico rimane per forma, mentre è svuotato nella sostanza; in cui tutto è tentativo, estro, arbitrio, frenesia e finalmente rovina. L’ordinamento giuridico si raccoglie invece in linee interiori austere; difende e si difende dalle brillanti false e fatali incrostazioni di fantasie sbrigliate, tese all’irrazionale, al soggettivo, al chimerico e, più facilmente, al morboso. La storia contemporanea è in grado di documentare tristemente la verità di tutto questo.

3. – Nell’ordine giuridico sta la soluzione dei gravi problemi

L’abbiamo già detto: il reiterato, accorato appello del Papa in favore dell’ordine giuridico non è solo un’accentuazione da giurista. Anche se non tutto è detto esplicitamente, questo costante puntare il dito verso quella parte, ha il preciso valore di indicare qualcosa di grande, non solo, ma di indicare che in seno all’ordine giuridico va ricercato il vero principio equilibratore della vita interna nazionale. Ci pare che in questo gesto stia forse il punto saliente dell’intero Messaggio. E non si tratta solamente di un gesto, perché l’analisi così profonda delle qualità dell’ordine giuridico contiene precise indicazioni sui frutti; questi a lor volta costituiscono una intera concezione teorica e pratica del compaginamento sociale e politico. Pur essendo netto in questo concetto centrale, il pensiero del Papa — per ben ovvie ragioni — è molto discreto. Esso vuole affermare senza condannare; la verità non vuol sopprimere la paternità. Sicché il dettaglio, la determinazione ultima di questa indicazione possente è lasciata all’esegesi dell’attento ed intelligente ascoltatore. Le considerazioni che seguono sono in ordine ad applicare con pienezza il pensiero del Papa, nonché ad appoggiare veramente l’importanza centrale che Egli annette all’ordine giuridico.

Il problema politico dei nostri tempi

Problema politico è quello sul come reggere la società moderna, questa specie di ragazzo in genere indisciplinato e qualche volta contumace, torbido, lazzarone e falso. Reggere, comandare, anche per chi agogna al potere, non è davvero un gioco. Anche se la si vuol riguardare come un carro lussuoso pei propri trionfi, questa insidiosa compagine può sempre esser minata, travolgere, schiacciare. Un tempo, sotto questo punto di vista, il problema politico era meno grave, meno penoso e più circoscritto. Minori, più difficili, più frammentari, meno complessi i rapporti fra gli uomini, era troppo arduo si stringessero in fascio temibile le forze della irragionevolezza e della anarchia. I veicoli conducenti l’errore, la sobillazione, il contagio, il male esempio erano più ridotti ed incomparabilmente più lenti. La scienza di organizzazione ed orchestrazione delle manifestazioni civili e soprattutto della buona fede, della mala fede, della ignoranza, della anormalità, della vigliaccheria e della cretineria, in fondo non esisteva. C’è altro. Se stabiliamo un confronto tra il nostro secolo e, ad esempio, il secolo antecedente, dobbiamo pur rilevare che il costume morale è declinato e che il processo di disorganizzazione del pensiero e della vita, iniziato dall’umanesimo pagano e della pseudo-riforma protestante, ha fatto notevoli progressi coi bei risultati che ognun vede. Il senso cristiano insegnava una forza interiore (e la sussidiava coi suoi mezzi soprannaturali), nella quale soltanto erano contenute concupiscenze di orgoglio ed egoismo di sensualità, che dilagando poi nel costume privato e pubblico sovvertono profondamente e l’uno e l’altro. Nei quali, la magniloquenza farisaica e la retorica vuota servono niente più e niente meno del Kantiano imperativo categorico. Gli animi sono aperti sinistramente a tutte le sobillazioni del proprio comodo; subiscono il fascino della divisione, dell’antagonismo, del chimerico e dello strano per spingere il tutto alla passionalità partigiana e reazionaria. Tutti gli errori del passato ribollono nei sotterranei del mondo come fenomeni di un sinistro plutonismo, che può ad ogni momento innalzare pennacchi di fumo e rovesciare lapilli e lave. Le tossine del peccato portano la maledizione di una spaventosa setticemia. È il marasma senile di una vita superbamente costruita nella vantata oblivione dei diritti eterni e del soprannaturale dono di Cristo. I bubboni di quella invecchiata ed avvelenata costruzione si chiamano: odio, guerra, morte. La sola scienza esalta e non calma; la tecnica esaspera e non lenisce; noi al 1943 possiamo dire che le più audaci esperienze, quelle che ebbero tutto favorevole per tutto fare, sono ormai o di fatto o potenzialmente svuotate dopo (alla più lunga) un quarto di secolo. La Russia che non fu mai veramente quella di Marx, non è più quella di Lenin e forse neppure più quella di Stalin. Quanto agli altri esperimenti… la cosa è anche più evidente. Su questo straordinario dato di fatto, che ha il potere di far tremare le più ardite chimere e i più audaci sogni, è d’uopo si fermino le intelligenze, per considerare con verità ed onestà. – Questo stato di cose è nel mondo intero, ma accentua i suoi effetti rovinosi là ove è minore la maturità politica e dove lo stesso temperamento è più incline alle manifestazioni irriflessive e torbide. Il tutto, sarà potenziato dalla sensibilità che segue alle guerre e ai dolori immani, sensibilità esasperata, ammalata, capricciosa, estrosa, incontrollabile. Questa è la vera impostazione de’ problema politico del domani. È con un sentimento indecifrabile, ma nel quale fa capolino l’apprensione e l’incredulità, che si guarda ai futuri responsabili dei poteri. Essi si chiederanno: ma come possiamo contenere nell’ordine e nella ragionevole evoluzione il popolo; come affrontiamo una simile marea; come dominare tanti istinti scatenati?

Guardare all’ordine giuridico

Il problema politico permane grave. Ma per quanto possa esser di tale gravità non sarà mai un rimedio serio ed efficace, ricorrere a violazioni della natura. Essa si vendica. La socialità è insita per natura negli uomini; essa ha istinti il cui punto di incontro è formato dalla convivenza civile. Questa a sua volta ha da essi fisionomia ben definita: deve completare l’uomo e deve fondere tra loro gli uomini. Una soluzione del problema politico che riduca anziché completare, che metta l’uomo contro l’uomo anziché unire, è soluzione innaturale, violenta, effimera, fatale. – Rimane una via: la soluzione del problema politico, occorre cercarla in ciò che è naturale, ossia nei mezzi che la società ha naturalmente. Tale lapalissiano principio è evidente e semplice quanto la fatale esperienza del suo contrario. Non farò mai vivere un uomo se gli dico: togliti il tuo polmone, quello che t’ha dato natura; che io te ne dono uno brevettato d’acciaio. Certi sistemi sono dipinti esattamente in questa immagine. Ma la società vive solo con polmoni naturali. Quali dunque sono gli elementi naturali, i primi e forse i soli, nei quali la società può sperar di risolvere il suo terribile problema politico? La società è cospirazione di uomini liberi; essa poggia dunque sugli elementi per cui uomini liberi s’uniscono tra loro. Tali sono l’autorità, i diritti, i doveri, la cui azione si sviluppa anzitutto e soprattutto mediante intelletto e volontà, cioè per via « morale ». Tutti gli altri elementi organizzativi sono l’appoggio materiale dell’autorità dei diritti e dei doveri. Ma: autorità da cui emana la legge positiva ed in cui si dettaglia quella naturale, diritti e doveri creati, fissati e tutelati dalla legge, costituiscono appunto l’ordine giuridico. – Sicché la risoluzione del problema politico, tanto quanto va cercata nell’ambito della natura e fuori dell’artificio, altrettanto si inquadra nell’ordine giuridico. Che significa ciò in pratica? L’ordine giuridico in concreto l’abbiam descritto sopra: esso comprende anche tutti i mezzi e tutti gli strumenti della legge. La risoluzione naturale del problema politico sta nel trasferire all’ordine giuridico, legge e suoi elementi sussidiari, quella stima, quella fiducia, quella potenza, quel valore che si è cercato di dare allo Stato nello Stato, ecc. Ciò significa:

1. Invece dell’esaltazione di ideologie misticoidi, creare il senso morale e il rispetto della legge.

2. Dare alla ponderata, legittima e cosciente elaborazione della legge, quanto si può tentar di demandare a iniziative personali, subitanee, incontrollate.

3. Trasferire il processo delle giuste e necessarie notazioni dalla incomposta dinamica di partito all’uso della serena ed universale opinione pubblica in quanto può esser informatrice ed ispiratrice della legge e, più ancora, agli organi tecnici, rappresentativi, legislativi, in una severità che escluda precipitazioni, personalismi e avventure.

4. Riportare l’incombenza di sorvegliare e tutelare l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato, ai pubblici ed onesti mezzi, agli organi di polizia che agiscono nella sfera della legge e nel fondamentale rispetto dei cittadini, senza alcuna violenza al loro pensiero, alla loro coscienza ed alla loro dignità.

5. Riportare l’azione dei cittadini sul terreno del chiaro e rispettato uso dei loro onesti diritti, attraverso gli organi definiti dalla legge; al di fuori degli abusi di gerarchia, di partito, di espediente traverso, di sopraffazione occulta, di asservimento di enti sociali o sedicenti tali, a privati interessi, di delazione e, soprattutto, fuori dell’aborrito costume di ricattare in politica colla calunnia, la mistificazione e la violenza.

6. Riportare tutta la responsabilità delle azioni giudiziarie alla legittima magistratura, che agisca nella luce della legge e non negli oscuri corridoi di partito.

7. Trasferire, quando occorra, per l’ordine e il risanamento del contegno sociale, ogni forza coattiva, ogni missione energica, da qualsiasi formazione militare partigiana all’esercito o comunque a rappresentanti armati del pubblico potere, perfettamente apolitici.

8. Potenziare nella loro funzione, magari aumentandoli ove occorra, tutti questi organi agenti nell’orbita della legge. Essi rispondono a tutte le esigenze e sono in grado di liberarsi dalle fatali debolezze. Insomma la fiducia e la forza deve essere trasferita da questa parte, ove non si contamina di interesse passionale e personalistico, ove, nella severa dignità della legge tutto rimane intento al bene comune. Il mondo non vive di spettacoli e neppur di vicende or comiche or tragiche, ma sempre altisonanti. Ritrova sempre nelle vecchie risorse il farmaco della sua vecchiaia.

Applicazioni

C’è senza dubbio il bisogno di una evoluzione: l’economia non è sana, la situazione sociale non è giusta. Sono tre i modi nei quali può attuarsi la onesta e seria evoluzione: uno Stato nello Stato, la rivoluzione, ossia la piazza, l’ordine giuridico. Il primo finisce coll’essere di necessità una negazione del bene comune. Come è possibile attui efficacemente e durevolmente una evoluzione verso il miglior bene comune? Il secondo è violento. La violenza dà sfogo alla passione e non alla ragione; simpatizza più con le allucinazioni che con le larghe e sicure visioni; è per natura sua unilaterale, sì da infilare con facilità vicoli ciechi; ama più distruggere che costruire, più l’avventura che il metodo; è guidata dall’odio misticoide e si esaurisce in stanchezze di cui beneficiano i profittatori, gli arrivisti e i tiranni. Ordinare il mondo è frutto di intelligenza e di moralità, non dei colpi di forza. La storia dimostra che se le rivoluzioni possono accelerare la fine di situazioni cattive, a conti fatti, lavorano molto più in perdita che in guadagno. Come tutte le cose cui manca il senno, la rivoluzione è sempre bestiale. La piazza poi non esprime mai il bisogno e il pensiero del popolo; del popolo, che è tale quando sta a casa sua tra sollecitudini e affetti domestici, al lavoro tra l’emulazione e il godimento dei frutti sudati, nell’ordinaria serenità dell’esistenza, nella lucidità del sano criterio e del buon senso. La piazza esprime solo l’accozzaglia che non ragiona, che si guida coll’istinto, anzi coi peggiori istinti e che è supinamente guidata da tribuni e, più ancora, da occulti diabolici mestatori. La piazza è feconda di vittime, non di leggi. – Quello che passa attraverso i mezzi descritti fin qui, vi assorbe il personalismo, l’interesse privato, l’impeto irragionevole, la partigianeria. Con tutto ciò non si fa né società né civiltà. Per una giusta evoluzione non rimane che l’ordine giuridico. In esso le mutazioni avvengono colla legge, non coll’arbitrio e gli incomposti strattoni dello zelo inconsiderato e della precipitazione; la legge a sua volta sorge da una trafila di forze intellettuali concorrenti ed organizzate, che via via limitano l’errore, le sconvenienze e filtrano gli interessi particolari, i personalismi. La legge diviene ferrea norma, oltre ogni discussione ed iniziativa privata, della magistratura e degli ufficiali dello Stato. Essa ha una procedura anche nella sua applicazione, tale da far sbollire gli impeti e ridurre al minimo l’errore sulle circostanze di fatto. Essa ha, per la sua impersonalità, la calma necessaria a discernere, conciliare i diritti e, nel caso di evoluzione, liquidare il passato senza ingiustizie, inutili amarezze e troppo violenti trapassi. – Non si comprende che l’incarico delicatissimo del bene comune, della tutela del diritto, ossia degli uomini, debba esser affidato a specie di comitati sorti dalla strada, a conventicole di fanatici, a clubs ove in fondo non si fa differenza tra il divertimento ed il gioco politico, a piccoli ras dalla voce tonante e dalla nessuna competenza, con i caratteri della occasionalità, dell’estro, della mutazione e della spensieratezza. In questi sistemi possono esserci persone degne e di buona fede, ma l’ambiente è generalmente più forte di loro e delle loro buone intenzioni, appunto perché è « ambiente », fatto di persone e di cose anonime, senza un filtro delle passioni umane, sufficientemente spersonalizzato e preso da incantesimi misticoidi. L’ordine giuridico è obbiettivo, non soggettivo nel senso che, per la sua fisionomia, agisce oltre l’interesse personale.

L’ordine giuridico e la evoluzione del domani

Dopo la guerra ci sarà trisma di popoli, rotazione di mentalità, trauma psichico. Tutto ciò aggiunto alla dolorosa maturazione di molte esperienze nel periodo pre-bellico e bellico significa evoluzione della società. È infantile pensare che si sarà al punto di prima. Questa evoluzione deve venir assolutamente sottratta alle passioni, all’ignoranza, all’imbroglio e all’avventura. Essa dovrà colpire i nuclei che sono la vera causa della esagerazione capitalistica. Alcuni dei nuclei visibili, forse i principali, stanno o in leggi superate o in carenza di leggi. Facciamo un esempio. La società anonima è un capolavoro se la si considera dal punto di vista puramente economico: ha una fungibilità meravigliosa. Non è altrettanto dal punto di vista sociale per una ragione molto semplice: al possessore del cinquantuno per cento delle azioni aggiudica la capacità di manovra del cento per cento. È uno squilibrio, fonte principale degli accentramenti. Il domani dovrà preoccuparsi di questa riforma legislativa, che tolga anche i più lontani intralci alla giustizia sociale. L’eventuale partecipazione temperata agli utili, intesa come elemento della stessa giustizia sociale, le modalità di contributi per dare al lavoro quanto ha il diritto di attendersi, dovranno essere fissati per via legislativa. Lo stesso dicasi per nuove forme di cooperativa, di condominio, di iniziativa, nonché per tutte le provvidenze atte a garantire una più fluida circolazione della ricchezza. Da sistemazione di tutti questi punti su cui si attuerà l’evoluzione può esser fatta a calci o in modo umano. Farla a strattoni, senza filtri di ponderazione, in balia dell’entusiasmo accordandole a «Movimenti » più o meno disciplinati mentalmente, è farla a calci. Il mondo non si governa così. – Il « modo umano » è quello della esperienza, della ponderazione, della riprova e, infine, della verità e giustizia secondo la disciplina della logica e nella tutela degli interessi personali: è quello insomma dell’ordine giuridico. – Gli stadi dell’evoluzione potrebbero temporaneamente esigere che certe attività industriali vengano sottratte alla iniziativa ed all’interesse privato: ciò non potrà avvenire per imposizioni di forza e reazioni tribunizie. Anche qui dobbiamo partire dal principio purtroppo dimenticato, che è l’ordine quello che salva le istituzioni. Ora la misura in tali provvedimenti, si ha quando tutto passa attraverso il filtro dell’ordine giuridico. In tale ipotesi quello che è fatto per legge è sacro, quello che è sacro per legge è nel dominio pubblico; è esso, non il favoritismo di parte, il criterio per giudicare; è in esso che è possibile appellare, protestare, insorgere senza dover rimaner schiacciati sotto il tenebroso maglio di forze cieche e di tirannie inafferrabili. È solo nell’ordine giuridico inviolato che rimane questa chiarezza, questa possibilità e libertà di appello, questa capacità di difesa, e lo è solo in esso poiché solo esso è completo e impersonale. La caratteristica di qualunque ordine giuridico è che l’azione dei cittadini non ha né norme, né diritti inderogabili. Solo l’ordine giuridico, persino fosse inquinato da leggi inique, ha la capacità di mettere un « limite », giacché l’iniquità legale dovrebbe sempre essere fatta legalmente, dovrebbe essere in grado di giustificare il proprio operato e urto ciò è ben altra cosa dal puro arbitrio. – L’ordine giuridico è tutt’altro che ripugnante colle evoluzioni razionali; solo garantisce ad esse di non venir trasformate in pazzia ed in strumenti di tirannia. La partecipazione agli utili, il controllo sulle sorgenti della ricchezza, magari qualche onesta remora messa in tali sorgenti allo scopo di far defluire li benessere in modo più giusto, sono altrettante questioni degne di studio ed alle quali, per i motivi ormai ripetuti, si può dare soluzione degna solo in sede di ordine giuridico.

Conclusione

Guardiamo in scorcio questo grande ordine giuridico. L’analisi condotta fin qui lo permette agevolmente. L’ordine giuridico è (quanto ciò può venir realizzato nelle cose umane) esente di per sé dallo spirito di parte, dall’interesse particolare, dal pregiudizio soggettivo, dalla foga sentimentale e passionale, dalla sbrigativa contingenza degli estri; è quindi il solo capace di tutelare adeguatamente il bene comune, senza del quale non esiste la società umana. – L’ordine giuridico, basato come è completamente su chiare norme legislative escludendo ogni altro rimedio d’arbitrio e di fortuna, stabilisce dei punti fermi, dei confini definiti e irremovibili alla libertà e al dovere. Permette quindi ad ogni uomo di sapere quanto può e quanto non deve, senza improvvisi arresti, senza contraddizioni, senza imboscate e ricatti. Dà, in questa certezza dei propri margini, la possibilità di disporre di sé nel vero spirito sociale; dà insomma il respiro alla dignità dell’uomo libero eppur sottomesso alle leggi. Dove l’ordine giuridico non impera, non si sa mai quello che si deve, poiché per una superficiale esigenza possono valer nulla tutti i codici e può essere invece spaventevole dovere l’ossequio al più sciocco ed inconfondibile capriccio dell’ultimo uomo investito di qualche autorità. L’ordine giuridico per il suo procedimento « filtrato » nel fare ed applicare la legge, per la fermezza che gli deriva dalla sua impersonalità sta tra due estremi di prudenza e di forza che gli permettono di non dover chiedere cento per aver uno, di non dover spaventare e terrorizzare; che gli permettono insomma di essere discreto. Ossia: non esagera. – La discrezione dell’ordine giuridico è degna d’essere attentamente considerata. Equivale alla negazione di una autorità vera e rabbiosa, in quanto lascia il ragionevole e non esagerato margine alla persona ed alle istituzioni, perché liberamente dispongano di sé, possano legittimamente reagire, difendersi e porre quegli atti, che, senza ingiuria al diritto, evitino il cristallizzarsi di situazioni sorpassate e preparino le necessarie e giuste rotazioni di cose. La discrezione dell’ordine giuridico lascia il passaggio per cui non si è in prigione, ma si può reagire alle eventuali corruzioni dell’ordine stesso. È per questi che solo un regime impregnato di ordine giuridico può curarsi radicalmente e ringiovanire senza tragedie, guerre e rivoluzioni. È per questo che solo nel vero ordine giuridico si evita la cristallizzazione senza cadere in dinamismi forsennati e deleteri. È per questo che se un regime ha degli errori, è basato magari su ideologie imperfette, ma ha e mantiene sano ad ogni costo l’ordine giuridico, può ancora raddrizzarsi, convertirsi e salvarsi. – Riteniamo che tutte queste considerazioni possono far intendere perché il Papa abbia richiamato con tanta forza l’attenzione del mondo sull’ordine giuridico. Bisogna uscire dalla teatrale mentalità che per ordinare lo « Stato » occorra proprio trovare qualcosa di estremamente nuovo, estremamente originale, estremamente strano. La cosa che si deve ordinare — il mondo — è assai vecchia, ha tutti i suoi vecchi costumi, ma ha pure mi vecchio tesoro sempre nuovo, cui occorre attingere: il patrimonio di luce naturale, che il Creatore gli ha rimesso in dotazione allorché l’ha fatto.

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (5)

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (3)

GREGORIO XVII: – IL MAGISTERO IMPEDITO

GIUSEPPE SIRI

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (3)

2. Edizione, EDITRICE A. V. E. ROMA – 1943

III. –  Il lavoro

Non è possibile staccare il concetto del lavoro da quello della personalità. Ciò per due motivi fondamentali. Anzitutto: perdendo di vista la persona che genera di per sé il diritto di proprietà, come s’è visto al capitolo precedente, il lavoro può apparire come l’unica sorgente della proprietà stessa, l’unico titolo per aver diritto a vivere. Il che è falso, non solo perché  i diritti personali sono anteriori al lavoro, ma perché questo equivarrebbe ad affermare un mondo meccanico, materialistico e senz’anima. Si vede qui dove abbia origine la celebre affermazione: essa parte dalla misconoscenza della personalità. – In secondo luogo il lavoro, anche agli effetti del salario, il trattamento adeguato al lavoratore non potrà mai esser valutato con verità e giustizia se non su questo criterio: il lavoratore è persona. Fuori di questo punto di vista la questione del salario è — a voler esser logici — la questione del quanto di biada da darsi al cavallo o all’asino.

1. – Il pensiero del Papa sui problemi del lavoro

Ecco i punti salienti dedicati al lavoro nel Messaggio papale:

a) Il lavoro è « il mezzo indispensabile al dominio del mondo, voluto da Dio per la sua gloria (fine immediato o relativo e fine ultimo o assoluto). Ogni lavoro possiede una dignità inalienabile e in pari tempo un intimo legame col perfezionamento della persona ».

b) Dalla « nobiltà morale del lavoro » derivano « conseguenze pratiche. Queste esigenze comprendono OLTRE un salario giusto, sufficiente alle necessità dell’operaio e della famiglia, la conservazione ed il perfezionamento di un ordine sociale che renda possibile una sicura se pur modesta proprietà privata a tutti i ceti del popolo, favorisca una formazione superiore per i figli delle classi operaie particolarmente dotati di intelligenza e di buon volere, promuova l’attività pratica dello spirito sociale nel vicinato, nel paese, nella provincia, nel popolo e nella nazione, che mitigando i contrasti di interesse e di classe, toglie agli operai il sentimento della segregazione con l’esperienza confortante di una solidarietà genuinamente umana e cristianamente fraterna ».

c) « Il progresso e il grado delle riforme sociali improrogabili dipende dalla potenza economica delle singole nazioni ». Ma oltre questo si impone « uno scambio di forze intelligente e operoso tra forti e deboli » in modo si abbia a compiere « una pacificazione universale ». Questo è un chiaro richiamo alla necessità di risolvere le questioni del lavoro anche cogli accordi internazionali, in quanto solo una certa omogeneità può garantire efficacia ed evitare pericolosi sbilanci.

d) « L’operaio…. non venga condannato ad una dipendenza e servitù economica, inconciliabile con i suoi diritti di persona. Che questa servitù derivi dal prepotere del capitale privato o dal potere dello stato, l’effetto non muta, anzi sotto la pressione di uno stato che tutto domina e regola l’intera vita pubblica e privata, penetrando fino nel canapo delle concezioni e persuasioni della coscienza, questa mancanza di libertà può avere conseguenze ancora più gravose come l’esperienza manifesta e testimonia ». Con ciò è ben chiara una cosa: l’economia del socialismo di stato non favorisce l’operaio, bensì lo deprime e lo degrada.

e) Oggi, nel mondo operaio « è calma apparente ». Analizzando accuratamente tutto il Messaggio nella questione che riguarda il lavoro, un punto emerge: i problemi del lavoro non investono semplicemente delle bocche da sfamare, ma tutto l’uomo con tutti i suoi diritti. Anche qui il pensiero del Santo Padre dà indicazioni ben gravi sulle quali è necessario riflettere e che occorre sviluppare.

2. – L’idea del lavoro

Quest’idea diventa piena, vigorosa e umana nel Messaggio papale. Vediamolo.

Il lavoro non è solo uno sforzo cerebrale e muscolare (concezione materialistica), ma è attuazione di una persona, è mezzo al dominio del mondo, è perfezionamento del lavoratore, è base — non unica e non prima — di una serie di diritti, i quali ne fanno elemento cosciente, operante e rispettabile della compagine sociale. Il lavoro ha una finalità immediata e trascendente nella gloria di Dio. Pertanto esso non fa parte solo di un ordine economico, ma ed a più forte ragione, di un ordine morale ed eterno. Così non è solo oggetto di considerazioni economiche, ma è oggetto di considerazioni morali ed umane. Il lavoratore non è solo una cosa che produce e consuma, ma un uomo completo che vive ed ha diritto di vivere. Non tutto del lavoro si traduce con delle cifre; il più trascende la materiale aridità delle cifre. Questo è il concetto umano del lavoro. Tale considerazione adeguata (complessiva) di tutta la realtà dell’uomo. Da tale concetto umano discendono importanti conseguenze:

a) Il lavoro non è una pura espressione materiale valutabile al par delle pietre o dell’energia elettrica; esso ha qualcosa di più, precisamente quanto gli deriva dalla dignità spirituale della persona. Non è quindi una pura « merce », né può esser soltanto soggetto ad un computo di resa materiale.

b) Di conseguenza — e cioè per la presenza di un elemento trascendente la materia — il lavoro umano non può essere considerato dal solo punto di vista utilitario. Tale punto di vista è l’espressione economica del concetto materialistico del lavoro. Sicché non è possibile imporre indefinitamente taglie e sforzi al lavoro col puro intento di ottenere di più. Esiste un limite che è segnato dai diritti della persona reclamato dall’umanità.

c) Non può allora tollerarsi il lavoro che abbrutisca l’uomo. Neppure è morale un’idea di lavoro in cui l’uomo sia semplice strumento.

d) Non è l’uomo per il lavoro, ma è il lavoro per l’uomo ed il suo perfezionamento. Il criterio a giudicare del trattamento non può essere unicamente l’incremento della produzione e del guadagno: tale criterio va contemperato — e quanto! — col criterio dell’umanità. – È ovvio che tutto il concetto umano del lavoro dipende dall’idea dignitosa della persona umana. Il senso cristiano accoglie ed eleva quel concetto, dopo averlo strenuamente difeso: gli mette accanto la dolce figura del Cristo lavoratore, per cui la redenzione del mondo e la sua fecondità si lega al lavoro, lo nobilita con un’umiltà che ha tutto e solo il fastigio della verità; lo impreziosisce coll’amore; gli dona una capacità nuova ed universale per la dottrina del merito e della comunione dei Santi; lo attrae in una vita interiore dai fulgori intensi e dalle indefinite possibilità. –

Il concetto materialistico del lavoro

Di contro all’idea umana e cristiana del lavoro, sta quella materialistica. Non c’è soffio d’anima nell’uomo, non c’è dignità corrispondente nel lavoro, al quale rimane d’esser misurato in questi due soli parametri: sforzo e resa. – Gli uomini che parlano da tale angolo di visuale sono o incoscienti o ipocriti quando elogiano il lavoro e ne fanno l’apologia. Esso non è diverso dal lavoro dei muli, dei buoi o degli animali abilmente ammaestrati. Se riescono a parlare del lavoro in modo attraente, ciò è perché dinnanzi alla reazione spontanea degli uomini, capiscono di dover pel momento non manifestare l’ispirazione materialistica, di doverla invece orpellare. Ma si dovrebbe pur essere logici: perché aver per gli uomini più attenzioni di quante se ne abbiano ai muli ed ai buoi, se in fondo il loro lavoro è considerato alla pari del lavoro di questi? È vero però che là differenza si salva nelle parole: in realtà il trattamento che le concezioni e i regimi materialistici fanno al lavoratore, si salva dalla crudeltà unicamente per la forza della paura. Le conseguenze del concetto materialistico del lavoro sono chiare. – L’organizzazione scientifica del lavoro in cui F. W. Taylor fu un grande teorico, nelle conclusioni e nelle applicazioni di molti diventò tutt’insieme una caccia all’uomo e un maglio persecutorio per la vessazione e la distruzione della persona umana. L’America diede l’esempio: qualcuno imitò anche in Italia. Nella concezione materialistica del lavoro la massa operaia finisce con l’essere una massa da manovra; qualora le esigenze industriali lo imponessero, il lavoro non conoscerebbe più né regole di umanità, né trattamento di giustizia. Poiché il freno è rappresentato solo dall’interesse, dalla convenienza, dalla paura. E tutti sanno che i deboli hanno poco da fidarsi di tali protezioni. – Le due concezioni morali del lavoro stanno di fronte: sono due mondi inconciliabili, la prima vuole l’uomo nobilitato nel lavoro, la seconda non sa che farsi dell’uomo e vuole solamente il lavoro. Nella seconda tutto fatalmente si oscura, salute, diritti, famiglia, dignità, libertà, perché una mostruosa elezione ha scelto l’utile, puramente l’utile. – La questione sociale in fondo si riduce a tutto questo. Il marxismo o rinnega i suoi principi materialistici o deve ricadere in teoria ed in pratica nella concezione materialistica del lavoro, la quale, anche se si parla di benessere del popolo, strappa al popolo l’unica vera, solida e costante ragione per cui deve essere trattato bene; e non vede nell’uomo in fondo qualcosa da retribuirsi oltre lo sforzo fisico e null’altro da rispettarsi che i diritti, del suo stomaco e del suo corpo. Si cerca di mascherare la dura realtà d’una concezione materialistica del lavoro con molti eufemismi e con discorsi sviati, ma è necessario accorgersi per tempo del giocO.

Conclusioni dal concetto cristiano di lavoro

Posto che nel lavoro c’è l’aspetto materiale più quello, ben maggiore, derivante dalla realtà e dignità della persona umana, si hanno alcune conseguenze:

a) Il salario va proporzionato oltre che allo sforzo ed al rendimento anche ai bisogni della persona.

b) Oltre il salario, altri diritti vanno riconosciuti alla persona dell’operaio, il quale col suo lavoro non solo provvede alle necessità, ma è parte viva dell’organismo sociale. Vedremo subito e meglio il valore di queste conclusioni.

c) Sorgente del diritto dell’operaio è allora non solo il lavoro, ma ancora e più la personalità sua. Ciò che basta a dimostrare non essere unico titolo giuridico per la proprietà il lavoro, come taluni si affannano a vociare; aversi bensì degli altri titoli contenuti nell’autonomia della persona (occupazione, accessione, ecc.). – Quanto è vera questa, altrettanto è vero che è legittima la proprietà sorgente dal lavoro, come sorgente da altre forme di acquisizione. Del resto non ci vuol molto a comprendere che col solo titolo del lavoro una parte del genere umano (i bambini e gli inabili ad esempio) mai avrebbe il diritto di mangiare e che una gran parte della ricchezza dovrebbe o rimanere senza padrone od essere preda dello Stato. Sulla quale nefasta ipotesi abbiamo più innanzi espresso il parere del buon senso umano.

Le questioni del lavoro

Fin qui ci siamo preoccupati di fissare nell’adeguata idea di lavoro il principio ed il criterio atto a risolverne le questioni. Senza un principio teorico ben saldo (la concezione umana di lavoro), sarebbe ben difficile discernere ed ancor più difficile risolvere con saggezza e giustizia. – I massimi problemi del lavoro dal punto di vista sociale sono tre: la retribuzione al lavoro stesso, la partecipazione agli utili e la considerazione sociale in cui va tenuto e secondo la quale va trattato il lavoratore. I tre problemi si affacciano da se anche solo per l’umana idea di lavoro esposta sopra. Data l’indole del nostro studio ci fermeremo a questa indagine. Ma è doveroso ricordare che il lavoro o sotto punti di vista diversi da quello che ci preoccupa (che è morale e sociale) o per integrazione di questi stessi, pone altri e non trascurabili problemi. – Dal punto di vista del rendimento del lavoro, sorge il problema della sua organizzazione scientifica, in cui si tende a minimizzare lo sforzo e lo sperpero, spingendo al massimo il frutto e ingegnosamente sfruttando quanto rimarrebbe altrimenti inutile. Certo, come si è prima osservato, questa organizzazione scientifica va contemperata dall’umanità. – Dal punto di vista della protezione efficace dei diritti del lavoro e del lavoratore si impone il problema sindacale e l’altro complementare dell’organizzazione internazionale del lavoro. C’è infatti una interdipendenza tra le varie comunità, che come può essere sfruttata ai danni del lavoratore, deve essere usata in sua tutela. Questo problema fu affrontato a Leeds nel 1916, a Stoccolma nel 1917, a Berna nel 1918; se ne occupò la parte XIII del trattato di pace nel 1919, sicché ne fu costituito l’« Ufficio internazionale del lavoro » a Ginevra. Sarebbe ingiusto negare i benefici — per quanto relativi — di questa istituzione. L’argomento dei contratti di lavoro può rientrare nel problema sindacale. L’igiene del lavoro, il lavoro delle donne e dei ragazzi, l’eccessivo afflusso della donna al lavoro non domestico, costituiscono serie apprensioni per quanti amano i propri simili. La divisione del lavoro invece — problema già prospettato da Platone fino a Beccaria e a Smith — interessa più l’aspetto tecnico che non quello strettamente sociale. – Modernamente una non disprezzabile corrente di studiosi afferma che il lavoro ha bisogno di indipendenza, di miraggio, di speranza e di conforto. Ciò è evidente nell’ampia ed umana idea che del lavoro dà Pio XII; ciò dovrebbe esser intuitivo per tutti; per alcuni a veder una verità tanto perspicua è stato necessario contemplar — e lungamente — i resoconti e le statistiche sul lavoro degli schiavi. I quali rendono meno. In realtà le due concezioni di lavoro che abbiamo messo a riscontro potrebbero esser qualificate così: lavoro da uomini, lavoro da schiavi. Oltre tutte le belle parole, in regimi materialistici il lavoro diviene sempre cosa da schiavi.

3. – La retribuzione al lavoro

Si pensa per lo più alla retribuzione dovuta all’operaio — salario —, ma è doveroso pensare pure a quella dovuta all’impiegato — stipendio —. La classe impiegatizia sta entrando in una crisi che forse non è minore della crisi economica e morale nella classe operaia. Va da sé che quanto diremo del salario deve essere esteso pure allo stipendio.

Criteri per il salario

Quali criteri per stabilire il salario? Essi sono enunciati con chiarezza nei documenti pontifici. Ma è bene richiamare prima la ragione intima. Il salario segue il concetto del lavoro. Nell’idea materialistica del lavoro, gli elementi che formano criterio della retribuzione sono solamente lo sforzo fisico e mentale, nonché il rendimento. Nell’idea umana e cristiana la retribuzione va calcolata oltreché su quelli elementi anche sul valor e, sul diritto e sulle esigenze della persona. Che l’idea di lavoro si commensura anche e soprattutto da questa. – Rimandiamo a quanto è stato sopra scritto. Ora è facile vedere l’intima ragionevolezza dei criteri stabiliti nel Messaggio papale.

A) Il salario deve essere « giusto ». In che consiste questa giustizia? Essa è salva quando corrisponde a tutti i diritti, i quali possono essere nativi e generati da fatti. Gli elementi di tale duplice natura da tenersi in conto sono diversi. Lo sforzo, la qualità e le circostanze dello sforzo, il volume e la natura del rendimento figurano certamente tra essi. Ma non sono i soli. L’insegnamento delle due grandi encicliche Rerum novarum e Quadragesimo anno ci conduce a tener conto di altri elementi e ciò a buon diritto, poiché in ogni questione tutti gli aspetti debbono esser tenuti presenti. Si tratta anzitutto delle possibilità dell’azienda, in quanto anch’essa deve vivere e deve garantirsi di che sopravvivere per non abbandonare, l’operaio alla disoccupazione. Si tratta in secondo luogo della ragione sociale, pei cui il salario vien considerato come un elemento collegato a tutto l’equilibrio dell’economia, sulla quale può influire in senso benigno ed in senso maligno, mentre proprio essa colla sua stabilità e sanità assicura l’ordine di benessere all’operaio. È in vista di questa giusta ragione sociale che i salari, come non debbono essere tenuti troppo bassi, neppure possono essere computati troppo alti. Infatti il salario troppo alto e cioè eccellente i criteri detti sopra, è fittizio, provoca incapacità, anemie, arresti e collassi, i quali, se vanno a danno di tutti, si risolvono in un danno ben maggiore proprio per l’operaio. Frutto dei salari troppo alti sono infatti la crisi industriale, lo scompenso finanziario e la disoccupazione.

b) Il salario deve essere « sufficiente alle necessità dell’operaio e della famiglia ». Notiamo anzitutto che questa « sufficienza » fa parte della giustizia del salario, poiché corrisponde ad un chiaro e preciso diritto esistente nella persona umana. Infatti il valore del salario « lo si misura » — lo abbiamo visto — anche da essa. Ora il lavoro è il mezzo « di perfezionamento » indi di sviluppo e di soddisfazione di tutta la personalità. La quale è protesa verso la formazione della famiglia, la esige, la contiene in germe. Le esigenze della persona non sono solamente quelle del puro individuo, ma ancora quelle espresse dal raggio in cui l’individuo completa se stesso. Il lavoro è il mezzo con cui l’uomo provvede a sé ed ai suoi in questo suo naturale sviluppo. L’esser « naturale » fa di tutto ciò un « diritto » inalienabile. Ecco perché il salario deve tener conto anche della famiglia. Ciò corrisponde al fatto che il lavoro è il mezzo con cui l’uomo provvede a tutto se stesso, anche al « se stesso » possibile padre e capo famiglia. – Il salario famigliare — è bene ricordarlo — fu affermato e difeso ben prima che dagli altri, dalla morale e dalla sociologia cristiana. – Quando si asserisce la giustizia del salario famigliare, non si afferma che ogni operaio anche celibe deve essere retribuito come se avesse dieci figli. Si arriverebbe a delle conseguenze e a delle applicazioni paradossali. Infatti tutti vedono che qui il « diritto teorico al trattamento famigliare » va contemperato col « fatto » ossia colla reale situazione dell’operaio. In essa si terrà conto che anche, se non ha tuttavia famiglia, ha il diritto di prepararsela economicamente; che, anche se l’ha e minuscola, ha il dovere di lasciarla aumentare secondo Dio vuole ed ha il diritto di prevenirne i casi avversi. Con ciò si comprende la necessità di graduare sotto questo aspetto gli stipendi col criterio di un minimo famigliare aumentabile per assegni supplementari. – Quest’idea è già opportunamente entrata in più nazioni nel diritto e nella prassi.

Il complemento del salario giusto

Tra le corresponsioni dovute al lavoro, oltre al salario, Pio XII mette « la conservazione ed il perfezionamento di un ordine sociale che renda possibile una sicura se pur modesta proprietà privata a lutti i ceti del popolo, favorisca una formazione superiore per i figli delle classi operaie particolarmente dotati di intelligenza e buon volere, promuova lo spirito sociale… ». Notiamo che non si parla di salario, bensì di ordine sociale; ne vedremo presto il perché. Quest’ordine sociale deve portare all’operaio tre benefici, che complessivamente considerati, significano la possibilità aperta di migliorare indefinitamente la propria posizione sociale. È veramente questo il massimo respiro che si possa dare all’operaio: crescere. È questo tra i massimi incentivi morali che possono essergli inculcati, giacché possibilità non è realtà, mentre il passaggio dall’uno all’altro è legato all’intelligenza, al buon volere, alla sobrietà, all’economia, al buon senso, alla virtù. Che sarebbe mai dare all’operaio un buon salario e farne però un prigioniero del suo stato? Fate che tatti possano tanto Stimare la virtù che innalza a non inutilmente tentare la crescita: nessuno odierà l’esistenza di situazioni superiori, poiché esse gli diventano « meta » e nel movimento ascendentale conferiscono il sano e gioioso dinamismo dell’esistenza. Bella consolazione quella del comunismo nel sentirsi tutti uguali, ma tutti ugualmente prigionieri di tale uguaglianza! – I benefici auspicati dall’ordine sociale sono dunque tre.

a) La sicura se pur modesta proprietà privata per tutti. La natura stessa delle cose la postula: intatti la destinazione primigenia di tutti i beni terreni, quella anteriore alla occupazione fatta da qualche singolo, è per tutti gli uomini. Tale destinazione rimane in qualche modo anche dopo l’occupazione legittima del singolo, tanto che nell’uso della proprietà privata quello deve sempre ricordarsi del carattere sociale di questa. Di qui si leva una potente indicazione della natura a richiedere per tutti, fin dove è possibile, un posto al sole. – Abbiamo già detto esser questa proprietà privata aperta a tutti, il miglior stabilizzatore della pace sociale: nessuno vorrà rovesciare un ordine quando da tale ordine ha una porzione di beneficio che invece avventura fosca ed ignota non gli può assicurare. Ma è doveroso ricordare che il permanere della proprietà privata, non meno del suo acquisto, è legato alla sobrietà, all’economia, all’equilibrio spirituale, ossia ad un complesso morale.

b) La formazione per i poveri che possono rendere di più. Tutto ciò richiede una quantità di provvidenze che toccano il regime fiscale privandolo di cespiti normali ed aggravandolo di contribuzioni per la scuola. Non si tratta di cosa semplice, anche se l’iniziativa privata in regime di libera scuola può realizzare molto. Però non basta questo, anzi questo è l’aspetto più materiale del problema. È  necessario che la scuola oltre che un compito formativo e culturale, assolva un compito sociale; assumendo criteri severi ed irriducibili di eliminazione progressiva, che chiudano implacabilmente delle porte ai meno capaci ed agli inetti, qualunque sia la loro posizione sociale, e tutte le aprano ai valorosi della mente, del cuore, della volontà, dell’azione. È questo, forse, a conti fatti il solo mezzo per contemperare le eccessive fortune dovute all’eredità, le quali pur essendo — almeno talvolta — oneste in se stesse, da sole sono manchevoli, in quanto consolidano troppe ed indebite situazioni di privilegio, congelano le diversità sociali, stimolano la lotta di classe ed inibiscono quel sano movimento della fortuna, per cui tutti possono animosamente operare e volonterosamente agire, senza lasciare ai più che la disperazione d’esser prigionieri della miseria. Riteniamo che proprio il senso d’esser dei prigionieri dell’umiliazione sia la molla più forte dell’odio di classe. Non è la sola scuola, che porta il peso, di tale miglioramento nei figli delle classi operaie.

c) L’attività pratica dello spirito sociale. Si tratta della comprensione e della fiducia che apre la via alla effettiva collaborazione di tutti gli uomini onesti nella vita civile, nell’attività politica, nello sviluppo culturale.

Legislazione, educazione, sano tono di stampa e di propaganda, buona volontà di quei che stanno meglio, istituzioni: tutto è coscritto all’impresa di rifare unospirito sociale in cui anche il povero possa sentire di essere « qualcosa » e « qualcuno »..

Perché «ordine» e non «salario»

Può fare una certa impressione — l’abbiamo già notato — che Pio XII chieda una serie di benefici per l’operaio non al salario, ma all’« ordine sociale » da instaurarsi, promuoversi e perfezionarsi. Osserviamo intanto che il Papa quei benefici non li chiede direttamente al salario, però non esclude neppure il salario dal concorrere ad apportarli. Ecco le ragioni del linguaggio usato dal – Santo Padre.

a) L’ampiezza di questi benefici è tale che non può esser garantita dal solo salario. Naturalmente anche esso ha la sua parte — ove è possibile secondo i criteri esposti sopra — a far sì che s’arrivi alla proprietà privata ed alle migliori realizzazioni pei figli valenti.

b) Commettere il raggiungimento di tali finalità al solo salario, sarebbe annullare altre forze che nella compagine sociale possono e debbono, a seconda dei casi, utilmente agire: tipi diversi di partecipazione agli utili delle classi più agiate, forme assicurative, libere forme cooperative, contributi statali, mutue, ecc. – Perché mai sul lavoro dell’operaio devono convergere oltre che il suo salario altre provvidenze la cui

radice non sta nella sola azienda privata, ma in tutto l’ordine »? Perché egli è fattore d’incremento non solo della sua azienda, ma di tutto l’« ordine » stesso; perché come le cresciute possibilità della tecnica moderna hanno aumentato il raggio d’azione del capitale e le mete del benessere comune, così hanno parallelamente e proporzionalmente aumentato l’influsso, la necessità, il valore del lavoro. Lo scambio va dal lavoro a tutta la società; la restituzione deve essere da tutta la società al lavoro. È questo concetto a noi pare essenziale per la giusta impostazione di tutti i problemi dell’operaio.

c) Più o meno tutte le finalità in causa non sono raggiungibili che attraverso elementi spirituali e morali, che il salario, umile della sua realtà materiale, assolutamente non comporta. – Da tutte queste considerazioni una cosa si fa chiara: che la questione della retribuzione al lavoratore non è semplice e, soprattutto, non è solo questione materiale. Ciò basta vedere il latente marasma sotto tutte le soluzioni ad ispirazione materialistica, ossia marxistica.

4. – La partecipazione agli utili

Questa parola viene spesso pronunciata come quella che indica una integrazione del salario. Ma non pare sia sempre pronunciata con sufficiente cognizione di causa. Per tale motivo è più che opportuno chiarire alcuni punti.

La dottrina dei Papi

Non è difficile che in tema di partecipazione agli utili si faccia dire a Pio XII, soprattutto, quello che in realtà non ha detto. Pio XII non tratta direttamente l’argomento nel Messaggio natalizio 1942, ma continua talmente in tema di salario il pensiero del Suo Antecessore che non possiamo qui prescindere appunto da quello. Ora le affermazioni della Quadragesimo anno di Pio XI a proposito di partecipazione agli utili si riducono a due. Le riportiamo testualmente. Esse riprendono e dattagliano l’argomento toccato da Leone XIII nella Rerum Novarum. « Per questa legge di giustizia sociale non può una classe escludere l’altra dalla partecipazione degli utili ». « E da prima, l’affermazione che il contratto di offerta e di prestazione d’opera sia di sua natura ingiusto e quindi si debba sostituire col contratto di società, è affermazione gratuita e calunniosa contro il Nostro Predecessore (Leone XIII), la cui Enciclica “Rerum Novarum” non solo lo ammette, ma tratta a lungo sul modo di disciplinarlo secondo le norme di giustizia. Tuttavia nelle odierne condizioni sociali stimiamo sia cosa più prudente che, quanto è possibile il contratto del lavoro venga temperato alquanto col contratto di società come già si è cominciato a fare in diverse maniere con non poco vantaggio degli operai stessi e dei padroni. Così gli operai diventano cointeressati o nella proprietà o nella amministrazione e compartecipi in certa misura dei lucri percepiti ».

La lettura di questi testi impone alcuni rilievi.

a) Non si enuncia come principio generale la necessità di una specifica partecipazione degli operai o impiegati agli utili dell’azienda; ma solo l’esigenza di una generica partecipazione delle classi meno abbienti agli utili, ai profitti ed al benessere delle classi più agiate. – Ora la diversità tra « specifica partecipazione ad una determinata azienda » e « generica partecipazione all’utile e benessere delle classi più ben fornite » è molto grande; tanto grande che è pericoloso ed erroneo confondere l’una con l’altra.

b) La diversità sta in questo: con l’affermazione generica io ammetto molteplicità di mezzi per far partecipare agli utili, mentre non ne escludo nessuno e mi riservo di selezionare tra essi secondo giustizia ed opportunità, come pure di dosarli e di contemperarli; con l’affermazione specifica io ne eleggo uno soltanto e non ho mezzo d’evadere se questo è imperfetto o almeno in determinate circostanze assolutamente sconveniente. Nel primo caso ho il mezzo, ne ho la scelta senza correre l’alea; nel secondo caso io rimango impegnato dall’alea stessa. È davvero il caso di ammirare la preveggenza e la prudenza con cui la Chiesa tratta tali questioni, gravi non solo dal punto di vista morale, ma altresì dal punto di vista tecnico. Ma è bene spiegarsi meglio: lo faremo tra breve.

c) L a partecipazione agli utili in senso specifico,, non è enunciata come legge generale, ma solo come « cosa prudente… quanto è possibile » e non da sola, ma come contemperamento tra contratto di lavoro, e contratto di società. Contratto di società è appunto quello che determina la partecipazione agli utili in senso stretto e specifico.

Che pensare del contratto di società

La partecipazione agli utili in senso stretto implica questo: i dipendenti hanno diritto a dividersi una quota parte del profitto netto dell’azienda; hanno di conseguenza il diritto di inquisire e conoscere il bilancio per sorvegliare e tutelare l’integrità delle loro spettanze; diventano praticamente, almeno in un certo senso, dei soci del padrone. – Ci sono molti elementi da osservare con attenzione,

a) Anzitutto, in linea di giustizia, esiste un diritto che renda legittimo il partecipare ai profitti? L’esistenza di un certo diritto parrebbe attestata dal fatto che Pio XI consente di contemperare il contratto di lavoro (sul salario) col contratto di società (partecipazione ai profitti). Questo aliquale diritto pare sostenuto in vigore di giustizia da buone ragioni. Il lavoro infatti dà al prodotto qualcosa che non è giustificato solo dalla materia prima e dalla macchina (cose del padrone), ma sta ben oltre; sicché non pare doversi qui applicare unicamente in favore del padrone il principio « res fructificat domino » (la cosa fruttifica per il padrone), dato che c’è un’altra « res » che dà qualcosa di specifico al prodotto. E quella « res » è almeno di alcuni, di molti operai. – Inoltre, anche a prescindere da sottili ragionamenti, in molte delle industrie appare enorme la sproporzione tra il benessere che va comodamente al capitale, sì da farlo elefantiasi, e il sufficiente necessario che, sudato, scende al lavoratore. Questa sproporzione avverte una anormalità innaturale. – Finalmente l’industria ed il suo capitale appaiono sempre più legati alla compagine sociale, in quanto senza lavoro non si attuerebbe e senza consumatori morirebbe; questo essenziale vincolo alla compagine sociale fa sempre più ripugnante il concepire l’industria in funzione smisuratamente egoistica. Questo rilievo non condanna né industria né capitale; avverte solo che si è certamente andati un po’ troppo dalla parte dell’interesse ristretto dei pochi. È il « troppo » che si deve correggere, non la cosa che deve essere abolita.

b) Ma perché abbiamo cautamente parlato di un « certo » diritto, di un « aliquale » diritto? O è diritto o non è diritto. Certamente. Ma tutti ammettono che le espressioni debbono usare degli epesegetici prudenziali, finché il loro contenuto non è ben chiarito scientificamente in tutti i punti. Ora se la luce pare fatta abbastanza nel senso generico di poter esser legittimo un partecipare direttamente ai profitti, non è — a nostro modesto giudizio — altrettanto fatta su diversi punti e cioè: se le ragioni addotte (soprattutto la prima) valgono nella stessa misura proprio per tutti i salariati (manovali e braccianti ad esempio); se sempre costituiscano un titolo di stretta giustizia o non piuttosto una ragione di semplice equità; se valgano sempre e solo nei confronti colla propria azienda o non piuttosto in rapporto a questa e alla società intera; se non possano esser soddisfatte in un veramente congruo e generoso salario. La questione come si vede è ancor delicata; molto se ne è parlato, poco se ne è scientificamente inquisito. Siccome dinnanzi a Dio noi possiamo fare applicazioni nell’ambito dei principi certi, si vede quanta prudenza occorre qui, dove il sufficientemente sicuro è mescolato ancora coll’incerto. Ciò che, ripetiamolo, fa stimare la prudenza del linguaggio dei Papi, e stimola l’indagine degli studiosi. In certe questioni, col sentimento si correrebbe molto, ma non può essere questo l’arbitro, per quanto esso dia spesso il presentimento e l’intuito della verità. Certo è questo: verificandosi le debite condizioni, il contratto di società in contemperamento col contratto di lavoro è onesto, quindi si salda senza dubbio con una ragione di giustizia; è anzi secondo s’esprime Pio XI « cosa più prudente che, quanto è possibile, il contratto del lavoro venga temperato alquanto col contratto di società ».

c) Altra questione è: se il contratto di società in sé e per sé sia universalmente opportuno. Si noti che il Papa ne parla invece solo come di un contemperamento. Se noi lo vogliamo studiare nel nostro presente ordinamento sociale ed economico, c’è da dubitarne.

d) Finalmente l’uso esteso del semplice contratto di società, può provocare una sperequazione e porre una nuova questione. La sperequazione sta nel fatto che i profitti delle aziende non sono gli stessi: accanto ad aziende dall’enorme giro di affari con pochi dipendenti, stanno le aziende con enormi masse operaie, dinnanzi al cui numero si ridurrebbe a quote irrisorie il profitto dividendo. Ne nascerebbero categorie privilegiate e categorie praticamente diseredate, senza meriti o demeriti capaci di giustificare una tale violenta discriminazione. Ed ecco il nuovo problema: si dovrebbe andar alla ricerca di un metodo per livellare. Metodo e suoi strumenti non sarebbero realizzabili — il che è evidente — nell’ambito della singola azienda, occorrerebbe cercarli in istituzioni intermedie di raggio più vasto (Stato, sindacati ecc.), a mezzo di casse di conguaglio e di compensazione.

Concludiamo:

— il contratto di società è onesto e « più prudente » in contemperamento al contratto di lavoro, purché si verifichino le necessarie condizioni;

— può anche esser, quanto è possibile consigliabile;

— non appare realizzabile in modo universale sia per i facili inconvenienti, sia perché dovrebbe essere completato da istituzioni intermedie.

— nessun dubbio può esserci — là dove sono possibili — sulla opportunità di tutte le forme cooperative.

La generica partecipazione agli utili

Eppur nessun dubbio può rimanere su questo punto: che le classi meno abbienti abbiano il diritto di partecipare agli utili delle classi più agiate. Ecco le questioni: poiché qualcuno dovrà « dare », chi potrà essere questo «qualcuno »? Quali sono i modi con cui può avvenire questa devoluzione di benessere?

a) Se è al bene delle classi abbienti che i poveri debbono partecipare, sono dunque le classi elevate quelle cui incombe l’onere di « dare ». Il « dare » ha ragione d’essere là ove il capitale s’alimenta del lavoro. Anche fuori d’ogni contratto di società, pare dunque giusto che le aziende (con qualunque nome si chiamino) devolvano qualcosa del loro profitto a tale scopo, sempre nel limite del possibile e delle generali esigenze dell’economia. In altri termini la partecipazione agli utili potrebbe forse attuarsi intanto sotto la forma di contributi sull’utile netto delle aziende. Non si può escludere a priori che il convoglio del benessere ai meno abbienti, prenda la forma di tassazione qualora si verificassero tutte le condizioni entro le quali lo Stato può imporre tasse ad uno scopo determinato. Lo Stato stesso, nella misura in cui viene a disporre della ricchezza e secondo i criteri della giustizia distributiva, non può venir escluso dall’onere di aiutare le classi più misere. – In via generale è chiaro che le sorgenti della linfa da condurre alla zona economicamente anemica debbono essere fissate più o meno nell’ambito indicato, poiché non dà se non chi ha. Naturalmente in concreto tutto questo va fatto osservando col massimo scrupolo le leggi della giustizia commutativa, distributiva e legale, nonché badando bene all’esistenza di un vero titolo giuridico obbligante al contributo. Non è qui ancor questione del « modo » con cui si possa fare, ma del fatto che « si debba fare ». – Questo è importante: poiché nessuno parteciperà se nessuno darà, qualcuno dovrà pur dare. E se è giusto, che qualcuno partecipi è giusto altrettanto, che qualcuno dia; anche se noi abbiamo indicato in via di ipotesi soltanto chi potrebbe essere chiamato a dare. Il difficile sta nel creare la mentalità che qualcuno deve essere meno egoista; posto che nessuno Stato ha il tocco di Mida sicché non può certo raggiungere l’ideale del benessere dei poveri, chiedendo niente a nessuno. È necessario preparare colla convinzione molta gente a qualche sacrificio, che potrà essere negato solo nella sciocca incoscienza dei pericoli e dei rivolgimenti sociali forse incombenti.

b) La questione sul come realizzare la ricchezza da devolvere è ben diversa dall’altra sul come devolvere. Nell’ipotesi in cui non si generalizzi il contratto di società — e in tutti i modi moltissimi, specialmente nelle nazioni ad economia parzialmente industriale, ne rimarrebbero fuori — è chiara la necessità di ricorrere a istituzioni intermedie le quali facciano da collettori e distributori. Tale istituzione potrebbe essere lo Stato; è difficile però pensare sia esso solo in un regime sano e democratico. È preferibile la concorrenza armonizzata dello Stato (per la parte che esso solo può fare) e di altri enti minori (corporazione, sindacato, ecc). Quanto alla forma di devoluzione degli utili, diversi possono essere i criteri: si può adottare il mezzo diretto fungibile delle comodità (contributo in danaro); si possono senz’altro fornire le comodità (case, opere d’assistenza, opere d’utilità pubblica, di istruzione ed educazione, assicurazioni e pensioni). Criteri di assegnazione possono essere il titolo di lavoro, il merito, gli infortuni, il bisogno. Tutto sarà dato colla coscienza di assolvere un debito; sarà ricevuto colla coscienza di avere un diritto. Senza questa correlativa coscienza è inevitabile la divisione dell’umanità in boriosi e forzati benefattori e umiliati, fatalisti, mendicanti, parassiti. Tant’è vero che tutte le questioni sfociano sul terreno morale! È chiaro: elemento massimo è questo: si deve al lavoro una retribuzione, al povero un patrimonio morale.  – La partecipazione agli utili comunque avvenga dovrà attuarsi avendo innanzi il principio che là ove l’educazione, la sobrietà e l’economia fanno difetto è assai meglio fornire le comodità e il benessere, che non dare il mezzo per liberamente farselo. Nessuno ignora che molti, troppi, con più danaro in mano scialerebbero, rimanendo impenitenti al punto di prima.

Nuovi compiti

Il dovere della partecipazione degli utili nasce essenzialmente da un fatto. La civiltà meccanica e la tecnica moderna hanno collettivamente moltiplicata la ricchezza, ma mentre tutti in modo diverso hanno concorso a questa moltiplicazione, mentre tutto quanto era destinato al benessere dell’intera umanità ha apportato la realtà prima, relativamente pochi ne hanno avuto un notevole e proporzionato miglioramento di condizione. Il problema non ci mette solo innanzi ad alcuni che stanno bene e ad altri che stanno male, bensì al mistero per cui l’umanità, sebben fatta di persone, costituisce qualcosa di « uno » , sì da avere una insopprimibile esigenza di riversibilità dall’uno all’altro non solo del male, ma anche, e soprattutto, del bene. Questa voce profonda occorre sentirla e meditarla. – Il problema in quanto determinato da condizioni nuove e proprie della nostra età è anch’esso nuovo. Avvertire .questo è avvertire nuovi compiti:

a) Per la concezione e lo studio morale sociologico, economico.

b) Per lo Stato, che sorto in funzione essenziale di complemento, deve dare tutta la sua attenzione all’attuazione di un simile equilibrio.

c) Per l’opera legislativa, alla quale s’apre un campo immenso, dato che le sistemazioni sociali non si debbono raggiungere a strattoni ed a slanci occasionali, ma coll’opera severa, solida ed impersonale della legge. L’ordine giuridico non acquista solo un compito oggi e domani, un corpo di leggi, ma vede ribadito un concetto che per molto tempo e sotto certi aspetti gli era rimasto lontano, concetto essenzialmente ontologico, ma anche morale, per cui il genere umano viene considerato come una realtà unita e vivente anche in profondità. – Forse se da duemila anni il mondo non fosse stato anche a sua insaputa arato dal dogma della comunione dei Santi, sublimazione soprannaturale della comunità naturale, gli uomini non si sarebbero mai accorti a sufficienza dell’esistenza di questa.

5. – Il massimo debito morale verso il lavoro

Quand’anche si fosse dato al povero il migliore dei salari o degli stipendi, quando lo si fosse pure chiamato con un retto ordine sociale ad assidersi, partecipando agli utili, al banchetto della ricchezza, non si sarebbe affatto abolita la lotta di classe, l’odio tra gli uomini, l’irrequietezza dell’ordine civile. Mancherebbe ancora qualcosa e questo « qualcosa » senza del quale nulla varrebbe al benessere ed alla pace, col quale soltanto l’uno e l’altra si raggiungono, ha pertanto il diritto di essere ritenuto l’elemento massimo. Chi pensa di sistemare il mondo solo satollando stomachi e sensualità, spersonalizzando e rimpastando ricchezze, non conosce affatto gli uomini i quali « non vivono di solo pane ». Il torto massimo del socialismo sta nel suo materialismo, che ad onta degli eufemismi, considerando l’uomo un tubo, quand’anche arrivasse a dargli quello che conclama, gli darebbe soltanto il pane. Mentre l’uomo, spirito, cuore, libertà ed attesa di cose migliori, non vive affatto di solo pane. In questo tragico errore sono caduti troppi sociologi moderni. Là dove è stato fatto il massimo per la soddisfazione materiale dell’operaio, l’operaio non è stato contento. – Tale idea è fondamentale tanto nell’enciclica « Rerum novarum », nella « Quadragesimo anno », nel Messaggio 1942 di Pio XII, quanto nella concezione sociale del Vangelo, per cui anche all’ultimo degli uomini si deve quell’immenso dono morale che è contenuto nientemeno che nella parola « fraternità », fatta di visioni soprannaturali e di amore. Si può dire che fuori dall’influsso del Vangelo e della dottrina della Chiesa c’è sempre stata scarsa o addirittura nulla sensibilità per questo aspetto del problema. – Quali gli elementi di questo patrimonio morale che si deve rivendicare al povero? Qualche cosa già è stata detta parlando dell’ordine sociale che il Papa vorrebbe instaurato ed i cui benefici vengono da Egli presentati come un complemento del salario. Quei benefici stanno tutti in una parola: dare al povero delle possibilità di progresso, aprirgli una speranza ed una ascesa. È bene tener presenti quegli elementi. Ma il patrimonio morale non consta solamente di essi. Il Papa qua e là nel suo Messaggio li enumera.

a) « Uguaglianza intellettuale e differenza funzionale ». È come dire: gerarchia nei doveri, sostanziale identità nei valori. È come riconoscere ad ogni uomo, anche all’ultimo, che non ha nella sua natura nulla di sostanzialmente minore dei più grandi e fortunati tra gli uomini. Questa parte del patrimonio morale la si dà a chi va, col contegno, col rispetto, con l’abitudine individuale e collettiva d’una finezza profonda. È una realtà quando nulla nel gesto, nel calcolo, nella inflessione della voce, nello stile, nel difetto di cortesia rivela che si stima un altro inferiore a sé, solo perché non ha un bel nome, belle abitudini, agiatezza e cultura. Fintantoché il povero sarà messo in grado di temere a porger la sua mano al ricco, il dipendente dovrà tremare innanzi alla maestà del denaro, la persona modesta essere sbalordita e intimidita dall’esibizione del signore, l’uomo del popolo svergognato, sfuggito ed escluso da troppi ambienti; fintantoché la nessuna finezza spirituale, la mancanza di carità e di buon senso, servite magari dal disprezzo, dal sogghigno, dall’alterigia e dalla licenza, incideranno tutte le odiose discriminazioni, sarà negato all’operaio, all’uomo modesto la miglior parte del suo salario morale; egli si sentirà paria, non gli basterà la sua libertà, egli odierà ancora; la lotta di classe arrosserà ancora gli animi e poi la vita pubblica e poi, finalmente, la strada. Solo una educazione cristiana che incida il senso del quanto siano contingenti e secondari il denaro, la fortuna, il prestigio e il potere, del quanto sia comune il bisogno d’amore, di bontà, di compatimenti e di perdono innanzi agli uomini e a Dio, può instaurare la vera uguaglianza nel valore umano senza nulla defraudare alla gerarchia dei doveri e degli uffici sociali. – Il povero domanda soprattutto questo: di essere considerato uomo, persona, al pari degli altri, di averne il rispetto, di goderne il riguardo. È questione essenzialmente spirituale che solo in sede morale e religiosa può essere risolta. L’uomo deve arrivare a non dover aver paura del bene dell’altro uomo, della superiorità funzionale del suo simile. Il vecchio mondo, ipocrita in quasi tutti i suoi programmi, o si converte su questo punto o si condanna a morte. Non basta l’uguaglianza giuridica, è necessaria quella effettiva della coscienza e del costume.

b) « Amore e diritto ». Questo amore parte con un minimo di senso sociale, per cui i più forti non badano solo a sé ed al proprio interesse, ma tengono conto dell’esistenza degli altri, non misurano le cose dal proprio provento, ma anche dal quanto influenzino in bene o in male la felicità pubblica. La parola « amore » ha in questo caso infinite altre traduzioni ed applicazioni di cui si vede il catalogo più completo nella storia dei Santi, veri e puri benefattori dell’umanità. L’amore delle classi migliori ha creato per i più bisognosi tutta l’organizzazione dell’assistenza, della supplenza, del multiforme soccorso. La Chiesa ha tradotto il suo amore al popolo — sola in questo — con falangi di anime che vivono per la carità ed il servizio. Molti ordini religiosi, sono per la questione sociale una risoluzione, una dimostrazione della sua solubilità, un simbolo delle sue capacità. – Il « diritto » che va dato al povero è essenzialmente l’abolizione delle condizioni di privilegio, sia provengano da regimi da cui forza è creare una casta dominante, sia discendano dalla legislazione, sia s’attuino in una esagerata capacità di influenza attribuita al denaro.

c) Garanzia di una « piena responsabilità personale, quanto all’ordine terreno, come quanto all’eterno ». Responsabilità nell’ordine temporale suppone la partecipazione ad esso. Ciò suppone una collaborazione di pensiero, di volontà e di opera aperta a tutti. L’operaio, il piccolo stipendiato devono avere la possibilità di entrare nella vita pubblica come tutti gli altri, nell’ambito, si intende, del loro valore e della loro cultura. Tutto questo non sarà possibile senza la indipendenza economica di cui abbiamo parlato, ma la sola indipendenza economica non darà mai all’operaio la soddisfazione di essere « un uomo ». Necessita dargli quanto occorre perché sia e si senta « persona ». Prima che dalla miseria, deve essere redento dall’avvilimento. – I sistemi filosofici e politici, che uccidendo lo spirito, riducono l’uomo ad essere un « tubo », perpetrano l’assassinio del suo benessere. – Perché io lasci parlare l’uomo debbo prima credere che egli pensi; per credere che pensi debbo prima ammettere che ha un’anima spirituale. Perché io lo lasci agire liberamente devo pensarlo libero, e per stimarlo tale io debbo ancor una volta ricordarmi che egli è spirito. Se io gli prometto la libertà di parola e di azione, ma gli nego lo spirito come fa Marx, io gli prometto l’America e gli strappo il passaporto per andarvi. Tutte quelle libertà si riconoscono sempre nella fase preparatoria, per allettare ed invischiare; si rinnegano sempre quando lo scopo dell’asservimento è raggiunto.

La questione sociale verte sull’uomo completo, non su di un animale.

6. – Dare al lavoratore la fede

Chiediamoci: quando avremo dato al lavoratore il suo giusto salario, quando avremo creato un ordine che gli completi il salario stesso in molte ed opportune provvidenze, quando gli avremo data una posizione morale in cui egli si senta persona, avremo davvero eliminati gli attriti fra le classi, saranno contenti gli operai? C’è da dubitarne profondamente, almeno se ci si mette da un certo punto di vista. Infatti anche a queste favorevoli condizioni il lavoratore dovrebbe contemplare altri, intesi a più nobili e delicati uffici, altri dotati di più agiata condizione, altri più fortunati di lui. Non è possibile livellare tutto al mondo, per la stessa sua varietà e per la varietà delle esigenze, degli umori, dei valori e dei temperamenti. Egli, il lavoratore, sarebbe costretto a rilevare d’essere inferiore. – Supponiamo che questo modesto uomo fosse sicuro del paradiso in terra, supponiamo gli mancasse la certezza di un’altra vita in cui tutto viene pareggiato secondo giustizia e secondo merito, supponiamo egli si senta stretto in tale piccola cerchia, alla quale tutto si deve strappare e nulla rinunciare, dopo della quale più nulla sopravvive, più nulla compensa dell’attuale miseria. Come sarà possibile che questo uomo si rassegni ad essere inferiore? Come potrà egli rinunciare sotto l’istinto insopprimibile d’una felicità completa, a tollerare altri più agiati; come riuscire a respingere la proterva sobillazione d’invidia, la fanatica tentazione dei mezzi più orrendi per sostituire se stesso a chi giudica fortunato? Senza la visione d’una vita e d’una compensazione eterna, come è sopportabile l’esistenza senza il delitto, la rapina, la ferocia? E, quello che è più grave, in tal caso, in tali efferate applicazioni, l’uomo della strada sarebbe perfettamente logico! – Gli illogici sono coloro che gli chiudono il cielo o gli infangano così il volto e gli occhi colla loro erronea cultura e il loro allettamento sensuale, da non fargli più vedere il cielo, pretendendo poi che il povero « uomo » stia a posto. Che c’è di più logico, in un poveraccio, sicuro di non sopravvivere, del volere assolutamente aver tutto, disporre di tutto, dominare su tutto, e vendicarsi della natura da cui trasse tali inumani desideri e sì angusti confini? Un uomo può capire ragionevolmente — il che è peraltro ineluttabile — esser necessario al mondo una diversità di stato, doversi accettare senza quiescenza fatalistica l’umiltà di una condizione colla sua speranza di miglioramento nella volontà e nel lavoro, solo se ha una fede in Dio e nella vita futura. Se non l’ha, accetta il mondo, il suo ordine qualunque sia, per abulia, per debolezza, per fatalismo, per disperazione. Ma allora non c’è più un uomo! L’ordine sociale, che ha per inderogabile substrato la natura e tutte le sue varietà, sì da esser necessariamente multiplo nei diversi elementi (è utopia ogni concetto diverso), non sta insieme senza la fede in Dio, senza l’ordine religioso. – Questa verità domina tutta la triste esperienza dei nostri tempi. Della questione sociale si vuol fare una questione essenzialmente ed assolutamente laica, agnostica per lo meno. Il risultato è che non è mai stata composta, neppure nelle più libere e sfrenate esperienze scientificamente condotte (bolscevismo), perché là è diventata assassinio sistematico dell’uomo intelligente e libero; né sarà mai risolta, finché l’uomo sarà capace di pensare, di peccare, di invidiare e di scegliere tra il meglio e il peggio. La sistemazione dell’operaio va fatta anzitutto sul piano spirituale. È inutile ribellarsi per dispetto a tale obbiettiva verità. Senza religione l’operaio sarà sempre infelice. Senza religione arderà sempre di odio e di invidia. Senza religione non avrà né speranze, né protettori. – Senza religione mai gli basterà lo stipendio, la casa, il club.  Scristianizzarlo è assassinarlo, dopo il lento avvelenamento di tutte le cose che son fresche di sorriso solamente nel sole di Dio. Prima ancora che lo stipendio ed un ordine sociale giusto dobbiamo dare all’operaio la sua religione L’oro e il diamante stesso non brillano, se manca il raggio almeno dell’umile lucerna. Con ciò la questione sociale è collocata al punto giusto.

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (4)

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (2)

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO

GIUSEPPE SIRI

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (2)

2. Edizione EDITRICE A. V. E. ROMA 1943

II. – Personalità

Nel messaggio di Pio XII la personalità è una idea grande, è una realtà concreta, è un punto di riferimento generale per tutte le questioni inerenti all’ordine interno degli stati. La personalità umana (il suo valore, i suoi diritti, la sua qualità di « metro») è l’affermazione potente e lucida del diritto di natura, in nome del quale se ne parla e dalle indicazioni del quale, viene definita.

1. – Quello che il Papa afferma

E’ utile avere innanzi agli occhi un prospetto riassuntivo delle affermazioni del Santo Padre intorno alla personalità. Possono esprimersi in cinque punti.

1) “Origine e scopo essenziale della vita sociale vuol essere la conservazione, lo sviluppo e il perfezionamento della vita umana, aiutandola ad attuare rettamente le norme e i valori della religione e della cultura segnati dal Creatore a ciascun uomo e a tutta l’umanità, sia nel suo insieme, sia nelle sue naturali ramificazioni ” .

2) La pace è subordinata al “ridonare alla persona umana la dignità concessale da Dio fin dal principio”.

3) Ci si deve opporre “all’eccessivo aggruppamento degli uomini “ed al considerarli “masse senz’anima”; proprio per questo è necessario che gli uomini-persone abbiano una “consistenza economica, sociale, politica, intellettuale e morale”, nonché “una, responsabilità personale, così quanto all’ordine terreno, come quanto all’eterno”.

4) L’operaio non deve venir “condannato ad una dipendenza e servitù economica inconciliabile con i suoi diritti di persona”; inoltre le forme sociali debbono essere tali da garantire una libertà personale.

5) Si deve sostenere “il rispetto e la pratica-attuazione dei seguenti fondamentali diritti della persona: diritto a mantenere e sviluppare la vita corporale, intellettuale e morale e particolarmente il diritto ad una formazione ed educazione religiosa; il diritto al culto di Dio privato e pubblico, compresa l’azione caritativa religiosa; il diritto in massima al matrimonio e al conseguimento del suo scopo; il diritto alla società coniugale e domestica; il diritto di lavorare come mezzo indispensabile al mantenimento della vita familiare; il diritto alla libera scelta dello stato, quindi anche dello stato sacerdotale e religioso; il diritto ad un uso dei beni materiali, cosciente dei suoi doveri e delle limitazioni sociali”. È chiaro: la persona umana è il principio, il criterio, la misura, il soggetto ed il punto di riferimento di tutte le questioni umane; è il centro da cui tutto parte, in cui tutto si colora, cui tutto confluisce; il suo rispetto è la base di una costruzione umana e non mostruosa. – Tale rispetto ha per oggetto immediato una serie di diritti, i quali scaturiscono solo se si riconosce la « persona », muoiono se quella divien chimera; diritti che l’aspirazione umana ha sempre profondamente, totalmente invocati come assolute condizioni di vita, sì da apparire una morte la loro brutale negazione. – La « centralità » della persona umana è una delle più gravi affermazioni del Messaggio. Ad intenderla è necessario portare l’attenzione su diversi concetti.

2 . – Che è la “persona ,,

Anzitutto una questione di competenza. Chi ha il diritto di dare la definizione di persona? Rispondiamo senza esitazione: il buon senso umano. Lo può e ne ha gli elementi. Il concetto di persona infatti è astratto allorché lo si presenta in quella forma teorica che, sola, plasmandosi in modo intellettuale, può entrar nei libri. Ma la « persona » in concreto c’è; è vivente, è esaminabile; essa è semplicemente l’uomo individuo. Sicché, purché non abbia pregiudizi artificiali sia deformatori (il « sistema » accanito), o inibitori (l’agnosticismo kantiano), il buon senso può guardare, indagare e trarre serenamente la sua conclusione, che è un concetto nitido e completo. Era necessario dir questo per giudicare delle diverse definizioni di « persona », più che discutibili, proferite da esponenti della filosofia moderna (Spinoza, Wolf, Hume, Kant) ai quali fece velo il sistema o il dubbio. La filosofia, spesso poggiata sulle nuvole, poté oscillare e dir cose strane e contradditorie; il diritto invece, più severamente ancorato ai fatti ed alla realtà dalla sua stessa funzione e dalla acuta opera distintiva della competizione forense, fu più serio e stabile e diede in genere in una forma concreta il concetto che della persona diede sempre il buon senso umano. Il quale, non c’è dubbio, ha più diritto di esser ascoltato che non i dubbiosi per paura, gli strani per costituzione e frenetici del sistema.

… il concetto filosofico

Ora il buon senso, espresso dalla tradizione scolastica, ha definito e sente la persona essere così: l’individuo razionale (uomo, angelo, ecc.) che sussiste nella sua naturale costituzione in modo autonomo (distintamente). Razionalità ed autonomia sono dunque le caratteristiche costitutive della «persona». Razionalità implica un principio spirituale ed intelligente e trae nel concetto di persona tutto il mondo psicologico. Autonomia è la distinzione, l’essere in sé ed a sé (salva la dipendenza da Dio), qualcosa di completo e di sufficiente, non parte d’altra cosa, non mezzo o strumento per natura di nessuno, salvo Dio; con natura, legge fondamentale, diritti e doveri basilari, finalità, definiti indipendentemente dall’essere o dall’agire di qualsivoglia altra creatura. – Autonomia nella razionalità significa intelletto e volontà autodeterminantisi, ossia significa la libertà, che è senza dubbio il fastigio della persona. La somma di queste note sono come un tratteggio che tutto all’intorno mette in rilievo emergente una stupenda e rispettabile grandezza. Nell’orbita della persona si agita un mondo, che sovrasta potentemente il mondo materiale inquadrato nella rigida disciplina delle leggi fisiche. – Fin qui l’idea filosofica o, se piace la parola, ontologica della persona. Qualcuno troverà tutto questo discorso abbastanza teorico: non ha poi torto, ma dovrà convenire che era pur necessario alla chiarezza dei fondamenti. Desidera con maggior diritto un tratteggio più umano della « persona », che sarà bene egli contempli in un uomo ben definito e concreto. Quest’uomo può esistere — coll’aiuto di Dio — anche se nessuna altra cosa esistesse: perché egli sia, sia uomo e non un’altra cosa, sia questo uomo, presupposta la causa originativa e il concorso divino, nessun’altra cosa occorre. Se, sostenuto da quel concorso, egli rimanesse mentre il rimanente svanisse, sussisterebbe pienamente la sua natura, la sua legge, la sua finalità. Se tutto il mondo fosse connesso contro di lui per strappargli un « sì » o un « no », egli rimane perfettamente libero di concedere o negare dispoticamente l’uno e l’altro. Forse è per questo che i Martiri sono la più pura e coraggiosa espressione della personalità. Ecco che cosa è l’autonomia. Queste considerazioni erano necessarie per vedere quale mondo, quale roccaforte, quale riserva, quale riflesso divino, quale principato tra le cose terrene, quale cosa rispettabile sia questa persona-uomo, base e metro, principio e fine d’ogni costituzione sociale e politica, la quale dinnanzi ad una simile dignità sente d’esser fatta essenzialmente per servire.

L’importanza

1) Anzitutto i diversi valori si dispongono in un ordine piramidale di cui la « persona » sta evidentemente al vertice. Il suo concetto stesso lo prova.

2) Tutto attinge valore e significato dalla persona e nella persona. Il diritto non è altro che la sua autonomia che si traduce in capacità di avocare a sé e respingere da sé. La legge è espressione di persone, perché la sua formulazione intellettuale e la sua imposizione volitiva non le viene da qualche ente astratto od anche giuridico,, ma dall’esercizio di facoltà in persone singole. – Le idee, le ideologie ed anche le false mistiche non discendono dalle nubi come cavalli platonici bianchi o rossi o verdi, ma si formulano nel cervello di singole persone. Perché diritti, leggi ed idee valgano e si attuino hanno bisogno del loro terreno; e questo è ancora la persona. Lo Stato può essere concepito come si vuole con idee giuste e false, ma fruisce sempre col coincidere con una o più persone, coi loro difetti assai spesso, raramente colle loro personali virtù. – Il soggetto della legge, del contratto, delle istituzioni, quindi della costruzione sociale e politica è sempre l’uomo-persona. Gli umori soddisfatti e quelli insoddisfatti sono nelle « persone »; proprio quelle benevolenze e malevolenze, decidono d’un fatto concreto che si chiama « opinione pubblica » e, a lungo andare, pace  o rivolta. È impossibile che questo mare non si muova, non mugghi, non roda la terraferma o non vi getti la ghiaia e i relitti; possiamo ignorarlo, ma è esso che col suo moto perenne decide dei limiti dei continenti. Che ci costringe moralmente a rispettare la persona è la sua autonomia, dono di Dio; che la vendica costantemente contro il sopruso è la sua razionalità feconda ed immortale, che pensa, ricerca, soffre, vuole e decide. La conclusione è limpida: tutto si misura e si colora nell’uomo-persona.

Questo non è l’individualismo

Rispetto alla persona ed individualismo, non solo non sono la stessa cosa, ma sono antagonisti. Individualismo è pensare egoisticamente a sé senza il limite di una legge che impone doveri sociali. Rispettare la persona è rispettare la sua natura, che ha una legge prescrivente finalità e doveri sociali. – L’individualismo ignora e contraffà quel complesso di diritti, di riflessi, di fecondità che invece irradia dalla persona. L’individualismo sostituisce il fatto al diritto; il culto della persona, sorgente del diritto, restituisce il diritto prevalente nella forza. La persona è una ricchezza — dobbiamo forse ancora dirlo? —, l’individualismo è una dichiarata miseria accentratrice. Rispettare la persona significa amare qualcosa da parte di tutti; aver dell’individualismo significa rispettar nessuno. La persona — e lo vedremo — si sviluppa in società, l’individualismo si contrae in solitudine inumana e violenta. Non confondiamo dunque dei termini per farne mascelle di asino. Si vedrà subito come il concetto di persona sviluppa una morale di rapporti; si è sempre visto come l’individualismo si è beffato nonché della morale, persino dei rapporti coi propri simili.

3. – Caratteristiche della personalità

D’accorato appello del Pontefice è per una valutazione giusta o rivalutazione adeguata della persona umana. Sia l’uno che l’altro intento è raggiunto puntando sulle doti concrete elargite da Dio alla persona, nonché sulle conseguenze di questa. Tutto ciò in due sensi: occorre rispettare negli altri ed occorre rispettare in sé. Perché rispettare anzitutto in sé? Ecco: c’è un divario tra persona nel senso fisico (quello descritto sopra) e persona nel senso morale. Da prima è una realtà in parte potenziale, che solo la volontà, l’educazione e la virtù sviluppano; la seconda è lo sviluppo e la perfezione raggiunta attraverso un cosciente lavoro su se stessi. Difatti tutti gli uomini sono « persone », non tutti hanno una « personalità », sono se stessi; ciò è perché quello sviluppo non ha trasformato la capacità in realtà, qualcosa è rimasto invece latente, trascurato, sprecato. Sarebbe un controsenso invitare tutti, uomini e istituzioni, Stato compreso, a rispettare la personalità, mentre nessuno la rispetta e la completa in se stesso. Sarebbe una commedia. Abbiamo già visto che le doti fondamentali della persona sono: razionalità ed autonomia.

L’uso della propria testa

Poiché la prima dote della persona è la razionalità, è necessario usarla e lasciarla usare. Senza di che non c’è rispetto alla persona. Questo uso è una dote, un impegno, un prestigio. Bisogna dunque usare della propria testa. Non è lecito affittare puramente e semplicemente quella degli altri, del giornale, dell’ambiente, del club, dell’opinione in corso, della moda. Chi affitta, non è « persona ». Usare della testa, non affittare, è ponderare, esaminare, indagare ed esercitare, soprattutto, nel vaglio delle cose che si ammettono, il senso critico. Chi beve tutto, chi accetta tutto dietro raccomandazione del sentimento suo eccitato, dell’entusiasmo brillo, dell’impressione, senza cercare una ragione sufficiente, senza la pazienza obbiettiva di convincersi sul sodo, non è persona. L’uso della propria testa non è universale. Vi sono dei limiti ragionevoli. Eccoli: non so tutto ed in quello che so devo dipendere da chi sa; non so bene e devo rifarmi in chi sa meglio; ho difetti di logica, di scienza, di visione e devo completarmi coll’umiltà che s’appoggia all’esperienza, al consiglio, alla luce, alla giusta autorità degli altri. Così sarò prudente, discreto e saggio. Ma tutto questo mi lascia un margine in cui io agisco, mi lascia un ufficio in cui io ragiono, sia pur conscio del mio poco valore, su quello che mi vien da altri: rispettando questo, salvo la prudenza e la saggezza, ma esercitando il mio lume intellettuale salvo la mia persona. L’umiltà e la coscienza di sé ugualmente la salvano. Bisogna lasciare che gli altri usino della propria testa. Il pensiero, la scienza, l’esercizio della sana critica onesta, non si standardizzano. Gli uomini non si possono trattare come bambini ai quali si suggerisce cento volte al giorno « dì buon giorno, dì grazie ». Una delle cose più tristi della nostra età — almeno in taluni casi — sono i ministeri della propaganda, che dovrebbero informare il pubblico sulla verità, ed invece insufflano, orchestrano la menzogna sistematicamente, come se si fosse un branco di scemi. Quando al sistema limpido spontaneo della natura, figlia a Dio, e del suo diritto si sostituiscono i sistemi architettati in sostituzione, rossi o verdi che siano, è purtroppo necessario fare così. Tanto è vero che sono innaturali. Ma il lodevole proposito di lasciar agli altri usare della propria testa deve essere illuminato da alcune inflessioni, le quali impediscono visioni strabiche e conclusioni ingenue, 1) La verità è una, l’errore è il primo danno della società: la difesa di quella, la remora a questo sono un supremo interesse comune. Ciò non è un limite alla « testa », ma una doverosa ed insieme caritatevole correzione di certi usi ed abusi. 2) L’ignoranza è grande, le idee storte innumerevoli: ciò invoca ad un certo punto l’aiuto, il coraggioso aiuto, l’opera educativa, l’orientamento saggio, l’organizzazione del servizio alla verità. Non oppressione, ma aiuto e qualche volta difesa cogli onesti mezzi legali. Rispetto dunque, non oblio della verità sulle tare del peccato di origine tra gli uomini.

L’uso della propria coscienza

L’intelligenza in quanto giudica della moralità delle proprie azioni in concreto diviene « coscienza ». In quanto è giudizio, direttiva, orientamento nell’iniziativa, la coscienza è insieme espressione tanto della razionalità che della autonomia. Sicché non si rispetta la persona che a prezzo di rispettare la coscienza, il suo esercizio, il suo dettame. Un uomo è persona tanto quanto agisce nella pienezza della coscienza propria senza affittare la coscienza del primo arrivato, dell’ambiente. Poiché coscienza è intelligenza, occorre aver presenti a suo proposito tutte le considerazioni prudenziali fatte or ora sull’uso della « testa ». – Testa e coscienza sono penetrali nei quali nessuno, neppure lo Stato, può direttamente entrare. Anche i più grandi persecutori della personalità umana dovranno pur sempre fare i conti con questo insuperabile limite della loro invadenza.

L’iniziativa

La autonomia della persona è una dote che eleva la natura in cui quella vive, è anzi immanente nella natura, si identifica con essa; sicché è vero che l’autonomia, tanto si estende e tanto vale quanto si estende e vale la natura. La quale è essenzialmente operativa e dinamica. Operazione ed autonomia danno: iniziativa. Ecco una dote della personalità. Rispettarla significa dunque riconoscerle un margine congruo di libera iniziativa in tutti i settori. Questo principio di diritto naturale deve esser tenuto in conto da tutti i politici ed economisti, i quali faranno bene a non lasciarsi cogliere da nevralgie troppo ossesse o da visioni collettive ed astratte. Poiché in fin dei conti non è l’uomo per l’economia, ma l’economia per l’uomo. – C’è di più. L’iniziativa, che, come s’è visto deriva dalla natura umana attiva e dalla sua autonomia, appunto perché segue la natura che è anche sociale, entra in questo campo. L’iniziativa sociale è l’associazione: ecco il diritto naturale di associazione, che sarà contenuto, controllato e limitato dall’autorità, ma che non può venire indebitamente ristretto e tanto meno soppresso. Tutto ciò significa ricordarsi — proprio contro l’individualismo — che la persona-uomo si deve vedere nell’ambito e nel complesso sociale. – L’iniziativava tenuta nel debito conto dall’uomo in se stesso. Quando ascolta i consigli della sua natura debole, gli è facile spogliarsi dell’iniziativa per stendersi sempre sul canovaccio combinato da altri, dire e fare quello che fanno gli altri, accodarsi, supinamente imitare, mettersi nella corrente, farsi portare e non reagire mai. Con ciò egli diventa una stampigliatura banale, con ciò si spiegano le fisionomie impresse dall’ambiente, i caratteri vuoti, piatti, nulli. L’iniziativa è legata alla forza di volontà. È facile accorgersi che cosa questa conferisca alla personalità morale. Gli uomini « stampigliati » non rappresentano una negazione della libertà umana, che forza di volontà e libertà sono elementi ben diversi e può mancare perfettamente il primo, mentre il secondo l’esercita solo a liberamente scegliere sempre il più comodo, il più facile, il meno dispendioso.

La fisionomia personale

È segnata non tanto dai lineamenti esterni, quanto dal temperamento e dalle doti specifiche intellettuali, volitive, di sentimento, di gusto, di moralità, di religione. Quando ha una impalcatura volitiva di costanza e di coerenza nella luce di convinzioni profonde diviene carattere inconfondibile. Il complesso fisionomico reca una inesauribile varietà fra gli uomini. La varietà reclama il libero sviluppo, la libera scelta delle carriere, mette in guardia contro il pericolo della troppa standardizzazione, dell’eccessiva organizzazione, dell’esoso assorbimento da parte della comunità. – Le doti postulano la loro cultura, il perfezionamento e lo sfruttamento. Ciò non è impegno solamente del singolo. Il rispetto concreto della persona esige che per parte della società, le condizioni di vita si facciano sempre più tali da permettere studio, sviluppo, cultura, ascesa a chi ne ha il taglio, anche indipendentemente dalla sua posizione economica e sociale. Le scuole dovrebbero essere così umane e generose nell’accogliere tutti, anche i non abbienti, così inflessibilmente severe nel vaglio, da concorrere e discriminare finalmente nella società una vera gerarchia di valori. Questa solo è capace di correggere il difetto dell’altra gerarchia, quella della eredità di fortuna. Osserviamo finalmente che ogni dote costituisce una legge divina particolare, in quanto, conferita dal Creatore, crea il dovere di raggiungere il più perfetto sviluppo. Non è mai un talento a discrezione, è un talento da restituirsi a Dio col massimo di interesse. È per questo che il senso naturale e cristiano vorrà il medico, il giurista, ecc., all’apice della perfezione non solo morale ma scientifica, tecnica, artistica. L’uomo deve correre tante vie quante sono le sue possibilità. Solo così è completo.

Il diritto di proprietà

Il diritto di proprietà è una immediata conseguenza della « persona ». È  importantissimo vedere questa connessione inevitabile e necessaria perché essa indica donde si possa dire in piena coscienza essere il diritto di proprietà un diritto di natura, indiscutibile, inalienabile quanto la natura. – Infatti. Poiché, come si è detto autonomia e natura nella persona sono la stessa cosa, tanto si estende il raggio della prima quanto si estende il raggio della seconda. Ora la natura dell’uomo stabilisce rapporti necessari con le cose di cui l’uomo ha bisogno, non solo per la sua vita fisica, ma per l’indefinita capacità di operazione delle sue facoltà spirituali, le quali non si attuano senza elementi sensibili. A causa di tali rapporti alcune cose sempre, molte altre indefinitamente a seconda che le circostanze determinano, vengono ad essere legate e vincolate alla persona. L’autonomia, che segue la natura, si estende allora anche a queste « cose », che, per i rapporti, rientrano in qualche modo nella personalità. Rientrare tali « cose » nell’autonomia della persona significa che rimangono « avocate » ad essa con esclusione (distinzione) degli altri. Il che, non escludendo il fine sociale delle « cose avocate » come non cessa d’essere sociale la persona, è precisamente il diritto di proprietà. – Esso è tanto vero e naturale quanto sono veri e naturali i rapporti necessari tra cose e persona, quanto è vero che tali rapporti fluiscono dalla natura, quanto è vero che l’autonomia si estende là ove s’estende la natura.

Gli elementi nei quali si vede il diritto di proprietà fluire dall’autonomia della persona, quindi dalla natura e da Dio autore della natura, sono troppo evidenti. L’uomo senza « cose » e tante « cose » quante ne può investire la sua capacità operativa (che è indefinita — di qui la indefinita, per sé, aumentabilità del patrimonio) non avrebbe affatto la dignità già descritta della persona, ma sarebbe un prigioniero. – Rimarrebbe un sovrano spodestato. Homo sine pecunia imago mortis. Ed è inutile stare a blaterare ilcontrario con filosofemi, che si accettano solo quandonon si capiscono.Qui non facciamo questioni di parole o di definizioni e neppure di interpretazione sul pensiero dell’uno o dell’altro grande scrittore. Ci interessano le questioni,non il loro lusso; e le questioni si risolvono con gli elementi obbiettivi. I quali affermano essere il diritto di proprietà un diritto di natura. Il modo col quale sempre la teologia cattolica l’ha definito, rivendicato, tutelato in morale, come quello che non ammette eccezioni se non per opera di un altro diritto parimenti divino; il modo con cui fu affermato nelle Encicliche papali; il modo con cui — anche a prescindere dalla qualifica terminologica— fu sempre trattato e preso a criterio della tradizione filosofica e giuridica cattolica, non può lasciare dubbio alcuno ragionevole su tale ben ferma conclusione. La quale, logicamente parlando, crediamo appartenere alla dottrina cattolica.Ciò posto vediamo le conseguenze straordinariamente gravi dell’esser la proprietà un diritto di natura,talmente connesso col concetto e la realtà stessa di persona.

Conseguenze del diritto di proprietà

1) Non si salva la personalità se non si salva la proprietà. Questo, non solo perché la seconda è corollario della prima, come s’è visto; ma ancora perché l’uomo spirito è talmente legato e dipendente dall’uomo-materia, che la sua stessa autonomia spirituale non sussiste integra se non s’estende a cose sensibili. – La difesa della proprietà ha una posta ben più alta che non alcune piccole o grandi cose materiali.

2) Il diritto di proprietà è intangibile: può nei casi particolari e contingenti venire limitato solamente dalla forza di un altro diritto di natura (p. e. la necessità sociale).

3) Qualunque sogno di ricostruzione sociale che si fondi su uno strazio della proprietà privata, contiene un elemento innaturale che è destinato a creare un ineluttabile disagio, grave di tragiche conseguenze, anche se può a prima vista presentare qualche successo brillante.

4) Le eventuali limitazioni della proprietà mediante l’assorbimento di essa e dell’iniziativa privata da parte della collettività, quando instasse per questo un pari diritto naturale, va considerata come eccezione e non come sistema ordinario. Quand’anche talune eccezioni dovessero durare per un periodo storico, non acquisterebbero mai il carattere di cose ordinarie. La ragione sta in questo. Che la limitazione della proprietà può avvenire — come vedremo — solo in nome del bene comune, il quale non la reclama per sé, ma per ragioni accidentali; mentre la proprietà è in se stessa postulata dalla natura. Non si confondano limitazioni della proprietà e limitazioni opposte alle sorgenti della ricchezza. Queste seconde per sé non limitano la proprietà, ma piuttosto il diritto di iniziativa: Il bene comune potrà in via contingente postularle, ma, dato il loro carattere di « limitazione di un diritto naturale » non dovranno mai essere né arbitrarle, né ingiustificate, né intese come sistemazione ordinaria.

5) Non è opportuno stabilire delle quote di proprietà, sicché nessuno per esempio possa possedere capitale superiore alla rendita di 50.000 lire. A parte le considerazioni umoristiche di carattere tecnico che si potrebbero fare, basta aver presente che l’autonomia della persona può stabilire rapporti indefiniti (vedi sopra) con le cose, sicché non mette per sé limiti al patrimonio. I limiti — ripetiamo — verranno contingentemente, tanto quanto lo postulerà in modo assoluto il bene comune.

6) Se il diritto di proprietà è postulato dalla natura è logico si tenda a procurare al massimo una proprietà anche modesta a tutti gli uomini. I quali tutti intendono in sé la voce della natura. Ed è bene ricordare che questa è la migliore difesa contro i forsennati rivolgimenti sociali. Un uomo ragionevole non odierà mai l’ordine che a lui pure ha assicurato un posto al sole.

7) L’eredità non è che la necessaria conseguenza dell’esercizio di proprietà. Quanto dote di questa è la donazione tra i vivi, altrettanto lo è la disposizione in caso di morte. Ossia: il diritto di testare colla conseguenza logica di ereditare, coincide talmente col diritto di proprietà che quanto è naturale questa, lo è quello. Non può essere quindi toccato più di quanto è intoccabile il diritto di proprietà. Tutto è troppo collegato. Ciò vale dell’eredità per testamento: parrebbe non valere per l’eredità ab intestato (senza testamento). Ma questa beneficia per lo meno della analogia con quella, inoltre è legata al concetto naturale di unità e continuità fisica, morale, ideale e personale delle famiglie. È verissimo che il diritto d’eredità mette al mondo una quantità di molto privilegiati, di orgogliosi inutili, di insulsi fannulloni, di viziosi parassiti, ma non per suo difetto bensì per il cumulo di difetti con cui gli uomini guastano e non moderano le buone istituzioni. – Tutto ciò potrà suggerire molti ed opportuni provvedimenti, legittimati da vere esigenze assolute del  bene comune, ma non potrà giustificare la negazione draconiana di un istituto di natura, proprio quello che più di tutti garantisce alla società uomini che non debbano sempre cominciare daccapo. Le esplosioni, generose e precipitose possono far dir cose che la serena razionalità non approva.

8) Finalmente la proprietà è la sola che può garantire alla persona (di cui è conseguenza) la indipendenza effettiva ossia l’autonomia pratica. Non è dignitoso per l’uomo che debba tutto ricevere da altri, sia pure dallo Stato e sia pure per legge motivata dalla volontà del legislatore, ma non dal diritto della persona. Egli deve poter bastare a se stesso, disponendo di se stesso. Senza una proprietà è chimerica l’autonomia; è, almeno parzialmente, uccisa la personalità. Ogni uomo deve tendere e vi tende di fatto quando ha coscienza di sé, a non aver bisogno dell’orfanotrofio, dell’ospedale, della colletta caritativa, del qualunque ente assistenziale sia pure la maternità e infanzia. Tenderà a percepire i frutti delle istituzioni assicurative, ma di quelle sa trattarsi di roba sua che gli viene restituita. L’uomo d’onore — e non è superbia — nulla teme quanto il dover stendere la mano e chiedere l’elemosina. Abolite il diritto di proprietà e, se non proprio tutto, molto diventa elemosina. – È indegno pensare ad un mondo di mendicanti. Insisto su questo, poiché se fosse abolita la proprietà privata, anche avendosi il dovere da parte di enti di dare determinate contribuzioni, queste non essendo debite in nome di un diritto assoluto, rimarrebbero sempre, anche ad onta del titolo di lavoro, delle palliate elemosine. – Tutte queste conseguenze del diritto di proprietà, non fanno che ricordare un principio: l’uomo persona è talmente subordinato al suo corpo, quindi ai beni sensibili, che senza di essi rimane frustrata di fatto l’autonomia della sua stessa persona. Ora al mondo non ci sono, interessanti per noi, che degli uomini, delle persone. Il rimanente non è che riflesso, derivazione, ombra di quelle. Che è mai che dobbiamo preferire, l’uomo o la sua ombra? Le grandi parole non danno corpo alle ombre. – Ecco il pensiero del Santo Padre: « La dignità della persona umana esige dunque normalmente come fondamento naturale per vivere il diritto all’uso dei beni della terra a cui risponde l’obbligo fondamentale di accordare una proprietà privata possibilmente a tutti ».

4. – I nemici della personalità

Elenchiamo qui i principali.

1) Il peccato. La legge di Dio rappresenta la più sapiente conservazione dell’armonia interna ed esterna dell’uomo. L’ha fatta Colui che ha creato l’uomo e sa bene commensurare tra loro le cose. La legge è la disposizione migliore alla conservazione ed al raggiungimento perfetto del fine. La legge divina è lo scettro trasferito dal dispotismo dei sensi e dei miraggi irrazionali alla persona. Nessuno serve come quando pecca: nessuno si deforma come allora. La legge di Dio è dunque la grande tutela della personalità; il peccato che la viola è il primo nemico della persona del suo ordine, del suo perfezionamento, del suo valore sociale.

2) L’eccessiva imitazione. L’autonomia personale porta — chi non lo vede? — ad essere « se stessi ». Non dunque una stampigliatura, una brutta copia, una pura imitazione. Persona ed eccessiva imitazione idiota, si oppongono tra loro come il giorno e la notte. Parliamo di eccessiva imitazione: accogliere il buon esempio, saper cumulare, servirsi dell’utile confronto cogli altri, tener l’occhio ai modelli, ai pionieri, ai coraggiosi, ai Santi è altra cosa: quella è necessaria imitazione. La mancanza di coscienza della libertà degli altri — e molte convenienze sociali presso di noi ne peccano — finisce col moltiplicare la forza del rispetto umano spingendo ad imitare in tutto supinamente e spesso bestialmente. Il mondo della moda e delle mode, gli ambienti fatti di sciocchi garruli, di facili irrisori, di annoiati esibizionisti, sono eccellenti per trasformare gli uomini e le donne in macchine di imitazione. Il cosiddetto mondo brillante ne è un’officina e ben pochi se ne salvano. – Dal punto di vista strettamente sociale si osservi che tutte le forme troppo spettacolari e la tirannia di certa propaganda orchestrano proprio la supina imitazione.

3) L’eccessivo ordine. L’ordine è buono e necessario, ma per gli uomini che sono essenzialmente liberi e dotati di una inestinguibile iniziativa intellettuale, non può andare al di là d’un certo limite. Che là diventa geometria, formula, meccanica, automatismo insensato, bagno di incoscienza, ossia morte della personalità. Quando s’ammira una parata in cui tutti sono vestiti allo stesso modo, camminano allo stesso modo, si scaldano allo stesso modo in movimenti complessi ma armonizzati, tutto è a base di segnalazioni elettriche, di scatti automatici, con maestri d’orchestra e folla di cerimonieri, si può anche rimanere entusiasti e per qualche istante sognare un mondo in cui tutto cammini come in quella parata. Ma la vita è un’altra cosa ed ognuno esperimenta che se la parata serve agli occhi, il qualunque umile momento della vita stessa postula di poter fare quanto pare e piace sia pure in un onesto margine. La scelta non è dubbia: al refettorio ognuno preferisce la propria sala da pranzo, al dormitorio la propria camera da letto, al campanello il canto del gallo o altro di libera elezione, all’uniforme il proprio vestito. Abitualmente, s’intende! Nessuno ama salutare sempre al segnale d’attacco, marciare in formazione e chiedere come in collegio a qualcuno il permesso di far quello che occorre. Troppe gerarchie, troppi uffici, troppe burocrazie, troppi permessi, troppi ordini fanno un mondo da operetta, in cui si sta bene per qualche ora, dopo di che tutti sbuffano e non ne possono più. L’errore sta nel volere utopisticamente universalizzare quello che è eccellente per un varietà, per l’ora della siesta, per il giorno di vacanza, per la cerimonia delle particolari occasioni, per la fiera dei baracconi. Gli ingenui che commettono quell’errore e sognano ordine su ordine, organizzazione su organizzazione, cataplasmo su cataplasmo, cerotto su cerotto applicato al povero mondo certamente matto ed artritico, sono in numero non disprezzabile. Ma il troppo ordine uccide l’uomo che è libero. Poco dopo muoiono anche i sistemi immortali.

4) L’eccessivo limite. Il « limite » cui alludiamo è quello della legge, e del precetto. Troppo dell’una e dell’altro sono invasione indebita nel campo lasciato alla libera elezione umana, riducono l’autonomia, la persona. Il voler regolare proprio tutto e in tutti i particolari è mania pericolosa, è ossessione frenetica, è solletico di reazioni violente. – La sapienza del legislatore è quella di legiferare il meno possibile, ossia non oltre quello che è veramente richiesto dal bene comune; l’arte di comandare è anche quella di servirsi il meno possibile dell’autorità. Questo non è liberalismo, è solo misura; neppure è debolezza, è solo discrezione. La discrezione nel regime degli uomini è la prima forza, dato che la legge non entra in loro a spintoni e bastonate ma solo per un fatto intellettivo e volitivo, per un fatto di convinzione morale.

5) La superficialità. Con essa non si raggiunge mai il secondo piano delle cose, quello più vero. La caratteristica della persona — l’abbiamo pur visto — è la razionalità. Ufficio dell’intelligenza è entrare nella realtà: « intus legere ». Non rimane dunque quello che deve essere, se non scende in profondità. La superficialità, col decoro dell’intelligenza, toglie il decoro alla persona. La superficialità dei singoli diventa superficialità degli ambienti, dell’opinione pubblica: è una piaga sociale, è l’abdicazione collettiva dei diritti della persona. Allora hanno buon gioco gli avventurieri, i mestatori che fanno poi in sé collezione dei diritti altrui.

6) La banalità. È la consuetudine colle cose volgari, colla maleducazione. Permea lo spirito, il criterio, il modo di parlare. Vi si giunge comodamente per la via della trasandata povertà, per il costume della miseria, per il connaturato senso del bisogno e dell’inferiorità. Insomma avvicina al materiale in tutti i sensi: è parziale morte dello spirito, della sua elevatezza, finezza e dignità. Collo spirito muore la persona. Questa turba che cammina tra un lazzo e l’altro, tra una ostentazione impudica ed un appetito carnale, tra il consueto gesto appropriatore d’egoismo felino ed il viso stemperato e sciolto, forma una visione funebre. Tutta questa gente che, così, chiusa e ristretta nella vita dozzinale più dozzinale ancora pei rivoltanti confronti, non ha più bisogno di bastare a se stessa, ma ha imparato ad essere popolo d’un immenso orfanotrofio (è la gloria dei regimi materialistici qualunque nome portino) e attende sempre da qualcuno la sua misera pappa, e il suo divertimento, il mezzo per dimenticare e non pensare, che mette al mondo figli per avere un sussidio, fa una profonda pietà. È la pietà che si prova ai funerali allorché è morto un padre e rimangono dei figli di nessuno. Ai tempi antichi la politica del « panem et circenses » fece questa folla banale, ai nostri… molti hanno la tentazione di ricominciare.

5 . La drammatica scelta: o persona o cose

Le considerazioni condotte fin qui fanno intendere quanta ragione vi sia nella affermazione del Papa, per cui la persona ed il suo rispetto si trovano al centro delle questioni umane.

I termini della scelta

Tutto ha concorso a delimitare nei contorni l’assoluto e sovrano risalto della persona. In opposizione si fa rimarcare quello che è non persona, le cose, concrete ed astratte, individue e collettive, sostanze ed accidenti, azioni e passioni. Tra queste cose stanno il progresso, l’organizzazione, la macchina, la tecnica, la produzione, il consumo, il commercio, l’industria, e, meglio, l’industrializzazione di un paese. « Cose » tutte che costituiscono un miraggio particolare, elettrizzano, fanatizzano. Ora la persona da una parte, queste « cose » dall’altra, sono i grandi termini della scelta. Il mondo avvenire è chiamato ad eleggere: qui sta la sua più grande crisi, la sua più veemente tentazione, il più fatale pericolo.

Quale dei due termini?

Ma è così grave la scelta? Perché è grave? Forse che la scelta dell’un termine rappresenta la morte dell’altro? Persona e cose sono certamente entrambe necessarie alla vita del mondo. È vero: un termine non esclude l’altro di per sé, anzi il secondo è per il primo. È l’esagerazione mostruosa dell’uno che può uccidere l’altro; è in ragione di questa elefantiasi che la scelta si fa greve ed il pericolo fatale nel suo errore. – Supponiamo tra le « cose » si adori il progresso, l’ideale di una organizzazione industriale super-potente in ordine alle trasformazioni stesse dell’economia e in ordine ad una supremazia, o almeno ad una contesa politica. Supponiamo che a questo ideale cui taluno potrebbe ritenere legato l’età dell’oro, la gloria della patria, la conquista di una egemonia mondiale, si intenda — e a tal punto è logico — sacrificare tutto. Ecco allora i sistemi bestiali per il rendimento dell’uomo, ecco il calcolo delle masse come numeri, ecco l’automatismo, ecco l’oblio della ragion morale, dei diritti della cultura e della umanità, ecco ove occorra il mondo fatto caserma, ecco la ragion suprema d’un progresso senza volto e senza nome travolgere tutto. Che rimane dell’uomo-persona? Nulla. È un mostruoso pleroma in cui tutto si inabissa. A questo punto è chiaro che il secondo termine uccide il primo.

Che significhi uccidere il primo termine

Sacrificare la persona umana è capovolgere il mondo. No, non è l’uomo fatto per le cose, ma le cose sono fatte per l’uomo. Non è l’uomo per l’industria, per la grande industria, per l’esaltazione fanatica del potere politico che uno Stato acquista col dominio della grande industria, ma sono, al contrario, l’industria e lo stato stesso per l’uomo. Non è l’uomo pei fatti superficialmente splendidi come sono i primati, ma sono i primati per l’uomo. Dio ha fatto le cose del mondo per l’uomo, la saggezza umana non può spingere le cose in senso inverso, che a prezzo di diventare pazzia rovinosa. Che sarebbe un mondo pieno di officine superbe ove le macchine imperassero col volto di ferro e l’espressione senza pensiero e senza amore, ma gli uomini fossero ridotti all’alveare, al formicaio, all’arena del mare senza libertà, senza valore, senza cielo e senza terra? Che sarebbe se le grandi ragioni di questo progresso divorassero i figli alle madri e la maternità fosse la fabbrica a sua volta dei figli per le macchine, e queste ancora chiedessero il sangue, la guerra per esplodere verso la produzione o per spazzare a questa qualche barriera? È forse giunto il momento in cui l’uomo deve capitolare innanzi alle « cose » di suo dominio? Non sarebbe forse questa l’ultima nemesi al suo orgoglio? Ma dunque che si deve scegliere? »

La tentazione

La scelta è angustiosa. La guerra iniziatasi il 2 settembre 1939 ha inasprito l’imbarazzo. Gli stati che hanno sacrificato tutto — così ragionano taluni — alla loro industrializzazione, hanno rivelato una potenza meravigliosa e suggestionante, alla quale gli eventi devono fare largo. Chi ha detto così ha concluso troppo presto. Dopo che la Russia fu in grado di inferire dei colpi ben duri al suo grande avversario alcuni ingenuamente pensarono che a questo mondo per esser qualcosa bisogna assolutamente imitare la Russia. Chi ha detto così si è dimenticato per lo meno metà dei dati di fatto. Dopo che la resistenza industriale nella guerra parve indicare una intelaiatura economica superba in Russia, molti si chiesero se per caso nel mondo civile non si fosse sempre sbagliato e solo, invece, tra le steppe si fosse visto giusto. Costoro devono aver dimenticato che cosa sia solo una parte del benessere umano. Costoro se avessero visto un orso ammaestrato ballar per bene avrebbero colla stessa logica potuto concludere esser meglio far l’orso che non l’uomo. Il sogno, il grande sogno di metter a posto questo gregge umano inquadrandolo nel ferro, per correggerne il poco valore col ferro e sentir risuonare ovunque e solo l’immensa opera, dalle immense cifre, questo sogno ha la sua suggestione. Allora si dice: è necessario per ciò collettivizzare? Si collettivizzi. È necessario sottrarre dei diritti, della proprietà, accentrare per raggiungere nella condensata manovra lo sforzo propulsore immenso? Ebbene si sottragga, si elenchi, si accentri. È necessario che l’uomo non pensi, non adori Dio, non abbia un ambiente morale, non sia più puramente padre, puramente figlio…? Ebbene sia automa, sia empio, sia sacrilego, sia adultero, sia bastardo!

La scelta

Dunque che si fa? La verità obbiettiva, la logica indice della gerarchia dei valori, la parola sicura del Papa rispondono: anzitutto salvare la persona; le cose per l’uomo non l’uomo per le cose; le cose assunte e misurate dai bisogni dell’uomo, non l’uomo misurato dalle esigenze delle cose. Insomma, se la troppa industria, il troppo trionfo del progresso materiale chiedessero la testa dell’uomo, tra la persona e l’uomo, non c’è da esitare, si sceglie l’uomo. – Questa è la vera grande scelta del domani. Noi sappiamo che cosa optare. Questa indicata opzione, netta, precisa, evidente nella sua intrinseca ragionevolezza, costituisce un principio fondamentale, assoluto ed inderogabile, una posizione irremovibile dalla quale si ha il coraggio di animosamente difendere fino all’ultimo l’umano equilibrio del domani. La voce del Papa è l’unica che abbia veramente posto il problema e l’abbia risolto. Il criterio formidabile che si leva dalla scelta impedisce di cedere a sogni chimerici, a patteggiamenti con forme politiche il cui dolce belato si sa fare tanto innocente e che invece logicamente sfociano nel mostruoso capovolgimento anti-umano. Lo stesso criterio rende attento a porre nei programmi le — in fondo — ridicole offe che appartengono in sostanza proprio a quanto la coscienza umana e cristiana respinge. È essenziale ridurre i grandi dilemmi alle poche inequivocabili parole, nette, ischeletrite, per evitare i contorni vaghi nei quali finisce tanto l’inutile buona fede degli ingenui, quanto la criminale mala fede dei truffatori.

Anzitutto: salviamo l’uomo.

Ricordiamo che la persona col suo essere creato tale da Dio, colla sua fisionomia e i suoi diritti, coi suoi rapporti e le sue finalità ugualmente segnati da Dio, rappresenta una legge, su cui tutto deve essere misurato, criteriato, magari espunto, coraggiosamente contro ogni immediato interesse e contro ogni rispetto umano; esattamente come ci si deve comportare colle grandi leggi del Decalogo Divino.

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (3)